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Roberto Maggiani, Poesie scelte da Angoli interni, Passigli, 2018, pp. 138 € 16.50 con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. La pratica della poesia come percorso eidetico

Foto Zazie nel Metrò

In tutto l’Occidente/ pare non esserci un sole più luminoso

 Roberto Maggiani è nato a Carrara nel 1968, laureato in Fisica all’Università di Pisa, ha conseguito un Master di secondo livello in scienza e tecnologia spaziale, vive a Roma, dove insegna. Ha fondato, insieme a Giuliano Brenna, la rivista letteraria libera on line LaRecherche.it, di cui è coordinatore di Redazione, e per la quale cura la Collana di e-book “Libri liberi”; è Presidente dell’omonima Associazione culturale.

Ha pubblicato varie raccolte di versi, tra le quali: Cielo indiviso, Manni Editori; Scienza aleatoria, LietoColle; La bellezza non si somma, italic. Suoi testi e traduzioni dal portoghese sono pubblicati su varie riviste letterarie e antologie. È giurato e Presidente del Premio Letterario Nazionale “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”.

 Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Parlavo qualche tempo fa con Steven Grieco Rathgeb intorno a quella nuova parola, a quel nuovo concetto: «disfania» della «nuova ontologia estetica»… Ci chiedevamo: Che cos’è una «disfania»? – Ecco il punto: Come accade una parola «nuova»? Da dove cade? E verso dove cade? E perché cade? – Una parola «nuova» indica una cosa «nuova», una cosa che prima non esisteva? E se non esisteva è perché nessuno aveva sentito il bisogno che esistesse, nessuno l’aveva cercata, e magari trovata? – In verità, una parola «nuova» viene incontro ad un «nuovo» bisogno, a una «nuova» necessità. Da Gadamer in poi noi utilizziamo, in modo inconsapevole e irriflesso, un concetto di linguaggio inteso fondamentalmente come dialogo,  quale «orizzonte di un’ontologia ermeneutica»; ciò implica che il «nuovo», se è nuovo, non può non inserirsi nell’orizzonte di una «ontologia ermeneutica» che ricomprenda il «vecchio» in quanto presupposto del «nuovo». Secondo questa concezione ermeneutica non c’è «nuovo» se non c’è il «vecchio», il «nuovo» e il «vecchio» sono le due facce di una stessa moneta. È la forza del «vecchio» che spinge verso il «nuovo», il «nuovo» è una forza oggettiva, che spinge e preme verso il futuro. È il treno ermeneutico che non si può arrestare.

Detto questo, possiamo sostenere che la poesia di Roberto Maggiani ha l’ambizione di voler indicare qualcosa di «nuovo»?, che qualcosa di «nuovo» è avvenuto, magari a nostra e sua insaputa, mentre eravamo distratti, non avevamo fatto caso a certi segnali, a certi accenni, a certi indizi? – Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate.

Innanzitutto, quelle poesie di inizio libro indicano forse un atto poeticamente attivo di dis-missione: una piegatura verso la dis-proprietà, una dis-appropriazione, una de-angolazione, il lasciar andare a fondo ciò che deve cadere, ciò che fino a un minuto fa ci sembrava importante. E all’improvviso ci accorgiamo che tutte quelle «cose» che credevamo importanti e determinanti per la nostra sicurezza, per i nostri valori di cui non potevamo fare a meno, adesso non sono più così importanti, perché è cambiato il metro dei valori, la scala gerarchica entro cui quelle cose trovavano il loro posto.

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer

Semplicemente, quelle «cose» hanno traslocato, hanno cambiato domicilio, e noi non siamo più con loro, presso di loro

Semplicemente, quelle «cose» hanno traslocato, hanno cambiato domicilio, e noi non siamo più con loro, presso di loro; perché anche noi nel frattempo abbiamo cambiato domicilio, in quanto noi siamo sempre alla ricerca di un domicilio più accogliente, di un posto dove le parole possano attecchire e albergare, perché il vecchio domicilio è stato dismesso, quel domicilio dal quale siamo stati sfrattati e siamo stati costretti a sgomberarlo e a gettare nella discarica le vecchie masserizie, le vecchie inutili suppellettili, le parole usurate… La dis-appropriazione implica la rinuncia a qualcosa che non ci appartiene più, che non è più di nostra proprietà, che qualcosa ci è diventata estranea e non la riconosciamo più. Mediante l’atto mentale della dis-appropriazione possiamo percepire meglio gli «angoli interni» delle cose, diventiamo più leggeri, gettiamo a mare l’ingombrante zavorra delle «cose» per noi non più utili e le lasciamo andare a fondo… e torniamo a respirare, ci scopriamo più leggeri…

In fin dei conti, la dis-appropriazione è affine al dis-allontanamento, è il percorso inverso, e questo scoprimento degli «angoli interni», indica un allontanamento da ciò che siamo stati fino ad un momento prima e un avvicinamento a ciò che siamo adesso, a ciò che stiamo per diventare, adesso nel momento in cui vi sto parlando. Questa de-angolazione prospettica è essenziale alla «nuova» poesia, altrimenti si rischia di ricadere nella impostazione elegiaca. La poesia di Maggiani sta su quella strada, è da tempo impegnata alla riunificazione del discorso umanistico e del discorso scientifico, ma oggi la poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante, ci dice che una nuova sensibilità è finalmente matura per gettare alla rinfusa nella discarica le parole inutili che fino a un momento fa credevamo nostre.

