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Da Malevic a Edward Hopper, Il Trash sublime, Riflessione di Slavoj Zizek, Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Alfonso Cataldi, Lucio Mayoor Tosi, Esercizi serendipici di Gino Rago, Commenti di Jacopo Ricciardi

Locandina San Basile
tweet con versi di Francesco Paolo Intini

   Slavoj Žižek

Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciato è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo son potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevic di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

* S. Žižek, Il Trash sublime, Mimesis minima, (Milano-Udine), 2013 pp. 33-37
** S. Žižek, The Matrix, Mimesis minima, (Milano-Udine), 2010 pp. 28-29

Alfonso Cataldi

Invisibili

Manca il pane fresco sulla linea di porta
la Var ha deciso l’espulsione dei fornai di zona.

Il grano è in ostaggio negli spogliatoi
«Un sacrificio necessario per salvaguardare le coreografie dentro e fuori lo stadio.»

Le coppie di youtuber sorrisetti fissi lei strilloni lui
fatturano l’identità di Giacomo annoiata sul divano.

Cambiano i lavori, cambiano i nerd.
Il coding ha attecchito tra i frutteti dell’entroterra, lungo i terrazzamenti.

La CGIL ha paura dei tornanti stretti che finiscono nel bosco
Il bosco non tradisce e non fa scherzi.

A Bergeggi le meduse intrattenevano i turisti a riva
nelle retrovie gli inservienti su e giù lungo la spiaggia faticavano ad attirare l’attenzione.

(10/08/2022)

Gino Rago

Esercizi serendipici
*
Mostra esistenzialista
John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
*

Fuga da Alcatraz
Il vespasiano in Via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.

*
Gabbia psicologica
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna x un bicchierino di Rum – “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.

*
Gabbia ideologica
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.

*
La colomba di Picasso
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.

*
Consiglio dell’astrologo
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.

*
L’ ospite
Sigillate il futuro in una busta di plastica, lo scolapasta ha litigato con l’appendiabiti Continua a leggere

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L’oggetto in poesia – La debolezza degli oggetti – Poeti a confronto: Tomas Tranströmer, Iosif Brodskij, Francesca Lo Bue, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Raffaele Greco – L’ontologia del declino del soggetto e dell’oggetto a cura di Giorgio Linguaglossa

foto palazzo illuminato

La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente

Giorgio Linguaglossa

A proposito della «noia» e del «vuoto» e dell’«oggetto»

«La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente. La parola tedesca è langweile: un lungo indugio, una piccola sosta protratta lungamente nel tempo. Il tempo che si caratterizza per una ripetizione infinita: non solo la mancanza della novità ma soprattutto la mancanza della speranza stessa che qualcosa di nuovo possa accadere. È l’esperienza del soffocare, che può aprire alla disperazione, questo è ovvio, ma anche al salto, religioso e filosofico. Senza questo senso di soffocare nel vuoto è impensabile anche solo pensare di uscirne. Quando giungi al limite in cui il passato ti sembra niente puoi immaginare un oltre. La noia direi, quindi, ha una duplice faccia: consuma il tempo passato, consuma il presente ma non è detto che si fermi lì, può portare ad una novitas, il tempo si è esaurito ma può esserci dell’altro.
Poi non citerei sempre lo straniero, citerei Leopardi, è un discorso tipicamente e completamente leopardiano, ma direi anche tipicamente italiano, anche del Tasso e di tutta la grande lirica italiana.» (da una intervista a Massimo Cacciari)

