Archivi del mese: ottobre 2015

IL CILIEGIO FIORITO NEI WAKA DELL’ANTOLOGIA  KOKINSHU a cura di Steven Grieco (Prima traduzione in italiano di 27 Waka)

Sakurabana

Sakurabana ciliegi in fiore in una via di Tokio

  1. Ôtomo no Koronushi – Kokinshû 88

harusame no furu wa namida ka sakurabana chiru wo oshimanu hito shi nakereba

Soggetto sconosciuto:

le piogge primaverili che cadono sono lacrime, forse?

volteggiando i fiori di ciliegio scompaiono

e non c’è uomo che non li rimpiangerà

Il ciliegio è l’albero nazionale del Giappone, nonché essenza spontanea nelle sue isole. Dalla più antica raccolta di poesie, la Man’yoshu (7°-9° sec.), fino ai giorni nostri, il ciliegio ha esercitato un fascino profondo sulla psiche del popolo giapponese.

Assistere alla sua fioritura è una esperienza unica. Gli alberi sono di solito molto vecchi e di grandi dimensioni: i fiori sembrano cadere dall’alto come neve dal cielo invernale: l’uomo che lo guarda si rende conto di percepire sempre e soltanto una parte di questo avvenimento, che è troppo vasto perché egli possa coglierlo nella sua totalità.

Ancora oggi ogni giapponese, al cospetto del ciliegio in fiore, ritrova un senso di solidarietà con i suoi concittadini, riconoscendo in quest’albero il simbolo di un popolo unito sotto la guida dell’imperatore.

Si dice che in antico, davanti all’ingresso principale del palazzo imperiale a Nara crescevano un mandarino e un susino. Nell’8° secolo un incendio distrusse il palazzo, che fu ricostruito nello stesso luogo. Furono ripiantati gli alberi davanti all’ingresso, il mandarino fu sostituito da un ciliegio sostituisce.

La Kokinshû, “Raccolta di poesie moderne e antiche”, la prima antologia imperiale di poesia, fu compilata all’inizio del 10° secolo. In essa troviamo un gruppo di poesie dedicato al fiore di ciliegio. Altrove nell’antologia troviamo waka appartenenti a questo stesso genere, talvolta riuniti insieme, talaltra in ordine sparso.

Il termine sakura, “albero di ciliegio”, ha la sua radice in saku, “fiorire”. Già nella lingua giapponese troviamo una indicazione che il fiore di ciliegio è il fiore per eccellenza. hana, termine generico per “fiore”, automaticamente evoca il fiore di ciliegio, salvo indicazione diversa nel testo.

La lingua giapponese inoltre distingue chiru, “cadere o disperdersi di fiori”, da furu, “cadere di neve o pioggia”. chiru è termine intimamente connesso a sakura. Entrambi evocano l’impermanenza della vita.

Sakurabana a Tokyo

Sakurabana a Tokyo

Ki no Tsurayuki (872-945), fu uno dei massimi poeti dell’epoca Heian, nonché curatore in capo della antologia Kokin. Uno studio attento dei waka sul ciliegio fiorito presenti in essa, sembra indicare  che Tsurayuki e i poeti suoi contemporanei avessero seguito alcune precise “regole” nel trattare questo tema in poesia. Ne consegue che l’immagine del ciliegio fiorito, sia nella Kokinshû che nelle raccolte private di Tsurayuki, abbia una certa felice coerenza e uniformità.

In breve:

Il ciliegio in fiore si contempla preferibilmente nella piena luce del giorno. L’albero e il terreno alla base del suo tronco (tokoro) sono immersi in chiarissima, trasognata ombra (kage). Un numero incontabile di fiori scende in una volta, entro questo spazio inviolato che sembra esistere altrove dal mondo. L’albero stesso è legato indissolubilmente e per sempre al posto ove affonda le radici. Nel momento più intenso della fioritura, il vento è assente: tutto è fermo, l’attenzione dello spettatore interamente concentrata su questo avvenimento.

Più di due terzi delle composizioni sul ciliegio fiorito presenti nella Kokinshû descrivono solo questo spettacolo. Sono in quel caso anche rari riferimenti espliciti al profumo dei fiori.

  1. Ki no Tomonori – Kokinshû 84

hisa kata no hikari nodokeki haru no hi ni shizu gokoro naku hana no chiru ran

Cantato alla vista dei fiori che cadono:

in questo giorno traslucido di primavera

ah, scendono i fiori

con l’anima sempre in tumulto

  1. Ariwara no Narihira – Kokinshû 53

Yo no naka ni   taete sakura no   nakari seba   haru no kokoro wa   nodo kekara mashi

Vide i fiori di ciliegio al palazzo Nagisa e cantò:

non fosse il ciliegio mai presente in questo mondo

quanto spensierato sarebbe l’animo di primavera

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Raccolta privata

okifushite oshimu kai naku utsutsu ni mo yume ni mo hana no chiru wo ikan sen

Uno di sei componimenti:

che io stia in piedi o coricato, in sogno o nella realtà—

come posso fare perché smettano, i fiori che scendono dappertutto

Sakurabana

Sakurabana

  1. Anonimo – Kokinshû 72

kono sato ni tabine si nu beshi sakura bana chiri no magai ni ieji wasurete

Soggetto sconosciuto:

in questo villaggio dovrò passar la notte – tra i fiori di ciliegio

volteggiando profusi, ho smarrito la via di casa

(Non possiamo escludere in questo waka che la “confusione” nasca dall’amore per una donna.)

Il poeta Heian si identifica con il ciliegio fiorito fino a perdervisi. Se è così, allora i fiori che scendono non possono non simboleggiare l’anima dell’uomo, incostante, pronta a smarrirsi per un nonnulla: il loro incessante svariare, e il senso di inquietudine che questo provoca in lui, sono specchio l’uno dell’altro.

  1. Ki no Tsurayuki – Antologia privata

sakurabana chiri ni chiru to mo miru hito no koromo nuru beki yuki nara naku ni

Uno di 21 waka su un pannello dipinto nel palazzo del defunto imperatore abdicatario Teiji:

i fiori di ciliegio scendono e scendono

ma all’uomo che se ne incanta non possono

diventar neve, né bagnargli la veste

  1. Principe Koretaka – Kokinshû 74

sakurabana chiraba chirinamu chirazu tote furusato hito mo kite mimo nakuni

Cantò questa composizione e la inviò al Prete Henjô:

scendete se dovete scendere, fiori di ciliegio:

se anche non scendeste, il mio amico d’un tempo

non verrebbe più ad ammirarvi

La fioritura del ciliegio toglie allo spettatore ogni senso temporale e di orientamento fisico. Egli si chiede soprattutto come i petali cadono. La domanda “da dove? verso dove?” viene chiesta di rado: se una risposta c’è, questa viene non dall’albero, ma dal vento o dalla primavera, che spesso sembrano esseri senzienti. La sensazione di sovrabbondanza è qui un fattore chiave.

Come l’uomo ignora il suo destino, così anche l’albero e i suoi fiori ignorano il proprio. Nella antologia Kokin non troviamo esempi di waka che descrivono la caduta di uno, o pochi petali sparsi. Fosse così, ciascun petalo acquisterebbe individualità e direzione, avrebbe dunque anche finalità temporale, ed è questo che i poeti della Kokinshû in genere vollero evitare.

Il primo dei due autori di questo lavoro ricorda bene come, da ragazzo, tornando a casa da scuola in aprile (il mese in cui i ciliegi fioriscono in Giappone) gli capitava di trovare un petalo di fiore sulla tesa del berretto, e forse qualche altro sulla cartella. È un fatto curioso che tale esperienza, vissuta e rivissuta da tutti i giapponesi ieri come oggi, non sia stata descritta in un waka Heian.

Il poeta-spettatore dunque non si rende conto di quando la fioritura è iniziata, né quando finirà; da dove provengano i petali, né dove andranno: il suo sguardo umano è fisso su questo succedere, gli occhi immobili in una contemplazione estatica che annulla il suo “io”, così come i petali non sono singoli, bensì collettività.

Da qui anche le similitudini, “neve” e “nuvola”.

People look at cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo's cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan's weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. TOPSHOTS AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

People look at cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo’s cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan’s weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. TOPSHOTS AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

  1. Ki no Tomonori – Kokinshû 57

iro mo ka mo onaji mukashi ni  sakura me do toshi furu hito zo aratamari keru

Sotto l’albero, piangendo la sua vecchiaia, cantò:

immutabili lo splendore e il profumo

del ciliegio fiorito – così,

eternamente, l’uomo invecchia

  1. Monaco Souku – Kokinshû 75

sakura  chiru hana no tokoro wa haru nagara yuki zo furi tsutsu kie gate ni suru

Cantato a Urin-in, mentre cade il fiore di ciliegio:

in questo luogo, dove svariano i fiori di ciliegio, è come

una neve di primavera che cade fitta e non si scioglie mai

  1. Sugano no Takayo – Kokinshû 81

eda yori mo ada no chirinishi hana nareba ochite mo mizu no awa to koso nare

Cantato nel palazzo del Principe ereditario, vedendo i fiori di ciliegio cadere in un canale e sparire:

effimeri fiori, che dal ramo scendono lievi

e sull’acqua fluttuando come schiuma svaniscono

  1. Ki no Tsurayuki – Private Waka Anthology

chiri gata no hana miru tokiwa fuyu naranu / waga koromode ni yuki zo furi keru

mentre osservo i petali scendere, in questa stagione,

quando la mia veste non è di stoffa invernale,

mi meraviglio, di questa neve che cade

Ducks swim on the river under cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo's cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan's weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

Ducks swim on the river under cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo’s cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan’s weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

Già nei waka di epoca più antica, il poeta viveva lo sfiorire del ciliegio con un senso di rammarico e rimpianto:

  1. Ya Kamochi – Man’yoshû 4419

tatsuta yama mitsutsu koekoshi sakurabana / chirika suginamu ware kaeru to ni

Guardando in soliitudine i fiori di ciliegio sul monte Tatsuta, con tristezza cantò questo waka:

i ciliegi di Tatsutayama che ammirai lassù in pieno fiore –

saranno sfioriti e spogli prima ch’io potrò tornarvi?

Così anche per la lontananza fisica da quello spettacolo, che allora ha tendenza a trasformarsi in quadro immaginato o sognato.

  1. Ki no Aritomo – Kokinshû 66

sakura iro ni koromo wa fukaku somete kimu hana no chiri namu nochi no katami ni

Soggetto non conosciuto:

tingerò la mia veste del colore intenso dei fiori di ciliegio,

perché io li ricordi dopo che saranno caduti e dispersi

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Raccolta privata

utsutsu niwa sara ni mo iwaji sakura bana yume nimo chiru to mie ba uka ran

Una di 6 composizioni:

quanto alla realtà, di più non posso dire: ma i petali cadono

anche in sogno, allora perché questa malinconia?

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 117

yadori shite haru no yamabe ni netaru yo wa yume no uchi ni mo hana zo chirikeru

Cantato durante un pellegrinaggio ad un tempio montano:

in primavera, soggiornando ai piedi d’un monte

dormii la notte, e nel mio profondo sognare

i fiori scendevano senza posa

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Ki no Tsurayuki allude nel titolo a un viaggio che egli fece a un tempio buddista vicino alla Capitale per compiere esercizi spirituali. Si dice che egli compose questo waka perché gli fu negata la visione del Buddha. Il waka si trova nella Sezione “Primavera” della Kokinshû, dedicato a composizioni su diversi tipi di fiori, e non contiene un riferimento specifico al fiore di ciliegio: ciò malgrado, vi scorgiamo un aspetto caratteristico di quei waka: “l’eco visiva”, ossia il riverbero psichico che il ciliegio fiorito provoca nello spettatore, e che si prolunga ben oltre l’evento reale – un po’ come, dopo lunghe ore di guida, rivedere la strada durante il sonno notturno.

