Archivi del mese: novembre 2014

 PROGETTO MITOMODERNISTA di TOMASO KEMENY – tutti insieme nel treno “la Freccia della Poesia”che percorrerà lo Stivale il giorno 6 dicembre 2014

Botticelli Le Grazie

Botticelli Le Grazie

Tomaso Kemeny e la direzione artistica del grand tour poetico lanciano la Parola d’ordine

Fight For Beauty!

PRIMA AZIONE MITOMODERNISTA DEL GRAND TOUR POETICO

6 dicembre 2014

La Freccia della Poesia è un treno che percorrerà lo stivale il giorno 6 dicembre 2014 portando la poesia come un dono natalizio nei non luoghi: le stazioni ferroviarie.
Si fermerà in ogni stazione prevista dalle soste (Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano) per leggere e suonare, per la durata di circa un’ora, fra i viaggiatori.

Gli autori partiranno da Napoli la mattina del 6 dicembre alle ore 9,10 per raggiungere gli autori romani con i quali si dirigeranno prima a Firenze, poi a Bologna e infine a Milano.
nella stessa serata a Milano verranno illustrati il grand tour poetico e l’alleanza con il progetto mitomodernista di Tomaso Kemeny.

le soste previste sono:

Napoli partenza ore 9,10 arrivo a Roma 10,10
Roma partenza ore 11,20 arrivo a Firenze 12,51
Firenze partenza ore 14,30
arrivo a Bologna 15,35
Bologna partenza ore 16,38
arrivo a Milano 17,40.

In ogni stazione si prevede l’accorparsi al gruppo degli autori che partiranno dalle stazioni successive.

Venere particolare Botticelli

Venere particolare Botticelli

Sono aperte le iscrizioni alla prima azione mitomodernista: inviare una e-mail di adesione al grandtourpoetico@gmail.com specificando: nome cognome, da quale stazione si intende partire e recapiti.

Ogni autore dovrà travestirsi poeticamente e selezionare alcuni testi di poeti della tradizione e tre testi propri da leggere nelle stazioni. i musicisti faranno libere esibizioni.

Ogni partecipante porterà con sé alcuni testi poetici suoi o della tradizione da offrire ai viaggiatori in dono, con l’intestazione:
un dono dritto al cuore: Freccia della Poesia 6 dicembre 2014, Fight for Beauty!

L’azione mitomodernista – Freccia della Poesia si concluderà nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, luogo reso leggendario dalla “rissa in galleria” di Umberto Boccioni (1910, opera ora custodita nella pinacoteca Brera), raffigurazione pittorica che evoca un’azione futurista in galleria, futurismo che alzò quel vento nuovo nel mondo che finì per bruscamente interrompere il sonno dei poeti e degli artisti scatenando la loro creatività. L’azione mitomodernista – Freccia della Poesia, più modestamente, guiderà la locomotiva della poesia verso la magnificenza di un futuro tutto da costruire.

Nascita di Venere di Botticelli, particolari

Nascita di Venere di Botticelli, particolari

Tomaso Kemeny

Arruolati nelle forze armate della Poesia e della Bellezza
contro l’Impero del Brutto.

Fratelli nella arti e in poesia,
prigionieri di un’epoca sporca,
la Freccia della Poesia
vi spalancherà le prime porte della rivolta
contro la miseria imposta
dalla schiavitù vigente nell’Impero del Brutto:
Fight for Beauty!
Il tragitto verso i miraggi della Bellezza
vi immergerà nello splendore di un temporale
da cui potrà nascere la prospettiva di un futuro
liberato dalle catene programmate dalle
burocrazie necrofile del Brutto!
Combatti per la Bellezza!
Sali sulla Freccia della Poesia
per non scendere più a spregevoli
cedimenti al Brutto!
Fight for Beauty!

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TRE POESIE EROTICHE INEDITE di Marco Onofrio “trittico del desiderio spinto”

bello immagine in bianco e nero Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in centinaia di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto decine di prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

Marlene Dietricht

Marlene Dietricht

*

Vieni, bella, ascolta insieme a me
il suono inesorabile del tempo:
senti come batte ad ogni tocco
la morte, dentro l’orologio?
E allora, che aspettiamo ancora
a goderci la fuggitiva ora?
Non vedi come tutto va in rovina?
Lasciati andare all’indistinto:
lì c’è la vita che t’invita
con la forza della verità.
Scorda le sciocchezze che hai imparato,
sono opera del diavolo che incensa
quelle mute sottintese convenzioni:
ci precludono la gioia sacrosanta
di essere davvero quel che siamo.
Credi a me, la vita è solo una
e ogni attimo che passa
è per sempre andato e non ritorna.
Su, non aver paura…
Io lo so che in fondo tu lo sai:
noi tendiamo allo stesso fine
mossi da un comune desiderio.
Togliti le maschere dal volto,
spezza le catene del pudore
e liberati, così come sei –
io ti prendo tutta
senza riserve
senza falsi veli.
A che serve portare le mutande
se non per farsele sfilare?
Vieni giù, rotoliamoci per terra.
Senti come odora, com’è buona!
La terra ci appartiene
fino a quando noi le apparteniamo:
mangiamone insieme
se il tempo ci concede l’occasione
prima che poi essa mangi noi
con il pane nero del silenzio.
Via, buttiamo le menzogne degli umani
che ci legano e ci stringono a morire:
arriviamo fino in fondo, giù, all’essenza
a sfiorare quello che noi siamo.
L’amore è divino e originale,
per questo si fa nudi!
Ora i nostri fuochi bruciano,
come lingue svelte e sensitive
che bramano annodarsi
in una sola.
Apri le tue porte al Paradiso!
Non smettere con gli occhi
il tuo sorriso! Amami,
amami sempre. Eccoti.
Dio, quanta carne sei…
liscia, morbida, odorosa
calda di freschezza che riposa
fresca di tepore che conforta
liquida e umorale…

 marlene dietricht

marlene dietricht

Ah, le tue tette buone profumate
con le areole corrugate a punte
come turgide prugnette color vino
che dirompono dal guscio autoreggente…
Che bello il reggiseno a balconcino!
E la linea del tuo collo da annusare
prima di leccarlo, e mordicchiarlo piano
per farlo abbrividire di passione!
E il miele del tuo magico ombelico
che sembra un succulento tortellino!
Ah, le tue cosce lucide, le caviglie
di cerbiatta e i piedi nudi:
che sublime vista!
Le tue ginocchia arrotondate,
dolci pomi sodi e gigli tosti
e la tua bocca rossa a polpa viva
che esiste per accogliere la mia!
Ah, sei diventata languida e animale
nel tuo respiro caldo e già turbato:
sei un luogo immacolato da violare,
voglio segnarti tutta del mio nome:
sono il padrone della tua saliva!
Sono entrato dentro il bosco del tuo odore
e mi son perso
nell’universo folto del mistero.
Donami la chiave del tuo mondo
schiudimi la luce del tuo giorno
il sole strepitoso del tuo sguardo
e il distillato puro
la viva quintessenza, la poesia!
Ti voglio inondare di me:
sarà l’abbraccio della pioggia con la terra
che ti ristora il cuore a nuova vita.
Senti l’oceano che mi romba dentro
gonfio di nuvole e di onde?…
Ti ricoprirò.

bello nudo in città

 

 

 

 

 

 

*

Sogno. Di godere la dolcezza
alla tua pelle, tutta quanta,
col tepore fresco della carne.
Di essere l’interno del tuo corpo.
Di aderirti dentro, intimamente
come la mano un guanto da indossare.
Di vibrare insieme alla tua luce
attraverso bocche e lingue aggrovigliate
mescolando brividi e sapori.
Di toccare la tua anima profonda
attraverso la seconda bocca tua
bagnata, offerta la cedevole natura
con la seconda lingua in immersione
che sulla punta ha un occhio esploratore
e prova grande il gusto del piacere
antico che rinnova, ma non dura.

Untitled, Undated

 

 

 

 

 

 

 

 

*

Ah, miracolo di carne da godere!
Enigma di languido abbandono.
Dedalo fantastico di sensi.

Ho deciso e giuro, veramente:
oggi voglio nascere alla vita,
respirando sui tuoi pomi color luna
l’odore che tu hai meraviglioso.
Tu non sei una qualunque. Tu sei tu.
Voglio scaldarmi sul giaciglio del tuo cuore
come la belva che riposa sulla preda
conquistata e vinta, qualche attimo
prima di mangiarla. Non aver paura.
Sento come ti palpita e si muove
al centro delle cosce levigate
pronte, ora, a schiudere su me
il caldo del tuo liquido animale.
Che profumo il miele dentro la fessura
dove cuoci il pane della vita:
e il dolce companatico sei tu!

 

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POESIE EROTICHE di Joyce Mansour (1928 – 1986), alcune poesie da “Déchirures” (1955) scelte da Flavio Almerighi

helmut newton Marilyn Monroe

helmut newton Marilyn Monroe

joyce mansur

joyce mansur

Joyce Mansour (1928 – 1986) è stata una poetessa inglese di nascita, ma francese d’adozione. La sua passione ardente è un urlo dei propri desideri fatti versi: versi carnali che la fanno fiorire di lussuria, parafrasando il titolo di una delle sue raccolte in formato plaquette ‘Fiorita come la lussuria’. Il suo grido, rivendica tutta la sua indignazione nei confronti degli amori disattesi, di coloro che l’hanno ferita “Degli uomini che non hanno voluto saperne di me” mentre lei, diveniva “vittima” sacrificale donando tutta se stessa, sentendosi svuotare nell’anima: “Che ti tenga in piedi cieco e devoto/ Guardando dall’alto il mio corpo spiumato”. Tutti gli uomini che l’hanno concupita e il loro non aver compreso la sua esigenza di donna-amante nel momento dell’apoteosi dell’eros più pieno, sacrale: “Voglio mostrami nuda ai tuoi occhi melodiosi. / Voglio che tu mi veda mentre urlo di piacere”, e dar loro la giusta soddisfazione di donna-amante fatta di corpo ed anima, creatura dai profondi occhi di velluto nero, e volto incorniciato da folti capelli bruni.

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

La sua poetica, avendo vissuto molto tempo in Egitto, al seguito del suo secondo marito Samir Mansour, è pregna di essenze orientali e di lemmi che caratterizzano l’architettura di alcuni versi:“E tu farai di me il tuo letto e il tuo pane/La tua Gerusalemme”.

Negli anni parigini importante, per la sua formazione poetica, fu l’incontro con Breton e il movimento surrealista.

Ma Joyce è donna generosa, che sa dispensare amore, incondizionatamente, è nella sua natura, il suo bruciare di passione nei confronti dell’uomo-amante, laddove amori visionari e morte evocano presagi surreali: “Vuoi il mio ventre per nutrirti / vuoi i miei capelli per sfamarti”, sino al sacrificio estremo: ”Vuoi che muoia lentamente  /che mormori morendo parole infantili”, per compiacere l’amato.

Mi piacciono le calze che rassodano le tue gambe.
Mi piace il busto che sostiene il tuo corpo tremante
le tue rughe i tuoi seni ballonzolanti la tua aria affamata
la tua vecchiaia contro il mio corpo teso
la tua vergogna davanti ai miei occhi che sanno tutto
I tuoi vestiti che odorano del tuo corpo marcio.
Tutto questo alla fine mi vendica.
Degli uomini che non hanno voluto saperne di me
Vuoi il mio ventre per nutrirti
vuoi i miei capelli per sfamarti
vuoi le mie reni i miei seni la mia testa rasata
vuoi che muoia lentamente lentamente
che mormori morendo parole infantili.

(…) Voglio mostrami nuda ai tuoi occhi melodiosi.
Voglio che tu mi veda mentre urlo di piacere.
Che le mie membra piegate sotto un carico troppo pesante
ti spingano a gesti blasfemi.
Con i capelli lisci della mi testa offerta
rimangano sospesi alle tue unghie ricurve di furore.
Che ti tenga in piedi cieco e devoto
Guardando dall’alto il mio corpo spiumato.
Ti piace dormire nel nostro letto disfatto
non ti disgustano i nostri antichi sudori
le lenzuola sporche di sogni dimenticati
le nostre grida che risuonano nella camera buia
tutto questo esalta il tuo corpo affamato
la tua brutta faccia alla fine s’illumina
perché i nostri desideri di ieri sono i tuoi sogni di domani

da Grida, (1953), traduzione di Mauro Conti

helmut newton in mostra a Roma, particolare

helmut newton in mostra a Roma, particolare

Invitami a trascorrere la notte nella tua bocca
raccontami la giovinezza dei fiumi
premi la mia lingua contro il tuo occhio di vetro
dammi a balia la tua gamba
e poi dormiamo, fratello mio,
perché i nostri baci muoiono più veloci della notte. (…)

da Fiorita di lussuria, (1955), traduzione di Carmine Mangone

Nuoterò verso te
Attraverso lo spazio profondo
Sconfinato
Acida come un bocciolo di rosa
Ti troverò uomo senza freno
Magro sommerso dal fango
Santo dell’ultima ora
E tu farai di me il tuo letto e il tuo pane
La tua Gerusalemme

da Rapaces, traduzione di trad. Rita R. Florit

 

helmut newton Jerry Hall

helmut newton Jerry Hall

 

*
Invitatemi a trascorrere la notte nella vostra bocca
Raccontatemi la giovinezza dei fiumi
Premete la mia lingua contro il vostro occhio di vetro
Datemi a balia la vostra gamba
E poi dormiamo, fratello di mio fratello,
ché i nostri baci muoiono più veloci della notte.
*
C’è del sangue sul giallo d’uovo
C’è dell’acqua sulla piaga della luna
C’è dello sperma sul pistillo della rosa
C’è un dio che in chiesa
Canta e s’annoia.

helmut newman Winnie-al-largo-della-costa-di-Cannes 1975

helmut newman Winnie-al-largo-della-costa-di-Cannes 1975

Ho spiegato al gatto tigrato
Le ragioni delle stagioni e le regole del gufo
I tradimenti degli amici, l’amore dei gobbi,
E il parto della piovra dai tentacoli palpitanti
Che striscia nel mio letto e non ama le carezze.
Il gatto tigrato ha ascoltato senza rispondere né battere ciglio
E quando son partita
Il suo dorso striato
Rideva.
*
Non ci sono parole
Soltanto peli
Nel mondo senza fogliame
Dove i miei seni regnano.
Non ci sono gesti
Soltanto la mia pelle
E le formiche che brulicano tra le mie gambe untuose
Portano le maschere del silenzio lavorando.
Piomba la notte la tua estasi
E il mio corpo profondo questo polipo spensierato
Ingoia il tuo sesso agitato
Durante la sua nascita.

Joyce Mansour Les « prières d'amour »

Joyce Mansour Les « prières d’amour »

*
Un nido di viscere
Sull’albero secco che è il tuo sesso
Un cipresso nero piantato nell’eternità
Fa la veglia ai morti che nutrono le sue radici
Due ladroni crocifissi su costolette d’agnello
Se la ridono del terzo che, a missione compiuta,
Mangia la sua croce di carne
Arrostita.
*
Ho visto salire i peli fulvi ed elettrici
Del mio ventre verso la mia gola spiumata d’uccello
E ho riso.
Ho visto vomitare l’umanità nel catino instabile della chiesa
E non ho compreso il mio cuore.
Ho visto il cammello in camicia partire senza lacrime per La Mecca
Con i mille e un venditore di sabbia e il mostro squamato delle folle nere
Ma non ho potuto seguirlo
Perché la pigrizia ha vinto la sua corsa contro il fervore
E l’abitudine ha ripreso la sua danza col piede
Slogato.
*
Io sono la notte
Questa notte di spazio raggelato dalla fredda imbecillità della luna.
Io sono il denaro
Il denaro che fa il denaro senza sapere perché.
Io sono l’uomo
L’uomo che preme il grilletto e spara all’emozione
Per vivere meglio.

joyce mansour

joyce mansour

*
Ogni mattina un’aquila accaldata
Viene ad affilare il becco
Sulla mia pelle brufolosa
Da rabbino.
Tutte le campane suonano a morte
Quando l’aquila s’addormenta
Senza offrire del cibo ai poveri e ai cani
Che mendicano senza posa alle porte della felicità
E che l’adorano.
Tutti gli uomini ascoltano il mio piede destro che proclama
Le regole del gioco d’azzardo della morte
Che l’uomo gioca con l’aquila
Contro Dio.
*
Il nero mi circonda
Salvatemi
Gli occhi aperti sulla vuota disperazione degli orizzonti marittimi
Mi scoppiano in testa
Salvatemi
I pipistrelli dai corpi ammuffiti
Che vivono nei cervelli torturati dei monaci
S’attaccano alla mia lingua cremosa
La mia lingua gialla di donna accorta.
Salvatemi, voi che sapete
E i vostri giorni saranno moltiplicati
Malgrado i peccati che non vi hanno perdonato
Malgrado lo spessore delle notti nelle vostre bocche
Malgrado i vostri bambini iniziati al male
Malgrado i vostri letti.

joyce mansour

joyce mansour

 

 

 

 

 

 

*
Corpicino deforme
Nel suo buco senza luci.
Testolina liscia
Senza occhi né sorriso
Questa l’infanzia.
Ossicini privi di volontà
Presto spezzati da dita sommarie
Cavia fragile, dolce e condannata,
Figlio non figlio di una madre senza amanti
Condannato ad essere solo, condannato alla scienza.
*

La mia risata vola alta
Più in alto dei cappelli cardinalizi
E della speranza.
I miei seni sorridono quando brilla il sole
Malgrado i miei abiti malgrado mio marito
Felice nell’essere così sporca
Perché gli avvoltoi mi amano
E anche Dio.

Joyce Mansour Cette jeune femme à la très étrange beauté sombre et exotique, fraîchement débarquée à Paris, aux cheveux de jais volontairement coiffée à l’égyptienne pour étonner

Joyce Mansour Cette jeune femme à la très étrange beauté sombre et exotique, fraîchement débarquée à Paris, aux cheveux de jais volontairement coiffée à l’égyptienne pour étonner

*
Era ieri.
Il primo poeta urinava il proprio amore
Il suo sesso a lutto cantava rumorosamente
Le canzoni rauche
Delle montagne
Il primo dio in piedi sul suo nimbo
Annunciava la propria venuta sulla terra svanita
Era domani.
Ma gli uomini dalla testa di gatto
Mangiavano gli occhi confusi
Senza notare le chiese che bruciavano
Senza salvarsi l’anima che fuggiva
Senza salutare gli dèi che morivano
Era la guerra.

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TRE POESIE EROTICHE INEDITE di Antonio   Sagredo “Nodosostomìa” con un commento di Giorgio Linguaglossa

Antonio Sagredo. Dicono che sia nato nel Salento decine di anni fa… a pochi chilometri da Giulio Cesare Vanini (a cui ha dedicato un poema mirabile), da Carmelo Bene e Eugenio Barba; il primo lo frequentò con discrezione somma, e gli dedicò versi immortali. Fu frequentatore assiduo di quei teatri d’avanguardia romani e non, di cui conobbe autori e attori; recitò in due spettacoli teatrali: nei drammi lirici del poeta russo Aleksandr Blok e in uno spettacolo del poeta praghese Vitězslav Nezval, che inneggiava ai progressi della scienza della comunicazione. Sagredo studiò e visse a Praga calpestando gli acciottolati insieme ai poeti praghesi e a Keplero. I suoi primi componimenti, a 14 anni, in un vagone di terza classe (seppe tempo dopo che Pasternak e Machado viaggiavano nella stessa classe, componendo); distrusse i primi versi, i secondi e seguirono altre rovine; trovò un impiego di ripiego per nascondersi; poi raggiunse una forma inclassificabile tendente al sublime che gli permette di vivere di eredità auto-postuma. Un amico poeta spagnolo, M. Martinez Forega, lo spinse a pubblicare due piccole raccolte di poesia a Zaragoza: Tortugas (Lola edito-rial, 1992) e Poemas (Lola editorial Zaragoza, 2001); sulle riviste: Malvis (n. 1) e Turia (n. 17). Poi nulla più, fino a che da New York, la scorsa estate, gli giunge una proposta di pubblicazione con Chelsea Editions, ed esce nel 2015 una sua Antologia con testo inglese a fronte titolata semplicemente Poems. Nel 2016 dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo e, nel 2017 la raccolta Intrecci.

Foto Karel Teige_1

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Di Antonio Sagredo  è stato detto che è un poeta «inclassificabile», e in effetti nessuna definizione sembra più azzeccata, almeno se letto entro la lirica monodica della poesia italiana contemporanea; non ha precursori, vive nella sua splendida solitudine fatta di rovine e di pagliacci, di saltimbanchi e di falsi santi, di nani, di schiavi, di tiranni di cartapesta; Sagredo è un prestigiatore della parola, un giocoliere, un paria, un senza tempo e senza luogo, un ramingo; sembra non avere altra patria che quella della lingua, ma si tratta di una lingua sfregiata ed effigiata, lugubre e dionisiaca, demoniaca ed infingarda. Forse nessuna sua parola va presa sul serio, tuttavia la sua poesia è serissima, severissima involuta nel suo frac lucido e lurido, è la lingua di un demone accigliato ed iroso, ma anche ludico e imperioso che non chiede di essere verificato o riconosciuto se non nella sua alterità. In questo senso è un poeta lussurioso perché fiuta la lussuria della lingua, la sua parentela con la cloaca e l’empireo. Il riso di scherno di un dio ctonio che è stato gettato a capofitto nell’abiezione. La sua poesia (anche questa di matrice erotica)  è figlia di un giocoliere e di un prestanome, di un falsario e di un mercante, di un rigattiere e di un gallerista.   È la poesia di un cieco e di un sordo messi insieme, di un autista inerme e spregiudicato.  Inutile chiedere a Sagredo di essere un interprete della poesia altrui, di dirci la parola che mondi possa aprirci, ciò che lui ci consegna è una interiezione, uno sberleffo,  un irrispettoso cipiglio, sebbene della razza più sublime.

La poesia di Sagredo avvalora il noto assioma di Adorno secondo il quale «la poesia è magia liberata dalla necessità di essere verità». La poesia di Sagredo attinge la più alta vetta di «verità», appunto denegandone ogni residua qualità; non c’è nessuna «qualità» per Sagredo nel suo ergersi a «verità». La poesia di Sagredo è menzogna e sortilegio, alchimia e mania, fobia e follia, non c’è via di mezzo o di scampo: o la poesia c’è, o non c’è. Sono più di trenta anni che Sagredo è assediato, ossessionato dalla poesia. La sua ossessione è una malattia liberata dalla magia di essere verità.

È probabile che le istanze realistiche e mimetiche invalse nella poesia italiana degli anni Ottanta e Novanta del Novecento abbiano, come dire, urticato la sensibilità di Sagredo e lo abbiano, in modo incosciente o consapevole, condotto o ricondotto, alla sua profonda e anteriore natura espressionistica che con virulenza urgeva al di sotto della patina petrarchesca e sperimentale del tardo novecento italiano con il quale, s’è capito, il poeta ha intrattenuto un rapporto di assoluta ostilità…

(Giorgio Linguaglossa)

Foto Man Ray 1922

Man Ray, foto

 

Nodosostomìa

(Si) sono rotte le Acque – infine!
violente in quel Giorno del non Giudizio,
in quel giorno violento per altri nascimenti
che tracimarono d’aprile come fiori appestati
quando il mio sembiante risuscitò benedetto
dal piombato limbo e l’acido sangue
generò la scala corrosa di Giacobbe.
Io non conosco gli autunni dei tuoi seni,
il sentiero che il cardo – viola! – tracciò dal tuo ventre
in giù non mi fu nemico durante il doppiamento:
io conosco i tuoi segreti erogeni,
i punti cardinali di un corpo che non fu mai il tuo.
Ho solo visto nel mio sguardo l’Occhio tuo divino,
dai tuoi singhiozzi soltanto – suppliche!
non il perdono, ma l’affondo della mia stoccata
perché la cecità fosse inascoltata durante la canicola –
e la colomba che tu eri, perfetta come un’acrobazia circense,
respinse il miracolo della mia sorgente irrevocabile
affossata dal diluvio della tua falena inumidita –
il mio cervello svuotato dal canto del gallo
la notte che io non piansi il tradimento,
ma l’Occhio di Dio, il tuo, lento penetrai
e inesorabile la tua rosa oscurità mutò in rovina
l’Onnisciente:
il flauto mio compatto
nella tua bocca!

(Vermicino, 22/24 luglio 2004)

helmut newton modella che fuma

helmut newton modella che fuma

*

L’azzardo senza infingimenti
che gli dei non ci potevano donare
– perché tu restassi un isola –
fu puro oltre ogni privazione

dal centro che non aveva limiti
e che mi concedevo
o dal suo contrario
che non aveva confini
e che mi concedevo,
non si disegnava un arco
a sesto acuto, né moresco

ed ero come un oceano insensato
– perché mancante era un naufrago –
suo segno e contrassegno insieme
con quello stesso centro e il suo contrario –

confusa la mia lingua
ti donava un piacere ineguagliato

i miei occhi levitarono
Amore e Morte
e ancora in fiamme – li abbandonai!

(Vermicino, 17-23 giugno 2004-20 luglio 2004)

helmut newton foto del volto di Catherine Deneuve

helmut newton foto del volto di Catherine Deneuve

*

La Notte che non difese mai la mia Natura
è l’Occhio di Dio che questa notte
non mi hai dato
ed è cieco per tutta la durata
quel Male che per me è solo dolce,
gridando lagrime contro la mia Natura

ma io sono cieco per tutta la durata
di quel Male che solo per me è dolce

e solo per te è dura lex!

gridando lagrime contro Natura
tutte le sante che non furono puttane
l’Occhio di Dio accecarono infedeli

in quella notte che non mi hai dato
m’hai oscurato per tutta la durata
la rosa che la mia lingua inumidiva

il mio 3/1/21/21/13 per 10 anni tra le bende,
nemmeno le pietre sapranno le storielle
che, se accese, sono mute per eccesso

l’Occhio di Dio nella Notte contro Natura
è il Male che s’avventa lento con dolcezza
quando la mia lingua è caduta in prescrizione
con quella doppia tomba risorta dalla croce

Sudario, è qui il punto circoscritto
– prima della vita c’è un’altra morte –
l’eredità s’è dipinta sulle labbra un testamento:
la possanza eretica di quel cardo suicida!

(Vermicino, 20 luglio 2004)

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SETTE POESIE EROTICHE di Chiara Moimas da L’acerbo pruno (2014)

 Helmut Newton sfilata di nudi

Helmut Newton sfilata di nudi

Chiara Moimas è nata a Ronchi dei Legionari nel 1953 e vive a Gorizia ha al suo attivo diverse pubblicazioni a carattere didattico su riviste specializzate. Ha pubblicato i volumi di poesia Metamorfosi: donna (Firenze Libri, Firenze 1989) e L’angelo della morte e altre poesie (Ed. Scettro del Re, Roma 2005) che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Seguono Curriculum vitae (Joker, 2012), e L’acerbo Pruno (Edizioni Progetto cultura, 2014). Sue poesie sono state pubblicate su riviste di settore e nell’antologia Ragioni e canoni del corpo di Luciano Troisio (Terziaria, Milano 2001). Nel 2012 ha vinto il “Premio speciale M. Stefani” al concorso di poesia erotica di Venezia. Si occupa anche di scrittura per l’infanzia e di poesia dialettale (il “bisiac”).

da Chiara Moimas L’acerbo pruno Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2014 pp. 64 € 10

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Aplomb

Sfiorano le tue labbra la mia nuca
e il tuo respiro sento sul mio collo
non creder che lo voglia e che t’induca
a perdere l’aplomb ed il controllo

il bottoncino sfili dalla buca
e scivola la mano nello scollo
dubbio non c’è oramai che mi seduca
il modo tuo di far ed io tracollo.

Sulle mie labbra posi il tuo sorriso
mi stringi forte tanto da far male
del tuo calore il corpo mio s’è intriso

sulle mie guance lacrime di sale.
Dolce dolore mi pervade il viso
di quel ch’è attorno niente più mi cale.

la grande bellezza gambe-e-tacchi-a-spillo

 

 

 

 

 

 

 

Le sei le sette...

Le sei le sette le otto le nove
le ore passano e fuori piove
io qui distesa sul mio divano
ti aspetto e scivola lenta la mano

che in preda al gioco di tentazioni
smuove l’ostacolo dei pantaloni
e trova un lembo di pizzo nero
difesa debole scudo leggero.

L’umida preda la mano cattura
la lotta sarà lunga sarà dura
oramai è passata quasi un’ora

ma non è stanca ne vuole ancora.
La chiave nella toppa si rigira
entri mi vedi e un pensiero ti attira…

le gambe ok

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’acqua emergo

Dall’acqua emergo quasi un’afrodite
e sulla sabbia calda mi distendo
gocce salate scorrono impunite
al loro refrigerio già mi arrendo,

la lingua tua le trova, intimorite,
ma inerme sono e più non le difendo
dal cavo delle cosce già inghiottite
vanno spegnendo il rogo ed io m’accendo.

Insegui il sale e il mio piacere trovi
che stride come sabbia tra i tuoi denti
la sete non si placa in mezzo ai rovi

ma spegnerla si può tra le sorgenti.
E sgorgano ruscelli freschi e nuovi
che placano il tuo ardor tra le correnti.

le gambe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Venere

Uscì dal mar che Venere pareva
lunghi capelli sciolti sulla schiena
un perizoma argento solo aveva
che il pube nero nascondeva appena.

Esili gambe pose sulla roccia
la chioma scosse come fresco vento
mosse le braccia quasi un fior che sboccia
e ti fu accanto in un sol momento.

Tra le sue ciglia perle incastonate
e tra i capelli rami di corallo
le labbra fresche morbide salate

volle chinarsi e non vide il vallo
ma solo pietre bianche acuminate
e fu così che mise il piede in fallo.

sfilata di miss italia

sfilata di miss italia

 

 

 

 

 

 

 

 

Immergi

Immergi le tue mani nel mio lago
nuota dentro di me col tuo sapere
vergine sto lottando col tuo drago
non lo vorrei ma grido di piacere.

Veleggia sino a che ti senti pago
quello che vuoi da me tu puoi avere
nei desideri più nascosti indago
immolo la purezza sul braciere.

Quando s’arena stanca la feluca
i fianchi ti riparano dai venti
al tuo volere chino la mia nuca

dolci parole invoco ma non senti.
Non c’è oramai sussurro che t’induca
alla pietà dei miei gravi tormenti.

 La sensualité c'est la mobilisation maximale des sens  on observe l'autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

La sensualité c’est la mobilisation maximale des sens on observe l’autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Accosta, ti prego

Accosta, ti prego, rallenta e frena
qui dove inizia del bosco la strada
fuori la notte è calma e serena
voglio giocare con la tua spada

già il cuore balza già si dimena
e prima ancora che tutto accada
questo sedile si fa calda rena
e come una duna lento digrada.

Non è del vento la voce che senti
è il mio respiro che si fa affanno
non è la luce di stelle cadenti

sono le lacrime calde che vanno
e mentre temi che il morso si allenti
di sale amaro ti nutriranno.

Laura Antonelli nel film mamma mia come sono caduta in basso

Laura Antonelli nel film mamma mia come sono caduta in basso

 

 

 

 

 

 

 

Depressa e sola

Ti trovo al bar depressa e sola: “Ciao,
posso offrirti qualcosa da bere?”
Lo sguardo che mi lanci mi consola,
scorre dello champagne nel tuo bicchiere.

Togli il cappotto, ti scosti la stola,
slacci un bottone e vedo il cratere
che dai tuoi seni m’infuoca la gola e
al magma mi conduce del piacere.

Accavalli le gambe. E’ un invito
audace per me che non sono di creta.
Lo champagne non è ancora finito

e già la mia mano sfiora la seta.
Il gioco, lo so, rimane impunito,
scendo e raggiungo la morbida meta.

laura antonelli sul set

laura antonelli sul set

 

 

 

 

 

 

 

 

La preda

I
Nuda non svelo le serpi d’Erinni
che il mio cuore aggroviglia
né insaziabile l’odio d’Arpia
che gli artigli incarnisce
lo stupore non scopro
terribile e fermo
di Dafne inviolata.

Non sai
quante foglie di gelso
ho strappato
quanta linfa m’è corsa
nell’alchemico sonno.
Ho nutrito la larva
come morte apparente.
Ho creduto.
Ai miei piedi la bava rappresa
dipana i suoi fili e si mostra
inutile e vuota.

Adesso che le ali distendo
ti spezzo il respiro.

 

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DODICI POESIE da “Criptomagrittazioni” di Silvana Baroni con una nota di poetica dell’autrice

magritte rené

magritte rené

Silvana Baroni è medico psichiatra e psicoanalista junghiana, vive a Roma. Ha scritto testi teatrali, ha pubblicato racconti e poesie su varie riviste letterarie e in volume e ha partecipato a numerose mostre in cui ha esposto le sue creazioni di grafica e pittura. Come aforista ha pubblicato nel 1992 Tra l’Io e il Sé c’è di mezzo il me, raccolta di aforismi e disegni umoristici per il Ventaglio edizioni, nel 1997 Acquerugiola-acquatinta, raccolta di grafiche ed haiku per l’edizioni dell’Oleandro. Nel 1994 escono le raccolte di poesia Nodi di rete (Il Ventaglio); nel 2001 Ultimamente, e nel 2002, Il tallone d’Achille di una donna (Fermenti); nel 2012 Perdersi per mano (Tracce). Nel 2007 esce la raccolta di aforismi Laccati di cristallina neppure i fossili sono più quelli di una volta, e nel 2001, Il bianco, il nero, il grigio (Joker, 2011).

magritte Decalcomania, 1966Suoi aforismi: «Ogni bugia per metà è vera»; «Si tace anche a vanvera»; «L’eternità è il luogo dove il tempo è innamorato»; «E se invece del Big Bang… fosse stato un Supremo Orgasmo?»; «E se fosse un refuso: non nati per soffrire, ma per offrire?»; «La castità è un peccato di arroganza, per giunta solitario»; «non ha scheletri nell’armadio, siede cadavere in salotto»; «Dio è l’incudine su cui forgiamo inutilmente le nostre domande»;  «Il segreto ha la porta d’ingresso serrata, spalancata quella d’uscita»

Silvana Baroni

Silvana Baroni

*

Non desidero che si qualifichi ciò che dipingo” affermava Magritte contro qualsiasi tentativo di catalogazione, di critica che lo volesse imbrigliare. Pur assimilandosi per certi versi al movimento surrealista, nell’aderire alla rottura totale “con le abitudini mentali degli artisti prigionieri del talento”, non fa che ribadire di essere un pittore realista, di dipingere oggetti dai dettagli apparenti, suggestioni provocate dalla loro collocazione in situazioni insolite. Magritte afferma con vigore la propria individualità, non per culto personale ma quale condizione indispensabile per ospitare la prepotente soggettività del mistero dell’opera.

Scrive:

“Ciò che dipingo non implica nessuna supremazia dell’invisibile sul visibile, questo è sufficientemente ricco per creare il linguaggio poetico, evocatore del mistero dell’invisibile e del visibile…La realtà è ciò che tutti vedono, è il mezzo privilegiato per ribaltare il convenzionale nell’enigma e quindi rivelare il mistero che vi è celato”.

magritte rené

magritte rené

E ancora:

“Quando la volontà non è più schiava delle cose e tutto sembra perduto, diventa possibile realizzare immagini di un universo meraviglioso… Siamo diventati talmente seri che niente viene preso sul serio, eccetto la negazione, e così l’evoluzione non si ferma, inizia. Si rasenta spesso l’idiozia, ma non importa, è bello immaginare fino a dove ciò ci può portare.”. Pur non volendo mai sottoporre la sua opera a qualsivoglia lettura psicoanalitica, scrive: “ciò ch’è nascosto è più importante di ciò ch’è rivelato… all’insolito si accede attraverso la dissimulazione…voglio dipingere la dialettica dello sconcertante, oggettivare il soggettivo attraverso la verosimiglianza”.

Forti le ambivalenze che abitano il grande Artista, ma che poeticamente e con vigore coniuga in un’Arte come non mai. Dal serbatoio della esperienza, conscia ed inconscia, emana una visionarietà spregiudicata, intrigante, una sorta di affabulazione di molteplici riferimenti a esplicitazione del non detto. E’ a questa sotterranea appartenenza che mi collego. Non desidero fare critica né indagine psicoanalitica. Tutt’altro.

Mi affianco al lavoro dell’Artista con un mio gesto, che a sua volta mi svela. Tento di raccontare una ipotesi di dolore non sopito nel rispetto totale per entrambi, perché è del mistero dell’Arte che qui si tratta, in azzardo con la realtà, in afflato pudico col rimosso.

(Silvana Baroni)

 

magritte rené

magritte rené

da Criptomagrittazioni 2013, Onix

 

 

 

 

 

1
Il dominio ha perso padrone
non v’è nume in monumento
solo deserto dislocato
assenzio evaporato
bava di lumaca che scivola
sul litorale d’altre galassie.

La vita s’è arresa in ritrosia d’oceano
la bara è vuota
vuota la memoria della bara-

.
2
Il pendolo si è staccato dal muro
il muro dal castello
il tempo è esploso dalla fissità dello spazio.

La regina e il re hanno perso il regno.
Le pedine divelte dalla scacchiera
affogano tra cavalli naufraghi nella corrente.

Eppure a guardar bene lo si vede
l’ultimo alfiere salire ansimante oltre le torri
raggiungere Messner, chiedergli
su quale cima avesse mai incontrato Dio-

.
3
Voi che avete venduto capretti mai nati
tornate alle vostre biciclette
agli orologi che sbadigliano
ai magneti delle vostre cucine, alla giostra
dei geni nella lampada di Aladino.

Basterà un suggeritore per ognuno
che vi esponga la metratura dovuta
così che lo sponsor vi incastoni
nel breviario della giusta taglia.

Tornate nell’ovatta delle case
non giratevi sulle sponde della sera
vi sarà più semplice rimanere.

L’impegno è filtrare sbadigli
sfoderare musica dai pigiami da camera
stirare le grinze sulle nocche delle dita.

Non uscirà sangue
non schizza mai sangue
dal gregge della statistica-

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4
A quest’ora avremmo dovuto essere in viaggio verso sud
ma persi i bagagli torniamo in compagnia di civette notturne.

Chi mette fuori la testa per riconoscerci?
Chi lancia un bentornati al di qua del cancello?

La situazione richiederebbe lo stesso approccio da entrambe
le postazioni, riconoscere a menadito la voce
la silhouette dell’altro avviluppata nel sudario familiare.

Nella casa non c’è caminetto acceso né scorta di legna
manca l’istinto della sete, il miagolio famelico
che spalanca e chiude la giornata.

Dietro i cespugli ecco la chiave, entriamo
come d’abitudine ci sdraiamo nel recinto delle zanzariere
decidiamo i turni dell’insonnia, chi debba
tenere a bada il candore opprimente delle nuvole
chi le trappole per topi.

Soltanto a mezzanotte uno di noi strapperà il cuscino
soffierà con foga sulle piume, e tutte voleranno le orfanelle
si spargeranno in ovatta per la brughiera-

5
La mia sediola sul tuo scranno?
oh mio Dio! davvero
un posto a capotavola tutto per me?
qui sul palco del primo giorno
sotto nuvole che entrano ed escono dal letargo?
io, con occhi a calamita a capovolgerlo l’orizzonte
a strappare il mare al deserto?
davvero io a presentire uragani
sul picco dell’infinita arsura?
io, sul trono primordiale
nella luce intermittente tua verde ramarro
in assenza ancora dei tuoi figli
oh mio Dio!
io Adamo, la cavia
a far prove per altri che verranno
a testare lo spazio del vivere
la resistenza umana al vento delle pale
del tuo sacro ventilatore-

6
La donna ha lasciato il calamaro sul piano di marmo
il suo ultimo gemito infarinato sul tagliere
e sopra di lui il ronzio acuto della vespa che gira e s’annida.

Perso il naso nella pozza dell’amnios ha chiuso il rubinetto
no! non vuole figli ma affreschi al lapislazzulo
dentro il vuoto della sua abside.

Dicevano che per avere la parte sarebbe bastata
l’espressione d’aver infranto la sfera
ma il regista non terminerà le riprese
troppi i cavilli concettuali al fondo della sceneggiatura
e troppo il budget per il modesto produttore-

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

7
Senza collo, si sa, cresce il mal di testa
che peggiora poi se non c’è il materasso
né basterebbe il cigolio della rete
a dondolare i sogni sul marmo dell’insonnia
né le scale a consentire la fuga dall’orrenda ossessione.
Inoltre mancano i tarli
a trapanare il turgore della mela
e la fantasia di un abile peccatore a sfrecciare
contro l’insostenibile speranza, a fare esplodere
la vescica delle gocce ammassate
l’accumulo dei rimandi nel cassetto
di un ipotetico comò.
Nessuno sa come forarla questa massa del tempo
come sottrarsi al liquame di così tanta
invasata permanenza-

8
Bosco da parati o stanza nel bosco?
clausura del sublime
bellezza della bestia a tutela dell’umano
o più semplicemente la donna
in uscita dalla città ideale?
Niente panico né rammarico
la romanza è assorbita dal sughero
la ribellione è impensabile
per quegli arti lignei allungati
per quegli occhi a bossolo lucido chiaro.
Giovanna ha deposto arco e corazza
è una donna che ha sete
vuol bere dalla fonte con le mani
sentire l’acqua scorrerle lungo le guance
vorticarle sul collo in rivoli
fino a bagnarle il pizzo della camicetta.
Non è più santa né guerriera, ma filosofa
che procede in odore di cavallinità.
Sa bene, ora, come nascondere
nel trotto l’altra che galoppa-

9
Non dico quel che penso
d’altronde quel ch’è vero è già nel piatto
che se poi devo proprio dirla la messa
finisce che la dico con forchetta e coltello.
Ciò ch’è mio pretendo di sceglierlo da me
ma se volete ritrarmi, niente colori
solo carne e sangue sulla tavolozza.
Ebbene sì
sono ingordo del ritratto ingordo di me
e se mi dipingete, fatelo fino al midollo
così darò l’osso al vostro cane, anzi
sarò il cane stesso che azzanna il vostro ritratto.
Ho venti dita a tensione progressiva
un’arte a elastico che ho appreso
dai miei traffici in India, da quando
son fuggito dalla mente di mio padre
lui che mi lanciava in aria a far l’acrobata
mentr’io nel panico urlavo, temevo
di non tornargli nelle braccia.
Ormai sono al sicuro
l’ostia di mio padre è il pane che mangio
e non ho impegni con l’amore
non ho da confessare a nessuno
quel che teme un uomo-

Linguaglossa Magritte elective affinities 1933

10
Ti piacerebbe saperlo, bello mio!
Scoprire quel che ho nella testa
cosa guardo, perché guardo, se guardo
cosa bacio, se bacio, se ho baciato
quel che sorseggio, se bevo, quando bevo
se ho sete, se sono l’angelo spaesato
come credevi fosse tua madre
se conservo come lei nella borsetta
il tuo gemello morto.
Non temere, il cadaverino è incartato
in plastica spessa così che il sangue
non goccia né può imbrattare la consueta
passeggiata al sole sul lungomare domenicale.
Non guardare mai nei miei guanti
né sotto il cappello, non puoi annusarmi
dietro questi fiori, invece puoi sentirti libero
nei modi e tempi della persuasione
qualora decidessi di parlarmi così
come si fa con le puttane- Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Anna Ventura dalla Antologia Tu Quoque (Poesie 1978-2013) La poesia tra il silenzio della Natura e Cultura – lettura di Marco Onofrio

gli sposi etruschi di Volterra

gli sposi etruschi di Volterra

Sfogliando questo libro antologico di Anna Ventura (EdiLet, 2014, pp. 232, Euro 16)  ho subito pensato ai Sillabari di Goffredo Parise, che nacquero – come noto – dalla rivolta dello scrittore vicentino contro il linguaggio sofisticato e roboante del ’68. Parise vide che in un libro per bambini c’era scritto L’erba è verde: la frase gli piacque molto, come a dire: essenza, verità, tornare dentro un alveo elementare. Anna Ventura spinge, controcorrente, il suo discorso poetico verso la dimensione perduta della vita e della cultura: riabbracciare la totalità della Natura dopo averla sezionata con la Cultura, la ribellione metafisica del suo dissenso, lo strumento acuminato della parola che «si affila come un’arma». Riemerge così il tempo eterno del mito, «lo splendore dei Greci», l’«erotismo classico» che «non conosceva pudori». Ritrovare «la forza della donna feconda». Tornare con la parola «all’origine», nel «fulcro antico del mondo». Con la consapevolezza che la frattura del disincanto e della disarmonia si può ricomporre: «basta chiamarlo: / lo splendore viene». Per tornare alla natura elementare occorre però uscire dalla gabbia del soggettivismo lirico. Scrive Italo Calvino, nell’ultima pagina delle sue Lezioni americane:

«magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e in autunno, la pietra, il cemento, la plastica… »

Anna Ventura copertina tu quoqueEcco dunque la parola alle cose: il mondo visto con gli “occhi” delle cose, dal loro punto di vista. Anna Ventura vuole accorciare la distanza tra parole e cose: come le «pecore al lupo / e all’oste il vino». Togliersi le zavorre per arrivare alla complessità aporetica dell’essenziale chiarificato. Articolare la difficile semplicità. Imparare le parole delle fiamme, «le voci / del legno, del fuoco / e dell’erba». Immergersi nel «grande fiume delle cose / che non aspettano niente», nel loro «tempo immobile»: «amare il silenzio delle cose, / l’orizzontale indifferenza».

