Giorgio Linguaglossa
13 giugno 2019 alle 16:49
Trascrivo qui un Questionario di 4 domande che nel 1995 inviai ad alcuni autori; le risposte poi apparvero quel medesimo anno su un numero del quadrimestrale di letteratura Poiesis che a quell’epoca facevo con alcuni amici.
1) Vorrei porre la seguente domanda: se è vero che oggi la poesia è «libera», nel senso che non deve nulla a nessuno e che non deve rispondere a nessuno in quanto non v’è interrogazione o, detto in altri termini, mandato, se comunque è vero che la poesia sia soltanto l’impronta digitale di chi la scrive, e quindi un fatto «privato», ritiene che questa situazione storica sia favorevole o sfavorevole alla sopravvivenza della poesia?
2) Un tempo la poiesis (da poiéo= faccio) fu azione che, unita al canto divenne incantesimo, e unita alla mimica divenne dramma (drama da drao=faccio) rituale, cioè operazione magica, rappresentazione destinata a realizzare una presenza sacrale.
Oggi, nel laico mondo tecnologico, cosa è divenuta la poesia che ha ormai compiuto il divorzio dall’incantesimo, dal dramma rituale e dalla rappresentazione?
3) Il problema dell’interrogazione appare strettamente unito al quesito sull’ispirazione; se noi diamo a questa parola il significato etimologico, essa ci indica che la poesia sia qualcosa che nasce non dentro lo «spirito individuale» (formula infelice, lo ammetto) dell’uomo ma come qualcosa, un soffio, uno spirito? – che viene dal di fuori e si impadronisce dell’uomo; se noi riconosciamo al termine entousiasmos, entousiastes un significato affine a quello dell’ispirazione, cioè un qualificativo riferito alla Pizia vaticinante, «plena deo», non possiamo non riconoscere che l’essenza della poesia risieda fuori della poesia stessa, cioè nel mondo.
4) Ora, vorrei porre un problema, e precisamente: il legame che unisce il dentro con il fuori, cioè il mondo e la poesia, ovvero, il tempo e la temporalità della poesia, è un legame che vorrei chiamare istanza radicale o istanza temporale, che altro non è che quella problematica che il proprio tempo pone all’artista, come anche allo scienziato (anche se in modi differenti).
Quale è il Suo pensiero?
Un cordiale saluto. Giorgio Linguaglossa
Francesco Paolo Intini
14 giugno 2019 alle 22:34
domande interessantissime soprattutto l’ultima, caro Giorgio. La temporalità dello scienziato e dell’ artista che si confronta con il tempo secondo lo scienziato e l’artista. Da quello che posso arguire il tempo per il primo è qualcosa di misurabile, una delle sette grandezze fondamentali, una coordinata come quelle dello spazio. Per l’artista invece cos’è? Possiamo averne un’idea confrontando le loro opere?
Lo scienziato ha fiducia nella ripetizione dell’esperimento. Se le condizioni sono le stesse, il risultato finale sarà lo stesso.
Il tempo come successione di istanti uguali è garanzia di una successione di eventi uguali ad altri passati o futuri.
Si può dire lo stesso di un artista?
Come dire che se la Gioconda venisse dipinta oggi avrebbe i baffi.
Perché questa disparità?
E’solo perché la ripetibilità non è un concetto che appartiene all’arte o c’è qualcosa che riguarda la diversa concezione del tempo?
A parer mio è il concetto di successione di istanti tutti uguali a non avere a che fare con l’opera d’arte dove a c’entrare invece è il concetto di temporalità, ossia della problematica dell’epoca, ciò che emana dallo spirito del tempo.
Cosa c’è allora nella mente dell’artista se il tempo così concepito non gli lavora dentro? Probabilmente nulla, nient’altro che far zero il tempo a cui corrisponde un pensare per idee assolute come quelle della simmetria, valide nel definire i canoni di bellezza, per l’attrazione sessuale ma altrettanto valide in cristallografia e nella formazione dei legami chimici e in svariati altri campi. Il poeta non si discosta da questa linea di ricerca di entropia alla rovescia.
Se il tempo non esiste ogni epoca è uguale alle altre ed è legittimo, ultra attuale pensare in termini di polittico o di Commedia e di versi senza un verbo. Pensa tu allora cosa debba girare per la testa di uno che abbia abitudine per poesia ed esperimenti!
