Archivi del mese: febbraio 2018

Donatella Costantina Giancaspero – Una poesia inedita – La neve a Roma, 9 febbraio 1965 – Commento filosofico di Giorgio Linguaglossa – Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole – La casa dell’essere è divenuta una abitazione scomoda ed inospitale, versione inglese a cura di Adeodato Piazza Nicolai, versione in francese di Edith Dzieduszycka

 

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la poesia narra questo paesaggio innevato che è la memoria – Roma, 26 febbraio 2018, vista Quartiere Ostiense Piramide, foto di Donatella Costantina Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015); fa parte della redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole.

 Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche ridicolo. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarlo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) possiamo pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia» (la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo), di un nuovo modo di intendere alcune categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

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Roma innevata, Campidoglio, nevicata del 9 febbraio 1965

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1956) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, troppe parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico soltanto che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo e i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati abitanti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Che cos’è una patria metafisica?

Una patria metafisica delle parole la si costruisce in piena consapevolezza, e la può costruire soltanto una civiltà, non un singolo. È soltanto quando una patria metafisica delle parole inizia a declinare che si aprono delle «falle» e si inizia ad intravvedere un’altra luce, e con essa altre «cose» che prima non vedevamo. Non si tratta soltanto di una fotologia o di una riforma ottica, ma di un vero regno delle «cose» che viene avvistato. Solo a quel punto sorgono, possono sorgere le parole nuove. E allora non resta che ricostruire ciò che è stato decostruito, raccogliere i frammenti di quelle parole morte che sono state calpestate, e indugiare, prendere una distanza, rallentare e, se del caso, fermarsi. Perché noi siamo sempre in cammino verso una nuova casa dell’essere, dobbiamo sempre istituire un rapporto amicale con il linguaggio, quel linguaggio che è stato fatto sloggiare dalla casa ed è rimasto preda delle intemperie, del gelo e del raffreddamento delle parole. Quelle parole raffreddate sono le sole parole che abbiamo, non ne disponiamo di altre, sono loro che ci possiedono… E allora bisogna scaldarle, bisogna trovare una nuova abitazione riscaldata, con una buona stufa… Forse, questo cammino altro non è che un momento del Ge-Schick dell’essere, un tratto di quella peripezia dello Spirito che occorre perseguire.

Il mondo di retroscena custodisce le parole seppellite

vive in quanto quelle parole possono tranquillamente dormire dietro una scena, dietro un sipario, al riparo dell’ombra, separate dal mondo di avanscena illuminato dalla luce diurna del giorno. Allora, questo sforzo di oltrepassare la metafisica si rivela un vano tentativo se lo facciamo in nome e per conto della luce del giorno, perché siamo ancora e sempre prigionieri del linguaggio della metafisica del giorno, ciò che appare in quella luce sarà figlia del giorno ed esonererà ciò che dimora nell’ombra; la patria del giorno non coincide per niente con la patria dell’ombra, quella esautorerà quest’ultima. È questo governo delle parole ciò a cui dobbiamo rinunciare, le parole non vanno governate, sono loro che ci governano, la loro insubordinazione spesso si converte in ammutinamento, e tacciono, possono tacere per lunghi decenni, restando acquattate nel recinto del mondo di retroscena entro il quale si sentono al sicuro, perché lì non c’è alcun governatorato, alcuna imposizione, alcuna tassa da pagare, non c’è alcuna istanza superiore che dirige il traffico delle parole da adoperare come se fossero degli utilizzabili, le parole non sono degli utensili e noi non abbiamo alcun potere su di esse.

Nella «nuova ontologia estetica» non c’è nessun pathos delle parole o del tempo o della perdita, tutto ciò è impallidito e si è allontanato, è ormai una galassia che non ci interessa più; l’oggettività della nuova poesia nasce non da una acquisizione ma da un allontanamento, da una dismissione di gravezza, da un alleggerimento dalla pesantezza.

Può darsi che la nuova ontologia della parola poetica sia destinata ad attraversare il deserto di ghiaccio della dissoluzione delle Forme di un tempo, della tradizione, può accadere che quelle Forme adesso ci parlano dal loro irrigidimento in una lingua morta che non comprendiamo più, può darsi che anche questa gigantesca dissoluzione delle Forme sia un momento necessario del Ge-Schick dell’essere di cui ci ha narrato Heidegger e che questo allontanamento sia stato salutare, ci abbia fortificati, fortificati nella debolezza e nell’impallidimento.

 

E adesso leggiamo una poesia della nuova patria delle parole.

Donatella Costantina Giancaspero

La neve a Roma, 9 febbraio 1965

È già dentro la notte la sospensione
della neve.
Il sonno tende l’orecchio al di là del calorifero,
in cerca di una vibrazione.

Da una fessura filtra la sequenza in controcampo
dei nastri viola e gialli di Carnevale,
legati al vento della finestra.

Su, c’è ancora neve:
si specchia in quella che resta a terra
e sulle case di periferia.

Ma’, posso scendere giù?”

Gli stivaletti da donna, modello sportivo
senza tacco,
di camoscio marrone, con finiture in pelle gialla,
numero 35, possono adattarsi al piede più piccolo.

Affondano fino a un angolo di marciapiede,
davanti al capolinea del bus in sosta.

L’autista e il bigliettaio si scaldano con le sigarette.
Forti della divisa grigia. Fumano
come una pattuglia a difesa del mezzo
– verde scuro schizzato di fango –
e di questo confine della città.

È dissacrante il gioco della neve contro la lamiera.
L’ultimo colpo cade a vuoto.

*

The snow in Rome, 9 february 1965

Already inside of the night is the suspension
of snow.
Sleep lends its ear beyond the radiators,
searching for one vibration.

From a crack, a countervailing sequence filters
from violet and pink Carneval ribbons,
tied to the wind of the window.

There is snow: farther above:
reflecting itself with the one on the ground
and upon suburban homes.

“Mamy, can I go down?”

The lady’s small boots, sport-model
without heel,
of brown chamois, with finishes of yellow skin,
size 35, adaptable to the tiniest foot.

Sinking up to the angle of the sidewalk,
in front of the parked bus at the end of the line.

Driver and ticket-taker warm up with a cigarette.
Proud of their gray work uniform. They smoke
like a patrol defending the vehicle
–dark green, mud-splashed –
for this end of the city.

Outraging the playing of snow against the steel.
The final pounding falls in the null.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem The Snow in Rome, 9 February 1965, by Donatella Costantina Giancaspero. All Rights Reserved.

*

 

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Mario Fresa – Poesie scelte da Svenimenti a distanza (il melangolo, 2018) – Presentazione di Eugenio Lucrezi con una Lettera di Giorgio Linguaglossa

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Mi sembra che tu ti sia risvegliato nel bel mezzo di un sogno o di un incubo e hai visto certe cose che non avresti voluto vedere

Mario Fresa, 10 luglio 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Esordisce in poesia alla fine degli anni Novanta, con l’avallo di Cesare Garboli e di Maurizio Cucchi. Ha collaborato alle principali riviste culturali italiane, da «Paragone» a «Nuovi Argomenti», da «Caffè Michelangiolo» all’«Almanacco dello Specchio». Suoi testi sono presenti in varie antologie, pubblicate sia in Italia sia all’estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) alla recente Veintidós poetas para un nuevo milenio, numero monografico della rivista spagnola «Zibaldone. Estudios italianos» (Università di Valencia, 2017). Nel 2002 pubblica il prosimetro Liaison, con la prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Plectica; Premio Giusti Opera Prima, Terna Premio Internazionale Gatto); seguono, tra le altre pubblicazioni di poesia, il trittico intitolato Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008); Uno stupore quieto (Stampa2009, a cura di M. Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); La tortura per mezzo delle rose (nel sedicesimo volume di «Smerilliana», 2014, con un saggio di Valeria Di Felice); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (prefazione di Eugenio Lucrezi; il melangolo, 2018). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (nella collana «I Classici» di Rocco Carabba, 2010) e la traduzione e il commento dell’Epistola De cura rei familiaris dello Pseudo-Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). È redattore del semestrale «La clessidra» e della rivista internazionale «Gradiva» (Università di Stony Brook, New York). Ha tradotto Catullo, Marziale, Sarandaris, Baudelaire, Musset, Apollinaire, Desnos, Frénaud, Cendrars, Char, Duprey, Queneau.

Le principali pubblicazioni che parlano di Mario Fresa sono: M. Cucchi, Dizionario dei poeti (2005); M. Merlin, Mosse per la guerra dei talenti (2007); S. Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza (2009); P. Mattei, L’immaginazione critica (2009); V. D’Alessio, Profili critici (2010); G. Linguaglossa, Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945- 2010 (2011); S. Guglielmin, Blanc de ta nuque. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea (2011); N. Di Stefano Busà, A. Spagnuolo, L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (2013); G. Calciolari, Caviale & Champagne. Scritti di letteratura (2013); M. Germani, Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (2014); S. Spadaro, Lontananze e risacche. Saggi di critica letteraria (2014); M. Ercolani, Annotando. Poeti italiani contemporanei 2000-2016 (2016);  C. Mauro,  Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei – Seconda serie (2017).

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leggi, questo libro, e torni a chiederti che cosa resta da fare, oggi, di quel grandioso edificio storico che è stato chiamato, per secoli, letteratura

Presentazione di Eugenio Lucrezi

Lo leggi, questo libro, e torni a chiederti che cosa resta da fare, oggi, di quel grandioso edificio storico che è stato chiamato, per secoli, letteratura. Oggi che sempre di più si apre, in un mondo del tutto estetizzato perché antropizzato e dunque messo in posa ad uso della specie che, suprematica, incessantemente tutto guarda e in tutto si rispecchia, la forbice tra la vita vera e il racconto per figure caparbiamente svolto dagli scriventi che in tutto questo tempo l’hanno tentata, la letteratura.

Che ha sempre indagato, nei suoi secoli, la relazione tra esistenza dell’individuo e spazi esteriori della società e della natura, entrambi intesi come paesaggi e scenari all’interno dei quali l’individuo potesse tessere, o – Penelope sempre più dimentica, con l’avanzare della Modernità, del suo Ulisse – decostruire, la tela della propria vicenda esistenziale. La vita vera dell’interiorità e della carne ammutolisce, oggi, nell’attesa di una mutazione che già si annuncia nella luminescenza dei pixel, promessa non più soltanto della potenza illimite delle conoscenze ma addirittura dell’imminente balzo in una eternità scorporata, finalmente dimentica dell’attesa della fine; mentre la forbice di cui si diceva, aprendosi, allontana i paesaggi fino all’orizzonte dello sperdimento.

Tramontata la letteratura, restano però intatte le possibilità dell’arte. Che non più racconta per figure l’esistenza del soggetto e l’avvicendarsi dei paesaggi, ma il loro tramonto, i cortei funebri che ne accompagnano l’estinzione. Tale racconto è perturbante al limite dell’insopportabile. Il mercato non sa che farsene di opere di questo genere, del tutto estranee alla fiera dell’intrattenimento. La quale, non escludendo del tutto la schiera non estesa dei fruitori non soltanto scolarizzati, ma addirittura acculturati, che chiedono al prodotto artistico di distinguersi per i caratteri di una qualche precipuità di linguaggio, lascia spiragli di visibilità e di circolazione ad alcune opere di scrittura in grado di esibire abiti di sartoria eccentrica, di suggestione sperimentaleggiante.

Ed eccoci a questo libro di Mario Fresa. Che, pur presentandosi nell’abito, dall’antico pedigree letterario, del prosimetro, non è un’opera letteraria di impianto tradizionale o di taglio sperimentale e non esibisce ascendenze avanguardistiche; non guarda indietro per nostalgia o in omaggio a una qualche tradizione del passato e non guarda in avanti per urgenza di palingenesi venture. Essendo un manufatto di parole, Svenimenti a distanza non può che svolgersi, nell’estensione del suo corpo fatto di pagine, in forma di racconto, ed è il racconto di un’esperienza di sofferenza e di perdita, anzi di sofferenza risultante da una successione di perdite che non trova composizione o sollievo nella circostanza che lo scrivente sia qui a darcene conto. La narrazione dell’esperienza del dolore è qui insieme centripeta, in se stessa raccolta solipsisticamente perché dal gelo incandescente che ne costituisce il nucleo non può alzare lo sguardo di un millimetro, neppure per un istante; e dispersa per fuga dal centro come in esplosione sporadica, perché la piega che curva lo scrivente sulla sua scrittura è a tal punto ampia da incontrare in ciascuno dei suoi punti una folla innumerevole di personaggi − deuteragonisti e comprimari −, di scenari, di ambientazioni, di detriti memoriali e di reperti provenienti da diverse storiografie: dalla storia della musica d’opera, per esempio, richiamata a testimone di quella che è stata la funzione teatrale della narrazione; e dalla storia della frenologia, che nei secoli della modernità si è stancata baloccandosi, non infrequentemente con malcelata voluttà, sulle bizzarre costellazioni sintomatiche dell’isteria. A tale ultima storiografia pare alludere il titolo del libro; e non pochi svenimenti affiorano qua e là nelle pagine, tra una convalescenza e un espediente di fuga relazionale. Nell’estesissimo campo tensivo che si estende tra il polo centripeto e il polo di dispersione si svolge tutto il racconto.