Anna Ventura non impone gerarchie allo sguardo, anzi, dà attenzione alle cose in apparenza più “insignificanti”: le «minuscole storie», le solitudini inchiavardate, le ombre polverose, gli angoli sciatti, gli «oggetti / che sfuggono alla legge / dell’ordine e del bello». Utilizza il pensiero laterale e uno sguardo difforme, “eccentrico”, che cerca il particolare insolito o l’aspetto e l’uso insolito del solito particolare. Ad esempio l’ombrellino di carta colorata sulle coppe di gelato: «una volta ho mangiato / un gelato mostruoso: / non c’era altro modo / per avere una coccarda di carta velina / che c’era confitta sopra». Questa infatti è la poesia: si paga il prezzo del gelato per godere di una cosa inutile, ma forse più importante del gelato stesso. E ancora: sentirsi una «piccola parte» della città: «la più grigia, silenziosa, nascosta: / il lobo dell’orecchio, / l’unghia del dito più piccolo, / la pupilla buia, / che sbigottita guarda le cose». Ma la parte già contiene il tutto: «una foglia verde / (…) è ancora / tutta l’erba del mondo». «La natura è la mosca» che percorre ostinata «la costa del quaderno». Il dettaglio, dunque, è la via che apre l’infinito.

i misteri di Eleusi

i misteri di Eleusi

La prospettiva da cui Anna Ventura guarda al mondo è umile, “dal basso”, centrata sulle energie profonde: «scegliere / l’umiltà dell’ultimo». «Non i nobili suoni, / ma i semplici rumori». Sono i «gesti semplici, sapienti, responsabili» (come «la presa di sale del cuoco / che decide della pietanza intera») a salvare la terra. Le cose emergono alla pagina chiare e concrete, attraverso gli infiniti dello spazio e del tempo: «Res è cosa / e cosa rimanda / al ruvido, al grezzo, al colore / (…) di forma semplice e tonda, / di consistenza solida». Le cose «durano più della gente»: per questo parlano delle persone, sono gravide di passato, di storie: «oggetti vetusti, / levigati dall’uso, scuriti dal fumo / corrosi dalla ruggine». Come l’impronta di verderame lasciata dallo scudo del guerriero riemerso dagli scavi: «parlava di vita», la «giovane vita» che gli era stata tolta.

Anna Ventura tocca il cardine dialettico che lega Natura e Cultura, tempi biologici e tempi storici: ad esempio la tartaruga di Volterra che parla con i sarcofaghi sommersi, e «il filo d’argento di una solitaria lumaca» che percorre gli sposi etruschi di pietra. C’è il silenzio della Storia di cui sono intrise le cose, che «vogliono un grande silenzio / prima di prendere la parola». E, specularmene, il silenzio della Natura: quello «immane dell’erba», e anche quello dei pesci rossi addomesticati nella boccia di vetro della Cultura, quando «aprono e chiudono le bocche / per un messaggio / che non capiremo mai». Le cose sono gli appigli del confronto con l’infinito «al di là della siepe» leopardiana: «dietro la tenda di trina / c’è il mondo, immenso» (…). Prima di naufragarci, però, «passa il fischio del treno, / sempre alla stessa ora», quasi a dire: la salvezza delle ancore quotidiane, delle cose concrete come i «biscotti fatti con l’anice» o le «coperte lavorate ai ferri».

angelo 3

L’operazione poetica consiste nel far vedere il mistero che dorme nel finito: «trasformare in infinito / il quotidiano finito». L’infinito emerge dal finito nella misura in cui quest’ultimo viene catturato e quanto più precisato, entro i limiti organici che lo caratterizzano in quanto cosa reale. Non a caso, infatti, la poesia di Anna Ventura ha una forte accentuazione fenomenologica: tende a proporsi come registrazione oggettiva e millimetrica di un fenomeno, di un oggetto, di una scena che accade. C’è spesso un verbo-motore (cammino, sposto, raddrizzo) che innesca il movimento di rassegna: anche le esperienze che si sono attraversate per arrivare fin lì, a vivere quel dato momento. La scrittura, così, diventa ermeneutica del reale, semiologia dell’esistente: «ogni segno decide». E quindi «trovare sulla spiaggia deserta / una bottiglia vuota e vedere / che il messaggio non c’è. / Ma leggerlo lo stesso». La poesia è la traccia misteriosa del «passaggio ardente»: è «la piuma bianca che resta / in fondo al nido / se un uccello migrante lo abbandona». Il mistero emerge in un lampo, per cui «pare / di avvertire il messaggio» che ogni cosa ci reca. Ed ecco allora l’ascolto sopracuto (i mille fruscii, i sussurri, le voci del vento e del bosco: arrivare a sentir «crescere i ciclamini») e il dialogo serrato con l’invisibile (gli «spiriti dell’aria / che di giorno e di notte / bussano ai vetri»), per cui «Io non so / chi mi cammina accanto». Se le persone azzardassero «l’abbacinante esperienza / dello sguardo» scoprirebbero di essere quello che sono: «un frammento di eternità, / una scaglia lucente / intrisa di tempo e di destino».

E poi il mistero delle cose necessarie. Il Logos, il «rigore dell’essere», la legge della natura. Newton e Cartesio. La macchina del mondo, gli ingranaggi sottili del meccanismo pulsante «di innumerevoli creature», «ognuno al suo posto». E i teoremi che la natura conserva e attua, inesorabile, spietata, con il suo artiglio di dolore, anche avallando situazioni ingiuste. E i cicli di vita, le stagioni che vanno e vengono, l’eterno ritorno della realtà «nel suo concretissimo giro». La lentezza del giusto tempo, la capacità di saper aspettare. La visione essenziale e universale, la quiddità sostanziale che soggiace all’apparente varietà: la lupità del lupo. E la natura feroce dell’inverno, col suo «freddo purissimo» che disinfetta e cova in letargo i semi della primavera. L’inverno è la stagione privilegiata da Anna Ventura: riporta al «duro pragmatismo» e alla «cupa saggezza» della cultura contadina, contrapposta alle mollezze della civiltà metropolitana, società quest’ultima «di cene» in compagnia di tipi arroganti da affrontare con gli occhi «sghembi di malizia», tra calcoli e biechi opportunismi. Agli artifici della città si contrappone la scabra e arcaica bellezza della montagna abruzzese.

mascheraÈ anche una poesia di recupero memoriale, di conoscenza, di chiarificazione:«ripercorrere il  cammino / della propria vita, o di quella / degli altri», inseguendo il cammino a ritroso del salmone, spinti controcorrente da una forza immane e misteriosa. Scrive Anna Ventura: «Molto prima / delle mie possibilità / ho conosciuto i miei limiti». Per questo la sua è una poesia così autentica e viva. I limiti: anche quelli culturali della sua terra d’origine, contro i quali si è ribellata per non piegarsi a una condizione femminile umiliata dal patriarcato: «donna al telaio, / curva al legno e ai fili», da cui si vuole l’ubbidienza. Invece lei ha rivendicato il coraggio della razionalità e del libero pensiero, che l’ha fatta camminare a testa bassa, per guardare le radici, «rompiscatole» nell’aprire porte proibite e nel sollevare sassi con sotto lo scorpione. La società contadina la voleva plasmare: «Ma io ho avuto / l’uso astuto della parola, / una fiamma eversiva che mi ha protetta». Con la parola Anna Ventura traccia «segni sulla cenere», la cenere dei sogni e l’esistenza: questo è il suo «modo di raccontare» l’uomo. La condizione umana è: sedersi su un cumulo di macerie alto «quanto le vette che avevamo sognate», per fumarci sopra. Tutto brucerà (anche i fogli scritti) nell’ora finale dello «sterminio»: ma «poiché ancora ci è data la parola, / pronunciamo il dissenso». Così si conclude il libro. Conclusione solo apparente, dato che la ricerca è pressoché interminabile, i messaggi sono contraddittori e l’assoluto non si raggiunge mai: arretra di quanto avanziamo, come l’orizzonte. Spesso, anzi, più si cerca di conoscere, più si innalza il muro che ci separa dalla verità. Forse, questo vuole dirci Anna Ventura, la verità è un dono spontaneo, che viene dall’abbandono irrazionale, dalla resa all’incomunicabile.

(Marco Onofrio)

Anna Ventura

Anna Ventura

da Anna Ventura Antologia “Tu quoque” (Poesie 1978-2013) EdiLet 2014 p. 226 € 16

 

 

 

 

Il giardino

Sempre abbiamo bussato
a porte chiuse: dentro
poteva esserci un giardino. Ma quelle porte
non si aprivano mai; solo talvolta
si schiudeva uno spiraglio:
qualcosa verdeggiava, là dentro; ma guai
a fare un passo avanti: la porta
si chiudeva di scatto
tornava a essere muro. Eppure c’era
un modo per superarla:
non bussare a nessuna porta,
non guardare da nessuno spiraglio;
aspettare di incontrare il giardino
che non ha porte, ma solo un arco fiorito
attraverso il quale si passa leggeri,
senza neppure sapere di essere entrati.

 

In nome dello spirito

Questi piccoli fogli bruceranno
come tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.
L’angelo freddo

Chi può dire che cosa non ci appartiene,
chi segna i confini delle proprietà,
chi chiude le porte e col gesso scrive
i limiti del possibile?
Chi, se non un angelo malvagio,
al quale bruciamo inutili incensi,
l’angelo conformista di un galateo di menzogne,
l’angelo di pietra che sta sulla tomba,
e aspetta solo che gli stiamo a tiro,
ma non ha fretta,
perché già ci possiede?
A quest’angelo freddo
è inutile strizzare l’occhio:
ignora spirito e fantasia;
non ha la luciferina gaiezza
del Satana piede caprino,
né la buia durezza del Maligno:
alita soavemente sulle nostre case arredate,
governa le nostre automobili,
i bambini grassi e le serve.
E’ la nostra ottusa certezza,
la fede indegna di essere creduta.
I ladri, i rapitori, il dolore
sono l’unico baluardo
contro di lui.

anna ventura 1 (1)

anna ventura

Gli sposi di pietra

Forse la tartaruga di Volterra
parla con i sarcofaghi sommersi
nella terra morbida
del giardino del museo.
Sono sempre due,
gli sposi etruschi di nessuna bellezza,
stretti in una scatola di pietra,
che non si annoiano e ridono
di un sorriso che non si spiega ed è beffardo.
Il mistero etrusco non è la scrittura,
non è la remota provenienza,
ma la tenacia testarda
dei loro matrimoni eterni.
Contro la durezza quadrata
di queste scatole di pietra
si spezza
e diventa segatura
il biondo dell’oro sibarita.
Sommerso nella terra, minuscolo,
l’ultimo sarcofago
aspetta di sopravvivere
al giorno del giudizio.
Ha gli sposi mangiati dal tempo,
caduti i nasi di pietra,
interrotto il sorriso sulle bocche,
il filo d’argento di una solitaria lumaca
li percorre, e ammiccano
nell’ombra della fratta più nascosta,
dove è il mistero del mistero, la tana
della tartaruga di Volterra.

.
Come una fragile tazza

Come una fragile tazza
A ricami verdi,
questo pomeriggio vuoto.
Che orribile spreco-imperdonabile-
di splendore.

.
Res

Res è cosa,
e cosa rimanda
al ruvido, al grezzo, al colore
paglierino oppure ocra o marrone,
di forma semplice e tonda,
di consistenza solida,
senza odore, a temperatura normale.
Cosa è un uovo o una pietra,
un sacco pieno di grano,
un cavallo di legno.
Anche la terra è cosa,
e così la sedia, la ruota,
la brocca di coccio, il sale.
Cosa è la zappa e il falcetto,
la trappola per il lupo e il remo.
E così elencando,
per tutta una serie di oggetti
connessi con la vita,
il lavoro e la morte,
il ciclo eterno dell’uomo,
immutabile, inevitabile.
Che poi le cose, res,
divengano res gestae, res adversae
o res secundae
ci interessa meno, come
non ci interessano Cose belle e Cosa Nostra:
l’anima della parola è all’origine,
nel fulcro antico del mondo,
quando la selce fu oggetto e arma,
il fuoco, dono degli dei.

Albrecht Durer ex-libris 1516

La guardiana delle oche

Credo di essere nata per abitare
una di quelle case quadrate
col tetto grande e le finestre piccole,
che si aggrappano,
silenziose e chiuse,
forse deserte,
sulle colline fitte di boschi scuri
dell’Austria austera e triste.
Le guardo, passando sull’automobile,
e penso che,
se loro appartengono alla mia fantasia,
anch’io, forse, appartengo alla loro
e in qualche epoca remota
dobbiamo esserci incontrate. Forse
quella donna con la cuffia bianca,
che compare per un attimo tra le oche,
le spinge energica verso la stia,
allettandole col becchime,
forse quella donna sono io.

.
Le case

Ho amato molte case
E due moltissimo. La prima
Era nel vecchio quartiere della città,
partiva da terra ma poi si capiva
che spaziava sui tetti in piccole terrazze fitte di voli.
La componeva
una serie di stanze minuscole
bianche di luce e calce-casa
di astronomo,
o di marinaio-
In fondo,l’altana coperta
Di travi decrepite,
gonfia d’aria e di sole.
Ma sotto ci abitavano gli straccivendoli,
e dai terrazzi a conchiglia si vedeva
la loro vita miseranda brulicante da basso.
Non piacque a mia madre,
anzi, le fece paura. Io invece
ne rimasi ferita a morte,
col tempo mi ammalai di nostalgia.
L’altra è la casa del vento,
tutta esposta a Occidente, davanti nulla,
solo gli spiriti dell’aria
che di giorno e di notte
bussano ai vetri con le loro manine.
Neanche questa casa piace.
E perché dovrebbe?
Solo che intanto io ho imparato
A mettere il bavaglio ai miei sogni,
accettato l’assioma
che la realtà rifiuterà di abbracciarli
nel suo concretissimo giro ma io
me li terrò lo stesso,
nel giro infingardo
della mia verità. Continua a leggere

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LA GENERAZIONE DEGLI ARRABBIATI DUE POESIE di Valerio Gaio Pedini “De bello stronzibus o memoriandum dell’ottavo nano: ovvero il monologo mai scritto di Giulio Cesare”, “Portarono dell’alcool al nativo” – UNA POESIA di Ivan Pozzoni con un Commento di Valerio Gaio Pedini

 Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

 Valerio Gaio Pedini

Ma conchiudendo l’amarissima vicenda che ci ha tanto fatto sognare, i polli sono stati cotti e mangiati e crauti hanno adornato il tutto: così che l’idromele fosse più buona: bona, basta, stop, bona, basta, stop, finisci le tue parole e vattene dal mio cimitero:
oh se fossi dado mi tratterei-se fossi pugno la faccia ti spaccherei:
ma è mai possibile che bisogna venerar otto coglioni, che nemmeno sanno farsi il letto:
Cleopatras lussuriosa et Biancaneve che produce fiele: parole, parole, parole: basta con le parole!
Nani, nani, nani, nani: sapete che potete crescere, cavalcando muli ciarlatani!
E così fu che il vano giudizio divenne larga sentenza: i miei rivali sono stati avversari temibilissimi nello scontro armato: stronzonibus docet:
Antonioooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo! Ottavianooooooooooooo! Tu quoque Bruto fili mi!
Io sono Bruto e tu sei un pezzo di merda: ah, io non sono né un repubblicano, né un imperiale: io sono uno che ha i coglioni girati: e poi basta a dirmi figlio, mi hai solo adottato, pirla!
Cicerone dove sei finito,eh? Tutti lo sanno che volevi ammazzarlo, tutti! Cicerone, sei troppo impegnato a scrivere sulla stronzaggine per sentirmi?
Oh, audire è difficile, quando non si ha un cazzo da fare!
Ascoltate, gente, lo so che siamo tutti alla gogna!
Non è forse vero che siamo tutti ugual ipocriti a questo mondo?
Che corriamo, ci tuffiamo, varchiamo fiumi e ci facciamo padroni del mondo?
Ah, coraggio da vendere dite?
Nah,pavidità, pavidità, pavidità: stupidità, stupidità, stupidità: io le mie parole le scrivo, non le detto!
Ave Vale, ave Me, ave Vale, ave Me, ave Vale e finiscila!
Smettila pur qualche volta d’imprecare contro la storia, contro la letteratura, contro l’uomo:
deprivato di virilità:
sapete, oh uomini che Cesare era uno gnomo e che viveva in un bosco, fatto di mariuana, di cocaina, di eroina e di quattro baldracche e anche baldracchi: d’altronde amava le cose strane, amava i Galli,
anche lui era un Gallo: ricorda un po’ quell’imperatore appassionato di pollicultura, giusto, fu l’ultimo imperatore: pare che la gente sia invaghita del pollame.
La storia è un luogo strano: uno ti parla di Galli, e viene considerato un libro Antropologico: quando io parlo di uomini, pensano che faccia etologia come Konrad Lorenz, con le anitre che si muovono con sincronia,
vedeste come mi seguono!
D’altronde c’è chi tira il collo e chi spacca le reni alla Grecia!
Ma io sono un Gallo Cedrone, un Tacchino, un Pavone, guardate la mia bellezza, ah, vero che sono bello?
Guardate che corona!
Sono il re di tutti voi saltimbanchi perditempo: pirliamo tutti in giro, tanto il Duomo sta crollando, in un frammisto di Cinesine: la gente è proprio fissata con il pollame e con gli augelli, soprattutto quelli solitari!
Ah ah ah ah, Serva Italia di dolore ostello, bordello:
eh, sapessi, almeno ci fosse il bordello, ma caro Dantuccio, il bordello non c’è:
vi è solo qualche pollo, cinesino, gallo, pavone e anche qualche coniglio:
sembra di essere in una stalla più che altro.
Varcare la società, spaccarla! Distruggere! Bruciare! Invadere le farms di questo tripudio linguistico:
metterli nella fornace, e chiuderli in un bunker, proteggerli e ucciderli, ucciderli e proteggerli:
uomini, viviam nella disperazione, stiam male e siam distrutti: morirem come morirà l’universo:
scoppiato in un gemito strozzato:
tiriamo il collo a ciò che sappiamo, tanto non ne saremo certi mai:
audire, l’uomo è un animale senza senso, categoriale, non sensoriale:
vedete il mio naso grosso come quello di Cyrano? Non usma
E la mia lingua serpentina?Non sente alcun sapore?
No, qui le orecchie scoppiano e noi possiamo dissolverci in vane parole.

Ernst-Ludwig-Kirchner

Ernst-Ludwig-Kirchner

Portarono dell’alcool al nativo

Ed il nativo ringraziò-pregando Terra di rendere fede a questo generoso uomo – che era il non luogo
Del premio dello sgombero
Lo sgombero avvenne – e il nativo si trovò piazzato in un libro di De Curtis, fenomeno archeologico, nelle vestigia di Rambo, fenomeno da baraccone, indossando la tuta di Batman in uno squallido bar cantando l’ultima canzone d’amore- e tutti intorno con il fungo in mano sedevano, mugghiando la fine di qualche corvaccio e l’inizio di un paio di pavoni:
Il cinema li presenta come dei tiranni barbarici, nomadi ignoranti, che vivevano in tendine di stracci:
è proprio vero che i film storiograficamente dicono solo cazzate!
Questi dementi di Cowboys sempre a rompere i coglioni a questi dementi di Nativi: davvero non si possono vedere!
È meglio pensare allora a Cavallo Pazzo, che cerca di estinguere i coloni-o qualche apaloosa, naturalmente portato dall’occidente, che sbuchi dalla steppaglia e nitrisca prima di recalcitrare, per poi cadere fucilato dal premio divino!
Ai Crow che si fanno appendere al soffitto di una caverna buia, per illuminare la via della salvezza.
Oppure qualche Piede Nero che dissangua qualche bisonte, prima di assaporarlo, scuoiandolo per indossarlo nei giorni dell’invasione!
Gli Americanisti dicono che i Nativi non sono stati sterminati, sono stati traslati:
eppure l’ultimo nativo che vidi era un pirla che mi vendette una maglietta ed un cerchietto e quell’altro disperato cantava:

“natura morta
Disseminata dall’odio
Ti estinguerai sotto il mio piede rosso,
natura bianca
l’anima è seviziata,
il corpo non vive:
il bisonte si è estinto
e tu, come volevasi dimostrare, sei morta…
ed è colpa mia
ahiahaiaiaia
ed è colpa mia!”
Bum!

Quando tutti insieme in coro gridavano “what a jingle shit!”-Ed io dicevo loro, non ci sono più i canti di una volta, non ci sono più i canti!

Ci sono i pianti

E tutto… tutto ricominciava

“natura morta
Disseminata dall’odio
Ti estinguerai sotto il mio piede rosso…”

 

SCHMIDT-ROTTLUFF_Jahre

SCHMIDT-ROTTLUFF_Jahre

 UNA POESIA di IVAN POZZONI con un Commento di Valerio Gaio Pedini

Quando Giorgio Linguaglossa nei suoi Appunti Critici (2003; Edizioni Scettro Del Re) evidenzia che  la questione che più è corroborante nella critica vigente è la mancanza di coraggio, ovvero una cospicua diminuzione e rarefazione della critica militante, possiamo ben dedurre, che, data una mancanza di coraggio critico, fossilizzato al saggio dotto di poeti e artisti di cui hanno già detto tutto quello che si poteva dire e che le parole usate, pur edotte, sono anch’esse troppo ripetute (forse proprio perché edotte), ci sia una mancanza di coraggio poetico: una- permettetemi il termine plebeo ma attuale- deprimente fossilizzazione tematica e formale: una “gran fossa”che io ho più volte definito con il termine Nostalgia, che, ormai non produce nemmeno più letteratura elevata (Spaziani), ma si va a delineare entro un termine assai mellifluo come “posticcio”.

Ora, finito il preludio, vi chiedo, cortesemente, di rimuovere ogni parola da me scritta, poiché Pozzoni di coraggio ne ha da vendere- e come ben si può dedurre- agl’egemoni questo coraggio fa male, troppo male: ergo gli egemoni sono costretti a respingerlo, sia dal punto vista critico, sia dal punto di vista poetico: ma pare proprio che con Pozzoni la critica militante si stia rigenerando.

In poche parole: Pozzoni ha ben compreso che la posizione della poetica d’avanguardia novecentista è infattibile, inattuabile e da uno sberleffo assolutamente ingenuo del poeta marxista Ennio Abate, che lo definì “neon-avanguardista”, termine che Ivan invece adotta con non poco apprezzamento, per l’indignazione del Compagno Abate. Andando per le spicce, ha compreso cosa significa «liquidità sociale»: e in aggiunta, Linguaglossa ci va ad accostare un appellativo che agli egemoni fa accapponare la pelle: «Guastatore».

Mi sembra necessario però delineare dove si posiziona la poesia di Ivan: la poesia di Ivan è “chorastica”, non è un poeta delle strade e non vuole esserlo, ma non è nemmeno nella chiusura ermetica: potremmo collocarlo nella Linea Di Minor Resistenza- Linea però portata ad un estremo di sarcasmo, ironia, umorismo: si potrebbe, invero, dire che la poesia di Pozzoni non conosce il termine Giusto Mezzo, poiché non esiste attualmente, e anzi è impossibile che l’uomo sia nel giusto mezzo, poiché forse è del tutto inconcepibile: d’altronde in una società in cui tutto è portato all’esasperazione, all’estremo, la poesia ed ogni forma d’arte non possono fare altro che muoversi all’estremo, e ciò Pozzoni l’ha compreso. Ma per comprendere meglio la poetica di Pozzoni, aggiungo qui una sua poesia,
Marinetti non l’avrebbe mai scritto:

Brutto volto

emil nolde

emil nolde

 

 

 

 

 

 

 

(dialogo tra un manager e una studentessa universitaria in discoteca)

Ciao, come va? È tutta la sera che ti osservo
Ciao, zio! Mica sarai un Baldocci o un Babbaluga, eh?
Guardo solo te!
Perché mi lumi? Starai mica a broccolarmi?
Sei una bellissima ragazza.
Grazie, zio. Ce l’ha una geografica per una bomba?
Dobbiamo invadere l’Albania?
Non mi far sclerare, abbiamo finito la gangia, e non ci sono Majabba nei dintorni! C’hai neuri, dai? Non fare il T-rex!
Per farsi una canna, non ho money: non concepisco chi si droga.
Zio, mi perplimi. Mica sarai un robboso? Sei afef?
Al massimo Tronchetti Provera! Dai, non sono noioso.
No, non sei un asciugone, né un fonzie. Pure tu m’attizzi! Non sei un Sancarlino! Sei un aristofreak? My sister dice che scrivi libri.
Grazie, sono un ragazzo normale. Sì,sono un artista.
Bella, frate. Mi fai andare in sciambola. Sclero! Sai scapersare?
No, non suono, non scrivo musica. Scrivo versi.
Menomale ke non sei una melo checca…Sei proprio un O.G.M! Come ti citofoni?
Boh, di norma scendo in strada, suono, e ricorro in casa. Non è sempre facile ritrovarmi.
Che disease! Mi fai morire, o, se non altro, non mi fai sminchiare come i ragazzi della mia età. Preferisco i ragazzi maturi, come te.
Comunque mi chiamo Ivan.
Bello, mi piace abbestia? Hai un fazzollo?
Tieni.
Grazie. Come vivi?
Sono responsabile in un’azienda di distribuzione organizzata. Tu?
Uni, che sbatta! Sono alle pezze, sempre a studiare. Interessi: non sei un fungo!
Se fossi un fungo, sarei un Cortinarius, velenosissimo.
Bastard Inside! Ti bevi un ape?
L’ultima volta che ho bevuto un’ape mi hanno ricoverato in ospedale.
Ddddaiiii, non fare il babbo di pezza! Non sono una figa di legno.
Sei una che va subito al dunque?
Antisgamo.
Con te ci andrei al dunque.
Henk! Che bazza…Mi sa che vuoi solo bombare! Come sei messo a Caronte? Ihihih
Sono in grado di traghettare te e tutte le tue amiche…
Smettila di garlare. Non fare il grozzo!
Scusami, hai ragione.
Sempre a pensare a inzaccare, voi maschi. Camomillati, o mi tocca asfaltarti! Non è che concedo il frisby al primo che incontro.
In tutti i casi, se la concedi, te la rilanciano.
Sei troppo scemo, simpa! Non ti voglio scagliare! Ti va di ribeccarci, magari, un puntello, non, così, damblee…
Sì, ho voglia di rivederti. Magari un chinese, un cinemino?
Dobra! Ci sto dentro. Sgamiamoci domani: lasciami il numero di cella. Hey! Dove ho messo la cella? ‘spetta, non imbruttirti!
Più brutto di così, non riesco, anche impegnandomi.
Sono in chiusura, zio, non ti seguo. Oh, non mi rimbalzare, squilliamoci.
Certo: ti chiamo. Ma non sarai mica fidanzata?
Zibra! Zero al quoto! Poi che cambia?
Eh, che cambia?! Sei troppo fuori. Domani è Ferragosto, è tutto chiuso.
Fregatene: ci vediamo al bancomat, e magari ci archiviamo a letto. Cia’, zio.
Ciao, bella. Continua a leggere

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POESIE EROTICHE EDITE E INEDITE di Alfredo De Palchi, Antonella Zagaroli, Antonio Sagredo, Giuseppina Di Leo

 Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50x100-vernice-effetto-pennellate

Roy Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50×100-vernice-effetto-pennellate

Alfredo De Palchi

L’originalità e l’indipendenza in campo poetico di Alfredo de Palchi (nato nel 1926) sono da tempo accertate. Come poeta italiano che vive negli Stati Uniti da più di cinquanta anni, che continua a scrivere esclusivamente in italiano, e le cui opere sono state in buona parte tradotte in inglese, de Palchi emerge per i suoi tersi e tesi versi svolti con sintattica audacia, per i salti semantici (ciò che richiama il concetto di Josif Brodskij di poesia che “accelera il pensiero”), e per l’auto-analisi mai sentimentale, con tonalità che vanno dal sarcasmo alla glorificazione dell’Eros. Gli argomenti poetici l’autore li trae dalla propria esperienza, e ciò vale in particolare per la produzione giovanile, che evoca il ragazzo povero e orfano del padre, le sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale e l’ingiusta carcerazione subita nel dopoguerra. Negli anni successivi, de Palchi lascia alle spalle le sofferenze del tempo di guerra, e volge invece lo sguardo al rapporto uomo-donna, esaltando il piacere sessuale. Si interessa anche alla scienza, in particolare alla biologia e alla geologia. Il modo preciso e nel contempo idiosincratico con cui il poeta introduce la scienza nella sua visione tragica del comportamento dell’uomo e in genere della condizione umana, già da solo lo distingue da altri poeti europei e americani suoi contemporanei. La produzione recente mette in scena la lotta del poeta con una figura che sembra rappresentare la morte. Una ricca scelta dell’opera poetica di Alfredo de Palchi con testo a fronte si trova in: Paradigm: New and Selected Poems 1947-2009 (Chelsea Editions, 2013), tradotto in italiano con il titolo Paradigma: tutte le poesie 1947-2005 (Mimesis / Hebenon, 2006) e Foemina Tellus (Joker, 2010). Si veda anche la raccolta di saggi Una vita scommessa in poesia: Omaggio ad Alfredo di Palchi (edita da Luigi Fontanella, Gradiva Publications, 2011).

(John Taylor)

 La sensualité c'est la mobilisation maximale des sens  on observe l'autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

La sensualité c’est la mobilisation maximale des sens on observe l’autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

Giuseppe Panetta, secondo la mia lunga esperienza in merito all’amore erotico, conosce in dettagli le parti femminili più concentriche e sensibili che spaziano il corpo. Complimenti, se le insegue come le spiega, ma erotismo è molto di più del mero meccanismo. È ciò mi porta a dire di aver letto Giorgio Baffo nel 1972, due volumi in edizione di lusso numerata di Longanesi (1971). Troppa stessa mercanzia: tete mona culo. Non feci che ridere leggendo il mio dialetto. Dopo pagine e pagine di variazioni non dissimili e di frettoloso normale consumo maschile chiusi la lettura. La noia smise il divertimento del mio ridere. Non c‘èra altro, almeno per me molto ma molto eroticamente ammaestrato maestro così considerato dalle poche donne amate. E come il poeta è, natura, altrettanto la persona erotica è, natura. Non si diventa. Chi la pensa diversamente si spieghi. Intanto, senza presunta umiltà o modestia, presento tre editi personali ispirati a 74 anni per dimostrare che erotismo non è quello di Giorgio Baffo.

(Alfredo De Palchi)

*

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi

La chiarezza delle acque mi rigenera
puro nel fiume che dalla cima del tuo corpo
sorge a zampilli a gorghi a rivoli veloci,
ramificandosi in tributary di pendii e di braccia
che crocifissi in attesa;
e nel suo letto di ciottoli sabbie e curve ti leviga
le mammelle a fioriture di gigli acquatici,
cedevoli nella piana acquifera che freme fino alle anche scarne,
arrivando a estuare spalancato all’ambra
delle tue riviere imponenti –– l’Adige
è il tuo corpo sinuosamente asciutto, potente
vortice che accoglie la mia bocca di sete.

(Gennaio 2000)

*
Potessi scatenarti nella camicia da notte I fianchi prensili
con la lontananza che si espande a un tuo universo
di allergie e di capelli seralmente selvatici––sai,
voglio sedurti con la mente
centrata sul triangolo vivacemente muschiato
che mi aspira dentro la costellazione nera;
sono il fiato che scotta il taglio rosso
la verticalità vertiginosa; sono la lingua
che flessibilmente accede per le cosce guizzanti
come carpe nel fondale di melma dove fa luce la fica,
per le gambe che si disegnano ad arco
scendendo ai piedi intensi di febbre.
Potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo distante
l’entusiasmo, e ancora leccarti là
e là, fino a bocca sazia o consumata.

(Gennaio 2000)

*

Mi
immedesimo in te, cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana––la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo il vino
“bevete, questo è il mio sangue”.
Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino––simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;
e tu inchioda sulla stessa croce il mio amore
per le sue carni maestose.

(Inediti, 11 giugno 2000)

 

La segretaria

La segretaria

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli, poetessa, scrittrice, con qualche incursione nella critica, è presente in diverse antologie di poesia contemporanea italiane, francesi, inglesi, americane. Ha pubblicato La maschera della Gioconda, Terre d’anima, La volpe blu, Serrata a ventaglio, il romanzo in versi Venere Minima, un’antologia tratta da alcune sue opere tradotta in inglese Mindskin A selection of poems 1985-2010 – Chelsea Editions New York, 2011; due testi teatrali rappresentati Il Re dei danzatori, Come filigrana scomposta – racconto d’amore tango e poesia e in collaborazione con fotografi e pittori le raccolte La nostra Jera, Trasparenze in vista di forma e le Istallazioni poetiche in mostra da Settembre-Dicembre 2012 a Pienza. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook. Come traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (rivista Hebenon aprile-novembre 2010) e la plaquette One Columbus leap, Il balzo di Colombo della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (2012), Hosanna- Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense. Specializzata in Poetry Therapy (USA), dal 1995 scrive articoli e testi specialistici sul senso psicologico dell’arte.

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

da Serrata a ventaglio Onyx, Roma 2004

Sono stanca
di notte nell’hotel
fra la carta che non letta fa vapore,
ti cerco oltre il silenzio
non voglio credere alla tua assenza
cammino perché la voce non arriva.

*

Avvicinati amore mio,
rivestimi di chiaro.
Al mio letto tremante avvicina l’orecchio,
nelle tue pupille libera me.
Scomponi la tua voce nel giorno che trafigge,
avvicina le mani alla mia tempesta.

*

da Venere Minima Rupe Mutevole, Bedonia, Parma, 2009

1
Il pastore ferma ogni suono.
Avvolta da ghirlande d’acero
una cerbiatta forte, minuta
si stampa a sinistra della sorgente.
Si volta.
Si ferma.
Lo raggiunge.
Si rannicchia ai suoi piedi.
L’uomo è affascinato, confuso
dalla stranezza del delicato incontro,
gli scivolano dalle labbra
parole sconosciute:
“La luce della Luna sorge lenta all’alto colle
con frastuono biancodorato:
cervi, grilli, merli, scoiattoli accompagnano
la Musa delle mie gambe
colomba, farfalla gialla e nera
Aperegina solitaria”
La lingua della cerbiatta
comincia a sfiorargli i piedi
si libera una pioggia improvvisa
profumata di grano.
Pacificato dall’ imprevista cura
chiude gli occhi.
Si apre all’umida carezza
dalle caviglie e su, su, su, su.
Anche lui arriva all’erba,
nel punto argentato dalla luna.
L’animale poggia la testa
fra le gambe.
Il vento vibra più forte
il pastore apre le palpebre,
nel riflesso delle foglie
la figura accanto è più imponente.
La sensualità di lei
lo rivela fragile, nudo
nonostante la forza.
Si concede alla calma.
Vicini e simili
in uno stesso aroma di mirra
si assopiscono
sfiorando guance, ciglia.

*

Nelle ore scure
il silenzio e l’acqua
attenuano l’identità agli odori.
E’ la Luna il punto più alto d’essere.

Selene laura-antonelli-in-malizia

laura antonelli nel film Malizia

*

All’alba la cerbiatta si schiude
solleva le zampe posteriori
le anteriori,
ritta si deterge il dorso.
Immobile. Sguardo
al maestoso ulivo, si avvia
in direzione del rivolo dissentante.
Fra liane di menta e verbena
la sua lingua si distende
a fiore di loto. Beve.
Sorseggia ancora, si guarda intorno
quasi volando è dal compagno.
Rinfresca il suo torace
i fianchi
l’inguine
le cosce, i polpacci turgidi.
Eccitato già nel sonno
si sveglia l’uomo. Vulnerabile
all’alitare di lei
nella completa nudità,
si siede, si lascia accudire.
Si sente posseduto dalla grazia.
Poi il desiderio di accarezzare
diventa suo.
Sulla schiena
intorno alle narici
vicino agli orecchi
lento, sulla pancia.
Con fremiti dal dorso
l’accoglie l’animale,
da quel turbamento
sale la follia per l’unicità con lei
Comincia a baciarla teneramente.
Le labbra, piccolissime,
non s’arrestano più.
L’animale ha lievi sussulti, si scosta
delicatamente, a passi lenti,
l’Ancella della Luna
si nasconde
nel bianco dei meli in fiore.

L’uomo Toro
T: Inseguire quel dorso di delfino
che lascia emergere i fianchi,
che magnifico perlaceo animale!
D: E’ il delfino sacro della dea
suo nobile famiglio
suo messaggero nel mare.
(…)
T: Ho visto una donna dal viso bello
ti ho pensata,
ho visto due donne dai fianchi belli
e ti ho desiderata
ho visto una ragazza dai seni minuti
e ho sete di te (…).
Spero che la corona dei miei denti
sia trapassata dallo scarlatto al blu,
dalla ferita sanguinosa del morso al solco della memoria (…)
Verginità e martirio l’odore del sangue!
D: C’è la mareggiata
creste bianche si rincorrono impazzite,
il vento e il sole ne sono inorgogliti
la spuma lenisce le ferite
sulle labbra interne ed esterne.
T: L’odore del mare arriva qui,
solleva la marea degli istinti primordiali.
D: Immaginali nella calma assoluta!
La stessa dell’attimo in cui mi volto,
m’apro, ti circondo con la vagina (…)
Ecco, la tua essenza!
Spinge dall’osso sacro, eleva la spina dorsale.
Seduta ho il senso della presenza (…).
T: Che perfetta misura dentro la cavità…delle mie mani!
Che cerchio perfetto intorno al centro,
il mio centro eretto e profondo! (…)
China la testa sul ceppo.
Solleva i fianchi.
Ricevimi sottomessa
dentro la porta stretta che conduce al centro tuo.
(…)
D: Mi lasci sempre meno segni visibili all’esterno.
Le curve del corpo mi specchiano terra rigogliosa,
liquido di placenta per l’anima (…).
Buona giornata dall’arco alla sua freccia
dal paesaggio all’occhio che lo guarda
dai fianchi alla cima
dal mare al suo amorevole leviatano.
(…)
T: Ti amo, ti voglio presto, subito.
Vorrei che il mio seme piovesse sulle tue labbra
insieme alla pioggia fuori della finestra.(…)
Vorrei essere Chirone che ti bacia e ti monta.
D: Io vorrei essere scovata, ammansita,
fatta scivolare, custodita.
(…)
T: Sono in viaggio con te
dentro le bianche vele delle lenzuola
dove l’iride guarda il proprio colore
dove l’antinomia e la tautologia sono la stessa cosa,
come il maschio e la femmina.
D: Veleggio sul ponte, l’attraverso per raggiungerti (…).
E’ notte. Ho bevuto vino.
Ho cosparso olio sul corpo.
Immersa nell’acqua odorosa
il vestito è il crepitio del bagnoschiuma.
Mi allontano da te.
Le tue parole non titilleranno
nulla più. Forse mi vedrai toccandoti.(…)
So che non mi dirai chi sono.
Attenderanno invano i commenti che le preparavano
le natiche mie espansive.
Fa troppo caldo in questa vasca!
Inspiro il mio sudore, immagino il tuo sperma.
Con la matita sto facendo un gioco pericoloso,
un gioco per nutrire il desiderio, per ingoiare il desiderio.

*

(la poesia)
Glutei sulla pagina
Si inarcano neri e bianchi
Flessuose frescure
Un artiglio di fuoco
dalla mente affanna il respiro
turbine per il possesso delle nascoste labbra.
Il fremito impaurito sfiora i confini tumidi
si concentra l’umore chiaro, arriva
dentro curve di gioiosa bellezza.