Alfonso Cataldi
15 giugno 2019 alle 15:12
Con lo studio del mondo subatomico, il concetto di tempo ha costretto a rimettere tutto in discussione, fino ad arrivare a descrivere fenomeni con equazioni in cui non esiste più la variabile tempo. Il tempo così come noi abbiamo imparato a conoscerlo e a misurarlo forse è un’illusione? Nei miei testi scrivo ormai quasi esclusivamente al tempo presente, anche azioni che la mia memoria o la memoria collettiva pone in tempi passati, superando così la convenzione che ci fa usare il tempo come classicamente ce lo hanno insegnato per meglio organizzare la nostra vita pratica. tutto esiste contemporaneamente? Ieri leggevo un’intervista dell’artista Mimmo Paladino, che fa “apparire frammenti di figure, mani, teste, elementi di una poetica che fonde spazi e epoche diverse, definendo un alfabeto di segni molto riconoscibili, che però non hanno un significato di senso univoco. Per Paladino l’artista dà vita a una materia informe che preesiste a lui. E’ un demiurgo, un essere dotato di capacità creatrice e generatrice, senza la quale “è impossibile che ogni cosa abbia nascimento”. Il demiurgo per eccellenza per Paladino è Don Chisciotte: “colui che vede cose che altri non vedono”.
Gino Rago
13 giugno 2019 alle 18:18
Benché avverta il peso ( in grado persino di schiacciarmi) delle 4 domande che Giorgio Linguaglossa srotola sul panno verde del piano inclinato del nostro tempo, tempo umano e tempo poetico, non posso sottrarmi all’invito impegnativo, sì, ma ineludibile e anche attraente dell’amico Linguaglossa se non altro per le questioni etico-estetiche ma anche tematico-stilistico-formali che le 4 domande linguaglossiane in sé contengono.
Vecchio Testamento
[contro il «no» che dentro mugghia]
La bella pittura postcubista?
Il nobile medium dell’olio?
Rimarrebbero forse le frasi piu turpi
Contro il «no» che dentro mugghia.
[…]
Nuove immagini da materiali nuovi.
Materiali eterocliti. Materiali poveri.
Il poeta del nuovo paradigma
Lascia in eredita lamiere malamente saldate.
Legni combusti. Cenci.
I segni d’amore o d’affinita per epoche remote.
I materiali effimeri. I materiali rozzi.
Le altre parole.
[…]
Le parole che negano
Sensazioni e idee della durata eterna.
I cenci. Gli stracci. Le velature.
Gli impasti. Le ombreggiature.
I sacchi vuoti
Ma pieni più di uomini vuoti.
[…]
Il ritorno an den Sachen selbst del poeta nuovo
Lascia in eredità l’arte del «no» libero
Contro il «sì» obbligato di Ferramonti e Belsen.
Viaggio incompiuto. Sorriso amareggiato.
E Milton che urla dal Paradiso Perduto: «E’ inferno.
Ovunque vada è inferno. Io stesso sono inferno.
Nessun uomo è un’isola».
[…]
Nuovo Testamento
[Vi lascio parole senza suono]
Vi lascio le schegge. Vi lascio il sole.
Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.
Vi lascio i cascami delle fonderie,
Le scorie radioattive,
La ricchezza del mondo in poche mani,
Le macromolecole di veleni.
Vi lascio le vernici, la plastica, i trucioli.
E il grafene.
Vi lascio parole senza suono,
I sentieri del dolore,
Le vie della mano sinistra,
Il catrame, le maschere, le colle,
L’alluminio in lamine per le scodelle dei cani,
Le limature, la calce viva, le polveri sottili.
Vi lascio il sorriso del prigioniero.
L’ansia d’azzurro di madri nel nero.
Vi lascio.
Vi lascio le stelle che brilleranno
E le schegge di quest’uomo nel fango.
Vi lascio il fango.
Vi lascio il canto d’un nuovo Big Bang.
E il Nulla che è tutto lo Spazio.
Vi lascio l’energia centripeta del Grande Scoppio,
L’estensione, l’esplosione, l’espansione dell’uomo
Nella Parola “altra” di Poesia.
Gino Rago
13 giugno 2019 alle 18:49
Una sintetica meditazione sulla parte finale della nota critica di Giorgio Linguaglossa sui versi che seguono:
[…]
Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.