Abbiamo visto che nella fase iniziale della fioritura, il vento è del tutto assente. Esso si mette in gioco non appena l’albero inizia a sfiorire: diventa anzi l’agente di questo cambiamento, affrettando con la sua giocosa irruzione questo processo irreversibile:

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Kokinshû 86

yuki to nomi furu dani aru wo sakura bana ikani chire kato kaze no fuku ramu

Questo cantò, guardando cadere i fiori di ciliegio:

impeccabili, come neve scendono, i fiori di ciliegio –

perché allora soffia il vento: per vedere come si disperdono?

  1. Ki no Tsurayuki – Raccolta privata

kaze fukeba kata mo sadamezu chiru hana wo izu kata e yuku haru tokawa mimu

In marzo-aprile cadono i fiori:

contemplando nel soffio gli aerei petali scender smemorati,

mi chiedo – la primavera, dove è andata?

  1. Monaco Sosei – Kokinshû 76

hana chirasu kaze no yadori wa dareka shiru ware ni oshieyo yukite urami mu

Cantato mentre guardava i ciliegi montani in fiore:

chi sa dove sta il vento che disperde i fiori di ciliegio –

venissi a saperlo andrei da lui a lagnarmene

Blossoming Cherry trees Kyoto

Blossoming Cherry trees Kyoto

E’ palpabile la somiglianza del waka n. 13 con questo:

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 87

yama takami mi tsutsu waga koshi sakura bana kaze wa kokoro ni makasu bera nari

Dopo esser salito sul monte Hiei, tornando a casa:

già lontano dall’alto monte dei ciliegi, ancora vedo

come il vento giocava con quei turbini fioriti

In questo componimento, dopo aver superato il luogo dei ciliegi selvatici, il poeta-uomo può solo serbare il ricordo di quella fioritura, desiderarla così intensamente finché non ritorna a lui come pura immagine mentale. Così anche:

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 89

sakura bana chiri nuru kaze no nagori ni ha mizu naki sora ni nami zo tachi keru

Componimento inserito nel concorso di poesia Teiji-in:

ah, fiori di ciliegio, caduti al vento – un mero alito ricorda

le vostre onde, il loro turbinio al cielo senz’acqua

In questa celebratissima composizione, Tsurayuki raggiunge forse il più alto grado espressivo del waka sul ciliegio fiorito. Sakura bana chiri nuru, “il ciliegio è sfiorito”, contiene un’eco, un vibrare del tempo appena trascorso: alla contemplazione dell’albero sfiorito segue il ricordo della sua fioritura, che a sua volta sprigiona una fioritura virtuale molto forte. Come vediamo qui e nelle composizioni affini, l’immagine della fioritura tende a trasferirsi in una dimensione virtuale, immaginata, dovuta al desiderio ardente del poeta di averla sempre davanti agli occhi.

  1. Dama Ise (877-942) – Shuishû 49

chiru chirazu kikamahoshiki wo furusato no hana mite kaeru hito mo awanan

Su un pannello pieghevole di Sai-in si vede una persona camminare in montagna:

cadono, non cadono… chiederei a colui che l’ha visti,

e ora torna dalla mia remota patria dei fiori

  1. Monaco Jien (1155-1225) – Shinkokinshû

chiru chirazu hito mo tazune nu furusato no tsuyu keki hana ni haru kaze zo fuku

cadono, non cadono… che gliene importa

a colui che non è mai stato al mio antico paese

dove un alito primaverile spira tra umidi petali

Abbiamo citato questo waka del tardo periodo Heian, perché esprime in forma matura un sentire che già serpeggiava qua e là per la Kokinshû: il mondo in esso evocato si può visitare solo con lo spirito che si avventura fuori dal corpo. Nell’immaginario giapponese, il momento in cui il fiore viene guardato, esso comincia ad appassire: lo sguardo dell’uomo lo porta nel tempo degli uomini, che ha un termine. Qui i fiori rimangono inviolati da ogni sguardo, così possono fiorire in eterno. Tsurayuki aveva già previsto questa visione, che verrà spesso impiegata nella Shinkokinshû, l’ultima grande antologia del periodo Heian.

Si è detto che i giapponesi, a differenza dei cinesi, non ebbero mai la visione dell’eternità. Alcuni dei waka presentati qui forse contraddicono questo luogo comune.

L’immagine idealizzata del ciliegio fiorito nel waka Heian, è totalità legata al topos, immagine racchiusa entro la sua cornice, un po’ come la palla di vetro che nevica quando agitata. I poeti della Kokinshû evitarono in genere anche di descrivere l’atto di staccare un ramo fiorito dal ciliegio, gesto tipico per tutti gli altri alberi e arbusti fioriti, in particolare per il susino. Perché ne avrebbero mutilato l’interezza? Il desiderio sicuramente c’era:

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

  1. Anonimo – Kokinshû 358

yama takami kumoi ni miyuru sakura bana kokoro no yukite oranu hi zo naki

Composto su pannelli pieghevoli delle 4 stagioni, per il 40° compleanno del Generale Sadakuni Fujiwara:

sulle alte montagne, come fra le nuvole fioriscono i ciliegi

non passa giorno che il cuore non salga lassù a coglierne un ramo

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 58

nare shi kamo tomete ori tsuru harugasumi tachi kakusu ram yama no sakura wo

Cantato su un ramo di ciliegio fiorito:

chi trovò questo ramo e lo staccò sui monti lassù,

dove la foschia di primavera nasconde i ciliegi in pieno fiore?

Duska Vhrovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Nunzia Pasturi Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Duska Vhrovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Rita Mellace Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Ise, poetessa notoriamente iconoclasta, poté però, a quanto pare, permettersi di spostare la “cornice” del ciliegio a suo piacimento, o almeno di formulare ben due volte questo desiderio in poesia:

  1. Dama Ise – Antologia privata

kaki goshi ni miredo mo akazu sakurabana ne nagara kaze no fukimo kosanamu

Guardando il ciliegio in fiore del suo vicino, gli fece recapitare questa missiva:

non sazia ancora di mirare il fiorito ciliegio di là dalla siepe

come vorrei che un vento me lo soffiasse qui con tutte le radici!

  1. Dama Ise – Antologia privata

kaki goshi ni chirikuru sakura wo miru yoriwa negome ni kaze no fuki mo kosa namu

dalla siepe mi giungono volteggiando quei fiori mirabili –

meglio una raffica che sradichi il ciliegio e me lo porti tutto intero!

Tsurayuki e i poeti della Kokinshû innalzarono il waka del ciliegio fiorito all’apice della perfezione formale ed estetica.

  1. Ki no Tsurayuki – Shinkokinshû

hana no ka ni koromo wa fukaku nari ni keri ko no shita kage no kaze no ma ni ma ni

dei fiori odorosi è più profonda la mia veste

sotto l’ombra chiarissima di quest’albero,

quando il vento è un alito, un alito appena

Nota

il presente testo è stato pubblicato in inglese nel 2006 presso “Open space” in India

 Questo scritto è frutto di una collaborazione, e come tutti i lavori fatti in tandem, anche della fusione di due menti. Il primo dei due autori, che non desidera essere nominato, ha contribuito con la sua geniale visione del waka Heian e le sue approfondite, decennali ricerche in materia. Il secondo, Steven Grieco, ha curato il respiro, gli orizzonti e la stesura di quest’opera, nonché le traduzioni dei singoli waka.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.

protokavi@gmail.com

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Noemi Paolini Giachery: Note sull’arrembaggio del “new realism” dibattito iniziato da Maurizio Ferraris (Parte II) Il problema dell’Ontologia, Il Progresso, l’Illuminismo, Socrate, La vita individuale, gli oggetti naturali, gli oggetti sociali, l’esperimento della ciabatta, Il suicidio della filosofia, etc.

de chirico piazza

de chirico piazza

Sull’argomento del «new realism» vedi su questo blog:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/10/28/noemi-paolini-giachery-note-sullarrembaggio-del-new-realism-dibattito-iniziato-da-maurizio-ferraris-parte-i/

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/04/02/giorgio-linguaglossa-il-suicidio-della-filosofia-un-appunto-per-il-nuovo-realismo-negativo/

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/19/umberto-eco-il-realismo-minimo-il-dibattito-sulla-fine-del-postmoderno-non-tutto-e-interpretazione/

Il dibattito filosofico sul «new realism» è stato avviato da Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del Nuovo Realismo» (Laterza, pagine 126, € 15).

Sandro Modeo nell’articolo Il suicidio della filosofia il «new realism», contenuto ne “La Lettura” (supplemento Corriere della Sera) 1 aprile 2012 e pubblicato in stralci su questo blog, richiama la discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del Nuovo Realismo) e la serie di convegni sul «new realism»,  rileva come ciò potrebbe indurre qualcuno a pensare che il «reale»  sia finalmente rientrato nel discorso filosofico.

 “La sua, scrive Modeo,  eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti-illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa”.

de chirico l'eterno ritorno

de chirico l’eterno ritorno

(da  un diario estivo del 2011) di Noemi Paolini Giachery

Una volta enunciata la scelta realistica, presto emergono le “novità” specifiche del pensiero di Ferraris. Condannata l’ importanza concessa alla gnoseologia dalla analitica ricerca kantiana, ci si prepara ad illustrare una «filosofia della percezione» . La percezione costituirebbe infatti l’approccio più diretto alla realtà delle cose, il più capace di verificare l’ «inemendabilità» dell’oggetto reale, e all’autore basta questo tipo di verifica per compiacersi di aver rilanciato «l’ontologia come scienza dell’essere, della molteplicità degli oggetti che – dalla percezione alla società – [strano accostamento che troverà forse una strana spiegazione] costituiscono un ambito di analisi non necessariamente subordinato alle scienze della natura». Kant, anzi, avrebbe fatto male a rinunciare « al nome risonante di ontologia» per la conoscenza umana.

Sulla percezione si fonderebbero «Ontologia, Critica, Illuminismo, […], tre parole chiave che vogliono reagire ad altrettante fallacie del postmoderno, la fallacia dell’essere sapere, la fallacia dell’accertare accettare e la fallacia del sapere potere», «Ontologia  significa semplicemente: il mondo esiste e ha le sue leggi e le fa rispettare». Ammette, l’autore, che, «per sapere  che l’acqua è H2O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie». Più importante sarebbe  però verificare, «l’esperienza non scientifica , [che] l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo sappia indipendentemente da linguaggi, schemi, categorie» (pp.28-30)  (schemi concettuali a cui però devo ricorrere,  direi, non solo per scoprire ed enunciare la formula chimica, ma anche per usare la parola acqua o la parola bagna, terza persona del presente di bagnare).