 

diabolik-eva-kant

Roy Lichtenstein diabolik-eva-kant

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo. Dicono che sia nato nel Salento decine di anni fa… a pochi chilometri da Giulio Cesare Vanini (a cui ha dedicato un poema mirabile), da Carmelo Be-ne e Eugenio Barba; il primo lo frequentò con discrezione somma, e gli dedicò versi immortali. Fu frequentatore assiduo di quei teatri d’avanguardia romani e non, di cui conobbe autori e attori; recitò in due spettacoli teatrali: nei drammi lirici del poeta russo Aleksandr Blok e in uno spettacolo del poeta praghese Vitězslav Nezval, che inneggiava ai progressi della scienza della comunicazione. Sagredo studiò e visse a Praga calpestando gli acciottolati insieme ai poeti praghesi e a Keplero. I suoi primi componimenti, a 14 anni, in un vagone di terza classe (seppe tempo dopo che Pasternak e Machado viaggiavano nella stessa classe, componendo); distrusse i primi versi, i secondi e seguirono altre rovine; trovò un impiego di ripiego per nascondersi; poi raggiunse una forma inclassificabile tendente al sublime che gli permette di vivere di eredità auto-postuma. Un amico poeta spagnolo, M. Martinez Forega, lo spinse a pubblicare due piccole raccolte di poesia a Zaragoza: Tortugas (Lola edito-rial, 1992) e Poemas (Lola editorial Zaragoza, 2001); sulle riviste: Malvis (n. 1) e Turia (n. 17). Poi nulla più, fino a che da New York, la scorsa estate, gli giunse una proposta di pubblicazione con Chelsea Editions.

antonio sagredo teatro abaco1971 skomorochi (4)

Roy Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50×100-vernice-effetto-pennellate

 

 

Se cristiano è il mio passo
la mia mente è Oriente,
ma la carne è bestia di Giovanni.
Pròvati a sposare la corazza
e il lucido suono
e avrai il gelo di un’orbita
per stornare lo sguardo.
Benedetti i voli della mia verga:
radici di tutto il mio corpo.
Le tue labbra sfasciano l’udito
e il canale che io guardo circospetto.
La mia mente ha dita palmate,
lecco il tuo sudario rosa,
ma l’occhio è gravido di ratti.
Crepa, cenere!
Squamati, lingua!
Ah, giro intorno ai tuoi massicci,
ai ghiacciai… e invasioni… erosioni!
Tu incedi sul mio prepuzio
dal cielo della tua magica clitoride.
La rotazione si nutre d’acredini.
La bava geme dalle bende funebri:
l’ombra è fedele al suo corteo.
Circumnavigare i lutti, distratto dalla vita.
Rinuncio all’oscurità: pudore è incubo,
acrimonia della gioia, unghia del prisma.
Angelo della mia carne ho carne d’angelo,
lividi sono gli occhi, brillano i tuoi avanzi!
C’è un calco di uno stupro – sull’ossidiana!
No, è vena d’alabastro!
Mi dicono: stagioni! Non comprendo.
Benedetto il silenzio della violenza,
demente il cammino di Don Giovanni.
Ombra, ti dono una torcia di contrade!
È oscena la pietà d’amare:
ventaglio di pudori, di spirali.
Dimmi, nella carne è l’unico perdono?
È lo sperma che t’accusa, t’acceca e ti trasmuta.
C’è un sudario di merletti, di trine
e… archetti… suoni… ossari… io… io
sono il fedele in un concerto di dubbi!
Ah, la gioia corvina dei morti,
cecchini della linfa, boia delle radici!

(Inedito, Roma, 12-13 agosto 1990)

 

bello Helmut Newton sfilata di nudi

Roy Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50×100-vernice-effetto-pennellate

Giuseppina Di Leo

Giuseppina Di Leo. Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959, sono laureata in Lettere; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Mie poesie, un racconto e interventi di critica letteraria sono ospitati su libri e riviste (Proa Italia, Poeti e Poesia, Limina Mentis Editore, Incroci), nonché su blog e siti dedicati alla poesia.

 

giuseppina di leo

giuseppina di leo

 

 

 

 

 

 

 

 

(Ispirata ad una poesia di E. A.)

Nell’inquadro delle mani
la faccia di pietra posso vederla
saprò anch’io di che natura è fatta
se piange, se sorride o se la ferita
agli occhi resta più o meno simile
nella ripetuta alternanza dei tratti
di un comune mortale, indispettito e solo.
Il solco nella mano richiama la via
aperta da una crepa lungo la casa
si inerpica sulla barriera del muro.
Oltre gli sguardi
corpi adolescenti trovano riparo
tra carezze confuse di fumaria
il sesso turgido reclama
il fiore schiude ali come labbra.

(Inedita)

.

[Leggo parole]

Leggo parole come qualcosa d’altro
valori in crisi interiore, scelta esistenziale
mentre
vorrei essere sognata
nelle anche esplorata
la casa tornata alla mente, la lingua amata.

Sto.

Continuo la lettura a volume pazzesco
si sprigiona “il malinteso” (siamo al cap. 10).
Come ora, anche stanotte
parlavo durante il sonno. Lo so perché sognavo
come adesso sogno
il sogno che, leggendo, non vedevo.

(da Con l’inchiostro rosso, Sentieri Meridiani Edizioni, 2012)

 

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DIECI POESIE di Mario Santagostini da “Felicità senza soggetto”(2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Mario Sironi periferie

Mario Sironi periferie

Mario Santagostini è nato a Milano, dove ha sempre vissuto, nel 1951. Fra le sue raccolte di poesie ricordiamo: Uscire di Città (1972, 2012) Come rosata linea (1981), L’Olimpiade del ’40 (1994), L’idea del bene (2001), Versi del malanimo (2007). Ha inoltre scritto il saggio Manuale del poeta (1988).

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Milano Mario Sironi paesagio urbano

Commento di Giorgio Linguaglossa

Ut «pictura poesis», dicevano gli antichi pagani. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Questo semplice assunto ci porta dentro la problematica di che cosa debba raffigurare una poesia. Ecco il punto. Ed è molto semplice la risposta. La poesia deve adottare il punto di vista della pittura, deve raffigurare l’oggetto come se esso fosse un oggetto da dipingere linguisticamente, con le risorse della Lingua. Per alcune ragioni storiche che non sto qui a sintetizzare, la poesia italiana del secondo Novecento ha perduto questo concetto rimanendo impaniata nello pseudo concetto di “meta-poesia”, cioè di un discorso fatto su un altro discorso…(il che sarebbe un bene a patto che ci sia un discorso che precede o a latere). E così via all’infinito la poesia si è amputata le proprie possibilità espressive riducendosi ad un discorso di secondo grado, e poi di terzo grado e così via… ma era (ed è) una falsa strada che non conduce in alcun luogo e che perde di vista l’orizzonte di senso e l’obiettivo dell’oggetto del «che cosa dire in poesia», che è necessariamente diverso dal «che cosa dire in prosa».

Czeslaw Milosz ha scritto: «Certe scene dei film di Fellini e di Antonioni sembrano la traduzione di una poesia, spesso di una poesia di Eliot: basti citare la stanza dell’intellettuale ne “la Dolce Vita” di Fellini, che sembra tratta dal “Canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (In the room the women come and go / Talking of Michelangelo); e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema…».

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Ho visto di recente il film di Martone sul “Giovane favoloso” Giacomo Leopardi. Bene ha fatto il regista a tradurre la poesia di Leopardi in immagini filmiche. Non poteva fare diversamente. Ma è vero anche il contrario, si può tradurre una immagine flimica o fotografica in poesia, basta essere consapevoli dell’operazione che si sta facendo.

Ecco, io ritengo che la poesia di oggi possa ricominciare appunto dalle immagini dei film, della fotografia, delle immagini mentali, della pittura etc. Perché ha perso il bandolo del senso, il «che cosa fare e dire» in poesia e mediante la poesia, che è cosa diversa dal «che cosa fare e dire» in prosa.

E questo è probabilmente il modo migliore per riallacciarci alla più alta tradizione della poesia europea degli anni Venti e a quella del tardo Novecento Europeo. Oggi che il Modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di Esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del Modernismo. Il Modernismo, era il prodotto di un mondo (occidentale) di stati nazionali in competizione e in disfacimento e aveva accompagnato quel mondo alle tre guerre mondiali. Quel Modernismo oggi non ha più alcuna validità dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale tra continenti con economie interdipendenti in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle metropoli dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, diffusa, invisibile. Ben venga dunque anche una poesia della normalità (apparente), purché si abbia consapevolezza che quella normalità è finta, fittizia, ideologicamente locataria della ideologia totalitaria dell’omologismo.

mario sironi paesaggio urbano 1921

mario sironi paesaggio urbano 1921

Poiché avevo un dubbio, ho trascritto in prosa, per i lettori, (cioè senza l’a-capo), le prime sei composizioni di Santagostini, e mi sono accorto che funzionano meglio in prosa che in forma-poesia. Il che, in sé, non vuole essere una osservazione limitativa. La resa in prosa forse aggiunge e non toglie nulla alla resa in forma-poesia.

da Mario Santagostini Felicità senza soggetto Specchio Mondadori, 2014

L’ex comunista

Sono tornato a Cinisiello,
una domenica afosa.
Un motocarro scoperto portava via un cane.
Questa è stata zona operaia.
E io ero, come tanti, comunista.
E pensavo a un avvenire
senza il lavoro, a quando i corpi
ci sarebbero serviti a poco,
quasi a niente. Sono
arrivato a chiedermi di cosa è fatto
un corpo, se merita
soltanto la vita, o già altro.

[Sono tornato a Cinisiello, una domenica afosa. Un motocarro scoperto portava via un cane. Questa è stata zona operaia. E io ero, come tanti, comunista. E pensavo a un avvenire senza il lavoro, a quando i corpi ci sarebbero serviti a poco, quasi a niente. Sono arrivato a chiedermi di cosa è fatto un corpo, se merita soltanto la vita, o già altro].

.
Arietta

Ci si ritrovava al bar
all’aperto tra la Breda e via Metauro.
Chi giocava al pallone
contro il muro, o stanava serpi,
o andava per cicute
tra le rotaie dismesse e senza traversine.
Provato come tutti dalla noia
una specie di reduce
esibiva il suo mancinismo
smodato, mi diceva – Tu,
che farai almeno
un miracolo, prima di morire.

[Ci si ritrovava al bar all’aperto tra la Breda e via Metauro. Chi giocava al pallone contro il muro, o stanava serpi, o andava per cicute tra le rotaie dismesse e senza traversine. Provato come tutti dalla noia una specie di reduce esibiva il suo mancinismo smodato, mi diceva – Tu, che farai almeno un miracolo, prima di morire].

.
(Pascoli, in prima persona)

E c’erano i colloqui
uomo-rondine,
uomo e rondine e anche te, tuono.
Quando ci racconti
che la scala di Giacobbe
non portava alla lotta con l’Angelo,
ma con le tempeste.
O fai che il volo di due tortore
sia basso, da insetti.

[E c’erano i colloqui uomo-rondine, uomo e rondine e anche te, tuono. Quando ci racconti che la scala di Giacobbe non portava alla lotta con ’Angelo, ma con le tempeste. O fai che il volo di due tortore sia basso, da insetti].

mario santagostini copertina

 

Coda

E come sarà il primo gabbiano
in volo sulle discariche?
Forse, una creatura
ignobile, e attratta dal pattume.
Ma disposta a tutto,
pur di raspare qualcosa.
L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani
dai becchi ferrati.
Eppure, rimanevano in aria.

[E come sarà il primo gabbiano in volo sulle discariche? Forse, una creatura ignobile, e attratta dal pattume. Ma disposta a tutto, pur di raspare qualcosa. L’amatissimo Ovidio vedeva gabbiani dai becchi ferrati. Eppure, rimanevano in aria].

.
Arietta delle vespe

Era già luglio, ma qualcuno
riusciva ancora
a sentire gli ultimi temporali di aprile, come
solo le vespe sanno fare
(specie quando si riposava nel pergolato,
ci sentivamo vespe).
Quel qualcuno era Pascoli.
Però che errore, il suo,
il continuare credere ai morti.
Io ho smesso da anni.
Ma quell’uomo beveva.

[Era già luglio, ma qualcuno riusciva ancora a sentire gli ultimi temporali di aprile, come solo le vespe sanno fare (specie quando si riposava nel pergolato, ci sentivamo vespe). Quel qualcuno era Pascoli. Però che errore, il suo, il continuare credere ai morti. Io ho smesso da anni. Ma quell’uomo beveva].

mario santagostini

mario santagostini

Io

Seduto al bar di viale Sarca,
guardavo il giovane cercare un passaggio
verso la camionabile,
dei muti al tavolino quando
si scambiavano segni, e uno diceva
– tra non molto, anche qui.
Gli altri assentivano.
E intorno, solo delle mosche.
Mi sono chiesto se c’è qualcosa
di meglio che essere vivo.

[ Seduto al bar di viale Sarca, guardavo il giovane cercare un passaggio verso la camionabile, dei muti al tavolino quando si scambiavano segni, e uno diceva
– tra non molto, anche qui. Gli altri assentivano. E intorno, solo delle mosche. Mi sono chiesto se c’è qualcosa di meglio che essere vivo].

.
Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel ’63

C’è chi ha già rubato
tutto il rame del tram ridotto
a carcassa smetallizzata.
Certo, non dovrebbe mai succedere,
però è così. Amen.
Intorno, la passione per quanto
è dismesso ha toccato
l’apice. Si sente che nemmeno
la materia ama finire.
E delegherebbe me a farlo, se potesse.
O l’intera massa umana.

Mario Sironi paesaggio urbano

Mario Sironi paesaggio urbano

Io, nel 1970. Premessa

Era il ’60, qualcuno
parlava di sterminate domeniche.
L’Olona non era stata
ricoperta. Si sentivano le radio
da argine a argine.
L’odore dell’acqua oleosa di benzina
arrivava fino ad uno, due isolati
più lontano. Anche allora, vapori d’agosto nei cortili.
Pensavo: non amo me stesso,
amo questi anni,
la loro felicità senza soggetto.

.

.

(Io, nel 1970)

Ieri, lunedì, sono arrivato
a piedi oltre il dazio,
e ho camminato lungo il Seveso.
C’erano delle vanesse
dal volo sghembo e raso dopo due tuoni in fila.
Ho pensato che le pietre
sanno fare a meno della vita.
Mi chiedo fino a quando.
Forse, il mondo esiste solo
per dare loro la parola, un giorno.

.

(Nuovi versi del malanimo)

L’aria è povera d’ozono,
buona solo per i grilli.
Animali sciatti, e in fuga da tutto.
Hanno il loro mondo:
che se lo tengono stretto.
Certo, qui una volta si creava,
poi si è passati al vivere.
Adesso, aspettiamo.

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TRE POEMETTI di Milan Nápravník da “Il nido del buio” “Ruggine di sangue”, “Samovar siamese”, “All’imbrunire”, traduzione dal ceco di Antonio Parente

Foto Bronislava Nijinska by Man Ray, 1922; November 1922Milan Nápravník Il nido del buio traduzione dal ceco di Antonio Parente Mimesis Hebenon, 2009 pp. 124 € 13

   MILAN NÁPRAVNÍK nasce in Cecoslovacchia nel 1931 e da circa quarant’anni vive in Germania. Conseguita a Praga la maturità scientifica, lavorò per un anno nelle miniere d’oro di Jílové, vicino Praga, dopo essere stato etichettato, essendo uno studente appassionato di jazz, come un “ammiratore dello stile di vita americano”. Dal 1952 al 1957 studiò drammaturgia alla Facoltà di Studi cinematografici dell’Accademia delle arti performative di Praga. Dopo tre anni di lavori provvisori, nel 1960 iniziò a lavorare alla Televisione cecoslovacca come direttore artistico della redazione per le Trasmissioni per bambini e ragazzi. Dalla seconda metà degli anni 1950 collaborò con il Gruppo surrealista di Praga, la cui attività non fu immune da intrichi perpetrati dalla polizia segreta e i cui tentativi di  esporre o pubblicare le proprie opere furono ostacolati dai divieti delle Autorità. Fece il suo debutto letterario nel 1966 con la raccolta Básně, návěstí a pohyby (Poesie, avvisi e movenze), pubblicata privatamente e in numero limitato nell’edizione Speciálky dal pittore František Muzika.  Emigrò dopo l’occupazione sovietica del 1968, dapprima a Berlino occidentale per alcuni mesi e successivamente a Parigi. Dal 1970 si è stabilito definitivamente a Colonia. Duranti gli anni dell’esilio, lavorò prima come redattore radiofonico e successivamente, dalla metà degli anni 1980, come pittore, scultore e fotografo artistico freelance.

Praga

Praga

Nel 1977 ha scoperto l’originale metodo fotografico dell’inversaggio: “l’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche” di una struttura naturale (cortecce, pietre, ecc.). Nel 1978 organizzò a Bochum, in Germania, un’ampia mostra internazionale dell’arte surrealista e immaginativa, Imaginace (Immaginazione). Ha soggiornato più volte per lunghi periodi in Indonesia, dove ha portato avanti studi etnografici sulle isole Borneo (Kalimantan), Giava, Sulawesi, Bali e Nuova Guinea (Irian Jaja). Ha scritto varie opere poetiche, dalle quali è possibile tracciare lo sviluppo della sua arte, a partire dagli esperimenti linguistici, che sottolineano il carattere emozionale dell’espressione e dell’attività poetiche, fino alla poetica plasmata dalla contemplazione, che registra il movimento della realtà interiore. Quello che al momento è possibile considerare  il culmine dell’opera di Nápravník, l’opus magnum Příznaky pouště (Deserte visioni, 2001), è una vasta parabola sul minaccioso stato della civiltà contemporanea; contro il nostro mondo inquinato e sovrappopolato, contro l’aggressività e le tendenze distruttive, si pone il flusso iettatorio di pensieri e immagini della vita interiore, – “l’assiduo tentativo del narratore di conservare desideri, speranze, amore e immaginazione,  ‘e di non lasciare che alle nostre spalle le vie dei nostri desideri si coprano d’erba’ (A. Breton) e ciò nonostante tutto il pessimismo di Nápravník.” (rivista Tvar, aprile 2002). È autore anche di vari studi e saggi teorici. Negli anni 1990, suscitarono grande interesse alcuni suoi saggi dove metteva a frutto lo studio sistematico pluriennale nel campo della storia delle religioni.

(Antonio Parente)

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Milan Napravnik

Milan Napravnik

RUGGINE DI SANGUE

Nebbie autunnali sfumano nelle vallate di ogni supplica
Soffi di vento schivo si spargono in baratri d’erba
E solo le canne d’india si raddrizzano
Quando sentono la parola forse
Oppure la parola spero
La realtà però nel frattempo si è ammantata di brina
E una lontana risata che frana dai monti
Sul granito dei rupi rocciosi si frange in grida
Che si accrescono nel vento degli echi come cellule maligne
in metastasi d’impotenza

Persino la roccia clastica di errori e proprie limitazioni
È capace di sanguinare
Sospesa sul proprio essere su rugginosi ganci di dolore
Il suo capo stanco pieno di domande che sobbalzano confusamente
fa cenni indecisi su tutti i lati
Non è chiaro se si tratti di un’espressione di assenso o di disaccordo
Invano ricorda il posto al caldo nell’incrinatura del contesto
Dove una volta inalava l’odore dei cespi di spigo
E osservava le eleganti movenze della mantide religiosa
Che ricambiava il suo sguardo con ostentose simpatie
Come può dimostrare soltanto una serva sanitaria
alla lampante sfortuna
Del resto la sua ingordigia risanata sa bene
Ciò che si è indebolito e non può null’altro che ruggine
Chiunque fissi è condannato a morte

Il primo gelo porta il romantico bestiame dai monti
Verso la valle della realtà
Sfuggenti profezie che strisciano tra le rovine del convento
I cui abitanti sembra si fossero un tempo sterminati da soli
mordendosi a vicenda i peni
E questo dimenticato anfratto dei Pirenei
Dove fortunatamente non porta più nessun cammino
Percepisce il loro mormorio funesto
Come un magico ologramma per lo stoccaggio di quanti
di orrore contrattato

Mentre il vento autunnale lo barcolla di speranza in speranza
Mentre le arterie coronariche sono costrette dal gelo
Questo fantasma si aggira coi ganci tra le costole
Con le pietre delle illusioni nello stomaco
E con in pugno i cristalli di ghiaccio del proprio seme
Accecato dal dolore
E schiacciato dal peso di propositi derisi
Come incarnazione di uno stupido Minotauro
Nell’infinita spirale della poesia
Che ingorda continua a divorare i propri figli

Sì è un poeta
Lo certificano centinaia di pedate
Che ha incassato direttamente in faccia
Alcuni coltelli alle spalle
E le profonde ferite per le frustate di derisione
Poiché ha peccato contro il pio e sensato alternarsi
dei giorni e delle notti
Dei giorni zeppi di proficuo lavoro
Della lotta per il potere
E della costruzione di argini contro la paura archetipica
di un’esistenza senza ripe
Poiché cocciutamente sostiene che all’irrazionalità del desiderio
Di libertà e amore
Si deve in ogni circostanza sacrificare
qualsiasi razionalità di arricchimento

È una torbida mattina di un settembre macchiato
Una giornata di pallida lama
Dall’ancor caldo giaciglio si diffonde l’aroma della notte vegliata
Il lenzuolo è coperto di spine di rosa sanguinanti
Oltre la finestra imbrunisce
E la colonna della pallida cella
È coperta dall’edera immune dell’implacabile disprezzo

Milan Napravnik Il nido del buio
SAMOVAR SIAMESE

Mentre vagabonda per il mercato
Dalle tasche bucate gli scorrono zolle di silenzio
Scruta le crudeli palle d’oro
E le collane di diamanti di pretzel appesi al filo
della magia nera
La vecchietta in cappotto che vende mobili Luigi XIV
Frammenti di macchinette
Lunghi sipari di facezie
Curvi bilancieri iridescenti tubi degli obblighi e un coltello patrizio
Poi stringe la mano al venditore di baccani
E si ferma davanti alla mostra di specchi scannatori
Dall’amico Jean-Louis Bedouin uomo dal vino amaro
E dal carattere forte
Armadi di umorismo schietto e di rabbia creativa
Je n’écris rien au cours de douze ans! urla
con disperata alterigia
Je n’ai pas perdu l’usage de mom sens!

Mon sens
Si fa strada nel labirinto di cerchi veneziani
E dà una scorsa a libri di autori ignoti
che immolarono ai propri scritti tutto il loro sangue
S’incurva di cordoglio per l’eccedenza di chiavi
Per la brillantezza delle lucerne delle barche
Per le scatole di fotografie brunite di sconosciuti bruniti
Palpeggiate consunte e ingiallite
Per i documenti di bruniti destini e speranze
Che ancor oggi vanno a fargli visita in sogno
Qui si trovano anche schiere di cent’occhi di bottiglie più disparate
Mare di spezie
Lacrime di strumenti d’ottone per conciare i palmi
E casse e riviste opache che ricordano i tempi di una volta

Non ha ancora fame ma già lo stuzzicano con crauti e senape
Qui c’è anche una credenza stile impero del diciannovesimo secolo
E un antico cassettone su cui posò la mano Mirabeau
Alcuni abiti difettati
Un calamaio di stagno e un frac piomboso
Le grezzi reti di bimbi sgomenti accecati dalle curve
Che sottraggono la lesina
Scogli d’intralcio lame di morti muraglie agglomerate
E profezie
Che lo illudono che incontrerà una donna
Con la quale potrebbe fondersi per dar vita ad una creatura androgena
Senza dover per questo perderla
Soltanto astiose profezie che simulano grandine dorata
Astiosa sfera dell’impossibile

Certo
Tutto è solo ciarpame
Le grezze scodelle per il male hanno migliaia di anni
Così come i ciottoli di agata
Lo zolfo postumo dei sogni
Dune di morte e vento nel non lontano cimetière de Batignolles
dove riposa il siderale André Breton
La curva del girasole
Che segue la luce della Luna da sud a nord
Il cratere della solitudine nel bel mezzo di monti forestieri
Pietra-stella
L’oro del tempo
L’istinto sovversivo dei geni creativi
L’acciaio degli spari
L’infinita preghiera della poesia all’infinita indifferenza dell’essere

Che farne delle angosce che nessuno vuole?
Non si può pagare qualcosa in più affinché qualcuno le porti via da lui
Non le si possono regalare a meno che il regalo non debba somigliare ad un assassinio
Non ci si può far strada da vedenti attraverso i vicoli ciechi
Alla fine del cimitero compra la statua spezzata del figlio
Veritiera solo perché
È senza testa

milan napravnik cop

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa

Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà

Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio

Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra

Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

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DODICI POESIE EROTICHE di Giorgio Baffo (1694-1768) scelte da Giorgio Linguaglossa Commento di Gian Franco Torcellan

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

 da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 5 (1963)

Commento di Gian Franco Torcellan

Giorgio Baffo, ultimo rappresentante di una modesta famiglia del patriziato veneziano detto di toga, nasce a Venezia da Giannandrea e da Chiara Querini il 1° agosto 1694, Venezia il 1° agosto 1694, e muore nel 1768.  Baffo aveva dinanzi a sé, dopo aver trascorsa la giovinezza non brillante tra noiosi precettori ed aridi studi scolastici, una vita monotona e tranquilla da impiegare in una lenta carriera in quelle magistrature giudiziarie che il governo della Serenissima tradizionalmente riserbava al suo ceto. Un solo vistoso precedente d’anormalità, ma perso ormai nella leggenda e nella notte dei tempi, aveva rotto la pacifica vicenda della famiglia: quello d’una bellissima fanciulla della casata, Cecilia, caduta in mano al Barbarossa a Paro divenuta prima schiava e poi favorita potentissima del sultano Selîm II, vicenda che il B. ricordò in cinque sonetti con compiaciuta ammirazione.

Ma una singolare dualità si fece presto evidente nella vita del patrizio. Della sua prima e più scontata esistenza, quella di patrizio di second’ordine senza ambizione di carriera politica né possibilità di successo in tale campo, poco sappiamo perché poco rilievo essa ebbe. Passò attraverso le varie magistrature giudiziarie con immutabile assenteismo, funzionario, possiamo crederlo, di normale levatura in quei non felici tempi per la classe dirigente aristocratica. Un solo dettaglio, che più acutamente contrasta con il carattere più noto della sua personalità: possedeva un tatto squisito nel parlare e nel trattare, una pudibonda reticenza nel dire. Nel 1737 aveva condotto in matrimonio una nobile giovane di casa Sagredo, Cecilia: e il loro connubio non diede luogo a pettegolezzi di alcun genere nella pur fertile città lagunare. Quando la morte lo colse, nel 1768, era stato chiamato a far parte di un’importante carica della Giustizia veneta, la Quarantìa criminale.

Venezia erotico-boucherUna seconda personalità, un uomo diverso ed opposto viveva e s’agitava però dietro questa monotona e impassibile attività ufficiale. V’era il poeta e il pornografo, un verseggiatore instancabile di sconcezze che con frenetica attività riempiva i suoi fogli e li andava diffondendo, come lo ritraeva un attento confidente degli Inquisitori di Stato, per gli ambienti facili della città, in una Venezia popolata di perditempo, di patrizi e non patrizi inclini all’ozio, di stranieri ansiosi di conoscere le curiosità locali. Attività furtiva quanto feconda, tacita quanto diffusa; nulla raggiungeva la pericolosa dignità della carta stampata, ma penne infaticabili e interessate moltiplicavano su fogli volanti le oscene arguzie uscite dalla fantasia del Baffo.

La sua fama in tal campo s’era talmente diffusa, e con tanta fortuna, che il Labia se ne lagnava pubblicamente in alcuni suoi duri versi come ulteriore prova della corruzione dei costumi; e, secondo alcuni, il Baretti s’era indotto a venir a Venezia a farvi stampar la sua Frusta nella fiducia che la censura non avrebbe minacciato i suoi scritti in una città che sopportava e lasciava indisturbati gli sconci componimenti d’una tale musa: persuasione, com’è noto, assai fallace, onde il piemontese replicò poi con più che giustificata ironia sul conto del patrizio. La sola sortita in pubblico del B. fu un intervento nella battaglia tra seguaci del Goldoni e difensori del Chiari in campo teatrale: e si schierò con questi ultimi in un’epistola martelliana di critica al Filosofo inglese, ma senza acredine né spirito di parte, ammiratore di intrecci complicati e vistosi e d’emotive trame quanto insofferente delle commedie di carattere o moraleggianti; e fu pronto poi ad ammirare il Goldoni della Sposa persiana, “piena d’accidenti”, con “gran bei caratteri, e tutti concludenti”.

Un giudizio complessivo sul poeta si poté dare solo dopo la morte, quando il veto del B. non poté più impedire una stampa, sia pur clandestina, delle sue composizioni: dopo una prima raccolta in un volume uscita nel 1771, si ebbe l’edizione completa in quattro volumi, stampati a Venezia nel 1789 con la falsa datazione da Cosmopoli.

particolare dei volti

particolare dei volti

Dedicati “Ai omeni e alle donne morbinose, / A quelli veramente, che le cose / I varda per el verso che xe bon“, queste poesie, scritte tutte nel più puro dialetto veneziano, trattano una sola materia, tranne poche e parziali eccezioni, l’unico argomento che abbia in tanti anni ispirato la musa del B.: l’amore sessuale. Una sorta di persecuzione, d’opprimente mania erotica, aveva tormentato con prepotente tenacia la fantasia del patrizio veneziano traducendosi in lunghe pagine di laide canzoni, di osceni sonetti e madrigali. Il soliloquio ossessionante e monotono, la disperata insistenza su questo unico e squallido tema dell’amore carnale non possono soltanto spiegarsi in relazione all’ambiente in cui il B. visse, né, tanto meno, con la vita tediosa e monotona cui la carriera giudiziaria lo aveva costretto, ma finiscono per rivelarsi come l’esasperazione di un triste caso personale.

Certo la poesia sessuale del B. nasce da una squallida indifferenza di fronte al valore delle più elementari idealità che bene s’accorda con certo disperato scetticismo pullulante nella Venezia del tempo: ma gli estremi della musa del patrizio sono fine a se stessi, effetto di una realtà che può semplicemente identificarsi con la tormentata psicologia dello scrittore.

Giorgio Baffo

Un superficiale fondo filosofico il B. intese mettere alla base dell’ostinata tetraggine della sua tematica, disponendo le sue composizioni in un certo ordine logico nei quattro volumi, allucinante biografia della vita dei poeta, e per i suoi versi gloriandosi d’una settecentesca aspirazione alla verità di natura, attribuendosi i lauri di assertore della tolleranza quale cantore dell’amore carnale che supera e livella ogni dissenso filosofico, e, infine, identificando nell’attrazione sessuale il principio primo che spiegava le origini dell’umana società. Uomo non digiuno di cultura e ben al corrente di letture illuministiche, caricava di lodi l'”Elvezio Parigin filosofon“, raggruppava buona parte delle poesie, quelle degli ultimi anni della sua vita, attorno ad una tematica filosofica che nel sesso ravvisava la soluzione dei massimi problemi umani e si sforzava di dare all’atto sessuale una dignità di rito religioso assimilandolo in via di simbolizzazione a non dimenticate religioni solari.

venezia 5

Per il B. va rifiutata la tante volte sbandierata “venezianità”, ché nulla possiamo riconoscergli di autentica testimonianza storica, o pur solo di costume, nella sua oscena idealizzazione di Venezia “città di piaceri“, uno dei primi documenti di quella superficiale mitizzazione della Serenissima settecentesca che preludeva alla mistificazione retorica d’un’intera civiltà. Lo stesso dialetto perde la sua ricchezza e la sua spontanea inventività nella immutabile oscenità delle rime e delle parole obbligate, e diventa puro formulario. Gli va solo riconosciuto un ingegno notevole di verseggiatore dialettale; artefice coscienzioso, confessava la sua paradossale cura e preoccupazione per cesellare le sue poesie e rinnovare continuamente il repertorio (“Me lambico el cervelo zorno e note / Per far soneti grassi e butirosi, / Per divertir le done e i so’ morosi“), e in talune occasioni egli seppe anche dare alla propria penna la felicità inventiva del poeta autentico, come in una canzone “Per una proposta di matrimonio” o in altra “Per el primo dì de quaresima”. Eccezioni, e pur esse parziali per la ricorrente trivialità del linguaggio, in un panorama morbosamente uniforme, cui non seppero aggiungere varietà di tono composizioni satiriche contro frati e monache, sonetti acerbissimi contro papa Rezzonico e manierate critiche di costume.

venezia ballo

Opere: Le poesie del B., come s’è detto, uscirono per la prima volta in un volumetto dal titolo Le poesie di G. B., patrizio veneto, s. l. 1771, di cui una “nuova edizione” uscì con la data di Londra (probabilmente falsa) nel 1789. In quell’anno veniva pubblicata a Venezia, con l’indicazione di Cosmopoli, la Raccolta universale delle opere di G. B., in quattro volumi, destinata a rimanere l’edizione principale e fondamentale. Soltanto verso la fine dell’Ottocento la fama del poeta pornografo veniva rinfrescata dalla lussuosa edizione delle Poésies complètes de G. B. en dialecte vénitien, litteralement traduites pour la première fois, avec le texte en regard, uscita a Parigi in cento esemplari a cura di I. Liseux nel 1884, in quattro volumi, con la traduzione di Alcide Bonneau, che s’era dato cura di includere anche qualche inedito. Della stessa epoca, probabilmente, una ristampa delle Opere complete, apparsa in Italia con la datazione da Alessandria e senza indicazione di anno, in quattro volumi, e che teneva dietro all’altra Raccolta completa delle opere in due volumi, uscita nel 1866 con l’indicazione di Costantinopoli come città di stampa. La semiclandestinità ha sempre giovato a certi successi: e si può dire che il B. abbia raggiunto la sua gloria letteraria quando Guillaume Apollinaire incluse una scelta delle sue poesie e un dotto saggio introduttivo con accurata bibliografia in un volume de L’œuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris 1910 (L’œuvre du patricien de Venise G. B.). Per la storia della fortuna del B. vanno ancora citate Le poesie. Sonetti faceti e canzoni in dialetto veneziano, ristampa dell’edizione del 1771 uscita a Catania nel 1930, e l’opuscolo Poesie veneziane sulla commedia “Il filosofo inglese” rappresentata nel 1754, che Federico Berchet pubblicò a Venezia nel 1861 includendovi l’inedita epistola martelliana del B. cui si è accennato.

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Fonti e Bibl.: Testimonianze contemporanee sono in C. Goldoni, Opere, a cura di G. Ortolani, I, Milano 1935, p. 1008; V, ibid. 1941, pp. 263-64, 933, 1358, 1360, 1401; IX, ibid. 1950, p. 1333; XIII, ibid. 1955, pp. 201-13, 969; XIV, ibid. 1956, p. 788; G. Baretti, La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, II, Bari 1932, p. 279 (num. del 1° apr. 1765); Agenti segreti veneziani nel ‘700, a cura di G. Comisso, Milano 1945, pp. 98-100; J. Casanova, Histoire de ma vie, ed. integrale, t. I, Wiesbaden-Paris 1960, passim, e in partic. p. 9,dove lo ricordava con affetto per i benefici ricevuti ancor fanciullo e lo diceva “sublime génie, poète dans le plus lubrique de tous les genres, mais grand et unique“. Accanto a qualche scarno cenno biografico, come in G. Moschini, Della letteratura veneziana del sec. XVIII, II, Venezia 1806, pp. 152-53, o nella voce, dovuta al Ginguené, della Biographie universelle, III, Paris 1811, p. 209, troviamo la ristampa di qualche poesia e il riconoscimento delle qualità di poeta dialettale nella Raccolta di poesie in dialetto veneziano d’ogni secolo, Venezia 1845, pp. 89-93, 507, e ogni tanto l’impennata critica, positiva o negativa, quale fu quella di G. Ferrari, Saggio sulla poesia popolare in Italia, in Opuscoli politici e letterari, Capolago 1852, pp. 494-96 (l’articolo era uscito in origine in francese nel 1839-40 nella Revue des deux mondes). Cfr. inoltre Nouvelle biographie universelle, IV, Paris 1853, col. 148; G. Dandolo, La caduta della repubblica di Venezia e i suoi ultimi cinquant’anni, Venezia 1855, pp. 90 s.; C. v. Wurzbach, Biographisches lexicon…, I, Wien 1856, p. 122; E. Castelnuovo, Della poesia vernacola veneziana, in Nuova antologia, 16 apr. 1883, p. 613; V. Malamani, I costumi di Venezia nel sec. XVIII studiati nei poeti satirici, in Riv. stor. ital.,II (1885), pp. 45, 66; R. Barbiera, Poesie veneziane scelte ed illustrate, Firenze 1886, pp. XXIV s. XL, 21-29; V. Malamani, Il Settecento a Venezia, I, La satira del costume,Torino 1891, passim; A. C. Dall’Acqua, Venezia e i suoi poeti dialettali del Settecento, Mantova 1910, passim.

Venezia Settecento, dilaga il gusto del travestimento le dame amano celarsi dietro velette e ventagli, le signore aristocratiche arricchiscono il guardaroba

Venezia Settecento, dilaga il gusto del travestimento le dame amano celarsi dietro velette e ventagli, le signore aristocratiche arricchiscono il guardaroba

Nello stesso anno Apollinaire, nel volume che s’è detto, riprendeva in chiave compiaciuta la definizione del B. come “poeta di orgie” data dal Ferrari giudicandolo “le plus grand poète priapique qui ait jamais existé et en même temps l’un des poètes le plus lyriques du XVIIIe siècle” e assimilandolo alla sua torbida definizione di Venezia come “ville amphibie, cité humide, sexe femelle de l’Europe”; A. Pilot, Antologia della lirica veneziana dal ‘500 ai nostri giorni, Venezia 1913, pp. 19, 151-60, 92 s; C. Musatti, G.B. e la “Sposa persiana”, in Riv. teatrale ital., XIII (1914), pp. 328 ss.; L. Pagano, Poeti dialettali veneti del Settecento, Venezia 1915, pp. 44-52, passim; F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del sec. XIX, Venezia 1916, p. 436; Venezia nel canto de’ suoi poeti, scelti e illustrati da R. Barbiera, Milano 1925, pp. XIII, XVII, 22-28; p. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Bergamo 1926, pp. 86, 168, 279, 389; A. Pilot, G.B., in Encicl. Ital.,V,Milano-Roma 1930, p. 842; V. Lee, Il settecento in Italia, Napoli 1932, p. 310; G. Baretti, Epistolario, a cura di L. Piccioni, II, Bari 1936 p. 162; G. Natali, Il Settecento, Milano 1944: pp. 613, 641; M. Dazzi, Il fiore della lirica veneziana, II, Venezia 1956, pp. 213-41, cui dobbiamo la più convincente sistemazione critica del B. ed anche una scelta un po’ più coraggiosa dei suoi componimenti; Diz.letterario Bompiani, Autori, I, Milano 1956, p. 153; Opere, V, Milano 1948, p. 609 (a cura di C. Cordiè); G. Damerini, Casanova a Venezia dopo il primo esilio, Torino 1957, p. 291; B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, 2 ediz., a cura di N. Vianello, Venezia-Roma 1959, passim.

venezia 4

Sulla facciata di Palazzo Bellavite, in Campo San Maurizio, si trovano due targhe che ricordano il soggiorno di due personaggi importanti: Alessandro Manzoni e Giorgio Baffo. Entrambi poeti ma di diversa ispirazione. La famiglia Baffo giunse a Venezia nell’anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297, contribuì alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell’isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:

De povertà fè voto e castitae,
e po’ ve volè tior tutt’i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.

Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. “Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso… Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v’era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co’ suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio“.
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:

Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.

I suoi versi nascevano dall’osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:

Amigo vol contarve in t’un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.

Bordone Paris , Ritratto di cortigiana

Bordone Paris , Ritratto di cortigiana

Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell’infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita. Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un’unica figlia. L’unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l’unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:

Pur a mi la me tocca de sta’ fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l’ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.

Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno. Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.

(Fonte: M.C. Bizio)

part di cortigiana

part di cortigiana

Dialogo “Tra omo e donna, che fotte”

Dame la Mona. Oh! Dìo, zà vegno dentro,
Zà me par de morir, debotto sboro,
Che dolcezza in sborar,che gran contento,
Questa è la volta che sborrando moro.
Felice mi ghe digo a sto momento,
Tenir el Cazzo in Potta al mio tesoro,
Ma oh! Dìo che sboro ancora, e za me sento
morir dal gran piacer: Mona t’adoro.
Ma zà el cazzo me tira:oh! Dio no posso…
Vegno dentro, oh! che gusto ,oh! che sollazzo.
Dame le tette, Za te son addosso.
Tiote quel che ti vuol, no me n’impazzo
Pur che ti spenzi quel to Osello grosso.
Sì, Cara, zà ho sbora’ con tutto el Cazzo

.

Sora la mona

La Donna gà ’na cosa tanto bona,
Che tutti la vorrìa, tutti la brama,
Co tanti varj nomi la se chiama,
Ma ’l più bello de tutti xe la Mona.

Oh! Come ben sto nome in bocca sona;
A solo nominarla el cuor s’infiama,
Questo fà, che la Donna tanto s’ama,
E che dell’Omo la se fà parona.

La gà rason, se la la tien sì stretta,
E come una reliquia ben coverta,
Perchè la xe una cosa benedetta.

E quei, che la vuol veder descoverta,
O che i voggia toccarghe la Sfesetta,
Bisogna, che i ghe fazza la so offerta

venezia 2

I vantaggi della mona

Gran beni, che la Mona al Mondo fà,
Ella cava la fame ai affamai,
Ella veste quelli, che xe despogiai,
E alloggio ai pellegrini ella ghe dà.

Con certo liquoretto, che la gà,
Ella cava la sè a chi è arsirai,
Ella consola tutti i appassionai,
E la ghe dà salute all’ammalà.

Me stupisse, che tante gran nazion,
E trà l’altre i Egizj zente dotta,
Abbia bù per le bestie devozion;

I hà adorà sin la Rana, e la Marmotta,
El Cazzo ancora hà bù le adorazion,
E mai gnessun no gà adorà la Potta.

.
Me tira el Cazzo

Me tira el Cazzo, che ’l me và in malora,
Me pizza la capella, e più no posso,
L’è duro, come un ferro, come un osso,
Adesso el se corrompe, adesso el sbora.

Deh! cara vita mia, cara Signora,
Leveme vìa sea malatia da dosso,
Tastè co ’l scotta, vardè co l’è rosso,
Palpè, che la lussuria và per sora.

Slarghè le gambe, e quel Monin da latte
Sporzeme, caro ben, sulla spondetta,
Lassè, che metta un deo trà le culatte.

Oh! Mona cara, siestu benedetta,
Care ste culattine, e chi l’hà fatte,
Cara Potta, ben mio, ti xe pur stretta

venezia saper leggere, scrivere ed intrattenere con il proprio savoir fairie Le cortigiane  dovevano essere affascinanti, colte in molte discipline, dalla musica alle lettere, dalla danza alla politica

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

Gnente meggio del fottere

Fottemo pur, fottemo allegramente,
Che del fotter no ghè cosa più bona,
Troveme un liogo meggio della Mona,
Nol ghè per Dio, che diga pur la zente.

Le nostre voggie no xe mai contente,
Se vorrìa co xe dì, che fusse nona,
Ma, co se xe a cavallo d’una Dona,
Voggia de desmontar mai no se sente.

In fatti, se l’Osello no molasse,
No ghe sarìa gnessun de volontà,
Che fora della Mona lo cavasse;

Perchè ’l se cava in quanto el s’hà molà,
Che per altro, se sempre duro el stasse,
Mai nol se cavarìa fora de là.

.
El regalo più caro alle donne

Caro Cazzo, che in fondo della panza
Ti xe là fatto, che ti par un palo,
Che se una Donna te vien a cavalo
Ti me deventi un Paladin de Franza.

D’ordinario ti gà la bell’usanza
De dormir su i cogioni, e farghe ’l calo,
Ma se d’un Cul te vien fatto regalo
Ti salti sù con tutta la baldanza.

De zuccaro ti è fatto, come un pan,
E le Donne te crede un donativo,
E ’l più bon, che se possa darghe in man;

Co le vuol, de sto gusto no le privo,
Ghe ’l dago ancuo piuttosto, che doman
E ghe ’l dago per bocca, o in lavativo.

.
El corpo più glorioso

Oh! Caro Cazzo duro,
Siben, che ti stà al scuro,
Ti è el corpo più glorioso
Del Mondo universal.