E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.
Scrive Linguaglossa:
“Se si legge con attenzione questa composizione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere della decrescita felice del soliloquio plenipotenziario che è sito in un angolo remoto della mente; una ruminazione che non dice niente, che non parla al lettore, una composizione che si allontana dagli oggetti e si avvicina alla ruminazione interiore. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…”
E’ per me la certificazione della irreversibilità del coma etilico di un tipo di poesia che per anni abbiamo letto e visto scorrazzare da libro a libro, di antologia in antologia, di rivista in rivista…
Nelle vesti di medico legale Giorgio Linguaglossa ha poi fatto l’autopsia sul cadavere di questa poesia decretando la morte del cadavere freddissimo all’obitorio delle case editrici potenti dell’impero di creta della nostrana poesia.
Giorgio Linguaglossa
13 giugno 2019 alle 19:47
Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine». Premesso che amare il mondo non significa accettarne le diseguaglianze e le ingiustizie ma amarlo nonostante le disuguaglianze e le ingiustizie, qui è in questione un prius, una cosa che sta prima della divisione dell’etica dall’estetica e dello stesso politico, si intende la disposizione all’apertura verso il mondo.
Il disprezzo del mondo proprio dello spirito giudaico-cristiano nutre in sé l’idea della rottura della temporalità. Il mondo esisterebbe non in sé ma in un per noi, in quanto soggetto a passiva subordinazione alla potenza del dominio sulla physis. La temporalità del dominio è la temporalità del dominio e del disprezzo.
Di contro alla concezione greca della «pienezza del Tempo», l’escatologia giudaico-cristiana piega il Tempo al «compimento del Kairos», fin alla palingenesi in un altro tempo, il tempo della redenzione e della resurrezione. La macchina calcolante della tecnica prende posto nella temporalità giudaico-cristiana come temporalità del dominio e annichilamento della physis.
Il pensiero di Heidegger intende questo quando scrive che occorre attraversare «la storia del nichilismo e della metafisica» per potere arrestarsi dinanzi alla ineffabilità dell’essere. Il perché dell’essere sarebbe intraducibile con i mezzi del logos.
Il concetto moderno di rappresentazione presuppone l’esperienza del cogito che dà forma e sostanza agli enti. Il principio pratico-produttivo del concetto di rappresentazione riduce il mondo a «immagine» (Bild) della cosa e a oggetto che sta di fronte (Gegenstand).
Il concetto classico di Teorein significa corteo, processualità che si dispiega. La nozione moderna di rappresentazione pone in termini invalicabili la distanza del punto di vista in quanto esterno all’ente, insomma, come cogito. E il concetto di arte che ne consegue sarebbe l’immagine esterna dell’oggetto che si forma sulla superficie retinica dell’occhio.
L’arte del Moderno sarebbe quindi un’arte dell’impressione o, al massimo concedibile, dell’espressione ma mai di penetrazione del mondo, si arresterebbe alla prenotazione di una immagine. L’arte del Moderno è sostanzialmente cartesiana da almeno tre secoli, e la psicologizzazione del cogito che ne fa il freudismo si configura come una variabile dipendente, un adattamento alle nuove circostanze storiche con le quali si presenta il cogito. L’epoca della psicologizzazione del cogito verrebbe a coincidere con l’epoca dell’attraversamento della metafisica.
Le recenti tendenze dell’arte del Dopo il Moderno sembrerebbero accentuare il processo di psicologizzazione dell’arte moderna, con il che si ha il trionfo dell’estetica da oreficeria e della diffusione dell’estetica fuori dal concetto dell’estetico. Così che se tutto è estetico, nulla è estetico. E l’arte non può che defungere.
«Le ispirazioni che non fanno anticamera vanno in fumo impotenti».
«Le opere parlano come le fate nelle favole: tu vuoi l’incondizionato, ti sia concesso l’irriconoscibile».
«L’estetica non può capire le opere d’arte se le tratta da oggetti ermeneutici. Mundus vult decipi».
(T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970 p, 231 e segg.)
Lo sguardo che cade dalla poesia sul lettore deve essere come lo sguardo cifrato d’un marziano.
La poesia per essere vera, deve essere irriconoscibile.