La camicia gialla (dora maar), 1939 di picasso

La camicia gialla (dora maar), 1939 di picasso

Critica significa che accertare non corrisponde necessariamente ad accettare, perché «al realista è aperta la possibilità di criticare (purché lo voglia) e di trasformare (purché lo possa), in forza dello stesso banale motivo per cui la diagnosi è la premessa della terapia». E qui, mancando una qualsiasi analisi gnoseologica che vada oltre l’esperienza sensoriale  per recuperare, giustificare e raccordare la facoltà razionale e altre possibili facoltà conoscitive e pratiche umane, il salto apodittico fa un certo effetto al lettore. Per esempio, il problema, essenziale per un vero filosofo, del libero arbitrio, sollevato dal riferimento al “volere”, non è neppure sfiorato.

Ma a questo studioso sta a cuore solo la prassi politica e sceglie una visione filosofica solo se la ritiene politicamente «emancipativa». Così, arrivato alla terza chiave, l’Illuminismo realistico, si limita ad annunciare trionfalisticamente  il ritorno all’idea di progresso storico-politico,  finalmente usciti dalle tenebre (dal «cuore di tenebra») dell’anti-illuminismo.  Perché l’illuminismo, «come diceva Kant [qui riabilitato], è  “osare sapere” e  segna “l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso”».

Si apre ora il secondo capitolo, Realismo. Cose che esistono dall’inizio del mondo, con la contestazione di una concezione antirealista  «“ermeneutica” o “kantiana”» secondo la quale «anche il fatto che sulla Luna si trovino montagne alte più di 4000 metri non sarebbe indipendente dai nostri schemi concettuali o anche semplicemente dalle parole che usiamo». L’autore ha qui ripreso il suo esempio da  una domanda retorica, che ritengo interpretata impropriamente, di Diego Marconi in un articolo pubblicato su Repubblica del 3 dicembre 2011: «Davvero potremmo dire che ci sono montagne sulla luna se non possedessimo i concetti o le parole “montagna”, “luna” ecc.? ».

Nell’articolo, molto equilibrato, di Marconi, che riconosce le ragioni delle due diverse «intuizioni», la realistica e l’ermeneutica, che vorrebbe in qualche modo conciliare, si afferma semplicemente che per dire,  cioè per trasformare in parole il dato esterno,  e non per creare lo stesso “fatto” che si trovino sulla Luna queste che noi chiamiamo “montagne”, ricorriamo a quegli schemi conoscitivi che io stessa riconoscevo filtro necessario per parlare di acqua e di bagnato. (In quel  contesto il riferimento, non polemico, a Kant era motivato).

Picasso Buste de femme au chapeau (Dora Maar) 1939

Picasso Buste de femme au chapeau (Dora Maar) 1939

Siamo a questo punto un po’ confusi ma ci illuminerà, alle pagine 39-43, l’«esperimento della ciabatta» (l’oggetto scelto, umile e casereccio, risponde a una volontà,  che chiamerei populista, di dare una veste democraticamente affabile e popolare al discorso filosofico). L’esempio è inserito nel paragrafo Uomini e notiamo che del soggetto uomo qui si parla solo al plurale. Cominciamo forse a capire quella strana associazione di «percezione» e di «società» ricordando che, come ho premesso, anche certo decostruzionismo, chiamato qui «costruzionismo» perché pretenderebbe di costruire la realtà,  partiva da una apodittica ammissione dell’esistenza non del soggetto individuale  ma della società che crea il mondo.

Qui si dimostra all’ avversario postmoderno che una ciabatta su un tappeto la vede il singolo individuo ma la vede anche un altro che ubbidisce alla richiesta di spostarla, e la vede anche un cane che, pur non usando un linguaggio umano, ubbidisce alla stessa richiesta, e la percepisce anche il verme che decide (anche lui si suppone dotato di libero arbitrio) se aggirarla o passarci sopra. La ciabatta dunque c’è, esiste, è reale.

Il lettore ingenuo può domandarsi: ma non era più semplice e anche più serio, dovendo capire se esiste davvero ciò che è fuori di noi, cominciare a chiedersi se esiste davvero l’altro uomo? Dopo una risposta a questa domanda sarebbe superfluo chiedersi se esistono cane, verme e ciabatta. Ma il lettore ingenuo non ha capito ancora che  per molti postmoderni a cominciare da Derrida), e per lo stesso Ferraris, un a priori non messo in discussione è, o era, – ripeto ancora una volta – l’esistenza non del singolo uomo ma della società; per Derrida, addirittura (lo apprendo indirettamente dall’altro testo, già citato, di Ferraris) l’individuo non avrebbe dovuto neppure avere una qualsiasi definizione nominale perché questa poteva mettere in pericolo l’uguaglianza. Del suo ex maestro  Ferraris conserva, a fianco della sua personale rivendicazione della oggettività e autonomia del mondo naturale, l’ esclusivo riferimento, a proposito dell’uomo, alla dimensione collettiva e sociale e ciò perché, forse più ancora del maestro, finalizza la sua ricerca “filosofica” a risultati politici.

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Così nel suo panorama si distinguono nettamente gli «oggetti naturali» e gli «oggetti sociali»: autonomi e “inemendabili” i primi; dipendenti, i secondi, dalla società che li crea e li interpreta.

Ferraris contesta i movimenti filosofici che, dagli scettici a Cartesio a Hegel, hanno sminuito il valore conoscitivo dei sensi (che «possono ingannare»)  e conferisce invece «una peculiare valenza ontologica al recupero del valore dell’estetica come teoria della sensibilità, elaborando la teoria dell’inemendabilità». Non è però facile persuadersi che possa bastare bagnarsi e scottarsi o percepire un colore per dire di essere a conoscenza dell’essere. Può accontentarsi, sul momento, di questo la madre che prepara il bagnetto per il figlio misurandosi con il bagnare e con lo scottare, o anche l’autista arrivato al semaforo, o anche, e soprattutto, il pittore che prepara la sua tavolozza. Mi accorgo che sto mimando il tono leggero del mio autore, insieme nemico e amico. ma dovrei anche, spostandomi sul versante tragico, pensare a chi ha subito i danni degli incendi e delle inondazioni: in definitiva dovrei pensare al normale svolgimento della vita quotidiana, esperienza diversa dalla ricerca filosofica.

Ma chi è in cerca di una, sia pur approssimativa ma più profonda, verità fa bene a rendersi conto, per esempio, che dietro certe qualità c’è una  quantità e, se vuole andare oltre, che quella quantità forse è fatta di quanti. E che il suo stesso corpo, come quello di ogni membro della società (almeno così dice oggi la scienza) è forse fatto di quanti. E se ha un certo interesse per la filosofia è spiegabile che si domandi se questo universo di quanti ha qualche ragion d’essere, meccanica o finalistica, o d’altro genere, anche se su questo tema le ipotesi sono indimostrabili in termini razionali. Comunque una ricerca che, ragionevolmente, rinunciasse a porsi problemi che ritiene razionalmente insolubili dovrebbe chiamarsi, a mio parere, «pensiero debole».

Picasso-Dora-Maar

Picasso-Dora-Maar

E anche, direi, dovrebbe essere interessante per un ricercatore della verità il fatto che quelle sensazioni da cui siamo partiti entrano ogni volta in un singolare universo emotivo-conoscitivo che contrassegna ogni individuo, un universo unico e irripetibile che esiste anche se non è esteriormente registrato in ambito sociale. Un universo a cui io, per esempio, tengo particolarmente ma che mi sembra programmaticamente ignorato sia dai realisti, sia dai postmoderni, almeno da quelli in lizza nel discorso che seguiamo. (A questo punto vediamo che questo “pensiero forte” ma asettico non ha neppure l’intento di rinsanguare la vita riportandola sulla terra, come supponevo alla prima lettura).

Mi  sembra anche inevitabile che un vero filosofo non si limiti a esaltare il progresso ma cerchi un qualche fondamento per una idea non del tutto soggettiva e arbitraria di bene e di male, di giustizia e di ingiustizia, di moralità e di immoralità. E se risulta introvabile un  fondamento del genere (che non serviva, a dire il vero, al relativista Derrida per affermare una indecostruibile, assoluta — e di fatto  molto soggettiva  — idea di giustizia), il filosofo deve almeno render conto di questa aporia.

Ma l’idea di etica del nostro autore è molto particolare e lo scopriamo nella conclusione che trae, riferendosi a una situazione immaginata da Putnam. Quella di «uno scienziato pazzo [che] abbia messo dei cervelli [umani, suppongo] in una vasca e li alimenti artificialmente» dando loro «l’impressione di vivere in un mondo reale» in «situazioni che richiedono delle prese di posizione morale», e che le reazioni vadano dalla disonestà alla santità. Ferraris sostiene che «il solo pensiero non è sufficiente perché ci sia la morale e che questa incomincia nel momento in cui c’è un mondo esterno  che ci provoca e ci consente di compiere azioni, e non semplicemente di immaginarle». Fa notare che non si può comminare una pena detentiva in un processo alle intenzioni. Questo esempio dimostra che qui si confonde la morale con il diritto. Da un punto di vista morale, anche un invalido che non uccida chi vorrebbe uccidere solo perché ne è materialmente impedito non può essere certo arrestato ma, in un’etica evoluta e non utilitaristica è in difetto  anche nel caso in cui nessuno lo sappia, e non solo secondo un’idea confessionale di peccato. Ma questa ricerca che si definisce filosofica ha poca confidenza con l’interiorità dell’individuo in riferimento alla quale soltanto, a mio parere, si può parlare di morale. A proposito del cervello nella vasca si precisa a un certo punto, en passant,  che «nella fattispecie è stato fatto pensare», e qui finalmente emerge un problema che riguarda la responsabilità morale: quello del cosiddetto “libero arbitrio” cui più su ho accennato.  Il cervello nella vasca non era libero nelle sue scelte. E chi ci dice che anche i cervelli fuori della vasca non siano totalmente condizionati nelle loro scelte, apparentemente libere, da impulsi inavvertibili e incontrollabili? Questo sì è un problema serio anche se di difficile soluzione e da esso non può prescindere la riflessione etica.

Picasso. Ritratto di Dora Maar o Dora Maar seduta, olio su tela, cm. 92 x 65 particolare

Picasso. Ritratto di Dora Maar o Dora Maar seduta, olio su tela, cm. 92 x 65 particolare

Qui comincia un discorso per me arduo da seguire. Si imposta solennemente la netta distinzione tra gli «oggetti naturali» e gli «oggetti sociali»   (il lettore si domanda subito se lui è un oggetto naturale o un oggetto sociale). Gli oggetti naturali sono inemendabili e non costruiti dall’uomo. (Strano che tra i primi esempi vengano citati tavoli e sedie che, a mio parere, dimostrano una interazione tra le due oggettività). Gli oggetti sociali (e qui ritroviamo Derrida) sono determinati dai rapporti interpersonali; in principio è la promessa tra due persone e di lì si arriva alle scommesse, ai matrimoni, ai contratti, alle leggi, alle tasse, all’Iva,  al denaro, ai ruoli, alle istituzioni «che esistono solo perché noi crediamo che esistano». In questa lista ci sembra poco pertinente se non altro l’inclusione del denaro che esiste anche come oggetto materiale metallico o cartaceo ma diventa sociale solo attraverso l’interpretazione della sua funzione. Come le sedie e i tavolini, del resto, che diventano oggetti sociali  quando sono visti come supporti per sedere o per appoggiare qualche cosa, magari carte e contratti di affitto, quei contratti che esistono obiettivamente solo se sono registrati sulla carta o nella memoria. Anche registrati su una carta “inemendabile” per la percezione, sono emendabili, penso, perché possono essere stracciati o bruciati, ma un inemendabile albero non può essere bruciato o tagliato?