Ti è quel, che hà fatto i Santi,
I Papa, i Re, i birbanti,
Ti è quello, che hà distinto
Con leggi el ben dal mal.

nudo di cortigiana?

nudo di cortigiana?

 

 

 

 

 

 

 

Come, che a mi me piase assae la Mona

Come, che a mi me piase assae la Mona;
Cussì al Procurator ghe piase el Corno;
Mi sempre studio per andar in Mona,
E lù el so studio xe d’aver el Corno.

Mi sempre vorrìa star col Cazzo in Mona,
E lù sempre vorrave aver el Corno;
Mi spendo tutti i bezzi per la Mona,
E lù li spende tutti per el Corno,

Tutti semo in passion, mi per la Mona,
E ’l Sior Procurator xe per el Corno;
La diferenza sta da Corno a Mona:

Ma supponemo, che lù gabbia el Corno,
E che mi, da cogion, sia drento in Mona;
Chi stà meggio? chi è in Mona, o chi gà el corno?

 

Bontà d’una villana

Sull’erba una Villana zovenotta
Ho trovà sola un zorno, che dormiva;
Quando ho capìo, che gnente la sentiva,
E mi bel bello toccheghe la Potta.

La s’hà svegià, la xe restada in botta
Vedendome, che in man gavea la piva,
La dise, cosa xe sta robba viva,
E mi ghe digo, un Cazzo, che ve fotta.

No la fà brutto a sto parlar el muso,
E mi tiò l’occasion, che la me dona,
E tireghe le corrole ben suso;

Co ho visto, che la xe una bona Dona,
Che la se mette colla panza in suso,
E mi senz’altro mettighelo in Mona.

Venezia

 

 

 

 

 

 

Oh! Mona in frà le cose delicate

Oh! Mona in frà le cose delicate
Vera delizia della stirpe umana,
Ti de Cazzi ti xe la Tramontana,
Ti de sto nostro Ciel la via del late;

E vù Bardasse, che fè da puttana,
Petteve el vostro bus sulle Culate,
Oppur deghelo a nolo a qualche Frate;
Che ’l ve refila sù la cascia in cana,

Per mi fina, che vivo, e infin, che posso;
Voggio sempre per Dio fotter in Mona;
S’anca credesse de morirghe addosso;

Anzi, se posso mai, Dio me ’l perdona,
In vece sul Sagrà de farme un fosso,
Me voi far sepelir in t’una Mona

.
Accidente fortunato

Son stà in Mona jer sera allegramente
Con errata corrige originale una, che mai più l’ho praticada,
Ma senti l’occasion, come l’è stada,
Che no l’aveva gnanca per la mente.

Vedo un muso al balcon mezzo ridente,
Che me fà d’occhio; Oh! se no fusse in strada,
Ghe digo, ve darave una chiavada,
Ma ghe lo digo appian, che gnessun sente.

Bisogna, che la Mona ghe tirasse,
La m’hà averto la porta in t’un momento,
Nè mi ho aspettà, ch’Ella me invidasse.

Go issà su le carpette, come un vento,
E per paura, che la me scampasse,
Senza spuazza ghe l’ho messo drento

venezia 3

 

 

 

 

 

Sbaglio dalla mona al culo

Ho volsudo chiavar un dì a passin
Una certa Bettina Castellana,
L’ho vista in casa in tempo de Caldana;
Che la giera in camisa, e in sottanin.

Fin, che le Tette gò toccà un tantin
Se m’hà ’l Cazzo indurìo, come una cana,
Quà l’ho tratta sul letto a mo puttana
Col Culo in sù, che giera grasso, e fin.

Dopo gò dito, senti, cara Betta,
Mi addesso coll’Osel te vegno sora,
Sporzime ben la Mona, che tel metta;

Ma in pè, ch’in Mona in Cul l’ho messo; allora
La s’hà taccà a zigar, ti falli, aspetta,
Ti me xe in cul…., ma non importa, sbora

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UNA POESIA di Antonella Zagaroli: Apologia della libertà,  Flavio Almerighi: Considerazioni finali sulla riforma urgente che non si farà, Sandra Evangelisti: Il Signor Cogito (risposta a Zbigniew Herbert), sul tema POESIE SU PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI 

 

POESIE SU PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli  è nata a Roma e vive nella campagna romana. Dopo la plaquette La Maschera della Gioconda pubblicata nel 1986, nel 1988 ha pubblicato un testo comprendente tre diversi poemi sempre col titolo La Maschera della Gioconda (pref. Walter Pedullà) Crocetti. Nel 1992 viene rappresentato il poema Il re dei Danzatori. Nel 1996 pubblica Terre d’Anima (pref. Achille Serrao) Libroitaliano editrice Internazionale, Ragusa. Nel 2002 esce la prima raccolta di racconti e prose poetiche La volpe blu. A gennaio 2005 Stefano Giovanardi presenta il lavoro poetico Serrata a ventaglio – Onyx edizioni Roma -.Del febbraio 2007 è il saggio e reportage poetico in India Quadernetto Dalìt – Rupe mutevole edizioni (Bedonia – Parma), poi tradotto e pubblicato in lingua inglese a dicembre 2007 anche con la sceneggiatura teatrale Storia di un amore argentino. Nel 2009 esce Venere Minima. Nel 2011 è uscita un’antologia tratta da alcune sue opere tradotta in inglese Mindskin A selection of poems 1985-2010 – Chelsea Editions New York, 2011; nel 2012 sempre in collaborazione con la fotografa Mariangela Rasi Trasparenze in vista di forma (Libraria Padovana Editrice). Come traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (rivista Hebenon aprile-novembre 2010) e la plaquette One Columbus leapIl balzo di Colombo della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (2012), Hosanna- Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense (2014).

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

da Apologia della libertà – Rupe mutevole (2009)

(…)
La telecamera si avvicina
lentamente al letto bianco
al quaderno col risvolto nero.

Terzultima pagina

Cosa c’è nel regno dei morti
là dove si delinea l’appartenenza all’opera muta?
Un corteo di note accennate, volti sfumati?
Dentro lo scoppio luminoso dell’ultimo salto
il nome tuo muta per frammenti?

(A una donna suicida mai conosciuta
gennaio 1999)

Guardate oggi è il mio turno.
Non esisto più.
Finalmente mi libero da ogni guardiano.
Muoio al mondo senza suicidarmi
(non ho questo coraggio).
Non c’è più sesso nel mio corpo.
Sola, mi lascio toccare soltanto dal letto.
Abbasso le braccia.
Non sono riuscita ad essere un centro qualsiasi.
Ho fallito.

Ad occhi chiusi e nel letto disegno il futuro.
Per me non ci sarà il giorno.
Sta per finire anche la tortura dell’amor proprio.
Non scriverò a nessun amato di turno,
non ascolterò nessun ‘ti amo’.
Indegna per l’amore sono anche passata di moda.
Il lampo di vitalità è definitivamente offuscato.
Sto per tagliare il filo che tiene il capo retto.
Non sono stata sudiciume per nessuno
mi sono tenuta pulita!
Non sono stata interrata.
Non ho interrato alcun seme.
Adesso al buio il fremito mi prepara:
“cammina, cammina la principessa
va all’appuntamento
……………………………”
Grandi occhi semichiusi

Penultima pagina

Senza volontà cambio volto
divento un grande orecchio.
Rintocco di piume
Dilatazione di boccioli
Voce in fondo agli abissi
…………………………..

(….)
Rumori di traffico.

“-Alle prime gocce aveva aspettato con ansia le altre.
Il tempo era fermo o era la paura per l’arrivo dei colpi di lama?
Non lo seppe mai.
Perse il conto a causa delle lacrime che stillavano.insieme.”

Suono di ambulanza che si avvicina. Panoramica su un articolo:

-Dopo parecchi giorni un odore acre
ha destato i vicini di una casa in via………
hanno trovato un uomo in bagno
riverso davanti al water. Aveva tagli alle mani
e dentro gli occhi. Il sangue raggrumato
era mescolato alle ultime feci. –

“Qui voglio un’assordante colonna sonora
chitarre elettriche, voci che discutono, filastrocche.
Sullo schermo l’azione di una trebbiatrice
anni 50’ (in morphing sepia)
In sovrapposizione carrellata di sanguigne
con corpi nudi torturati.”

Lasciato solo, Ermafrodito misura la cadenza dell’episodio.

 

Flavio Almerighi

Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (Aletti, 2002), Amori al tempo del Nasdaq (Aletti 2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti)

flavio almerighi

flavio almerighi

 

Considerazioni finali sulla riforma urgente che non si farà (inedito)

Vorrei fare un comizio
anzi no, voglio fare un comizio.
Perorare una discussione molto accesa su tutti gli angeli caduti,
andati a morire in basso di morte bianca.
La morte bianca che cazzo è? Poesia inventata dai giornalisti?
Fare credere ai bambini che i morti sono ancora vivi,
e per questo incattiviti come diavoli perché dabbasso non c’è primavera?
No, non è onesto.
Lunghissima è la sera camminata tutta sugli spalti derelitti della fantasia vuota.
La città murata è uno scherzo di natura, orfana com’è di assalitori, significato strategico, difensori.
Sotto c’è una bocciofila per coppie mature.
I bambini vanno a letto presto per far finta di dormire, e quando fanno brutti sogni si girano verso il muro. Papà è fuori per lavoro e non tornerà più.
Un muro è sicurezza. Un muro è per sempre.
Una parete non ha impedito ai Cucchi, a tutti quei suicidi patologici come lui, di gettarsi per le scale. Vogliono rovinare addosso a tutti quei bei muri coperti di rampicanti, mentre dormono ancora sopra la coperta verde del gran fossato asciutto. Vogliono infestarci le coscienze,
ma io griderò a gran voce, voglio lasciarmi andare, indurmi in tentazione, fondare un partito.
Perché prima di me partito più bello non c’é mai stato.
Un dolce partito preso, un’acciuga di partito che vada bene per ogni mal di gola, e assicuri a quei poveri demoni di fonderia un futuro meno gramo.
Attento, se non sei buono, obbediente, viene il diavolo.Viene el can e ti porta via.
In piazza ci siamo tutti, siamo tanti, e la Sardegna sta entrando buon’ultima.
Un comizio che speranze offre? E’ libertà per un momento (cazzo quanti siamooo!), quando tutti la pensiamo uguale, e sappiamo che qualsiasi speranza è in esubero.
La compagna all’esodato non è mai sembrata tanto bella, nemmeno sulle mura di un convento a tenersi per mano verso il tramonto, protetti dagli zigomi alti e potenti di lei. Sarà per lo scherzo di un’estate semi infinita, belleciao, che nemmeno il vento riesce a portarsi via. Diamoci la speranza, compriamo fragole, facciamoci una cioccolata calda al primo bar che viene, tutto senza falsità, almeno durante il comizio. Niente fiori però, Bordighera è già sott’acqua.
Compagni, fratelli, lavoratori, partigiani, lei sì che era un angelo!
Da domani si torna a far le ore in fonderia come se niente sia stato, e lei a compilare bolle dallo sgabuzzino senza porte e tutto finestre.
Oggi c’è un’aria strana, libera, più libera che al mare.
Voglio fare un comizio, voglio essere ascoltato.
Quel boia di toscano di merda non può far finta che qui non sia successo niente.Invece…
I dissidenti coraggiosamente non usciranno dal partito, lo cambieranno da dentro, meglio un tetto sulla testa anche se l’affitto è caro assai. Ai precari inventerò qualcosa per la prossima giornata.
Diremo a tutti, ai quattro, agli otto, ai sedici venti
che per oggi tutto è stato estremamente bello. Anzi, mai stato così bello, e basta

 

stendardo imperiale giapponese

stendardo imperiale giapponese

Sandra Evangelisti

Sandra Evangelisti è nata nel 1964 a Forlì, città in cui vive e lavora. Dopo gli studi classici, si è laureata in Giurisprudenza. Ha pubblicato sei raccolte di poesie: Lascio al mio uomo, 2008, L’ora di mezzo, dicembre 2008, Intanto tutto procede, 2010, Diario minimo, 2011, Cuore contrappunto, 2012 e La dimora del tempo, 2014. È collaboratrice del portale di arte e letteratura internazionale “Lankelot”. Ha una pagina a lei dedicata sul sito “Italian Poetry”.

dal ciclo di Selene (inedito)

 

Il Signor Cogito (risposta a Zbigniew Herbert)

.
La logica non è il mio forte
(almeno quella binaria).
Sono una donna e penso,
ma non ho mai pensato davvero
che ciò che tocco sia come lo vedo.
Quello che vedo appare, ma è proprio così come si mostra?
Sì, certo, anche nell’epoca dei “quanti “
si può affermare che tutto ciò che è riproducibile
è reale (state attenti, riproducibile e non sperimentabile
come si diceva allora- è diverso).
Eppure se particelle uguali ma di carica opposta possono convivere
senza annullarsi , allora anche un’opposta dimensione può consistere con questa:
quello che non vediamo, quello che non tocchiamo.

Allora c’è l’opposto e il paradosso lo spiega.
Io sono perché sento, non solo perché penso, Signor Cogito.
Io sono particella di una corrente di vita universale
che in me partecipa ed è partecipata dal senziente, dal corpo materiale.
Allora ciò che penso conta poco, caro Signor pensante ,
perché partecipando di un’ energia che c’è
si fa fatica anche ad esser uno e ci si sente parte
di un mondo dove gli opposti coincidono.

Sono una madre: il paradosso mi conduce:
“Si guarda e non si vede: l’invisibile.
Si ascolta e non si sente: l’inudibile.
Si tocca e non si afferra: l’imprendibile.
Tre qualità inspiegabili
che, fuse, fanno l’unità.”*

Cui omnia unum sunt et omnia ad unum trahit et
omnia in uno videt potest stabilis esse et in Deo
pacificus permanere.
O veritas Deus, fac me unum tecum
in caritate perpetua.”**
“Ex uno Verbo omnia***
et unum loquuntur omnia,
et hoc est Principium…

*Lao Tzu, La regola Celeste, 14
**De Imitatione Christi, I,3
**De Imitatione Christi,I,3

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Carlo Diano: LA PROSPETTIVA ESTETICA, FORMA ED EVENTO, PRINCIPI PER UNA INTERPRETAZIONE DEL MONDO GRECO E DEL NOSTRO MONDO di Silvano Tagliagambe – “Due  modi di intendere il sillogismo”, “La «vexata quaestio» del presente”, L’evento”

 

Questo testo è parte della conferenza che il filosofo della scienza Silvano Tagliagambe ha tenuto nel 2012 a Vibo Valentia, nell’ambito del Certamen Classicum Carolo Diano Dicatum.
Dante Alighieri

Dante Alighieri

  1. Due modi di intendere il sillogismo

Quello che Carlo Diano ci propone con grande acume e profondità è un percorso filologico, un viaggio all’interno della letteratura e dell’arte del mondo greco che prende però avvio da un “problema tecnico di storia della filosofia greca, il problema del sillogismo degli Stoici nei suoi rapporti con quello di Aristotele[1].

Un problema filosofico, dunque, che ci pone subito di fronte alla necessità di liberarci da una visione ristretta della logica nell’ambito della filosofia greca che assuma, come sua espressione più autentica e come prodotto più significativo lasciatoci in eredità da quella grande tradizione culturale, il sillogismo di Aristotele, i cui termini enunciano concetti. Accanto a esso, infatti, c’è un altro modo di intendere il sillogismo, quello degli Stoici, appunto, i cui termini enunciano invece eventi, e che ha due forme, una ipotetica (“Se accade questo, accade quest’altro) e una disgiuntiva (“Domani si verificherà o non si verificherà questo specifico evento”). Una di queste due proposizioni deve essere vera: sin da ora, da sempre: o non esiste né il vero né il falso. Giacché il vero non è altro che il fatto, l’evento appunto, che accade o non accade. Tutto il resto, e il concetto in particolare, non ha realtà.

Dietro questa contrapposizione nel modo di intendere il sillogismo sta un problema di enorme portata teorica e ancora attualissimo, che Diano coglie con una lucidità e una capacità di sintesi stupefacenti: quello del tempo e del valore e del significato da attribuire alle tre dimensioni in cui si articola: passato, presente e futuro.

Venere particolare Botticelli

Venere particolare Botticelli

In Forma ed evento la questione viene immediatamente posta nei termini seguenti: dall’approccio degli Stoici segue “la dottrina che solo il presente è reale e che in ogni giudizio il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome.”

“Socrate è virtuoso equivale a: Socrate sta esercitando la sua virtù. Ed è per questo ch’essi dicono che la virtù è un corpo: perché dove è mai la virtù se non in questo Socrate qui che beve la cicuta? Ed ecco le loro famose e universalmente fraintese categorie. Primo è il soggetto: il puro e semplice «questo», che si indica, come essi dicono, col dito, e non ha altra determinazione che d’essere hic et nunc. Poi viene la qualità, che tiene il luogo della forma, ma sempre come qualità storica: l’esempio che essi vi danno è: Socrate! Terzo è il pV cein, il trovarsi in questa o quest’altra condizione particolare, e abbraccia tutto quello che per Aristotele ed Epicuro cade nella sfera dell’accidente. Quarta ed ultima categoria, in cui tutte le altre sono comprese, e nella quale sola esse diventano reali, la relazione, la categoria della realtà in atto, dove il qui coincide col tutto e l’ora col sempre, e che Crisippo paragonava alla volta. E dunque: questo Socrate qui, che sta discutendo con Callia: un evento! E questa è la realtà[1].

Venere statua copia romana

Venere statua copia romana

2  La «vexata quaestio» del presente

Il primo punto trattato nel passo al quale abbiamo appena fatto riferimento è lo spostamento del baricentro dell’attenzione, per quanto riguarda il tempo cronologico, sul presente, sull’«hic et nunc», assunto come unica realtà. Si tratta di una scelta non da poco, per un duplice motivo. In primo luogo per l’intrinseca labilità che sembra avere questa dimensione, testimoniata dalle immagini e dalle espressioni che usiamo quando parliamo del presente, dicendo, usualmente che esso “passa”, “scorre”, “fugge” o, addirittura, “vola”. In secondo luogo  per la difficoltà che il pensiero filosofico e scientifico in generale hanno di confrontarsi con l’esperienza fenomenologica immediata e con l’affermazione di «presenza» di una situazione, nonostante il fatto che essa sia di natura pubblica e appaia fondata su una condivisione di esperienza tra tutti i soggetti ‘presenti’ in comunicazione diretta.

Questa difficoltà è ben testimoniata dall’analisi della struttura nomologica della fisica, all’interno della quale la nozione di presente, se non intesa in senso pragmatico, è del tutto assente. Le leggi della fisica, infatti, non possono dipendere dal particolare istante di tempo in cui le consideriamo, né vale certo, come possibile confutazione di questo assunto, il riferimento alle condizioni iniziali, che, anche a voler prescindere dal fatto che, nell’ambito della cosmologia, non possono essere così chiaramente distinte dalle leggi di natura, dipendono solo dallo stato precedente del sistema fisico in esame, e non da uno specifico istante di tempo. L’omogeneità del tempo della fisica fa infatti sì che nessun istante possa essere privilegiato come unicamente esistente o distinto dagli altri.

Medusa Caravaggio

Medusa Caravaggio

Inoltre la fisica non si interessa dell’accadimento di un determinato evento, né guarda le cose dal punto di vista temporale associato a un insieme particolare di eventi, secondo una prospettiva, cioè, che renderebbe del tutto naturale affermare che, in quel particolare tempo, solo quegli eventi esistono. Nell’ambito di essa viene invece assunta un’esistenza di tipo più generico, intesa nel senso di esistere a un qualche (e non in un determinato) istante di tempo, corrispondente dunque a considerare le cose sub specie aeternitatis. In seguito a questa “variazione di significato” muta anche il concetto di realtà, che diventa l’insieme o la somma di tutti i punti di vista possibili, cioè di tutti gli eventi che esistono indipendentemente da quando accadono, nel senso che occupano una ben precisa regione dello spazio-tempo. Queste considerazioni valgono anche a proposito delle teorie della fisica relativistica: Infatti, come nota Pauri, “la mancanza di una nozione assoluta di simultaneità fa sì che, nell’universo post-einsteiniano, ogni partizione dello spazio-tempo in una regione globalmente futura e in una globalmente passata dipenda dalla velocità del sistema di riferimento, e in quanto tale, sia accidentale e non oggettiva. Senza far riferimento a eventi particolari, ogni partizione globale risulta dunque relativa a un osservatore inerziale, e proprio per questo motivo è opportuno assumere che ogni evento sia reale”[1].

E’ noto che la teoria della relatività ristretta, con il riferimento allo spaziotempo quadrimensionale di Minkowski, stabilisce l’inseparabilità di spazio e tempo, con conseguente impossibilità di porre un “ora” senza un “qui”. Entità fondamentale della teoria è il cono di luce, che rappresenta un elemento invariante della sua struttura matematica. Si tratta di due falde di un cono a quattro dimensioni, che per esigenze di visualizzazione viene rappresentato come due triangoli bidimensionali, che si incontrano in un vertice comune p, che indica il presente di un osservatore, e che si aprono l’uno nel passato e l’altro nel futuro di questo punto. La sua proprietà più importante è la seguente: ogni intorno di uno qualsiasi di questi punti p dello spazio-tempo di Minkowski viene diviso dal cono di luce in tre parti, che si chiamano futuro assoluto di p, passato assoluto di p, e regione di genere spazio rispetto a p. La differenza tra regione del genere tempo, costituita dalla somma del passato assoluto e del futuro assoluto di p, e quella di genere spazio, situata fuori delle due falde del cono, è che un punto qualsiasi di quest’ultima non sarà raggiungibile da un segnale luminoso e dunque (dato che nulla viaggia più velocemente della luce) da alcun segnale fisico, e si dirà perciò causalmente non connettibile con p. La prima è invece l’insieme dei punti causalmente connettibili con p: in particolare il passato assoluto di quest’ultimo è l’insieme delle sue possibili cause, ed è quindi prima di p, mentre il futuro assoluto di p è l’insieme dei suoi possibili effetti, ed è perciò dopo di esso. Abbiamo così una prospettiva che riduce le relazioni temporali a quelle causali.

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

Come osserva Dorato “la qualificazione ‘assoluto’ per il passato e il futuro di un qualsiasi punto non è frequentemente reperibile nella letteratura sulla relatività, ma è particolarmente appropriata per segnalare l’invarianza dei rapporti temporali tra p e un qualsiasi punto dentro le falde del cono. E’ importante ricordare che ‘assoluto’ in relatività ha vari sensi, e qui significa ‘indipendente da un sistema di riferimento’.  Data l’invarianza della velocità della luce (ovvero la sua indipendenza dal moto della sorgente) anche i rapporti temporali tra eventi che sono all’interno del cono di luce rimangono invariati per ogni osservatore, indipendentemente dal suo stato di moto e dunque dal sistema di riferimento inerziale che occupa[2].

picasso il_re_dei_minotauri 1958

picasso il_re_dei_minotauri 1958

In altre parole, se un evento r è prima di (o dopo) p per un osservatore, ed è quindi del genere tempo rispetto a p – ovvero è causalmente connettibile con p perché giace all’interno delle falde del cono centrato in p- allora tale giudizio temporale varrà in modo oggettivo per ogni osservatore inerziale dello spazio-tempo, indipendentemente dalla sua velocità […] E’ della massima importanza tenere presente che questa invarianza non si riscontra invece per eventi q che siano separati da p da un intervallo di genere spazio, e che si trovino perciò fuori del cono di luce di vertice p. Infatti esistono sistemi di riferimento inerziali in cui p è prima di q, altri in cui p è dopo q, e un sistema in cui p e q sono simultanei. Questa non-invarianza dei rapporti temporali tra eventi separati da intervalli di genere spazio conduce direttamente alle soglie dell’innovazione concettuale più significativa della relatività speciale”[3]. Si tratta, com’è noto, del fatto che, diversamente dalla meccanica newtoniana, questa teoria nega la simultaneità assoluta di due eventi nello spazio globale per cui viene a mancare anche un sistema di riferimento intrinsecamente privilegiato.

angeloPer spiegare le ragioni della difficoltà della descrizione fisica del mondo a confrontarsi con la dimensione dell’«hic et nunc» Pauri scandaglia le modalità attraverso le quali si è giunti, storicamente, a elaborare e a mettere a punto questa specifica descrizione. In particolare, egli punta l’attenzione su due aspetti: l’implicita metodologia della separazione del mondo in tre parti, e le altrettanto implicite approssimazioni fondanti, tra le quali rientra appunto quella del tempo fisico, che consentono l’idealizzazione degli oggetti fisici, sulla quale si innesta la loro matematizzazione e la conseguente costituzione di un modello che letteralmente rimpiazza gli oggetti reali.

Per quanto riguarda il primo aspetto viene sottolineato che, in questa descrizione, “è sempre, almeno implicitamente, presupposta la separazione del mondo in tre parti: una prima parte che possiamo definire propriamente come l’oggetto (o il sistema) fisico, una seconda parte che è l’osservatore (che sovente assume ambiguamente le specie simultanee di apparato di misura e di soggetto pragmatico che applica le procedure sperimentali ed elabora le strutture teoriche) e una terza parte che costituisce il resto del mondo. La variabilità delle relazioni fra quest’ultimo e l’oggetto fisico identifica la componente irriducibilmente contingente della descrizione fisica e viene formalizzata nelle cosiddette ‘condizioni iniziali o “al contorno’ del sistema in oggetto. La tripartizione consente la formulazione delle possibili variazioni temporali dell’oggetto (leggi fisiche) in connessione con la scelta di differenti relazioni con il resto del mondo”[4].

Le approssimazioni fondanti, che costituiscono un ulteriore e imprescindibile requisito per la formulazione delle leggi, sono costituite da quelle che Pauri chiama le condizioni galileiane, e cioè: “i) ripetibilità temporale indefinita dell’intero insieme di relazioni fra l’oggetto e il resto del mondo; ii) irrilevanza delle relazioni spaziali fra una conveniente regione, definita dall’oggetto stesso e il suo ambiente locale, e il resto del mondo. Tutte queste condizioni, che stabiliscono la distinzione fra discipline puramente empiriche e scienze sperimentali, implicano in particolare l’omogeneità spaziale e -soprattutto- l’omogeneità temporale, insieme alla possibilità di ripetere a piacere la richiesta separazione del mondo”[5].

Queste approssimazioni, per poter essere formulate e attivate, presuppongono, a loro volta, una sorta d’idealizzazione primaria, più profonda e fondamentale di esse, quella che sta alla base della definizione del tempo fisico. L’omogeneità temporale e l’individuazione della ricorrenza di stati fisici identici esigono, infatti, che siano soddisfatte due specifiche condizioni. “Innanzitutto la costituzione di un’opportuna procedura di approssimazione; in secondo luogo, una condizione cosmologica sul ‘resto del mondo’ che garantisca l’esistenza di subtotalità autonome, fisicamente quasi – isolate, tali da consentire – nei limiti dell’approssimazione costituita – il riconoscimento di una stabilità di ricorrenza temporale. Tali richieste, che sono anche pre-condizioni per la realizzabilità – almeno locale e sempre nei limiti della approssimazione – delle condizioni galileiane, identificano per definizione un orologio fisico standard, cosicché non ha poi senso empirico chiedersi se successivi intervalli temporali contengono o meno la stessa ‘quantità di tempo’: il tempo fisico è relazionale per costituzione”[6].

La descrizione fisica del mondo si è dunque sviluppata, secondo Pauri, a partire da una teoria statica del tempo, per cui non solo non è sorprendente, ma è addirittura scontato che gli sviluppi di questa descrizione confermino la validità di questa idealizzazione primaria e fondante. Sostenere che, pur tuttavia, la stessa teoria statica potrebbe essere confutata e falsificata dalla “realtà osservata”, qualora non si dimostrasse corretta rispetto ad essa, significa cadere in pieno nella trappola, sempre in agguato, della confusione tra “evento fisico” e “accadimento del mondo reale”, fra componenti irriducibilmente contingenti e leggi fisiche o “forme nomologiche di possibilità. Questa distinzione implica infatti che

un oggetto fisico non sia mai definito da una singola individuazione oggettuale. Esso corrisponde a una classe di equivalenza di determinazioni singole, individuata precisamente dalla astrazione delle relazioni con il resto del mondo che, nel caso specifico, sono considerate irrilevanti. Inoltre, la rete di relazioni attraverso cui l’oggetto fisico è definito costituisce un reticolo ideale in cui sono stati soppressi tutti i particolari fenomenici, in quanto fenomenici e particolari, cosicché il soggetto esperiente non vi appare più. Ogni classe (un oggetto fisico) costituisce un ‘modello’ che, letteralmente, rimpiazza la cosa fenomenica intenzionalmente esperita con la sua molteplicità di prospettive. Così, lo status della descrizione fisica implica che possiamo avere scienza di ‘tipi’ ma mai scienza di ‘particolari’ e, soprattutto, che la transienza temporale della soggettività è radicalmente rimossa dal quadro[7].

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Dante Alighieri

Il tempo fisico è pertanto  il risultato di una riduzione dimensionale e di complessità che comporta l’esclusione da esso del presente e della transigenza, sacrificati in nome dell’esigenza, considerata primaria e irrinunciabile, della costituzione di un’opportuna procedura di approssimazione e di una condizione cosmologica sul ‘resto del mondo’ che garantiscano un ‘omogeneità temporale’, cioè l’esistenza di subtotalità autonome, fisicamente quasi-isolate, tali da consentire – nei limiti della approssimazione così costituita – il riconoscimento di una stabilità di ricorrenza temporale.

  1. L’Evento

Quello che, riprendendo l’analisi di Pauri, abbiamo detto a proposito della distinzione tra  “oggetto fisico” e “accadimento del mondo reale”, fra componenti irriducibilmente contingenti e leggi fisiche o “forme nomologiche di possibilità” ci consente di affrontare nel modo migliore la distinzione tra “evento” e “forma” teorizzata e proposta da Diano. L’evento è sempre puntuale e individualizzato, costituisce un vissuto, non un pensato, proprio quel vissuto riferito al soggetto esperiente e all’accadimento specifico di qualcosa qui e ora, cioè in un presente determinato e irriducibile ad altri istanti del tempo, che la descrizione fisica del mondo espunge dal proprio orizzonte teorico. Come scrive Diano in una lettera a Pietro de Francisci, pubblicata nel fascicolo III del luglio-settembre 1953 del ‘Giornale critico della filosofia italiana’, e ripubblicata in appendice a Forma ed evento,

evento è preso dal latino, e traduce, come spesso fa il latino, il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit: o ti gίgnetai έḱάstw, come scrive Filemone, ricalcando Aristotele. La differenza è capitale. Che piova è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me. E però, se ogni evento si presenta alla coscienza come un accadimento, non ogni accadimento è un evento. [] Di evento, dunque, non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto, e dall’ambito stesso di questo soggetto. [] Come id quod cuique èvenit l’evento è sempre hic et nunc. Non v’è evento se non nel preciso luogo dove io sono e nell’istante in cui l’avverto. [] Da quello che precede è chiaro che non sono l’hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che temporalizza il nunc e localizza l’hic. E l’hic è in conseguenza del nunc perché è come interruzione della linea indifferenziata e non avvertita della durata – e cioè dell’esistenza come esistenza vissuta – che l’evento emerge e s’impone, ed è per essa e in essa questa interruzione che l’hic è avvertito e si svela[8].

 il binario che porta ad Auschwitz

il binario che porta ad Auschwitz

L’evento che capita a qualcuno, dunque, opera in modo da rompere l’omogeneità dello spazio, ritagliandolo e differenziandolo, e da congelare e condensare il tempo in un singolo istante; dall’altro lato, però, esso dipende dall’intero universo ed è connesso indissolubilmente alla totalità dello spazio e del tempo, perché gli eventi sono nel tempo e si legano l’uno all’altro e fanno catena, formano un tutto e ciascuno di essi ha un senso e un fine solo nella connessione con gli altri. “Ogni evento, perdendo la sua accidentalità, si inserisce nella ferrea catena provvidenziale del destino, di una necessità logicamente intesa, riscontrabile ovunque e senza eccezioni, Cade così la linea di demarcazione tra l’hic et nunc e l’ubique et semper. La tyche è solo un evento isolato di cui s’ignora la causa. Ma questa indubbiamente esiste e pertanto l’evento deve avere per forza un significato[9].

L’evenit proviene da una periferia spazio-temporale, da una totalità cosmica alla quale, pur staccandosi da essa, rimane legato, “la prima definizione che noi abbiamo di questa periferia è l’πειρον periέcon che Anassimandro e i teologi greci identificavano col «divino», e da cui facevano «governare il tutto». E l’intera grecità ne mantiene il concetto”[10]. “Eternità e trascendenza in senso proprio sono di quell’assoluto «comprendente» che è il periechon e di quell’assoluto polo che è l’Uno, «là ‘ve s’appunta – come dice Dante – «ogni ubi ed ogni quando», e che pertanto sono sempre in relazione con l’hic et nunc di quel cuique, che «io stesso sono»[11].

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno ... (B. Brecht)

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno … (B. Brecht)

Attorno ad ogni singolo evento si apre quindi l’infinità del periechon, il «senza limiti», un principio divino, immortale e indistruttibile, quella dynamis, come sinonimo di enèrgeia che assume nell’età ellenistica un senso che è specifico del «sacro». “La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatogli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare a essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è  la diversa chiusura che in esse vien data allo spazio e al tempo dell’evento, e la storia dell’umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure d’eventi[12]. Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Nicola Bultrini da La specie dominante (2014) Con un commento di Andrea Monda

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  Nicola Bultrini è nato nel 1965 a Civitanova Marche (MC), vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi La specie dominante (Aragno 2014) La coda dell’occhio (Marietti, 2011), I fatti salienti (Nordpress, 2007). La sua raccolta Occidente della sera è presente nell’VIII° Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2004). Per la poesia ha vinto il Premio Montale, sezione “Inediti”, edizione 2002. Sue poesie e scritti vari sono stati pubblicati su riviste (tra cui “Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Galleria”). Alcune traduzioni di poeti iraniani contemporanei sono state da lui curate con Chiara Riccarand e pubblicate su “Poesia” e “Testo a fronte”. Alcuni racconti  sono stati pubblicati su “Il Racconto”.  Scrive per il quotidiano “Il Tempo”. Come studioso della Prima Guerra Mondiale, ha pubblicato per Nordpress Edizioni vari saggi, tra cui.: La grande guerra nel cinema (2008 – prefazione di Mario Monicelli); Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti (2007 – prefazione di Andrea Zanzotto); Gli Ultimi – i sopravvissuti ancora in vita raccontano la Grande Guerra (2005); L’ultimo fante – la Grande Guerra sul Carso nelle memorie di Carlo Orelli (2004).

Paul Klee

Paul Klee

Commento

Il tempo è se le cose si consumano/ la poesia è un resistere audace” canta Nicola Bultrini a metà della sua ultima raccolta di poesie La specie dominante e audace è lui, l’autore, marchigiano trapiantato a Roma dove esercita la professione di avvocato tra una suonata con il suo sassofono jazz e il lavoro meticoloso di cantore-archeologo della Grande Guerra tema sul quale ha sfornato diversi saggi dove la ricostruzione storica si intreccia con la passione poetica (ovviamente nella figura emblematica di Ungaretti). E Ungaretti lo ritroviamo affiorante in modo implicito in diverse pagine di questa breve e intensa raccolta che da subito mette in luce un’idea che sta molto a cuore all’autore: la vita e la poesia, insieme, come resistenza, come tenacia, come forza di andare “controvento” (espressione significativamente ricorrente in più liriche).  Per Bultrini è molto importante la Storia, la sua “distanza” che permette alle parole di diventare “immense” e “tenaci”, realizzando come per Manzoni un’aspra lotta contro il tempo, questo Cronos della mitologia greca che divora i suoi figli; una lotta che trova nella poesia il suo campo e il suo eroe audace perché solo la poesia può resistere, custodire, salvare. L’idea che però emerge è che la vera poesia sia orale e feriale, nasca dalla vita quotidiana e ad essa riconduca, evitando il rischio della scrittura intesa come fissazione del flusso vitale in un’idea o, peggio in una ideologia perchè “la cosa peggiore è scrivere il dolore/ illude di poterlo decifrare”. Evitare il rischio della scrittura e, ancora di più, quello della letteratura: “E’ una fragilità che mi corrode./ Perciò tenete voi la grande letteratura/ e tutta l’arte/ A me lasciate solo la speranza”. Ancora una volta, Bultrini fa i conti con l’erosione che la vita comporta, erosione di senso, di significato, di memoria, di forza, e contro questa corruzione dichiara di voler resistere: “ma io voglio restare /immobile non visto/ un osservante”. L’osservazione conta più dello scrivere, è la natura più profonda del poeta, stare fermo e vedere, senza la premura di scrivere o l’illusione di sapere: “ma scrivere per oggi non mi salva/ le parole cui contavo/ di affidare tutto il male del mondo […] tu credimi, che a volte/ vorrei il coraggio di non sapere”.

Paul Klee

Paul Klee

Ci vuole coraggio, audacia, per andare e vivere di una “gioia controvento” che ci porta anche ad immergerci nelle ombre della vita, quotidianamente: “Suona la sveglia all’alba, la casa/ negli odori che riposa./ Anche noi obbediamo a una luce/ nella foschia che forza l’inverno”. Se la vita è oscura, questo permette alla luce di brillare più forte e allora non resta altro che obbedire, essere “osservante” dove la parola assume anche i colori religiosi, una sfumatura che traspare anche nei testi apparentemente più prosaici e cronachistici come quando l’autore si sofferma sulle vicende della propria storia famigliare, piccole saghe delle provincia italiana con la guerra sempre sullo sfondo: “Così Nicola prese moglie, le figlie/ e quattro biciclette/ Passò il ponte e tuonavano le bombe./ In uno stagno gettò quel che poteva/ pregando di fuggire la razzia”, un incipit che risuona fortemente dell’episodio della Genesi di Giacobbe al guado dello Yabbok, prima dell’incontro-scontro con il fratello Esaù e con l’angelo di Dio. E’ un corpo a corpo con la propria vita la poesia per Bultrini, uno scontro che non si consuma istantaneamente ma si dipana nello spazio e nel tempo, con una speranza forte che proprio nella trappola delle abitudini ci può essere gioia, riscatto, compimento, per cui bisogna affidarsi a quel tempo che “francescanamente” (nel senso di Bergoglio) è più importante dello spazio: “ci penserà il tempo/ a rendere il dolore un’abitudine […] sarà il tempo a darci spazio/ i gesti ordinari ci salveranno

(Andrea Monda da Il Foglio il 22 agosto 2014)

Nicola Bultrini, La specie dominante, Nino Aragno editore, 2014 Euro 8.00

Nicola Bultrini foto di Dino Ignani

Nicola Bultrini foto di Dino Ignani

 

Guarda quant’è grande
il mio corpo
quanta carne e sangue

è un peccato tenerlo tutto insieme
occupare lo spazio

vorrei farlo a pezzi
e regalarlo

che me ne faccio da solo
di questo corpo gigante

quanto è più dolce
lasciarlo per amore
nell’aria a consumarsi.

*

Noi giganti siamo rimasti in pochi
circondati da uomini piccoli
senza ombra.
Alcuni ci graffiano rabbiosi le caviglie
altri ci ignorano
fingendo di dormire.

Ma a noi giganti non va di partire.
La terra che abbiamo è una misericordia
colma di frutti e soli del mattino.
Abbiamo figli e una ricchezza
di doveri che è tutta la nostra libertà.

Non abbiamo paura del dolore
dello spettro luminoso del silenzio

e se la notte si muovono i fantasmi
ci chiamiamo per nome, uno per uno
e ci abbracciamo come capita
nel buio.

Mentre agli uomini tremano
le vene ai polsi, noi giganti
continuiamo a camminare
nel gelo luminoso di gennaio
saldi nelle gambe, controvento.

*

La terra che esploriamo
non ci appartiene
possiamo anche dimenticarla
se capita.
La abitano migliaia di viventi
che neppure conosciamo.

Però possiamo camminare
poggiare i piedi
sulle piazze maestose

se piove ci bagniamo come l’erba dei prati
piegandoci
e poi ci alziamo, finito il temporale.

Allora qualcosa rimane sottopelle
come un umore.

Possiamo quindi osservare e ascoltare
vivere silenziosi
molecole nell’aria che popolano il mondo
non sapendo.

Nicola Bultrini Aragno

*

La notte ha il sapore d’acqua amara
il giorno è corpo.
Se tu sapessi quanto
sono stanco.
Però non abbastanza
per il sonno.

Puoi vedermi
ripiegato in un angolo
mentre la mente rauca ancora ringhia

contro la notte
intera.
Vorrei dissolvermi
tacere finalmente.

Non sembra neanche mio
il cuore rumoroso
che si sente.

*

Le lampade a carburo
funzionavano circa otto ore.
Ognuno doveva comprane una e caricarla,
che facesse appesa al muro luce
almeno per tre metri.

Parlano ancora di quando
giù in miniera si spensero tra i morti
senza fiato, respirando la terra.

Eppure se ci penso, sapermi sotto
mi fa sentire vivo. E quando torno
tutta quest’aria pare troppo,
un privilegio che non mi riguarda

perché le mie radici
così come ho vissuto sono
carne, muscolo e fango.

*

E io che guardo e chiedo
se potrà mai finire. Ancora un’ora
triste e non ho nulla
più da offrire. Però c’è stato
un tempo, sì, c’è stato

ma scrivere per oggi non mi salva
le parole cui contavo
di affidare tutto il male del mondo.

Suona un disco fatto di vinile
l’onda celeste e meccanica
sale dentro il cielo di polvere
tu credimi, che a volte
vorrei il coraggio di non sapere.

Siamo sempre più felici
se crediamo di non essere in pericolo.

Paul Klee, Blue Night 1937

Paul Klee, Blue Night 1937

*

Non sono io che parlo
a un gigante neppure somiglio
mi vedi alto, pesante
ma non più forte.

Ricorda il saggio della scuola
il maestro e voi bambini in coro
timidi e fieri cercando
tra i volti quelli familiari.

Ci sono nel mondo anime immortali
che fanno le parole corpi potenti
amano la vita sfidandola,
il tempo stretto nella gola.

Io sono un’eco soltanto
che imita le cose
mentre dispero contro i venti.

Ma tutto partecipa nei grandi numeri.
Continua tu, a credere ai giganti
il tuono, il lampo che li avvolge.

*

I pastori venivano dalla campagna
romana all’inizio dell’estate
di notte, lungo la via Valeria.
In capo i muli, le greggi
e quindi ragazzi silenziosi
con i lumi a petrolio.

A quel tempo l’altopiano
era coltivato a grano, si doveva
salire i monti per i pascoli
aperti e non si scendeva
mai, fino a settembre.

Allora si dormiva tra le greggi
portando in spalla una capanna
di rami teneri di nocciolo.
Intrecciati come un cesto facevano
riparo solo per un corpo
che di notte si sdraiava.

