Il punto di vista di Steven Grieco Rathgeb
Cari poeti, lettori, di nuovo affronto il nodo cruciale: che cosa è l’immagine in poesia? L’Ombra delle parole ne ha già parlato ampiamente. Con questo pezzo aggiungo la mia visione al dibattito. Inizierò con alcuni brani che ho presentato l’anno scorso ad un laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole.
Nel 1999 a Roma, in partenza per l’India, comprai il libro il tempo del regista Andreij Tarkovskij, sull’arte del cinema. Ne rimasi colpito perché trovavo lì spiegato con molta chiarezza cosa è l’immagine in cinematografia. Capii ancora meglio i film capolavoro di questo regista, che avevo visto a Parigi quasi trent’anni prima. In seguito a quella lettura ho ampliato alcuni dei suoi concetti per poterli adattare alla scrittura poetica e in prosa, aiutandomi con il mio bagaglio di esperienze esistenziali, di poesia occidentale e osservazione del mondo naturale, di estimatore di poesia e pittura cinese; con le ricerche in campo sonoro ed estetico della musica elettroacustica; con un testo fondamentale sulla poesia che è il Dhvanyaloka di Anandavardhana, e con i miei incontri con un altro regista, l’indiano Mani Kaul, e in seguito con un studioso giapponese con cui ho collaborato per 10 anni nello studio/traduzione della poesia waka.
Tutto prende avvio nel momento in cui l’artista (poeta, pittore, regista, musicista, etc.) ha avuto un’idea per fare un’opera. Ha visto delle immagini, ha formulato dei concetti. Essi racchiudono allo stato iniziale il grumo primordiale della sua idea, della sua ispirazione.
Nel cinema, la “immagine” corrisponde all’inquadratura cinematografica, che Tarkovskij definisce “segmento colmo di tempo”. Riflettendo su queste parole, mi trovo a tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. E dice inoltre: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.” Come si può rapportare questo alla immagine in poesia?
Se il tempo, pur nella sua estrema elasticità e relatività, esiste, e se le diverse deperibilità che l’uomo osserva nelle cose sono uno almeno degli indici di questo fluire; se “l’entropia è ciò che trasforma il ticchettio dell’orologio nel distruttore di tutte le cose” (questo sulla scia degli studi rivoluzionari di Boltzmann, il quale introdusse il concetto di tempo reale e trasformazione irreversibile nella perfezione immutabile della fisica classica): se tutto questo ha un senso, si spiega come in un’opera artistica il tempo possa anche possedere una sua fuggevole concretezza: materia immaginale, fluida che può, come l’acqua, traboccare da un vaso, bagnarci le mani. Oggi il concetto di tempo acquisisce questa strana sostanzialità, in qualche modo parallelo al vento, di per sé invisibile, ma osservabile nel muoversi delle fronde, sul viso di una persona, nella misurazione di un anemometro, etc. Se noi artisti oggi spesso immaginiamo il tempo in questo modo, ciò è grazie a tre fattori base: la poesia haiku, le ricerche fatte in campo scientifico, l’invenzione del cinema.
Allora pensiamo un’immagine – l’immagine artistica nel senso più autentico – per quella che è: una cosa reale, vivente: fuoriuscita da noi ma non creata da noi, mai interamente dominata da noi; così come lo scienziato non possiede la sua osservazione. Dice Giacinto Scelsi: “Le compositeur n’existe que comme absent de son oeuvre”. Sulla superficie liquida, tremolante, dell’immagine (e più sottilmente al suo interno), stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono al vento: “nel puro cerchio un’immagine ride”, ma con potenzialità fortemente allargate rispetto al verso montaliano, e con diverso grado di penetrazione. Quando poi quella immagine scaturisce non dalle arti visive o dal cinema, ma direttamente dalla immaterialità della tradizione orale e scritta, siamo di fronte all’immenso lascito culturale della nostra civiltà umana percepito nella luminosità, spessore oscuro ed effimera leggerezza della parola.
Prima di andare avanti, avverto il lettore che in questo scritto miro al totale smantellamento dell’aspetto “letterario” dell’immagine in poesia. Grazie all’esempio della cinematografia più alta, ci è possibile rifondare anche l’immagine in poesia. Il termine “letteratura” porta con sé le peggiori associazioni di testi appesantiti dalla farragine di artifici ed espedienti retorici che in passato hanno avuto un senso, oggi non più. Considero “letteratura”un termine obsoleto per ciò che chiamerei oggi “espressione creativa in forma scritta”, o semplicemente “scrittura” (termine da tempo in uso).
Se l’inquadratura in un film è come dice Tarkovskij “segmento colmo di tempo”, vediamo come una simile definizione sia applicabile oggi alla scrittura poetica. Lo ripeto: la poesia ha tutto da imparare dal cinema. Quel segmento è secondo me comparabile ad un segmento scritto in poesia: in entrambe esiste una intensità relativa, che io chiamerei “densità d’immagine”. Le due sono anche diverse fra loro perché l’immagine mentale, virtuale, non ha la concretezza visiva dell’immagine cinematografica.
Come favorire la densità d’immagine. Prima di tutto, accenniamo al senso di spazio all’interno e all’esterno di una immagine poetica. Mani Kaul parla di uno spazio “sacro” e uno spazio “profano”, e cioè lo spazio occupato dalla immagine, e il mondo circostante. Kaul era regista, dunque si riferiva allo spazio inquadrato dall’obiettivo della cinepresa.
Un esempio: “farfalle in volo sulle acque”. Questa immagine, o qualsiasi altra, vista fisicamente o mentalmente, funziona benissimo anche in poesia. Di nuovo, essa non appartiene al poeta. L’illusione che l’artista sia padrone unico della propria mente e dei propri pensieri, è già l’inizio della malattia dell’autorialità, che quando inizierà il lavoro di contestualizzazione entro spazi più grandi, quasi sempre costringerà l’opera in uno spazio soffocante e claustrofobico. Questo è vero delle opere artistiche di tutti i tempi. Tuttavia, in un tempo più classico, quando la poesia viveva abbastanza bene entro schemi o meglio spazi fissi, pre-organizzati e sanciti dalla tradizione, un eventuale senso di autorialità nuoceva sicuramente meno al poeta e alla sua opera. Oggi, nel contesto di un mondo sempre più disorganizzato alla radice come il nostro, l’opera è libera (lo è a tutti gli effetti da più di 100 anni); sfugge a qualsivoglia controllo.
“Farfalle in volo sulle acque”. Farfalla e acque stanno nel campo visivo specifico; il non-specifico, ossia il mondo circostante, è tutto ciò che preme sull’immagine a chiudersi o aprirsi suggerendo altre possibilità, altre potenzialità: Dove? Come le acque? etc. può darsi che il poeta apra a quella più grande area perché sente necessario un ampliamento dell’immagine iniziale: l’immagine lo chiede. Così, favorisce l’ingresso nello spazio “sacro” di materiali non-specifici, in un indispensabile processo creativo che io chiamo di “porosità” fra interno dell’opera ed esterno. Ovviamente parliamo di un processo non solo spontaneo ma anche dettato da ciò che il poeta intende esprimere e che quindi si muove sullo sfondo di tutto il suo bagaglio culturale ed esistenziale. (vedi la poesia di Giorgio Linguaglossa più sotto.)
“Farfalle in volo sulle acque del Golfo”. Possiamo vedere la crescita di un’immagine in questi termini. La densità è cresciuta, è cresciuto il “senso” dello spazio, pur rimanendo l’immagine leggera e ariosa come prima. Perfino la “g” maiuscola di “Golfo” conferisce un proprio sapore estetico. Ripeto che tale processo è in massima parte spontaneo nel poeta, diversamente si ridurrebbe alla costruzione con mattoni e cemento. Un criterio di scelta comunque è necessario: più questo è pulito, più limpida sarà l’opera. Le farfalle sulle acque del Golfo sono esempio della suggestività neutra di un’immagine: lo scenario a-significante delle cose, entro il quale si iscrivono senza soluzione di continuità le azioni dell’uomo (fra cui anche la sua osservazione di questo scenario).
Farfalle in volo sulle acque del Golfo
gli occhi le perdono
sullo sfondo degli isolotti
riposo / mèta / nido
di altre ali
(Trinita Buldrini)
Qui i versi quarto e quinto non fanno altro che dichiarare l’esatta ragione per cui farfalle o uccelli s’involano sulle acque per raggiungere quell’isolotto lontano. Ogni suggestione di “sollievo” è il lettore a fornirla al testo.
Vediamo anche questo distico di Wang Wei, poeta di epoca Tang:
pioggia sul monte, tonfo di un frutto che cade:
sotto la lanterna, stridono gli insetti nell’erba
Qui troviamo perfettamente acquisita la fusione leggerissima e inesprimibile di temporalità e spazialità. Vediamo la forza d’urto di una immagine neutra, non impaludata da significazioni letterarie o ideologiche o esistenziali. Un commentatore d’eccezione, giapponese, ha detto di questi versi: “l’uomo sta seduto da tempo in silenzio, con un lume accanto. Il suono della pioggia viene interrotto dalla caduta del frutto; gli insetti si zittiscono, poi riprendono a stridere”. Silenzio dell’uomo in ascolto che suggerisce inoltre intensità, profonda riflessione sullo stesso mistero della poesia.