E qui sto entrando in un labirinto dal quale è difficile uscire. Mi sembra, tutto sommato, che il rapporto tra il sociale e il naturale sia più fluido e sfumato di quanto non appaia in questa schematizzazione. Perché l’uomo, una volta preso atto dell’esistenza della natura nella sua “inemendabilità” (parola che ci porta immediatamente sul piano della pratica ma vuole indicare una realtà esterna all’uomo di cui l’uomo non  può non riconoscere l’esistenza) opera nella natura e la trasforma attuando le sue intenzioni mentali e non è il solo essere a modificare la natura: penso ai nidi, ai termitai e alla compresenza di costruzioni materiali e di regole che vigono in società animali e i conti non mi tornano. Ferraris, del resto, non era portato, come Derrida, a considerare l’uomo  un animale un po’ più evoluto? E l’uomo stesso, in particolare per un realista, non è un oggetto naturale? Ma forse l’uomo, come singolo individuo, non esiste proprio: «La vita non esaminata non ha valore».

Picasso tete de femme (Portrait of Dora Maar)

Picasso tete de femme (Portrait of Dora Maar)

E in questo contesto ciò che caratterizza la vita individuale, specialmente come vita interiore, proprio non esiste. E mi domando come si possono esaltare, nella conclusione del libro, l’Illuminismo, il progresso democratico,  il libero pensiero quando finora l’uomo è comparso solo nelle sue funzioni collettive e indifferenziate. Un individuo  d’eccezione entra in scena alla fine: quel Socrate che a Nietzsche non piaceva. Ma Socrate è poco inquadrabile nel contesto di questa società indifferenziata  Socrate era un  “diverso” forse un po’ più di come erano “diversi” uno dall’altro i Trecento che lo hanno condannato. E ricordiamo a questo punto che il limite dell’Illuminismo era proprio il considerare poco le “differenze” tra gli uomini e tra le nazioni. Questa visione tutta esterna della società appiattisce l’umanità lasciando fuori tra l’altro la personale creatività artistica (nell’altro libro citato compariva almeno, tra gli «oggetti sociali», la poetica simbolista). Ma quel che è più grave è che resta fuori il dolore del mondo,  che è dolore di singoli individui, così come la gioia, l’amore, la paura, la morte, insomma resta fuori la vita. Emerge la speranza ma è una speranza solo politica.

È vero che una rivendicazione, a pagina 59, della differenza di questo nuovo realismo dal positivismo si fonda sul «rilancio della filosofia come ponte tra il mondo del senso comune, dei valori morali e delle opinioni e il mondo del sapere in generale (perché non c’è solo la fisica, ci sono anche il diritto, la storia, l’economia)». Ma resta ancora escluso dall’essere riconoscibile come tale ciò che appartiene alla singolarità dell’individuo.  Per non dire che nel discorso quel «ponte», per scarso interesse gnoseologico, resta solo un presupposto non spiegato.

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi

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Nazario Pardini SEI POESIE da Radici (2000), Laterza – “Ottobre”, “Lo stradone di scuola”, “Immagini”, “Il colore marrone della terra”, “Alla foce”, “Era l’estate” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

 Fayyum ritratto femminile (120-140 d.C.)

Fayyum ritratto femminile (120-140 d.C.)

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Ci sono autori di “città” e autori apolidi, autori “urbani” e autori di “campagna”, autori “nuovi” e autori “antichi”; possiamo dire che Nazario Pardini fa parte delle seconde serie, la sua è una appartenenza non solo geografica  o di storia della geografia quanto una appartenenza dell’anima ad un mondo «antico» che è scomparso, o in via di disparizione. Il suo è un canto ottobrino, autunnale ed estivo, si nutre dei colori dell’autunno e dell’estate, la sua è una poesia che poggia sulle sinestesie e su un endecasillabo dalla classica positura piuttosto che sulla riforma prosastica del verso che ha egemonizzato la poesia italiana del tardo Novecento e dei nostri giorni. Forse ha ragione Pardini: non c’è nulla di nuovo sotto il sole, esauritesi le avanguardie e le mode letterarie, è bene che la poesia ritorni ad essere un canto «antico» che ci parla delle nuvole e delle siepi «di tasso e di verbena», di «spighe» solari, di «barbagli», di «trifoglio reciso», di «cromatici oleandri», tutto un universo del paesaggio che sembra essere sprofondato nell’oblio. Ma non è così, e Nazario Pardini costruisce sopra questa certezza un castello di endecasillabi, una casa per abitarvi durante l’inverno. Del resto, la poesia è la casa dell’autenticità, almeno mi sembra che questa sia l’idea di Pardini, che non ci può essere autenticità senza una casa di parole, di «parole antiche», di parole usate, consumate e quindi «illustri». Poesia neoclassica, dunque, restauratrice di un mondo antico che sembrerebbe scomparso a giudicare dal modernismo ipermoderno di alcuni e dagli espressionismi che abbondano nella pratica di massa della poesia di altri. Ma Pardini va per conto suo, come i gamberi, cioè, all’indietro, ha lo sguardo rivolto al passato e la fedeltà della speranza rivolta al futuro. È un poeta stabilmente piantato nella «terra», nei suoi umori, nei suoi frutti e nei suoi fumi, che ci parla delle stagioni, come se la modernità fosse passata in un lampo, come se non esistesse o fosse superflua per le sorti dell’anima. Un poeta «antico», dunque, che a lungo andare, forse si rivela più moderno dei moderni.

 Fayyum, ritratto

Fayyum, ritratto

Nazario Pardini da “Radici” (Laterza, 2000)

Ottobre

Era d’estate quando della vita
riflessero i barbagli. Allora vissi
la fantasia che esplose lucentezza.
Poi giunto è ottobre a mietere le foglie
di una stagione che ha reciso il sole.
La vigna saccheggiata lascia i resti
dell’ultimo raccolto. Muta e scarna
nei suoi colori morti mi dà il senso
di un suo perpetuo addio
(l’autunno mio trabocca di ricordi
che evadono invecchiati all’imbrunire).
Niente di più vicino, ora che freme
sulla distesa vana del mio piano
il tramonto del gelso, a me risulta
che il palpito ottobrino. Scorre languida
dei riflessi marciti sotto il platano
l’acqua che è sonnolenta. Va a scurire
all’ombra della volta abbandonata
del suo vecchio mulino. Il frutto cade
del giorno ormai maturo ed è la notte.

.
Lo stradone di scuola

Sono i solchi carrabili sbilenchi
che incidono il tuo corso anche se pieni
delle spoglie giallastre del settembre.
Lo stradone di scuola. Eppure perdi
le verdi scaglie come un serpe obliquo
in cuore alla campagna e mi dilati
i cigli luccicanti di rugiada
per rivestirmi il seno del fruscio
della carta di un libro. Mormorava,
con la voce un po’ rauca dei suoi righi,
parole che levavano lo sguardo
sul volto del maestro. Sempre primo
colla bici coperta di fanghiglia
e i gancetti alle balze, mi rapiva
da quello scantinato padronale
che gocciolava sogni sopra il banco.
Giungevo infreddolito, ma la porta
chiudeva fuori sguardi sulle zolle
verdeggianti di aprili anche a dicembre.
Che lanciavamo sassi ti ricordi?
Erano così veloci che anche i falchi
restavano di stucco nel sentirli
sibilare nell’aria. Si sperdevano
e ancora non li ho visti ricadere.
Senz’altro hanno percorso un bel tragitto
se dura più del tempo di una vita.
Bella gara. Presa proprio di petto.
Depredavamo i pioppi di forcelle
per fionde che affondavano radici
nel terriccio dell’anima. Mi provo,
quando nessuno vede, ad impugnare
un cimelio di fionda. Da un tuo ciglio
miro dritto alle cime e scaglio il sasso,
ma guardo attorno e quasi mi vergogno
per come vola basso e poi ricade.
E pensare, ricordi, che riuscivo
a silurare il cielo colle pietre
convinto di bucare anche le nubi.

.
Immagini

Si stagliava massiccia l’ostensione
del panciotto verdastro e del cappello
di feltro per scolpirsi dentro il sole
colorato di sera. Lo guardavo
dal ciglio, ove di solito sedevo
ad arrossarmi di luce, mio padre.
I suoi moti sempre uguali scorticavano
quella palla procace se roteava
con ritmi sinuosi le sue braccia
nodose e brune per falciare i fremiti
dei rigonfi maggesi. La fragranza
del trifoglio reciso mi sarebbe
rimasta per la vita dentro l’anima
a germogliare immagini. Ricordo
che quando il sole per metà si ergeva
sopra la curva verde delle avene,
la sua testa sovrastava il cerchio rosso
frammentato da svoli. L’ho davanti
quell’immagine sacra come icona
che t’infigge lo sguardo negli occhi
ovunque tu li volga. Poi saltavo
quando un pezzo di prato era falciato
dalla lama lucente sul tappeto
affollato di frulli. Si perdevano
i suoni di velluto in fondo a un cielo
attorcigliato in funi di mattone
che annodavano rame. E solo quando
l’astro era caduto in seno ai rovi
generosi di gemme, si faceva
incontro alla mia vaghezza giovanile
per dirmi due parole: – Anche stasera
ci porteremo dietro un po’ di campo
per le mura di casa. – Raccoglieva
dei frutti ormai irrorati dalla guazza
serale e riponeva tutto nella
sporta di paglia; la sua mano, sporca
di un grigioverde di gramigna e terra
delle gravide prode, stropicciava
rudemente il mio capo. Ci avvolgeva
la bruma un po’ turchese quando tardi
avvinti ad un falcione si tornava.

 città di Fondi, ritratti muliebri

città di Fondi, ritratti muliebri

Il colore marrone della terra

Eravamo nei giorni in cui la terra
riprese a colorare i suoi crinali
di gemme e di fiorite. Ma guardava
ancora con sospetto i cirri in cielo
quasi fossero gli aerei che dal ventre
(da troppo poco tempo fu la pace)
scaricarono filze di proiettili
per i piani divelti.
Che magia!
Invece dei bengala riapparirono
le luci delle stelle nell’azzurro.
Al posto dei singulti di mitraglie,
il crocidare dei corvi ed il gre-
grè di rane dai fossati a ventilare
odore d’erba nuova. Non fu poco
rivedere le braccia di quei padri
che avvinghiavano i solchi. Né da meno
il sorriso delle madri sulle danze
dei candidi lenzuoli profumati
del sargasso corrente del mio Serchio.
Era tornato fiume. Immaginate
le nostre brighe in corsa sui carretti
costruiti con i resti della guerra
(cuscinetti e detriti di lamiere
con gli stampi alleati). In mezzo ai campi
ritornarono a crescere i bei frutti
maturati da un sole ormai sereno
e intento solo a rallegrare gli alberi
arzilli e appesantiti. Era sortito,
anche lui, dal glaciale e tormentato
silenzio avvolto in polvere di piombo
nera come la pece. E noi gioiosi
(un po’ perplessi agli inizi. Avevamo
davanti agli occhi i tre amici decenni
che saltarono in aria per tre spighe)
devastammo di nuovo da banditi
i sicuri pianori. Dei forzieri
pieni zeppi dell’oro della pace
porto ancora il sentore delle pesche
di pasta gialla. E l’urlo di mio padre:
– Non andare in quel campo! È abbandonato! –
Mi sembrava impossibile: il mio orto
era tornato a schiudere dal seno
gli umori antichi. I maggesi, forzati
e confusi da scarpe chiodate, evadevano
le coccole sprunate ad occhieggiare.
Rinacquero i marrobbi
sul marrone della terra a respirare.

