Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea. Gli Anni Dieci
Nella poesia degli Anni Dieci è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici. E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico. A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.
Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.
Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.
Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.
Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione stilistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie? Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.
Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!
Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono oggi in pieno post-moderno le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?
Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico del modello letterario mitopoietico.
Ma chi non è d’accordo sullo scrivere una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di una struttura critica, di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Roberto Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.
Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «identità», di «soggetto», di «irriconoscibilità» della scrittura poetica implica porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione». Il discorso poetico del prossimo futuro dovrà passare necessariamente attraverso la cruna dell’ago della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento.*
* da Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013.
Giorgio Linguaglossa
dalla raccolta inedita Una giraffa seduta sul sofà chiede un Campari
Il Signor K. abita la frattura metafisica della presenza
«La legge morale dentro di me le stelle sopra di me»
dice il filosofo Emanuele Kant
che passeggia sotto braccio con il Divino Marchese
per le vie di Königsberg
Il nastro di Möebius litiga con lo stadio dello specchio
di Lacan
interviene Magritte che si sta radendo la barba
nell’anti bagno della casa con terrazzo di Edward Hopper
“Cape Cod Morning” del 1950
dice che ha un orinatoio di ricambio
per il bagno
Warhol ne fa una gif e ci mette la faccina di Marilyn
che sorride
Una figura toroidale fa un tuffo nel mare
e salva Marcel Duchamp che sta per affogare
con la “Ruota di bicicletta” versione originale del 1913
interviene il commissario Ingravallo
che mette le cose a posto
Però le fanfare disobbediscono al direttore d’orchestra von Karajan
assumono un anti dolorifico dopo cena
e strombazzano
«Una partita di calcio non è solo una partita di calcio:
vedi Italia-Germania 4 a 3», dice il pittore francese
al poeta Gino Rago
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti,
Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto
Wanda Osiris è in colloquio con il Signor K.
il quale è in smoking e in smartworking
Il Signor K. abita la frattura metafisica della presenza
ha sposato un punto interrogativo
Il dentifricio KGB disconosce il collagene e se ne tiene alla larga
ma il colluttorio sì che lo conosce
Un Signore no-mask entra nel supermercato “Emmepiù”
di via Gabriello Chiabrera, spara un colpo e dice:
«Dio c’è»
Il gorilla Mobutu dello zoo si Atlanta è risultato positivo al Covid
dopo aver sniffato della polverina bianca
Il poeta Pavel Řezníček si è messo davanti all’Hotel Kempinski
di Praga
con un altoparlante ed ha arringato la folla
perché non usa la brillantina Linetti
Il gattaccio Behemoth sortito fuori dal romanzo di Bulgakov
saltella sui tasti del pianoforte a coda
di proprietà del Mago Woland
Preferisce così, non parla mai alle parole
perché dice che scavano dei cunicoli nel sotto pavimento
dice che preferisce le ostriche
infatti, le parole preferiscono andare a farsi friggere
ibidem le parole nere ibidem le parole bianche
Marie Laure Colasson, Pannello bidimensionale su legno, 40×40 cm 2021
.
Infrangere l’ordine del discorso del sensorio e del suasorio costituisce un imperativo kantiano per un poeta kitchen
Mimmo Pugliese
È mercoledì
Sui gradini della pioggia
la lucertola abbandona il quadro
sul tavolo twitta la bustina del the
Ha labbra antiche l’albero maestro
genitore di anfetamine
in vendita al mercato nero di Baku
I ricami delle farfalle
aumentano il contorno occhi degli zaini
domani le ore si conteranno al contrario di oggi
I bermuda a righe che hai comprato
fumano sigari cubani e la neve
cade solo davanti alla tua finestra
Sembra la luna crescente
la cicatrice sul lago
quando si chiudono gli ombrelloni
La periferia del deserto
è una barca antropomorfa
scodella di sete e tamburi
È alto un palmo
il giardino dove giochi
la lingua trasuda tutti i sensi.
REBUS
Ventimiglia
Famiglia
Bottiglia
Pastiglia
Scompiglia
Briglia
Conchiglia
Ciglia
Somiglia
Poltiglia
Biglia
Siviglia
Artiglia
Maniglia
Figlia
Guerriglia
Impiglia
Triglia
Meraviglia
Miglia
Fanghiglia
Ciniglia
Piglia
Flottiglia
Coniglia
Marsiglia
Consiglia
Pariglia
Quadriglia
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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.
Nella «poesia» di Mimmo Pugliese non si rinviene davvero niente di ciò che pensavamo fosse una «poesia» tradizionale: qui è tutto crollato, tutti i ponti del discorso articolato sono caduti: i verbi con le loro declinazioni, le preposizioni, le articolazioni. Quello che resta sono una serie di costoni, di spezzoni, pezzi di architravi, schegge di colonne diroccate: parole scomposte e de-composte che non conservano più nulla di umano, dove non si rinviene alcun «pathos dell’autenticità», della lingua come «casa dell’essere» non è rimasto niente. Il che significa che qui valgono altre categorie ermeneutiche e valoriali, che ci troviamo nel bel mezzo di un sisma del 19° della scala Mercalli di cui la poesia maggioritaria e securitaria non si è accorta, direi che la pseudo-poesia kitchen di Mimmo Pugliese è la presa di cognizione di questo macroscopico dato di fatto.
Davvero, Pugliese ha celebrato il funerale della poesia con rime sparse e alternate. Adesso, non è rimasto più nulla di quello che eravamo abituati a considerare come poesia del novecento o, come dicevamo con un eufemismo, poesia dell’umanesimo. la fine della metafisica ha portato con sé lo sgretolamento di tutto ciò che apparteneva un tempo lontano a quella metafisica.
Storicamente, precipuo della moderna opera di finzione è lo sgretolarsi della possibilità di accedere al senso dei testi. Il carattere di finzione dei testi kitchen, la loro non-referenzialità ci dice che l’opera storicamente decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato, ogni senso. La tradizionale forma di pensiero pensava che non potendo essere letterale, il testo possiede soltanto la pluralità delle letture come unica lettura; così l’unità di senso diventa frattura, abisso del senso e del sensato, la figuratività ha il sopravvento rispetto alla referenzialità, che tenderà a scomparire, ad inabissarsi. Da Borges in poi la letteratura contemporanea si presta all’idea di perdita del senso e alla apertura di letture molteplici; essa non può più porsi come modello del logos o norma generale. L’anti-referenzialismo dà troppo credito al suo opposto, lo suppone vero; occorre uscire al più presto dallo schema referenzialismo-antireferenzialismo. Identificando la significazione con l’attribuzione di un referente e, parallelamente, la non-significazione con la non-referenzialità, l’opera di finzione storicamente si sottrae per forza di cose alla questione del senso e del sensorio e del sensato. Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere… Chiedo, quale «Potere della Parola» può avere la «parola» in un contesto kitchen? E rispondo: Nessuno.
Scrive Gianni Vattimo:
«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».
Ho citato apposta Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Ma parlare di «nuova ontologia estetica» implica e significa una accentuazione del sostantivo, noi sostantivizziamo il sostantivo e, parlando di ontologia estetica mettiamo in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «ri-appropriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto e che più ci piace, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare e del nostro essere, rimettere in discussione le categorie su cui si regge la ontologia novecentesca implica la costruzione di altre e diverse categorie retoriche.
In un mondo in cui «il progresso diventa routine» e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto la dis-propriazione di quel mondo e la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità». La poesia che tentiamo di fare si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, ovvero, l’allegria dell’inautenticità.
(Giorgio Linguaglossa)
1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11