L’arte che si sottrae al principio del montaggio è kitsch. L’arte è montaggio elevato all’ennesima potenza
Giuseppe Talìa
13 giugno 2019 alle 23:52
Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine».
Il vero cambio di paradigma sarebbe, non tanto “tutti dobbiamo morire”, quanto, invece, “tutti dobbiamo vivere.”
Celso, Il discorso vero, Adelphi
Risvolto del libro
Questo libro è una testimonianza decisiva dello scontro dottrinale fra Pagani e Cristiani. Celso, filosofo medioplatonico del II secolo, sferrò con Il discorso vero un attacco radicale contro lo scandalo della nuova religione che veniva dalla Palestina e pretendeva di sostituirsi a culti immemorabili. Col gesto di un aristocratico cosmopolita, lo osserviamo reagire all’invadenza della pìstis, della fede, là dove dovrebbe regnare soltanto la conoscenza. E insieme rivoltarsi contro la boria antropocentrica dei Cristiani, che gli appaiono simili «a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole». Dalla parte cristiana, Celso incontrò, dopo qualche decennio, l’avversario più temibile: Origene. E, per un’ironia della storia, mentre Il discorso vero, nella sua interezza, andò perduto, ciò che sopravvisse furono i frammenti che Origene ne citava nella poderosa opera di confutazione che gli dedicò. In essi, qui presentati per la prima volta in edizione italiana, possiamo riconoscere, in tutto il suo vigore, la voce di una grande civiltà su cui incombe il declino, ma che non vuole rinunciare a se stessa.
Giuseppe Talia
Cari Germanico e Mario M. Gabriele,
Ho ritrovato una traccia che credevo perduta nella prosodia.
Una traccia audio di sovrapposizioni e interruzioni dialogiche.
Una speculazione arbitraria. Una disfluenza. Una violazione.
Qualcosa o qualcuno si è introdotto. Ho chiamato il 118.
Gli esiti contradditori e la loro durata temporale preoccupano.
Non sto bene. Non sta bene. Non si sta bene. La violazione
Degli spazi interlocutori, anomalie tecniche, interruzioni,
Rare presenze regolamentari, conversazioni polifunzionali.
Pre-occupano le hit estive problematiche/non problematiche
Tra intoppi e perturbazioni, lapsus linguae e calami stratiformi.
Una meteora pre-termine. Audioregistrazioni sub-corpus.
La pragmatica descrittiva di Geoffrey Leech che attribuisce enunciati.
Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza intenzionale.
Durata breve e violenta: i muscoli involontari, all’unisono,
Supportano il parlare corrente e le variazioni di tono e di volume.
Ascoltate (mi)
Alfonso Cataldi
Cari amici dell’Ombra,
Ho problemi temporanei di vista, ho dovuto fare un laser d’urgenza per problemi alla retina di un occhio. Posso leggere poco. Volevo riallacciarmi alla riflessione di Gino Rago sulla “bontà curiosa della nostra indole animale” e sulla necessità di dominio che siamo chiamati ad esercitare nei confronti della natura, dal grado di civiltà raggiunto, che non mettiamo in discussione, con un mio testo:
“Quel monile sciamanico…”
direbbe chi osserva il polso della maestra Milena.
«I suoi alunni e tutto il corpo insegnanti erano gli unici assenti»
comunica il collaboratore scolastico.
Tra i piatti da sparecchiare
Francesca termina l’ultima stesura sulle origini della 3a C.
A Pripyat gatti selvatici di ogni forma e dimensione
hanno occupato le abitazioni abbandonate.
Un gruppo di alieni in tuta e maschera antigas
prende appunti il sabato sera:
- l’equilibrio del disastro nucleare.
- Le bugie allungano il naso
Dopo mille peripezie
Pinocchio scopre che il segreto della vita è nell’amore. Umano?
Troppo umano confidarsi con il legno
sradicare silenziosi di fronte alla luna.
[a dx Donatella Giancaspero, Roma, San Paolo, 2017)
Giorgio Linguaglossa
14 giugno 2019 alle 16:46
L’articolo n. 1) del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica, pubblicato sul n. 7 del quadrimestrale di letteratura “Poiesis” nel 1995 si apre con il precetto, in consonanza con la massima di Plotino, di amare l’esistenza del mondo:
1) Dobbiamo amare l’esistenza del mondo più del mondo stesso e l’esistenza dell’uomo più dell’uomo stesso. L’arte vera raffigura l’uomo intero al centro delle tre dimensioni. Il Senso abita l’intero, la totalità. La nostra casa è il mondo e la lingua che lo delimita. Ampliare la lingua ai limiti dell’indicibile significa ampliare il mondo e la nostra integrale umanità.