.
Alla foce

Sui cromatici oleandri, il cui respiro
si amalgamò con gli orizzonti azzurri,
vibrano ciuffi fervidi tra siepi
di barbagli di cielo e sopra agli aghi
lisciati dai salmastri le cicale
inviano il frinire al tremolio
del nascosto sentiero. Giù dai tronchi
grondò il sangue del bosco e irrorò denso
voglie di ninfe e odori giovanili
di gentili percorsi. Più lontano
si affollano i colori sopra i cigli
gonfi di luci: arrossisce il papavero;
giallo il narciso freme a fianco al candido
pane del biacco, ed acuto all’olfatto
dolce sentor di mammole perviene
ed alla vista il gracile pallore
delle primule schive. Tra le rive
il Serchio ristagnava sonnolento
e sotto i salici
fletteva i bianchi grani del sambuco
e gli invadenti rami dell’acacia.
Sempre piccante addensa la presenza
del crescione e del farfaro che primo
roseò la primavera. E in basso i giunchi
si rovesciano alle lame fangose
coi tepali color verde rossiccio
sui parasassi che (quasi farfalle
vibranti nella notte) ora formicolano
numerosi sui chiari. Se frusciava
tra l’assenzio, l’amarella e il millefoglio
lo strisciante colubro, scendevamo
a cogliere radici della rustica
saponaria sul fosso ove immetteva
magre acque nel corso. Dagli antichi
ci venivano gli usi – mi dicevi –
di detergere i panni. Ancora agosto
affolla sulla riva tife achene
e lunghe e scarne code cavalline.
Sopra di me qui volano ad incudine
i cormorani (buoni pescatori
per le genti orientali). Si posavano
coll’ali semiaperte, guance bianche,
nerastri ai nostri sguardi che curiosi
attendevano i tuffi. Qui maestoso
ancora l’airone batte le ali
lente e profonde all’aria del maestrale
tra il Serchio e la pineta. Nel tramonto
stagliavano giganti l’arco immenso
che ingollò l’acqua dolce del mio fiume.

Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.

Fayyum, ritratto femminile Mummy 120-140 d.C.

Era l’estate

Era l’estate. A serpe la sentivo
crepitare sul piano e sulle foglie
riarse di calura. Penzolavano
sopra il solco sonore allo svolare
delle siepi dell’ali. Mi accostai
ai suoi folti capelli profumati
di tasso e di verbena. Biancheggiavano
le spighe al secco fiato del maestrale
asciutto dalle stoppie. Che fulgore
e potenza. Incedeva e poi sensuale
seduceva qual donna che si abbronza
seminuda sul mare. Oltre indagai.
Si pose sopra l’argine irridente
l’astro verticale come se
niente potesse sulle infiorescenze
cromatiche di mammole, di bocche
di lupo, di denti di leone,
di campanule perla di vilucchio.
Straboccavano i garriti alle golene
sul maturare delle pigne brune
alle balze di creta ed il crescione
m’invitava piccante a inumidire
la fronte alla chiaria. Le attastai
l’odorosa carnagione e mi donò
vermiglie lune al gusto di sapore
succulento e gentile. Ho ancora zeppo
alle papille il succo della pesca
e il giallo saporito del melone.
Mi salutò sommerso il millefoglio
dall’acqua sonnolenta ed esalò
sgradevole l’arancio di fusaggine
tra l’inodore fulvo del giaggiolo
dalle foglie prolunghe. Per la mano,
ora turgida e calda, ora dai tigli
ventilata, ora dai salici, la presi
e a piedi nudi insieme tra le dune
movemmo verso il mare.
Lasciava il suo sospiro sulla battima
che tremolante le lambiva l’anima
ansimante dal viaggio, mentre i flutti
argentavano rotti la sua voce
nei becchi delle sule e degli aironi.

Non ebbi più la forza di aspettare
che la sera venisse ad indorarla
con veste voluttuosa, ed io mi immersi
nel caldo fresco del suo salso ventre.

Nazario Pardini

Nazario Pardini

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Noemi Paolini Giachery: Note sull’arrembaggio del “new realism” dibattito iniziato da Maurizio Ferraris (Parte I)

Giacomo Costa città immaginaria

Giacomo Costa città immaginaria

Sull’argomento del «new realism» vedi su questo blog:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/04/02/giorgio-linguaglossa-il-suicidio-della-filosofia-un-appunto-per-il-nuovo-realismo-negativo/

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/19/umberto-eco-il-realismo-minimo-il-dibattito-sulla-fine-del-postmoderno-non-tutto-e-interpretazione/

Il dibattito filosofico sul «new realism» è stato avviato da Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del Nuovo Realismo» (Laterza, pagine 126, € 15).

Sandro Modeo nell’articolo Il suicidio della filosofia il «new realism», contenuto ne “La Lettura” (supplemento Corriere della Sera) 1 aprile 2012 e pubblicato in stralci su questo blog, richiama la discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del Nuovo Realismo) e la serie di convegni sul «new realism»,  rileva come ciò potrebbe indurre qualcuno a pensare che il «reale»  sia finalmente rientrato nel discorso filosofico.

 “La sua, scrive Modeo,  eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti-illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa”.

città di sera

città di sera

(da  un diario estivo del 2011) di Noemi Paolini Giachery

 L’ incursione nella dimensione filosofica non è nuova in queste  divagazioni (la tentazione filosofica è in me un vizio forse innato anche se mai seriamente coltivato).

Anche nel precedente capitolo non ho evitato di manifestare  un certo allarme nei confronti del pensiero nichilista non solo postmoderno. Nichilista, dico, e non relativista perché un sospetto relativistico si era già affacciato nella tredicenne quando annotava, tra i suoi “pensierini”, che “se lo scarafaggio fosse rosso e giallo forse lo faremmo passeggiare graziosamente sul palmo della mano”. Ma, molto prima, in me bambina piccola era nato il sospetto che fosse tutta falsa quella realtà che avevo appreso dai genitori e avevo poi trovato un appiglio, un fondamento, direi, riconoscendo che però la bugia, l’inganno (avrei dovuto dire “il concetto di inganno”) era una realtà vera”(“una cosa vera”, dicevo allora). 

Osservo ora, tornando al tema, che, passato molto tempo dalle riflessioni dell’incipit, un  rimedio peggiore del male si è clamorosamente annunciato. Si tratta di un realismo materialista, radicale e acritico, che negli ultimi tempi si era già intravisto operante in ambito  letterario.    

Ora che il “nuovo realismo” sembra avere invaso tutti gli spazi del dibattito culturale attuale per lo più attraverso proclamazioni dogmatiche, potrà avere forse qualche interesse riconsiderare, nei panni di un testimone sfavorevolmente colpito dall’evento, la prima irruzione, nei mesi estivi del 2011, fra i temi della stampa italiana, del dibattito tra “realismo” e “postmoderno” , dibattito nel quale, a dire il vero, il contestato “postmoderno” reagiva  piuttosto abbacchiato. Riproporrò a questo scopo alcune mie note quasi diaristiche, inedite, di carattere passionalmente risentito. Voglio solo informare che queste prime impressioni sono state in me confermate dalla successiva lettura del Manifesto del nuovo realismo e di altri testi di Maurizio Ferraris.

 

Maurizio Ferraris

Maurizio Ferraris

 Nel giro di pochi giorni due articoli della “Repubblica” e uno del “Corriere della Sera” confermavano l’impressione che un pragmatismo presuntuoso e totalizzante avesse ormai preso il posto della filosofia, almeno di quella per me degna di questo nome, continuando a chiamarsi filosofia, anzi «pensiero forte».

Il ritorno al pensiero forte. Dalla Germania all’Italia la nuova filosofia realista è il titolo (che percepisco nella lettura come gridato da uno “strillone”) di un articolo di Maurizio Ferraris su “La Repubblica”  dell’8 agosto, che celebrava la fine del postmoderno, identificato con il “pensiero debole” e in particolare con il relativismo dell’ermeneutica che aveva portato a estreme conseguenze nichilistiche l’affermazione di Nietzsche che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».

Come nuovo «pensiero forte» si salutava il ritorno del realismo e si annunciava un convegno intitolato “New Realism” che si sarebbe tenuto a Bonn la primavera seguente. Che cosa si dirà nel convegno è per me difficile prevederlo. Mi auguro solo che in esso non si convalidino le interpretazioni che del nuovo realismo propone qui Ferraris. Per lui «a far scricchiolare le certezze dei postmoderni [certezze delle non certezze] ha contribuito prima di tutto la politica. L’avvento del populismo mediatico – una circostanza tutt’altro che puramente immaginaria – ha fornito l’esempio di un addio alla realtà per niente “emancipativo”, senza parlare poi dell’uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica “imperiale” da parte di Bush che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove[…]». L’immediata reazione del lettore è la domanda: che c’entra tutto questo? Bisogna arrivare a scoprire questi casi politici per contestare gli eccessi nichilistici e le contraddizioni interne di certa ermeneutica? E siamo proprio sicuri che dopo il convegno sul nuovo realismo i nuovi Bush si vergogneranno a dire bugie?

 Ma quel che è peggio per me è che si torni a contestare una concezione filosofica chiamandone in causa i possibili effetti negativi sull’andamento della società. Il “pensiero debole” sarebbe da rifiutare per la sua presunta ripercussione sulla pratica politica? Il pensiero forte sarebbe quello che sceglie la verità cui aderire in ragione non della sua fondatezza teoretica  ma della sua funzionalità pratica? Addio autonomia del pensiero, addio filosofia.

film-belle-de-jour-5-con-catherine-deneuve di L. Bunuel

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Scopriamo poi che è considerato «pensiero forte» quello che annuncia con trionfalismo di recuperare l’ontologia (termine  ritenuto fino a oggi assai impegnativo) accontentandosi di fatto  del riconoscimento che «il mondo ha le sue leggi e le fa rispettare»:  sembra  che addirittura si attribuisca un valore ontologico a quelle “qualità” dell’oggetto legate alla percezione sensoriale che Galilei – e non era certo il primo – distingueva dalle “quantità”.  Basta riconoscere che «l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che non lo sappia, indipendentemente da linguaggi e da categorie».

  Credevo che, in una prospettiva filosofica, l’ontologia avesse proprio a che fare con la gnoseologia e con il suo rapporto con una ipotizzabile verità sostanziale. La filosofia è nata per cercare oltre le apparenze.  Il “nuovo realismo” ammette, è vero, che «c’è qualcosa che ci resiste» e che Ferraris chiama «inemendabilità» ma con questo termine il pensiero si ferma sull’ostacolo pratico costituito da questo quid, in sé poco interessante, mostrandosi indifferente al limite conoscitivo che era considerato, per esempio, nella Ragion pura kantiana, se non vogliamo risalire addirittura ai sofisti.

Ben più complessa ed equilibrata mi è sembrata finora la posizione di Umberto  Eco, che riconosce l’esistenza di uno “zoccolo duro” inconoscibile (non solo “inemendabile”) al di là delle nostre interpretazioni, mantenendosi lontano sia dall’estremismo nichilistico di certa ermeneutica, sia da ogni superficiale realismo, Anche lui, come Ferraris, dell’ermeneutica era stato un maestro, contrario, per esempio, in fatto di linguistica, al facile realismo ontologico di Chomsky.  Ci è rimasta impressa nella memoria l’epigrafe del Nome della rosa: «Stat rosa pristina nomine: nomina nuda tenemus».