O questi versi inscritti su una xylografia di Hiroshige:
all’alba la luna si libera
laggiù nella foresta
in autunno il fiume nasce
a Occidente dei monti
Nel primo verso, la partecipazione “segreta” dell’uomo che osserva sta soltanto nel verbo “si libera”; nel terzo verso, nella parola “nasce”.
E un “aicu” di un poeta romanesco, Luciano Gentiletti:
li mannoli se spojeno,
ce so’ millanta fiori ner vento.
Io sgrullo li pensieri.
La neutralità d’immagine la vediamo anche qui sotto:
l’ombrello di chi arriva
passa davanti alla mia porta
e va dal vicino
È inutile dare un significato: l’immagine è già in sé significante, in questo caso pluri-significante. Si è detto che viene espressa la solitudine dell’autore, ma l’haiku potrebbe esprimere anche altri stati d’animo. Io vedo personalmente vedo in essa riflessione sulla solitudine come condizione esistenziale punto e basta. Questo haiku è un esempio modernissimo (sebbene scritto due secoli fa) di composizione a “struttura aperta”. Il vero haiku è struttura talmente aperta, che invita sempre il lettore a completarne il senso.
La neutralità d’immagine, così importante al giorno d’oggi per sfuggire ad obsolete retoriche letterarie, proviene da Oriente. I massimi critici d’arte contemporanei sono convinti che uno degli impulsi più forti alla nascita dell’arte moderna in Europa fosse dovuto all’arrivo di merci dal Giappone, dal 1865 in poi, dentro carta da imballo consistente di copie di xylografie scartate. Sappiamo come queste rivoluzionarono la visione degli Impressionisti, e in seguito, di Van Gogh e altri pittori della sua generazione.
È probabile che il primo gesto artistico realmente “moderno” in epoca moderna nel mondo fosse stato compiuto dal giovane Hokusai a Edo (Tokyo), ai primi dell’800. Era stato invitato alla corte dello Shogun, con altri artisti più grandi e importanti di lui, a eseguire un dipinto seduta stante. Quando toccò a lui, prese un grande foglio di carta, lo mise in terra e ci disegnò sopra delle lunghe pennellate di colore azzurro. Poi da una cesta estrasse una gallina, le intinse le zampe in colore rosso, e la fece attraversare il foglio di carta. Intitolò il suo dipinto “foglie autunnali sul fiume Tatsuta.” Qui è dove assoluta modernità ed astrazione si legano a tradizione: foglie autunnali sul fiume Tatsuta è un soggetto antico della tradizione pittorica e poetica giapponese, reso migliaia di volte nei secoli.
(Similmente, senza “Il naso” di Gogol’ non sarebbero forse stati possibili né il Dadaismo né il Surrealismo. Ancora, questa, una intuizione di assoluta modernità proveniente da un’area periferica alla classica cultura europea.)
Torniamo a noi. Cosa dice Tarkovskij su come congiungere i singoli segmenti di un’opera? “… il montaggio è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi”. Ecco che il concetto di montaggio, o composizione in campo poetico, diventa operazione fondamentale. Ed è un lavoro che l’artista, esecutore-Tiresia, cieco-omnivedente, svolge non tanto per “costruire” l’opera, ma piuttosto per ritrovare la visione, l’intuizione che lo aveva mosso in origine a fare l’opera. La visione originaria è anche il futuro dell’opera. Tarkovskij afferma che il montaggio di un film in base a un progetto pre-organizzato a tavolino tende a soffocare la visione del regista. Questo dice per il cinema, e questo, per quanto mi riguarda, vale anche in poesia.
Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile per il poeta, che non veicola la sua poesia attraverso l’antica e forse futura tradizione orale, ma la “scrive” sul foglio cartaceo o virtuale. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è spingere al raggiungimento del prodotto finito, alla sua “chiusura” in base a regole preconfezionate; altro è comporre-scomporre-ricomporre per far emergere la pregnanza del tempo interno cui allude il nostro regista. Quindi, vorrei aggiungere io, di offrire un’opera a struttura aperta. A lavoro ultimato, tutto ciò deciderà il relativo grado di “densità” poetica dell’immagine: della sua fruibilità profonda, della possibilità del fruitore di ricrearla.
Continua il regista: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”
(La parola “verità” è pericolosa. Qui ci viene in aiuto un concetto indiano, pramāna, spiegato da Ananda Coomaraswamy nel suo libro La trasfigurazione della natura nell’arte. La radice di questo termine sta alla base anche del Greco “metron” e del Latino “mensura”. Gli antichi pensatori e artisti indiani intendevano pramāna come “misura, conferma, verità interiore”, raggiunta in un attimo di tempo e di nuovo persa; e per quanto “interiore”, mai in diretto contrasto con la verità empirica del mondo esterno. La verità-realtà, satya, non dimora mai stabilmente in un singolo concetto o immagine: la sua intima natura è di muoversi, attraversando concetti o immagini o oggetti, che sono i suoi veicoli. Ogni tentativo di fermarla porta a idolatrare un simulacro di essa. La verità-realtà è un’energia, una resilienza: pramāna è la misura per coglierne l’apparire fugace.)
E quindi, sia nel momento di lavorazione, sia in quello della lettura creativa del testo, s’increspa la superficie dell’acqua mentale, immaginante, facendo emergere il senso potente della fuggevole verità artistica, in un procedere cristallino e focalizzato.
In questo modo possiamo determinare un vero e proprio spostamento del baricentro interno del concetto di poesia via da quello che ha dominato la prima fase della modernità, ossia del secolo Novecento. Uno spostamento, se posso dire, “realmente” ontologico (e passatemi la tautologia) attraverso l’individuazione delle stesse radici del poetare, dell’essere in poesia, del punto stupefacente che per un attimo collega interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo: l’immagine. Ma in questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Come il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così l’ha trovata il lettore. La poesia si compie nel lettore.
Invito inoltre il poeta a vedere la poesia e la sua materia grezza – le cosiddette bozze, che io chiamo “supersimmetrie”– come un unico ma complesso organismo vivente. L’opera nelle sue fasi compositive e l’opera finita sono legate in un connubio sottile che va ben al di là dell’apparente processo lineare di perfezionamento e completamento della scrittura, in cui il criterio base è unicamente un ansioso ripulire lo spazio “sacro” di tutti i materiali “profani”. L’opera invece è minuscolo spazio dicibile, aperto a, e dialogante con, lo spazio indicibile che è il mondo circostante.
COSÌ, LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.
Ridare pienamente la dignità all’aspetto tecnico, compositivo dello scrivere, quel processo che la quasi maggioranza dei poeti in questi ultimi tanti decenni ha considerato quasi meccanico, subordinato alla costruzione a tavolino di una “idea”. Tutto questo segna, secondo me, la fine della lunga strada della decostruzione dell’opera poetica del XX secolo, che può aprirsi ai nostri tempi.
Come sappiamo, in campo musicale tale rivoluzione era iniziata con Mahler alla fine del XIX sec., ma è continuata fino ai giorni nostri, passando fra l’altro per Stockhausen, il quale poté 60 anni fa asserire che esiste una assoluta equivalenza tra suono e rumore. È possibile che esista una equivalenza simile – forse meglio dire corrispondenza – fra la singola unità immaginale differenziata nella scrittura e la sua immagine indifferenziata nel mondo. Il problema è che in poesia e in prosa questo tipo di processo creativo di decostruzione è stato interrotto 60-70 anni fa. Ciò è avvenuto per tanti motivi: uno di questi sicuramente lo possiamo individuare nella “riscoperta” di T.S. Eliot ( e i poeti che si sono fatti suoi portavoce: Milosz, Brodskij, e tanti altri) dei sacri valori culturali dell’Occidente che la seconda guerra mondiale, l’Olocausto e tutte le altre vicende del secolo 20° avevano mandato a gambe all’aria, rendendoli inservibili e ingiustificabili. Nasceva la distopia – il mondo assurdo e disfanico. E Theodor Adorno poté giustamente dire che non era più possibile scrivere poesia dopo Auschwitz. Alle condizioni poste dalla poesia minimalista, privatista, confessionale, certamente no! Ma anche in Adorno vediamo ancora vivo quel pensiero retrogrado e idealizzante che presuppone la poesia un dire aulico, sublime, incapace di affondare la lama nel cuore della realtà. E la maggioranza dei poeti occidentali della seconda metà del Novecento non fecero niente per fargli pensare il contrario.
In questo nuovo secolo la poesia può essere in grado di trasmettere una sua propria ‘verità’ artistica, e nient’altro. Mostrando così tutta la sua relatività. Il lettore, in seguito, non potrà non darle un ‘senso’ in base al contesto sociale, storico, filosofico, religioso, ideologico legato al suo tempo. Che però manterrà in sé tutta quella sua relatività. I più grandi critici letterari non sono mai riusciti a sviscerare le grandi opere poetiche, soltanto (e non mi sembra poco) a illuminarne il contesto, i contesti. La poesia stessa, per sua propria complessità, si apre e si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Lo abbiamo visto già nella seconda metà del 20° secolo con poeti come Tranströmer o Celan. Così era sempre stato per la grande poesia, quella disancorata dalle meschinità e beghe del contesto sociale in cui nacque.
Tale l’immagine poetica. Tale la libertà di una poesia composta come organismo vivente.
Donatella Costantina Giancaspero
Anche il cielo ha concesso una tregua.
Un riverbero di voci spalanca il cortile.
In tempo, per la luce che resta
sulle corde tese dello stenditoio condominiale.