La debolezza degli oggetti

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità, assumono una grande carica simbolica. Il «lungo indugio» richiede che il punto di vista della noia si posi sugli «oggetti» per rivelarne  la loro intrinseca debolezza ontologica: l’oggetto diventa «debole», e anche il soggetto diventa «debole». Si va profilando la «ontologia del declino» degli oggetti e del soggetto di cui ci ha parlato Gianni Vattimo. La «debolezza degli oggetti» va di pari passo con la appercezione annoiata del mondo tipica della attuale fase della civiltà del capitalismo finanziario e globale; è la conformazione indebolita degli oggetti quella che appare alla epoché dello sguardo annoiato, ma, appunto, questo sguardo indebolito richiede una sintassi indebolita, e così le giunture razionalizzatrici della sintassi si indeboliscono, la direzione unilineare e unitemporale della sintassi diventa fragile e si disintegra; analogamente avviene con la appercezione dello spazio-tempo: lo spazio tempo, liberato dalla costrizione della sintassi, si moltiplica in una pluralità di spazi e di tempi, e arriviamo alla appercezione indebolita della «nuova poesia», cioè della «nuova ontologia estetica». È un movimento epocale che qui ha luogo, un movimento innervato nella «ontologia del declino» del soggetto e dell’oggetto.

Pensavo in questi giorni leggendo la poesia di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi che la poesia della nuova ontologia estetica dà molto credito alla noia. La noia è una ottima maestra dell’arte poietica; la disarmonia di cui parla Leopardi a proposito della musica (intuizione brillantissima), pone la musica alla stessa stregua della poesia, entrambe sono una interruzione della noia, della noia come rallentamento del tempo e dilatazione dello spazio; la musica questo lo sa da tempo immemorabile e la musica di Rossini e di Paganini ne è un esempio impareggiabile…

In tempi moderni la musica di Giacinto Scelsi mette in opera il principio della noia: gli «oggetti», i «suoni» della musica tradizionale scompaiono, per Scelsi la musica è interna al suono (ascolta Quattro pezzi su una nota sola, per orchestra da camera, del 1959), il musicista che abita davanti al Foro romano distingue la musica dei suoni dalla musica del suono, e la sua ricerca musicale si concentrerà sulla musica che scaturisce da un suono solo, un suono dominante che si può dilatare e temporalizzare all’infinito. Scelsi compone sempre più a rilento, spesso rielaborando opere precedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto.

Analogamente, la noia per la orchestrazione sonora della tradizione poetica, sostanzialmente elegiaca e monocorde, spinge la «nuova poesia» che vuole essere inusitata e dissonante a ricercare nuove soluzioni di conflittualità e di dissonanza, ma tutto ciò all’interno di una tonalità dominante, non più entro il perimetro di un concetto di panlogismo zanzottiano e sanguinetiano che accosta parole-suoni diversi e differenti in un conglomerato unilineare e unitemporale, nella «nuova ontologia estetica» la differenza e la diversità si possono trovare soltanto all’interno di una metafora dominante o una tonalità emotiva dominante.

La «noia» è il vuoto che si apre, che apre spazi e spalanca tempi; soltanto la «noia» ti consente questa esperienza fondamentale… ti fa esperire il tempo e lo spazio attraverso le parole… e le parole vengono ad essere temporalizzate e spazializzate… Il punto e la spaziatura tra i singoli versi e le singole strofe sono balconi che si affacciano sul vuoto della pagina bianca… Il «vuoto», dunque, insieme alla «noia» sono esperienze costitutive della poesia della nuova ontologia estetica; per «vuoto» intendo qui qualcosa di affine alla «noia», qualcosa che consente la traslazione di essa nella pagina bianca, perché è la «noia» che può spalancare la impalcatura del «vuoto», solo la «noia» per la parola panlogistica.

 Due parole sull’oggetto

l’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto; l’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo. La «questità» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, la possibilità del loro essere e la non-possibilità, cioè il loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]

La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in oggi oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.

Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3] –

La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.

1] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 41
2] Ibidem p. 39
2 Ibidem, p. 168

Gif volto bianco con macchia rossa

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità

Francesca Lo Bue

18 maggio 2018 alle 18:40

Una parola e una poesia sull’oggetto “lampada”.
Nel nominare gli oggetti la loro “specifica ” oggettualità, o precisione è già implicita la loro vaghezza, perché comporta la “condanna del linguaggio”: il suo essere scarso, limitato, approssimativo. Ma pure paradossalmente, nominare gli oggetti è aprire con una “chiave” la infinita possibilità di dire, nominare in un altro modo. Come una lampada che gettando luce su gli oggetti li chiama alla visibilità, alla loro presenza ed uso.
La poesia è questo oggetto “lampada” che è capace di potenziare la nominazione, quindi arricchire la esistenza materiale e spirituale del mondo.