Salman Rushdie, Vargas Llosa, Umberto Eco

Salman Rushdie, Vargas Llosa, Umberto Eco

La seconda sconcertante sorpresa era stata poi per me la risposta di Gianni Vattimo a Ferraris in un dibattito comparso in “La Repubblica” il 19 agosto. Vattimo, condividendo la concezione strumentale della filosofia, si riconosceva anche lui deluso dal pensiero postmoderno per «la persistente resistenza della “realtà”» solo in quanto  è per lui verità incontestabile che la verità sia  «una questione di potere» per cui al filosofo non resta altro che rinunciare a pensare e darsi alla pratica seguendo il facile criterio di agire sempre solo per contestare ciò che il potere vorrebbe attuare o semplicemente proporre. Vattimo propone una perenne rivolta “adolescenziale” ma ha il buon gusto di ammettere simpaticamente che lui come filosofo può considerarsi «emerito» (e questo riconoscimento lo innalza nel rapporto dialogico).

Anche la filosofia in questo panorama si può considerare “emerita” se un pensatore come Hylary  Putnam, impegnato per decenni a cercar di definire la verità oggettiva, dopo la proposta di un «realismo metafisico», è arrivato alla fine ad accontentarsi di ripiegare sul «senso comune». Sarebbe mai nata la filosofia se alcuni greci particolarmente intelligenti si fossero accontentati del senso comune?

So anche, per qualche diretta esperienza di lettura – e, a dire il vero, di scarsa condivisione – che la ricerca degli  intellettuali qui citati, è sempre stata sostenuta da una vasta cultura,  ma proprio per questo mi domando: perché offrire al lettore comune una sintesi così povera e paradossale del loro pensiero?

Un’interessante sincronia e sintonia con questo indirizzo mi pareva di cogliere nel dibattito sulle arti figurative riportato sul “Corriere della sera” dell’8 e del 9 agosto, in cui  emergevano aporie interessanti per la loro capacità di aprire domande, di insinuare dubbi e ripensamenti e il lettore particolarmente sensibile a questo problema poteva intravedere pericoli analoghi per  l’autonomia dell’arte intesa ancora da qualcuno (Francesco Bonami, ma con lui tutta una corrente) come  «strumento che ci parla del nostro mondo, quello che ci scorre davanti agli occhi». Dall’altra parte anche molta arte del Novecento e oltre, contestata dal noto critico Jean Clair, limitando la creatività alla performance, al puro gesto estetico, mentre sembrava rivendicare l’autonomia dell’estetica, impoveriva la singola opera della sua valutabilità in sé e per sé concentrando l’attenzione sulla poetica (se si accettavano una poetica o un autore se ne accettavano automaticamente tutte le singole opere) e, in fondo, le varie poetiche si confrontavano quasi sempre per loro, più o meno emergenti, implicazioni politiche.

città nel traffico urbano

città nel traffico urbano

Passati alcuni giorni il 31 agosto Emanuele Severino sul “Corriere della Sera” è finalmente intervenuto con molta energia denunciando «una certa leggerezza piuttosto occhieggiante» e riconoscendo come difetto «comune al “nuovo realismo” di Ferraris e al “pensiero debole”  di Vattimo» l’aver messo «in primo piano l’istanza politico-morale».

So che nel frattempo il dibattito si era esteso e altri importanti interventi erano apparsi, tra l’altro, sul “Foglio” e su “Micromega”.

Oso oggi, dopo quattro anni, rendere pubbliche le mie riflessioni – quasi paginette di diario limitate a un tempo breve e destinate a chiarire a me stessa le mie reazioni – come testimonianza dell’interesse che dibattiti come questo possono avere anche per chi non è filosofo di professione e, come me, si aggiorna prevalentemente sui giornali e sulle riviste. Può confortare il mio pianto per l’annunciata fine del pensiero veramente filosofico la grande  partecipazione di pubblico ai convegni di filosofia che si svolgono in alcune piazze d’Italia?

Appendice

 Nell’estate dell’11, quando mi accanii a contestare rabbiosamente il presunto “pensiero forte”  di Maurizio Ferraris, l’intollerante che agisce in me, nonostante l’affermato amore per il libero pensiero, trovò pace immaginando che in fondo si trattasse di un intervento paradossale e ironico, una boutade insomma, per dire che dai sofisti in poi il vizio filosofico di astrarre dalla realtà per chiedersi se la realtà fosse poi vera era, in fondo, un guastafeste in quanto impediva di godersi la vita senza pensare troppo e perciò bisognava liberarsene. Ma oggi ho riscontrato (internet è la mia scuola quotidiana) che quello che ora chiamerei un colpo di  stato ha avuto successo sottomettendo buona parte del pensiero ufficiale. Così non mi sembra del tutto fuori luogo e fuori tema aggiungere in appendice questa recensione che a suo tempo scrissi per me senza pensare di pubblicarla.

Per ribadire, in conclusione, che il vero è misterioso e l’approccio puramente sensoriale non garantisce un “pensiero forte” ma non è inutile utilizzare gli strumenti che possediamo (non solo quelli razionali) per approssimarci ad esso anche per vie di volta in volta diverse e addirittura personali. La stessa ricerca scientifica procede formulando sistemi diversi che io chiamerei dantescamente “umbriferi prefazi” (penso, per citare dal di fuori gli ultimi approdi, alla fisica relativista e alla fisica quantistica) in quanto tutti metaforici come metafora è la stessa parola.

Maurizio Ferraris,  Manifesto del realismo, Bari, Laterza, 2012

Heidegger nella casa di campagna Oso avventurarmi in un commento del notissimo Manifesto di Ferraris perché, per quanto consapevole dei gravi limiti della mia preparazione filosofica, questa volta nella mia analisi-contestazione ho l’impressione di avere a che fare con le idee non di un filosofo ma di un politico e sociologo  che si presenta nei panni del filosofo, annunciando, anzi, il ritorno, con il suo realismo, alla filosofia e al «pensiero forte».

La novità del suo messaggio è semplicemente un ritorno al “buon senso”,  che è l’ultimo approdo di Hilary Putnam e trova facile consenso nella opinione dei più, ma implica, a mio parere, una rinuncia alla vera filosofia – che è nata proprio per andare oltre il “buon senso” –.

Non è certo difficile contestare gli eccessi di certo decostruzionismo, identificato nel “postmoderno”, che è l’estrema conseguenza di una ricerca gnoseologica  perfezionistica e ipercritica, fino al paradosso e alla caduta nella contraddizione: in Ricostruiamo la decostruzione, del 2010, Ferraris aveva buoni argomenti per denunciare la stessa contraddittorietà del suo ex maestro Derrida. Meno buoni certi argomenti proposti qui, come, per anticipare due esempi, «l’esperimento della ciabatta» o anche l’individuazione di un percorso nella storia della filosofia che, da Cartesio attraverso Kant, condurrebbe, esaltando il valore conoscitivo del concetto, alla riduzione della realtà, da parte del pensiero “postmoderno”, a pura attività mentale della società (e qui, nel postulare a priori l’esistenza di una società di esseri umani al di fuori del soggetto individuale,  il  cui accertamento sarebbe meno arbitrario, è secondo me, uno dei limiti del rigore  di questa concezione che, come Ferraris, io stessa nelle sue conclusioni estreme non condivido).

Seguirò ora il  criterio, che esercito nell’esame dei testi letterari, di soffermarmi su parti essenziali del testo per dire la mia.

Bisogna ammettere che l’ampia pars destruens  è più spesso condivisibile, almeno in rapporto alla descrizione che Ferraris offre della prospettiva postmoderna. Come ho premesso, meno mi convincono i riferimenti a un Kant che avrebbe tolemaicamente «posto l’uomo al centro dell’universo, come fabbricante di mondi attraverso concetti» avviando così il prevalere, con la modernità, «degli schemi concettuali sul mondo esterno» (pp.10-11). A mio parere – e spero non solo mio – Kant, affermando non il carattere totalizzante della conoscenza intellettuale ma proprio il suo limite di fronte a un inafferrabile oggettivo “noumeno” (termine evitato da Ferraris anche nella sua lezione kantiana) esprime il suo bisogno di rivendicare l’autonomia dell’essere rispetto al conoscere (dell’ontologia rispetto all’epistemologia, direbbe Ferraris);  e insieme non ritiene vana una, sia pur inesauribile, tensione conoscitiva  verso l’assoluto, ma questa tensione riconduce ad altre facoltà conoscitive, altre “ragioni” presenti nell’uomo al di là della  “ragion pura”: la “ragion pratica” su cui cerca il suo fondamento un’etica non utilitaristica e non fideistica; e l’intuizione estetica che nella dimensione del sublime anticipa non solo il sublime  romantico ma lo stesso“tragico-dionisiaco” nietzscheano.  Il cosiddetto «desiderante» nietzscheano (diverso dal «desiderante» consumista della attuale sociologia) tende a una  corporeità sublimata  ed esalta la sua lotta per la “liberazione”, mentre Ferraris cita Nietzsche e lo stesso Wagner in posizione di anticipatori rispetto alla  «desublimazione» operata dal “postmoderno”. (Continua)

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi su riviste.

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Fernando Della Posta POESIE SCELTE da “Gli aloni del vapore d’inverno” (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

topologia tecniche di costruzione

topologia tecniche di costruzione

Fernando Della Posta è nato a Pontecorvo in provincia di Frosinone. Vive e lavora tra la sua città natale e Roma. E’ stato redattore del blog letterario di poesia e letteratura “Neobar – Agorà senza l’assillo delle correnti”, blog dove possono essere rintracciate numerose sue sillogi. Sue poesie sono state inserite nel volume “La versione di Giuseppe – Poeti per Don Tonino Bello” e nell’ebook “Auguri Scomodi – Poeti per Don Tonino Bello” entrambi editi da Edizioni Accademia di terra d’Otranto – Neobar nel 2011. La sua prima raccolta poetica è stata L’anno, la notte, il viaggio pubblicata da Progetto Cultura nel 2011. Nel 2015 la silloge City Frame Blues è stata pubblicata da Fara Editore nel volume “Emozioni in marcia” e delle sue poesie sono state incluse nel libro Pasolini, la diversità consapevole per Marco Saya Editore. Infine, sempre nel 2015, è uscita la sua ultima raccolta di poesie Gli aloni del vapore d’Inverno pubblicata da Divinafollia Edizioni. Il suo blog personale è www.versisfusi.wordpress.com e la sua pagina flickr personale è https://www.flickr.com/photos/115441383@N02/.

topologia misurazioni delle superfici

topologia misurazioni delle superfici

Commento di Giorgio Linguaglossa

Fernando Della Posta è un autore sotto i cinquant’anni. Ricordo che Octavio Paz in un saggio de L’arco e la lira nel 1956, edito dal melangolo negli anni Settanta, esprimeva il parere che un poeta di oggi che vive nel mondo della complessità difficilmente riesce a giungere ad una completa maturità stilistica prima dell’età della piena maturità umana, cioè dopo i cinquant’anni. Sono troppe le problematiche che un poeta odierno deve affrontare prima di giungere ad una composizione delle contraddizioni che la modernità gli pone quotidianamente. Questo credo sia il caso di Fernando Della Posta, il quale si è fabbricato un polinomio frastico sufficientemente slogato e manovrabile da poter ospitare qualsiasi tematica con una notevole adattabilità stilistica e mimetica, ma, proprio qui sta il punto, che non si dà uno stile per ogni problematica, ma ci sono tanti stili per ciascuna problematica. Il risultato è che in Della Posta si ritrovano tanti stili quante sono le possibilità stilistiche che il linguaggio ordinario gli mette a disposizione, ma il linguaggio ordinario è una trappola della Musa, una abilissima trappola orchestrata da Calliope o da Erato. Il linguaggio paragiornalistico va bene, ma non va bene per la poesia, c’è un disaccordo di principio e di funzione tra le due cose, sono due linguaggi paralleli e anche consanguinei ma scorrono uno nel sottosuolo e l’altro alla piena luce del giorno. E le cose stavano così anche quando Pasolini decise che si dovessero scrivere soltanto poesie giornalistiche con un linguaggio paragiornalistico, quando pubblicò Trasumanar e organizzar (1968). Ma si trattava di un atto di disperazione di Pasolini dinanzi alla invasione della società dell’omologazione, quell’atto poteva andar bene per un’opera singola, disperata e inimitabile, quando invece presso le nuove generazioni di poeti è diventata una consuetudine di massa quella di scrivere in questo idioletto imperiale dei nostri giorni. Forse l’unico idioletto comprensibile dai nostri contemporanei mi si dirà. Ebbene, sì, rispondo, ma si tratta pur sempre di un idioletto.

topologia costruzione del volto

topologia costruzione del volto

Fernando Della Posta – Estratti de Gli aloni del vapore d’inverno (2015) .