Sufficiente per vedere in controcampo
la trama della tarlatana, mai ingiallita;
di un biancore, anzi… Richiama
il panetto di magnesio da 55 grammi, poggiato sulla mensola,
la velatura pomeridiana della luna.
Comprese nel proprio umore madido,
le stampe asciugano ordinate in silenzio, sullo stendino.
A due a due, tra i cartoni. Ci restano fino a domattina,
se la notte si solleva col vento.
«Prendi l’asta, che abbasso la serranda…»
«Hai chiuso l’inchiostro?»
Un residuo di nero tuttavia rimane sotto le unghie,
anche se si lavano più volte, se l’acqua scorre con foga
dal rubinetto della nuova abitazione.
Da tempo, gli manca qualcosa: un dettaglio di poco conto,
un vezzo decorativo… E non si fa più caso.
Ma è qui, tra lo specchio e il presente.
Chiara Catapano
Salaora
Mura di territorio aperte
La voragine screziata delle mani greche
cui comparve il giorno paesaggio, non conosciuto di nostalgia, di vivere
sempre spostati,
sempre diversa da sé, ri-paesaggi
ombre di nomi più enormi dell’inapparso Ancora.
Poi a SALAORA. Dischiude il cerchio dietro la nuca. Un sole nero, accecato.
Allarga il vedente qui-dopo, la strage di gatti sulla strada dei canneti.
Le canne altissime indicanti
unica la direzione, venirandare
ma non quando si arriva a Salaora:
zitto allora il sole nella luce, zitto il volo abbagliato del Dio-Pellicano
zitte ossa e di tendini, sangue pompato
nel cuore-suono invertebrato.
Gola inizio, dispiega da un centro
che piega e mescola
acque del sopra e sotto mondo.
Mentre il sole impallidisce e trema convogliando
il reale
liberano porpora azzurri e gli arancioni
dello stupito viandante, dallo stupore stesso
come in angoscia d’appartenere.
Nella gola nera-avanzante finalmente il silenzio
spezza la sua inimmagine:
stridono d’accoppiamento i luoghi, convergenti irradianti
dal grido airone.
Poi, nulla.
Un cane. Molti cani.
L’opera dell’uomo di girare l’interruttore.
Le tavole fumanti del pesce.

foto di Evgenia Arbugeva, Siberia, polo artico
Giorgio Linguaglossa
(una poesia inedita, da La notte è la tomba di Dio)
Il bacio è la tomba di Dio
La torre del faro nella pianura di neve.
«Il bacio è la tomba di Dio».
C’erano scritte queste insensate parole
sopra l’ingresso della torre…
Ma forse non era quella la torre ma un’altra
che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico
dove sorge un’isba. Nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva.
Sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.
Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti.
C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,
le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli.
[Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]
La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna.
Diventa luce.
[…]
La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
Nella picea onda del Canal Grande.
Ponte degli Scalzi.
L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.
Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica.
Il vento sfoglia le pagine dello spartito.
[…]
Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.
[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.]
Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir.
Ufficiali austriaci giocano a whist
mentre il Signor K asserisce:
«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà
non può violare il principio di non contraddizione.
Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti;
mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,
picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono,
a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…».
[…]
Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
è ritratta la Peste.
La Signora Morte impugna una pertica
che termina con una falce.
Ammassa i morti e taglia loro la testa.
E ride.
Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
E canta.
Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
[…]
Wagner e Liszt giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano».
[…]
Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti
nel salotto color fucsia.
I clienti della locanda del buio brindano alla felicità
con i calici di Murano.
[…]
Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
“Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito
quel pensiero molesto.
Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:
«Non c’è più lutto tra i morti».
«Non c’è più lutto tra i morti».
(inedito, da La notte è la tomba di Dio)
Mi soffermo brevemente sulla poesia di Giorgio Linguaglossa. Questa poesia è un rifacimento di un rifacimento di un rifacimento di un rifacimento. Costruzione-decostruzione-ricostruzione. È proprio in questo lento scavare e voluto impoverimento della materia poetica (così come l’uranio impoverito, perché la poesia buona è psichicamente magmatica), che la poesia di Linguaglossa viene privata di tutti i consueti punti di riferimento che ancora oggi formano la base di gran parte della scrittura “buona”. Questo è il sublime assurdo: pura indeterminazione; il significato si costruisce sulla apparente assenza di significato. E, aggiungo, essa è in grado di dare risultati di molto alta leggibilità e godibilità. Inoltre, tutti i punti di riferimento decostruiti o variamente deformati, distorti o ignorati aprono fessure ovunque, attraverso le quali si evince non una nuova poesia, quanto una terra poetica di nessuno, fra lo ieri e il domani. Che spinge appunto verso una nuova ontologia estetica.
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com
Qualche giorno fa un lettore chiedeva quali fossero i punti qualificanti della «nuova poesia» chiamata «nuova ontologia estetica». Beh, penso che la riflessione odierna di Steven Grieco Rathgeb sia un contributo fondamentale sulla «nuova poesia», si tratta di una indagine a campo aperto sulla «nuova poesia», sui concetti fondamentali di «tempo interno», «tempo esterno», sul «montaggio in cinematografia e in poesia», sulla «pressione del tempo interno», sulla spazializzazione del tempo e la temporalizzazione dello spazio in poesia, sui concetti fondamentali di «disfania» e «distopia» (in poesia), sul concetto di «immagine» in poesia con i riferimenti doverosi all’haiku, a Tranströmer e Celan…
Perché sia chiaro che una «nuova ontologia estetica» implica un diverso concetto sulla «ontologia pratica vigente», che si tratta di un atto rivoluzionario, nel senso che sconvolge le regole cui ci eravamo assuefatti, indicandone nuovi sensi, nuove significazioni…
Perché sia chiaro: una «nuova ontologia estetica» indica sempre un nuovo modo di indicare la «cosa», nominare il mondo, abitare la terra, abitare il divino, abitare tra le parole, sostare nella disfania, misurare la diafania delle parole, perché le parole sono importanti, in sé e per sé, per contrastare la deriva verso quelle che un filosofo italiano, Maurizio Ferraris,1] chiama le «postverità», quelle zattere linguistiche che si moltiplicano nelle civiltà del post-immaginario di massa dell’Occidente, nel cosiddetto post-contemporaneo…
Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in Dialettica dell’Illuminismo (1947):
“La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”. Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti agli scrittori e ai poeti di oggi, che sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…
È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri,
che impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica», chiama se stesso «Udeis» che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa», una ambiguità; Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa) il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».
La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.
1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017 pp. 182 € 13
Ottime le fotografie! (in movimento…)
La disfania è un termine che ho coniato l’anno scorso, non solo per alcuni miei pezzi, ma perché mi sembrava che tale termine caratterizzasse anche le poesie di qualcuno dei poeti che scrivono entro gli aperti confini della NOE. Le tre poesie che ho messo in questo post, mi sembrano tutte andare nella stessa direzione, eppure tutte e tre meravigliosamente idiosincratiche.
La disfania forma l’argomento di due ulteriori post di questo stesso genere, che arriveranno in un vicinissimo futuro.
Grazie Giorgio!
Di fronte agli ulteriori chiarimenti esposti da Giorgio Linguaglossa a margine dell’analisi di Steven Grieco Rathgeb su L’IMMAGINE IN POESIA, TEMPO, SPAZIALITÀ, DENSITÀ, NEUTRALITÀ…, ecc., non si può far altro che appoggiare la fronte sulla mano e rimuginare quanto letto. Rimuginare a lungo… È quello che conto di fare… d’ora in avanti cercherò di astenermi dal postare “componimenti” e riflessioni sporadiche; volevo comunicarlo da tempo… ora è il momento! E siccome so della capacità del linguaggio di “dire menzogne” tenterò di chiudere la bocca al locutore, che spesso e volentieri, è più bugiardo del linguaggio stesso…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/21/steven-grieco-rathgeb-limmagine-in-poesia-parte-prima-tempo-spazialita-densita-neutralita-dellimmagine-una-poesia-di-wang-wei-hiroshige-donatella-costantina-g/comment-page-1/#comment-53158
Uno stralcio di una prefazione in itinere al libro di Marina Petrillo, Materia redenta, di prossima pubblicazione con Progetto Cultura.
Nel saggio giovanile Tradizione e talento individuale del 1917 Eliot mette a fuoco il problema con pragmatica chiarezza: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige, anzitutto, che si abbia un buon senso storico». Nella sua opera successiva il poeta inglese annuncia l’esaurimento della modernità.
Una delle caratteristiche principali della post-modernità è la critica alla modernità e il suo oltrepassamento all’indietro: all’idea del «nuovo» e di innovazione ininterrotta della letteratura, subentra l’idea del ri-ciclo e del ri-uso, della citazione, della de-costruzione. Questo è chiaro in molti autori post-moderni oggi inquadrati come neoclassici. Il mondo salvato dai ragazzini (1968) di Elsa Morante è un’opera tipicamente post-moderna, con il libero impiego di vari generi narrativi che si sovrappongono e si elidono nell’ambito di un discorso poetico ormai vulnerato; Trasumanar e organizzar (1971) segna l’ingresso di un discorso poetico sostanzialmente non dissimile dal discorso narrativo; La beltà (1968) di Zanzotto è un superlavoro di microcitazioni e di variazioni, siamo arrivati alla summa del Moderno che si autocita e si fagocita. Altre foto per Album (1996) di Giorgia Stecher è una riscrittura del passato attraverso la lente di ingrandimento di alcune fotografie dimenticate in un comò; il passato viene ripescato mediante la fotografia. La vera rivoluzione della poesia la si fa mediante l’adozione di fotografie dimenticate in un cassetto; la vera rivoluzione la fa Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992 adesso ripubblicata insieme agli inediti da Progetto Cultura, Stige, Tutte le poesie (1985-2002) con la sua poesia in neolatino, fitta di scalfitture semantiche, ibridazioni lessicali dal tardo latino ieratico medievale ad un italiano arcaicizzato.