Cercare

Come fossi lo spirito della lampada
cerco il luogo del Nome e della cima innevata,
cerco nel gioco delle mani la scrittura fatale del tuo destino.

Visione..
Barbaglii di brace in desolato suono.
Mano che afferri
oltre pareti di ferro,
scarlatto che ammicchi una chiave di silenzio e presagio.

Buscar

Como si fuera el espíritu de la lámpara
busco el lugar del Nombre en la cima nevada,
busco en el juego de las manos la escritura fatal
de tu destino.

Visión,
destello que abrasa en desolado sonido.
Mano que aferras
más allá de las paredes de hierro.
guiñas una llave de silencio y presagio.

Lucio Mayoor Tosi

18 maggio 2018 alle 18.02

La maniglia argentata
di una vecchia macchina da scrivere.
Questo lento a capo.

Foto Man Ray Linda Lee

Man Ray, Lee Miller

Giorgio Linguaglossa

19 maggio alle 19.28 alle 18.02

Due poeti a confronto: Tomas Tranströmer e Iosif Brodskij – L’uso degli «oggetti» Continua a leggere

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Edoardo Maspero Nero catrame (Gremese editore, 2016), romanzo, La generazione tumblir dei ventenni di oggi – Estratti del romanzo e Sinossi

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la generazione I-pod

Edoardo Maspero ha 22 anni e studia linguaggi dei Media all’università Cattolica del Sacro cuore di Milano.

Un ritratto brutale e vero della realtà giovanile contemporanea, noiosa e annoiata da un nichilismo perverso e distruttivo alimentato da alcol e droghe varie. L’opera di Edoardo Maspero fotografa senza ipocrisie la decadenza interminata d’una generazione eternamente rinchiusa nelle gabbie dell’adolescenza.

(Roberta Barone – 12 ottobre 2016)

La generazione tumblir dei ventenni di oggi, il buco nero di instagram, twitter, FB, I like, gif, emoj, il successo, la ricchezza, il vuoto

Sinossi
Nero catrame è il racconto di una generazione ossessionata dall’apparenza. Un’ apparenza plasmata dall’approvazione dell’altro, unica garante della costruzione del Sé. La storia di Adam, il diciannovenne protagonista del romanzo, si delinea tra serate, soldi, prostituzione minorile e ostentazione necessaria del proprio benessere quale status symbol del successo. Adam è intrappolato in un mondo del quale non si sente parte, ma dal quale gli sembra impossibile uscire. Un mondo scandito dalla noia, dal pettegolezzo, dalla televisione quale unico sbocco salvifico per i ragazzi, e dall’invidia reciproca quale unico punto di contatto tra i suoi coetanei. L’idea fasulla che i ragazzi protagonisti del romanzo devono dare di loro stessi, la necessità di apparire, il vizio, il lusso, l’arrivismo a qualunque costo sono la cornice che colora il grido disperato quanto silenzioso del protagonista, immerso nel perimetro di un microcosmo dal quale non riesce ad allontanarsi. Il libro di una parte di generazione che è quel che è, inglobata dall’ammirazione cieca per modelle anoressiche, per la moda che è moda e mai gusto, e per la chiacchiera superficiale degli acquisti fatti dal rapper di turno.
Cocaina che corrode le radici, la storia di Instagram da mille visualizzazioni che desta sollievo, bullismo virtuale e non.
Più che un libro generazionale è un libro sul desiderio di scomparire, come succede ad Adam, che è sereno solo quando chiude gli occhi e si rifugia in un passato che non c’è più e che teme di dimenticare, in cui suo nonno gli insegnava ad andare in bicicletta o il suo migliore amico gli parlava in un parchetto baciato dal bagliore lunare.
Adam chiude gli occhi perché come Said alla fine di “La Haine”, di fronte ad un mondo che viene naturale aberrare e che non si può cambiare, tra i rigogli di una falsità partecipativa al carattere, non si può far altro che rifugiarsi nel buio e ripetersi “Io non sono qui. Io non sono qui”.