La vita vera è tutto ciò che c’è: ma la forbice di cui si diceva all’inizio ne fa figura sindonica: indecifrabile. A raccontarne la leggibilità con la sensibilità del secolo che precede questo che stiamo attraversando ci hanno provato maestri del comico come Kafka, Beckett, Bernhard; e maestri del tragico come Levi e Sebald. Fresa presenta qui il suo tragitto nei nove grani di rosario o nelle nove stazioni di via crucis di capitoli che s’intitolano Convalescenza, Alta stagione, Nodo parlato, Medusa della specie, Galateo per un abisso, Morphing, L’oggetto del desiderio, Falsa testimonianza, La mala fiaba: il primo e l’ottavo in prosa, gli altri prevalentemente in versi. La malattia e la morte sono le evenienza che chiedono, con urgenza, di essere raccontate, e l’unica maniera praticabile è il farsi strada, con la forza che loro viene dalla sostanza ineludibile di presenze dall’invasività “novissima”, nel vivo della carne del vissuto quotidiano di ciascuno e di tutti, che per durare nei giorni e negli anni non chiede altro che − non può fare a meno del − l’anestesia, l’elusione dello sguardo dalla medusa (della specie e di ogni suo individuo rappresentante), la spensieratezza, la speranza dell’eden. La ferita del quotidiano sanguina in un linguaggio inconcluso, depistante, incalzato e sommerso dalla folla delle afferenze interlocutorie: scene ospedaliere, siparietti scolastici, teatrini familiari. Al centro di ciascuno dei quadri, degli acquarelli, degli schizzi soltanto abbozzati, la statua muta del lutto, intorno alla quale gira e rigira, torcendosi senza requie, la scrittura: che più e più volte, con insistita ricorrenza, si ferma come frastornata dal rumore delle afferenze. Lo scampo, allontanandosi, scampana fino ad assordare.

 Questo torcersi delle frasi − l’abbiamo detto − non è una pratica avanguardistica ed è tutt’altro che la professione di un qualche nichilismo fine a se stesso e snobisticamente esibito. Si tratta piuttosto di un ritrarsi del linguaggio dagli atteggiamenti della compiutezza (dall’illusione della forma, armonica o difforme che si voglia e che sia) che è segnale di resa e atto di coraggio nello stesso tempo.

 Atto di resa perché questa incompiutezza (scompiutezza; inconclusione; sconclusione) della scrittura ci dice che le afferenze percettive e la percezione degli affetti non arricchiscono i cassetti della cognizione; che, pur essendo il logos non Ragione o Linguaggio astratto, ma, così come vuole la Retorica aristotelica, discorso relazionale nell’ambito delle comunità, l’esercizio della funzione dialogica del discorso non riesce, in realtà (o meglio: ci riesce solo in quel particolare stato di sospensione del lutto che è la vita di comunità nel suo ordinato svolgimento rituale nei perimetri dell’agorà), a mitigare l’angoscia che ci procura la presenza dell’altro-da-noi che a noi si rivolge: prossimo o alieno, in carne e ossa o fantasmatico, l’altro che a noi si avvicina non si rivolge, piuttosto contro di noi minacciosamente agisce, in gesto di rivolta e di minaccia.

Foto Edward Honacker

Da morti a fantasmi. Da 22 a 28.
Il segreto è nello scheletro, mi pare

 Ma questa scrittura che pare ritrarsi dalle convenzioni eleganti o ineleganti, dalle buone e dalle cattive maniere del linguaggio, è anche un atto di coraggio del tutto autonomo rispetto alle sanzioni del “fine vita”, dovuto a ineludibile consunzione del Letterario, che da più parti insorgono. Iscritto nei registri di una tradizione artistica più di pennello che di penna (Bacon, Freud), che potremmo dire di esecuzione viva del perturbante, il prosimetro di Mario Fresa, vestito com’è soltanto di nudità, sordo ai richiami delle sirene dello stile, cieco ad ogni bellezza di musica e di canto, si vota per intero, nel suo incedere cocciutamente determinato all’inciampo e all’incertezza del passo, ad un discorso di rara forza espressiva, di verità inaudita per verità violenta del dettato, per forza di disgusto per il gran Male metafisico che tutti ci tiene e per il male più piccolo, ma non meno nefasto, che di fronte agli assalti insostenibili che tutti ci troviamo, senza speranza di riuscita, a dover fronteggiare, ci fa vili per aver chiuso gli occhi una prima volta, e rassegnati poi, per sempre, alla viltà. Continua a leggere

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Gianni Godi – Viaggio cilindrico nella materia – Poesia volumetrica in 15 tavole – Videopoesia – La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica – Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Gianni Godi

Gianni Godi è nato a Monte Porzio (Pesaro-Urbino), è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. Ha pubblicato il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia (date le dimensioni da lui richieste, 160×220 cm e forse anche per altri motivi, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia.

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica

La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica… è possibile che sia la poesia del prossimo futuro, un tipo di scrittura sganciata e slegata dalla necessità del supporto cartaceo, una poesia che si libera nello spazio virtuale di un universo ologramma. Sono convinto che la ricerca iconica e poetica di Gianni Godi sia di questo tipo, l’artista romano che si dichiara «totale» si è liberato della «totalità», una categoria che anch’io usavo trenta anni fa ma che adesso è caduta nel dimenticatoio; forse oggi ha poco senso parlare di «totalità delle cose» in un universo inflazionario che, si calcola, tra ventimila anni luce sarà talmente diradato e freddo che le luci delle galassie si saranno spente del tutto e i pochi atomi rimasti galleggeranno nell’etere a distanza di milioni di chilometri l’uno dall’altro, allora, a quel punto, di tutto ciò che conoscevamo come il nostro universo non rimarrà che un immane buio e un immane freddo, e un altro universo giovane prenderà il posto del vecchio. E tutto ricomincerà di nuovo in un orribile e spettrale eterno ritorno.

Tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto

Nella grafia di Gianni Godi tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto, il non detto; qui si rende evidente che l’essere si differanza nel  linguaggio, l’essere si aliena nel linguaggio e nel linguaggio diventa altro da sé, si rende presente e assente in un medesimo tempo; diventa segno, traccia, vuoto tra i segni dei grafemi; la verità si trasforma in traccia, si contamina, si incide nel linguaggio che è segno. Non c’è nessun linguaggio che possa vantare un privilegio ontologico sugli altri linguaggi tantomeno quello poetico. Pensare alla verità del linguaggio è già un porsi nella dimensione del tempo, è già un temporalizzarsi e uno spazializzarsi del tempo; ci sono solo tracce, dei grafemi, di qua e di là che però non conducono ad alcuna verità, c’è una differance  e una moltiplicazione di grafemi che si insinuano tra l’essere e il linguaggio. Il grafema è tutto ciò di cui possiamo essere certi ma di una certezza che non ha nessun punto di contatto con la verità. La verità (l’essere) è differantesi-differente nel-dal linguaggio, è lei il vero errante della nostra epoca. Noi sappiamo  ciò che il linguaggio dei segni ci dice ma la verità non la conosceremo mai per via della struttura aporetica di essa, l’essere è il non detto del linguaggio, sta tra gli interstizi del linguaggio.

Nella spazializzazione dei grafemi di Gianni Godi l’essere diventa visibile proprio in quanto inghiottito dai vuoti interstiziali. In queste spazializzazioni grafematiche il tempo sembra essersi volatilizzato, non c’è più, o meglio, le sue tracce sono i grafemi, simulacri di originali mai avvenuti, mai pervenuti.

Adesso possiamo dire che questo «Viaggio cilindrico nella materia» di Gianni Godi altro non è che la traccia dell’erranza della verità che si dà nella configurazione del tempo in quanto il tempo è il venire a manifestazione della struttura aporetica della verità.

 La verità-essere non è nel «testo scritto» ma  «tra le righe», «nell’interlinea» del testo, nel «non detto» del testo di cui esso testo è la «traccia», il grafema. Il grafema non è niente, è un non-niente, ma non è nemmeno la cosa, è una presenza che si dilegua e rimane il niente… L’IO è liquidato, scomparso tra i flutti del vuoto, e con esso la «materia». Non è un caso che l’ultimo grafema suoni «e lasciaci in pace nel morchio limaccio».

 Gianni Godi

Breve nota sulla Poesia Volumetrica in relazione al manufatto Volume “Viaggio Cilindrico nella Materia”.

Mi sembrava di avere esaurito tutte le parole. O perlomeno credevo di aver esaurito tutte le combinazioni del mio miserrimo bagaglio di parole adatte a far poesia. Ritenevo che la maggioranza delle parole in uso fossero irrimediabilmente logorate dalla pubblicità per finire nelle osterie e nei bar del mondo. Si era all’inizio degli anni ‘90 e la voglia di sperimentare era rimasta intatta. Per esempio non sopportavo le parole bidimensionali distese sul foglio di carta. Di 3D si parlava ancora poco, però pensavo ad una possibile fuga in altra dimensione del testo piatto…e le voci da ogni luogo che si sovrapponevano mi fecero capire che l’esposizione lineare di un concetto era indubbiamente vantaggioso per indicare le regole e le procedure costruttive di un qualsiasi manufatto seriale però inadatta all’innovazione, specialmente nell’espressione artistica in senso lato. Se hai la pretesa di fare qualche cosa di nuovo, devi cercare di conoscere, per quanto ti è possibile, “tutto” quanto hanno fatto gli altri per cercare di non rifarlo. Da qualche parte avevo letto che Claudio Monteverdi, lo ripeteva spesso ai suoi allievi.

La scrittura della prima poesia volumetrica segue una logica non lineare. Le parole e la grafica si susseguono in modo spontaneo, credo, sulla base del “mio totale sapere”. Al posto dei mezzi tradizionali (penna o matita) usai un desk top PC munito di un generico programma di scrittura tradizionale e di un potente programma di creazione e manipolazione grafica. Un anno di immersione mattutina nel caos cerebrale, forse con l’intento di dare un senso alla nebbia intellettiva. Ne uscirono poco meno di 50 paginette piatte quasi totalmente incomprensibili. Però ero io. Nessuno avrebbe comunque “letto” il mio lavoro. Non mi sembrava giusto. Al fine di rendere comunque visibile il “mio pensare”, decisi in modo stavolta razionale, di trasformare in un volume la mia fatica. La forma cilindrica mi sembrò la più adatta. Oltretutto un cilindro vuoto e di adeguate dimensioni avrebbe potuto catturare l’attenzione e “ospitare” all’interno un possibile lettore. Mentre procedevo in modo razionale con il pensiero, mi resi conto della fatica che avrebbe dovuto fare l’ipotetico lettore nel cercare di carpire il significato di una simile scrittura. Nacque così l’idea di distrarre il futuro malcapitato utente indirizzandolo verso concetti immediatamente fruibili. Stampai le pagine su fogli A3. Dopo un’accurata plastificazione le incollai fra loro ottenendo un lenzuolo lungo più di 4 metri. Preparai due piattaforme circolari di 160 cm. Sulle piattaforme furono incollati due specchi. Una piattaforma specchiata divenne il pavimento l’altra il soffitto. Arrotolai il lenzuolo attorno alla struttura, fissai una lucetta alogena al centro in alto e subito mi recai all’interno. Rimasi per un po’ senza fiato. Avevo ottenuto un “libro” che moltiplicava se stesso e il lettore verso l’infinito inferiore e superiore. Non mi passò minimante l’idea di leggere l’illeggibile da me creato. E così fecero tutte le persone che ebbero l’opportunità di entrare nel libro-cilindro.
In sintesi il manufatto si presenta come una sorta di libro tutto aperto. L’ultima chance della parola scritta pronta a migrare dal supporto cartaceo verso nuovi mezzi espressivi. Entrato all’interno del cilindro, il lettore privo di scarpe (nudo sarebbe meglio) si trova “sospeso” a mezz’aria tra gli infiniti sopra citati. Illusione dovuta ai due specchi paralleli. Il “viaggiatore” resta fermo, però s’accorge che la sua materialità resiste alla frantumazione e che frapponendo il suo corpo fra il pensiero e l’infinito gli viene preclusa la vista estrema del punto di convergenza. Per intravedere un possibile infinito deve necessariamente rimuovere il suo corpo.
Per i curiosi posso aggiungere che in effetti la mia intenzione iniziale era quella di raccontare l’avventura di un individuo che via via si trasforma in coppia e che senza volerlo si ritrova ad un convegno di fisici su di un grattacielo a New York. I fisici discutono della materia e di come afferrarla e possibilmente possederla. Al convegno è presente Dio. Durante il cocktail si straparla e tutti si ubriacano. Vengono inventate le parole per spiegare l’inspiegabile. A piedi nudi i fisici cercano di frantumare la materia. I due partecipano attivamente alla sbornia collettiva e credendo di aver afferrato il senso del convegno si eccitano un po’ troppo e per una distrazione materiale sporgendosi oltre misura dal grattacielo cadono sull’asfalto di New York. Dopo vari rimbalzi finiscono nella zona Infernetto-Ostia.
Ridotti in frantumi infinitesimali, hanno la possibilità di vivere la natura biologica risalendo le radici delle piante verso le foglie e i fiori o vivere la natura inorganica dei cristalli di sabbia-silicio e ritrovarsi come parte fisica in qualche schermo televisivo o agitarsi freneticamente nel luminoso buio di componenti microelettronici o rimanere in apparente quiete in attesa di imprevedibili eventi.
Qui finisce l’avventura a noi narrata con un linguaggio fortemente influenzato/storpiato dai discorsi orecchiati durante il convegno.