Ormai è chiaro che le rivoluzioni artistiche non si fanno più in avanti ma all’indietro, ripescando i brandelli e i sintagmi di un mondo trascorso. Auden e Brodskij sono autori tipicamente post-moderni, tornano al ri-uso della metrica tradizionale ribasandola su un materiale sostanzialmente estraneo e refrattario alla gabbia metrica della tradizione. Il Moderno, con tutte le sue avanguardie e post-avanguardie, tende a diventare un fenomeno del passato, un circo equestre, un patrimonio amministrato, museo, mercato, rigatteria, vintage. All’idea del progresso estetico subentra l’idea di un regresso estetico, di una diffusione dell’estetico in tutte le direzioni, fuori dagli ambiti privilegiati e protetti della tradizione del Moderno. Il nichilismo antitradizionale delle avanguardie è progressivo, tende al futuro, vuole andare sempre oltre e al di là. Distrugge per costruire un mondo nuovo, distrugge in quanto c’è ancora un patrimonio da dilapidare e c’è anche un mondo nuovo da abitare e conquistare.
Oggi, nelle nuove condizioni del Dopo il Moderno, non c’è alcuno spazio per il Futuro. La poesia di Marina Petrillo la si può inquadrare in questo ambito storico: è un tentativo di scavalcamento all’indietro della modernità ripristinando le tematiche «alte» e quelle «basse», il lessico «alto» e quello «basso», il registro del «quotidiano» e quello del periechon.
Ne risulta un libro costituito da un conglomerato di due stili e due approcci metodologici completamente diversi: tendenzialmente ieratico il primo e tendenzialmente cronachistico il secondo. Ne risulta una divaricazione lessicale, prima ancora che stilistica, concettuale, in ultima analisi oserei dire epocale. Lo stile tendenzialmente gnomico-aforistico è agglutinato allo stile tendenzialmente cronachistico, ed è in questa ambivalenza, in questa oscillazione tra due stili contraddittori che si rivela la non pacificazione di ciò che non è stilisticamente conciliabile. Il problema della coesistenza di linguaggi disparati e divergenti, caratteristica delle scritture del Dopo il Moderno, non può essere avviato a soluzione con un atto individuale o con una opzione privata dello stile. Ma è qui che si gioca la partita della scrittura poetica contemporanea: il bisogno di attraversare i linguaggi detritici e di riporto della tradizione del moderno (hic facit saltus!) evitando di compromettersi con i detriti della cronaca e del quotidiano come ingenuamente fa il minimalismo. Molto diseguale nella resa metrica, la scrittura della Petrillo appare attraversata da una inquietudine stilistica e materica per tutto ciò che sfugge al suo calco mimetico. È l’ibridazione materica di cui si fa carico il discorso poetico di Marina Petrillo, che rende questa scrittura sabbiosa, petrosa, scagliosa, acuminata, irrisolta.
La poesia di Donatella Costantina Giancaspero è perfetta, se ne potrebbe fare un cortometraggio filmico, tanta la varietà di immagini, di cose, di colori, di oggetti, di stati d’animo che il testo contiene.
Complimenti.
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Intorno allo «statuto di verità del discorso poetico»
caro Steven,
il tuo articolo ha un «difetto», che mette in campo una tale quantità e qualità di questioni e di categorie che alla fine non mi meraviglia che un lettore colto e acuto come Giuseppe Gallo abbia dichiarato che si trincera dietro il silenzio per pensare e digerire tutti i problemi che la tua argomentazione ha messo in campo. E si tratta della messa in opera di una quantità di problematiche come nelle patrie lettere non si faceva più da almeno cinquanta anni, ma è dalla morte dell’ultimo poeta italiano in possesso di una auto coscienza storica, Franco Fortini (1995) che non si pensa veramente più dei problemi della poesia, e questo ha causato un indebolimento epocale del pensiero poetico italiano. Non mi meraviglia quindi il silenzio che è seguito alla tua riflessione, ritengo che si tratti di un silenzio di confusione e di distrazione per un eccesso di problematiche messe a fuoco. Del resto, non mi faccio illusioni, la difficoltà di portare avanti un discorso serio sulla poesia è enorme perché non interessa a nessuno dedicarsi a queste questioni, ci si limita a scrivere con la mano sinistra delle prefazioncelle disossate che fanno contenti tutti e mettono d’accordo tutti gli autori.
Il problema invece che sta al fondo della «nuova poesia» non può essere sottaciuto, io penso che il problema dei problemi verta intorno allo «statuto di verità del discorso poetico», se il discorso poetico abbia un proprio statuto di verità o se invece sia il portatore di discorsi che con la verità non hanno nulla a che fare. Il distinguo di fondo mi sembra questo, è inutile girarci intorno e far finta di non vedere l’iceberg, tanto con questo atteggiamento si finisce inevitabilmente ad andare a sbattere contro l’iceberg.
Di fatto, la poesia italiana delle ultime decadi ha fatto finta di non vedere alcun iceberg, anzi, mi correggo: non era in grado di avvistare alcun iceberg dinanzi a sé, non poteva avvistarlo perché non pensava con le categorie fondamentali ma si accontentava di occuparsi di situazioni sussidiarie: la traduzione della poesia, la poetica degli oggetti, la libertà della poesia, la libera tematizzazione dei temi della poesia, la poesia corporale, performativa, ironico-giocosa etc.. Quando invece la categoria fondamentale che comprende in qualche modo tutte le altre è senz’altro lo «statuto di verità del discorso poetico», cioè se il discorso poetico abbia a che fare con quella cosa misteriosa che è la «verità», oppure se essa «verità» è una questione periferica e secondaria che possiamo tranquillamente mettere da parte. Da questa presa di posizione ne deriverà la poesia di ciascuno di noi (ammesso e non concesso che si possa parlare di poesia e non di ciarle da caffè messe su carta).
Scrive Maurizio Ferraris:
1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 26
Cari amici de L’Ombra,
vorrei salutarvi tutti, davvero tutti… quanti siete nel mondo! Lettori, estimatori, amici, poeti… Sono stata a lungo assente, come avete visto, ma non distante da voi con la mente. Questo mai!
Vorrei ringraziare Steven Grieco-Rathgeb per la visibilità che ha dato alla mia poesia e Giorgio Linguaglossa per la pubblicazione del post.
È un post di estremo interesse: articolato, ricco di rimandi culturali, di riflessioni importanti: molto importanti per tutti noi, sulle quali dovremmo soffermarci a lungo… Io, personalmente, posso dirvi che, dopo la lettura, ho iniziato a studiare l’estetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, documentandomi anche in Internet, dove si trovano molti buoni contenuti. E sento che lo studio mi sta suggerendo nuove idee… Conoscevo il regista, certo! Da ragazza avevo visto l’Andrej Rublëv… Ma ignoravo la profondità del suo pensiero. Amici, ve lo consiglio, credetemi! Se manca questa tessera al mosaico della vostra cultura, aggiungetela. Dopotutto, perché noi siamo qui, in questa rivista, se non, anche, per sapere ciò che non sappiamo?, per ampliare, approfondire le nostre conoscenze? Scusate la banalità, ma mia nonna diceva: “nessuno nasce imparato” (perla di saggezza popolare e contadina). Quindi possiamo, anzi, meglio, dobbiamo imparare. Anche apprendendo tra noi, l’uno dall’altro.
Ringrazio Giuseppe Talia, sinceramente, per aver apprezzato la mia poesia. E, tanto per rimanere in tema di cinema, quando ha detto che il mio testo si presterebbe a un cortometraggio, sono rimasta molto colpita. Infatti, ricordo di averlo scritto pensandolo esattamente come fosse una sequenza cinematografica: un montaggio di frammenti (e qui Tarkovskij docet!), una successione di dissolvenze, controcampi… ecc. (sì, ma non voglio svelare troppo i segreti del mestiere). Per quanto riguarda la realizzazione concreta di un cortometraggio… eh, qui bisogna pensare in grande, molto in grande!! Ma chissà… Forse un giorno potrebbe accadere anche questo.
Un grande abbraccio, planetario!
Donatella Costantina
Caro Giorgio, capisco cosa dici. Il mio post è un concentrato di esperienza poetica di diversi anni, e come tale va preso: lentamente, con tante riletture e riflessione. Ci vuole pazienza, la pazienza che ho impiegato io a scriverlo. La pazienza di anni di riflessione su un singolo concetto enunciato da un Tarkovskij, un Coomaraswamy, un haiku, un verso di Eliot, un brano di Jung, Dostojevsky o dell’Iliade.
Se lo si segue attentamente, ma lentamente, penso che il mio post sia molto semplice, vuole sempre ribadire la centralità della poesia nella poesia. Questo oggi non poteva più essere fatto con complicate e lunghe e labirintiche disquisizioni tratte dai filosofi tramontati di ieri – Heidegger, Foucault, Adorno, etc.: doveva invece avvalersi dell’ancora freschissimo pensiero di un artista – in questo caso di due registi, Tarkovskij e Kaul, per buttare via tutto il ciarpame che grava addosso a noi poeti tutti, e dire una cosa semplice ma in effetti sfuggente: COSA E’ L’IMMAGINE IN ARTE.