La poesia di Maggiani forse è ancorata ad un concetto illuministico della rappresentazione poetica, vuole convincere l’interlocutore con la forza illocutoria del discorso poetico, che «La fabbrica dei viventi» abbia un telos, si muova secondo una teleologia di matrice umanistica e/o scientifica, ma il punto è proprio qui, nella «forma della esposizione», ancora legata ad un concetto umanistico-esplicativo del discorso poetico, un concetto ancora fondamentalista.

La pratica della poesia come percorso eidetico

La poesia di questi ultimi decenni in Italia sembra ancora attestata sul concetto di una «ragione strumentale (instrumentelle Vernunft)», di una «razionalità rispetto allo scopo (Zweckrationalität)», di un «pensiero calcolante (rechnendes Denken)», per dirlo con Gadamer, con il che assume dalla ragione strumentale proprio quelle caratteristiche che dovrebbe invece espungere dalla propria pratica. Se la poesia è «pratica» è anche «incontro», e, come ogni «incontro» c’è del residuo casuale, un residuo che cade fuori della «pratica». La frequentazione di una pratica di eventi, è essa stessa avventura, personificazione di un evento, individualizzazione di un evento in un attimo dello spazio-tempo.

La difficoltà per la poesia italiana di oggi e degli ultimi decenni è che è venuta a mancare una «visione d’insieme», un Progetto, una «casa comune» come diceva Renato Serra proprio cento anni or sono, un critico oggi dimenticato. Mi chiedo, e vi chiedo: quali sono stati gli sviluppi, i sentieri interrotti, i nodi della poesia italiana dagli anni sessanta ai giorni nostri?  In questi decenni si è andati avanti per inerzia, per spinte corporali, per suggestioni, per imitazione, per epigonismi, per mimetizzazioni, per opportunismi. Non c’è più da tempo immemore una poetica critica, nessuno parla più di poetica come di una «casa comune», ciascuno pensa di essere così bravo da poter fare da solo e mettersi in vetrina. In queste condizioni i più giovani sono i più svantaggiati, perché mancano di memoria storica, non hanno, per ragioni biografiche, la memoria storica dei problemi estetici e non che sono rimasti irrisolti. Ricordo che trenta anni fa un noto critico di Roma affermava che fare poesia corrispondeva ad «un bisogno corporale», era qualcosa di analogo al «bisogno corporale». Certo è che con queste categorie non si va da nessuna parte, o meglio, si va a finire nel brodino caldo.

«Una difficoltà in filosofia è che manchiamo di una visione d’insieme. Ci imbattiamo nello stesso tipo di difficoltà che avremmo con la geografia di un territorio del quale non possediamo mappe, o solo una mappa di singoli posti. Il territorio del quale stiamo parlando è il linguaggio e la geografia è la grammatica. Possiamo percorrere il territorio senza grosse difficoltà, ma quando ne dobbiamo fare una mappa, ci sbagliamo. Una mappa mostrerà percorsi diversi che attraversano gli stessi luoghi; ne possiamo prendere uno alla volta, ma non due contemporaneamente, proprio come in filosofia dobbiamo occuparci dei problemi uno alla volta, sebbene in effetti ogni problema rimandi a molti altri. Dobbiamo attendere sino a che non siamo tornati al punto di partenza prima di poter discutere il problema che abbiamo affrontato in precedenza o procedere verso un altro. In filosofia le questioni non sono abbastanza semplici da poter dire “ne abbiamo un’idea sommaria”, perché non conosciamo il territorio se non attraverso la conoscenza delle connessioni fra i percorsi. Così consiglio la ripetizione come un modo di indagare le connessioni»

(L. Wittgenstein, [dichiarazione sul proprio metodo filosofico, rilasciata nel 1933], in Wittgenstein. Una biografia per immagini [2012], a cura di M. Nedo, trad. di A. Bernardi e M. Jacobsson, Roma, Carocci, 2013, p. 11).[citato in un libro di Alessandro Gaudio ancora inedito].