 

Gianni Godi CILINDRO

Gianni Godi, Cilindro

Gianni Godi

Viaggio cilindrico nella materia

Poesia volumetrica

 Tudela appare giovane. Quando Tudela entra nei pensieri i familiari preoccupati si fermano a guardare i suoi occhi; credono stia male. Di fatto, in pochissimi anni ha subito diversi trapianti di memoria perdendo quasi del tutto il senso del tempo. Ad alta voce dice di aver detto più volte nel passato, di voler andare libera da vincoli ad acquistare varie concretezze da cerimonia (fra l’altro, un paio di scarpe con tacchi a spillo). Non specifica di quale cerimonia si tratti e tutti affermano concordi di non averla mai udita fare simili affermazioni. Tudela non sa in quale anno, mese, giorno si trovi e pare aver perso anche il senso di spazio. A dire di Tudela, Fiacre, intimo suo amico, di cui fra l’altro è dubbia l’esistenza (non essendosi mai visibilmente presentato ad altri) condivide il desiderio di incamminarsi verso acquisti concreti. L’equivoco sul vero scopo del viaggio non potrà mai essere chiarito per deficienza dei mezzi di comunicazione. Così il giorno xx T&F decidono di partire entrando nel cilindro dell’arte riflessa. Continua a leggere

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L’ESTRANEAZIONE È LA CATEGORIA BASE DELLA NUOVA POESIA – Pensieri e poesie di Donatella Costantina Giancaspero, Mario M. Gabriele, Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Jan Larrea, Mauro Pierno, Luigina Bigon, Lucio Mayoor Tosi

 

Il-Mangiaparole-locandina-abbonamento (2)

Giorgio Linguaglossa
19 febbraio 2018 alle 10.00

L’ESTRANEAZIONE È LA CATEGORIA BASE DELLA NUOVA POESIA

L’estraneazione è l’introduzione dell’estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel luogo già conosciuto; il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Mario Gabriele. Queste sono le categorie sulle quali il poeta di Campobasso costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato e interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; voglio dire che i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story, le short story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… non ci sono né domande, come invece avviene nella poesia ultima di Gino Rago, né risposte come avviene, a volte, in alcune mie composizioni.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsamente comunicativa che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi; Mario Gabriele scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario o delle direttive della Unione Europea, ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli freddi e distaccati, dal senso chiaro e distinto. Eppure, proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, di soppiatto e appena visibili, come nella filigrana delle banconote, delle fraseologie spaesanti e stranianti appena percettibili, appena ridondanti.

Ma tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nella poesia di Gabriele non c’è nulla di nuovo, eppure è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia che abbiamo denominato nuova ontologia estetica. È questo il significato profondo del distacco della poesia di Gabriele dalle fonti novecentiste; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate e producevano foglie secche, pagine immobili, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot nel migliore dei casi, tutta quella tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non producevano più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.

Mario Gabriele dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto… È un risultato entusiasmante… che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana…

Altro scossone formidabile lo dà la poesia-pensiero di Gino Rago che ruota attorno ai pensieri primordiali dell’homo sapiens: il vuoto, l’essere, l’esistenza, il nulla, il senso dell’essere e della poesia con l’ausilio del traslato e della metafora…

Collana-il-dado-e-la-clessidra-rosso

Donatella Costantina Giancaspero
19 febbraio 2018 alle 19:10

Ho qui il libro di Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), 500 pagine, l’ho sfogliato di qua e di là, ho iniziato a leggerlo… è un po’ una summa e un riepilogo di alcuni scritti che erano comparsi sull’Ombra delle Parole che affrontano una serie di gigantesche problematiche che galleggiano in questi tempi di debolismo e di epigonismo diffusi. Erano molti decenni (quanti non saprei dire, ma credo che bisogna risalire agli anni settanta) che nelle lettere italiane non venivano sollevate tante e tali questioni: il bello, il vuoto, il nulla, l’esistenza, il tempo interno delle parole, il tempo esterno, lo spazio, la spazializzazione e la temporalizzazione, l’Evento (Ereignis) in arte e tante altre questioni apparentemente slegate e fortuite come il selfie, l’autoritratto, il problema dell’inconscio nella “nuova poesia”… insomma, tali e tante questioni che messe assieme in un libro-zibaldone non si erano mai viste in un libro di critica (militante) in Italia.

E c’è da dire che molte cose sono chiare e lampanti, chiare e distinte direbbe Cartesio, ad esempio la questione dell’essere e dell’essere delle parole, la questione del linguaggio e quella del linguaggio poetico, la questione mandel’stamiana del discorso poetico. Un incredibile excursus su tutte le principali questioni oggi sul tappeto del fare poesia. Perché è bene dirlo con chiarezza: senza affrontare queste questioni non si può scrivere oggi poesia di una qualche serietà, perché è bene che un poeta sia anche un intellettuale e non soltanto un chiacchierone ciarlante, una cicala parlante e scrivente che scrive sulle margheritine e sui broccoli del proprio orto botanico.

Donatella Costantina Giancaspero
20 febbraio 2018 alle 20.30

cari Mario e Antonio,
che Nicolò Ammanniti e Aldo Nove abbiano abbandonato la scrittura in versi la considero una autentica fortuna, quanto a Giorgio Barberi Squarotti, dai, siamo seri, uno che scriveva migliaia di lettere ogni anno piene di elogi a chiunque gli inviasse pseudo poesie, a mio modesto avviso non è una persona attendibile e seria, magari sarà stato serio in altri campi, ma in poesia no, era uno dei tantissimi che voleva accaparrarsi il benvolere di tutti. Ridicolo. Intendo questa acquiescenza alla massa di aspiranti poeti sempre alla ricerca di riconoscimenti e approvvigionamenti. Penso che sia ora di finirla con i complimenti rivolti a tutti, e bene fa l’Ombra che non risparmia critiche a nessuno quando lo ritiene opportuno…
Bisogna ritornare ad essere seri in questo Paese e a non diramare complimenti a nessuno, anche a costo di attirarsi antipatie… la stagione degli scampoli è finita.

*
20 febbraio 2018
Gino Rago

L’atto poetico nel vuoto*

«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*

*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma].

 

I
[…]
Un reziario nell’arena
Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena, verso chi tridenti e reti?
Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto
con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…
È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,
perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,
ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».

II
Roma. Due reziari seduti a un tavolino.
Il bar di via Gaspare Gozzi [la linea B della Metro sferraglia].
A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
Il barista si avvicina con due tazze fumanti, sorride.
L’uomo somiglia a José Saramago, dice: «Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
[…]
– «Una parola davvero scomoda», pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar –
[La verità fa rima con varietà], questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
[…]
«Ma voi non siete ciò che dite, siete dei truffatori, siete…
il credito che le vostre parole vi danno».

* [L’atto poetico nel vuoto è stato costruito come dialogo fra due amici poeti
(Gino Rago e Giorgio Linguaglossa) alla maniera della Nuova Ontologia Estetica) nel quale il parlato fra i due gioca un ruolo estetico decisivo.]

Luigina Bigon
20 febbraio 2018 alle 22.10 Continua a leggere

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Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) Roma, Progetto Cultura, 2018, pp. 512 € 21 – Lettura critica di Mario Gabriele – Oltre il limite elegiaco e alcyonesco della poesia italiana – Poesie di Dunya Mikhail, Ewa Lipska, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Traduzioni in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Questo Repertorio critico dal titolo: Critica Della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), Edizioni Progetto Cultura, gennaio 2018, di Giorgio Lingualossa, nasce come proposta di cambiamento del linguaggio poetico, rispetto alla palus putredinis che ha caratterizzato un lungo periodo di immobilismo estetico, fatta eccezione per le poche alternative sperimentali, che non sono andate mai al di là del loro riscatto formale. In questa situazione di stabilità linguistica, era più che logico ridiscutere sui vecchi parametri  senza proporre alternative rivoluzionarie, ma solo il distacco dalla Tradizione massonica del potere editoriale, che ha influito su generazioni intere nell’arco di un secolo: il Novecento.

Questo avanzamento critico lo si attendeva da tempo, a monte della incomprensibile staticità espressiva che ha ridotto al minimo ogni proposta innovativa del linguaggio. Trattasi di un rapporto complesso, ampiamente supportato da parametri ontologici, che introducono una  morale estetica rispetto al grande depistaggio informativo rimesso in discussione, grazie a un nuovo tracciamento ermeneutico. Un’opera dagli innumerevoli profili estetici; una chiara riconduzione agli aspetti variabili della transizione e formalizzazione del logos e dei suoi derivati, portati allo scoperto e immessi in un tempo rimodernizzato  dopo la crisi della cultura occidentale e della forma poesia.

Linguaglossa ci fornisce le coordinate per la lettura dei testi esaminati, liberando il bendaggio metaforico all’interno della parola. Il critico finisce con l’essere un produttore di materiale merceologico di diversa griffatura e peso specifico. La questione del Soggetto-Forma diventa essenziale per articolare ogni discussione sulla nuova ontologia. Dato l’ampio ventaglio critico non sembra di trovare un paragone di allineamento come le antologie poetiche in Italia, che hanno sempre avuto un ruolo omissivo, sostenuto da una critica militante con le chiamate a correo di altri antologisti come Porta, Berardinelli e Cordelli, Mengaldo, Cucchi e Giovannardi e i tanti rapporti sulla poesia sempre più  elitàri e riduttivi, che solo per ristabilire la verità si dovrebbe permettere anche agli altri il diritto di rivelare la parola negata. Cosa che ora avviene con la Critica Della Ragione Sufficiente, in opposizione  alle  mappe di semplice replay. Quando si parla di antologie, il pensiero corre subito ad un curriculum di opere e di poeti su tutto il territorio nazionale; cosa difficile a realizzare, mentre dovrebbe essere più che accettabile produrre opere innovative, in contrasto con l’atteggiamento critico e poetico, di ieri e di oggi.

 

[Lucio Mayoor Tosi, acrilico]

Nella Critica Della Ragione Sufficiente, si potrebbe dire che gli spazi dedicati alla nuova ontologia diventano dispense critiche tra Soggetto e Oggetto, Tempo Interno e Tempo Esterno, Quadridimensionalismo, Fugacità dell’Essere, e Messa in opera del Frammento, nonché le varie sezioni relative al “Concetto del reale” all’Evento”, al “Problema del linguaggio”, a “L’esserci del tempo”, al “Concetto di traccia e di metafora” e a tutte le altre categorie inerenti lo Strutturalismo. Se leggiamo questo ampio repertorio, ci si rende subito conto che l’autore innesta un discorso autoptico sulla poesia sclerotizzata. Scrive Linguaglossa:”I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una “ragione sufficiente… per una nuova ontologia estetica della forma poesia, un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo”.

Qui si saldano insieme ottimismo e pessimismo sulla scorta di come sono andate le cose in letteratura e nel groviglio delle proposizioni  antologiche e poetiche. La curvatura tra il vecchio linguaggio e il nuovo è evidente; diventa percezione tattile, testuale nel ricambio estetico. Scriveva Sanguineti che l’antologia “è un genere letterario anfibio, oscillante tra il museo e il manifesto”. Nulla di tutto questo è rilevabile nella nuova ontologia critica di Linguaglossa, nella quale vi si accede attraverso tangenziali di diversa diramazione per le nuove generazioni poetiche, in quanto quelle di vecchia data vivono in un museo a sé. Il progetto linguaglossiano ha la discontinuità col passato, ne traccia il limite elegiaco e alcyonesco, prende atto che l’immobilismo linguistico fa parte di una  atmosfera senza ossigeno.

Qui non si tratta di omologare l’extraletterarietà, ma un nuovo punto di sopravvivenza della poesia, e chi ne mette in dubbio ha da rivedere  il proprio modo di affiancarsi al passato rispetto alla post-modernità. Questo revisionismo intorno allo stile e alla forma, determina una epoché fenomenologica di singolare novità. Le  alternanze linguistiche che si sono susseguite dagli anni Sessanta ad oggi, sono derivate dalla necessità biologica di avere una nuova lingua, e chi ha accettato il ricambio poetico, ha lasciato sempre una traccia dalla quale poi si è venuto a determinare il protocollo del proprio tempo linguistico.

Anche nell’antologia La parola plurale (2005), il prefatore, Andrea Cortellessa, conclude che “la poesia si è confrontata con la sua storia, passata e in corso. Ha sostenuto il governo della nostra lingua in un momento nel quale nel mondo essa si è ridotta, per altri usi… l’ha fatto perché ha mantenuto sempre aperta  l’ipotesi, la – speranza – del nuovo”. Che poi le tematiche plurioggettive di ricerca sulla metafisica, sulla ricapitolarizzazione scientifica dell’Universo, sull’uso e abuso dell’oggetto-significante, e delle figure retoriche come l’allegoria, l’anacoluto, l’anafora, l’antitesi e l’anticlimax ecc. siano o meno gli attrezzi d’officina adoperati dal poeta, questo è prerogativa dell’Homo Faber e di come egli si colleghi con la realtà.