Ho letto il commento di Gallo anche come una volontà di riflessione, di rivedere tutti i luoghi comuni intorno alla poesia oggi, e da lì avventurarsi nel campo che ci viene offerto da artisti non poeti, ma in grado di aiutare la poesia a uscire dalla sua palude.
E’ chiaro che un post come questo non soddisferà tutti. E’ fortemente inteso come una scialuppa di salvataggio per salvarsi dal mare delle banalità di oggi. Ma è soltanto una scialuppa possibile, non LA UNICA scialuppa.
E poi, c’è anche un altro modo per rispondere al mio post. Con il silenzio. Un silenzio giusto, un silenzio di disaccordo.
Perché no?
Steven
Dear friends of L’Ombra,
I would like to greet you all, really everyone … how many you are in the world! Readers, admirers, friends, poets … I have long been absent, as you have seen, but not far from you with my mind. This never!
I would like to thank Steven Grieco-Rathgeb for the visibility he has given to my poem and Giorgio Linguaglossa for the publication of the post.
It is a post of extreme interest: articulated, rich of cultural references, of important reflections: very important for all of us, on which we should dwell for a long time… Personally, I can tell you that, after reading, I started to study the cinematographic aesthetics of Andrej Tarkovskij, also documenting me on the Internet, where there are many good contents. And I feel that the studio is suggesting me new ideas … When I was a girl, I had seen Andrei Rublëv. But I ignored the depth of his thought. Friends, I recommend it, believe me! If this tile is missing in the mosaic of your culture, add it. After all, why are we here in this magazine, if not, also to know what we do not know?, to expand, deepen our knowledge? Excuse the banality, but my grandmother used to say: “nobody is born learned” (pearl of popular and peasant wisdom). So we can, indeed, better, we must learn. Also learning from each other.
I thank Giuseppe Talia, sincerely, for appreciating my poetry. And, just to stay on the subject of cinema, when he said that my text lent itself to a short film, I was very impressed. In fact, I remember writing it, thinking it exactly like a film sequence: a montage of fragments (and here Tarkovskij docet!), A succession of fades, countershot… etc. (yes, but I do not want to reveal the trade secrets). As for the concrete realization of a short film … eh, here you have to think big, very big !! But who knows … Maybe one day this could happen too.
A big hug, planetarium!
Donatella C. Giancaspero
posto il commento di Gino Rago al momento impossibilitato a farlo.
E’ un saggio dal respiro ampio questo che ci propone Steven Grieco-Ratgeb, ma mi associo a Peppino Gallo, che lo segnala, e a Giorgio Linguaglossa, che lo evidenzia, sottolineandolo: troppa materia da meditare nello spazio di un mattino…Anche se le sintesi sono già presenti negli strilli de L’Ombra delle Parole:
[…]
Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate.
[…]
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
[…]
La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
[…]
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano
[…]
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima e tra le stesse parole e le cose occorrono grandi spazi o ferme distanze…
[…]
E, poi, diciamolo una volta per tutte:
Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla…
Steven del resto è egli stesso poeta con la facoltà rara di portare nei suoi versi le cose all’essere, partendo dal Nulla.
In questo ruolo, almeno limitatamente alle poesie che accompagnano le meditazioni di Steven Grieco-Rathgeb, quella di Costantina Donatella Giancaspero si stacca dalle altre, validissime, per nitidezza di dettato ed eleganza di tessitura poetica.
Che non siano gli ‘strilli’ elencati nelle pagine de L’Ombra le ragioni per le quali il mio amico poeta di Istanbul*, [quello che si occupa di Cogito e del Signor Nulla], litiga di nascosto con lo specchio…
[…]
da La letteratura come menzogna, Adelphi, 2004, p. 220, di Giorgio Manganelli.
“Dunque, non gli eventi storici, non il salvacondotto delle storie letterarie ci danno accesso alla letteratura ma la definizione del linguaggio che in essa si struttura”
Tempo interno e tempo esterno nel film Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij
In Nostalghia, il tempo dell’azione (tempo esterno) coincide quasi scultoreamente con quello interiore. Quindi, paradossalmente, si ha uno scarto maggiore e pregno di conseguenze. In una sorta di coincidenza tra queste due entità, si raggiunge una differenza e una deflagrazione inquietanti. Infatti, qui il movimento del protagonista riflette spazialmente e temporalmente la sua angoscia interiore. Il movimento può sussistere anche nella sua stessa negazione. Ad esempio, prendiamo in considerazione le sequenze iniziali, quando Gorcakov rifiuta di recarsi a visitare la Madonna del parto; qui, il non-movimento del personaggio riflette la sua angoscia interiore, la sua impotenza mentale. E, paradossalmente, si deve dire che riflette anche una profonda potenza e lucidità di pensiero. Allora, qui il non-movimento si configura come tempo interrotto, come negazione del suo scorrere. L’angoscia del personaggio desidererebbe comunque fermare e spezzare il tempo, ma ciò non è possibile. Esso si ferma, è vero, però resta anche iconicamente e plasticamente scandito: diviene figura, scultura, e in tale status resta in ogni caso ai suoi massimi livelli di sussistenza. Il personaggio vorrebbe che il tempo si fermasse: ecco allora l’indugiare ad ascoltare la pioggia nella stanza d’albergo, in momenti del giorno indefiniti, come sogni, ecco allora gli stessi sogni, terribili ed eterei, inquietanti nel loro essere in bilico tra onirismo e realtà, ecco allora l’incedere nella nebbia vicino alla vasca termale, luogo dove la percezione si può annullare e così anche il concetto di tempo, ecco allora il disperdersi dello sguardo su colline lontane che invece non sono altro che minuscoli ed opprimenti mucchi di terra senza orizzonti, senza spazi aperti. Il tempo, in ognuno di questi momenti, è invece scultura, e lo è più che mai quando diviene nebbia, materia bianca come marmo, come statua, come nell’inquietante sogno – essere trasformato in statua – del musicista del quale Gorcakov segue le tracce in Italia. Distruggere il tempo e contemporaneamente annientare anche un interiore flusso di coscienza: forse si può tramite una dinamica speculare, forse si può trovando finalmente il proprio scioccante doppio.
Ed è così che il protagonista si identifica col folle Domenico, altro personaggio il cui incedere spaziale demarca anche un movimento temporale. Così è, ad esempio, nella scena in cui lo vediamo seguire il bambino, scendendo le scale, mentre esce dalla casa dove era stato chiuso sette anni insieme alla famiglia. Il movimento, allora, entra in perfetta sincronia con lo spaesamento interiore e con un’idea di scansione del tempo. Ed ecco che estremo movimento in direzione di una coincidenza-annullamento del tempo sarà proprio il portare la candela accesa attraverso la vasca del paese. Il fuoco, allora, ha la valenza di ciò che sussiste, di ciò che dura, di ciò che è: fuoco come tempo. E il condurlo in salvo, a rischio della propria vita, assume un valore catartico: è missione salvifica e contemporaneamente mezzo di distruzione. Si salva e si distrugge contemporaneamente. E, di fronte a tale angoscia e a tale deflagrazione, non ci può essere altro che un annullamento del sé, una morte finalmente catartica e quasi apparsa in sogno, quasi nebbia essa stessa, figura del tempo che vive ed aleggia eternamente in quella campagna inquietante e sognante.
In Nostalghia, come anche in Stalker (1979) e in Sacrificio (1986), il tempo interiore è talmente concentrato, da proiettarsi sulle condizioni esteriori (tempo esterno), che acquisiscono un risalto plastico, in qualche modo paragonabile con quella pienezza che si evidenzia nello scorrere del tempo legato alla logica dell’azione e nei suoi risvolti epici. In questi tre film la stessa concentrazione o la stessa intensità del tempo interiore permettono ad esso di riversarsi all’esterno in un modo molto netto, plastico, evidente e prorompente, così da stabilire un equilibrio fra la condizione psichica e spirituale e quella esterna e strettamente ambientale.
(da Conversazione sul cinema di Andrej Tarkovskij di Paolo Landi e Paolo Lago, Effettonotte online)
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Roma, Aleph, Vicolo del Bologna 72,
venerdì 25 gennaio, ore 17,30
La Poesia di Giorgia Stecher
Relatori: Marisa Amato, Lina Sergi, Giorgio Linguaglossa
Legge Giulia Perroni
“…Queste poesie valgono molto e il tempo, giustiziere felice di tante vocazioni o immature o inesistenti mi darà ragione; la Stecher è una vera poetessa” (Dario Bellezza)
Sono sempre con me
Sono sempre con me
quelli che se ne andarono
inghiottiti dal gelo della notte!
Alcuni sedevano miti sulla soglia
guardando il dispiegarsi degli eventi
in recondite stanze architettati.
Altri solcavano la vita
col passo trionfante distribuendo
fulmini e blandizie tutti
però credendo di avere nel forziere
una fetta cospicua di minieternità.
Un turbine li spazzò via uno ad uno
nel volgere di un giorno! Di loro
ben poco è rimasto
oltre la cineteca del ricordo
a cui ho accesso io sola
ed all’antologia delle canzoni
che zufolo nell’intento di evocarli.