Scrive un giovane critico, Alessandro Gaudio:

  «Un dettaglio oscuro, esente da qualsiasi vanità intellettuale, uno scrupolo, etico oltre che estetico, che impedisca di sprofondare nella sabbia del proprio tempo e consenta per un attimo di capire, attraverso la letteratura, la filosofia, la psicoanalisi, l’antropologia, la storia dell’arte e la fotografia, ma anche la fisica e la matematica, l’ordine delle cose e il progetto cui esso si ispira. Come uno specchio rotto che, riflettendo una realtà atroce e irrilevante, fornisca sorprendentemente uno spunto o una scorciatoia per immaginare e per ridefinire teoricamente (e, spesso, dialetticamente) i rapporti tra le diverse discipline e che, comunque, si guarda bene dal trasfigurare il reale. Un battito di ciglia, quello con il quale si chiude un’epoca, un indizio dello sfacelo, della tacita rovina, un relitto della nostra civiltà offesa. Oppure un piccolo specchio d’acqua, un sogno, un miraggio, una piccola aberrazione decimale che accresca in noi la saggezza o la follia, ma comunque l’espressione di una quotidianità o di una strana mania: «Si tratta − spiegava Adorno nel 1947, concludendo i suoi Minima moralia − di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». Tuttavia, pur prediligendo il frammento, non lo si riduce a esercizio di stile, disinteressato o impropriamente assolutizzato e chiuso, a «fortezza costruita con gli stuzzicadenti», diceva Leonardo Sinisgalli, il poeta delle ‘due culture’ (quella scientifica e quella umanistica, ovviamente).»

Foto Sadness fear

Angoli interni

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In tutto l’Occidente
pare non esserci un sole più luminoso
le cui dita tocchino i tetti e le strade
come qui a Lisbona –
molli carezze e rintocchi sulle campane.

Dal piazzale Sophia de Mello
si può sfiorare São Jorge con una mano –
poco oltre
il Tejo esita placido sotto il ponte 25 de Abril.

Nonostante la bellezza mi circondi
provo un sottile disagio. Continua a leggere

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Intervista Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa sulle tesi di Critica Della Ragione Sufficiente, verso una nuova ontologia estetica, Progetto Cultura, 2018 nel nuovo contesto socio-culturale di oggi.

Critica della ragione sufficiente Cover Def

1) Domanda.

Caro Giorgio,

è appena uscito il tuo volume: Critica Della Ragione Sufficiente, (verso una nuova ontologia estetica), presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma, 2018, pagg. 512, 21 Euro, Art-director Lucio Mayoor Tosi, volevo chiederti il senso di questo tuo nuovo lavoro critico, in risposta agli editori nazionali, più intenti a storicizzare e a periodizzare le voci dei poeti generazionali, che a riportare progetti di poesia fuori dall’elegia fenomeno tipico della poesia italiana. Per fortuna non si parla più di canoni o mini canoni, questo sembra un buon segnale.

Risposta:

Il sotto titolo del libro parla chiaro: «verso una nuova ontologia estetica», con il che si vuole intendere il percorso di pensiero che bisogna fare per introdurci dentro le categorie di una nuova ontologia. Le cose non avvengono a caso, se poeti di lungo corso come te, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia e poetesse più giovani come Letizia Leone e Chiara Catapano e altri che ci seguono: Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Vincenzo Petronelli, Francesca Dono… si sono riuniti attorno ad un progetto di «rottura» del conservatorismo della poesia italiana. La «rottura» era ed è necessaria, anzi, è indispensabile e inevitabile dopo un cinquantennio di sostanziale stasi del pensiero poetico. Per i «poeti», diciamo così, istituzionali, la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Altri poeti, invece, per esempio, Lucio Mayoor Tosi, ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… E la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza. E il linguaggio poetico si è rivitalizzato.

In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco Rathgeb tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci lavora. Lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Kikuo Takano, Steven Grieco Rathgeb è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli artisti di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute ad evidenza tutte quelle chiacchiere-di-poesia o poesia-chiacchiera di cui sono pieni i romanzi e le poesie che si fanno «oggi». Chiacchiere, ciarle, battute da bar dello spot, la poesia di Zeichen, di Magrelli, per fare due nomi noti, e degli odierni epigoni della masscult.

Per tanti troppi anni è stato problematico, qui in Italia, ai poeti di un certo livello tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica. Siamo stati assediati dalla anomia delle proposte di poetica pubblicitarie e dalle battute da bar dello spot, siamo stati impossibilitati a scrivere poesia… Anna Ventura, Steven Grieco, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia leone sono poeti ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia alla moda tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca, e le parole diventano equivoche e ciarliere. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» di una sua poesia che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» rimaste impigliate nella rete, mentre la poesia che si fa oggi assume le parole rimaste impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità.

«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di «cose» dismesse che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…

Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.

(Gino Rago)

 

Foto Richard Serra (1939) the labirint

Richard Serra, The Labirint (1939) – ci troviamo all’interno di una nuova ontologia della forma-poesia

Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche risibile. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarmelo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) posso  (possiamo) pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia», la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo: un nuovo modo di intendere le categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Erik Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità emotiva dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, miliardi di parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo, i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati ospiti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Foto semafori sospesi

Che cos’è una patria metafisica?

2) Domanda: Continua a leggere

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