Linguaglossa  scandaglia il fondo della seconda metà del Novecento, facendone un bilancio volumetrico di opere e di autori diversi per linguaggio e sensibilità. L’operazione tende a mettere in luce un umanesimo culturale volto al ricambio estetico con la NOE (nuova ontologia estetica), come elemento di comunicazione espletato attraverso la coscienza di scrivere per arginare il declino e la democrazia totalitaria del linguaggio tradizionale. Le indicazioni di chi sta  operando un cambiamento, sono da intendere come effetto di superficie di ogni autore che ha ritenuto di riprogettare la poesia secondo una propria scala di valori. C’è, infatti, una idea che è Progetto e Forma secondo l’effetto d’urto con il mondo esterno. Ciò non toglie al lettore il diritto di rimanere vincolato alla  propria “dipendenza” estetica, di fronte a quello che gli si propone, soprattutto come aggiornamento culturale. Gli autori trattati, e qui ci si riferisce a quelli che hanno una diretta adesione alla NOE, hanno un ritratto esegetico del loro percorso.

“Il concetto di contemporaneità (come il concetto  di «nuovo» – scrive Linguaglossa -) è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è la situazione dalla quale ripartire. Ricominciare a pensare in termini di Discorso poetico – scrive Giorgio Linguaglossa – significa adagiarlo stabilmente entro le coordinate della sua collocazione post-moderna”; un discorso poetico che è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato”. In questo caso Giorgio Linguaglossa finisce con l’essere un apripista che realizza il senso di una nuova ontologia estetica dai tratti filosofici, metalinguistici, stilistici e analitici, nel segno della vitalità corporea correlata al logos.

Sono considerazioni queste che se metabolizzate dal lettore, portano verso la dimensione intuitiva del pensiero poetante, senza azioni di frenaggio da parte di chi ha altri obiettivi. In altre parole, la poesia non deve mai rinunciare al suo sviluppo cellulare, biologico, semantico ecc. Le istanze innovative del linguaggio sono, a parità di sviluppo mentale della personalità del lettore e del poeta, l’insieme delle loro qualità, che non devono mai retrocedere a comportamenti regressivi o di semplice ideologia ostruttiva. La pietra lanciata da Giorgio Linguaglossa avrà sicuramente onde di ritorno  sulla battigia che rimane un approdo sicuro dopo il suo tour critico.

(Mario M. Gabriele)

Collana-Il-dado-e-la-clessidra-nera

[Il dado e la clessidra, simboli della omonima Collana di poesia di Progetto Cultura]

Gino Rago

Condivido pienamente la lettura critica di Mario Gabriele la nota psicofilosofica di Giorgio Linguaglossa sulla poesia di Tiziana Antonilli [del precedente post], quest’ultima davvero in grado di introdurre nella stagnazione diffusa dell’epigonismo debole un’autentica novità d’accenti nell’energia espressiva di versi che mi ricordano echi assai prossimi alla voce per me più alta della poesia europea contemporanea: Ewa Lipska, della cui poesia -del ciclo del “cara Signora Schubert” – mi sono irresistibilmente invaghito.
Invito i lettori a leggere ad alta voce le dense composizioni di Tiziana Antonilli tenendo in mente questo capolavoro di

Ewa Lipska

Il protagonista del romanzo

“Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Io non sono in grado di aiutarlo.
Si tira dietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo,
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum
su internet scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
affermano che taceranno su questo argomento.”

 

Giorgio Linguaglossa

cara Signora Schubert

alla maniera di Ewa Lipska

Cara Signora Schubert, che dire?, la protagonista del mio romanzo
un tempo è stata carne viva, si portava sempre dietro
una borsetta con tutto il necessaire per il trucco
e la cipria per coprire le rughe del viso…

È andata in giro per l’Europa
per inseguire il suo uomo… Amsterdam, Amburgo, Vienna,
Venezia, Budapest… che dire?,
oggi lei non rimpiange nulla, perché nulla è reale,
ha amato Herr Cogito quando amare era diventato problematico,
lui non aveva avuto il tempo per ricambiare il suo amore
e così teneva la sua foto nella tasca interna della giacca,
ogni tanto la tirava fuori per ammirare
i suoi riccioli biondi, mentre viaggiava con la valigetta diplomatica
lì sul treno blindato che trasportava Lenin
verso il fronte russo…

sa, amarsi sul treno blindato non è proprio l’ideale…
così il tempo passò che alla guerra
era stato fissato…
ma poi iniziò subito dopo un’altra guerra,
e riprese ad inseguire il suo amore per le città bombardate dell’Europa…

poi anche quella guerra finì come finiscono tutte le guerre,
i soldati ritornarono alle loro case
e ritornò anche Cogito,
in un telegramma con un indirizzo: via delle ciliegie
4° edificio presso il cimitero Dorotheenstädtischer Friedhof, in Chaussestraße
alla periferia di Berlino est.
Magnolie e margherite.

Traduzione di Adeodato Piazza Nicolai

Ewa Lipska

Protagonist of the Novel

“Dear Misses Schubert, the protagonist of my novel
drags a wardrobe trunk, In it the mother, sisters, the family,
war, death. I am unable to help him.
He’s dragging that trunk for twohundred and fifty pges.
He no longer can stand on his feet. And when he finally exits the novel
they steal all he owns. Looses the mother,
the sisters, the family, the war, death. In an internet
forum they write that he deserved it all.
He’s maybe a hebrew or a midget? Witnesses
declare they will remain mute on this matter.”

Giorgio Linguaglossa

dear Misses Schubert

in the style of Ewa Lipska

Dear Misses Schubert, what can I say?, the protagonist of my noverl
was once living flesh, she always brought with her
a small bag with all necessities for make-up
and the face powder to cover her wrinkles.

She went around in Europe
to follow her man… Amsterdam Hamburg, Vienna,
Venice, Budapest … what is there to say?
today she has no regrets since nothing is real,
she loved Herr Rogito qhen loving had become problematic,
he didn’t have the time to return her love
and so kept her photo in the inside pocke of his jacket,
from time to time he pulled it out to admire
her blond curls while he travelled with his diplomatic bag
on the armoured train taking him to Lenin
toward the Russian front…

you know, loving each other on the armoured train really wasn’t the best…
thus time passed that was fixed
by the war…
but then immediately started another war,
and he began again to chase after his love in the bombed-out cities of Europe…
then also that war ended like all wars come to an end,
soldiers returned to their homes
and even Rogito came back,
in a telegram addressed to : Street of the Cherries
4th Building, next to the cemetery Dorotheenstadtischer Friedhof in Chaussestrasse
at the periphery of East Berlin
Magnolies and marguerites,

© 2018 English transltion by Adeodato Piazza Nicolai 2 poems: one by Ewa Lipska and the other by Giorgio Linguaglossa. All Rights Reserved.

Mario Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017) Continua a leggere

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Tiziana Antonilli – Nove poesie inedite con un Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

 

Foto source favim-com-17546

L’unica colpa delle scarpe infilate / – sono bianche – hai detto  

Tiziana Antonilli è nata a Campobasso dove insegna lingua e letteratura inglese. Ha pubblicato Incandescenze  (Ed. del Leone), Pugni e humus  (Tracce) e  Foglia del vostro ramo, silloge poetica vincitrice del Premio Montale in 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller, Milano, 1997), e il romanzo di denuncia Aracne  (Ed. Il Bene Comune). È presente nell’Almanacco  poetico iPoet (dodici poeti italiani), LietoColle, 2016.

Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

Un linguaggio poetico deve essere incoglibile per essere significativo e significante, altrimenti ricade nella accessibilità tipica del linguaggio informazionale. Il linguaggio poetico di Tiziana Antonilli ha questo di buono, che ha preso congedo dalla facile accessibilità della poesia che confida nella comunicazione, per questo riesce incoglibile e inaccessibile al lettore medio, per il semplice fatto di voler dire qualcosa a cui il «detto» recalcitra; perché ciò che è essenziale di dover dire non rientra nella casa del «detto», il voler dire si è irrimediabilmente allontanato dal «detto», gli è divenuto estraneo.  Ed ecco comparire la figura dell’«Estraneo», come avviene nella «nuova ontologia estetica». Il percorso fatto dalla poetessa di Campobasso da altre sue precedenti prove da me lette nel passato è stato grandissimo, ed è arrivata a questo suo meta linguaggio tutto particolare che impiega la ridondanza interna al significato, vale a dire, il significato non è quello che la frase dice ma altro, si è lateralizzato, si è spostato:

Lo zero l’aveva già detto:
sono io al quadrato, non ci credi?

È ovvio che qui siamo al di fuori della utilizzazione informazionale del linguaggio, anzi, è vero l’opposto, il linguaggio poetico risponde al richiamo della distanza, in primo luogo della distanza dall’io, e in secondo luogo dalla distanza dalle parole, ed è tanto più significativo quanto più lontano risiede nella sua intolleranza alla comunicazione, ma non per questo si tratta di una poesia incomprensibile, è comprensibilissimo, tanto più quanto più ci allontaniamo dal concetto di un linguaggio che «indica» un qualcosa che sta al di fuori di esso. Il significato è sempre all’interno del linguaggio, ma è il modus di avvicinarsi ad esso che è cambiato, è la strategia di accerchiamento che è cambiata.

restiamo / senza dover aspettare lo Straniero

scrive la Antonilli. Ed è questa la nostra stazione esistenziale. Il linguaggio poetico può rispecchiare questa situazione esistenziale solo perdendocisi come un oggetto (e come un soggetto), solo sottraendosi agli imperativi dell’Ego e alle sue istanze auto organizzatorie; solo resistendo alla dittatura della fagocitazione dell’informazione si può raggiungere la significazione.

Come in ogni autentica poesia di ispirazione esistenzialistica, la Musa della Antonilli si trova a suo agio nei non luoghi: un bar, un corridoio, una strada anonima etc: «- un bar in blackout / è l’inutile fattosi luogo – / si vaga per strade lucidate / e liberate dall’idea assurda / di dover per forza condurre a un luogo». Si sta «In piedi, contro il muro della scuola di musica», al buio, «-La centralina elettrica è saltata –»; di frequente sono inserite locuzioni stranianti di traverso al contesto, con la finalità di accentuare l’estraneazione della condizione esistenziale rappresentata: 

L’unica colpa delle scarpe infilate / – sono bianche – hai detto  

Non c’è nessuna ridondanza acustica, il verso spezzato è modellato su una sintassi nominale, dichiarativa.

foto-video-vuoto

Il Vuoto – A porta serrata / – un bar in blackout / è l’inutile fattosi luogo –

Scrive Lacan:

«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo In viaggio con Godot (dal titolo del libro di Mario Gabriele), solo che non ce ne siamo accorti; Tiziana Antonilli ha intuito che era ora di mettersi in viaggio verso la pagina bianca della nuova forma-poesia.

«Il linguaggio – ci ricorda Giorgio Agamben – deve necessariamente presupporre se stesso». Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati, residui, scarti, scampoli, «Ritagli di carta e cielo» (1996) dall’omonimo titolo di un libro di Donatella Costantina Giancaspero. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra suggerirci Mario Gabriele, il quale sa bene che bisogna tenere in piedi le fila del discorso poetico rispetto all’indicibilità come condizione assoluta della dicibilità.

1] J. Lacan, Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Tiziana Antonilli

Nove poesie inedite

28 agosto
Venuto per raddoppiare i giochi,
sembrava altri compiti non avesse
in quel giorno fra i residui di agosto,
rendere pari l’unicità.
Ridiventarono insieme uno
quando gli ideatori del doppio
incamminandosi
lasciarono una fontana sola
ma ricca d’acqua
per irrigare la vigna. Continua a leggere

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La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail

Foto Edward Honacker

Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani.
Tutto cominciò con una caduta

Giorgio Linguaglossa
13 febbraio 2018 alle 22:29

caro Gino Rago,

soltanto adesso ho capito quanto dolore, quanta strada ha fatto la tua poesia di stracci e di rottami appiccicati ai sacchi di juta di Burri dopo che hai abbandonato l’anticaglia del retoricume della poesia del sud. Con una sola spallata hai scaraventato tutta l’anticaglia sudista a mare, quel Sinisgalli, quel Quasimodo et compagni di cordata etcetera, quell’anticaglia che per un poeta del sud è stata una terribile e pesantissima palla al piede. Ci hai dovuto mettere una gran quantità di stracci e di ritagli di giornale, e sì, hai dovuto porti in pre-pensionamento, hai aumentato la distanza tra te e la tradizione della poesia del sud, tra te e la tradizione della poesia del nord e del centro e, improvvisamente, quando temevi che tutto fosse perduto, hai trovato un’altra isola, una nuova terraferma. Leggiamo una poesia di

Gino Rago:

La Musa degli stracci

Non c’è niente di più opaco
Della trasparenza totale.
Il corpo è colore e odore.
I sospiri delle onde richiamano il vento.
Ora soltanto sboccio. Una rosa tra le dita.
«Prendila».
Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani.
Tutto cominciò con una caduta.
[…]
Spremere fuori il mistero.
Ti muovi viva nel tuo stesso corpo.
Ma nuvolaglie increspano
Le visioni razionali.
[…]
Ritirarsi? Sì. Ritirarsi.
Ma dalle forme consunte del poetico.
E rifarsi un vestito.
[…]
Un abito tutto nuovo di parole
Per la festa e per il quotidiano.
Confezionarsi un capo nuovo
Nell’atelier di ritagli di stoffa. È nuova
La poesia fatta con gli scampoli.
Chi più interroga l’oracolo?
Chi pone più domande radicali?
Entra nella sala degli specchi come una Regina
La Musa degli stracci.