Fernando Della Posta 

Via dell’Anima

Vaga l’anima forte
sulle vie degli uomini.
Come a Pin sul sentiero dei ragni
i rammendi delle suole le s’inzuppano
nell’acqua che cola via dalle grondaie.

Vaga l’anima forte, spinta dal frullo
di dare un senso al tempo. Un fuggi fuggi
per irridere l’impulso. L’impulso che non sa.

Vaga l’anima forte, dà parvenze di visi sicuri,
d’occhi fermi; mai un tremito di labbra
e se c’è paura, immediata è la censura,
profondo e perentorio gioco di cesura,
di taglio, fermi i treni in corsa.

Spontaneo estemporaneo solo l’aggredire,
fare il verso del dolore; ridere soltanto
delle blasonate canzonature …
Non naturali, anche degli estremi mali;
Per gioco … Freddure

… e mai scoprirsi il viso per intero,
né mostrare i denti bianchi giù nel fondo,
oppure se si sbaglia,
avvertitamente andarne fieri:
nascondendo il cuore.

L’Ego che si maschera nell’Io,
l’Io che si rimaschera da Ego.

Ma Pin ha tragedie ben salde sulle spalle
e l’anima sua vaga
tra le arterie a strabuzzarne gli orli …
E gli si sporca il sangue buono,
quando è dritto in faccia a chi non sa,
né s’interessa, o anche se tenta o s’avvicina,
a quanto lui nemmeno sa.

20/05/2012

*

Lo Spritz a Biella
sa di vermut troppo rosso
e i Giardini di Marzo
al piano in sottofondo,
provengono non si sa bene
da quale finestra
che si affaccia sul viale.
Il brusio della piccola folla
sotto scrosci di campane.

12/06/2014

*

Fernando Della Posta Gli Aloni del Vapore d'Inverno - Cover 2

Don Chisciotte

Quei tiranti che ci tengono attaccati
alla vita mentre dormiamo
e quei sostegni che ci impediscono di cadere
mantengono l’equilibrio
delle palpebre che nel sonno non si sciolgono
nel sogno immobile
che è la morte supina negli antri sepolcrali
ma non nelle basiliche patriarcali
istoriate del marmo bianco e scolpito
di trecento e quattrocento
calpestato da sandali e scarpe
internazionali.

Ben altro sepolcro è il nostro letto.
C’è qualcosa ogni mattina che ci attacca,
demolisce la quiete della notte …
Gli affetti e l’aspirazione borghese,
nel rigetto iniziale sotto le coperte,
ci richiamano, ci reinvocano
a riempire i sacrari personali
e le urne dei Lari …

Saremo semplice anello di piombo
o delicata catenina d’oro?

Io me ne vorrei infischiare, resterei nudo
e muto a contemplar le mie cravatte,
ma mi devo alzare.

2009

*

Appunto n° 2

A volte la poesia
pare non mi basti.
L’idea si fa più ampia,
si fa discorso, divaga
aggiunge aneddoti,
dilaga. Ma resta
ad ogni modo solitaria
come un discorso scisso
comunque fuori posto
in una pagina
più fitta di parole.
E non so che cosa farne,
mancano i dovuti passi.
Resto imprigionato
in un tassello, prolisso
disordinato, e non so
se chi lo leggerà mi capirà;
in più,
la sua grazia non mi torna,
c’è più di qualche cosa
di pesante che la impiomba;
né so se più ci credo
non so tornare indietro.

18/05/2013

*

Fernando Della Posta

Fernando Della Posta

Ai poeti dell’Alcool

già visto, già sentito, già timbrato, già decapitato
già fatto nostro, alcool, alcool, alcool … mai bevuto
ma già ingollato e digerito e … e dopo ci ho innaffiato i fiori
e dopo una settimana ci sono tornato,
l’ho guardato e ho detto ciao, ci rivediamo!
tu fermo per morire, e per allentare un poco
il mio avvenire, io per consumarmi in fretta poche ore,
anestetizzarmi un’ora in più … e guardar di lato
persone e cose a poco fiato, spezzato, criptato, a perdifiato
banale … commiserante. guardando il mondo dall’oblò
(mi annoio un po’)
bevo acqua e mi ci affogo di pensiero, per partecipare,
per una gloria che qualcuno condivida!

19/05/2011

*

Non vi sopporto cocchini incravattati,
neo-fasci rinnegati e conservati,
imbevuti d’ideali, cosiddetti – virili –
se non conditi di sola forza bruta,
imbottiti di poltiglia gestuale,
di pensiero e di politica rituale
del padrino il duce & co.,
e sempre sulla difensiva, aggressiva
verso un mondo che disprezzate,
che vedete solo al negativo
di cui sentite solo la minaccia
e considerate solo vostra ed esclusiva
terra di conquista.

30/06/2011

*

Io sono il mio cane che si chiama Libero

libero da ogni afflato
libero da ogni messaggio sussurrato
libero da tutti voi che conoscete
libero mobile e senza rete

libero da ogni intreccio
libero da sillabe e quartine
libero di dire, libero di agire
libero di prendermi i pericoli
libero di prendermi le solitudini
libero di lasciarmi in sospeso
libero di lasciarvi senza peso

                    ma se qua salta una pulce
                   sulle Ande muore un àlpaca

libero libero libero
ostinato come le capre
docile come le pecore
libero di reinventarmi un calco
libero di demolire il fascio
libero di demolire il comu
libero di demolirvi tutti
taniche ripiene di pensiero
cravattini d’annata
ottimi per gli archivi
e i raduni di parata

                    ma se qua s’accende un sigaro
                   a Cuba s’impacchetta il Che

libero vi odio e v’amo
libero che sono come un diamante
sfaccettato che la luce vi rimbalza
ma dai diamanti non nasce niente

e il diamante lo rivestite di letame
e poi lo rifate diamante
e poi lo riflettete sulle vostre facce
e poi lo rigettate in feccia

dite che è il mestiere del buffone
che lo fa per campare
ma ecco che vi piace
e vi da salvezza

ma se qua si tende un filo
ai Caraibi nasce un uragano

sarei il mio cane
se si chiamasse Libero.

16/04/2010

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Monica Martinelli POESIE SCELTE da “L’abitudine degli occhi” (Passigli, 2015)

Elsa Martinelli, 1967 trucco tricolore

Elsa Martinelli, 1967 trucco tricolore

Monica Martinelli è nata a Roma e lavora nella Pubblica Amministrazione in un settore economico-finanziario.  Dopo la laurea in Lettere presso l’Università La Sapienza di Roma e un dottorato sui rapporti tra Cina e Unione Europea, ha scritto articoli e recensioni sulla rivista letteraria “Rassegna di letteratura Italiana”.
Nel 2009 ha pubblicato il libro di poesie con prefazione di Walter Mauro dal titolo Poesie ed ombre, Tracce editore. Nel 2011 ha pubblicato Alterni Presagi, Altrimedia editore.  Nel 2015 ha pubblicato L’abitudine degli occhi, Passigli editore. Ha pubblicato poesie sulle riviste “Poeti e Poesia”, “Poesia”, “Orizzonti” e racconti e poesie su varie antologie e blog letterari: ViaDelleBelleDonne, Neobar, La presenza di Erato, L’ombra delle parole, Poetarum Silva. E’ redattrice della rivista si cultura e letteratura “I Fiori del male”.

dalla Prefazione di Davide Rondoni

«…Un libro con molti punti di grande valore, che però – ed è uno dei molti punti del mio convinto e povero assenso a questa opera – se ne frega del valore letterario dell’opera, o meglio ne è libero. Un libro libero da se stesso, dall’ansia d’esser un buon libro di poesie. Un gesto dunque, gettato da una donna forsennata e educatissima nel vivo fuoco e incrocio che le segna l’esistenza. Perché la morte è forte, è una meccanica terribile, sia la morte corporale sia quella interiore e delle delicatissime cose del cuore… Monica Martinelli ha il coraggio, l’arrendevolezza e l’umiltà di non uscire da questo incrocio, da questo dramma […] perché la poesia è, per quanto intorbidita e a volte sprecata da noi che la viviamo fino a morirne, voce della verità. E la verità è che siamo creature. Sognare d’essere altro – cioè creatori, o il Creatore – è una stupida ebbrezza, inizio di un incubo, come il secolo tragico e breve ci ha mostrato. La poesia ci ricorda chi siamo. Sta a noi vivere questa condizione solo come sconforto o come umile letizia…».

monica martinelli cop

C’è dato un tempo
per ogni tempo.
C’è una magia in ogni cosa,
nel perdono
in un bacio che ferma l’addio
nella ragione di essere nati.

Penso non sia il cambiamento
ma l’abitudine
l’unità di misura dei viventi,
ciò che ci rassicura e ci consola
ciò che ci viene naturale fare.

E poi gli occhi,
con cui misuriamo la realtà
che sia di fiato e di sabbia,
che ci prepari alla nostalgia
o all’abbandono.

È come seguire la danza
di una foglia nel vento
e indovinare da quale parte cadrà.

.
Maestranze

Siamo muri surriscaldati
pareti confinanti
separate da spazi siderali.
Ci sfioriamo
a simulare una pena di turno
che ci trattiene in sorvoli d’ansia.

Io ospite sgradita,
paziente come un condannato
ostaggio di vane trattative.
Mucchietto d’ossa rinsecchite
a sbattermi in un coraggio sconosciuto
immerso in calcare di sconfitte.

M’improvviso saltimbanco
tra sobbalzi e respinte.
È un soprassello vertebrale
intriso di commozione.
E le mie vertebre hanno il tuo nome.

Ombre allungate
schiacciate sull’asfalto,
stracci alle fiamme di un pagliaccio
che non fa ridere.