Un occhio tra le stelle, l’orecchio attento
perché a quel tempo la montagna
era regno di lupi e di misteri. Continua a leggere

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BAROCCO E NOVECENTO – analogie e affinità a cura di Marco Onofrio

barocco Leone ibrido con volto umano

barocco Leone ibrido con volto umano

 Per rapportare Barocco e Novecento occorre anzitutto rifarsi all’eone barocco formulato da Eugenio d’Ors (nel suo Lo Barroco, Madrid 1933) come categoria metastorica estraibile dai suoi termini cronologici e riconducibile all’eterna antitesi tra “vita” e “ragione”, per cui «certi aspetti dell’arte arcaica, greca, buddista, gotica, romanticismo e impressionismo ecc. non sono altro che specie del genere barocco, che riappare nei secoli, e si intreccia col genere opposto, quello classico (sinonimo di razionale) spesso nello stesso stile e nello stesso artista» (Guido Piovene, Significato del Barocco, 1945). Secondo il filosofo spagnolo si è in presenza dell’eone barocco ogni volta che l’artista mostra una disposizione di apertura e obbedienza verso il flusso della vita, il che determina nelle opere caratteristiche di panteismo (smarrimento nella natura e nel paesaggio), dinamismo (catturare l’ininterrotto movimento dei fenomeni) e multipolarità  (la stessa cosa rappresentata da più punti di vista). “Circe e il pavone” chiosa, con efficace formula, Jean Rousset. L’artista barocco aspira alla metamorfosi perenne, alla fluidità originaria dell’indeterminazione, e quindi prova ripugnanza a de-finirsi in una forma compiuta, chiusa, irrevocabile. Di conseguenza «l’arte – tutte le arti – per la prima volta aspirano alla condizione “infinita” della musica» (Anceschi, Del Barocco e altre prove, 1953).

guido piovene

guido piovene

Vi sono studiosi che, come Wölfflin e Focillon, interpretano il Barocco non come categoria dello spirito ma come categoria della forma: una costante formale per cui ogni fenomeno artistico sarebbe barocco o, viceversa e in alternanza dialettica, classico. Secondo Wölfflin in particolare (Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, “Concetti fondamentali della storia dell’arte”, 1915), lo svolgimento dal classico al barocco procede come evoluzione dal “lineare” al “pittorico”, dalla “visione di superficie” alla “visione di profondità”, dalla “forma chiusa” alla “forma aperta”. Secondo Focillon (La vie des formes, 1934) il barocco rappresenta lo sviluppo ultimo del perfetto equilibro costituito dal classico, che a sua volta è l’apogeo di ogni sistema culturale storicamente determinato. Qualunque stile, cioè, attraversa quattro stadi evolutivi nella propria trasformazione morfologica: età sperimentale, età classica, età del raffinamento, età barocca.

esempio di balcone barocco

esempio di balcone barocco

L’alternanza dialettica Barocco-Classico corrisponde, per certi versi, a quella nicciana dionisiaco-apollineo. La rivalutazione europea del Barocco come oggetto autonomo di studi, dotato di specificità stilistica, sia in chiave storica sia metastorica (laddove in Italia Benedetto Croce parla ancora di “brutto artistico”), discende dalla Stimmung che caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento: un crogiolo di energie e istanze in cui, come osserva Giovanni Getto, «si incrociano e si fondono correnti di gusto e suggestioni di cultura diverse, particolarmente propizie e determinanti per il formarsi di una simpatia e di una propensione per il barocco: da Nietzsche e la sua intuizione del principio dionisiaco, dell’ebbrezza e della tensione, regolatore dello sviluppo dell’arte accanto al principio apollineo, della serenità e dell’armonia, alla musica di Wagner, pervasa da un senso di sfrenata esuberanza e scossa da una forza primordiale di passione, all’irrazionalismo e al relativismo filosofico, alla filosofia dell’inconscio di un Hartmann, in cui rispuntano i motivi più romantici di Schelling, Hegel e Schopenhauer, per comporsi in una costruzione dalle linee fantasiose, che è stata definita come “un vero e proprio romanzo metafisico” (e i rapporti Schopenhauer, Wagner, Nietzsche e, attraverso Burckardt, Wölfflin, sono ben noti)».

Dolce & Gabbana 2013 sfila il barocco siciliano

Dolce & Gabbana 2013 sfila il barocco siciliano

 Anche l’Impressionismo, mobile e vitale, sembra il coronamento finale dell’epopea barocca. E il Liberty, con i suoi capricci fantasiosi e floreali. E il Simbolismo, con la sua irrequietezza sensuale dalle infinite possibilità ermetiche e analogiche. Ma il Decadentismo tutto avverte affinità con il Barocco: non a caso si riscoprono poeti come i grotesques francesi, o John Donne, o Luis de Gongora. Dopo gli studi documentatissimi di Getto, Anceschi, Calcaterra e Mario Costanzo (del quale si ricorda La critica del Novecento e le poetiche del barocco, 1976), ancora nel 1987 Omar Calabrese, parlando del Postmoderno come di un’età “neobarocca”, osserva come «molti importanti fenomeni di cultura del nostro tempo siano contrassegnati da una “forma” interna specifica che può richiamare alla mente il barocco». Il Novecento guarda con simpatia al Barocco perché esso – dopo la crisi che si spalancò nella percezione del mondo in seguito alle scoperte scientifiche e geografiche, da cui il Mediterraneo venne bruscamente relegato a un ruolo economico marginale – dovette escogitare la “nuova architettura dell’anima” cercandola in un fragile punto di equilibrio dinamico tra senso e intelletto, immaginazione e logica, istinto e ragione, vita e forma.

Dolce & Gabbana modelli inverno 2013

Dolce & Gabbana modelli inverno 2013

Il Novecento ha bisogno di risolvere lo stesso problema, laddove l’uomo rotola “dal centro verso la x”, spinto oltre il bordo dell’abisso dalla demolizione delle Grandi Narrazioni sotto i colpi spietati di Marx, Freud, Nietzsche, Planck, Bohr, Heisenberg, Einstein. La carneficina delle due guerre mondiali apre il sipario sulla “terra desolata” dove l’uomo soffre fino in fondo, senza più conforti strumentali, l’angoscia del suo “male di vivere”. La letteratura e l’arte del Novecento riflettono questa condizione precaria («Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie», Ungaretti 1918) che nasce anche dalla delusione per il fallimento degli Ideali ottocenteschi (come il positivismo e lo scientismo, con il loro ordine di determinazioni oggettive calate, a mo’ di nascondimento illusorio, sulla “negatività” esistenziale dell’individuo) tragicamente naufragati, coi milioni di morti, nella catastrofe bellica: «La guerra, l’odio, la distruzione, il tradimento, la sconfitta, l’amara vittoria, facevano emergere gli scogli perennemente frapposti tra il mare dell’esistere e il porto dell’assoluto» (Chiodi).

Martin Heidegger in campagna

Martin Heidegger in campagna

Ed ecco i temi tipici dell’Esistenzialismo novecentesco («la morte, l’errore, la colpa, il nulla, l’impotenza, il tempo») che nascono dal confronto scoperto con il problema dell’uomo e del suo rapporto con il vuoto e con l’assurdo. C’è un retroterra di consonanza con i temi già sviluppati dal Barocco, nel pensiero e nelle opere di Miguel De Unamuno (Del sentimiento tràgico de la vida, 1913), Martin Heidegger (Sein und Zeit, “Essere e tempo”, 1927), Jean-Paul Sartre (L’être et le néant, 1943) e Albert Camus (Le Mythe de Sisyphe, 1943), continuatori – ognuno a suo modo – della strada già tracciata da Kierkegaard nella prima metà dell’Ottocento. Senza contare scrittori di enorme problematicità come Dostoevskij e Kafka, che non inventano da zero la suggestione e l’efficacia storica dei loro “simboli”. Allo stesso modo, il linguaggio cangiante e metamorfico della letteratura barocca non è solo bizzarria ingiustificata di argutezze (con il fin della meraviglia) ma un modo di rispondere al trauma della coscienza, e dunque opporre un nuovo sguardo, ovvero nuovi metodi di conoscenza e “rappresentazione”, con cui tentare di adattarsi a una realtà profondamente cambiata, sempre più complessa e inafferrabile:

«La fantasmagoria speciosa delle metafore e delle antitesi è dovuta nel Seicento al duplice, triplice, molteplice aspetto che la realtà prende nell’anima, la quale, di là dell’empiria sensoria, non è più certa del vero creduto per convenzione. La poetica del mirabile è lo sforzo dell’ingegno, che con ampie volute, curve serpeggianti, richiami antitetici, trasposizioni immaginose tenta di superare tutte le contraddizioni conoscitive e ideali» (Calcaterra, Il Parnaso in rivolta, 1940). L’uomo barocco e quello novecentesco sono creature nude, scorticate, fragili, sbandate dal decentramento antropico che la riscoperta – scientifica e filosofica – dell’Infinito procura nelle loro coscienze.

abito moderno chic ispirato al barocco

abito moderno chic ispirato al barocco

Barocco e Novecento rispondono anzitutto alla crisi indotta dal cambiamento della posizione dell’uomo nel mondo. Nota Giovanni Getto: «L’uomo non è più il centro dell’universo, ma è nell’universo, in un universo che Keplero, Galileo, Newton scoprivano» [e che i loro colleghi novecenteschi approfondiranno, dagli spazi interstellari alle strutture subatomiche della materia] «togliendo alla terra la sua posizione privilegiata, centrale. L’uomo barocco a contatto del cosmo prova come uno spavento». Ecco l’horror vacui, la vertigine di inseguire la mostruosità del cosmo inconcepibile, fino a perderci il pensiero. Si legga questo passo illuminante di Arnold Hauser:

«La nuova visione scientifica prese l’avvio dalla scoperta di Copernico. La teoria della terra che gira intorno al sole, sostituendo quella per cui finora l’universo girava intorno alla terra, mutò definitivamente l’antica posizione assegnata all’uomo dalla Provvidenza. Infatti, appena la terra non poté più considerarsi il centro dell’universo, anche l’uomo cessò di essere il fine ultimo della creazione. Ma con la teoria copernicana non soltanto il cosmo cessò di volgersi intorno alla terra e all’uomo, ma fu privo di centro, riducendosi a una somma di parti simili e di ugual valore (…). L’uomo divenne un fattore piccolo e insignificante in quel mondo ormai disincantato (…), alla precedente visione antropocentrica si venne sostituendo la coscienza cosmica, cioè l’idea di un complesso infinito di attività includente l’uomo e la ragione ultima della sua esistenza. (…) Al termine di questa evoluzione il terrore del giudice universale cede al “brivido metafisico”, all’angoscia di Pascal davanti al silence éternel des espaces infinis, allo stupore per il lungo, ininterrotto respiro dell’universo. Questo brivido, l’eco degli spazi infiniti, l’intima unità dell’essere pervadono tutta l’arte barocca. E simbolo dell’universo diventa l’opera d’arte nella sua totalità, in quanto organismo coerente, vivo in ogni sua parte».

arredamento moderno ispirato al barocco

arredamento moderno ispirato al barocco

Così in arte «le repentine diagonali, gli improvvisi scorci prospettici, gli effetti di luce accentuati, tutto esprime una possente, insaziabile brama d’infinito. Ogni linea conduce l’occhio lontano, ogni forma in movimento pare che voglia sorpassare se stessa, ogni motivo rivela una tensione, uno sforzo, come se l’artista non fosse mai del tutto sicuro di riuscire veramente a esprimere l’infinito» (Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, “Storia sociale dell’arte”, 1956).

A proposito di infinito, scrive Pascal in una celebre pagina dei suoi Pensieri:

«Tutto questo mondo visibile non è che un tratto impercettibile nel vasto seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Abbiamo un bel gonfiare i nostri concetti, oltre agli spazi immaginabili, non generiamo che atomi, rispetto alla realtà delle cose. È una sfera il cui centro è dovunque, la circonferenza in nessun luogo. Infine il carattere più sensibile dell’onnipotenza di Dio, è che la nostra immaginazione si perde in questo pensiero. L’uomo, tornato a se stesso, consideri ciò che è, in confronto a quanto esiste; si consideri smarrito in questo remoto angolo del mondo; e da questa piccola prigione dove si trova, intendo dire l’universo, apprenda a valutare la terra, i regni, le città, e se stesso, nel giusto valore. Che cosa è un uomo nell’infinito?» Continua a leggere

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UNA POESIA di Gertrud Kolmar (1894-1943) Traduzione di Adelmina Albini e Stefanie Golisch

gertrud kolmar 1Ricordo di Gertrud Kolmar

«Non è importante essere felice, ma compiere il proprio destino»

Gertrud Kolmar (10.12. 1894 – marzo 1943) cresce a Berlino in una famiglia della borghesia ebrea. Come tanti altri ebrei assimilati, scopre la sua fede e l’appartenenza al suo popolo proprio nel momento in cui cominciano le persecuzioni razziali.
Il raggio della sua vita,  già volutamente ristretto, diminuisce sempre di più, mentre, nella stessa misura in cui le viene negato il mondo esteriore, Kolmar trova dentro di sé tutta la pienezza: un ampio universo del reale e del surreale, del tragico e del barocco, una fonte inesauribile di vita e di forti sentimenti.
La sua poesia, perfino negli anni Venti, quando per un breve periodo ebbe un discreto successo, non si piegò mai ai gusti letterari del suo tempo, ma fu sempre la massima espressione di una vasta e incorruttibile libertà interiore.
Kolmar, che in seguito ad una drammatica storia d’amore non si era sposata, visse per tutta la vita con i propri genitori. Quando, nei tardi anni Trenta,  le si presenta la possibilità di fuggire dalla Germania nazista, sceglie di rimanere col suo vecchio padre a Berlino. Vive lucidamente tutte le tappe, dalla  emarginazione alla discriminazione, fino all’ultima conseguenza: la deportazione ad Auschwitz nel marzo del ‘43 dove si perdono le sue tracce.
Gertrud Kolmar non si oppone, ma vive il crudele destino del suo popolo con fierezza come un vero olocausto, un sacrificio cioè.  Alla sorella Hilde, emigrata in Svizzera, scrive poco prima della sua morte che non è  importante essere felice, ma compiere il proprio destino.
Come Etty Hillesum, sorella nello spirito, anche Gertrud Kolmar colse nella terribilità della sua sorte la possibilità liberatoria di sfidare se stessa fino in fondo, intensificando, in un arco di tempo relativamente breve, la propria esistenza, in modo tale che la morte non poteva  più minacciare una tale ricchezza.

(Stefanie Golisch)

 

Gertrud Kolmar

Gertrud Kolmar

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Das Tier

Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine Maus.

Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel, seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt und kränkt.

Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter entsproß.

Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen: Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir verrecken, sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr morden könnt.

Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde schrieb.

Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein Jammer kniet.

 

L’animale

Vieni qui. Guarda la mia morte, guarda questo eterno patire,
L’ultima onda si perde tremando sul mio pelo,
Sappi che il mio piede aveva delle artigli, sfuggente era e debole,
Non chiedere chi sono io, lepre, scoiattolo, topo.

Perché non importa. Sempre ti voglio male o bene;
Ti chiami despota, inventi leggi,
Confezionati sulle tue membra come un mantello, un cappello.
Entro le mura della città tua abbracci e offendi lo straniero.

Gli uomini che un tempo facesti a pezzi: sulle loro tombe muto ti sdrai;
Per tanta sofferenza diventarono santi, chiusi in un marchio d’oro.
Porti la pelle della madre morta e in essa avvolgi il tuo bambino,
Gli regali giochi che nacquero dalla fronte insanguinata dei torturati.

Viviamo. Siamo bestiame e selvaggina; cadiamo: preda, carne, pasto –
Né la rugiada del mare, né il grano della terra voi concedete senza riserva.
Con l’inferno e con il cielo vi addormentate; quando noi crepiamo siamo carcasse,
Eppure vi lamentate perché non ci potete più uccidere.

Un tempo concessi le mie immagini, alle quali tu rivolgesti le tue preghiere,
Finché tu non abbia riconosciuto l’uomo-dio invece del dio-animale,
La mia prole annientata, la mia fonte incastonata di pietre
La chiamano frase di un essere altissimo ciò che scrisse la tua brama.

Tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là e oltre la sofferenza anche la ricompensa
Che sfugge intoccabile nell’anima tua;
Ma io sopporto mille e mille volte, nella camicia piumata e la veste di squame,
Sono il tappeto, dove quando piangi, s’inginocchia la tua pena.

 

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia.

Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nove sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura)

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POESIE PERSIANE ANTICHE di SAIK FAIZI Versione dall’inglese, revisione e note a cura di Dario Chioli

persia hasht-behesht_palace_kamancheh

persia hasht-behesht_palace_kamancheh

(Saik Abū’l-Faiż “Faiżī” [poi “Fayyāżī”] ibn Saik Mubārak Nāgaurī)

Traduzione dal persiano di Heinrich Ferdinand Blochmann
Versione dall’inglese, revisione e note a cura di Dario Chioli
(giugno-luglio 2011)

Le poesie di Saik Faizi qui tradotte sono tratte dalle pp. 550-563 (n. 1) di: The Áín i Akbarí by Abul Fazl ‘Allami, Translated from the Original Persian, by H. Blochmann, Asiatic Society of Bengal, Calcutta, vol. I (l’intera opera, corrispondente al terzo volume dell’Akbarnamah di Abu’l-Fazl, fratello di Faizi, è stata tradotta in inglese in 3 volumi: il primo, quello da cui viene tratto quanto segue, a cura di Heinrich Ferdinand Blochmann nel 1873; il secondo volume,tradotto da H. S. Jarrett, nel 1891; il terzo, tradotto da H. S. Jarrett e rivisto da Jadu-Nath Sarkar, nel 1896). Le note iniziali di Abu’l-Fazl su Saik Faizi sono tratte dalle pp. 490-491 (n. 253) e 548-550 (n. 1). Le note di Blochmann sono intercalate al testo e indicate con asterischi tra parentesi quadre: [*].
Le mie note sono precedute dall’indicazione «N.d.C.».
Sarò grato a chiunque per la segnalazione di eventuali errori.

(Dario Chioli)

rappresentazione di Omar Khayyam

rappresentazione di Omar Khayyam

Abu’l-Fazl: Saik Faizi, figlio di Saik Mubarak di Nagaur.1) Il nome di questo grande poeta e amico di Akbar 2)  era Abu’l-Faiz. Faizi è il suo takallus.3) Verso la fine della sua vita, a imitazione della forma del takallus di suo fratello ‘Allami assunse il nome di Fayyazi.
Faizi era il figlio maggiore di Saik Mubarak di Nagaur. Saik Mubarak [*] faceva risalire la propria origine ad un derviscio arabo dello Yemen, che nel IX secolo dell’Ègira 4)  si era stabilito nel Sivistan,5)  dove s’era sposato. Nel X secolo, il padre di Mubarak giunse nello Hindustan, e si stabilì a Nagaur. Vari suoi figli essendo morti uno appresso all’altro, chiamò Mubarak 6) il figlio successivo, che nacque nel 911. 7)  Da giovane, Mubarak andò nel Gujrat, 8)  e studiò sotto la guida di atib Abu’l-Fazl di Kazarun e di Maulana ‘Imad del Laristan. Nel 950, Mubarak si stabilì ad Agra. Si dice che cambiasse spesso le sue opinioni religiose. Sotto Islam Sah, 9)  era un Mahdavi,10) e dovette soffrire la persecuzione all’inizio del regno di Akbar; divenne poi un Naqsbandi, 11) quindi un Hamadani, 12) e in ultimo, quando la corte era piena di Persiani, fu incline allo Sciismo. Ma quali che possano essere state le sue vedute, l’educazione che impartì ai suoi figli Faizi ed Abu’l-Fazl, i maggiori scrittori che l’India abbia prodotti, mostra che egli era un uomo dotato di grande apertura mentale. Saik Mubarak scrisse un commentario al Corano, in quattro volumi, intitolato Manba‘ al-‘uyun, [**] ed un altro lavoro dal titolo Javami‘ al-kilam. Verso il termine della sua vita, sofferse d’una parziale cecità, e morì a Lahor, il 17 del mese di Zi qa‘dah 13 del 1001, all’età di 90 anni.14 Il tarik 15) della sua morte si troverà nelle parole Saik-i kamil.

 dipinto persiano

dipinto persiano

1 N.d.C.: Nagaur, è una città del Rajasthan centrale da cui prende nome l’omonimo distretto.

2 N.d.C.: Akbar il Grande, terzo imperatore Moghul, nacque nel 1542 e regnò dal 1556 al 1605, distinguendosi per potenza militare e tolleranza religiosa. Scrive LUCIANO PETECH nella voce sul “Subcontinente indiano” de Le Civiltà dell’Oriente, vol. I, p. 690: «Akbar fu un grande protettore delle arti e delle lettere. A lui stesso si deve probabilmente il piano di Fatehpur-Sikri, la meravigliosa città costruita (a partire dal 1570) in arenaria rossa non lontano da Agra presso la cella del santo Salim Cisti, alla cui intercessione l’imperatore attribuiva la nascita del suo primogenito. Abbandonata nel 1585, essa si è conservata praticamente intatta e contribuisce più d’ogni descrizione a farci rivivere la brillante corte del grande imperatore. La musica indiana ebbe sotto di lui uno dei suoi periodi d’oro, ed è ancora vivo il nome del suo musico di corte, l’hindu Tansen (m. 1589). La pittura Moghul nasce sotto Akbar e muove i primi passi verso l’eccellenza a cui doveva poi giungere. La sua monetazione è forse la più bella della numismatica indiana. Infine la letteratura di corte in lingua persiana ebbe i suoi maggiori esponenti nei fratelli Abu’l Fazl (m. 1602, generale, ministro, autore dell’Ain-i-Akbari, vero manuale dell’amministrazione Moghul) e Faizi, grande poeta. E la pace religiosa goduta dagli Hindu durante questo regno glorioso produsse il più bel fiore delle moderne letterature indiane: il Ramcarit-manas di Tulsi Das».

3 N.d.C.: Takallus (ﺗﺧﻠص) equivale a pseudonimo letterario.

4 N.d.C.: Si ricordi che il calendario islamico parte dal 622 d.C., data dell’Ègira (hijra), ovvero della fuga di Muhammad dalla Mecca a Medina. Per indicare che di tale calendario si tratta, si aggiunge talvolta alla data la sigla “A.H.” ovvero Annus Hegirae. 5 N.d.C.: Nel Sindh, nell’attuale Pakistan la provincia di Karachi. 6 N.d.C.: Mubarak significa “Benedetto”
7 N.d.C.: Il 911 A.H. corrisponde al 1505-1506 A.D. 8 N.d.C.: Il Gujrat è un distretto del Punjab, mentre il Gujarat è uno stato indiano confinante col Sindh pakistano. 9 N.d.C.: Islam Sah regnò dal 1545 al 1553 quale secondo esponente della dinastia Suri, che durante il regno del suo fondatore Sir Sah Suri aveva avuto la meglio sulla dinastia Moghul. 10 N.d.C.: Mahdavi Islam era una setta islamica che riconosceva Sayyid Muhammad Jaunpuri (847/1443 – 910/1505) come Mahdi. Poesie di Shaikh Faizi (Abu’l-Faiz ibn Mubarak)

[*] (vide pp. 169, 185, 198, 209) [*] Cfr. The Áín i Akbarí by Abul Fazl ‘Allami, vol. I, pp. 169, 185, 198, 209)
[**] Badaoni (III., 74) calls it Manba‘-i-nafais ul-‘uyun. [**] Bada’uni (III., 74) lo chiama Manba‘-i-nafa’is ul-‘uyun.

scena di vita quotidiana

scena di vita quotidiana

Saik Faizi nacque ad Agra nel 954.16) I suoi successi nella letteratura araba, nell’arte poetica e nella medicina furono assai vasti. D’abitudine curava la povera gente gratuitamente. Un giorno comparve con suo padre davanti a Saik ‘Abdu’n-Nabi, il Sadr, [*] 17) e richiese un’assegnazione di 100 bigha; 18) ma non solo fu respinto, bensì fu anche allontanato dalla sala con ogni sorta di contumelie in relazione alle sue tendenze verso lo Sciismo. Ma la fama letteraria di Faizi giunse alle orecchie di Akbar, e nel 12° anno, quando Akbar era impegnato nella spedizione a Citor, 19) egli fu chiamato a corte. I Nemici bigotti di Faizi di Agra interpretarono la chiamata come una citazione davanti a un giudice e consigliarono il governatore della città a non lasciare che Faizi fuggisse. Egli perciò ordinò ad alcuni Moghul di circondare la casa di Mubarak; ma casualmente Faizi era assente da casa. Mubarak fu maltrattato, e quando Faizi infine giunse, fu portato via di forza. Ma Akbar lo ricevette con molto favore, e Faizi, in breve tempo, divenne il compagno abituale e l’amico dell’imperatore. Egli fu determinante nel provocare la caduta di Saik ‘Abdu’n-Nabi. 20

11 N.d.C.: Quella naqsbandiyya è una tra le più note e diffuse confraternite sufi. I suoi aderenti la fanno risalire direttamente a Muhammad tramite il primo califfo Abu Bakr. 12 N.d.C.: La confraternita hamadaniyya è una derivazione kashmira del XIV secolo della confraternita kubraviya, fondata nel XIII secolo da Najmuddin-e Kubra. 13 N.d.C.: Altra forma di Zu’l-qa‘dah, l’undicesimo mese del calendario islamico. 14 N.d.C.: Cfr. anche THOMAS WILLIAM BEALE: «Sua madre morì nel gennaio 1590, 998 A.H., e suo padre nell’agosto 1593, Ziqa‘d, 1001 A.H.». 15 N.d.C.: Tarik vale qui “cronogramma”, ovvero un’espressione che, pur essendo di per sé rappresentativa di ciò che indica, ha però anche un valore numerico che corrisponde a una data, in questo caso il 1001 A.H. L’espressione Saik-i kamil, “maestro perfetto”, contiene infatti le seguenti lettere che sommate fanno 1001: s=300, y=10, k=600; k=20, a=1, m=40, l=30. 16 N.d.C.: MUNIBUR RAHMAN dà come giorno esatto il 5 ša‘bān 954 ovvero il 24 settembre 1547. 17 N.d.C.: Sadr o Sadr-i Jahan, è termine che indicava un’importantissima carica, giuridica e amministrativa, nell’impero di Akbar. 18 N.d.C.: Il bigha è un’unità di misura agraria indiana il cui valore varia considerevolmente; può andare da 1/3 di ettaro a 1 ettaro, cioè 100×100 metri, e anche più. Cfr. pure JOHN T. PLATTS, A Dictionary of Urdu Classical Hindi and English, p. 210b: «una misurazione di terreno pari a circa cinque ottavi di un acro [che equivale a 0,4046 ettari]». 19 N.d.C.: Città nel nord del Pakistan.Poesie di Shaikh Faizi (Abu’l-Faiz ibn Mubarak)

[*] (p. 272) [*] Cfr. The Áín i Akbarí by Abul Fazl ‘Allami, vol. I, p. 272.

scuola di musica

scuola di musica

Nel 30° anno, progettò una kamsah, ovvero una collezione di cinque poemi epici, ad imitazione della Kamsah di Nezami. 21) Il primo, Markaz al- advar, doveva consistere di 3000 versi, e doveva essere un javab (imitazione) del Makzan al- asrar di Nezami; il Sulaiman o Bilqis ed il Nal o Daman dovevano consistere di 4000 versi ciascuno, e dovevano essere javab rispettivamente del Kusrau o Sirin e del Laili o Majnun; mentre lo Haft Kisvar e l’Akbarnamah, ognuno di 6000 versi, dovevano corrispondere allo Haft Paikar ed al Sikandarnamah. 22) Nel 33° anno, fu nominato Malik as-su‘ara’, ovvero Poeta Laureato (Akbarnamah, III., 559). Sebbene avesse composto delle parti della Kamsah, il progetto originario non era stato portato a termine, e nel 39° anno, Akbar lo esortò a perseverare, e gli raccomandò di completare il Nal o Daman. Faizi allora finì il poema, e ne offrì, nello stesso anno, una copia al suo imperiale maestro.
Faizi soffriva di asma, e morì il 10 di safar del 1004 (40° anno). 23) Il tarik della sua morte è Fayyaz-i ‘Ajam.24 Si dice che avesse composto 101 libri. Le più note, a parte le sue opere poetiche, sono il Savati‘ al-ilham, ed il Mavarid

20) N.d.C.: Cfr. Ma’atir al-umara’ (The Maathir-ul-Umara, vol. I, p. 515): «Fu presa vendetta su ‘Abdu’n-nabi, che fu privato del suo ufficio e spogliato del suo rango ed esiliato nello Hijaz. In ultimo, fu rovinato nella proprietà e nella vita». 21) N.d.C.: Nizām ad-Dīn Abū Muhammad Ilyās ibn Yūsuf ibn Zakī ibn Mu‘ayyid, meglio noto come Nizami-ye Ganjavi (1141-1204) fu uno dei massimi poeti persiani. 22) N.d.C.: Ovvero Iskandarnamah. Con il titolo Sikandarnamah Henry Wilberforce-Clarke tradusse in inglese il Sarafnāmah, prima parte dello Iskandarnamah (cfr. http://persian.packhum.org/persian/main). 23) N.d.C.: Morì a Lahor, il 10 safar 1004 ovvero il 15 ottobre 1595 (Munibur Rahman). 24) N.d.C.: Le lettere componenti di Fayyaz-i ‘Ajam (che dovrebbe significare “generoso persiano”, anche se i traduttori del Ma’atir al-umara’ (The Maathir-ul-Umara, vol. I, p. 516), traducono “wondrous bounty” cioè “meravigliosa generosità”) sommate, danno infatti la cifra 1004 (f=80, y=10, a=1, z=800; ‘=70, j=3, m=40). Cfr. però anche Beale: «poiché molti supponevano che fosse stato un deista, molti cronogrammi abusivi furono scritti per l’occasione, tra cui il seguente — “Lo Saik fu un infedele”». Poesie di Shaikh Faizi (Abu’l-Faiz ibn Mubarak)
25) La sua raffinata biblioteca, consistente di 4300 manoscritti di qualità, fu incorporata nella biblioteca imperiale.

bassorilievo di soldato persiano

bassorilievo di soldato persiano

Faizi fu impiegato come precettore dei prìncipi; occasionalmente, agì anche in veste di ambasciatore. Così, nel 1000, egli era nel Deccan, donde scrisse la lettera allo storico Bada’uni,26 che era temporaneamente in disgrazia a corte. [*]
Era un uomo di temperamento allegro, liberale, attivo, una persona mattiniera. Era discepolo dell’imperatore, e così stava in pace col mondo intiero. Sua Maestà comprendeva il valore del suo genio e gli conferì il titolo di Malik as- su‘ara’ ovvero re dei poeti. [*] Scrisse per circa quarant’anni sotto il nome di Faizi, che in seguito, per divina ispirazione, mutò in Fayyazi come egli stesso dice nel suo Nal o Daman —
[*] Gazali di Mashad (per cui cfr. The Áín i Akbarí by Abul Fazl ‘Allami, vol. I, 5° poeta, pp. 568-569) fu il primo a ottenere tale titolo. Dopo la sua morte, l’ottenne Faizi. Sotto Jahangir, Talib di Amul fu malik as- su‘ara’, e sotto Sahjahan, [lo furono] Muhammad Jan Qudsi e, dopo di lui, Abu Talib Kalim. Aurangzib odiava la poesia tanto quanto la storia e la musica.

Before this, whenever I issued anything,
Prima d’ora, ogniqualvolta pubblicavo qualcosa,
The writing on my signet was ‘Faizi.
La scritta sul mio sigillo era ‘Faizi.’
But as I am now chastened by spiritual love,
Ma poiché sono ora trattenuto da amore spirituale.
I am the ‘Fayyazi’ of the Ocean of
Superabundance (God’s love). [*]
Io sono il ‘Fayyazi’ dell’Oceano della
Sovrabbondanza (amor di Dio). [*]

[*] Faiz è una parola araba che significa ‘abbondanza’; Faizi sarebbe un uomo che ha abbondanza o dà abbondantemente. Fayyaz è la forma intensiva di Faizi, ‘che dà sovrabbondantemente’. Fayyazi, originariamente, è il nome astratto, ‘l’atto di dare sovrabbondantemente’, e quindi diventa un titolo.
25 N.d.C.: Cfr. anche BEALE: «Fu il primo musulmano ad applicarsi ad uno studio diligente della letteratura e della scienza indù. Oltre alle opere sanscrite in poesia e filosofia, diede una versione del Bija Ganita e della Lilavati di Bhaskaracarya, le migliori opere indiane sull’algebra e l’aritmetica». Poi aggiunge: «C’è anche un Insa’ o collezione di Lettere che va sotto il suo nome». E sul sito http://persian.packhum.org/persian/main, sotto il titolo Vaqi‘at (“Avvenimenti”), se ne può trovare un estratto tradotto in inglese.
26 N.d.C.: Mulla ‘Abdu’l-Qadir Bada’uni, autore del Muntakabu’t-tavarik, nato intorno al 948/1541 e morto nel 1024/1615.

La forma di fayyazi concorda con la forma di ‘Allami, il takallus di Abu’l-Fazl, e certi storici, come Bada’uni, hanno affermato che la semplice forma suggerisse il mutamento da Faizi in Fayyazi. Le sue maniere e abitudini eccellenti diedero lustro al suo genio. Si distinse eminentemente in parecchi rami. Compose molte opere in persiano e in arabo. Tra le altre scrisse il Savati’ al-ilham [*] (‘raggi d’ispirazione’), che è un commentario al Corano in arabo, in cui egli impiegò soltanto quelle lettere che non hanno punti. Le parole della Surat al-Iklas [**] contengono la data del suo completamento.

[*] Non ho visto alcuna copia di quest’opera. È spesso confusa con il Mavarid al-kilam, perché anche quest’ultimo è scritto be nuqat, senza utilizzare le lettere puntate. Il Mavarid fu stampato a Calcutta nel 1241 A. H., dai professori della Madrasah e da Maulavi Muhammad ‘Ali of Ramptur. Contiene sentenze, spesso efficaci, sulle parole Islam, salam, ‘ilm al-kalam, Adam, Muhammad, kalam Allah, ahl Allah, &c, e riveste un interesse modesto. Faizi vi dispiega le sue abilità lessicografiche.

[**] Questo è il 112° capitolo del Corano, che incomincia con le parole Qul huwa’llahu ahad. Le lettere aggiunte danno 1002; 27 Faizi, perciò, scrisse il libro due anni prima della propria morte. Quest’ingegnoso tarik fu scoperto da Mir Haidar Mu’ammai di Kasan, poeticamente chiamato Rafi’i (per cui cfr. The Áín i Akbarí by Abul Fazl ‘Allami, vol. I, 31° poeta, pp. 593-594.

abbigliamento femminile

abbigliamento femminile

Egli considerava la ricchezza come un mezzo per generare povertà, [*] e l’avversità della fortuna era ai suoi occhi un ornamento che portava allegria. La porta della sua casa era aperta a parenti ed estranei, amici e nemici; e i poveri trovavano conforto nella sua dimora. Poiché era di difficile contentatura, non diede alcuna pubblicità alle proprie opere, e mai mise la mano della richiesta sulla fronte [**] della gloria. Non volgeva a se stesso alcuno sguardo ammirato. Essendo un genio, poco si curava della poesia, e non frequentava la compagnia dei begli spiriti. Era profondo nella filosofia; quanto aveva letto con gli occhi diveniva nutrimento del cuore. Approfondì lo studio della medicina, e forniva alla povera gente consulti gratuiti.

[*] Vale a dire, quanto più aveva, tanto più dava via, e così divenne povero, ovvero, egli considerava che le ricchezze rendessero un uomo povero in senso spirituale.
[**] Tarak, propriamente la corona della testa. Mettere la mano sulla corona della testa è un’antica forma del salam. Abu’l-Fazl vuol dire che Faizi non fu mai mediocre abbastanza da chiedere favori o regali.
Le gemme di pensiero dei suoi poemi non saranno mai dimenticate.
.
27 N.d.C.: Vale a dire che la somma di tutte le lettere dei quattro versetti del capitolo 112 (tolta la Basmalah iniziale) dà 1002: 1Qul huwa’llahu ’ahad, 2’allahu’s-samad, 3 lam yalid wa lam yulad, 4wa lam yakun lahu kufuwan’ ’ahad: q=100, l=30, h=5, w=6, ’=1, l=30, l=30, h=5, ’=1, h=8, d=4; ’=1, l=30, l=30, h=5, ’=1, l=30, s=90, m=40, d=4; l=30, m=40, y=10, l=30, d=4, w=6, l=30, m=40, y=10, w=6, l=30, d=4; w=6, l=30, m=40, y=10, k=20, n=50, l=30, h=5, k=20, f=80, w=6, ’=1, ’=1, h=8, d=4.Poesie di Shaikh Faizi (Abu’l-Faiz ibn Mubarak)

l’ozio, e il mio cuore si volgesse a occupazioni
mondane, vorrei radunare alcuni degli scritti
eccellenti di questo autore senza rivali nella sua
epoca, e raccogliere, con l’occhio di un critico
geloso, eppure con la mano di un amico, alcuni
dei suoi versi. [*]

[*] Abu’l-Fazl mantenne la promessa, e radunò, due anni dopo la morte di Faizi, i fogli dispersi del Markaz al-advar (p. 491), riguardo a cui il curioso troverà una nota di Abu’l-Fazl nel 3° libro della sua Maktubat. Lo stesso libro contiene un’elegia sulla morte di Faizi.
I manoscritti del Nal o Daman di Faizi sono assai numerosi. Il suo Divan, eccettuate le Qasa’id, 28 fu litografato a Dihli, nel 1201 A.H., ma è stato a lungo esaurito. Termina con una Ruba‘i (di Faizi), che mostra che le parole Divan-i Faizi contengono il tarik, vale a dire l’anno dell’Egira 971,29 una data di gran lunga troppo lontana, dato che egli nacque solo nel 954.30 Il Mir’atu’l-‘Alam 31 dice che Faizi compose 101 libri, Bada’uni valuta i suoi versi in 20.000, e Abu’l-Fazl in 50.000. Lo Akbarnamah (40° anno) contiene numerosi estratti dalle opere di Faizi. Daghistani 32 dice nel suo Riyaz al-su‘ara’ che Faizi era un discepolo di Kvajah Husain Sana’i di Mashad, e sembra che Abu’l-Fazl abbia per tale ragione posto Sana’i immediatamente dopo Faizi. Lo stesso scrittore sottolinea che Faizi in Persia è spesso erroneamente chiamato Faizi-i Dakini.

Molti degli estratti sotto riportati non si trovano né nelle edizioni stampate né nei manoscritti delle opere di Faizi.
Ma ora è l’amore fraterno — un amore che non procede lungo la strada delle critiche minuzie — che mi comanda di mettere per iscritto alcuni dei suoi versi.

soldati persiani

soldati persiani

Estratti dalle Qasaid (Odi) di Faizi.

1. O Thou who existest from eternity and abidest
for ever, sight cannot bear Thy light, praise
cannot express Thy perfection.
.
1. O Tu che esisti dall’eternità e sempre perduri, la vista
non può sopportare la Tua luce, la lode
non può esprimere la Tua perfezione.
.
2. Thy light melts the understanding, and Thy
glory baffles wisdom; to think of Thee destroys
reason, Thy essence confounds thought.
.
2. La Tua luce dissipa la comprensione, e la Tua
Gloria elude la saggezza; pensare a Te distrugge
la ragione, la Tua essenza confonde il pensiero.
.
3. Thy holiness pronounces that the blood drops
of human meditation are shed in vain in search
of Thy knowledge: human understanding is but
an atom of dust.
.
3. La Tua santità dichiara che le gocce di sangue
dell’umana meditazione vengono sparse invano
alla ricerca della Tua conoscenza: l’umana
comprensione è solo un atomo di polvere.
.
4. Thy jealousy, the guard of Thy door, stuns
human thought by a blow in the face, and gives
human ignorance a slap on the nape of the neck.
.
4. La Tua gelosia, il custode della Tua porta,
stordisce l’umano pensiero con un colpo in viso,
e dà all’umana ignoranza uno schiaffo sulla nuca.
.
28 N.d.C.: Qasa’id è il plurale di Qasidah, una particolare forma di composizione poetica.
29 N.d.C.: Il titolo “Divan-i Faizi” è composto dalle lettere: d=4, y=10, v=6, a=1, n=50; f=80, y=10, z=800, y=10, per un totale appunto di 971. 30 N.d.C.: A Blochmann questa data sembra troppo indietro nel tempo, in quanto Faizi avrebbe avuto solo 17 anni. 31 N.d.C.: Cioè Speculum mundi, opera sulla storia dell’imperatore Aurangzib composta da Muhammad Baktāvar Kān (morto nel 1685). 32 N.d.C.: ‘Ali Quli Dagistani morì nel 1712.

600 a.c soldati persiani

600 a.c soldati persiani

 

5. Science is like blinding desert sand on the
road to Thy perfection; the town of literature is a
mere hamlet compared with the world of Thy
knowledge.
.
5. La scienza è come accecante sabbia del
deserto sulla strada verso la Tua perfezione; la
città della letteratura è solo un minuscolo
villaggio a paragone col mondo della Tua
conoscenza.
.
6. My foot has no power to travel on this path
which misleads sages; I have no power to bear
the odour of this wine, it confounds my
knowledge.
.
6. Il mio piede non ha potere di viaggiare su
questo sentiero che fuorvia i saggi; io non ho
potere di sopportare l’odore di questo vino, esso
confonde la mia conoscenza.
.
7. The tablet of Thy holiness is too pure for the
(black) tricklings of the human pen; the dross of
human understanding is unfit to be used as the
philosopher’s stone.
.
7. La tavoletta della Tua santità è troppo pura
per i (neri) gocciolii della penna umana; le
scorie della comprensione umana sono inadatte a
essere usate come pietra filosofale.
.
8. Man’s so called foresight and guiding reason
wander about bewildered in the streets of the
city of Thy glory.
.
8. La cosiddetta lungimiranza e la ragione guida
dell’uomo vagano disorientate per le strade della
città della Tua gloria.
.
9. Human knowledge and thought combined can
only spell the first letter of the alphabet of Thy
love.
.
9. La conoscenza e il pensiero umani congiunti
possono solo compitare la prima lettera
dell’alfabeto del Tuo amore.
.
10. Whatever our tongue can say, and our pen
can write, of Thy Being, is all empty sound and
deceiving scribble.
.
10. Qualunque cosa la nostra lingua possa dire, e
la nostra penna scrivere sul Tuo Essere, è tutto
un vuoto suono e un ingannevole scarabocchio.

pittura erotica persiana

pittura erotica persiana

11. Mere beginners and such as are far advanced
in knowledge are both eager for union with
Thee; but the beginners are tattlers, and those
that are advanced are triflers.
.
11. Semplici principianti e quanti sono
progrediti assai nella conoscenza, tutti sono
impazienti di unirsi con Te; ma i principianti
sono dei chiacchieroni, e i progrediti sono degli
sfaccendati.
.
12. Each brain is full of the thought of grasping
Thee; the brow of Plato even burned with the
fever heat of this hopeless thought.
.
12. Ogni cervello è colmo del pensiero di
afferrarTi; anche la fronte di Platone bruciava
per il calore febbrile di questo pensiero senza
speranza.
.
13. How shall a thoughtless man like me
succeed when Thy jealousy strikes down with a
fatal blow the thoughts [*] of saints?
.
13. Come potrà aver successo un uomo
avventato come me quando la Tua gelosia
percuote d’un colpo fatale i pensieri [*] dei
santi?
.
[*] Letteralmente: conficca un pugnale nei fegati dei tuoi santi.
.
14. O that Thy grace would cleanse my brain;
for if not, my restlessness (qutrub) [*] will end
in madness.
.
14. Oh possa la tua grazia purificare il mio
cervello; ché se così non sarà, la mia
inquietudine (qutrub) [*] terminerà in follia.
.
[*] Il mio testo ha fitrat; ma molti manoscritti delle Qasaid di Faizi hanno qutrub, che significa follia incipiente, inquietudine di pensiero.

pittura erotica persiana

pittura erotica persiana

 

15. For him who travels barefooted on the path
towards Thy glory, even the mouths of dragons
would be as it were a protection for his feet (lit.
greaves). [*]
.
15. Per colui che viaggia scalzo sul sentiero
verso la Tua gloria, si potrebbe dire che persino
le bocche dei dragoni costituirebbero una
protezione per i suoi piedi (lett. gambiere).
.
[*] Vale a dire che il terrore delle bocche dei dragoni è pur esso una protezione paragonato con le difficoltà sulla strada che porta alla comprensione della Gloria di Dio.
.
16. Compared with Thy favour, the nine metals
of earth are but as half a handful of dust;
compared with the table of Thy mercies, the
seven oceans are a bowl of broth.
.
16. Paragonati al Tuo favore, i nove metalli della
terra non sono che una mezza manciata di
polvere; paragonati con la tavola delle Tue
grazie, i sette oceani sono una ciotola di brodo.
.
17. To bow down the head upon the dust of Thy
threshold and then to look up, is neither correct
in faith, nor permitted by truth.
.
17. Chinare la testa sulla polvere della Tua
soglia e poi guardare in su, non è né corretto
nella fede, né consentito dalla verità.
.
18. Alas, the stomach of my worldliness takes in
impure food like a hungry dog, although Love,
the doctor, [*] bade me abstain from it.
.
18. Ahimè, lo stomaco della mia mondanità
assume cibo impuro come un cane affamato,
quantunque Amore, il dottore, mi abbia comandato di astenermene.
.
[*] Letteralmente: Ippocrate.