(da Altre foto per Album, Ed. Scettro del Re,1996)
Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero
Anche il cielo ha concesso una tregua.
Un riverbero di voci spalanca il cortile.
In tempo, per la luce che resta
sulle corde tese dello stenditoio condominiale.
Sufficiente per vedere in controcampo
la trama della tarlatana, mai ingiallita;
di un biancore, anzi… Richiama
il panetto di magnesio da 55 grammi, poggiato sulla mensola,
la velatura pomeridiana della luna.
Comprese nel proprio umore madido,
le stampe asciugano ordinate in silenzio, sullo stendino.
A due a due, tra i cartoni. Ci restano fino a domattina,
se la notte si solleva col vento.
«Prendi l’asta, che abbasso la serranda…»
«Hai chiuso l’inchiostro?»
Un residuo di nero tuttavia rimane sotto le unghie,
anche se si lavano più volte, se l’acqua scorre con foga
dal rubinetto della nuova abitazione.
Da tempo, gli manca qualcosa: un dettaglio di poco conto,
un vezzo decorativo… E non si fa più caso.
Ma è qui, tra lo specchio e il presente.
Prendo come esempi due poesie, una di Giorgia Stecher, pubblicata nel 1996 e un’altra di Donatella Costantina Giancaspero pubblicata su queste colonne nel 2018. Tra le due poesie scorrono 22 anni di distanza durante i quali la poesia italiana ha avuto una mutazione genetica profondissima (direi grazie alla ricerca della nuova ontologia estetica). Dalla lettura della poesia della Stecher risalta subito che essa è ancora costruita secondo le categorie della poesia italiana del novecento. Nulla di più semplice, si tratta del discorso dell’io che commenta una vecchia fotografia, il discorso è uno svolgimento tranquillo di ricordi e di associazioni emotive, un discorso unilineare e unitemporale di alto profilo e sobrietà, un discorso al cui fondo c’è la nostalgia per il tempo trascorso. Anche questo è un elemento squisitamente novecentesco.
Nella poesia della Giancaspero invece siamo fuori dal novecento, qui non c’è alcun discorso unilineare e unitemporale, non c’è alcuna colonna sonora con tanto di rime e di assonanze, nulla di tutto ciò, qui siamo davanti ad una serie di fotogrammi, di frammenti, ciascuno in sé già compiuto, ciascuno portatore di una dote di tempo interno che inevitabilmente si trova a collidere con il tempo esterno, il tempo atmosferico richiamato dalle singole proposizioni catacretiche e metaforiche, problematica questa invece assente nella tradizionale poesia del novecento; inoltre, se leggiamo e ascoltiamo la scansione delle pause interne ad ogni verso ci accorgeremo che ogni verso è composto di due emistichi di lunghezza tonale e temporale diversi. Rileggiamo i primi 4 versi con la scansione dei versi mediante trattini:
Anche il cielo ha concesso una tregua.
+ – – + – / + – + – + – + –
Un riverbero di voci spalanca il cortile.
– – + – – – + – / – + – – + – –
In tempo, per la luce che resta
– + – / – – + – – + –
sulle corde tese dello stenditoio condominiale.
+ – + – + – / + – + – + – — + – – + –
Da una rapida lettura, ci rendiamo subito conto di come la composizione in frammenti richieda una frammentazione anche degli accenti tonici e delle lunghezze dei singoli emistichi che sono tutti di diversa lunghezza e di diversa composizione tonale, intendo delle sillabe toniche. Un altro elemento che vorrei sottolineare è l’estrema attenzione che la poetessa dedica agli ambienti che sono o interni disadorni, interni di lavoro, o esterni come lo «stenditoio condominiale», il «cortile», tutti connotati da una atmosfera di clandestinità, di estraneità, come se il ricordo, i ricordi rimembrati fossero portatori di una dote di clandestinità, di disappartenenza, di estraneità. Qui la tendenza naturale verso la nostalgia (come avviene nella poesia della Stecher) viene contrastata e contenuta dall’opposta tensione verso la disappartenenza e l’estraneazione. I singoli frammenti sono degli scrigni che racchiudono singole quantità di estraneazione e di disappartenenza. Un lavoro a mosaico di frammenti uniti insieme dalla colla della estraneazione.
Scrive Rossana Levati:
«Siamo giunti così ad una dimensione del soggetto lirico totalmente estranea alla poesia novecentesca.»
Ecco il primo emistichio del primo verso della poesia di Donatella Costantina Giancaspero:
«Ripieghiamo in direzione del bar.»
Il verbo «ripiegare» è di area semantica del gergo militare e indica l’azione di un «ripiegamento», di una ritirata controllata su una linea più arretrata del posizionamento di un reparto militare affinché nella nuova posizione sia più agevole difendersi, o dalla quale si possa sferrare in modo vantaggioso un controattacco avverso il nemico. Il verbo indica una azione tattica e un diversivo strategico, punta a giocare l’avversario su un terreno più propizio a chi si difende, a causare maggiori perdite al nemico che avanza. Tuttavia, c’è anche un’altra area semantica a cui il verbo appartiene, ed è l’azione di «ripiegare» la biancheria dopo che è stata lavata e stirata, indica un’azione tipicamente femminile tratta dall’area semantica della vita quotidiana. Entrambe queste aree semantiche interagiscono a connotare il verbo declinato alla prima persona plurale «ripieghiamo» con sensi plurimi e sfumati.
La poesia inizia con un verbo alla prima persona plurale. Si tratta di due personaggi che si rifugiano in un «bar», luogo neutro dove avviene qualcosa che il lettore deve decifrare: una azione che è insieme una ricognizione di possibilità e un evento che forse è già avvenuto e di cui i due personaggi debbono soltanto prenderne atto. In questa gamma di possibilità esistenziali si danno tante altre condizioni intermedie che soltanto l’esistenza si incaricherà di sciogliere. Le condizioni esistenziali sono quelle situazioni in cui noi oscilliamo continuamente in ogni attimo della nostra giornata, si tratta di condizioni «aperte», sono delle «aperture» al darsi dell’evento. La poesia pone un quadro aperto affinché le «aperture» possano entrare in gioco per catturare l’evento. La poesia è soltanto un darsi di una possibilità che un evento accada entro il suo campo di azione. Ecco la novità di fondo che la poesia pone, come ha ben individuato il commento di Rossana Levati con quella brillante annotazione finale: «del soggetto lirico… della poesia novecentesca», non ne è rimasto più niente. E con l’eclissi del «soggetto» si ha anche l’eclissi della poesia elegiaca, quello che ne rimane è una fraseologia segmentata mirabilmente composta e scomposta a defilare un quadro abilmente scomposto e decostruito nell’atto stesso della sua costruzione. Possiamo adesso dire che la poesia è confezionata con un mix di atti di smontaggio, soltanto procedendo allo smontaggio possiamo, siamo in grado di immaginare il contesto smontato. È un porre all’incontrario del modo ordinario in cui la poesia elegiaca del novecento è stata immaginata e posta.
La poesia pone il problema di come noi dobbiamo abitare una lontananza, una distanza. In quel verbo declinato alla prima persona plurale vediamo come in differita, in replay l’azione dei due interlocutori che mettono una «distanza» tra loro e il passato, in quanto il «passato» è passato e quindi si è sciolto, è addivenuto ad una soluzione che il presente si incarica di sciogliere. Il «nodo» è stato sciolto mediante l’atto del distanziamento dalla prima posizione più avanzata ad una seconda posizione meno avanzata dalla quale sia possibile vivere in modo più autentico, o meglio, in modo meno disautentico. Ma quella «linea» più arretrata sulla quale i due interlocutori si sono riposizionati indica anche la possibilità di un nuovo riconoscimento, la possibilità di un rimpatrio nell’ente dove sia possibile vivere più autenticamente la nostra inautenticità…
È questa una poesia che entra mirabilmente nella nuova ontologia estetica, a pieno diritto e con pieni titoli ermeneutici.
Ecco la poesia:
Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli occhi rievocativi
e agli specchi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».
Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…
Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
Scrive Rovatti:
«Bisogna essere “aperti” all’evento, alla sua irruzione, altrimenti non si produce alcun “nuovo” evento (cioè, alcun “evento”). Apertura resta una parola chiave del pensiero contemporaneo, ma siamo in grado di abitarne e custodirne la distanza? “Apertura” e “chiusura” vengono allora a formare una strana coppia; i nostri normali giochi linguistici entrano in una sorta di “impazzimento”, il giocatore deve farsi giocare dal proprio gioco e solo a questa condizione è uno che sa giocare… A partire da qui si disegna, a mio parere, un nuovo stile di pensiero, meno violento, più poroso e, in definitiva, più “debole”. E, naturalmente, si profila anche una diversa idea di “soggetto”, insieme più leggera e più esplosiva, più utile e meno rassicurante. Soprattutto, c’è da fare un ingente lavoro filosofico, di cui possiamo rintracciare tutte le premesse nel ricchissimo pensiero contemporaneo, ma sulla cui realizzazione siamo ancora molto incerti e poco determinati».1]
1] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007. XII
Cari amici Giorgio Linguaglossa e Rossana Levati,
mentre voi parlate della mia poesia (e vi ringrazio per questo, ma andrebbe bene anche solo qualche accenno…), io vorrei continuare a parlare di Andrej Tarkovskij.