Roma ma quale futuro

1

Tanti piccoli occhi che brillano nell’oscurità.
È questa la prima immagine che mi viene in mente guardando fuori dal finestrino dell’aereo. Tanti piccoli occhi che brillano nell’oscurità. Ti guardano come se ti conoscessero; come se sapessero ogni segreto del tuo passato, presente e futuro. Scrutano lentamente ogni parete della tua anima fino a ricercarne la più acuta e sincera debolezza, e una volta scovatala sembra che questa emerga dall’intestino fino a strozzartisi in gola, come un urlo disperato che nessuno ascolterà mai.
Questi piccoli occhi mi guardano perché sanno che sto tornando da loro, nonostante mi fossi promesso di non tornarci mai più.
Sanno che non posso più scappare da loro.
Il signore seduto alla mia destra sta leggendo un giornale, del quale intravedo la pagina di sinistra.
È una pagina pubblicitaria di un libro. Leggo il titolo: “ IL CASO GIULIA MANDOLFINI: VERITA’ E ORRORE NASCOSTO’’.
Giulia Mandolfini era una ragazza che è stata prima violentata e poi assassinata.
Questo lo so perché mentre ero via ogni tanto compravo qualche giornale italiano e c’erano sempre un paio di articoli su questa ragazza.
Ora ne hanno pubblicato un libro.
Il signore alla mia destra ferma una hostess e le chiede una sprite.
Verità e orrore.
Le parole del libro mi rimangono impresse nella testa, quasi me le avessero innestate nel cervello e tatuate sulla pelle.
Ora i piccoli occhi sembra che stiano parlando. Immobili nell’oscurità continuano a ripetere : “Verità e orrore, verità e orrore, verità e orrore’’.
Lo gridano squarciando la notte.
La hostess torna con la sprite e il signore la ringrazia, poi si sistema gli occhiali, gira la pagina del giornale e continua a leggere.
Il capitano annuncia che fra dieci minuti atterreremo a Milano Malpensa.
Le hostess ci fanno segno di allacciare le cinture.
Io me le allaccio e penso a come sarà tornare a casa, come sarà rivedere Arianna, la mia amica che mi deve venir a prendere all’aeroporto, e come sarà rincontrare tutti gli altri.
Continuo a pensare alle parole Verità e orrore.
Mi accorgo che la manovra di atterraggio sta per iniziare. Guardo per l’ultima volta fuori dal finestrino e poi… chiudo gli occhi.

Roma giovani

Quando vedo Arianna mi abbraccia. Mi dice che le sono mancato e incomincia a chiedermi com’è andato il viaggio.
Le dico che è andato tutto bene, e sorrido.
Indossa una canottiera dalla quale le si scorge il top e un paio di jeans attillati, ai piedi porta un paio di All Star nere basse, con delle piccole borchie ai lati.
La trovo uguale a quando l’avevo salutata sei mesi fa.
Gli occhi marroni sono uguali a sempre, ma non so perché non mi siano mai mancati. I capelli le cadono lisci sulle spalle, con quel colore castano chiaro che sembra danzare nell’aria.
Mi prende per mano e mi bacia la guancia, abbracciandomi di nuovo.
Sento il suo corpo contro il mio e avverto una sorta di peso sinistro addosso, ma non le dico niente.
Ripete che le sono mancato, e io sono costretto a risponderle: “Anche tu’’.
-Mi dovrai, cioè…ci dovrai raccontare un sacco di cose immagino!-dice.
-Nemmeno cosi tante…-rispondo.
-Non si hanno avute più tue notizie, perché non hai messo foto del viaggio su Facebook?-chiede, sorridendo perplessa.
-Boh…cosi-rispondo, scrollando le spalle.
-Ma Adam, cosi nessuno saprà che sei andato via!-ribatte lei, scuotendo la testa.
Scrollo di nuovo le spalle e non rispondo.
Mi tiene ancora per mano, e io continuo a camminare seguendola.
-Gli altri non vedono l’ora di rivederti- mi sussurra.
Le rispondo che anche io voglio vederli, chiedendomi se stia dicendo la verità o no.
Fuori dall’aereoporto una lunga scia di taxi. Le loro insegne illuminate trafiggono l’oscurità della notte. Davanti a noi un signore sulla cinquantina, a fianco di una donna decisamente più giovane di lui dall’ accento sud- americano che indossa un vestitino verde, gambe lunghe. Due taxisti, al suo passaggio, si scambiano un’occhiata furtiva e una risata.
-Bene, bene, abbiamo parlato molto di te! –riprende Arianna.
-Mi fa piacere-rispondo, sapendo che sta mentendo.
-E poi, insomma, sei stato via tanto, non ti è proprio mancato niente?
-Qualche cosa.
Usciamo dal parcheggio dell’ aeroporto e lei apre la macchina. Audi Q5 Bianca.
-Salta su- dice, spalancando la portiera.
Metto le mie valigie nel bagagliaio ed entro, sedendomi davanti, vicino a lei.
-Sai Adam- dice, accendendo la macchina- Ti trovo un po’ freddo…
-No, è solo il fuso orario.- rispondo.
Lei non replica, si sistema i capelli e partiamo.
E per tutto il viaggio, in attesa di imboccare la strada per tornare nel centro di Milano, Arianna continua a parlare e io annuisco ripetutamente ; a volte cerco di fingermi sorpreso e lei riesce anche a credere a qualche mia falsa quanto improvvisata risata.
Poi mentre mi accendo una sigaretta guardo fuori dal finestrino e penso che su una cosa abbia ragione: mi sento freddo.
Alla radio passano “come as you are’’ dei Nirvana.