In questa poesia hai preso definitivamente congedo dal tuo «io», hai messo una distanza infinita tra te e la poesia che fino a ieri abitavi… ma quell’abitazione è caduta a pezzi, ha ormai il tetto sfondato, ci piove dentro e ci cade la neve; non era più abitabile, ne hai preso atto e ti sei costruito una nuova abitazione, ci hai messo i solidi mattoni della nuova ontologia estetica ma lo hai fatto a tuo modo, con la tua sensibilità storica, con la tua percezione delle «cose», quelle «cose» che fino a ieri non vedevi e che invece adesso vedi con la massima chiarezza. E così sono sorte le parole nuove, quelle della «nuova poesia».

[Gino Rago, Giorgio Linguaglossa]

Scrive Pier Aldo Rovatti:

«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?

Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.

Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 1]

«La Musa degli stracci» mi convince pienamente. Sei un poeta autentico.

1] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7

Donatella Costantina Giancaspero
14 febbraio 2018 alle 11:53 Continua a leggere

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Dialoghi e Commenti intorno alla nuova ontologia estetica – Giuseppe Talia, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa, Alfredo Rienzi, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Rossana Levati, Roland Barthes, Maurizio Ferraris, Giorgio Manganelli, Pier Aldo Rovatti, Poesie di Czeslaw Milosz, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Carlo Livia, Cecco Angiolieri, Donatella Costantina Giancaspero

 

Collage di Commenti del 13 febbraio 2018

Giorgio Linguaglossa

A proposito della poesia di Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.
Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.
Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.
Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).
– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.
– Probabilmente il sole. Disse Lei.
E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.
Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).
“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.
Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.
Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.
Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.

Lucio Mayoor Tosi in questa poesia ci rende familiare una serie di esperienze impossibili, il che non equivale ad una esperienza limite della condizione della normalità, quella in cui normalmente ci troviamo nella vita quotidiana, ma ad un’altra situazione che richiede un altro ordine di parole e un altro piano immaginativo. Si tratta di un’«altra» pratica delle parole, un «altro» modo di abitare il linguaggio poetico. Si tratta di una serie di esperienze impossibili che qui trovano convegno, esperienze che non potranno mai trovar luogo nell’ambito della normale vita quotidiana, almeno in quell’idea del quotidiano che un pensiero positivizzato vorrebbe farci credere. Il quotidiano qui è stato ridotto in frammenti, decontestualizzato e ricontestualizzato in un «altro» ordine, propriamente un ordine ultroneo ed erraneo che non è più in contatto con il pensiero unidirezionale e unilineare che una estetica positivizzata vorrebbe inculcarci, il quotidiano non è affatto quel monolite dell’io penso dunque sono ma abita un «altro» piano del reale, quello dove vige un «altro» principio: noi (una pluralità) forse pensiamo i pensieri di altri in un «altro» modo, il nostro modo è una pluralità di modi, e forse noi pensiamo veramente solo quando non pensiamo, solo quando pensiamo negli spazi, negli interstizi tra un pensiero e l’altro, quando sostiamo nei retro pensieri che non sono nostri ma di altri, che noi crediamo di aver fatto propri. Il fatto è che noi sostiamo e pensiamo nei pensieri di altri. Ergo, noi siamo altri.

Questo modo di intendere il reale e il soggetto, la soggettità e la soggettività, produce il mondo della «alterità». Il mondo è una continua alterità di eventi che interagiscono con la mia soggettività plurale, cambiandola, deformandola… i vettori di questa deformazione morfologica, di questo cambiamento sono la metafora e la metonimia, e la chiave di accesso a questi veicoli è l’«immagine» che può abitare contemporaneamente più spazi e più tempi. L’immagine temporalizza lo spazio e spazializza il tempo, l’immagine crea lo spazio nel mentre che crea il tempo, fa vuoto, crea il vuoto dal nulla e crea il nulla dal vuoto. Letteralmente: senza l’«immagine» la «nuova ontologia estetica» cessa semplicemente di esistere. L’impiego dell’«immagine» entro queste coordinate categoriali rende possibile il «pensare l’impossibile» della poesia di Lucio Mayoor Tosi e anche di quella di un Mario Gabriele, poesia la cui procedura è singolarmente complessa, plurale perché richiede una dimestichezza, una pratica della alterità del linguaggio, una pratica linguistica e metaforica del tutto nuova e inusitata, almeno per la poesia italiana, perché una tale pratica la si trova ad esempio nella poesia di un Tomas Tranströmer e in quella di un Petr Kral o di un Michal Ajvaz.

Scrivevo in un commento del 22 aprile 2016 alle 17.38: Continua a leggere

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La nuova ontologia estetica – Contro le accuse di redigere manifesti, organizzare gruppi, movimenti, tesi, decaloghi, avanguardie, retroguardie etc. Noi diciamo semplicemente che vogliamo rimettere in moto l’esercizio del pensiero poetico dopo cinquanta anni di immobilismo – Poesie di Francesca Lo Bue, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Mario Gabriele, Anna Ventura, Antonio Sagredo – pensieri di T.W. Adorno, Pier Aldo Rovatti, Maurizio Ferraris, Giorgio Linguaglossa, Adeodato Piazza Nicolai, Mauro Pierno

Gif Astronauta che sogna

Cari signori poeti delle parole morte,
Il vostro viaggio è finito.

 

Gino Rago

La sella vuota

“Cari signori poeti delle parole morte,
Il vostro viaggio è finito.
La corsa senza freni sui prati
è terminata. A che vi serve il cavallo?

Restituite al mondo la sella ormai vuota.
Non vi serve più l’aria.
Restituite l’ossigeno a chi saprà ingoiarlo.

Scrivere per sé stessi
carezzando l’io, il mio, il soltanto io
spinge le parole nell’abisso di ghiaccio.

Regalate il cavallo. Restituite l’aria.
Lasciate la sella vuota a chi saprà usarla.
Cari signori poeti delle foglie appassite,
se dite ‘futuro’ il presente vi divora.

Se dite ‘vita’ la morte vi frantuma.
Giorgio ha ragione. Non c’è destino
per le parole morte. Trascinate versi,
amori, parenti, amici nella valigia,
congedatevi dal mondo senza cerimonie.

 

Giorgio Linguaglossa
18 giugno 2017 alle 15.54

caro Mario,
Vorrei dire ad Alfredo Rienzi e ad altri innumerevoli che ci hanno accusato di redigere «manifesti», organizzare «gruppi», «movimenti», «tesi», «decaloghi», «avanguardie», «retroguardie» etc. che, di contro alla immobilità degli ultimi 50 anni della poesia italiana, per la prima volta in Italia è apparsa una pratica della poesia e una teoria della poesia e della scrittura letteraria in generale, che non è più soltanto una avanguardia» né una «retroguardia», né un «movimento», né abbiamo aperto un esercizio per la vendita al dettaglio degli affari propri e correnti, né una legge finanziaria con tanto di capitoli ma è qualcosa di diverso, è un movimento di pensiero e di azione teorica da parte di alcuni poeti di diversissima estrazione e provenienza che ha deciso di rimettere in moto il pensiero poetico, non si tratta di una vendita all’asta al miglior acquirente, né di una domiciliazione bancaria delle proprie rendite di posizione, né di una poetica pubblicitaria e di vendite promozionali come è avvenuto nel corso del secondo novecento, la nostra non è né una cosa né l’altra… contro i timorosi del «nuovo», contro i conservatori ad oltranza, contro chi reclama la conservazione della tradizione (come se essa fosse un capitale che sta in banca a produrre altro capitale parassitario ad interessi fissi), contro chi è recalcitrante alle nuove forme estetiche, contro chi pensa che scrivere poesia lo si possa fare a spese della tradizione utilmente collocata nel proprio bagaglio pret à porter, riporto qui un pensiero di Adorno:

“Gli argomenti contro l’estetica «cupiditas rerum novarum», che così plausibilmente possono richiamarsi alla mancanza di contenuto di tale categoria, sono intrinsecamente farisaici. Il nuovo non è una categoria soggettiva: è l’obbiettiva sostanza delle opere che costringe al nuovo perché altrimenti essa non può giungere a se stessa, strappandosi all’eteronomia. Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo… Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità. Quel che Schömberg diceva con semplicità, «chi non cerca non trova», è una parola d’ordine del nuovo […] Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obbiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo (e ciò è esemplare per le categorie dell’arte moderna) è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale, nome per modi di comportamento artistici per i quali il nuovo è vincolante, si è conservato; esso però indica ora un elemento qualitativamente diverso… indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo”. “la categoria del nuovo è centrale a partire dalla metà del XIX secolo – dal capitalismo sviluppato -. “L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1]

Scrivevo tempo fa, riprendendo una affermazione di Paul Valéry secondo il quale «il mercato universale ha oggi prodotto un’arte più ottusa e meno libera», che l’Amministrazione degli Stati moderni ha imparato la lezione, è l’Amministrazione globale che gestisce la Crisi e gli oggetti della Crisi, e che la Crisi è nient’altro che il prodotto di una Stagnazione Permanente.

«Non sarà più possibile trattare le parole nei limiti di un linguaggio oggetto, perché se da qualche parte esse fanno sentire il loro peso, sarà dalla parte del soggetto: lungi dall’eclissarsi, come molti nietzschiani vorrebbero far dire al testo di Nietzsche, il “soggetto” diviene tanto più importante come questione per tutti (e di tutti) quanto più l’uomo rotola verso la X (con la spinta che Nietzsche ci aggiunge di suo). Passivo, quasi-passivo, attivo nella passività; soggetto-di solo in quanto (e a questa condizione) di sapersi-scoprirsi soggetto-a… La frase di Nietzsche documenta, come tutte quelle che poi la ripetono, una condizione della soggettività, di cui sarebbe semplicemente da sciocchi volerci sbarazzare (sarebbe un suicidio teorico)… Ma sappiamo anche che è innanzi tutto e inevitabilmente una questione di linguaggio, e che l’effetto davanti al quale preliminarmente ci troviamo è un effetto di parola». 2]

Un aneddoto.

Vi racconto un aneddoto. Una volta una rivista di questi giovanotti che scalpitano e sgomitano mi ha rivolto un questionario con domande sulla «critica della poesia». Mi avevano chiesto, questi giovani, che cosa intendessi per «critica della poesia», quale «scuola di pensiero estetico seguissi», se esistesse, a mio giudizio, oggi, «una critica della poesia»… E via di questo passo.
Io gli risposi che non sapevo cosa fosse la «critica della poesia», che non seguivo «nessuna scuola di pensiero estetico e che, a mio avviso, non esisteva la critica della poesia».

La risposta di quei giovanotti fu più o meno questa, mi chiesero: «se avessi inteso prendermi gioco delle loro domande e se intendessi proprio quello che avevo scritto». Inutilmente io ribadii che ero serissimo e che non mi sarei mai permesso di prendermi gioco di nessuno, tantomeno delle loro domande. Il risultato fu che le mie risposte alle domande del questionario non videro mai la luce in quella rivista.

Questo aneddoto lo riferisco perché illumina bene il livello della «pseudo-cultura» che quei giovanotti hanno introiettato e come sia ormai interiorizzato tra gli «appassionati alla poesia» un genere di credenze e convincimenti tipici di una cerchia sacerdotale la quale non ammette chi pone in discussione i presupposti della pseudo-cultura di quella cerchia di sacerdoti del conformismo culturale. Intendo dire con questo aneddoto quanta strada all’indietro le nuove generazioni abbiano percorso dal pensiero critico di persone della mia età. Si è trattato, a mio modesto avviso, di una regressione a un pensiero soteriologico, sacerdotale,di chi si crede di detenere le chiavi per l’accesso al Paradiso delle lettere…

Insomma, non posso non notare una sorta di regressione profondissima verso un pensiero acrilico e acritico, L’aspetto più ridicolo è il concetto di cultura di cui quei giovanotti sono portatori, un concetto dal quale sono stati espunti gli elementi di critica delle ideologie e di critica tout court.

L’aspetto umoristico è che questi giovanotti hanno interiorizzato il meccanismo mentale dell’Amministrazione globale della Crisi, ovvero, il principio della censura e dell’esclusione di chi non condivide la loro cultura agiografica del presente. E questo è proprio il metodo di dominio che l’Amministrazione delle cose ha in Occidente: l’Amministrazione gestisce le CRISI insinuando nelle menti deboli di pensiero critico la convinzione secondo cui occorre espungere dal catalogo degli «addetti ai lavori» chi non la pensa come la maggioranza imbonita, chi la pensa in modo diverso. E chi agisce in modo diverso.

(Giorgio Linguaglossa)

Chi ha paura delle idee?