L’articolo ricalcava testualmente il primo articolo del terzo manifesto dell’acmeismo vergato da Osip Mandel’stam, il quale invitava ed ammoniva ad amare il mondo.
Ecco, dall’acmeismo mandelstamiano del terzo manifesto del 1919 ad oggi, siamo arrivati alla «poesia polittico» e alla «nuova ontologia estetica». C’è un filo rosso che comunica attraverso i secoli ed i millenni, e questo filo rosso è l’amore per il «mondo» inteso come esistenza delle cose che sono in esso.
Il mio pensiero è che con la «nuova ontologia estetica» e la «poesia polittico» siamo usciti fuori dalla poesia della tradizione giudaico-cristiana, che in questi ultimi secoli qui in Occidente si è sviluppata sulla matrice petrarchesca, per aderire ad una visione più antica, e quindi più attuale: la visione della poesia come Commedia, ovvero, in termini moderni, come «polittico» in grado di abbracciare tempi e spazi plurimi e diversissimi.
Giorgio Linguaglossa
15 giugno 2019 alle 17:04
Scrive Alfonso Berardinelli nel libro Poesia non poesia, Einaudi, 2008:
«La poesia in una certa misura cambia storicamente (ammettiamo per un momento che la storia esista), cioè non è sempre uguale a se stessa e va quindi descritta di nuovo quasi a ogni generazione (o epoca o periodo). Compito specifico dell’attività critica è appunto descrivere, registrare e valutare questi cambiamenti.
Ma d’altra parte la poesia conserva una sua identità di principio, se non di fatto. È interessante notare che almeno da un quarto di secolo la continuità fra oggi e ieri sembri stare a cuore agli autori più di quanto avvenisse (per esempio) negli anni sessanta, decennio apocalittico e presuntivamente rivoluzionario, quando la nozione, l’identità, la tradizione della poesia venivano contestate e sottoposte a un giudizio radicale in termini di critica marxista (e avanguardista) della società borghese».
Il ragionamento salomonico di Berardinelli è qui vistosamente ironico verso questi anni di stagnazione e recessione del pensiero critico sulla poesia, il critico romano dice cose ovvie, tanto ovvie da non poter essere confutate: che oggi nessuno o quasi si occupa di critica, anzi, la stessa parola è caduta in disuso e in dispregio. Io di solito se qualcuno mi chiama critico, interloquisco subito dicendo che non sono un critico, ma un calzolaio della poesia e che i miei strumenti sono i chiodi e il martello, oltre, naturalmente, l’incudine. Anzi, lo strumento più importante è l’incudine, lo strumento immobile contro il quale il martello può battere.
Sembra incredibile lo stupore e la meraviglia di quanti dinanzi alla nuova ontologia estetica gridano metempsicosi e apocatastasi, questo fattore dovrebbe farci venire l’orticaria per la stupida ottusità che rivela una mentalità che manifesta orrore verso un pensiero critico dell’esistente. Come spiegare a questi signori che la nuova ontologia estetica non è nulla di definito ma è un percorso, un cammino in una certa direzione…
Ho saputo che è corsa voce a Milano e in certi ambienti romani, di non dare troppo credito alla ricerca intrapresa dall’Ombra, di non farne parola o menzione per nessun motivo, di erigere una barriera di silenzio. Buffo vero? Soprattutto meschino oltre che auto liquidatorio, ma che rivela bene con che tipo di personaggi abbiamo a che fare oggi, con quelle persone che hanno le mani in pasta… come tanti Lotti che maneggiano e maneggiano al CSM per le prebende e le nomine politiche…
Per fortuna questa sembra essere la tegola definitiva per Renzi e i renziani i quali adesso possono andarsi a fondare un partitino personale…
Joseph Cornell (1903-1972), scatola delle ombre
.
Questa poesia del ’93 è un mirabile esempio di poesia rimasta senza parole:
Predrag Bjelošević
Аhi, sonetto
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(93.)