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Carlo Sini intervistato da Silvia Bellia dal «linguaggio universale» alla Babele linguistica di oggi – «I gesti sono la scrittura del corpo»  – Pensieri suIl cavaliere, la morte e il diavolo” di Albrecht Dürer

"The Knight, the death and the devil", B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.

“The Knight, the death and the devil”, B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.

da http://www.hounlibrointesta.it

Il cavaliere, la morte e il diavolo. E’ con l’immagine di questa incisione di Albrecht Dürer che il professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Milano, Carlo Sini, inizia la sua lezione, dal tema: I nomi e le cose – L’epopea dimenticata. “Husserl – spiega Sini – scorgeva nel cavaliere fiero e sprezzante del pericolo che, chiuso nella sua corazza, precedeva senza timore, incurante del diavolo e della morte, il cammino della fenomenologia”. Oggi come allora, sostiene il professore, la filosofia – per vedere le cose con sguardo puro – deve evitare di cadere in due tentazioni: “l’oblio del linguaggio (la morte) e la sopravvalutazione delle parole (il diavolo)”. Secondo Sini infatti, il segno mai coincide con le cose, “le parole non sono cose”. Il linguaggio è piuttosto un automa, il primo grande artificio costruito dall’uomo. “E’ un’eredità. Ciascuno di noi è parlato dal linguaggio, vero e proprio pacemaker del pensiero. Quel che manca è la consapevolezza che parole e cose sono inscritte insieme nella storia”.

 Per Carlo Sini la filosofia non è né scienza né poesia: “essa deve procedere, come il cavaliere, con coraggio, verso la cosa stessa”. Le parole hanno senso ora, ma sono sempre postume. Posticce. “Non tutto può esser detto in ogni tempo”, sentenzia Sini. Ecco allora che per giungere alle cose, al sapere dei segni, occorre esser consci che la nostra mentalità presente, non è eterna, unica o universalmente vera, bensì un prodotto, transitorio, come tutti gli altri. Nietzsche si era reso conto di questo fatto, quando nel 2° aforisma di Umano troppo umano parla di un filosofare cieco. Cieco perché ignora che la storia dell’umanità è ben più lunga di quella che i loro occhi possono vedere. “Dobbiamo recuperare la storia, quella di tutti – continua Sini – nella consapevolezza che abbiamo un rapporto vivente coi segni del passato. La cosa cammina la parola. Le parole fanno transitare le cose sin dove possono, poi nasce l’esigenza di creare parole nuove, perché queste non bastano mai”. L’epopea è, secondo Sini, la sostanza di ogni cosa. “La verità assoluta è nel transito, nell’abbandono dei saperi superstiziosi. La filosofia è l’avvocato della vita, direbbe Nietzsche, il ricordo della vita che è transitata, transita e transiterà. Ridar voce all’epopea dimenticata, al sapere dei segni, significa anche non cadere nelle illusioni scientistiche di tanti nostri contemporanei, che credono con un paio di molecole, di avere risolto questioni che attengono l’umano”.

 (Jessica Bianchi)

Albrecht Durer The Fall of Man (Adam and Eve) 1504

Albrecht Durer The Fall of Man (Adam and Eve) 1504

 Quanto è antico il sapere dell’uomo? La nostra esistenza millenaria ha inciso e continua a incidere sul mondo, lasciando tracce eterne e transeunti. Per ritrovare le origini della sapienza umana, occorre interrogarsi sulla natura dei segni che accompagnano da sempre il nostro passaggio.

Il professore Carlo Sini, accademico dei Lincei, e per oltre trent’anni docente di Filosofia teoretica all’università di Milano, nel libro Il sapere dei segni, edito da Jaca Book, analizza il senso delle figure e delle scritture umane, «senza dimenticare che anche la nostra mente che “rin-traccia” è un prodotto interno di questo cammino». Possiamo avvicinarci solo indefinitamente ai segni del passato, perché ogni volta che tentiamo di rintracciarli, in realtà li «ri-tracciamo», li duplichiamo nella rappresentazione, creando qualcosa di nuovo e di diverso.

 Si può ipotizzare che diecimila anni fa sulla terra esistesse una sorta di «linguaggio universale», che i nostri antenati utilizzassero «un sistema di espressione comune, fatto della convergenza di gesto, suono, visione, esercitati e vissuti come un atto globale». La differenziazione culturale, la torre di Babele nella quale viviamo sarebbe un’acquisizione successiva.

Albrecht Durer Apocalisse

Albrecht Durer Apocalisse

Analogamente, la sintassi dell’arte preistorica potrebbe aver generato la nostra attuale forma di scrittura. «La configurazione delle nostre lettere alfabetiche non è affatto arbitraria o convenzionale. Ogni lettera è invece un disegno decaduto o stilizzato la cui origine va rintracciata proprio nelle figure e nei segni del paleolitico e del neolitico».

 Rispetto al passato, dunque, c’è qualcosa che abbiamo perduto. L’unità di scrittura, figura e azione. Le parole si sono separate dalla loro figura, si sono «s-figurate», diventando astratte e autonome. La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.

waka 3 Le dinamiche percettive sono complesse e intrecciate; per scoprire cosa significa davvero «sentire», dovremmo considerare la possibilità di «ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie». L’esperienza non è mai univoca. Anche del lattante di poche settimane o di pochi mesi, non si può dire che sia una «tabula rasa», un «foglio bianco» unidimensionale, puramente ricettivo: egli «è già un mondo complesso di emozioni, di immaginazioni e di pensieri, ancorché non verbali». Secondo gli studi di Daniel Stern sulla prima infanzia e sullo sviluppo psichico infantile, la formazione del Sé emerge molto prima dell’avvento del linguaggio. Da sempre siamo circondati dai segni e, grazie ai segni, impariamo a comunicare.

 Il professore Sini ha introdotto in Italia il pensiero di Charles Sanders Peirce , considerato il padre della semiotica; citando il filosofo statunitense, il nostro autore scrive che anche la più semplice delle nostre azioni e delle nostre inferenze nasconde in sé «una filosofia dell’universo». Non appena nasciamo, siamo immersi in un linguaggio universale, in una musica eterna. Non è forse un caso che l’opera letteraria più frequentata da Carlo Sini sia la Divina Commedia, una rappresentazione allegorica dell’umanità, un itinerario trascendente e simbolico, che, da un cerchio all’altro della vita, dal sottosuolo ultraterreno alle altezze celesti, illumina il chiaroscuro che l’uomo sperimenta tutti i giorni, e di cui vivono anche i suoi segni.

ideogramma cinese nomi vari

ideogramma cinese nomi vari

Il sapere dei segni è la sapienza delle nostre origini. Secondo lei, professore, la nostra mente è in grado di rivivere e di «riscrivere» un passato ormai trascorso e dimenticato?

 «Il passato è tale proprio in quanto è trascorso e dimenticato. Solo a questo prezzo può essere ricordato, il che vuol dire: riportato nel cuore del sapere e perduto per la vita diretta. Quindi il cosiddetto passato è in realtà quella presenza che sempre agisce inconsapevole (il passato dei miei genitori rivive nel mio corpo ecc.): questo passato non è mai passato, è la vivente continuità della vita. In questo senso l’animale non ha passato; solo gli esseri umani ce l’hanno, poiché dispongono di segni per constatare la differenza intercorsa tra l’essere e l’avere, l’agire e il sapere, il vivere e il ricordare di aver vissuto; anzitutto, ovviamente, perché dispongono di segni del linguaggio».

ideogramma cinese della parola Te'

ideogramma cinese della parola Te’

 Prima dell’invenzione della tecnica della scrittura, il linguaggio era diverso: il dire non era diverso dal fare, le immagini, i gesti e i suoni erano una cosa sola. La nascita del segno scritto ha comportato una perdita per l’umanità?

 «La scrittura, diceva Derrida, è antica quanto il linguaggio e io sono d’accordo. I gesti sono la scrittura del corpo, così come le pitture del viso ecc.; lo stesso è da dire delle vesti e dei manufatti; la parola è la scrittura della voce ecc. In generale la scrittura, in quanto lascia traccia di sé, costruisce progressivamente una distanza tra l’agito in forma diretta e irriflessa e il saputo in forma riflessa e replicabile. In questo senso è giusto dire che il mondo animale, più che non disporre di forme di linguaggio, non possiede scritture, cioè repliche del mondo e dei suoi significati in un microcosmo quale è appunto ogni supporto di scrittura. Se un uomo va alla capanna del suo amico e la trova sbarrata, con sopra una tavoletta sulla quale l’amico ha disegnato una barca e tre lune, il messaggio è chiaro: sono partito in barca e starò via tre notti. Ogni scrittura è una dilatazione dei nostri orizzonti conoscitivi: veniamo a sapere cose che altrimenti ci resterebbero ignote. Le scritture segnano il progresso scientifico dell’umanità. Questo ufficio della scrittura non equivale però alla possibilità espressiva ed emotiva che ci caratterizza nel vivere diretto. Non è che la scrittura ci abbia sottratto alcunché (ci ha donato e ci dona anzi moltissimo). Sta a noi non confondere informazione ed espressione, conoscenza e vita, quantità che caratterizza un messaggio ed eventuale qualità del medesimo. Questo significa anche che la verità non è mai costituita da una sola figura (per esempio matematica), ma che una pluralità di figure sempre la attraversa».

ideogramma cinese Poetry

ideogramma cinese Poetry

I simboli hanno un rapporto stretto con la trascendenza?

 «Simbolo è ciò che unisce a distanza, è ciò che rimette insieme quello che è stato separato. La trascendenza è la sua stessa natura; alludervi è la sua funzione. Con questo non ho detto: “esiste” una “cosa trascendente”. Ho piuttosto alluso al fatto per cui ogni presenza fa segno e si rivolge a ciò che è presente solo come assente».

 La cultura cinese, con i suoi ideogrammi e i concetti filosofici di yin e yang conserva ancora una traccia dell’unione di parola e figura?

 «Sicuramente conserva una traccia “figurativa”, anche se l’uso moderno degli ideogrammi, il rapporto con l’Occidente, l’imporsi della tastiera del computer e dei telefonini (cioè il tratto sempre più universale della scrittura alfabetica) sta progressivamente cancellando storia, tradizione e figura nella scrittura cinese».

ideogramma cinese per speranza

ideogramma cinese per speranza

Lei parla del rapporto tra la madre e il neonato come di un momento di interpretazione di emozioni, immaginazioni e pensieri non verbali. Cosa possiamo imparare dallo studio della prima infanzia?

«Il neonato ci presenta l’esempio più vicino e più vivo del mondo preverbale che tutti abbiamo attraversato. Il suo studio è fecondo ed entusiasmante, rivelatore di molti segreti della vita adulta. Bisogna però sempre ricordare che le nostre ricostruzioni sono scritture e mappe del sapere, non l’equivalente del vissuto infantile. Dicono di noi, di come siamo accaduti, più che dire della vita infantile diretta: questo bisogna ricordarlo, per non cadere nelle ingenuità “oggettivistiche” e “naturalistiche” che spesso assediano la mente degli scienziati, nonostante il loro preziosissimo lavoro».

 Lei scrive che il vero compito della filosofia è quello d’intendere la «differenza e la relazione tra vita e sapere». Secondo lei, quando e come avviene l’incontro tra il sapere e la vita? E tra la vita e la verità?

 «La domanda è molto complessa ed è formulata in modo assai suggestivo. Esiste una vita cieca a se stessa, che non si pone domande, come si dice, di senso; una vita che promuove se stessa ereditando lo spirito vitale di ciò che appunto l’ha prodotta. Poi esiste anche una “vita della verità” che ha molti sensi. Anzitutto quello di dire la verità o il suo contrario: è la più antica nozione di verità sorta nelle comunità umane. Poi c’è la verità ritenuta tale da tutti i membri di un gruppo sociale. Per esempio: è vero che c’è tra noi qualcuno di impuro; per questo gli Dei ci puniscono con una pestilenza. Queste innumerevoli figure della verità affrontano appunto la selezione della vita e divengono e si trasformano esse stesse con la vita. Talvolta muoiono, talaltra risorgono e così via. Non bisogna cadere nella superstizione della verità, cioè nella identificazione della verità con un suo contenuto, con un suo significato definito. Sarebbe come identificare l’umanità con questo uomo. Ma questo uomo muore e l’umanità no. Così i significati di verità tramontano, ma l’evento della verità nelle sue figure, l’incontro che continuamente facciamo con questo evento, imparando da esso a non sopravvalutare i nostri significati di verità, questo evento e questo incontro sono la verità in cui siamo volta a volta iscritti: la verità che attende e stimola la nostra capacità di accogliere, di mutare, cioè di vivere con coraggio e senza presunzioni superstiziose il suo continuo evento».

ideogramma cinese Bellezza

ideogramma cinese Bellezza

 La letteratura e la poesia riescono a conservare la magia degli inizi? C’è un’opera letteraria che le sta particolarmente a cuore, per il suo valore creativo e simbolico?

 «Gli inizi dell’espressività umana sembrano essere caratterizzati da ciò che i Greci chiamavano “arti dinamiche”, cioè dal canto, dalla danza e anche dalla figuratività delle espressioni. Una volta approdati alle lettere (anzitutto con la trascrizione in Occidente dei due poemi epici attribuiti a Omero, diversa è la vicenda dell’Oriente), è nata appunto la scrittura “letteraria”, che tenta di recuperare, attraverso i segni dell’alfabeto, le emozioni originarie del vivere (per dire la cosa molto in fretta e in modo certo insufficiente). Nella letteratura, intesa nel senso più ampio, si deposita il ricordo della intera epopea dell’umanità e quindi la più alta consapevolezza della nostra storia e del nostro destino. Tra le grandi opere letterarie dell’umanità, quella che ho più frequentato e che ancora frequento con frutto indescrivibile è la “Commedia” di Dante».

 Carlo Sini (Bologna, 6 dicembre 1933) ha studiato all’Università degli Studi di Milano con Giovanni Emanuele Barié ed Enzo Paci, con il quale si è laureato in Filosofia, diventandone in seguito assistente. Dopo aver conseguito la libera docenza in Filosofia teoretica, ha insegnato Filosofia della storia e Storia della filosofia presso l’Università degli Studi dell’Aquila. Nel 1976 è stato chiamato a ricoprire la cattedra di Filosofia teoretica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano, dove ha anche svolto per un triennio la funzione di Preside di Facoltà. Membro per molti anni del Collegium Phaenomenologicum di Perugia, del Direttivo Nazionale della Società Filosofica Italiana e dell’Institut International de Philosophie di Parigi, è socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Istituto lombardo di scienze e lettere e dell’Archivio Husserl di Lovanio. Insignito nel 1985 per una sua opera del Premio della Presidenza del Consiglio dello Stato italiano, ha ricevuto nel 2002 la Croce d’onore di I Classe per la Scienza e l’Arte dallo Stato austriaco.

Sini è stato tra i primi a segnalare all’attenzione del pubblico italiano l’importanza dell’opera di Charles Sanders Peirce, e ha proposto un filone di ricerca sulla convergenza teoretica dei percorsi filosofici di Peirce e Heidegger sul filo dell’ermeneutica benché la sua formazione didattica fosse di orientamento prevalentemente fenomenologico.

La sua proposta teoretica si è in seguito concentrata sul tema della scrittura e sulla centralità dell’alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale. In particolare, in Figure dell’enciclopedia filosofica, Sini rende conto della radicalità del gesto istitutivo platonico e della nascita della filosofia in modo da illuminare la genealogia della nostra civiltà e le figure del suo destino. Questa pubblicazione si misura con nodi problematici e profondi della nostra cultura. Viene mostrata la verità del gesto filosofico di Platone nel tratto tecnologico della parola alfabetica che trasforma la relazione al mondo in “cosità”. La pratica del concetto, infatti, in-forma il paradigma dell’oggettività e traduce le “sterminate antichità” dell’umano all’interno dell’ambito cronotopico della visione logica elaborata dalla scansione alfabetica del mondo (con la conseguente nascita del tempo e del sapere storico).

All’educazione mitologica dell’uomo si sostituisce l’educazione psichica dell’anima nella rimozione delle qualità sensibili della vita vissuta. Prima operazione di ingegneria genetica che comporta sia la nascita del soggetto morale nella paideia del bio-politico (come Nietzsche aveva intuito) sia il conseguente destino nichilista rivelato del contemporaneo inteso come “epoca deldisincanto”, secondo la nota definizione di Max Weber. Ma l’intreccio che dalla preistoria conduce ai nostri giorni, rinvia al desiderio e all’iscrizione originaria che danza nelle figure della sessualità e della morte. La soglia così dischiusa, annunciata dalla verità analogica dell’evento mimato nella generazione, transita [transitare è intransitivo] il movente desiderante nel “desiderio di vita eterna” [X proposizione logicamente insensata]. Platone e la logica disgiuntiva hegeliana rappresentano i due poli più rilevanti di questa consapevolezza lancinante. Addirittura, tutta la filosofia platonica è probabilmente da pensare come la domanda più alta e profonda che sia mai stata posta alla sapienza dionisiaca. Dagli ominidi alla società dell’informazione(sul filo delle pratiche che ne circoscrivono le traiettorie) la trama del senso transita dai “signa” ai “segni”, disegnando le coordinate del nostro tempo e il predominio della visione scientifica e delle sue figure che dileguano la consistenza oggettuale dell’oggettività, profilando nel rituale pubblico del potere finanziario, e nella conseguente imposizione dell’universalità oggettiva, un paradosso costitutivo che nasconde nuove e positive opportunità ancora tutte da scoprire (e attualmente mascherate dalla deleteria mercificazione imperante). Delineando nuove occasioni di senso, le Figure dell’enciclopedia invitano a “sognare più vero”, vale a dire ad abitare la conoscenza filosofica nell’esercizio dell’evento del significato nella concretezza delle sue pratiche. Ethos di una nuova scrittura della soggezione del mortale al desiderio, nell’apertura al transito.

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Italo Calvino recensione al romanzo di Milan Kundera «Due obiezioni a “L’insostenibile leggerezza dell’essere“»

Milan Kunderada “La Repubblica” 1985 

Franz aveva dodici anni quando il padre abbandonò la madre all’improvviso. Il ragazzo intuì che era accaduto qualcosa di grave, ma la madre velò il dramma dietro parole misurate e neutre, per non turbarlo. Quello stesso giorno erano andati in città e Franz, uscendo di casa, si era accorto che la madre aveva ai piedi scarpe diverse. Rimase confuso, voleva farglielo notare, ma allo stesso tempo temeva in quel modo di ferirla. E così aveva passato due ore con lei in giro per la città e per tutto il tempo non aveva potuto staccare gli occhi dai suoi piedi. Allora, per la prima volta, aveva cominciato a capire che cos’è la sofferenza”.

Questo passo dà bene la misura dell’arte di raccontare di Milan Kundera – della sua concretezza, della sua finezza – e ci avvicina a comprendere il segreto per cui nel suo ultimo romanzo (L’insostenibile leggerezza dell’essere, traduzione di Antonio Barbato, Adelphi, pagg. 318, lire 20.000: quando uscì in Francia ne parlò su queste pagine Elena Guicciardi) il piacere della lettura si riaccenda di continuo. Tra tanti scrittori di romanzi, Kundera è un romanziere vero, nel senso che le storie dei personaggi sono il suo primo interesse: storie private, soprattutto storie di coppie, nella loro singolarità e imprevedibilità. Il suo modo di raccontare procede a ondate successive (gran parte dell’azione si sviluppa nelle prime trenta pagine; la conclusione è già annunciata a metà romanzo; ogni storia viene completata e illuminata strato a strato) e attraverso divagazioni e commenti che trasformano il problema privato in problema universale, dunque anche nostro.

Ma questa problematicità generale, anziché aggiungere gravità, fa da filtro ironico, alleggerisce il pathos delle situazioni. Tra i lettori di Kundera ci può essere chi s’appassiona di più alla vicenda e chi (io, per esempio) alle divagazioni. Ma anche queste si trasformano in racconto. Come i suoi maestri settecenteschi Sterne e Diderot, Kundera fa delle sue riflessioni estemporanee quasi un diario dei suoi pensieri e umori. L’ironica problematicità universal-esistenziale coinvolge anche ciò che, trattandosi di Cecoslovacchia, non può essere dimenticato neanche per un minuto, cioè quell’insieme di vergogne e insensatezze che una volta si chiamava la Storia e che ora può solo dirsi la maledetta sfortuna d’essere nato in un paese piuttosto che in un altro. Ma Kundera, facendone non “il problema” ma solo una complicazione in più dei guai della vita, elimina quel doveroso, allontanante rispetto che ogni letteratura degli oppressi incute in noi immeritatamente privilegiati, e in questo modo ci coinvolge nella disperazione quotidiana dei regimi comunisti molto di più che se facesse appello al pathos.

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Il nucleo del libro sta in una verità tanto semplice quanto ineludibile: è impossibile agire valendosi dell’esperienza perché ogni situazione cui ci troviamo di fronte è unica e ci si presenta per la prima volta. “Qualsiasi studente nell’ora di fisica può provare con esperimenti l’esattezza di un’ipotesi scientifica. L’uomo, invece, vivendo una sola vita, non ha alcuna possibilità di verificare un’ipotesi mediante un esperimento, e perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento”. Kundera collega questo assioma fondamentale con corollari non altrettanto solidi: la leggerezza del vivere per lui sta nel fatto che le cose avvengono una volta sola, fugacemente, dunque è quasi come se non fossero avvenute.

I. Calvino e J.L. Borges

I. Calvino e J.L. Borges

La pesantezza invece sarebbe data dall’«eterno ritorno» ipotizzato da Nietzsche: ogni fatto diventa spaventoso se sappiamo che si ripeterà infinite volte. Ma – obietterei – se l’«eterno ritorno» (sul cui possibile significato esatto non ci si è mai messi d’accordo) è ritorno dell’identico, una vita unica e irripetibile equivale esattamente a una vita infinitamente ripetuta: ogni atto è irrevocabile, non modificabile per l’eternità. Se invece l’«eterno ritorno» è una ripetizione di ritmi, di schemi, di strutture, di geroglifici del destino, che lasciano spazio per infinite piccole varianti nei dettagli, allora si potrebbe considerare il possibile come un insieme di fluttuazioni statistiche, in cui ogni evento non escluderebbe alternative migliori o peggiori, e la definitività d’ogni gesto risulterebbe alleggerita.

Leggerezza del vivere è per Kundera ciò che si oppone alla irrevocabilità, alla univocità esclusiva: tanto in amore (il medico praghese Tomáš vorrebbe praticare solo l’«amicizia erotica», evitando coinvolgimenti passionali e convivenze coniugali) quanto in politica (questo non è detto esplicitamente, ma la lingua batte dove il dente duole, e il dente è naturalmente l’impossibilità dell’Europa dell’Est di cambiare – o almeno alleviare – un destino che non si è mai sognata di scegliere). Ma Tomáš finisce per accogliere in casa e sposare Tereza, cameriera d’ un ristorante di provincia, per “compassione”. Non solo: dopo l’ invasione russa del ‘ 68, Tomáš riesce a scappare da Praga e a emigrare in Svizzera, con Tereza; la quale però, dopo qualche mese viene presa da una nostalgia che si manifesta come vertigine di debolezza verso la debolezza del suo paese senza speranza: e rimpatria. Ecco allora che Tomáš, che avrebbe tutte le ragioni, ideali e pratiche, per restare a Zurigo, decide di tornare a Praga anche lui, pur sapendo di chiudersi in una trappola e d’andare incontro a persecuzioni e umiliazioni (non potrà più fare il medico e finirà lavatore di vetri). Perché lo fa? Perché, pur professando l’ideale della leggerezza del vivere, e pur avendone un esempio pratico nel rapporto con una sua amica, la pittrice Sabina, ha sempre avuto il dubbio che il vero valore non sia nell’idea contraria, nel peso, nella necessità. “Es muss sein!” “Ciò deve essere!” dice l’ultimo movimento dell’ultimo quartetto di Beethoven. E Tereza, amore nutrito di compassione, amore non scelto ma impostogli dal destino, assume ai suoi occhi il significato di questo fardello dell’ ineluttabile, dell’«Es muss sein!».

Si viene a sapere più in là (ecco come le divagazioni formano quasi un romanzo parallelo) che l’occasione che aveva portato Beethoven a scrivere «Es muss sein!» non era nulla di sublime, ma una banale storia di quattrini prestati da recuperare; così come il destino che aveva portato Tereza nella vita di Tomáš era solo un seguito di coincidenze fortuite. In realtà questo romanzo intitolato alla leggerezza ci parla soprattutto della costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che avvolge le persone, che esercita il suo peso su ogni rapporto umano (e non risparmia neppure quelli che Tomáš vorrebbe considerare fuggevoli couchages). Anche il dongiovannismo, su cui Kundera ci dà una pagina di definizioni originali, ha motivazioni tutt’ altro che “leggere”: sia quando risponde a una “ossessione lirica”, cioè ricerca tra le molte donne della donna unica e ideale, sia quando è motivato da una “ossessione epica”, cioè ricerca d’ una conoscenza universale nella diversità.

 La sensualité c'est la mobilisation maximale des sens  on observe l'autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

La sensualité c’est la mobilisation maximale des sens on observe l’autre intensément et on écoute ses moindres bruits (M. Kundera)

Tra le storie parallele il maggior rilievo va alla storia di Sabina e di Franz. Sabina come rappresentante della leggerezza e portatrice dei significati del libro è più persuasiva del personaggio a cui si contrappone, cioè Tereza. (Direi che Tereza non arriva ad avere il “peso” necessario per giustificare una decisione tanto autodistruttiva da parte di Tomáš). È attraverso Sabina che la leggerezza acquista evidenza come “fiume semantico”, cioè rete d’associazioni e immagini e parole su cui si basa l’intesa amorosa di lei e Tomáš, una complicità che Tomáš non può ritrovare con Tereza, né Sabina con Franz. Franz, scienziato svizzero, è l’intellettuale progressista occidentale come lo può vedere chi, dall’Europa dell’ Est, lo considera con l’ impassibile oggettività d’un etnologo che studi i costumi d’ un abitante degli antipodi. La vertigine d’indeterminatezza che ha sostenuto gli entusiasmi di sinistra negli ultimi vent’anni è indicata da Kundera con il massimo di precisione compatibile a così inafferrabile oggetto: “Dittatura del proletariato o democrazia? Rifiuto della società dei consumi o aumento della produzione? Ghigliottina o abolizione della pena di morte? Non è questo l’importante”. Ciò che caratterizza la sinistra occidentale, secondo Kundera, è quella che lui chiama la Lunga Marcia, che si svolge con la stessa vaghezza di propositi e di emozioni “ieri contro gli americani che occupavano il Vietnam, oggi contro il Vietnam che occupa la Cambogia, ieri per Israele, oggi per i palestinesi, ieri per Cuba, domani contro Cuba e sempre contro l’America, ogni volta contro i massacri e ogni volta in appoggio ad altri massacri, l’Europa marcia e per seguire il ritmo degli avvenimenti e non lasciarsene sfuggire nessuno il suo passo diventa sempre più veloce, sicché la Grande Marcia è un corteo di gente che corre e si affretta e la scena è sempre più piccola, fino a che un giorno non sarà che un punto senza dimensioni”.

Italo Calvino

Italo Calvino

Seguendo i tormentosi imperativi del senso del dovere di Franz, Kundera ci porta alle soglie del più mostruoso inferno generato dalle astrazioni ideologiche quando diventano realtà, la Cambogia, e descrive una marcia internazionale umanitaria in pagine che sono un capolavoro di satira politica. Al polo opposto di Franz, la sua partner temporanea, Sabina, fa da portavoce dell’autore in quanto mente lucida nello stabilire confronti e contrasti e paralleli tra l’ esperienza della società comunista in cui è cresciuta e l’ esperienza dell’Occidente. Uno dei cardini di questi confronti è la categoria del Kitsch. Kundera considera il Kitsch nell’accezione di rappresentazione edulcorata, edificante, “vittoriana”, e naturalmente pensa al “realismo socialista” e alla propaganda di regime, maschera ipocrita di tutti gli orrori. Sabina che, stabilitasi negli Stati Uniti, ama New York per quanto vi è di “bellezza non intenzionale”, “bellezza per errore”, è sconvolta quando vede affiorare il Kitsch americano, tipo pubblicità della Coca-Cola, che gli ricorda le immagini radiose di salute e di virtù tra le quali è cresciuta.

Italo Calvino

Italo Calvino

Ma Kundera giustamente precisa: “Il Kitsch è l’ ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i movimenti politici. In una società dove coesistono orientamenti politici diversi e dove quindi la loro influenza si annulla o si limita reciprocamente, possiamo ancora in qualche modo sfuggire all’inquisizione del Kitsch… Ma là dove un unico movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo nel regno del Kitsch totalitario”. Il passo che resta da compiere è liberarsi dalla paura del Kitsch, una volta che ci si è salvati dal suo totalitarismo e lo si può vedere come un elemento in mezzo a tanti altri, una immagine che perde velocemente il proprio potere mistificatorio per conservare solo il colore del tempo che passa, la testimonianza della mediocrità o dell’ingenuità di ieri. È quello che mi pare succeda a Sabina, per cui possiamo riconoscere nella sua storia un itinerario spirituale di riconciliazione col mondo. Alla vista, tipica dell’idillio americano, delle finestre illuminate in una casa di legno bianco su un prato, Sabina sorprende in se stessa un moto di commozione. E non le resta che concludere: “Per quanto forte sia il nostro disprezzo, il Kitsch fa parte della condizione umana”. Una conclusione molto più triste è quella della storia di Tereza e Tomáš; ma qui, attraverso la morte d’un cane, e la cancellazione di se stessi in una sperduta località di campagna, si arriva quasi a un assorbimento nel ciclo della natura, in un’idea del mondo che non ha al suo centro l’uomo, anzi che non è assolutamente fatto per l’uomo.

petr kral casinò a Praga

Milan Kundera

Le mie obiezioni a Kundera sono due: una terminologica e una metafisica. L’obiezione terminologica riguarda la categoria del Kitsch, di cui Kundera prende in considerazione solo una tra le varie accezioni. Ma del cattivo gusto della cultura di massa fa parte anche il Kitsch che pretende di rappresentare la spregiudicatezza più audace e “maledetta” con effetti facili e banali. Certo è meno pericoloso dell’altro, ma ne va tenuto conto per evitare di crederlo un antidoto. Per esempio, vedere l’assoluta contrapposizione al Kitsch nell’immagine d’una donna nuda con in testa una bombetta da uomo non mi pare del tutto convincente. L’obiezione metafisica ci porta più lontano. Riguarda “l’accordo categorico con l’essere”, atteggiamento che per Kundera sarebbe alla base del Kitsch come ideale estetico. “La differenza che separa coloro che mettono in discussione l’essere così come è stato dato all’uomo (non importa in che modo o da chi) da coloro che vi aderiscono senza riserve” è data dal fatto che l’adesione impone l’illusione d’un mondo in cui non esista la defecazione, perché secondo Kundera la merda è la negatività assoluta, metafisica. Obietterò che per i panteisti e per gli stilistici (io appartengo a una di queste due categorie, non preciserò quale) la defecazione è una delle più grandi prove della generosità dell’universo (della natura o provvidenza o necessità o cos’altro si voglia). Che la merda sia da considerare tra i valori e non tra i disvalori, è per me una questione di principio. Da ciò derivano conseguenze fondamentali. Per non cadere nei vaghi sentimenti d’una redenzione universale che finiscono per produrre regimi polizieschi mostruosi, né nei ribellismi generalizzati e temperamentali che si risolvono in obbedienze pecorili, è necessario riconoscere come sono fatte le cose, ci piacciano o meno, nel moltissimo a cui è vano opporsi e nel poco che può essere modificato dalla nostra volontà. Credo dunque che sia necessario un certo grado di accordo con l’esistente (merda compresa) proprio in quanto incompatibile col Kitsch che Kundera giustamente detesta.

(Italo Calvino)

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POESIA GIAPPONESE WAKA- di Chŏng Chisang E IL RIGOGOLO GIALLO a cura di Steven Grieco-Rathgeb, con un Waka di Ki no Tomonori e Fujiwara no Sadaie

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Nel 1999 conobbi un professore giapponese, che mi invitò a collaborare con lui su un progetto che accarezzava da anni: tradurre in inglese e italiano un significativo numero di waka del periodo classico Heian (9°-13° sec.), con relativo commento critico. Nel mondo letterario anglo-sassone, progetti di questo tipo vengono spesso fatti a quattro mani: dei due collaboratori uno – l’esperto in materia storico-filologica e interpretativa – illumina il componimento nel contesto originale, il secondo è il poeta e traduttore, che li porta, come uccelli migratori, a destinazione nella lingua di arrivo.

Lo studioso di Tokyo si interessava anche di poesia cinese classica, e a questo riguardo mi parlò di un poeta coreano, Chŏng Chisang (?-1135), vissuto durante la dinastia Koryo, periodo in cui tra i letterati di quel paese si coltivava lo stile cinese dei poeti Tang.

Di Chŏng Chisang si sa soltanto che era discendente di una famiglia dell’aristocrazia Koryo, funzionario e poeta a corte. Partecipò ad una rivolta contro il re che fu soffocata nel sangue dal generale-poeta Kim Pusik, suo principale rivale a corte e in poesia. I capi ribelli, compreso Chŏng, furono giustiziati. La damnatio memoriae del poeta che seguì spiega la scarsità di notizie biografiche su di lui. Un volume originale di sue poesie, sopravvissuto fino ai nostri tempi ma divenuto introvabile dopo la fine della Guerra Coreana (1953-56), giacerebbe ancora oggi dimenticato in qualche inaccessibile archivio a Pyongyang.

 waka 8L’amico studioso mi fece una traduzione carattere per carattere di alcune poesie delle pochissime ancora esistenti di Chŏng: composizioni quasi fotografiche, velocissime e dai colori accesi, che veicolano un costante monologo del poeta sulle vicende legate alla sua vita personale e a corte. Le studiammo a lungo; di alcune lui stesso non riusciva a cogliere certi significati e allusioni. A tratti però l’ombra del grande poeta comparve davanti a noi.

Provai, con le indicazioni fornitemi, a tradurne qualcuna, in particolare Dalla villa di Changweong, uno dei lü shih di Chŏng Chisang più notevoli, dal tono malinconico e fortemente allusivo. Nella forma primitiva, molto abbozzata, la traduzione suona:

monti, due portoni alti, un cuscino le rive del fiume
la notte intera, trasparente, non un granello di polvere
vento invia la vela dell’ospite, nuvole pecorelle pecorelle
la rugiada si condensa tegole del Palazzo gemma squame squame
dietro i verdi salici si chiudono le porte di otto-nove case
alla luna chiarissima alzano le cortine due-tre persone
oltre la foschia, il Monte Pong Nae forse si avvicina –
in sogno il fiorito usignolo gorgheggia la sua gioventù

waka 7

.

Rimanevano punti irrisolti; soprattutto non mi convinceva la comparsa dell’usignolo nell’ultimo verso.
Passò del tempo. Una mattina ero seduto nel minuscolo soggiorno di casa, sopra i tetti di Firenze. Era maggio, fuori il cielo era sereno, limpido, il silenzio profondo. Dalla finestra alle mie spalle, così azzurra, entrò furtivamente un ricordo che risaliva a venticinque anni prima: io seduto nel mio orto toscano  mentre ascolto il canto mattutino di un uccello. Avviluppato dall’aria già calda, quel richiamo prendeva forma, si librava sopra il boschetto vicino – un gorgheggio a piena gola, quasi ubriaco…

Ma sì! Era l’uccello di allora, il rigogolo giallo… ecco cosa mi suggeriva il lü shih di Chŏng Chisang! Possibile? In fretta e furia scrissi una mail a Tokyo, chiedendo all’amico se esistessero usignoli nell’Estremo Oriente. Disse di no; che il nome dell’uccello nella poesia di Chŏng corrisponde al giapponese uguisu. Gli chiesi di appurare se l’uccello in questione non fosse per caso il rigogolo. In un lampo arrivò la risposta, entusiasta: sì, era proprio lui: l’oriolus chinensis, il rigogolo giallo orientale, schivo e solitario come il cugino europeo.

waka 3Il buio che avvolgeva l’ultimo verso della poesia impallidì, “l’ usignolo” si trasformò in rigogolo giallo, la notte diventò un mattino azzurro!

E’ un fatto che più volte nelle traduzioni occidentali di poesia dell’Estremo Oriente (specie quella giapponese) si siano felicemente confusi i due uccelli: a tutto scapito di poeti che erano (e sono) in sintonia con ogni vibrazione della natura, ogni sua atmosfera, ogni minimo scarto cromatico (così come lo è Messiaen, nel suo pezzo per pianoforte Le Loriot).

Il rigogolo mi riaccese l’immaginazione, incoraggiandomi a pensare che era possibile rendere in traduzione l’autentico spirito dell’originale. Continuai a lavorarci sopra, cercando di tirare fuori tutta la bellezza che vi sentivo, poi ancora dovetti mettere da parte la bozza per lavori urgenti.

Qualche anno più tardi persi le tracce dell’amico di Tokyo e la traduzione della poesia di Chŏng, bisognosa di ulteriori verifiche, rimase sepolta sotto le mie carte.

waka 9Passò qualche anno ancora. Nel settembre 2012, setacciando la Rete per notizie sul nostro poeta (ormai invano, pensavo), mi sono imbattuto nel Dr. Gregory Evon, esperto di letteratura sino-coreana e autore di una monografia dal titolo Tracking a Ghost: Chong Chisang and a Forgotten Style of Sino-Korean Poetry.[1] Gli ho chiesto una collaborazione. La risposta è stata immediata:

Caro Steven,

grazie della mail. Ho velocemente controllato la sua bellissima versione della poesia di Chŏng Chisang e trovo due questioni da chiarire. La prima, nel verso 7, riguarda il monte degli Immortali, il Penglai dei cinesi. Sarebbe forse meglio utilizzare qui il nome coreano, Monte Pong Nae (蓬莱山). Lo stesso verso lei lo fa affermativo: “dalla distanza remota, il Monte Pong Nae sembra avvicinarsi”, quando invece sarebbe meglio l’interrogativo: “dove esiste?” E’ proprio questo senso di “incertezza” che si collega all’uccello che sogna, o all’uccello che appare in sogno.

Dr. Gregory N. Evon,

Asian Studies Program Convenor, Korean Studies & Japanese Studies, School of International Studies, The University of New South Wales, UNSW, Sydney, NSW, 2052

Australia

Dopo altre lettere su questioni tecniche, gli chiesi se avrei potuto citarlo in un pezzo che avevo in animo di scrivere su questa curiosa nonché annosa vicenda. La sua risposta fu entusiasta: “…Sentiti assolutamente libero di usare i miei suggerimenti, e di citarmi. Anzi, ti ringrazio!…”

                                     Dalla villa di Cheongwong

I portoni della Cittadella sopra le morbide sponde del fiume
in lontananza una notte chiara, non un granello di polvere
il vento spinge la vela dell’Ospite verso le mille nuvole sfilacciate
le tegole sul Palazzo stillano rugiada, miriade di squame lucenti
dietro i verdi salici hanno chiuso le porte di quasi tutte le case
solo qua e là qualcuno solleva le cortine alla luna che risplende
nella distanza remota, il Monte degli Immortali – dove esiste?
in sogno lo splendido rigogolo canta la sua primavera azzurra

waka 5.

La poesia andrebbe letta lentamente, per evitare l’effetto “collana di pietre brillanti”. Secondo l’estetica cinese, l’immagine interiore si fonde sottilmente con il paesaggio che il poeta evoca per meditare sulle vicende politiche, il successo mondano, la vita intima.

Il tratto verticale, scuro, dell’inizio contrasta con la luminosa orizzontalità femminile del fiume. La notte così chiara nel 2° verso potrebbe alludere a un dissidio interiore che il poeta ha superato. 3°: nella poesia Tang, il fiume e le nuvole spesso alludono a un errare o all’esilio. 4° verso: statico, contrasta con il precedente, fluido. Il palazzo reale consisteva di padiglioni grandi e piccoli, collegati da corridoi esterni protetti da tettoia (le tegole lucenti: i membri della corte?). 6°: i poeti Tang usavano la luna, simbolo di “verità”, anche per indicare il ricongiungimento dopo lunga separazione. 7°: la Montagna degli Immortali, dove si recarono anche Li Po e Po Chü I. Dopo la notte così chiara, qui regnano incertezza, opacità, speranza (che tutti sentiamo nel momento che precede l’alba). 8°: i toni notturni cedono all’oro e all’azzurro, simboli di atemporalità.[2]

(Steven Grieco)

[1] Alla ricerca di un fantasma: Chŏng Chisang e uno stile dimenticato di poesia sino-coreana.

[2] Per una maggiore comprensione della tecnica della forma poetica cinese lü-shih, si veda François Cheng, L’écriture poétique chinoise, Editions du Seuil, 1977.

waka 2

 

Miwataseba
hana mo momiji mo
nakari keri
ura no tomaya no
aki no yugure.