In proposito scrive Maurizio Ferraris: «l’inventore della scrittura cercava un dispositivo contabile, ma con la scrittura si sono composti versi, sinfonie e leggi;, l’inventore del telefono voleva una radio, e viceversa; chi ha inventato le tazze da caffè americano non prevedeva la loro destinazione parallela a portapenne; l’inventore dell’aspirina pensava di avere scoperto un farmaco antinfiammatorio, mentre una delle sue più interessanti qualità è che sia un farmaco antiaggregante, quindi fluidificante del sangue, come sì è capito più tardi; l’inventore del web pensava a un sistema di comunicazione tra scienziati, e ha dato vita a un sistema che ha trasformato l’intera società. Lo stesso cellulare è evoluto da apparecchio per la comunicazione orale ad apparecchio per la comunicazione scritta e la registrazione, smentendo l’assunto secondo cui la comunicazione costituirebbe un bene superiore alla registrazione, e l’oralità un veicolo di scambio più gradito, naturale e addirittura appropriato della scrittura…».3]

1] T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33

2] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, pp. XX-XXI

3] Maurizio Ferraris, Emergenze, Einaudi, 2016 pp. 120 € 12

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Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

  1. (J. Lacan – seminario XI)

*

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda

*

Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono  silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».

Strilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secoloStrilli Transtromer le posate d'argentoLa verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».

Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».

Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza. L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna VenturaMario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.

I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».

Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza. Continua a leggere

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La nuova ontologia estetica – Poesie di Tomas Tranströmer, Ewa Lipska, Mario M. Gabriele, Francesca Dono, Fritz Hertz, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Giorgio Linguaglossa – Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero – Intorno ad una diversa ontologia delle parole

Foto Karel Teige

-Tu conosci Sally?.
È una donna sulky, un po’ surreale-.
-Ma lei non è più qui- disse Larry.
-E che sarà di noi?.
E che si dice di là nella vita,
di là da quelle parti, là in parte?-.
-Hallo, Cristina! Ich kann dir helfen?

Poesia di Mario M. Gabriele

1
autostrada per Brera
con i pensieri agli otages del 45
senza la sindrome di Stendhal.
Diciamolo pure tra noi, Joyce:
Molly Bloom incanta ancora.
Ernest aveva un angioma sulla guancia
che sembrava uno schizzo di Mirò.
-Tu conosci Sally?.
È una donna sulky, un po’ surreale-.
-Ma lei non è più qui- disse Larry.
-E che sarà di noi?.
E che si dice di là nella vita,
di là da quelle parti, là in parte?-.
-Hallo, Cristina! Ich kann dir helfen?-.
Per noi questa nascita
fu come un’aspra ed amara sofferenza,
come la Morte, la nostra Morte.
La regia non toccò il Finale di partita.
rimise a posto Le finestre di Magritte
e il Portrait of a Lady.
David tacque di fronte all’Unde Malum.
(…)
Non abbiamo trovato blazer Trussardi
ma camicie as aufzüge nell’outlet.
Dalla cima del Mc Kinley, imbiancata di neve,
scivolammo fino al padiglione Pickwik
tenendoci per mano senza fermarci al Park Down,
facendo il giro del lazzaretto,
lasciando ai miseri la Misericordia,
e ai dannati Le voyage dans la lune.
Brecht rimase sul sofà con Madre coraggio.
Nelle nursing homes
i pochi rimasti nella veglia
attendevano miracoli dal guru,
guardando le sfere passare oltre,
dilagare gli anni in lutti e gioie.
a sera porremo per tutti un bouquet di loto e di talee.
ognuno avrà freschezza di lini e di rugiada
e tutto si compirà in prodezze di oracoli e scritture
in un tempo oscuro e breve,
poco più d’un attimo, una stagione.
Ci fu chi domandò:
-Chi c’è là nel metamondo?.
E Linda è vero che sta con voi?-.
Si era spezzato il dialogo con gli altri,
né vennero al cold reading il dottor Gary
e l’umanista Schwartz smarriti in un viaggio,
chi a bordo delle navi,
chi su malferme barcarole.
(…)
Ci sono anni che sembrano boschi,
strade senza uscita, Signora Spolding!
Qui ancora si contano i ragazzi del Quaranta,
mentre saltano pick-up,
bruciano palmizi,
boati scuotono le strade.
Good bye, mamà!.
Nessuno più ti metterà le flebo e i tubicini.
Ci saranno stati piccoli rumori, scricchiolii.
Ma chi li ha sentiti?.
Lucy, non so dirti!.
abbiamo spento il widescreen.
E’ successo all’improvviso.
Volevo solo restare nel sogno,
chiedere a Willy dove fosse la sua anima
quando lasciò il paese
passando lungo i campi dei papaveri rossi.

da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2018)

Laboratorio 5 zagaroliLaboratorio 5 poeti
*
Leggiamo qualcosa di Tomas Traströmer:

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi
*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.
*
Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
a quello che IO sono, quello che IO sono.
Ma non appena sono riuscito a vedere IO
IO è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice
*
Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
*
Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
*
Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota
*
… una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…
*
… e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
su una macchina che non ha nastro solo una linea
d’orizzonte
sicché la parole battono invano e non resta nulla
*
Io sono attraversato dalla luce
e uno scritto si fa visibile
dentro di me
parole con inchiostro invisibile
che appaiono
quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!
*
Leggevo in libri di vetro…
*
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
*
…la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

Commento di Giorgio Linguaglossa

Sono versi di Mario Gabriele e di Tomas Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE. Il problema è che c’è, ed è ben visibile l’Assoluto, che è assolutamente incontraddittorio, e quindi incoglibile. A loro modo sia Mario Gabriele che Tomas Traströmer fanno poesia dell’Assoluto, del dio dell’istante, di tutto ciò che è incoglibile.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

poesia di Edith Dzieduszycka da Squarci (inedito)

Perché bottino.
Perché tesoro.
Prezioso, labile, fluttuante,
pronto ad evadere, malgrado corda, catena,
nastro, promesse, lusinghe, minacce.
Non essere mai sicuri,
tornare e ritornare,
di giorno, di notte,
su luoghi, pensieri, parole, dubbi,
verificare, correggere, controllare,
non fidarsi, star in allerta, misurarsi.
Non accontentarsi.

*

Si negavano, i personaggi.
Si negavano con ostinazione.
E non era dato sapere,
se ancora dovevano arrivare,
o se, arrivati, erano già scappati,
da ogni interstizio, da ogni crepa.
Se si nascondevano dentro le buche,
sotto la sabbia, negli anfratti delle rocce.

Non si riusciva a capire
se avevano deciso di rifiutarsi,
di trattenersi di comun accordo,
di non saperne di venire,
alla luce, all’evidenza, alla ribalta.
Se si ribellavano allo strapotere
di chi avrebbe potuto decidere al loro posto,
di chi li avrebbe trasformati in marionette,
in fantocci senza volontà,
costretti a promiscuità indesiderate,
matrimoni forzati, separazioni dolorose,
lavori inadeguati, rinunce penose,
vergognosi fallimenti.
di chi li avrebbe incanalati
dentro comportamenti condannati,
di chi li avrebbe fatti tiranni, vili, assassini,
ignoranti, emarginati, affamati,
o santi, navigatori, scopritori, poeti.
I primi della terra come gli ultimi.

Di chi avrebbe avuto il potere di costringerli
al silenzio, all’immobilità, alla poltrona,
al letto, alla morte.
Perfino alla non morte.

*
poesia di Fritz Hertz -Francesca Dono

caro tesoro – una poesia di Fritz Hertz

Caro tesoro, sono uscito presto. A voce bassa. Velocemente,\ come un ladro.
In cucina lascio due mele. Sulla sedia inclinata il tailleur di lana verde. La sveglia ha suonato mezzo secolo. Nel frattempo mi sono rasato e spogliato sotto il neon per ben tre volte. Avevo la saponetta di sempre.
Il solito rumore della scala.
Caro tesoro , c’è modo di svegliare questo sonno?
Le foche battono la fiacca. Tutti chiedono il tuo mondo. Non avrai (per caso) scordato il nostro amore? Agamennone è qui. Sul selciato del vicino di casa. Dal rovescio della notte in pieno giorno. Tu lo capisci _ vero?
Testata politticoLaboratorio 4 Nuovi
Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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Giorgio Caproni (1912-1990) – Poesie  – Antologia – con un Commento di Rossana Levati

bello il vuoto

Ad portam Inferi (da Versi Livornesi ne Il seme del piangere, 1952-1958)

Chi avrebbe mai pensato, allora,
di doverla incontrare
un’alba (così sola
e debole, e senza
l’appoggio di una parola)
seduta in quella stazione,
la mano sul tavolino
freddo, ad aspettare
l’ultima coincidenza
per l’ultima destinazione?

Posato il fagottino
in terra, con una cocca
del fazzoletto (di nebbia
e di vapori è piena
la sala, e vi si sfanno
i treni che vengono e vanno
senza fermarsi) asciuga
di soppiatto – in fretta
come fa la servetta
scacciata, che del servizio
nuovo ignora il padrone
e il vizio – la sola
lacrima che le sgorga
calda, e le brucia la gola.

Davanti al cappuccino
che si raffredda, Annina
di nuovo senza anello, pensa
di scrivere al suo bambino
almeno una cartolina:
“Caro, son qui: ti scrivo
per dirti…” Ma invano tenta
di ricordare: non sa
nemmeno lei, non rammenta
se è morto o se è ancora vivo,
e si confonde (la testa
le gira vuota) e intanto,
mentre le cresce il pianto
in petto, cerca
confusa nella borsetta
la matita, scordata
(s’accorge con una stretta
al cuore) con le chiavi di casa.

Vorrebbe anche al suo marito
scrivere due righe, in fretta.
Dirgli, come faceva
quando in giorni più netti
andava a Colle Salvetti,
“Attilio caro, ho lasciato
il caffè sul gas e il burro
nella credenza: compra
solo un po’ di spaghetti,
e vedi di non lavorare
troppo (non ti stancare
come al solito) e fuma
un poco meno, senza,
ti prego, approfittare
ancora della mia partenza,
chiudendo il contatore,
se esci, anche per poche ore”

Ma poi s’accorge che al dito
non ha più anello, e il cervello
di nuovo le si confonde
smarrito; e mentre
cerca invano di bere
freddo ormai il cappuccino
(la mano le trema: non riesce
con tanta gente che esce
ed entra, ad alzare il bicchiere)
ritorna col suo pensiero
(guardando il cameriere
che intanto sparecchia, serio
lasciando sul tavolino
il resto)
al suo bambino.

Almeno le venisse in mente
che quel bambino è sparito!

E’ cresciuto, ha tradito,
fugge ora rincorso
pel mondo dall’errore
e dal peccato, e morso
dal cane del suo rimorso
inutile, solo
è rimasto a nutrire,
smilzo come un usignolo,
la sua magra famiglia
(il maschio, Rina, la figlia)
con colpe da non finire.

Ma lei, anche se le si strappa
il cuore, come può ricordare,
con tutti quei cacciatori
intorno, tutta quella grappa,
i cani che a muso chino
fiutano il suo fagottino
misero, e poi da un angolo
scodinzolano e la stanno a guardare
con occhi che subito piangono?
Nemmeno sa distinguere bene,
ormai, tra marito e figliolo.
Vorrebbe piangere, cerca
sul marmo il tovagliolo
già tolto, e in terra
(vagamente la guerra
le torna in mente, e fischiare
a lungo nell’alba sente
un treno militare)
guarda fra tanto fumo
e tante bucce d’arancio
(fra tanto odore di rancio
e di pioggia) il solo
ed unico tesoro che ha potuto salvare
e che (lei non può capire)
fra i piedi di tanta gente
i cani stanno ad annusare.
“Signore, cosa devo fare”
quasi vorrebbe urlare,
come il giorno che il letto
pieno di lei, stretto
sentì il cuore svanire
in un così lungo morire.