Ascolto le parole:

Take your time, hurry up
The choice is yours, don’t be late.
Take a rest, as a friend, as an old memoria Continua a leggere

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Edith de Hody Dzieduszycka DUE POESIE EDITE da “Nella notte un treno” (2009) E CINQUE POESIE INEDITE  con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

fotogramma di un film di Antonioni

fotogramma di un film di Antonioni

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata “Ombres” (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Nel 2016 pubblica il romanzo Intrecci, con Genesi, La parola alle parole e, nel 2018 Squarci, con Progetto Cultura, Roma.

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Direi che anche noi in Italia abbiamo poetesse di tutto rispetto che si rifanno alla linea europea del minimalismo metafisico o del minimalismo esistenziale, e precisamente: Anna Ventura e Edith Dzieduszycka. Il perché è presto detto: c’è bisogno oggi di questa poesia, c’è bisogno di parlare al lettore delle condizioni di instabilità e di incertezza della esistenza nel mondo moderno in modo diretto e colloquiale, senza mettere a disagio il lettore di fronte a chissà quali metafisiche del cuore o a posticci soprassalti di angoscia. La Dzieduszycka, come del resto la Szymborska, la capostipite di questo nuovo indirizzo della più alta poesia femminile, tratta appunto questa materia, interroga il «Vuoto», il «silenzio», le «pagine bianche», «uno spazio di niente», un «treno» che srotola «i suoi vagoni». Che cosa accade in questo tipo di poesia? Nulla, non accade nulla di particolarmente significativo, ed appunto questo è significativo. «E poi / all’improvviso», succede qualcosa che non avevamo previsto né immaginato, «da carrozze sventrate» «dilagano» «parole». È questa l’epifania laica del nostro tempo prosaico. È questo l’evento. La poesia della Dzieduszycka narra instancabilmente questo evento, lo narra e lo rinarra in modo quasi ossessivo alla ricerca di una chiave, di un significato. Che sta là, o almeno sembra che stia lì, sotto il tappeto, o sotto la scrivania, o appoggiato sul davanzale della finestra, basta afferrarlo. E invece quello sfugge, si sottrae. E l’indagine prosegue, non può che proseguire la ricerca e afferrare finalmente quell’oggetto, quel significato che ci sfugge, che si sottrae misteriosamente. Ed appunto questo, credo, è il significato profondo della poesia di Edith Dzieduszycka: la scomparsa del significato dall’esistenza, la sottrazione della soglia dove quel significato un tempo lontano stabilmente dimorava. Forse, in un altro tempo, in un’altra civiltà c’era ancora «la retta via», « un percorso esatto / una strada precisa / chiaramente tracciata / davanti ai nostri passi», oggi al poeta del nostro tempo non è dato altro che «vuote vie polverose», «ignoti paesaggi sprovvisti di cornice».