Fin dove arriva lo sguardo
non fiori né foglie rosse d’acero:
solo una capanna dal tetto di giunchi
vicino all’insenatura
nel crepuscolo autunnale.

Fujiwara no Sadaie
(1162-1241)

*

Aki chikō
no wa na rinikeri
shiratsuyu no
okeru kusaba mo
iro kawariyuku.

È ormai prossimo
l’autunno nei campi.
Anche le foglie, ove si posa
la candida rugiada,
vanno mutando colore.

Ki no Tomonori
(?-905?)
Kokinwakashū, X, 440

 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, è nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016). Sempre nel 2016 con Mimesis hebenon esce la raccolta di poesia Entrò in una perla (ital. ingl.)

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

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 CONSIDERAZIONI di Alfonso Berardinelli sulla poesia di Mario Luzi

 mario luzi.

La poesia di Mario Luzi e la riflessione morale che forse ha bisogno di prosa

 il Foglio 23 gennaio 2014

Si commemorano quest’anno i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, morto nel 2005. E’ stato il più precoce, dotato, produttivo e colto dei poeti ermetici che ebbero come maestri Ungaretti, Campana, Mallarmé, Novalis. Negli ultimi tre decenni della sua vita e soprattutto, mi sembra, da quando cominciò ad aspettarsi il premio Nobel (che invece fu assegnato a Dario Fo) Luzi diventò ancora più prolifico, si investì del ruolo di “grande poeta”. Dopo il suo libro migliore, “Nel magma”, uscito nel 1963, la “verticalità” del suo stile e il suo esistenzialismo spiritualistico lo hanno spinto sempre più verso un poeticismo quasi involontariamente enfatico, dilatato, cosmologico, che aveva origine nella sua formazione tardosimbolista.

 Leggendo l’articolo che domenica scorsa Carlo Ossola ha dedicato a Luzi sottolineandone il carattere di poeta morale e civile, mi sono venute in mente le mie precedenti impressioni. Se si escludono alcune zone della sua opera, Luzi tende a pensare troppo in grande, in generale e al cospetto dell’assoluto per essere un poeta propriamente morale e civile. Il fatto che come uomo e cittadino abbia sofferto per la situazione italiana, non significa che fosse capace di esprimere in poesia questa sofferenza, come hanno saputo fare, con un linguaggio più sobrio, i suoi coetanei Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Basterebbero le citazioni fatte da Ossola per capire che la sensibilità di Luzi si perde, o meglio vuole ingrandirsi e sublimarsi, in una nebbia di entità indeterminate, in un labirinto di allusioni e metafore che risultano nobilmente retoriche. Parla di “forza interiore” necessaria all’uomo, dice che “il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà” (la mancanza di virgole, più che esprimere un crescendo di esasperazione, aggiunge enfasi e toglie concretezza). Parla di “una vita formale, eterna” (su vita, forma ed eternità si potrebbe, o dovrebbe, costruire un’intera filosofia, mentre qui si capisce appena l’accostamento). Esorta i lettori e l’umanità intera: “Trasformatevi dolorosamente / nella vostra incipiente divinità” (suggestiva allusione a un’etica teologica da precisare).

A sua volta Ossola aggiunge astrazione ad astrazione dicendo che Luzi “come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza”. Ora c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici (che Ossola ha studiato) con i suoi versi umili e quotidiani, cattolici e comunisti, ha mirato o no all’essenza? Ha raggiunto il bersaglio? In letteratura e in particolare in poesia, quella dell’essenzialità è forse (con quella di realtà) una delle nozioni più sfuggenti e controverse. Ogni stile ha la sua idea di ciò che è essenziale. Ogni stile ha la sua fisica e metafisica più o meno implicite.

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960
Nella foto: Eugenio Montale

 Mi sembra che Luzi, forse immaginando di essere sulle orme di Montale, abbia preso invece tutt’altra strada, si sia sollevato in volo verso l’inconoscibile e abbia perso, in tutti i suoi ultimi libri, che non sono pochi, la distinzione tra fisico e metafisico, tra l’esperibile e il sovrasensibile. Ungaretti (su cui Ossola ha scritto un libro) è il poeta più “essenziale” del Novecento, eppure le sue poesie di guerra (le migliori) sono sommamente circostanziate: di ogni testo si precisa il luogo e la data di composizione. Poi, con il suo secondo libro, ha inventato l’ermetismo perché non sapeva più con precisione che cosa dire.

Ed ecco i versi di Luzi che dovrebbero toccare l’essenza, mentre si limitano a nominarla: “Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza”. Mi sembra che non poca poesia poeticizzante e poeticamente nulla scritta da diversi autori più giovani, sia dovuta all’influenza di questo Luzi che vola verso l’assoluto e nomina categorie morali senza mostrare situazioni morali: che vede la vita e il mondo come “putiferio della mortalità” e il potere politico come “eterna satrapia”. Siamo nel solenne e nel vago, mi pare.

Molto meglio un articolo che Luzi pubblicò sul Messaggero il 7 gennaio 1991 e che Piergiorgio Bellocchio scelse subito per ripubblicarlo sulla nostra rivista Diario, numero 9. Qui Luzi parla come uomo e cittadino e non si preoccupa di fare il poeta:

Sto studiando se e come sia possibile ancora associare la condizione di italiano e quella di persona civile. Con tutti gli sforzi della buona volontà non ci riesco. Per troppo tempo la carità patria mi ha fatto velo ed ho lasciato, come altri, che lo facesse. Ma, evidentemente, non si può andare oltre un certo limite; poi l’indulgenza si trasforma prima in indignazione e rivolta, infine in sconforto e vergogna quando ci accorgiamo che, non arginata da nessuna decente e rispettata statualità, la disgregazione sociale è divenuta barbarie (…). Non ci sono solo i Sindona, i Gelli e tutta una generazione di politici che sembra avviata a una tremenda catastrofe a testimoniare lo sfracello italiano; ci sono anche i subalterni che alla loro ombra hanno trafficato, corrotto, commesso arbitrii e soprusi; e ci siamo noi che siamo riusciti a sopravvivere in questo marasma come pesci nell’acqua sporca (…). Non solo, ma ne abbiamo più o meno consapevolmente assimilato il criterio, quasi a confermare l’idea di Machiavelli che in uno stato inefficiente la naturale perfidia umana dilaga”.

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Sembra proprio che la riflessione morale e un vero, non retorico moralismo abbiano bisogno di un po’ di prosa. Il più bel libro di Luzi, “Nel magma”, era un libro di situazioni, il più prosastico con i suoi lunghi versi metricamente poco definibili. E’ a quel punto che Luzi aveva trovato la giusta forma per “spingere più oltre (…) la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua”, come scrisse in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. Il poeta ermetico era diventato (come succederà anche a Montale con “Satura”, nel 1971) un poeta che cerca la sua epigrafe più adatta in una satira di Orazio: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus: se non fosse per la misura dei versi, questa non sarebbe altro che prosa”.

Dopo quel libro Luzi ha invertito la sua direzione di marcia, è tornato a quella che Orazio nella stessa satira (la quarta del primo libro) chiama “ispirazione geniale e divina” e “voce capace di toni sublimi”. Quando ha cercato di far fruttare la sua cultura ermetica giovanile dilatandola in un’epica spirituale della vita divina, quando ha voluto accendersi di un sacro fuoco, quando in epigrafe ha cominciato a mettere san Giovanni, Dionigi Areopagita e i Veda (quando ha cominciato a pensare al Nobel, se volete) Luzi ha perso la misura di poeta morale e civile e si è smarrito in una retorica frenesia da veggente.

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AUTOANTOLOGIA DELLE POESIE di LEOPOLDO ATTOLICO con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – l’assunzione di una linea ironico-colloquiale

vigolo roma Leopoldo Attolico, (Roma, 5 Marzo 1946), è autore di sei titoli di poesia e di quattro plaquettes in edizioni d’arte. Ha collaborato e collabora alle principali riviste letterarie. E’ stato redattore di Poiesis e lo è attualmente di Capoverso. I suoi titoli di poesia:
Piccolo spacciatore, Il Ventaglio, 1987 – Scapricciatielle,
El Bagatt, 1995, compendio di poesia performativa, con una nota di Vito Riviello e due chine di Giacomo Porzano, premio Franco Matacotta . – Calli amari, Edizioni di Negativo, 2000; Mix , signum Edizioni d’Arte, 2001, con sette disegni di Ermes Meloni; – Siamo alle solite, Fermenti, 2001, con prefazione di Giorgio Patrizi e due chine di Giuseppe Pedota – I colori dell’oro, Caramanica, 2004, con una nota di Giuliano Manacorda; – La cicoria, Ogopogo Edizioni d’Arte, 2004, con due chine di Cosimo Budetta; Mi (s)consenta , Signum Edizioni d’Arte , 2009, con sette opere di Ester Ciammetti – La realtà sofferta del comico, prefato da Giorgio Patrizi, con post.ne di Gio Ferri, Aìsara, 2009
leopoldo@attolico.it  –  www.attolico.it

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

 Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Un autore significativo della linea derisoria del senso, di ogni senso, che ha iniziato nel 1987 con Piccolo spacciatore, è il romano Leopoldo Attolico il quale opera una discesa culturale dal piano «alto» dei linguaggi maggioritari al piano «basso» di quelli minoritari. Le opere degli anni Zero sono emblematiche di questa impostazione: I colori dell’oro (2004) e La realtà sofferta del comico (2009) sono opere che scavano senza reticenze nelle finzioni perbeniste della buona società letteraria. La scoperta di Attolico è molto semplice: l’assunzione di una linea ironico-colloquiale deriva dalla presa di distanze dall’inquinamento acustico e ottico della società letteraria romana (e non solo). Scelta chiara e definitiva. Caustici e frizzanti sono i suoi “commenti” a certi personaggi della poesia romana. La poesia di Attolico si ciba, come un corbaccio, dei materiali di risulta, degli escrementi, degli avanzi dei pasti consumati dalla buona società piccolo borghese, che preferisce guardarsi attraverso lo specchio blindato dei suoi esponenti letterari più vistosi. Di qui le esilaranti frecciatine e le punture di spillo del poeta romano».

La cima del cipresso
dall’ altra parte del palazzo
dice di no, e continua:
“Così non va! Dà una sterzata alla tua vita”
par che dica
“adesso è già passato!”

Ma a un dipresso … ecco rispuntare il cipresso di
Rio Bo
E la vita perbacco, la mia vita?
Incantata di fronte ad una stella di carta».*

Dunque, poesia giocosa o poesia derisoria? Ai posteri l’ardua sentenza. Ebbene, in questo dilemma si è giocata la partita della poesia di Attolico, sempre sul punto di proseguire la sua poesia «giocosa» di derivazione vito riviellana, oppure, sterzare verso uno smaccato tono derisorio dei vizi e dei patemi della società di corte della poesia italiana. Personalmente, avrei preferito che il poeta romano scegliesse con più decisione la via del fustigatore dei mores, invece Attolico è rimasto sempre legato ai semitoni della leggerezza e della sua personale visionarietà.

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013)Società Editrice Fiorentina pp. 150 € 14

Paul Klee

Paul Klee

TEMPORALE A VIA DEL BABUINO

Dove mai avrà cacciato la gente
questa Via del Babuino in grembo d’acqua
e starnuti improvvisi di grondaia ?
Forse a quota periscopio
forse dietro il rovescio di una fuga
con il naso contro il vetro…
C’è un silenzio bagnasciuga
in attesa dell’attacco degli indiani,
è questione di minuti, quindi spiovo di conserva;
ho un ricordo da salvare:
è il ciac ciac un po’ vetusto
di scarpette tre stagioni
sorvegliato da calzoni alla zuava
a tutt’oggi non ancora digeriti.
Son zuavi, per fortuna
e mi portano a passeggio
anche un gruppo di pensieri
che sgambettano su in alto:
dan del tu ad un cielo d’affezione
che da grigio trasgredisce intraprendente
galoppando e cappottando senza fretta
dalle parti dell’azzurro

Da Piccolo spacciatore, 1964-1967, Il Ventaglio Editrice, 1987

Leopoldo Attolico ilparolaioTOP

GLI ANNI ’50, DEL POCO E DEL TANTO

Quando eravamo povera gente
avevamo in tasca una vita alla grande,
la sublime pochezza di vivere insieme
quattro parole di fila, da non interrompere.
Avevamo pudori irrisolti da caccia alle streghe
ma l’alibi di fare felice la gioia per forza d’inerzia:
c’era sempre nel mondo una ruota di giostra
con precise pretese, e il dovere era in piena
per farvi salire la gente senza tema di scendere.
Bastava tentare la vita
e lei rispondeva, ogni volta
con natura di luce possibile, comunque sovrana.
Ciaveva (*) le antenne:
sapeva capire e fare di conto con chi la cercava
appena quel poco al di fuori del mondo
per calarvi la poesia di un minuto e ricominciare
-d’accapo, a chiamarla per nome

(*) “Aveva”, in romanesco

leopoldo attolico

leopoldo attolico

BOOMERANG ANOMALO

Quando Federico Garcia mi staffilò ( sarà stato il ’60 )
“Cordoba, lontana e sola”ecc.ecc.
io mi trovai – d’emblée- davanti a Cordoba
come può accadere all’attor giovane
buttato in scena alla viva il parroco
con uno spintone nella schiena.
Il fatto che fosse “sola”, era questo il punto:
nel senso che Cordoba mi guardava – tutta occhi
e silenzi-
e si aspettava di vedermi all’altezza della situazione,
con fiato e sangue sufficiente- voglio dire-
per mettermi il suo cuore dentro al petto
senza tante storie, tipo feeling galoppante:
insomma, un fatto d’elezione ma a tamburo battente;
innamoramento e amore

Andò a finire che Cordoba rimase dove era
ancor più sola di prima
per non so che magia di copione.
Me la cavai con un boomerang di carta innamorata
lanciato a tutta forza, surplus di stratagemma
ma a scoppio ritardato: Cordoba aveva capito- e come!-
che m’ero preso una cotta, ma non lo voleva mollare.
Per ritornare- ‘sto boomerang – ci impiegava una vita

Da Il parolaio, Campanotto, 1994

Leopoldo Attolico icoloridelloroTOP (1)

SUMMER TONF ovvero TUTTI AL MARE

Se fate mente locale
converrete che legato a doppio filo
con la fisiologia lunatica dei versi
c’è sempre lo stupore analfabeta degli invano.
E’ lì, e noi ce lo guardiamo
implosi e circospetti, come un reperto lavico
fiottato dal cervello, sfrontato sortilegio
confitto in un riverbero d’assenzio
cui piace sempre di esser corteggiato…

Poi, quando si rinnova la scommessa
col verso sciagurato e si è metabolizzata
la stralunata ameba,
arriva puntuale il carico da otto
a ribadire l’osceno contropelo:
non è più questione d’amore o disamore
e l’impossibile fiaba d’assolutezza amorosa
deflagra silenziosa nella biro
come quando cade un Governo in Italia
a Ferragosto:
tra disimpegno e fervore vacanziero
un tonfo troppo sordo per sentirsi
ed essere sentito

La Musa, abbandonata sul maggese
è rimandata a settembre in italiano

Leopoldo Attolico La realtà sofferta del comico (1)

ESTERNAZIONE – (orsù, alle urne! )

Ma è mai possibile che chi rappresenta la malattia
si faccia avanti nelle vesti del medico
e si consideri la migliore medicina?

Potrei ancora capire patrizia valduga
con i suoi medicamenta in salsa claustrofobica
così indicati per gli esaurimenti nervosi,
ma no davvero la democrazia scudata/scudettata
da decine di campionati di egemonia borbonica
e di dieta mediterranea callipigia e vincente
ma così poco nazional popolare!

Sta di fatto che il Moloch non demorde
e sedimenta la sua regola ineffabile:
divergenze parallele e contratto acrobatismo verbale
per allarmare ad hoc le sicurezze della gente,
a dimostrazione che la geometria è un’opinione
e può condurre a strabismo
ma è sempre il viatico migliore
per un supplemento di gioia a venire:
il proficuo perpetuarsi della specie in progressione
aritmetica
e l’animata polifonia delle voci
che ne legittimano l’esistenza: diciassette partiti
in assetto di guerra, altrettante occasioni per chiedersi
come caspita si sia riusciti a suo tempo
a fare l’Unità d’Italia

Da Scapricciatielle, Edizioni El Bagatt, 1995

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

STRANI COGNOMI – a Cicci de sellero (*) di Mauro Marè

Come si può non voler bene
-così, istintivamente
ad un Pasquale Sellerone
con quell’accrescitivo fresco verde fruttato nel cognome
e la florida pienezza di quel nome
che ti riempie la bocca …

Come si può non collegare
un’immagine ad un nome;
senza timore di sprecare nulla
e andare oltre la mera suggestione d’una fisicità
che è la prima a chiamarsi per nome ( e per cognome )

Accade quindi così -spontaneamente-
il fascino misterico del transfert mesenterico:
dal diaframma al cervello, per qualche golosa ragione
che si arrende
alla delibazione del cuore e della mente

oh, sellerone !

(*) “Cespi di sedano”, in romanesco

diabolik-eva-kant

diabolik-eva-kant

IL PODOLOGO DI RANGO

Di suo
il podologo di rango
ci mette autentica vocazione
fibrillazione dei quanti
che è ragionare con i piedi
a passi felpati, discreti
ed indagare fisiognomica geografie e sintomi
affabulando con il “tu” più disarmante,
sapido escamotage per ottenere di più senza imbarazzi

Può accadere che la melopea delle sue domande
si infiammi per un bel piede o per un coacervo di calli
come è giusto che sia
perché in realtà i suoi interlocutori sono i piedi,
non il paziente:
( per me si va nella città dolente
è epica deambulatoria/sussultoria
che lui non dimentica mai nei suoi colloqui ad personam)

E quando il panneggio sonoro dei pizzicotti
degli smanettamenti e delle gentili turbolenze
raggiunge l’acme liberatorio,
il podologo di rango non si rilassa né esulta più di tanto:
rimane partecipe ma periferico, adiacente
come dopo un’amabile guerriglia tutta di piedi
tra fanterie surriscaldate ma non definitivamente pacificate,
irrimediabilmente pedestri

Da Siamo alle solite, Fermenti Editrice, 2001

*

E’ la terra che si veste di te
della tua gonna a fiori;
perché sei tu la gemma stravistosa
nel suo giardino a sciarpa,
il crescendo di gioventù
che lo respira bocca a bocca

E quel tuo andare leggera
è una ferita che non guarisce più;
come l’amore
quando stilla sul mondo un batticuore
e poi s’inciela

Da I colori dell’oro, 1975-1987, Caramanica Editore, 2004

*

Poeta, dove vai?
Come un asse da stiro
non sai mai dove metterti
dove ti metti impicci
nei secoli dei secoli
la tua ubicazione domestica
è una ipotesi che non si addomestica mai
è un vitalizio di precarietà
un destino di provvisorietà
di inadeguatezza nomade, zingaresca
quando infesti casa con i tuoi libretti
con i tuoi foglietti
con la tua poetry à porter
e nel turbine collezioni rimbrotti
mugugni, qualche volta anatemi
quando va bene teoremi di fulgidi sfottò

Ma i tuoi angiomi cartacei immedicabili
marcano il territorio e non ne vogliono sapere.
Sono squilli teneri di neve
in un falò

 Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50x100-vernice-effetto-pennellate

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ALLEGRIA!

(…) verrebbe proprio voglia
di prendersi un po’ di ferie dalla storia,
dalle responsabilità;
portare alle estreme conseguenze
il senso della privacy: darsi morti

E allora
un modo per dirsi addio
potrebbe essere quello di tornare
una sera di prim’estate, al tocco
in una Via della Pilotta deserta,
nella sua luce ametista rincontrare
la matura guagliona mille lire mezz’ora
di trent’anni prima,
dirle ancora
in punta di febbre e di scirocco
-Hai del fuoco bambina?
per risentirla stormire
-Sei così ragazzino morè
sai non è mica un gioco

Da La realtà sofferta del comico, Aìsara, 2009

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POESIE SCELTE di Gyula Illyés (1902-1983) traduzione di Umberto Albini con un Commento di Valerio Gaio Pedini

 

Gyula Illyés poeta, prosatore, drammaturgo ungherese (Rácegrespuszta 1902-Budapest 1983). Di origine contadina ma inseritosi nelle sfere più alte della vita intellettuale, Illyés si fece interprete di tutte le tensioni sociali dell’Ungheria. Implicato alla fine della I guerra mondiale in un moto insurrezionale per una radicale riforma agraria, dovette espatriare e vivere per alcuni anni a Parigi, dove strinse amicizia coi poeti dell’avanguardia. Tornato in patria, divenne capostipite degli scrittori sociografici, tutti fautori della riforma agraria (si vedano le sue prose autobiografiche Il popolo delle puszte, 1936) che, riunitisi dopo la II guerra mondiale nel Partito nazionale contadino, videro frustrate le loro aspirazioni a causa della kolkosizzazione imposta dai sovietici. Illyés è autore della più penetrante biografia-monografia su Petöfi, di cui condivisse gli ideali poetici, come quello della libertà. Nonostante questo irrefrenabile anelito alla libertà, la concezione di vita di Illyés è pessimistica. Secondo Un periodo sulla tirannide (1956) l’individuo non può sfuggire alla coercizione nemmeno attraverso la morte; secondo la tragedia I puri (1970), ambientata nel Duecento degli albigesi, l’annientamento dell’espressione materiale di un’idea annienta l’idea stessa. Nella lirica e nella maggior parte delle sue prose, nonostante la grande varietà dei temi, la fonte principale dell’ispirazione di Illyés è la reminiscenza. Solo nelle mirabili disquisizioni sulla morte, Nella barca di Caronte (1972), i lumi della sua penetrante razionalità sono rivolti al futuro. Altre opere: la raccolta di drammi Umanizziamoci (1977) e la silloge poetica Testamento particolare (1978).

Budapest città vecchia

Budapest città vecchia

Commento

Fu studiando l’opera poetica di Miklos Radnoti e di Gyula Illyés che compresi presto la grandezza della poesia ungherese, ed è di Illyes che ora mi accingo a fare un commento. Illyés  (1902-1983) è stato dalla critica considerato poeta contadino (possibile?), poeta sociale, poeta impressionista (possibile?). Ma pare che poi alla fine ci si debba arrendere ed iniziare a prendere i testi e a scomporli progressivamente, per carpirli, e poi rigettarli interi, per gustarli in toto, affinché il motto della Gestalt “il tutto è più della somma delle parti” abbia una certa funzionalità sotto il profilo strettamente critico. Mi accingo a prendere delle parti, delle singole parti, affinché si noti poi il tutto, ben più eloquente delle singole parti.

Quando Umberto Albini nel 1967 curò il volume Poesie per Vallecchi Editore, introducendo le sue traduzioni, comprese e affermò un fattore importante per inquadrare la poetica di Gyula Illyés: “Forse il segreto dell’arte di Gyula Illyés poeta ‘contadino’ consiste nella sua capacità di mescolare e alternare elementi così contradditori come idillio e collera, elegia e furore, impeto di riforma e primitiva felicità”.

Da qui mi sorge la definizione poetica definibile con il termine Contrasto, poiché senza un contrasto nel verso, la poesia è scialba, insapore: la poesia con la culinaria ha questo in comune: un piatto salato risulta più saporito e gustoso se gli si accosta un qualcosa di dolce. Una poesia solo salata, come una poesia solo zuccherosa arrischia di provocare una tremenda gastrite poetica.

Invece Gyula Illyés non ha tali sbavature, nella sua poetica riecheggia tutto il contrasto della migliore poesia Latina e Greca, ove il bucolico si alterna ad un concetto di dissapore meccanicistico e lì si profila lo scontro “natura-industria”, “contadino-operaio”.

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Vedi come fuma già la nostra vecchia Mecsek.
La corrente della nebbia autunnale si getta ai suoi piedi
In schiume dense. Scuote un vento beffardo
I rami striduli degli alberi, le ultime frutta,

incorona di antichi dolori le nostre giovani teste.
Scende su noi adagio l’inverno, Anna… e una tristezza  secolare
Vola, freddo messaggio, dalle valli del Kapos mute ormai.
Ascolta, solo la pavoncella pigola, raduna i suoi figli per il viaggio.

Una settimana ancora e sarà brullo il paesaggio,
e di nuovo cadrà sudicia pioggia, spazzerà via il tappeto di porpora
delle strade addobbate come chiese…gli zoccoli
delle bestie sguazzeranno nel fango cinereo,

gorgogliando singhiozzerà l’acqua giù per la gronda…
Ma non versiamo lacrime! Si dissolve questa bufera
Per i suoi veleni e un silenzio fecondo calerà
Come neve sui sogni della semente…Attizza il fuoco,

tessi  le tue braccia scure attorno al mio collo,
e canta il concerto ininterrotto dagli uccelli, canta
gli agnelli ricciuti ruzzanti, un paesaggio che resista
da cui il bruno mietitore porti via la spiga come un figlio.

Gyula Illyés

Gyula Illyés

La poetica di Illyés, si delinea in un bucolicismo mica poi più di tanto bucolico, tratta temi sociali del mondo contadino reso schiavo dal capitale.E con questa spinta morale, incisa in contrasti di dissapore, si profila una situazione che alterna stagnazione a dignità, in una ritmica che non stanca. Sembra che con quest’ars popolaresca l’accostamento allo stridente Bartok della musica folkloristica slava vada a genio, tant’è vero che Illyés ne fa una poesia (Bartok), di cui inserisco i primi versi:

Cacofonia? Per loro, ma per noi
Consolazione.
Cacofonia? La parola-bestemmia
Dello schianto , per terra, di un bicchiere
Il lamento  di una lima che geme
Stretta fra i denti di una sega,
sono studiati da voce e violino,
che non ci sia serenità né pace
nell’elegante sala da concerti
dorata e riservata, finché manca
nei cuori foschi di dolore.

Budapest panorama

Budapest panorama

È della parola quale «bestemmia» che Illyés trae la sua forza, ed in questa bestemmia trasuda una guerra secolare e la morte, che non ha mai dimensioni di retorica posticcia e di patetismi. Forse che la poesia di Illyés trasuda di un orrido tutto suo, credo si debba assodare, ma resta un orrido pieno di grazia. Quindi è assodato che la poetica di Illyés, coprendosi col suo“manto contadino”, ha una molteplice funzionalità, e anche quando si chiude resta aperta e quando si apre è ascendente concettuale e metaforico. Ed è con questa poetica che l’altare dell’impressionismo quale purezza crolla, direi che l’arco è teso, come in Van Gogh, ad impressionismo che s’indirizza all’espressionismo: un poeta isolato, che racchiude le forme europee, ma che rappresenta la nazionalità magiara distrutta.

Sei magiaro? Non sei neppure quello,
sei solo un servo triste.

Le lacrime, il dolore, il bel tormento:
sono di chi ha le terre.

Se tu fossi tedesco, garriresti,
forse, di fanatismo,

oscilleresti con migliaia, come
sul prato i fili d’erba.

Forse, se fossi ebreo, maledizioni
Scaglieresti piangendo

E quando cessa la brezza leggera,
morresti con milioni.

Sei ungherese? Precipita allora,
come la foglia

fra centomila cuori doloranti
dall’albero degli avi,

che non ti custodisce , non ti nutre,
che forse è già abbattuto.

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Azzardo che alcuni colleghi «ingenui» e abituati alla strana ars paragonica, trovando analogie col poeta contadino russo per eccellenza, o meglio col poeta proprietario terriero Esenin, inizierebbero a muoversi in un vortice di paragoni, ignorando il semplice fatto che due poeti, seppur possono avere analogie di vicissitudini, hanno diversità stilistica e di percorso poetico: però mi duole dire che qui erro, e commettendo un reato critico, mi slancio in un paragone,valutando i due poeti nella fase finale del loro percorso poetico similari, e con similarità intendo che, andando avanti e facendo scorrere le pagine dei due poeti contadini si nota che il fervore poetico si disperde, entrando sempre più in un vortice dell’intimo: un intimo che in Esenin resterà lirico-contadino e in Illyés crepuscolare e metafisico.
Ma è proprio arrischiandomi a fare un simile commento inusuale per la critica che mi sbilancerei in un reato critico di pessimo gusto, quindi devo contraddirmi ed utilizzando le parole di Albini, conchiudere questo appunto che dovrà pur essere continuato in altri fronti: “Non vorrei operare una divisione netta tra il primo Illyés, soprattutto irruento e veemente, e un ultimo Illyés più assorto e raccolto, tra un primo Illyés più interessato alle leggi che governano la società e un ultimo Illiés soltanto pensieroso o turbato delle leggi che regolano l’esistenza. Tumultuosità e ardore, anche messianico, non si sono mai spenti nel poeta: subito in apertura di Uj Versek , un ‘opera del 1961, il richiamo a Mosè:

guarda l’avvenire come un Mosè
e anche mille volte bruciato non può essere ucciso

è indice di una continuità di passione. E l’Illyés degli anni ruggenti non è solo fiamma e passione che arde, violenza d’impulsi che a volte si acquieta per agreste dolcezza: in una lirica come Sei lieve, dove è assente ogni venatura bucolica, l’elemento fondamentale è il fuggevole, il caduco”.

(Valerio Gaio Pedini)

(Poesie tratte da Poesie di Gyula Illyés, Vallecchi, Collana Cederna, traduzione di Umberto Albini)

 

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Canta poeta

Sulle mie orme trotterella un vitello mite,
sono qui, arrivo dalle colline,
il sole ha cinto la mia fronte dura di una corona rossa,
come Arione,
e mi hanno mandato a cantare.
Al mio canto l’aria si riscalda, brilla di miraggi,
se parlo dei miei sogni.

Punto diritto innanzi a me, ogni tanto mi fermo, sotto il gelso,
dove sta all’ombra, in una brocca di argilla,
la dolce acqua da bere, medito, non trovo pace in nessun luogo,
cammino, commino sempre, il ritmo
dei miei passi culla i miei freschi pensieri,
i miei sentimenti nuotano in onde morbide
sopra i campi di segala.

Ai miei piedi la terra sorride di arguti segreti;
è mia questa terra, mi ha allevato.
Il sentiero tra i campi o il terriccio di seta furono le miei fasce
Sotto i cespi di patate chiocce.
Il cielo mi faceva il bagno e mi cambiava con le sue calde dita,
mentre mia madre zappava giù dalla valle.
Sono cresciuto con gli alberi, le giovenche, i venti, con migliaia
Di fratelli di latte chiassosi.

La sera torno a casa stanco, al mio fischio si ferma la lepre,
mi saluta: vivi bene, fratello!
All’imbrunire sboccia il mio cuore, si copre di rugiada.
Sto seduto presso l’uscio della soffitta o su un covone di fieno,
sognando dell’altra patria delle cicogne.
Dirigo i concerti della notte, quello delle rane, dei cani,
e sul fare dell’alba, quello degli uccelli.

Ma talvolta la mia fronte si oscura, la corona mi cade
Con uno schianto.
Nel fumo del comignolo il naso mi ricorda la pelle
Bruciata di Giorgio Dozsa:
come se avessi mangiato un boccone del suo corpo, lo stomaco si ribella,
il mio sputo è vetriolo,
coll’aiuto di Dio potreste vedere come corrode, nero.

(1928)

 

Saluto da Vienna

Sulle case operaie, ancora i segni
Dei colpi di mitraglia. A parte questo,
l’ordine regna sovrano. E’ protetta,
la cara Vienna, da Dio e da Fey.

Nelle vetrine scintillanti, perle
E salsicce, in collane luminose.
E silenziosi passano i pezzenti
Dinanzi ad esse con sguardi di cane.

E’ pace dappertutto. Brilla dentro
L’anima dei fucili, sui cannoni.
Con volti lisci giacciono i ribelli
Al cimitero, ben allineati.

Suonano le campane, Il nipotino
Dell’eroe della lotta contro i Turchi
Borioso sfila in testa alle sue truppe,
che han domato fornai e lavandaie.
(1935)

 

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Lettera

…Non c’è speranza, insomma: vivo come
I poveri, saltato il pasto,
sino alla sera di fame.
Solo il tempo mi pensa ,qui.
Non ho voglia di illudere
Neppure per affetto: «chi?», dimmi.

Nel petto il cuore è un fanciullo precoce;
sa e vede tutto, come me.
In due così stiamo seduti: briciole
Sulla tavola e stelle alla finestra,
l’unica mia finestra, mi chiariscono
dove sono. Mi sporgo
come dal treno: ed il fruscio dei tigli
scende la corsa veloce del secolo.

(1936)

Tra due fattorie

Sulla carta la matita scricchiola (c’è sabbia nell’aria):
schizzo impressioni, girovagando a piedi,
per te, mia patria. Seguono le mie orme
i posteri, e, più in qua, due gendarmi a cavallo.

(1936)

 

Filologia: su una pagina bianca di una grammatica vogula

Balena un lampo, si avventa un turbine, ardendo, attraverso la steppa,
dentro vi sgambetta e suona il violino un figlio di Satana,
il cielo rimbomba: pie genti che rientrate a casa la sera, inginocchiatevi!
Con fragore un dio sinistro si precipita dall’oriente.

Ma passe lieve sul paesaggio-rapide si dissolvono le nuvole,
venere appare in cielo e comincia la sua lieta danza.
Laggiù, in fondo al villaggio, la finestrella di un’osteria
Cola nella sera fresca una luce giallognola e un canto fioco,
che a tratti s’arresta.

Davanti all’osteria una panca. Su di essa sono seduti nove
angeli custodi
pagani: non possono entrare-così come vuole usanza
antica-
in un luogo impuro, e attendono i loro padroni
e ciascuno racconta, amareggiato, il suo triste destino.

Ti supplico con polenta e dolcetti- si sente dal vicinato
La litania di un contadino che leve al cielo le braccia, lamentandosi:
tu, dio potente, fammi passare il mal di schiena…e alza la polenta,
la depone, la mangia.

…Dice la religione della tribù che chi è morto
Ancora per quaranta giorni frequenta i posti abituali,
accompagnato da un angelo e dalle sue azioni: giustifica le cattive,
commenta abbondantemente le buone a messo divino.

Ecco, un vogulo sta attraversando la collina e discute con un angelo,
accennando a un cespuglio folto: si arrestano lì,
il buon vogulo diventa rosso, alza le spalle…
ma già si sono messi d’accordo, si danno la mano e spiccano di colpo il volo.

Si sparge un dolce profumo. La pace è così profonda che i cavalli
Si sdraiano sul ventre nelle stalle, il toro arcigno respira
Come un lattante, nel buio il vitello cerca la madre, mugge la vacca triste:
per un istante si sveglia tutta la Siberia…

Ragazzo, ti piace questo paesaggio? Ti sono venuti a noia i rombi feroci dell’Occidente
E il cielo coperto dal fumo degli schianti,
pensi che troverai quiete in questo paesaggio, sopra il quale la luna
traghetta proprio ora nella tua barca una vergine morta?

Voglio arrivare ad un paesaggio così calmo e anche più calmo.
Sotto un cielo così si distenderebbe la mia fronte ansiosa
E scorderebbe le amare memorie, le leggi stolte di un mondo vuoto:
sguscerebbe nel mio cuore un po’ di serenità libera.

Avrei un cavallo, gli allenterei le briglie sul collo morbido,
lontano dalle strida dell’Europa, camminerei lento, solo
nell’irraggiungibile terra nativa: seguirei coraggioso
il mio impulso verso la segreta madre , il cui volto, da sempre

vive nel mio cuore, intorno al cui grembo trema la calda patria delle favole,
Me ne andrei canticchiando, ridacchiando sottovoce, mi fermerei ogni tanto;
getterei, saldo sul cavallo, un ultimo sguardo dietro di me, e poi,
svanendo nel sogno, diverrei anch’io, lentamente un allegro eroe delle favole…

(1936)

Gyula Illyés

All’anima pannonica

Terra dell’armonio, Pannonia! L’andiyo
Della fortezza ha di marmo il pancaccio
Per le frustate, e rimanda al villaggio,
come una tromba, le grida e i gemiti.

Ho meditato su questo gioiello,
pensando su chi mai sperimentarlo,
a quale peccatore fare urlare
le colpe: i padri miei eran soldati.

Ma l’incertezza mi assalì: qualcuno
Non ci vedrebbe me disteso? Iservi
Della gleba miei padri, in me fremettero:
giustizia, non crudele ritorsione!

(1947) Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Maurizio Cucchi da “Malaspina” (2014) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Milano tram via Pascoli

Milano tram via Pascoli

 Maurizio Cucchi è nato a Milano, dove vive, il 20 settembre 1945. È consulente editoriale e pubblicista. Collabora attualmente al quotidiano “La Stampa”. Ha pubblicato, tra gli altri, questi libri di poesia: Il disperso (Mondadori 1976 e Guanda 1994), Le meraviglie dell’acqua (Mondadori 1980), Glenn (San Marco dei Giustiniani 1982. Premio Viareggio 1983), Donna del gioco (comprendente anche Glenn, Mondadori 1987), Poesia della fonte (Mondadori 1993. Premio Montale), L’ultimo viaggio di Glenn (Mondadori 1999), Poesie 1965-2000 (Mondadori, 2001), Per un secondo o un secolo (Mondadori, 2003), Jeanne d’Arc e il suo doppio (Guanda, 2008, Vite pulviscolari (Mondadori, 2009). Ha inoltre curato un’antologia di Poeti dell’Ottocento (Garzanti 1978), il Dizionario della poesia italiana (Mondadori 1983 e 1990), e, con Stefano Giovanardi, l’antologia Poeti italiani del secondo Novecento (Mondadori 1996). In prosa: Il male è nelle cose (Mondadori, 2005), La traversata di Milano (Mondadori, 2007), La maschera ritratto (Mondadori, 2011). Malaspina (Mondadori, 2014) Ha diretto per due anni la rivista “Poesia” (1989-1991), ha tradotto dal francese opere di vari autori tra cui Stendhal, Flaubert, Lamartine, Villiers-de-I’Isle Adam, Valéry.

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

 Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

La decostruzione de Il disperso (1976) è ormai lontana, la letteralizzazione del primo libro di Cucchi è cosa andata; con quest’ultimo libro, Malaspina (2014), a quasi quaranta anni di distanza dal primo, Maurizio Cucchi (1945) tenta una ri-appropriazione di ciò che la de-costruzione dell’io gli ha lasciato in eredità dal tempo del libro di esordio. Ci si muove verso la figuratività che solo il passato può rendere «per» legato testamentario. Il «passato» come sorta di testamento di ciò che è andato «disperso». Ecco la chiave di accesso che permette di ricondurre il primo libro di Cucchi all’ultimo. Qui l’occhio indagatore tenta di ri-trovare ciò che è andato «disperso»; ma non si tratta di uno sguardo panoramico quanto piuttosto di un trivellamento in un territorio già dissestato e franoso; tenta di ritrovare la circolarità di un universo conchiuso e seppellito. Si tratta di una riesumazione, si usa un linguaggio rotto e corrotto. Non a caso l’autore parla di sé come « una bestia antica, / preistorica, un oviraptor / o brachiosauro», «un archeologo», una sorta di sopravvissuto da un’altra era geologica, di un appartenente a una specie che si è estinta. È la «memoria» che reinventa il «passato» quella che deve fare i conti con i relitti e i lacerti (i «residui fossili») della decostruzione del tempo trascorso. Ed ecco che affiora alla superficie la narrazione di una «materia remotissima»:

«Residui minimali, frammenti», «tracce scollate di identità», « Innumerevoli sono i sosia», «Nel tempo (…)giacciono strati, subsidenze, depositi / di inesplorata materia remotissima»

«Malaspina» è un laghetto appena fuori Milano, un piccolo spazio d´acqua che suscita «ristoro», che allarga l´orizzonte della città verso la campagna, è un luogo unico, un toponimo, una singolarità che rimanda, attraverso lo strumento anfibio della «memoria», dall’infanzia all’universale del discorso poetico:

Ma che cos’è Malaspina? Una voce, una strana parola, il laghetto che passava fresco nella stanza buia, per il ristoro verde di una gita aerea.

Milano 2

Milano tram via Pascoli

 Il libro di Cucchi non è una operazione di «interpretazione» o di varianti o di riscrittura elegiaca del trapassato remoto: è il tentativo di ricomposizione dell’infranto, di ciò che è andato irrimediabilmente disperso e che non può essere ri-evocato dalla «memoria» se non come «materia» che è appartenuta a una specie diversa che si è estinta insieme al mutamento delle ere geologiche.

Ho scritto in altra occasione che «se tutto è interpretazione ne deriva che sia la poesia che il romanzo obbediranno a questo assioma. Ma io ho dei dubbi sulla bontà di questo assioma. La caratteristica centrale della prospettiva del Moderno è proprio lo sgretolarsi della possibilità di comprendere, di accedere al senso dei testi narrativi e poetici. Ma il linguaggio rifiuta una tale possibilità proprio a motivo del suo carattere di finzione, della sua non-referenzialità, se prestiamo fede al decostruttivismo. Che cosa dice questa teoria? Dice che l’opera decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato?. Il testo narrativo così possiede soltanto la pluralità delle letture possibili. L’unità di senso diventa così la frattura del senso, la sua figuratività si riflette nell’impossibilità di dire che ciò che dice è questo piuttosto che quello; di qui la via indiretta, allusiva dei linguaggi poetici contemporanei. Le interpretazioni romanzesche sono allora molteplici ed è questo molteplice che, attraverso la decostruzione, viene significato come testo. Il che spiega perché numerosi testi narrativi come il nouveau roman, di Joyce o di Kafka, a esempio, rompano l’unità poetica attraverso fratture ripetute che interdicono ogni idea di un significato esclusivo».

maurizio cucchi

maurizio cucchi

 Sia detto per chiudere questa riflessione: il testo narrativo o il testo poetico non sono delle interpretazioni ma sono degli enti che si offrono alla interpretazione.

In tal senso la ricostruzione del discorso poetico di Malaspina non dice il suo senso, ma è una lettura del senso che si è dissolto, la risposta ad una interrogazione che era stata obliata.

(Giorgio Linguaglossa)

Poesie tratte da Maurizio Cucchi Malaspina Mondadori, 2014 pp.92 € 16.00

maurizio cucchi immagine malaspina

Mi muovo verso strati
sempre più occulti, come
un archeologo, o un operaio
che manovra, nell’ignoranza
senza fine delle tenebre,
verso residui fossili, e rivoli
nascosti, mentre trabocca
la sua realtà geografica
di intrecci collettivi, emblemi
o approssimazioni di altri
molteplici intrecci sconosciuti.

*

Ho imparato a esprimere gli umori –
anche gli umori forti – senza camuffarli.
Senza infingimenti.

Mi godo brevi soste felici
di sospensione e improvvisa
adesione. Mi oriento
verso un mondo più affabile
e poroso.

*

La mia memoria, infatti, è una cantina
e nell’umido dei suoi muri marci,
sgretolati, sento l’impronta strana,
invisibile dei defunti, delle loro mani,
come nei sordidi recessi nascosti
albergano funghi, mucillagini e insetti,
topi che guizzano e acute muffe.

*

Innumerevoli sono i sosia
ovunque sparsi e si susseguono
e mi confondono, colpevoli,
in quelle misere tracce scollate
di identità, la mia, nel mondo.
Io stesso, infine, altro non sono
che un comune esemplare,
appartenente a un gruppo,
a una tipologia scontata,
come milioni. Di chi, dunque,
sarà mai la colpa, nel soma
e non di meno nel pensiero?