Guarda l’orologio: è fermo.
Vorrebbe domandare
al capotreno. Vorrebbe
sapere se deve aspettare
ancora molto. Ma come

come può, lei, sentire,
mentre le resta in gola
(c’è un fumo) la parola,
ch’è proprio negli occhi dei cani
la nebbia del suo domani?

bello Ferdinando Scianna 6

Ferdinando Scianna, fotografia

Commento di Rossana Levati

Il primo Caproni propone spesso al lettore testi di dimensioni inusuali per l’epoca: testi lunghi, con un impianto colloquiale-narrativo, in anni in cui la poesia italiana è attraversata dalle prove di una lirica condensata, di stampo ermetico, che predilige le folgorazioni, le illuminazioni, la proposta di un linguaggio criptico e alto.
Tuttavia, sia ad una impressione visiva che alla prova di una lettura ad alta voce, qualcosa nel ritmo non è così apertamente esplicito, così apertamente narrativo come l’impianto apparentemente colloquiale  può far sembrare a prima vista.
Colpiscono infatti le parentesi, che spezzano il verso, che inseriscono un contro-canto a voce bassa, la rifrazione interiore del pensiero del poeta, come se la poesia scorresse su due tempi, uno esterno, dichiarato al lettore, e uno interno che scorre sui suoi binari (le parentesi appunto) nella mente dell’autore. Uguale funzione hanno i continui enjambement che prolungano il verso nel successivo ma impongono per ciò un ritmo diverso, inaspettato, quasi claudicante, con il verso che va spesso a spezzarsi e concludersi là dove non ci si aspetta. In questo ritmo così frantumato tuttavia la musicalità, quella di Caproni, di cui vale la pena ricordare gli studi di violino e di armonia musicale e la grande passione  per le opere liriche (da Mascagni a Weber), è continuamente ricercata in un gioco di rime e assonanze che prosegue regolarmente, da un verso all’altro.
“Ad portam Inferi”  fa parte della raccolta Il seme del piangere,  composta per la morte della madre Anna Picchi, e presenta i nuclei principali della poesia di Caproni; quello che Omero, agli inizi della letteratura occidentale, immagina come luogo dell’ultimo incontro tra Odisseo e la madre Anticlea, l’oscuro paese dei Cimmeri avvolto dalle nebbie, dove i morti non hanno più memoria di sé è una stazione piena di fumo e nebbia, in cui la madre è passeggera provvisoria; il tavolino freddo su cui poggia la mano, il cappuccino freddo che cerca di bere sono i segni di questo luogo di attesa; siamo fuori dal tempo, l’orologio è fermo, e nessuno può dare indicazioni sulla meta del viaggio, il capotreno non c’è o non può dare notizie, i treni “vengono e vanno senza fermarsi” e aprono e chiudono le porte vuote da cui nessuno sale o scende. I segni della non-vita  ci sono tutti: le chiavi di casa sono state scordate, l’anello del matrimonio di Anna non è più al dito, lei stessa vorrebbe ricordare ma non ricorda e nella sua mente marito e figlio si sovrappongono, né sa concludere le frasi appena iniziate sulla cartolina di saluti… Nell’inquietante e angosciosa sala d’aspetto si aggirano solo cacciatori e cani, che annusano il fagottino di Anna e riflettono nel loro sguardo liquido e triste “la nebbia del domani” che la attende: forse ultima allusione alla caccia infernale, non più violenta come quella dantesca ma mesta e dimessa, dove la preda – Anna si è già arresa da tempo. Il “cane del rimorso” ancora invece insegue il poeta che, come dice in un altro testo della raccolta, “Ultima preghiera”, vorrebbe pregare la sua anima di consegnare ad Anna-Annina un ultimo saluto, che la farebbe arrossire perché è una parola d’amore mandatale da “suo figlio, il suo fidanzato”.

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Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

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Antonio Sagredo Cinque poesie da Capricci (2017) con un Commento critico di Donato Di Stasi

 

Il Mangiaparole rivista n. 1

Non comincio subito dai complimenti. Prima, pane al pane. L’elogio, se è meritato, alla fine dell’excursus concernente Capricci, la prima raccolta sagrediana edita in Italia. Col barocco che gli muove le dita sulle pagine, con i libri dei bardi che gli intrugliano le viscere, Antonio Sagredo non presta orecchio alle sirene che ululano da tempo immemore la morte della poiesis.

   Sarebbe troppo comodo che la poesia avesse tutti i torti (inattualità, incomprensibilità, minestrina riscaldata in brodo lirico), il guaio è che circolano giudizi su di essa troppo giudiziosi, al limite del sussiegoso. Per questo siamo felici di introdurre una scrittura testarda e impura, immacolata e oscena, profondamente ironica e drammatica, l’uno aspetto e l’altro autentici, l’uno la correzione dell’altro.

   Il peso della tragedia, quello no, non riusciamo più a sopportarlo come una volta, come ci hanno insegnato i tragediografi attici nella lontana classicità greca. Attraverso le formule retoriche della reticenza, della litote, delle clausole bonarie, oggi preferiamo che il ghigno sardonico si stacchi dagli stasimi e che inizi una storia parallela, da far scadere presto  nella farsa, oppure nel dolore recitato.

   Il Nostro invece prova a tenere insieme il fasto e l’infausto, viventi e coevi, corni dialettici di un dilemma esistenziale che non si scioglie, ma che proprio a  motivo  di ciò non va taciuto. Qui, sulla scena, si accampano tesi e antitesi (ironia e dramma appunto), affabulanti ciascuno a modo suo, capaci di allargarsi e debordare, come in uno stagno, un cerchio dopo l’altro, attraverso simboli non degradati, simulacri pieni, allegorie concrete e metafore infiammate.

   I cerchi concentrici della scrittura si allargano con inebriante vitalità in questo libro pentastico, un polittico in cinque sezioni (Poesie dell’anno corrente- 2008, Poesie del secondo anno corrente- 2009, Poesie del terzo anno mediocre-2010, Poesie dell’anno inattuale- 2011, Poesia dell’anno iconoclasta- 2012), incentrate su un caleidoscopio abbacinante di argomenti: la folle incorruttibilità di chi versifica non per gioco, ma perinde ac cadaver; il rapporto tra la verità della finzione letteraria e la falsità della vita ammassata sul dorso di folle anonime e anomiche; l’enciclopedia agghiacciante del mito e la paginetta stinta del pensiero unico dominante alle nostre latitudini. E ancora, il tema logaritmico del doppio annichilito e dello specchio ustorio, il riordino dei concetti di natura naturans  e natura naturata (non più fondale passivo delle azioni umane), la pulsazione carnale e iconoclasta per lombi, glutei e reggicalze in ordine a una sensualità accesa e delirante. E per finire,  la salute cosmetica dei corpi levigati e la dilagante malattia morale, la reinclusione del trascendente nell’orizzonte empirico come riconoscimento e accoglienza dell’Altro.

 Laboratorio-15-febbraio-2018 Allo stesso modo di un carro di Tespi si susseguono  corifei e primi attori, persone incontrate nel quotidiano e personaggi estratti dal tesoretto letterario classico-contemporaneo: il requiem per Orfeo e Euridice con il suggestivo movimento del Lacrimosa; lo strano connubio fra Bruce Chatwin e Cassandra; lo scacco di Giacobbe e i malleoli bolsi di un’Ermione postdannunziana; lo stampo melodrammatico della Casta Diva e i giochi di pensiero di Eraclito. E poi ancora in apparizione disordinata: clown, ventriloqui, il bacchino malato, calpestatori di immagini e disperati ridanciani, tutti avviati loro malgrado lungo il sentiero che separa il Golgota da Valpurga, l’Apocalisse prossima ventura da una fideistica palingenesi.

  Alla paura di osare, al bisogno di mettersi al riparo da ennui e idéal, lasciando nelle pagine insegnamenti insignificanti, Sagredo oppone lo studio dell’interiorità: scandaglia, scandalizza, trascina significanti e significati dal sublime al letame, procede per excessus, violentando senza pietà il malcapitato lettore, che non sa di essere ingabbiato fra un passato profetico, un’attualità castrante e un futuro ricattatorio.

    Sagredo aggancia le sue vertebre alla poesia con durezza e severità. In  qualità di scrittore non si perdona niente, affronta la composizione dei testi a occhi asciutti, perseguendo come un imperativo categorico la sincerità. Questo spiega perché fischia alla vita come uno storno e la divora come una torta di noci (Mandel’štam).

  Antonio Sagredo si aggira in stiffelius (prefettizia o redingote), tornando dal secolo decimonono con il taglio dell’abito lungo virato al nero, petto unico e revers slanciati. Pronto con il suo sparato a districarsi fra Colombina e maschere ferrigne, Lazzari felici e fughe per pianoforte di Čiurljonis. Pronto a rimettersi in gioco e a rimettere in gioco canoni e paradigmi, il dove e il non-dove, la mollica rafferma della banalità e una diversa visione delle cose.

   L’autore di Capricci formula con determinazione le proprie regole versificatorie, pur sapendo che il lettore italiano non è abituato a intrattenere un rapporto attivo –interpretativo con ciò che legge. E invece in queste pagine viene chiamato a rischiare in proprio comprensione e emozione, senza l’assistenza della solita voce autorevole esterna, che stabilisce una volta per sempre segni e segnali, messaggi e probabile universalismo del testo in oggetto.

   Le istruzioni per l’uso convergono verso una scrittura concitata, rabdomantica, insofferente alla rappresentazione univoca, sottoposta a un esplosivo cortocircuito di immagini  e pensiero, di tagliente riflessione e di ridefinizione del contorno dei fatti e delle cose. Accettata l’insufficienza del minimalismo da camera, putrido e stagnante, si viene immessi in una energica condizione di movimento: chi scrive scruta in ogni direzione, tratta con flessibilità gli angoli delle figure geometriche, stratifica con abilità sentimenti a perdita d’occhio.

   Il linguaggio sintetico della poesia e quello analitico della prosa confluiscono nel main stream di una nuova modalità del discorso poetico che illumina, a sua volta, un particolare metodo di destrutturazione del reale, oltre che un modo tutto personale di insufflare nelle composizioni poetiche un’autentica vitalità, evitando la riproposizione di versi asfittici e autoreferenziali come usa adesso.

   Perentorio e feroce, Antonio Sagredo aggredisce le parole, le dispiega in  uno spazio scrittorio originale, all’interno del quale le frasi selvagge e scoscese, spesso oscure e avvelenate, non rifuggono mai da una logica rigorosa.

  Sembra che la tensione barocca della versificazione vada a insaccarsi nella complicanza fine a se stessa, così da impregnare e appesantire i testi, e invece la tara del cerebralismo viene azzerata, dando a intendere che anche un frutto amaro  può essere  assaporato senza pericolo, purché si impari a gustare il lato oscuro della vita, quello che le anime timorose seppelliscono sotto la superficie tediosa della lirica monocorde.

 

Antonio sAGREDO_7

Roma, 31 gennaio 2018, Presentazione di Capricci, da sx Laura Canciani, A. Sagredo, G. Linguaglossa, S. Grieco Rathgeb

 Qui esplodono avventure dentro lande urbane e paesaggistiche inesplorate e il lettore si trova a sbattere i tacchi più volte, messo di fronte alla scelta di volgersi indietro alle rassicuranti buone poesie di pessimo gusto, oppure di precipitarsi in avanti a cogliere in anticipo l’ambrosia più o meno acerba del futuro. 

 Poesia sui generis dunque, perché fonda le sue premesse su una azzardata weltanschauung con la quale viene frantumato l’intero ontogenetico per elencare, catalogare, stipare frammenti in uno spazio non più tridimensionale e in un tempo non più lineare.

   Lo spazio-tempo tradizionale metamorfosa in un quasi nulla e in un pressoché tutto, locus horribilis et amoenus per un verso,  d’altra parte un festina lente temporale come si conviene a una dimensione esperienziale che manifesta in concreto le sue leggi a uno sguardo indagatore, segnato dalle leggi  combuste della verità:

(Il Disturbatore)

  Sagredo non usa schemi per separare apparenza e essenza, taglia e cuce pagine di prosa e poesia in stile fenomenologico.
La ruvida eleganza di questi versi dipende dall’intelligenza dell’autore, ma anche dalla necessità di conciliare in un punto esteriorità e interiorità in perenne conflitto tra di loro: eleganza e ruvidità si combinano in una passione espressiva cupa, dolorosa, ilarotragica, eroica, spavalda (in senso intellettuale), in virtù della quale ogni accostamento semantico diventa possibile, così come ogni descrizione e registro linguistico, ogni coesistenza in totale libertà di elementi etici e dianoetici, di frantumi empirici e metafisici.
  Strofe belle e nere, dilatate fra volontà e voluttà, si rovesciano sul proprio ventre e si strofinano sui bordi lucidi dei congegni meccanici di questo mondo schifoso e insulso.

  Respirare l’eterno, sarebbe questa la meta poetologica di Capricci, se le narici dell’Oltre restituissero un minimo fiato di ciò che costituisce l’ignoto. Se le froge dell’Oltre sfiatassero rumorosamente e intensamente, dovrebbero arrivarci odorosi profumi e incensi, scie magnifiche di letizia, l’estasi ineffabile dell’assoluto, tuttavia il sogno viene subito abbattuto e ricondotto alla sua condizione di pura evanescenza psichica.
  A dispetto dell’inevitabile fallimento programmatico (intendo l’approdo nel non visibile), vale la pena di salire sulla stessa carrozza di Sagredo e viaggiare con la coscienza del rischio e di una possibile composita bellezza.

Non abbandoniamo il Tempo al suo corso tumorale,
prendiamo possesso delle sue inquietanti traiettorie,
le nostre passioni battono destinazioni ignote
e sapremo allora quanto vale l’essere qui e non altrove.

Le Tavole sono imbandite da Tarocchi straniati
che fanno l’occhiolino ai presagi e agli epitaffi.
Le carte impazzano, danzano con la mia ombra,
perché non leggano, sazie del giudizio, il tuo delirio!