Giova soffermarsi su alcuni punti sostanziali del pensiero estetico di Tarkovskij. Il principale stabilisce che la materia prima del cinema non è la narrazione, ovvero non è la letteratura, nella quale tutto viene espresso per mezzo della lingua. In tal senso, il regista disconosce il ruolo della sceneggiatura quale mezzo necessario alla realizzazione dell’opera cinematografica. Scrive Tarkovskij:
«La tendenza più spaventosa, più perniciosa per il futuro film consiste nel tentativo di attenersi esattamente nel proprio lavoro a ciò che è stato scritto sulla carta, di trasferire sullo schermo delle costruzioni pensate precedentemente, spesso puramente intellettualistiche. Una banale operazione di questo genere è in grado di effettuarla qualsiasi artigiano dotato di una certa professionalità».
Invece, Tarkovskij considera il cinema un’arte «immediata», analogamente alla musica, ma anche alla poesia, come sappiamo: insomma, a tutte quelle espressioni artistiche che «non hanno bisogno di un linguaggio mediato».
Per Tarkovskij, l’idea fondamentale del cinema consiste nel «tempo», come già rileva Steven Grieco-Rathgeb nel suo saggio; più precisamente, come scrive Tarkovskij, «il tempo registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali». Infatti, l’immagine cinematografica non è altro che «l’osservazione di un fatto che si svolge nel tempo». Lo spettatore ricerca nel cinema un’esperienza del tempo, «di quello perduto, o di quello che finora non ha trovato. L’uomo ci va alla ricerca di un’esperienza vitale del tempo, perché il cinema come nessun’altra forma d’arte, amplia, arricchisce e concentra l’esperienza fattuale dell’uomo […] Nel cinema autentico lo spettatore non è tanto uno spettatore quanto un testimone».
È interessante verificare in concreto come Tarkovskij arrivi a «scolpire il tempo» nell’immagine cinematografica, come riesca a distaccarla dalla logica pura e semplice della narrazione per inserirla in una dimensione temporale. Lo spiega assai bene un ampio articolo, Conversazione sul cinema di Andrej Tarkovskij, a firma di Paolo Landi e Paolo Lago, pubblicato su Effettonotte online, rivista di critica cinematografica. Ne riporto uno stralcio.
«Nel cinema di Tarkovskij la scansione temporale viene in qualche modo marcata – e per questo si stacca dalla logica sequenza degli eventi della storia tout court – soprattutto quando ci si trova in situazioni di analessi e scarti temporali, cioè quando l’azione viene vissuta come un ricordo, come ad esempio ne Lo specchio. Prendiamo in considerazione, ad esempio, le prime sequenze di questo film: la donna sullo steccato, l’arrivo del medico e le vicende iniziali nella dacia. Essendo tutte immagini di un sogno, o comunque di un ricordo, lo scalpello del tempo agisce con maggior forza. Esse emergono dalle lande desolate del ricordo e del passato, perciò si presentano scolpite sull’incedere del tempo, che non è un tempo che si realizza nell’hic et nunc. Allora, anche se in queste immagini sussiste pure una storia e una narrazione, gli stessi movimenti della macchina da presa fanno in modo che quest’ultima sia comunque secondaria, e anche che le stesse parole che si scambiano i personaggi di quest’analessi siano subordinate all’incedere scultoreamente definito del tempo. Emergono, proprio in queste sequenze, due elementi che si legano, nel cinema di Tarkovskij allo scorrere del tempo: il vento e il fuoco. Sono quasi due elementi che il regista utilizza per destrutturare e deistituzionalizzare l’azione, la logica degli eventi della storia narrata. Tramite il vento e per mezzo del fuoco si vuole forse imprimere all’intero film un andamento anti-narrativo ed “anti-spettacolare”, creare insomma, per dirla con Deleuze, il contrario di ‘immagini-movimento’».
Lo specchio (1975)
*Se il video non dovesse essere disponibile qui, guardatelo su YouTube!!
E, per gli amici di Milano, venerdì 25 gennaio (ore 19,00) alla libreria Tempo Ritrovato in corso Garibaldi 17, presentazione del libro di Filippo Schillaci, “Il tempo interiore, l’arte della visione in Tarkovskij” (edizioni Lindau, 2017)
Rispondo alla sollecitazione di Costantina riprendendo la definizione data dalla Treccani su che cos’è un «testo narrativo»:
« Un testo narrativo – mito, fiaba, favola, racconto, romanzo – racconta una storia che si sviluppa nello spazio e nel tempo e coinvolge più personaggi. La struttura segue di solito il modello: situazione iniziale, esordio, peripezie, spannung, scioglimento. In un racconto non sempre gli eventi seguono la ‘fabula’, cioè la narrazione secondo un ordine cronologico; a volte seguono ‘l’intreccio’, cioè la vicenda dei fatti secondo un ordine deciso dall’autore che può ricorrere all’analessi (la narrazione di eventi passati) o la prolessi (l’anticipazione di fatti futuri). I personaggi, in base al ruolo che hanno nella vicenda, si possono distinguere in: protagonista, antagonista, oggetto, aiutanti. Per quanto riguarda la voce narrante cui è affidato il compito di narrare i fatti: il narratore è ‘interno’ se si identifica con un personaggio o ‘esterno’ se racconta i fatti in terza persona. In base al tipo di narratore possiamo distinguere le focalizzazioni (‘interna’ quando il narratore coincide con un personaggio, ‘esterna’ quando il narratore si limita a presentare i fatti per come si verificano, ‘zero’ se il narratore è onnisciente). Le porzioni di testo dotate di autonomia dal punto di vista sintattico e del significato sono dette ‘sequenze’, suddivise in: riflessive, dialogiche, descrittive, narrative. »
Ora, riguardo al problema del «tempo interno» e del «tempo esterno» in un testo narrativo qual è una poesia, mi rendo conto che qui è tale l’influsso infausto della poesia della tradizione che non si riesce a distinguere il profondo significato dell’essere aperti all’evento, ovvero, dell’essere aperti al tempo. Essere aperti significa accogliere l’evento del passato (analessi) e/o del futuro (prolessi) in modo da non inserirlo automaticamente in una costruzione grammaticale unilineare già prestabilita, in questo modo metteremmo l’evento in una camicia di forza, lo immobilizziamo e lo uccidiamo.
Essere aperti all’evento tempo significa scrivere questo verso inspiegabile, inspiegabile se letto con in mente la critica letteraria tradizionale o se cerchiamo di esplicitarlo mediante qualche rimando alla poesia del novecento. Qui non siamo all’interno della categoria dell’epifania, non si tratta di un verso epifanico, e neanche di un verso performativo o illocutivo perché non spinge nessuno a qualche azione; semmai potremmo catalogarlo nella categoria della versificazione interlocutoria, e qui saremmo già più vicini al nocciolo della questione ma ancora lontani, in quanto non è affatto un verso che si pone tra due o tre o più interlocutori, non si pone affatto come un significato che deve essere decrittato e che potremmo decrittarlo solo se avessimo un codice. Niente di tutto ciò, è un verso, un monolite di nuovo conio, qualcosa che con le antiche categorie ermeneutiche del novecento non può essere colto. Potremmo azzardare che si tratta di un verso intertemporale, cioè di qualcosa che sta tra-due-tempi, in un tempo che comprende due temporalità, in tal senso potremmo dire che è un verso diafanico e apofantico ad un tempo:
«Il bacio è la tomba di Dio».
In questo verso non c’è né un soggetto né un predicato, si dà soltanto un cristallo semantico, un cristallo temporale e spaziale, una equivalenza tra due attanti, che poi è anche un verso di ardua interpretazione se lo si intende nel senso della critica letteraria ed ermeneutica. Si tratta di un sintagma anti ermeneutico, cioè un sintagma che non richiede l’intervento dell’ermeneuta, ma che bisogna accettare nella sua nuda equivalenza, nella sua nuda fatticità.
La poesia è un congegno sensibilissimo che si apre agli eventi del mondo che contiene. Tutto qui. Non c’è altro. Non c’è altro dell’altro direbbe Lacan. Si tratta dell’inconscio?, del sogno?, di un mondo di mezzo?, di un’altra dimensione? Non lo so, so solo che è stato possibile raccogliere questo verso come si raccoglie un meteorite piovuto dal cielo soltanto ponendomi in posizione di accoglimento, di apertura, di raccoglimento. Tutti gli altri versi della poesia non altro sono che eventi già accaduti che non possono più essere rimemorati, cioè, richiamati alla memoria. Qui la memoria è fuori questione, non fa questione, l’autore non parla direttamente con la memoria come ha fatto e farà qualsiasi altro bravo poeta elegiaco della tradizione e della anti tradizione, ma ci parla non parlandole, ma accogliendo un cristallo temporale che è caduto dal cielo, in modo inspiegabile.
Quel sintagma possiede e presiede un «tempo interno» che dirige e governa tutti gli altri tempi degli altri versi in un modo che io non saprei spiegare… ma c’è un tempo interno in azione verificabilissimo a chi abbia orecchi per intendere. Il tempo interno è il tempo sedimentato, congelato, raffreddato e ridotto in cristallo temporale.
Fin qui tutto è chiaro? Perché se non è chiaro io non posso aggiungere altro se non invitando i lettori scettici a guardare i film di Tarkovskij, lì c’è illustrato a livello cinematografico il concetto di «tempo interno» che è un caposaldo della poesia della nuova ontologia estetica.