*

Vorrei nuotare nel brodo di gallo,
vorrei avere un cappello fiorito
e uno scialle, una maschera bianca.
Vorrei avere il passo leggero,
ballare anch’io con i ceffi nel borgo.
Vorrei invitare le vecchie affacciate,
cantare e ridere tra i volti grinzosi
e arrossati che vedo nei vetri
dipinti dall’estro violento,
dalla mano dell’artista che canta,
opaco e potente, la terra.
Vorrei portare un berretto
a sonagli…
*

In questa strenua gerarchia animale
quanti si azzuffano per il diritto
al primo posto all’ora della ciotola?
Prima che questi lucenti palazzi
verticali siano infine infestati dai topi.

*

Residui minimali, frammenti
chissà perché incisi nella memoria.
Con un pigro sorriso e un’emozione,
in pace mi godo o subisco spezzoni,
trailer di un vecchio film perduto
e presente per sempre, sepolto.

*

Ma che cos’è Malaspina? Una voce,
una strana parola, il laghetto
che passava fresco nella stanza buia,
per il ristoro verde di una gita aerea.

Lo rivedo adesso nel gelo, nel bianco
totale, in un estremo paesaggio ghiacciato,
siberiano, alla fantasia, che si compiace
di un’escursione che il tempo ha già ibernato.

*

Facevo di corsa il ballatoio,
innamorato dell’esplorazione
già minima, eppure inesauribile.
Davo un’occhiata alle finestre estive,
alla vaschetta dell’acqua contro il muro,
sbirciavo il poggiolo dei Mainardi
e lei, che rimagliava le scrolére,
fino al sordido buco della vecchia,
povera diavola nei suoi pidocchi,
povera Angiolina sdraiata sui lastroni.

*

L’odore di acido fenico
mi stordiva, mi respingeva.
Aveva un gran bel nome, leo: Anita
Bellingieri e si vantava
dei suoi forse fittizi quarti
nobiliari. I suoi cassetti
traboccavano di dannunziani
fazzolettini in seta, bigiotteria,
borsette e caramelle. La vedevo stupito
e a disagio, quasi un ranocchio
nel finale, nel letto alla Baggina,
incartapecorita e tutta grinze.

*
Nel tempo che invece non esiste
che è un’illusione o solo svolgersi
ordinario di un sé fino a maturazione
e fine, sbando definitivo e arresto
per lo spin del misero soggetto
nel paradosso semplice del mondo,
giacciono strati, subsidenze, depositi
di inesplorata materia remotissima.
*

In piazza Sant’Ambrogio, verde,
nei suoi spettacolari rotelloni
d’argano, adagiato, per chissà
quale pausa, enorme, il mostro
tra fango e macerie e cumuli,
fogliame, come una bestia antica,
preistorica, un oviraptor
o brachiosauro che morde
e smuove, con lento metodo,
implacabile, che affonda, paziente,
fra strati muti di sepolte storie.

*

Ma poi, rialzandosi, la benna colma
stride, mentre contemplo
quei grumi tutti secchi, grumi
di fango e vermi. Il fango
rappreso sotto i cingoli o sul rullo
vibrante. Finché alla fine è quasi
un vasto, lento boato dolente
o un lamento animale.

*

Perciò io adoro il presente
perché solo il presente contiene
tutto quello che è stato
ma il presente sospeso, la luce,
questo blocco di terra pressato.

 

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RACCONTO E ROMANZO A CONFRONTO – Riflessioni di Marco Onofrio

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

 Pare che gli editori tendano a storcere il naso dinanzi alla sola prospettiva di pubblicare libri di racconti, poiché – questa la spiegazione vulgata – “i racconti non vendono bene, mentre i romanzi sì”. È una spiegazione che convince poco, dato che – nella condizione terribile di crisi che attanaglia da tempo il mercato editoriale – stentano a vendere come si spera anche i romanzi di consumo popolare, scritti, editati e distribuiti apposta per piacere al grande pubblico. Il “lettore comune” – sostengono ancora gli editori, sulla base delle indagini di mercato e dei sanguinanti resoconti di vendita – preferisce immergersi in una storia appassionante di largo respiro, dunque non troppo breve e non del tutto depurata di ridondanze, che gli consenta una più agevole immedesimazione nella materia narrata. L’esperienza estetica garantita dal racconto appare di conseguenza troppo breve: non si fa in tempo a prenderci confidenza che già finisce. Il racconto esige una chiave di accesso basata sull’intensità, e non tutti i lettori (se non quelli “forti” e più raffinati, fruitori abituali di poesia e saggistica) hanno la predisposizione giusta per entrare in sintonia. Anche per questo scrivere un bel libro di racconti è, forse, più raro che scrivere un bel romanzo.

Robert Musil

Robert Musil

 Tuttavia i racconti sono, probabilmente, il fulcro della narrativa. E si leggono inoltre in un tempo più breve; tanto più dovrebbero piacere, dato che la gente oggi ha sempre meno tempo da dedicare alla lettura. In un’epoca come la nostra, così fondata sulla velocità della comunicazione, i romanzi “lenti” come quelli giustamente tanto amati di Proust o di Musil (con i loro tomi di migliaia di pagine) sono quasi illeggibili: hanno ceduto il passo a un ritmo diverso, esemplato sul cinema e sulla televisione, ma annunciato sin dagli anni Trenta con la scrittura “veloce” dei racconti di Hemingway, con quel dialogo sincopato sul tempo della musica di allora. Il mondo, che si offriva da secoli come qualcosa di continuo e organico, si è presentato a un certo punto come spezzato in frammenti isolati. La compattezza delle rappresentazioni tradizionali è stata demolita sotto i formidabili colpi dell’intuizionismo, della psicoanalisi, della fisica quantistica, della relatività generale e ristretta, del politeismo etico, etc. Si dissolvono, per conseguenza, anche le strutture narrative tradizionali. Il personaggio è sottoposto a una destrutturazione atomistica che lo rende “antieroe” e, anzi, “inetto”: non è sentito più come monade unitaria, ma come aperta e imprevedibile “disponibilità” psicologica, nelle sue continue e contraddittorie oscillazioni tra conscio e subconscio, parola e pensiero,  dialogo esterno e soliloquio mentale (monologo interiore), intenzione e azione; esposto dunque alle insidie dell’irrazionalismo e del relativismo, che segnano il tracollo di ogni certezza deterministica (su cui si fondava il romanzo borghese).

Franz Kafka

Franz Kafka

 La realtà non è più frutto di rapporti causa-effetto, ma “onda di probabilità” che sfugge ad ogni schema predittivo. Sono già soggetti a questa nuova Weltanschauung narratori come Kafka, Proust, Joyce, Mann, Musil, Pirandello, Svevo. Il fenomeno si accentua nell’età cosiddetta postmoderna: desautorate le grandi cause unificanti in cui confidava il grande romanzo, anche il romanzo – oggi che tutto è come disperso – deve accontentarsi di realtà più piccole, “minori” per così dire, o più circoscritte. Il sostanziale fallimento del romanzo sperimentale della seconda metà del ‘900 ha prodotto reazioni di segno opposto, tra cui: l’esplosione epica della forma-romanzo, che da fiume diventa oceano, dilatandosi per proliferazione interna nella struttura “aperta” di un’opera ciclopica come Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace; il recupero, in controtendenza, del “racconto ben fatto”, e dunque il ritorno del plot, della storia “a tutto tondo”, della scrittura classica e corposa, in grado di valorizzare l’arte perduta della lentezza e i piaceri dell’indugio, con l’uso sapiente delle descrizioni, delle digressioni e delle iterazioni; la facile diffusione del romanzo ciclico, programmato con moduli seriali, da format cine-televisivo, basato sul puro intrattenimento e di genere preferibilmente fantasy o spy-story; la prosecuzione dell’antiromanzo attraverso forme più mediate e attenuate di rottura, come le scritture “di margine” dei narratori che sono e si dicono “allergici” alle trame, e dunque estendono a misura di romanzo (o di racconto lungo) la profondità del saggio, mescolata con la precisione frammentaria e l’intensità del racconto breve. Quest’ultimo, rispetto al romanzo, sembra in definitiva più funzionale alla dinamica storica che – secondo Lukàcs, a partire dalla crisi della grande borghesia europea dell’Ottocento e dalla decadenza del ruolo dell’artista all’interno di essa –, impone allo scrittore di “descrivere” piuttosto che “narrare”, rappresentando una miriade di particolari senza poterli ricondurre a una totalità, che era ben simboleggiata dal romanzo realista, cioè a una visione e una spiegazione complessiva del mondo: come i pezzi di uno specchio andato in frantumi. L’idea di fondo è che la parte è già significativa e rappresentativa del tutto: basta estrarre un frammento di roccia per conoscere l’intera miniera.

Alberto Moravia

Alberto Moravia

 Anche Moravia nota, in un confronto tra racconto e romanzo contenuto in L’uomo come fine (1963), le potenzialità per certi versi maggiori del racconto, nel senso dell’agilità di presa multicentrica, di adesione agli innumerevoli aspetti del reale; sicché

 «a ben guardare, si potrebbe dire che mentre Maupassant e Cechov esauriscono per così dire la varietà di situazioni e di personaggi della società del loro tempo, Flaubert e Dostoevskij, invece, un po’ come certi uccelli solitari che ripetono senza posa, con fedeltà significativa, sempre lo stesso verso, in fondo non hanno mai fatto altro che riscrivere sempre lo stesso romanzo, con le stesse situazioni e gli stessi personaggi.   Alcuni secoli prima, il Boccaccio, il maggiore scrittore di racconti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, offre lo stesso esempio di straordinaria varietà e ricchezza nei confronti di Dante. Se non avessimo che la Divina Commedia, con le sue immobili figure gotiche scolpite a bassorilievo giro giro il monumento del poema, certo ne sapremmo molto meno sulla vita di Firenze, dell’Italia, e insomma del medioevo. Boccaccio è invece il dipintore insuperabile di questa vita. Nel Decamerone, al contrario della Divina Commedia, tutto è detto in funzione appunto di un’illustrazione completa di questa vita, senz’altro fine che quello di esaltarne la varietà e la ricchezza».

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

 Lo scrittore di racconti ha parecchi inizi da accendere e consumare. Dai diversi frammenti del prisma esploso, accostati in un certo ordine, può comporsi un affresco di grande evidenza rappresentativa, in grado di liberare, come non mai, lo “spirito del tempo”. Il racconto, continua Moravia, «viene da un’arte letteraria senza dubbio più pura, più essenziale, più lirica, più concentrata e più assoluta di quella del romanzo», ed è vicino alla poesia nella misura in cui infilza la folgorazione di un momento particolare, «ben delimitato temporalmente e spazialmente» nel suo sviluppo.

calvino e J.L. Borges

calvino e J.L. Borges

 Disse Borges in un’intervista: «I romanzi sono organismi troppo grossi, gonfi di cose troppo pesanti e troppo inutili. La forma letteraria perfetta può essere soltanto il racconto, che permette di concentrarsi direttamente sull’essenziale, come fa la poesia…». E infatti, insieme a Bioy Casares, raccolse una celebre antologia di Racconti brevi e straordinari, anche di una sola frase, tra cui il più breve di tutti – citato da Italo Calvino nelle Lezioni americane, per il capitolo sulla “brevità” -, quello di Augusto Monterroso: “Cuando despertò, el dinosaurio todavìa estaba allì”.  Lo scrittore di racconti brevi è, in genere, un narratore che ha interiorizzato la vocazione del poeta: la sensibilità linguistica lo porta sempre e comunque a “scrivere bene”, a non potersi accontentare delle frasi principalmente funzionali allo sviluppo del plot, e questo contrasta la fluidità dinamica dell’arco narrativo. Il “romanziere nato”, invece, guarda più allo sviluppo strutturale della storia che alle singole frasi di cui si compone.

Proust

Proust

 È la differenza che c’è, nello sport, tra un maratoneta e un centometrista: il maratoneta non può permettersi di sprecare troppo fiato (fuor di metafora: darsi tutto ad ogni pagina), perché ha la primaria necessità di conservarlo a lungo, fino a coprire la lunghezza massacrante del percorso. Il narratore portato al racconto breve, invece, fa un po’ come il poeta-centometrista: lavora sull’intensità, sulla concentrazione dello sforzo, sulla rapidità del gesto. Quello del narratore in breve è un appuntarsi acuto e translucido sul particolare; il romanziere ha bisogno di un altro respiro, di vedere le cose dall’alto, di andare il più possibile avanti, tenendo il lettore incollato alla pagina.

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

 È nutrita la filiera di domande che sorgono, conseguenti, a margine di queste riflessioni. Ad esempio: che cosa chiedere ancora, oggi, alla parola, alla pagina scritta, all’esperienza stessa dello scrivere e – in luogo speculare – del leggere? Oggi che la parola è schiacciata dall’immagine, ed è consunta, banalizzata, depauperata dall’uso iper-mediatico globalizzato. Come concepire ancora un “romanzo”, dinanzi alla proliferazione infinita di audiovisivi per il grande e il piccolo schermo? Che cosa chiedere ancora al genere narrativo? Come superare la disperante sensazione di aver detto e ascoltato tutte le storie possibili? Che dunque non c’è niente di nuovo e originale da scrivere? Che è difficilissimo non ripetersi, senza ricalcare stereotipi, modelli, banalità?

 Verrebbe da dire: scrivete tutto e in qualsiasi modo, racconti e romanzi, purché in pagine succose, vive, autentiche, ricche di sapore. Questo ancora chiediamo al narratore: di parlarci di noi attraverso se stesso. Di mettere in scena esperienze comuni, riconoscibili, “umane”. Storie emblematiche, sapide di vita e di esperienza. Non parole vuote.

(Marco Onofrio)

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971) è uno scrittore e operatore culturale italiano. Elenco volumi editi:

1. Interno cielo (Milano, 1993) – romanzo
2. Eccedenze (Roma, 1999) – racconti
3. Squarci d’eliso (Roma, 2002) – liriche
4. La dominante (Roma, 2003) – tragicommedia
5. Autologia (Roma, 2005) – liriche
6. La lampada interiore (Roma, 2005) – racconti
7. D’istruzioni (Roma, 2006) – liriche
8. Guido De Carolis (Roma, 2007) – saggio biografico e critico
9. Antebe. Romanzo d’amore in versi (Roma, 2007) – liriche
10. È giorno (Roma, 2007) – liriche
11. Emporium. Poemetto di civile indignazione (Roma, 2008) – poemetto drammaturgico
12. Ungaretti e Roma (Roma, 2008) – saggio biografico e critico
13. Dentro del cielo stellare … La poesia orfica di Dino Campana (Roma, 2010) – saggio critico
14. La presenza di Giano (Roma, 2010) – poemetti filosofici
15. Nello specchio del racconto. L’opera narrativa di Antonio Debenedetti (Roma, 2011) – saggio critico
16. Disfunzioni (Roma, 2011) – poemetti
17. Senza cuore (Roma, 2012) – romanzo
18. Ora è altrove (Roma, 2013) – liriche.
19. La scuola degli idioti (Roma, 2013) – racconti
20. Non possiamo non dirci romani. La Città Eterna nello sguardo di chi l’ha vista, vissuta e scritta (Roma, 2013) – saggi di argomento romano
21. Come dentro un sogno. La narrativa di Dante Maffìa tra realtà e surrealismo mediterraneo (Reggio Calabria, 2014) – saggio critico.

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TRE POESIE di Uwe Greßmann (Germania, 1933- 1969) Ricordo di un poeta: Uwe Greßmann “All’uccello primavera”  a cura di Stefanie Golisch

 uwe gressmann

 Ricordo di un poeta a cura di Stefanie Golisch

 Il padre non vidi mai, la madre per tre settimane all’incirca, per il resto sono vissuto tra estranei. 

                                                                            Uwe Greßmann

Poesie apparentemente piccole. Un poco naif. Chi è l’autore?

Uwe Greßmann nasce nel maggio 1933 a Berlino. Cresce in orfanotrofi. Bambino di salute fragile. Dopo la guerra si ammala di tubercolosi, malattia all’epoca difficilmente guaribile. Senza nessuna guida, abbandona la scuola e comincia a lavorare come manovale, sopravvivendo faticosamente all’estremo margine della società. Greßmann vive a Berlino Est. Nell’euforia politica di quegli anni, per un uomo come lui non c’è posto.

uwe gressmann 2E’ un lettore avido. Autodidatta. Legge tutto ciò che gli capita. Senza sistema. Senza proposito se non quello di comprendere se stesso e di trovare il suo posto in un mondo che non gli aveva assegnato alcun posto.

Vive in sottoaffitto, riempiendo la sua stanza di libri e carte. Scrive senza tregua come se sapesse – e sicuramente lo sapeva – che avrebbe avuto solo pochissimo tempo.

Nonostante che la sua filosofia poetica certamente non fosse conforme alla politica culturale della DDR, nel 1966 pubblica il suo unico volume di poesie sotto il titolo Der Vogel Frühling, L’uccello primavera, una raccolta di delicate liriche senza tempo e senza modelli letterari. Versi apparentemente semplici che nascono però da una profonda conoscenza della sofferenza degli uomini e dei lati oscuri della vita come un si alla vita che abbraccia indistintamente ombra e luce, perdenti e vincitori.

Nel 1969, a 36 anni, muore in seguito alla malattia.

Tempi bui, voce piccola di un uomo solitario, che, come testimoniano coloro che si ricordano ancora di lui, appariva egli stesso come un grande uccello nel suo sempre stesso capotto consunto, una presenza strana, incomprensibile e forse un poco inquietante, facile da dimenticare in un battibaleno.

uwe gressmann

uwe gressmann

 An den Vogel Frühling

Daunen dringen aus dir.
Davon kommen die Blumen und Gräser.
Federn grünen an dir.
Davon kommt der Wald.
Grüne Lampen leuchten in deinem Gefieder.
Davon bist du so jung.
Mit Perlen hat dich dein Bruder behaucht, der Morgen.
Davon bist du so reich.
Uralter, du kommst aus dem Reich der mächtigen Sonne.
Darum kommen Menschen und Tiere, und: Erde,
Dich zu empfangen.
Da du sie eine Weile besuchst,
Sind sie erlöst und dürfen das weiße Gefängnis verlassen,
In das sie der Winter gesperrt hat.
Und davon kommen die Sänger,
Die dich besingen.
Frühling, du lieblicher.
Du richtest den Kopf hoch.
Davon ist der Himmel so blau.
Und es wärmt uns alle dein gelbes Auge.
Und du siehst uns an.
Und darum leben wir.

 

All’uccello primavera

Piume nascono da te.
Da esse sorgono fiori e erbe.

Penne verdeggiano in te.
Da esse sorge il bosco.

Lampade verdi illuminano il tuo piumaggio.
Queste ti rendono così giovane.

Tua sorella, la mattina, ti ha addobbato di perle.
Per questo sei così ricca.

Vecchia, tu vieni dal regno del sole potente.
Per questo vengono uomini e animali e: la terra
Per accoglierti.
Poiché tu venga a trovarli per un breve istante,
Essi sono salvi e possono lasciare la bianca prigione
dell’inverno.

Da te provengono i cantatori
Che ti cantano.

Primavera, amabile.
Tu alzi la testa.
Per questo il cielo è così blu.

Il tuo occhio giallo scalda tutti noi.
Ci guardi.
Per questo siamo vivi.

Ernst Hassebrauk, Landstrasse im Fruehlingswind

Ernst Hassebrauk, Landstrasse im Fruehlingswind

Moderne Landschaft

.
Stahlbäume wachsen auf den Bürgersteigen;
Und es zweigen die Drähte
von Baum zu Baum.
Darunter brüllen
Die elektrischen Tiere
Mit Menschen im Herzen vorüber.
Und so mancher gehet vorbei dort
Und findet nichts weiter dabei;
Denn die steinerne Landschaft
Ist ja auch seine Mutter.

Paesaggio moderno

Alberi d’acciaio crescono sui marciapiedi;
Da albero in albero
Si arrampicano rami di filo di ferro.
Laggiù urlano
Gli animali elettrici
Che tengono uomini nel cuore.
Tanti ci passano
E non trovano nulla di strano;
Poiché il paesaggio di pietra
È anche la loro madre.

Werner Haselhuhn, Herbstliche Baumlandschaft, 1994

Werner Haselhuhn, Herbstliche Baumlandschaft, 1994

An die Sonne

Ein Steuermann bist du
Und schickst die Erde aus dem Hafen.
Daß sie über die Wolken hinweg fahre,
Dein von uns bewohntes Schiff.

Die Flotte der Sterne
Kennen die Menschen wenig.
Und wenn du sie uns auch schilderst:
Wie sollten wir davon auch nur ein Wort verstehen?

Das ist uns eben zu hoch.
Da oben am Himmel.

Al sole

Sei il timoniere,
Tu guidi il mondo fuori dal porto.
Che esso navighi sopra le nuvole,
nella tua nave abitata da noi.

Poco conosciamo noi uomini
La flotta di stelle.
E anche se tu ce la raccontassi:
Come potremo comprendere una sola parola?

E troppo in alto per noi.
Lassù in cielo.

(Traduzione di Stefanie Golisch)

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014.

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SETTE POESIE di Otokar Březina traduzione di Antonio Sagredo (A. D. P) e Kateřina Zoufalová  Presentazione di Antonio Sagredo (Parte II)

Museo del poeta

Museo del poeta

 Otokar Březina nasce il 13 settembre 1868, a Počátky, piccola città “nella regione di  Tábor, sulle alture ceche-morave, ai confini con la Moravia, Václav Ignác Jebav,; “più tardi, il grande poeta della vita e della morte e del silenzio, è conosciuto sotto lo pseudonimo di Otokar Březina”. La sua è una famiglia umile, modesta, devota e rispettosa delle tradizioni etico-religiose. Entrambi i genitori, il padre, il calzolaio Ignác Jebavý e la madre Kateřina, erano prima della sua nascita, persone già anziane.  I parenti della madre erano evangelici, ma uno di loro si imparentò con una famiglia cattolica.

Durante i primi anni alla Scuola comunale a Počátky, il poeta si lega di febbrile e tenera amicizia con un suo compagno di scuola così che l’amicizia è il suo primo più importante sentire, la quale è letteralmente, storicamente rilevante per la genesi dell’opera di Březina. A questo suo amico dedicò alcune poesie che si possono considerare i suoi primissimi componimenti poetici. Giovanili componimenti, e già senza luce alcuna, pieni invece di un fatalismo e pessimismo di cui il poeta si nutre. Questi componimenti possono dare la chiave per molti tratti del suo carattere e del suo sviluppo.

Si può affermare che è l’amicizia – per il valore che il poeta a questa conferisce, altissimo e spirituale, ma anche morboso – una delle cause della sua iniziazione alla poesia: il lievito, il fermento di questa iniziazione è la solitudine. La poesia di Březina avrà aspetti più gotici che barocchi. In verità, questi due aspetti, si alterneranno.   Già studente liceale, nella cittadina di Telč  prenderà la  difesa ad oltranza degli eroi e delle lotte nazionali, di Hus (arso vivo nel 1415) e della rivolta hussita, dei fratelli boemi, di Giorgio di Poděbrady: il capo degli ultraquisti ussiti  e futuro Re di Boemia; e infine il desiderio di un nuovo e diverso cristianesimo.

praga ponte carlo

praga ponte carlo

Insomma il poeta  questi anni liceali li vive tra compagni della sua età, e partecipa ai discorsi sulla letteratura e sulle scienze, perfino recita e declama la poesia polacca che d’altronde avrà una influenza, ma non decisiva, sulla formazione del suo verso. Il suo pessimismo è vicino a quello di Giacomo Leopardi e di Alfred de Vigny. Fu grande saccheggiatore costruttivo di biblioteche.

Gli bastarono  una decina di anni per realizzare la sua opera di Poesia, principalmente dall’inizio del 1891 al 1901; poi sino al 1903 e oltre ha prodotto pochi altri versi e prose. La sua prima opera in prosa, che anticipa quella in poesia, va dal 1886 al 1890 fu da lui rinnegata, poi che si trattava in gran parte di imitazioni di vecchi movimenti romantici e zavorre sentimentali.

Bruciò un romanzo, l’Eduard Brunner, nel quale riponeva grandi speranze, e  se non l’avesse fatto, avrebbe avuto non poche difficoltà a fare quei versi che sono il fondamento della poesia moderna ceca.   Ma in prosa scrisse una serie di undici saggi non a caso intitolata Hudba pramenů (La musica delle sorgenti)], che ha affiancata, sostenuta, guidata e modellata una parte consistente della sua produzione in versi dall’inizio del 1897 al 1901, e più oltre. Questi saggi sono scritture che trattano di argomenti religiosi, orfici, esoterici, trascendentali, mistici, teosofici, simbolici ecc., insomma tutto quell’armamentario che sconfina nei misteri e nei segreti insondabili e incomprensibili che sono dietro le creazioni delle opere umane.

Praga

Praga

Si donò al silenzio e corrispose però con centinaia di suoi conoscenti: poeti, artisti, filosofi. Studiosi di chiara fama e traduttori d’ogni paese invano lo spronarono  a continuare a far Poesia, senza preoccuparsi loro delle ragioni primarie che lo assillavano da tanto tempo… come, in primis, il pericolo di ripetersi e di diventare un pedante impertinente. Poi che  già presagiva la nascita di una nuova anima in lui, che richiedeva una nuova forma, e un silenzio. Rimase orfano d’entrambi i genitori a 22 anni: evento che acuì fortemente il suo pessimismo già malsano, terribile, senza scampo che non gli dava requie, tanto da fargli  desiderare un destino simile a quello di Leopardi, che conosceva molto bene. Un letale e fatale pessimismo gli faceva desiderare la sua morte e quella della Natura stessa, e quel Nulla di Schopenhauer, come unica fede da seguire e in cui credere! Ma la filosofia del tedesco invece gli aprì allora la mente.

Da quel pessimismo se ne uscì fuori con una rassegnazione attiva (al contrario di quella orientale, che è passiva), aiutato da tanti poeti più vitali di lui, come per esempio,  dalla natura vulcanica dell’americano Walt Whitman.    Ma fu lo spirito ditirambico di Nietzsche che gli dette una scossa grandiosa, ma poi infine dovette scegliere, e scrisse: “Non il superuomo di Nietzsche, ma il magico titano di Novalis”.

Otokar Březina

Otokar Březina

 E infine  sono stati i Fiori del male di Baudelaire che migliorarono la sua maniera di far versi, ma dallo spleen e idéal, dal concetto salvifico della mort che possedeva il francese si allontanò poi che ritenne  la sua ebbrezza non dovuta affatto all’uso di alcol e droghe, ma alle immagini allucinatorie del suo stesso fantasticare di cui si nutriva. Quanto amò la corrosiva ironia decadente di Laforgue e lo spirito acuto e sprezzante di Heine! E  Verlaine più di Rimbaud! La musicalità del primo lo affascinava. Altra sua conquista fu che assunse per se, per la sua poesia la limpidezza lirica di Hölderlin, come un corroborante esaltante che gli dette vigore!

Intanto la forma della sua poesia diveniva sempre più raffinata (lezione del suo Maestro Mallarmé), tanto che un eccellente critico, Arne Novák,  sentenziò che possedeva  “il dono eccezionale dell’eufonia…l’instancabile inventiva nella rima, per cui il poeta è riuscito a usare felicemente tutte le più riposte possibilità musicali”.  Fu grande anche il suo amore per la musica di Beethoven da dedicargli versi “eroici”, e per il pittore, il lituano Curljonis, che nei suoi “quadri musicali” si ispirò al tedesco..

Il suo silenzio ebbe inizio nel 1901 fino alla sua morte nel 1929: il suo periodo creativo durò una decina di anni, poi ritenne di non scrivere più versi : questo il suo silenzio: il suo timore di divenire accademico, pedante, ripetitivo; scrisse è ovvio ancora, ma con l’ultima delle sue cinque raccolte, Mani, terminò la sua poesia! Era sicuro di se stesso, di ciò che aveva scritto e donato alla Poesia, così scrisse chiaramente che “Di tutte le rivelazioni che l’arte ha fatto nel corso dei tempi, solo una piccolissima parte si conserva nell’opera d’arte e nel libro. La maggior parte di esse scompaiono con le anime che poterono o dovettero sognare le loro vittorie in silenzio”.

Otokar Březina cop Ecco le motivazioni: il timore di diventare, dunque – troppo barocco, gotico, metafisico, mistico, esoterico, religioso, estatico, analitico, sintetico, orientaleggiante, cosmico, mistagogo, più eretico che cattolico e viceversa, e così via – era reale: tanti gli -ismi che ha dovuto sopportare! E tutti gli stavano stretti! Disprezzò allora tutti gli –ismi che gli avevano  appioppato. Visse solo per amore delle sue parole, i versi, le metafore, le forme, le immagini intricate… si nutrì traverso la sua conoscenza enciclopedica dei pensieri dei filosofi e dei sogni dei poeti del passato, perfino di quelli dei contemporanei, ma con discrezione. Dette loro più lustro depurandoli coi suoi versi, raccogliendo di loro tutto ciò che potesse servire per proiettarli ancora di più nel futuro, dentro e fuori di tutte le arti.

In alcuni luoghi del suo cervello e del suo cuore risiedevano visioni di un rinascimento cristiano (e non cattolico come affermava con dichiarazioni arbitrarie il polemico e bravo scrittore sacerdote Jakub Deml) e di un risorgimento delle opere d’arte di tutti i secoli passati e presenti verso un futuro dove la fratellanza umana si potesse mutare in mistica, cosmica e universale. (questo suo traguardo era il suo ideale… il suo limite!). Non si capacitava che proprio a lui, che non era un presuntuoso, che era nato nel 1868 in un paesino moravo, Počátky, a sud-est di Praga, erano venuti in mente simili grandiosi pensieri con cui costruì, come una cattedrale, i suoi versi a cui attinsero decine e decine di poeti, anche stranieri! R. M. Rilke che lo lesse restò quasi di sasso! L’editore di Kafka, Kurt Wolff lo pubblicò. Fu candidato nove volte al Premio Nobel, senza che muovesse qualcuno o qualcosa per ottenerlo!

La sua vita fu monastica in assoluta solitudine. Ebbe per compagno il Pensiero, fin dalla sua origine, dei Grandi Uomini, che nutrì la sua Poesia, e quanti fratelli ebbe: quelli morti per difendere il proprio e  libero pensiero: i grandi martiri eretici, Jan Hus, Giordano Bruno e tanti altri. Parteggiò per i suoi Fratelli Boemi, per l’insegnamento pedagogico di Comenius! (che ancora oggi detta legge nella Pedagogia!). Studiò e amo i grandi Padri della Chiesa! E i grandi mistici di tutte le terre e i filosofi d’Oriente e d’Occidente: i tedeschi, gli spagnoli, gli italiani, e tutti gli altri vedeva uniti da un infinito abbraccio fraterno!

Dostoevskij e Tolstoj, dopo averli ammirati, li abbandonò perché per aver  troppo scavato nell’animo umano, si smarrirono. Parole di grandissima ebbe stima per Puškin e Lermontov. Rifiutò “le fantastiche teorie di paradisi in terra… dalla repubblica di Platone per finire a Proudhon e Marx” testimoniando una mente aperta e chiaroveggente! Divorò le visioni, le allucinazioni creative di Omero, Dante, Milton, Blake, Poe, Byron! E come Shakespeare, Tasso e Cervantes gli fecero conoscere  l’animo umano! Non posso elencare tutti gli autori che lesse. E poi,  le donne, le poetesse: da Saffo a Gaspara Stampa, alla diletta Emily Dickinson, e la Browning  e tante altre, di cui tanto scrisse nelle sue corrispondenze agli amici, specie alla sua amica teosofa Anna Pammrová. Lesse i poemi tibetani, i canti andini ed egiziani, e Gilgamesh, quasi tutti i poemi dell’antichità, prima di Omero! E i poeti greci e latini: Anacreonte, Catullo ecc. Quante loro tracce nei suoi versi! Forse troppa cultura sostenne la sua Poesia! Quando scrissi la tesi su Otokar Březina: profilo critico (1974-75 – unico relatore A. M. Ripellino) mi andavo smarrendo giorno per giorno per colpa della sua vastissima e profonda cultura!. Impossibile conoscere tutti gli autori che lesse e studiò e amò!

Otokar Březina

Otokar Březina

 Coi poeti contemporanei della sua terra firmò manifesti (gli ultimo anni dell‘800) per il rinnovamento della poesia ceca; ma quelli più giovani di lui, coi loro esperimenti linguistici di primo novecento lo lasciarono indifferente. A Jakub Deml (A.M. Ripellino lo definì “un antenato del surrealismo ceco”), che gli parlava del giovane talentuoso poeta Vítězslav Nezval, rispose “del resto il surrealismo non è nulla di nuovo” aggiungendo che “già in Shakespeare si trova questo linguaggio, come nei pazzi”.

Březina cantò in versi, in cinque raccolte (nomino in corsivo i titoli rispettivi), le oscure e splendenti Lontananze misteriose, le aspettative e le speranze conflittuali degli Albori a occidente, i gelidi Venti dai poli violati dalle prime spedizioni artiche moderne, le esaltanti e mistiche azioni dei Costruttori del tempio, e infine il lavoro festante e faticoso e socialistico di tutte le Mani  liberatrici, con cui  terminò il suo viaggio nella Poesia.

Březina seppe estrarre dal sapere universale una bevanda vitale composita del Pensiero e della Poesia dei secoli passati…  e quante culture e scienze mescolò al suo Presente! Il risultato fu un vino di primissima qualità, come il vino di Hafiz! (che conosceva) – una tecnica magistrale della versificazione che ha sostenuto lo sbalorditivo cromatismo delle sue immagini, che sostiene ancora oggi la poesia ceca. L’uso delle metafore e anafore incessanti il poeta praghese Nezval lo apprese da Březina.

Affermò che il poeta è il creatore di ciò che sorseggia, assapora; beve questa bevanda, la Poesia, inebriandosi, e questo atto stimolò simultaneamente gli umori e le forme dei suoi versi: così si  generò la sua Poesia! Ma questo lavoro di faticosa e riuscita liberazione lo si sente specialmente nella  tecnica versificatoria, nelle strofe rimate (che non sono una prigione!), e nei sonori ritmi, talvolta tortuosi, perfino nella sua grafia precisa, inappuntabile… tecnica eccelsa le filosofie e poetiche unite ai suoi umori che si addensano in oscuri-chiari pensieri e incidono profondamente sulla qualità delle immagini, metafore, altre figure… come il ditirambo dionisiaco dominante, il verso libero, l’alessandrino… e le strofe impeccabilmente rimate e limate, segnano conquiste liberatorie e lezioni a non finire per futuri poeti. Giocò come un invasato (ma controllato) e vinse una partita equilibrando l’ebbrezza dionisiaca col suo desiderio apollineo, preferendo infine  quest’ultimo (Novalis). Per questo poi abbracciò il cammino di una fratellanza e di un ottimismo universali, che gli era congeniale, ma tutto ciò fu distrutto dalla carneficina della Prima Guerra Mondiale. Gli sembrò che il mondo (i suoi mondi) gli crollasse intorno, beffeggiandolo, eppure ebbe il coraggio della speranza e nonostante le tragedie, il suo ritornello “dolce è la vita” restò intatto, perché voleva donare una ultima emozione, un sentimento ancora perché non risultassero aridi e freddi i suoi versi. (Tanti furono i poeti e i critici che trovarono i suoi versi… gelidi! Che errore critico!).

Březina fu tradotto in tante lingue; i primi suoii due traduttori furono un polacco e un italiano… glielo riferì l’amica teosofa Anna Pammrová in una lettera del lontano 1896; ed era appena agli inizi della sua produzione poetica. Ha influenzato la Poesia ceca (e non solo) a lui contemporanea e quella dopo di lui profondamente (la stessa azione di Dante o Puškin), come per esempio la poesia di Halas, Holan, Nezval, Seifert, Josef Hora, Zavada, ecc. Anche se il vero fondatore della moderna poesia ceca è stato il romantico Karel Hynek Mácha, vero antesignano del  surrealismo ceco, secondo i poeti surrealisti cechi.

Otokar Březina con il presidente Masaryk

Otokar Březina con il presidente Masaryk

Era cosciente che le sue metafore erano fuori del comune! Grandi poeti contemporanei stranieri hanno lodato la sua maestria, e di ciò si meravigliò  fortemente. Insomma, ha influenzato profondamente persino l’arte figurativa: artisti e poeti simbolisti e  surrealisti sui quali le sue visioni hanno agito fortemente.   Difatti un suo amico fraterno, il grandissimo scultore František Bílek, che non è secondo affatto ad August Rodin, ed è pure un raffinato disegnatore e pittore, ha subito il fascino dei suoi versi e li ha illustrati con disegni e grafiche, e perfino con straordinarie sculture lignee e di pietra. Tanti artisti hanno illustrato molti suoi libri di poesia,  come Váchal (di cui ho visto tutte le cinque raccolte illustrate a colori pagina per pagina, nel Museo dei manoscritti nazionali in quei primi anni settanta), e poi il cupo Konůpek, che ha prediletto gli aspetti più romantici e dionisiaci del poeta.

Trionfali elogi gli giunsero dal grande critico letterario František X. Šalda. E infine fu definito da uno dei suoi primi estimatori, Sigismund Bouška, già nel 1896, a 28 anni!, “poeta per poeti”, un Maestro!,  a quattro anni dalla sua prima pubblicazione!   Poeta visionario, essenzialmente, comprese come pochi le tensioni tra due secoli: l’800 e il ’900, e che, con la sua alta e profonda cultura, ha sintetizzato la fine di un’epoca della Poesia: Březina è l’ultimissima propaggine romantica e uno degli ultimi grandi poeti simbolisti…  del simbolismo ne vide la fine senza rimpiangerlo affatto!  Notizie recenti riferiscono che fu candidato otto volte al Premio Nobel.

(Antonio Sagredo)

Otokar Březina biblioteca

Otokar Březina biblioteca

Somigliante alla notte…

Di nuovo un dolore lontano fu avidamente assorbito attraverso una gelida
nebbia nello splendore dei miei sguardi, e mi congelava
la rovente esalazione
dei colori nel disco biancastro delle afflizioni. Il mio desiderio,
soffocato, aveva timore di toccare, in un tremore malsano,
i brucianti pensieri delle tastiere.
La mia anima vestiva l’abito del crepuscolo ordito da cocenti raggi,
e scendeva giù il silenzio in giaciture profondissime, sepolcrali,
per il degradare delle scale.
Desolato se ne andava il giorno, salutato dal pietoso scandire
delle ore,
come via da me, dal letto di un morto, nella sua malinconica lontananza.
Solo il dolore mi soffiava con quel respiro profondo
che canta la Risurrezione,
non soggetto al tempo, vittorioso nemico del sogno,
somigliante alla notte che spia con unico sguardo fin dentro
tutte le finestre,
e spalanca a tutti gli sguardi l’unica finestra verso un giorno eterno.
Mi soffiava con un respiro profondo solo il dolore dove giace nascosto
l’urlo di mia madre, e per la misera stanza, come nella mia prima ora,
continuava mostruosamente esultante anche l’ultimo urlo,
che nelle profondità della mia anima
sorveglia la soglia di questo sogno, sempre più irrorata con le lacrime.

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Il vino dei forti

Da una mano all’altra dei fratelli passiamo il vino dei forti
nel nostro calice;
i tempi lo preservano dal gelo sulle vigne, come il fumo
dei fuochi nel tempo notturno.
I suoi vignaioli erano Tristezza e Solitudine.
All’improvviso sentiremo come accanto a noi respira la
mistica canzone,
e sentiremo sulla bocca la coppa calda per le sue eteree labbra.
La misteriosa corrente si chiude con l’anello dei cerchi
del nostro tavolo,
ci sottrae alle leggi della terra, risponderà al nostro sogno
e la vita, e la morte.
Udremo il mormorio di fiumi invisibili che scorrono per
centinaia di anni.
Vedremo, piegata verso le acque, la nube dell’Eterno che
brilla dalle profondità come il sole.
L’ebbrezza renderà la nostra anima piena di luce, come
l’anima di future genti,
e avvelenati dal sogno moriremo davanti la nostra morte,
per risorgere e vivere di nuovo.
Leggeremo obbedienti il tuo libro, o Eterno, e assegneremo
le parole alle loro immagini.
Nel magico cerchio, grande come l’orizzonte, ci chiuderemo
per evitare l’angustia della notte.
Il tuo torrente spegnerà la nostra casa che brucia tutta
con le fiamme del dolore,
e col tuo lievito gonfierà la pasta di un nuovo pane.
Le nostre lampade saranno sorgenti dell’oblio, che si accenderà
immobile tra i venti.
Le tombe saranno per noi come giardini, e culleremo la
nostra morte con una canzone.
Discorreremo nel silenzio, e il bacio sarà l’incontro invisibile del desiderio.
La nostra risposta sarà l’illuminarsi degli occhi durante
l’abbraccio dei pensieri in lontananza.
Nei raggi del nostro sguardo fisso ciò che adesso è opaco
diverrà limpido.
Non traverseremo le nebbie delle lacrime
fin dentro la terra viva per i paesaggi dei sogni,
che l’uno nell’altro si fondono,
e le lacrime, come la rugiada assorbita dal sole sulla semenza
dei secoli, si solleveranno sopra di noi nelle porpore dei mattini.
Le nostre finestre ci mostreranno i colori lavati dalla tempesta celeste
e il veleno brucerà nei succhi dei fiori tra profumi balsamici.
Le ombre si piegheranno a noi come penne, nelle ali stellate,
che ridono alle lontananze.
I sogni, che per millenni dormivano sconosciuti alle anime,
sveglieremo sotto la copertura
dei colori e delle forme, e si solleveranno dai ghiacciai dei
poli, dalle foreste dei mari,
dalle misteriose officine della materia, e scenderanno da
innumerevoli costellazioni.
Guarderemo la serie di giorni futuri, come per una fuga
di porte vetrate dei saloni
un dietro l’altro, che il sole traversa per venirci incontro
coronato di verdi giardini.
La notte si oscura su di noi come il cielo di un’alcova profumata
degli amanti.
Il passato si dilegua nella lontananza, come il fumo delle
fabbriche della città, che tempo fa lasciammo.
I nostri pensieri avranno la vastità degli spazi, colmi dell’etere,
con cui respirano gli universi. –
Stanchi della luce porgiamo la mano all’Amica
perché ci allontani da questo luogo,
e la nostra morte sarà come la morte di moltitudini purificate.
Simile ai passi che incedono
da stanze profumate fino al tempio durante la Domenica delle Palme.

Simile alla salita sulle navi tra lo sventolio dei vessilli e il
suono delle musiche nelle orchestre.
Simile alla partenza degli eserciti verso terre conquistate,
a cui gettano rose dalle finestre.
Simile alla lieta risposta del coro dopo le parole del sacerdote
annebbiate dal mistero.
Simile al bacio che continuerà più a lungo di tutti i sistemi dei mondi.
Simile al grido di tutte le canzoni nascoste in tutti i passati
e futuri universi e anime,
e alla mescolanza di tutti i passati e futuri giorni e notti in
un unico giorno in cui non vi sarà notte.