edith dzieduszycka

edith dzieduszycka

da Nella notte un treno (Dans la nuit un train) Edizione bilingue, Il Salice, Locarno, 2009

Vuoto
silenzio
pagine bianche
uno spazio di niente
tranquillo furtivo treno
srotolando i suoi vagoni
immagini sfocate
suoni impercettibili
emergenti
qua e là.
E poi
all’improvviso
nell’afa d’una sera d’estate
si schiude la ferita
dilagano
pressanti
da carrozze sventrate
invadono la scena
parole accumulate
corteo d’immagini
nel tempo seppellite.

*

Un foglio di carta
una penna
nient’altro
o quasi
scarabocchi abbozzati
segni allineati
sottratti al sonno
ai sogni strappati
evaporati all’alba.
Lasciati liberi
nel cuore della notte
tornano a celarsi
facendo perdere
fugaci fuochi fatui
loro deboli tracce.

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Inediti

Se per caso
ci fosse
retta una via
un percorso esatto
una strada precisa
chiaramente tracciata
davanti ai nostri passi
sulla sabbia
l’asfalto
anche sull’acqua
se fosse lineare
decisa
evidente
sarebbe molto semplice
sarebbe troppo bello
soprattutto sarebbe
una noia.
*

Nella vita che fa?

Ma che domanda è questa?
Ma come si permette
di entrare così
con le sue scarpe grosse
dentro il mio privato?

Io a Lei non l’ho chiesto
mi sono ben guardata
d’indagare e frugare
in fondo al Suo bagaglio

Chi sa cosa sarebbe
venuto allo scoperto?
Mi vengono i brividi
a soltanto pensarci

Ognun ha le sue case
di ombre e di mistero
le cose più preziose
ed insieme sfuggenti
che si possa serbare

Lo so io “Che faccio”?

Rispondo “No di certo
giacché tutto un groviglio
si contorce all’interno
di cui nemmeno io
sospetto la risposta.
*

Che cosa verrà fuori
dalla mente assopita sul ciglio del letargo
laddove s’aggrovigliano
come nastri azzuffati da un gatto molesto

vuote vie polverose
solchi sterminati a perdita di sguardo
laddove fitta stagna una nebbia fumosa
che serpeggia e s’infiltra al di là del pensiero?

Cosa macinerà nel tremore
del sogno sull’uscio cigolante
d’un viaggio senza mèta
la coscienza incosciente?

Ignoti paesaggi sprovvisti di cornice
lande a strapiombo sopra rude scogliere
cieli vaganti e plumbei trafitti
da bagliori e nembi fuggitivi?

Cosa riporterà col risveglio
dell’alba l’ondosa mente
di quel mondo leggero
dentro il quale affonda con palpebre

di piombo e riemerge greve
di luoghi inaccessibili
indistinti sussurri bisbigliando segreti
ombre senza nomi dalle vesti stracciate?
*

Arriva sì
arriva
con l’alba incrinata
sfregiata porcellana
dalla viscida lingua
d’una nebbia in agguato
che lecca indiscreta
il davanzale grigio

Arriva sì
arriva
dapprima timido
presto incredulo
lo smarrimento

E poi scatta la rabbia
che brucia la ferita
dello star desta

da sola
nella penombra ostile

del non capire mai
cosa ci faccio

a guardare il cielo
fuori dalla finestra
mentre sbatte nervosa
alle persiane blu
l’ala dell’albero
lì piantato anche lui
a guardia di chi sa cosa.
*
Non avrò conosciuto
come Santa Teresa
estasi mistiche
né orgasmi di marmo
dagli occhi riversi

Non avrò d’Arco
Giovanna novella
in lontananza
percepito le voci
giungendo dalle nuvole

Più dubbi che certezze
finora nel bagaglio
che dietro mi trascino
roveti spine fiori
in uguale misura

e l’orizzonte spento
ad un’incerta ora
come la tenda rossa
che richiude il palco
alla fine dell’opera.

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