21 settembre 2015 alle 9:36
Mi scrive l’amico poeta Ubaldo De Robertis:
Caro Giorgio,
dunque l’autore si deve limitare a creare una struttura-cornice entro la quale registrare gli eventi,(immagini metafore ecc.) e lasciare che accadano, che vengano in evidenza. La creazione circoscrive il significante. Fare il vuoto del soggetto è la condizione per una più libera riflessione estetica. Ciò impone all’autore di situarsi in una zona fuori visione. Occorre stabilire una distanza sostanziale tra la creazione artistica e il vuoto che essa progetta e delimita. Una eccessiva prossimità finisce per compromettere ogni consapevolezza estetica. E’ cosi?
Staccarsi per diventare capaci di sentire, di capire, di interpretare il mondo.
Ma non è ciò che fa l’uomo di Scienza?
Ciao, Ubaldo de Robertis
giorgio linguaglossa
21 settembre 2015 alle 10:11
caro Ubaldo,
la poesia è un’arte difficile, richiede lunghi studi e lunghissima e tenace applicazione. Tenacia e pazienza, e senso autocritico, occorre capire quando ciò che facciamo è riuscito e quando invece si tratta di un lavoro preparatorio di qualcosa che deve ancora avvenire. Per favorire che l’evento accada occorre innanzitutto prendere le distanze dall’io, dall’ego e dalla soggettività e, soprattutto, dalla ridicola pretesa di aver scritto cose straordinarie, noi non facciamo mai cose straordinarie, nulla è straordinario ma tutto è ordinario. Gli eventi che accadono, dopo un attimo, rientrano nella sfera dell’ordinario. Occorre mettere in discussione e in dubbio ciò che ieri credevamo fuori discussione e fuori di dubbio. È un esercizio faticosissimo, feroce, pericoloso perché ti costringe a una continua instabilità e incertezza. Ma questo è il prezzo che bisogna pagare per poter raggiungere una situazione di completo distacco dalla propria arte, bisogna riuscire a mettersi da parte e a non inserire nulla di biografico nella propria creazione, tutto, ogni cosa, ogni esperienza deve essere sottoposta al correlativo soggettivo e oggettivo, alla metafora e alla similitudine perché Tutto è collegato con il Tutto, e il Tutto è collegato con il Niente. C’è chi ci arriva con la filosofia Zen, chi con la mistica, chi con la ginnastica o altro, non so, ma è obbligatorio prendere le distanze dall’ego e da tutte le forme di egocentrismo e di narcisismo, quando vedi un aspirante poeta pieno di narcisismo, credimi, quello è un povero mediocre… solo così possiamo ritenerci pronti ad accettare l’evento. Però occorrono anche anni ed anni di studio.È un esercizio di terribile durezza. Molti soccombono. Pochi resistono fino alla fine. La strada della poesia è lastricata di cadaveri, non è una boutade.
Sono convinto che oggi si può scrivere poesia di livello soltanto se si adotta il cd. verso libero, almeno per la tradizione italiana (dimmi come vai a capo e ti dirò se sei un vero poeta). l’a capo è terribilmente difficile, è una delle massime responsabilità per un poeta, e poi occorre aver compreso che la forma-concerto della poesia italiana del dopo Satura (1971) di Montale è da gettare alle ortiche, che bisogna creare una nuova forma-concerto o forma-poesia, bisogna riformulare e rifondare il linguaggio poetico. La forma-concerto che prevedeva un posto fisso per lo spettatore in platea è caduto per sempre. Nella nuova forma-poesia, intendo quella che alcuni poeti contemporanei adottano il posto dello spettatore è in mezzo alla scena, in mezzo ai versi. Lui sta lì in mezzo e non lo sa. A volte ne viene respinto, a volte, anzi, quasi sempre, viene chiamato in causa (come avviene nella mia poesia), altre volte viene convocato a passeggiare tra i fiori di loto della poesia. Ogni poeta ha una propria strategia di disparizione. Anche nella poesia di un Sagredo, pur così infestata dall’io, di fatto, la persona dell’autore scompare, viene sommersa da un mare rutilante di metafore e di similitudini, mentre nella poesia di Steven Grieco Rathgeb c’è la delicatezza di certa pittura zen. In ogni caso, lo spettatore (il lettore) deve poter passeggiare in lungo e in largo nella scena, nel testo, deve sentirsi protagonista della poesia, deve porsi degli interrogativi, deve cercare delle risposte. Insomma, è finita per sempre la posizione contemplativa di chi sta fuori della scena alla ricerca del Bello..
Fermo restando che l’affermazione di Tarkovskij “QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.” mi accompagna, come anche il contrario, fuoriuscire dalla vita per entrare nel film, ho apprezzato la poesia di Costantina (Perfetta, e spero ci pensi seriamente a tradurla in immagini filmiche. Con il giusto regista) , come anche quella di Catapano, anche se devo appuntare che il linguaggio di Catapano è ancora troppo spigoloso, intellettuale, cerca un effetto, ma è un effetto freddo, “ri-paesaggi”, “Un sole nero, accecato”, “qui-dopo (?).
Cachèra!?…
Le Ospiti Ingrate
Mi intendi vagare. Hai soppresso ogni viale
e la rima che calza una strada. Nei segni,
castagni divelti che hanno percorso una scia,
li blocco alla riva. Sul bordo alabastro
mi sfuggono gli altri, essi scivolano piano
per attrito leggero. Abbiamo tasche ricolme
e l’olfatto alterato. Un silenzio spalmato
a ridosso del collo. Un bacio sottile. La carezza
che arretra allo sguardo ostile. Poi stinge.
All’unisono un sibilo che viene invariato.
GRAZIE OMBRA.
Posto una email privata che Giuseppe Gallo mi ha inviato, la pubblico, con il consenso dell’autore, in quanto penso che abbia valore di carattere generale, a prescindere dal mio verso di cui si argomenta.
caro Giorgio,
ho bisogno di una pausa anche perché impegnato pure su altri fronti. Comunque, ho letto con grande interesse ciò che hai scritto come riflessione al tuo stesso verso “Il bacio è la tomba di Dio”. “in questo verso, affermi,
“non c’è un soggetto né un predicato, si dà soltanto un cristallo semantico, un cristallo temporale e spaziale, una equidistanza tra due attanti, che poi è anche un verso di ardua interpretazione se lo si intende nel senso della critica letteraria ed ermeneutica. Si tratta di un sintagma anti ermeneutico, cioè un sintagma che non richiede l’intervento dell’ermeneutica, ma che bisogna accettare nella sua nuda equivalenza, nella sua nuda fatticità”. E prosegui giustificando l’origine di questo verso quasi come un “meteorite piovuto dal cielo”.
Ecco allora qualche mia riflessione. Prima di tutto sgombriamo il campo da tutti i possibili richiami culturali e originari con “la bocca”: pneuma, spirito, soffio, parola, ecc. In secondo luogo saprai che esiste la “Filematologia”, la scienza che studia il bacio e gli aspetti che il bacio ha in un rapporto di coppia. Non per nulla accenni a “due attanti”… ora il bacio può essere:
1) Scambio di un desiderio raggiunto, di un incontro che si realizza;
2) Scambio ancora più profondo perché verte su qualcosa di noi che è commisto al piacere, al sangue, al sentimento…
3) Scambio tra madre e figlio… fino a “divorarlo di baci”;
4) Scambio tra pari: la bocca mi baciò tutto tremante;
5) Scambio rituale… ricordo l’omaggio medioevale in cui l’imperatore e il cavaliere mischiavano ile loro labbra per suggellare la loro affiliazione;
6) poi c’è il bacio verso i morti, verso i santi, verso i simulacri e così via…
Ecco allora che il “tuo bacio” non “piove dal cielo… è un frutto culturale, sedimentato nella carne dei nostri pensieri, nei cunicoli del nostro cervello… Nel bacio che tu evochi ogni realtà, che non sia umana, è negata. È come se tu ripetessi, in forma poetica, quanto hanno affermato Hegel e Nietzsche, in riferimento alle chiese cristiane: esse erano i simulacri di un Cristo o di un Dio, non vivi, ma morti. Le chiese come tombe della divinità. Vogliamo dilungare la metafora? Quando si bacia qualcuno il nostro Io muore nell’altro… Le distanze spaziali e temporali annichiliscono… si affacciano il presente e l’altro, che non ha niente a che fare con Dio, come entità separata dall’essere… per gli Ebrei l’alleanza con Dio era rappresentata dall’arcobaleno… ecco, l’arcobaleno simboleggia la schiavitù d’Israele al proprio Dio… il tuo bacio la liberazione… come concludi infatti la tua poesia? Con una ripetizione, quasi ossessiva:
Non c’è più lutto tra i morti!
Non c’è più lutto tra i morti !
Hai pure elaborato il tuo lutto e il nostro. Concludo. Io sono convinto che qualsiasi espressione esca dalla bocca del poeta abbia sempre una appropriata logica a cui la parola obbedisce. Da Ermeneuta qual sei non puoi non convenire…
(Giuseppe Gallo)
Vi sarà capitato di seguire lo svolgersi di un film mentre state in un’altra stanza e non vedete le immagini, oppure per strada mentre passate fuori da un cinema all’aperto; avrete certo notato che i dialoghi sono intercalati da musiche e silenzi; non è come nella pagina scritta, ci sono pause e queste pause sono piene di mistero. Eppure riusciamo a seguire la trama, anzi, volendo possiamo anche visualizzare con fantasia tutte le sequenze. Quelle pause, nel sonoro del film, non fanno pensare alla scrittura frammentata, disfanie e distici?