(una finestra, un molo)

  Il Nostro non si muove solo nell’ordine umanistico, secondo un accanito recupero delle fonti (grecolatine, mitteleuropee, russe, anglofone e quant’altre), ma in una concezione olistica dell’esistenza, per questo intreccia l’intonazione e la linea melodica delle frasi, il grafico armonico e l’oggetto scenico. La peculiare combinazione di elementi sonori e visivi compensa la deterritorializzazione dell’io poetico, non più centro unificante psichico e sensoriale, né più misura del reale. Al posto della soggettività di tipo cartesiano compaiono al proscenio eteronimi frantumati, disgregati, privi di acclamate verità. Difficile non avvertire come la lacerazione dell’io possa condurre all’ininterpretabilità dei suoi atti, al suo ammutolire definitivo, al suo provvisorio acconciarsi alla bruttezza. Il soggetto razionale si macchia di apparenza, divenendo un punto-massa afasico.
  Il tentativo di superare una simile straniante condizione avviene attraverso l’associazione di vari strati culturali in contesti simultanei, attraverso la fusione di diverse epoche in un amalgama di vari filoni letterari e sociali, trattandosi di pezzi, elementi, brandelli di mondi avvicinati e volti a sé: squarci, brandelli, lacerti e residuati prendono forma secondo una precisa strategia prosodica e si trasformano in percorsi, tracce di ricerca, buone narrazioni e agili passaggi, frammenti e focalizzazioni.
  Ne consegue una scrittura viva, con le vene aperte, vissuta diversamente dai soliti scartafacci intellettualistici.

  Sagredo rivede il mondo, lo rivisita con furia e lentezza, con ripensamenti continui e solide idealità. Non un semplice poiein, ma un farsi continuo e creativo sotto gli occhi del lettore attonito:

Il traguardo è già dietro alle tue spalle ed è un luogo
conquistato, ma altri luoghi affollano nuovi pensieri
e molteplici spazi aspettano i soggetti: quante filosofie
ancora abbiamo da conquistare! Le Muse vogliono baciare
l’ultimo frammento, invano! Brunite sono le parole nei cieli!
L’imperfezione giuliana trionfa sul concetto monolitico:
spazza via l’assoluto indegno, le totalità inutili!

(Fragment…azione)

Antonio Sagredo_9

Roma, 31 gennaio 2018, Presentazione di Capricci, da sx  A. Sagredo, G. Linguaglossa,

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Salvatore Martino, Poesie, sintesi critica su Autoantologia – Cinquantanni di poesia (Progetto Cultura, 2014, pp. 1000, € 25 ) – Presentazione critica di Mario M. Gabriele

Il Mangiaparole rivista n. 1

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Laboratorio-15-febbraio-2018

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Salvatore Martino fa parte della fitta schiera di poeti della cosiddetta Quinta Generazione, locuzione con la quale Giampaolo Piccari diede vita all’omonima Rivista e a una significativa produzione poetica ed editoriale nelle regioni d’Italia. Martino entra nella Poesia con Attraverso l’Assiria del 1969, con testi che hanno una propria visibilità e tracciamento  estetico, fino al volume La metamorfosi del buio del 2012.

La poesia italiana fra le due guerre ha avuto un notevole impatto nella società delle lettere a Nord e a Sud dell’Italia. Su queste due aree hanno operato le grandi Case Editrici con una autonomia selettiva, escludendo poeti di rilievo con l’appoggio collaborativo della critica militante. Non c’è dubbio che la “questione meridionale” abbia avuto un ruolo importante in un periodo di crisi socio-economica e culturale. I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”. Più verosimilmente si trattò di una esperienza poetica e generazionale nel ristretto tempo in cui si venne a formare all’interno di una serra fatta di svariate vegetazioni poetiche.

Il superamento dalla stasi poetica, tipo country, avvenne  con la nascita della Neoavanguardia, che con il Gruppo 63 operò una vera e propria rivoluzione linguistica, determinando una frattura con la Tradizione. L’appoggio di Riviste come I Quaderni Piacentini, Officina, Tam Tam, ES, Carte Segrete, ecc. portò ad una rivoluzione sistemica e linguistica nella poesia. Dire dove nasce e muore la poesia o codificarla con delle proiezioni temporali, per un’analisi delle strutture e delle forme, è operazione assai complessa considerati gli innumerevoli reperti testuali e verboiconici, così ricchi di mezzi toni e di falsetti, e tuttavia abbastanza significativi nell’esprimere il clima dentro il quale si muove il poeta. Intanto, bisogna risalire agli anni Settanta, dopo l’operazione estetico-critica avviata da Luciano Anceschi con la rivista Il Verri, fino al Gruppo 63 di Sanguineti, con le varie indicazioni poetico ideologiche diffuse in Italia come strutture-simbolo dai ciclostili di “impegno e di lotta”, per avere una discontinuità con le forme più conservatrici della poesia. Va da sé ricordare che il cammino non è stato agevole e che ha avuto  periodi caratterizzati da flussi e riflussi, da impegno e disimpegno nella operatività ricostruttiva della parola, che rimane sempre il vero campo d’azione per rimuovere steccati e barricate. Qui ci si limita a indicare le antologie che maggiormente si introdussero nel “mare della oggettività”, come  I Novissimi,  di Alfredo Giuliani del 1961, Il pubblico della poesia, di Berardinelli e Cordelli, del 1975, La parola innamorata, di Pontiggia e Di Mauro del 1978, La poesia degli anni Settanta, di Antonio Porta del 1979, l’ampio Repertorio  della poesia italiana contemporanea di Zagarrio del 1983 e La parola Plurale di Cortellessa del 2005, inclusiva di una anagrafe poetica tra le più diverse e propositive. Le ragioni che hanno portato le antologie a immettere e ad escludere nomi e opere, sono da ricercare nella mercificazione del prodotto poetico basato sul profitto e non sulla qualità. Il fenomeno delle omissioni ha modificato completamente il quadro operativo e poetico di stagioni molto diverse l’una dall’altra, all’interno di una Storia che ha falsificato la realtà, procedendo per “repressioni, per grandi operazioni di natura etnica” (Luigi Baldacci: Novecento passato remoto, pagine di critica militante. Rizzoli, gennaio 2000-pp. 18.19).

L’invisibilità di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il Cavaliere Inesistente, di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guidilverni e degli Altri di Corbentraz  e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo  e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schermito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Ma quanti poeti hanno rivestito il ruolo di Agilulfo?, quante opere sono andate al macero o dimenticate solo perché non rientranti nelle antologie ufficiali? In occasione del ritiro del Premio Nobel, Montale ebbe a dire che: “La poesia è una entità di cui si sa  assai poco, tanto che due filosofi diversi  come Croce Storicista idealista, e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”. Allora a che serve scrivere? E come si giustificano le mille pagine relative a una produzione poetica pari a Cinquantanni di lavoro da parte di Salvatore Martino? un poeta meridionale che ha assorbito l’humus del proprio territorio senza esporsi alla cultura contadina con tutte le problematiche che essa poneva, tra ambiente sociale, povertà economica e figurazione del paesaggio?

Quando Salvatore Martino si propose con la sua prima opera poetica nel 1969, persistevano sul territorio italiano contraddizioni e dualismi di enorme portata. Alla poesia non bastava più il Gruppo e l’Antigruppo, l’umano e il disumano, il conscio e l’inconscio, il plurilinguismo e il neologismo, la metempsicosi  e la fabulazione discorsiva, il fumismo e la metafora, la viola d’amore e di morte, ma le occorreva un supplemento di rifondazione linguistica per colpire la stagnazione concettuale in cui si era immersa la cultura e la società. Su tutto questo bailamme, Salvatore Martino ha operato con una propria poesia democratica, e mai riduttiva; un long playing senza forzature sintattiche e visionarismo romantico. Si potrebbe tentare di dire che la sua opera rispecchi la vita di un uomo segnata da impegno e sincerità. Ora ci si trova qui ad esaminare la sua  Autoantologia – Cinquantanni di poesia, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2014, che assembla itinerari linguistici e poetici di diversa proposizione. Ne viene fuori una struttura linguistica dove non pochi sono i procedimenti che hanno dato uniformità alla parola con ideogrammi psicoestetici. Si può dire che questa di Martino è una biografia in versi fatta di espressionismo soggettivo e di classicismo moderno. Egli si avvale di significative esposizioni stilistiche rispetto allo sperimentalismo tout court, che non ha mai influito sul suo modo di fare poesia, stabilendo fusioni con la memoria e il quotidiano, ricorrendo alla lingua chiara e a immagini mai surreali, o strumentali, scegliendo la nitidezza delle esposizioni e privilegiando soprattutto il rapporto con il lettore attraverso il vissuto, e le frammentazioni della vita, spesso come  un Poème en Prose.

Una poesia che emerge dal mondo interno del poeta senza schemi rigidi o da decriptare. Nessuna contraddizione, quindi, negli eventi temporali e psicologici, largamente motivati da una realtà in continuo fermento. Una esperienza poetica di tutto rispetto, fedele a un clichè che ha garantito nel tempo, uno spartito linguistico anche con il disagio di chi avverte un velo di tristezza sopra l’anima. Una via poetica rimasta sempre sulla giusta tangenziale, con un IO psichico anch’esso multiplo nella riflessione critica e soggettiva delle cose. Si va, dunque, da un lato verso la contiguità con L’Essere e dall’altro, lungo le rifrazioni del proprio periscopio esterno.

In questa operazione c’è posto anche per la dinamica metrica e polifonica. Martino si è visto costretto a fare una scelta operativa dopo l’establishment poetico degli anni Sessanta, con una operazione linguistica diversa  dalle correnti più consolidate, accumulando decenni e decenni di lavoro silenzioso e ricostruttivo secondo lo spirito del proprio Tempo. Egli sa aprire e chiudere il dialogo, il racconto, la storia di un evento, le figurazioni dell’effimero nel teatrino del mondo. Martino coglie dalla profondità dell’ES, gli aspetti più controversi dell’ everyday life  per riportarli in superficie alla luce del sole, attraverso un linguaggio che, all’epoca della sua formulazione, si lascia indietro le architetture e i centri storici della poesia interpretativa di un meridionalismo  fatto di miseria e desolazione. E qui che il disboscamento culturale si fa avanzamento estetico e prassi necessaria per arginare il vuoto, le iperplasie linguistiche, instaurando un modello di poesia racconto, di cadenze accentuative nel ritmo basilare delle storie e degli eventi, affidandosi, senza maschere e coperture,  alle richieste del subconscio convocandone i soggetti e le storie nella continua leggibilità del mondo esterno. L’immaginario e il realistico emergono come onde di un fiume in piena. Si ha a che fare con un magnetismo poetico. Ci sono grovigli di memoria per implosioni della materia mentale e psichica, scarti onirici dove il poeta ci si immerge per trovare un punto di sintesi e di armonia. A volte è una fuga dal quotidiano, altre volte è un ritorno ai micro-mondi evaporati. Non c’è ricorso all’utopia e agli universi extrasensoriali. Il suo linguaggio si presenta, in rapporto ai poeti della metà del Novecento, come strumento di innovazione rispetto alle tematiche della letteratura popolare.

Nelle sue stanze poetiche Martino dà appuntamento alle figure altamente lampeggianti nella memoria. Non so se egli abbia mai fatto una “dichiarazione di poetica”. Sarebbe interessante, in questo caso, seguirne i sottopassaggi dove sosta il mondo della reificazione. Forse si coglierebbero gli aspetti più segreti, perché partono da un poeta che ha costruito il proprio verbum senza palcoscenici. A volte sembra di imbattersi in certi traumi, attraverso l’infittirsi di relazioni, tra collasso e ricostruzione della vita, “nel silenzio di Dio e nell’erotismo del corpo e della mente”. La sua poesia vuole appunto dirci tutto questo. Sta dentro il paesaggio esistenziale. Lo scardina, lo lascia, riprendendolo subito dopo, per non restare in vedovanza, convivendo con la poesia; una specie di chiatta di salvataggio contro l’effimero e il quotidiano.

Qui si riportano alcuni stralci di autoanalisi poetica fatta da Martino nella sua relazione tenuta presso il Laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole del 30 marzo 2017, che sembrano allinearsi con quanto sopra espresso, trovando dei rapporti interattivi tra:

“Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla maniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica, che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza….. cominciarono a delinearsi le tematiche che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni: il rapporto dell’IO con se stesso, la maschera (persona), l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale”.

Su queste coordinate si allinea il lavoro di Salvatore Martino, un poeta che traccia i disagi della vita di fronte ai suoi processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose nell’accumulo degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori. Il tutto con l’elaborazione di una poesia, moderna, ricostruita secondo schemi propri sull’onda di un lirismo controllato e di diversa vocalità e immaginazione. Una poesia cresciuta patrimonializzando la lettura di poeti come  Pound, ed Eliot ed altri ancora, che hanno arricchito la sua sensibilità da cui sono poi nate le ripercussioni estetiche trascritte come egli scrive su “fogli, lettere, alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli e mai distrutti, custoditi in un codice della memoria”.

                                                                                                 (Mario M. Gabriele)

Da La fondazione di Ninive (1965-!976)

…….Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra storia o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola – …….. Continua a leggere

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POESIA Y OTRAS LETRAS

sobre poesía y otras alimañas - sulla poesia e altri parassiti - sobre a poesia e outros parasitas

RIDONDANZE

La poesia non ha rimandi . La consapevolezza d'essere poeta è la stessa spontanea parola che Erode. Stermino io stesso il verso.

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

Mario M. Gabriele

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

LA PRESENZA DI ÈRATO

La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.

Un'anima e tre ali - Il blog di Paolo Statuti

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