.
Non solo lame

Antico mestiere quello del flebotomo.
La precisione delle lancette
non lascia apparire alcuna esitazione.
Un gesto unico, definito,
non solo lame.
Il sangue sgorga lento
e non rientra.
Un attimo è un ingombro.
Percorso che affligge,
colore di bestemmia.
Ma guardare cosa, se sono già morta?
Seneca m’incoraggia
ma lui era cinico o stoico
mentre io sono fragile vibrazione.

Ora invece siamo moderni
è una barbarie differente.
Nelle prigioni-lager
brandelli di lenzuola
arnesi fortuiti lavacri di colpe.
Corde senza strumento,
pezzi di spago legati
a tubi accidentali
o a ganci d’indifferenza
nelle latrine e fra i muri della scuola.
Solitudini frantumate
da altre solitudini
a invocare un grido coraggioso
di libertà.

*

monica_martinelli

monica_martinelli

Sono la pioggia che disseta la terra
dono gravido senza parto.
Rumore di felicità su sassi ruvidi,
tonfi di gocce pesanti.
Sono il vento che scrolla pioggia dalle nuvole
denuda, sgualcisce e riannoda anime.
Sono la terra bagnata dalla pioggia
dove zolla dopo zolla
posi i tuoi passi stanchi e sparigliati.

Mi congedo in silenzio, senza lacrime
mentre giunge l’alito del biancospino.
E lascio fare.
Non puoi sapere quanto gelo
soffierà sulla tua fossa.
Io ti proteggerò,
per non affondare nel fango
perché da dove tutto viene tutto torna.
Cardi solitari di un sottosuolo in evoluzione
si tramutano in altro.
Rinnovarsi è persistere,
vorticare di atomi indefiniti.

Sono il sangue, marionetta osmotica,
fluido viscoso
ascensore di metabolismi
che scorre nel carosello della chimica.
Anche la luna perde sangue
se morsa dal sole.
Ma non è una ferita d’odio.
Ho una costellazione di riserva.

*
Questa mattina scorgo fisionomie nuove:
vorrei distinguere ogni cosa per quella che è,
sentire emozioni in punta di piedi.

Non pensieri guizzanti
e stati di agitazione,
vedere le persone per quello che sono
fragili custodi
di una realtà in transito.

Ma vedere è un subire in permanenza.
Non si può scegliere cosa guardare,
forse possiamo solo comprendere
la differenza tra ciò che merita attenzione
e ciò che fa piangere.

*

Ci sono parole per ogni cosa,
impariamo a pronunciarle da piccoli
appena ne siamo capaci.
Sappiamo dire fiore gioia paura
quando sperimentiamo anche le lacrime
per ampia concessione del dolore
a cui diamo un nome
senza conoscerlo o toccarlo
ma lo sentiamo in ogni singola parte del corpo
in ogni minuscola piega dell’anima.

E quando scopriamo cos’è amore
che arriva impetuoso e ci abbandona fragile
comprendiamo che non tutto ciò che ha nome
esiste o dura.

*

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the

Guardo le mie unghie e non le riconosco,
distante ornamento di mano più gentile
stentano a crescere loro
mentre io mi sento già troppo grande
e ho nostalgia dell’età trascorsa
quando il tempo non mi stava addosso
mentre ora viaggia senza tregua.

Le mie nuove unghie,
fragili ignare del vuoto
si offrono ad uno spazio ignoto.
Vorrei infilarle nella tua carne di pensieri
farti gridare una maledizione
in questo ridotto angolo di tempo,
una galassia in movimento
dove i nostri corpi ruotano
in senso inverso
e neanche questo ha un senso.

E mi dispero per ciò che non avremo
per ciò che abbiamo perduto
e relegato altrove.

.
Apparenze di stelle si affacciano

su distese di galassie.
Mi specchio in loro,
infinitamente lontane
e in me, senza immensità.
Penso a Saturno,
ai suoi anelli di polvere e ghiaccio
cerchi inclinati fecondi
di vita e di tempo.

Costellazioni di pazienza,
nebulose si rincorrono nel tempo
e nello spazio dove la distanza
non è un percorso né un arrivo,
inesauribile andare senza reciprocità.
Ho la vertigine solo a pensarci,
brividi di stelle.

La luce penetra trasversale
e proietta l’ombra
obliqua del tuo corpo:
un dio greco di gesso – forse Saturno
a spezzare il desiderio
che è di questa terra.

Anni luce in ritardo
mi trovo addosso un’ansia di vivere
nel sapere che lassù c’è tutto quello
che non sapremo mai.

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Gennadij Nikolaevich Ajgi (1934-2006) POESIE SCELTE: L’ovario, Il cammino, Un acero nella periferia della città, La neve, Finestre su piazza Trubna in primavera, Da 28 variazioni su canti popolari ciuvasci e udmurti. Traduzione e Presentazione di Paolo Statuti (Inediti in italiano) con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

Gennadij Ajgi anni Settanta

Gennadij Ajgi anni Settanta

da https://musashop.wordpress.com del 2 ottobre 2015

Appunto di Giorgio Linguaglossa

“La notte è il tempo migliore per credere nella luce” (Gennadij Ajgi)

 Sono particolarmente felice che l’intuizione di Steven Grieco (il quale aveva letto in russo e nella traduzione inglese la poesia di Gennadij Ajgi negli anni novanta), di tradurre e pubblicare in italiano la poesia del ciuvascio Gennadij Ajgi sia stata accolta da Paolo Statuti il quale ha tradotto questi inediti in italiano di un poeta di grande importanza per la storia del modernismo europeo, perché è indubbio che le radici della poesia di Gennadij Ajgi siano moderniste e affondano nell’humus della cultura poetica russa e sovietica. Così, anche in terra sovietica, si è manifestata la crisi della ragione come crisi del soggetto poetante. Gennadij Ajgi prende atto, in specie nelle poesie della maturità degli anni ottanta e novanta, della  crisi del punto di partenza che unifica la nostra concezione del mondo, quella crisi che determinerà la frammentazione del logos e della narrazione incentrata sul presupposto dell’io lirico. La ragione occidentale si muove verso la crisi, e Gennadij Aji ne prende atto e la racconta con i suoi mezzi espressivi. Entra in crisi il soggetto cartesiano del Cogito, la cui funzione, ricordiamolo, è di essere il fuori-questione di ogni domanda possibile in quanto è essa stessa, la crisi, ad essere non nominata in quanto fuori-questione del «soggetto». Ma il «soggetto» è in crisi in quanto la crisi costituisce il fuori-questione. Appunto questo determinerà l’approdo alla poesia popolare ciuvascia e udmurti di Gennadij Ajgi, come tentativo di aggrapparsi all’io lirico passando per il «noi» della poesia popolare. Ma saranno gli esiti ultimi di questa crisi a determinare il movimento della poesia di Gennadij Ajgi verso la rappresentanza del «noi» piuttosto che verso quella dell’«io».

Gennadij Ajgi con il figlio

Gennadij Ajgi con il figlio

 

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Giorgio linguaglossa

 

Presentazione di Paolo Statuti

     Gennadij Nikolaevič Ajgi, il poeta nazionale della Ciuvascia, nacque il 21 agosto 1934 nel villaggio di Šajmurzino nella Repubblica dei Ciuvasci. Trascorsa l’infanzia nella sua terra natale, è rimasto sempre legato alla cultura ancestrale e alla lingua ciuvascia. Fino al 1969 il suo cognome fu Lisin. Uno degli antenati del poeta pronunciava la parola “chajchi” (“quello”) senza la prima lettera, e così si formò il soprannome di famiglia “Ajgi”. Egli cominciò a scrivere poesie in ciuvascio e pubblicò i suoi primi versi nel 1949. Dal 1952 visse stabilmente a Mosca. Dal 1960 cominciò a scrivere poesie anche in russo, grazie soprattutto all’incoraggiamento di Boris Pasternak, da lui conosciuto anni prima e che diventò suo grande amico. Ma per la sua poesia innovativa Ajgi fu accusato di formalismo e dichiarato persona non grata nella sua Ciuvascia, i cui campi e boschi pervadono la sua creazione. Per dieci anni lavorò al Museo Majakovskij, ciò che gli permise di approfondire la sua conoscenza dell’avanguardia russa della prima parte del XX secolo. La moderna poesia francese (soprattutto Baudelaire) ebbe anch’essa su di lui un’influenza determinante, ma il suo personale panteon includeva anche Nietzsche, Kafka, Norwid, Kierkegaard e molti scrittori religiosi.

Nel 1972 vinse il premio dell’Académie Française per la sua antologia della poesia francese in ciuvascio. Durante gli anni di Brežnev visse in condizioni precarie, mantenendosi con i magri compensi per le traduzioni. Grazie alla perestrojka la sua vita cambiò radicalmente. Gli fu permesso di pubblicare in patria e fu riconosciuto come una figura chiave della neoavanguardia russa. Cominciò a essere tradotto in molte lingue e a partecipare a diversi festival e congressi internazionali di poesia. Visitò quattro volte la Gran Bretagna, sentendo una particolare affinità con la Scozia, dove fece un pellegrinaggio alla tomba di Robert Burns, e con Londra, la città del suo amato Dickens. Sei volumi delle sue poesie sono stati pubblicati in inglese.

Gennadij Nikolaevič Ajgi

Gennadij Nikolaevič Ajgi

Ajgi è rimasto una figura controversa. Scrivendo come tra il sonno e la veglia, egli creò una poesia piena di silenzi, che suggerisce visioni, ansietà e gioie, e che può essere diversamente interpretata. La sua poetica è pacata e semplice, rifiuta la ricchezza del lessico e la retorica di alcuni suoi contemporanei, inoltre è intensamente orale – il pubblico era affascinato dalla sua potente dizione. E’ il poeta del silenzio e della luce. Una delle sue raccolte porta una epigrafe attribuita a Platone: “La notte è il tempo migliore per credere nella luce”.

Tradusse in ciuvascio molta poesia russa, francese, ungherese e polacca e i sonetti danteschi, mentre le sue poesie sono state tradotte nella maggior parte delle lingue europee. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi internazionali e nel 2000 è stato il primo a ricevere il Premio Boris Pasternak. Scrive Damiano Rebecchini: “Pur vicina alla lirica francese del Novecento, la poesia di Ajgi è profondamente radicata nella tradizione poetica russa, ispirandosi in particolare all’opera di Osip Mandel’štam e di Boris Pasternak. Caratterizzata da un intenso impressionismo lirico, essa accoglie spesso dalla natura suoni e suggestioni che generano un tessuto fonico e ritmico accentuato dal verso libero, e a volte si muove verso un originale sperimentalismo, in alcuni casi orientato a esplorare la dimensione del sogno”.

“Col passare degli anni è cambiata la mia definizione della poesia, – disse il poeta in una delle interviste. – Prima dicevo: è la gravità della parola, adesso dico: la poesia è il respiro e l’uomo è il respiro. Respiro e ispirazione provengono dalla stessa radice… La poesia è il respiro di Dio. Noi fioriamo / soltanto per un tocco / di un’altra forza benevola e pacata, – ricorda Ajgi, – e l’essenza della poesia è questo tocco… La poesia è eterna… Essa come la neve – esiste dappertutto. Si scioglie, di nuovo cade, ma essa…è. La poesia è la neve. La poesia essenzialmente non cambia. Essa si autocustodisce. Ciò che in essa passa – è un’altra faccenda. E in questo senso la poesia non ha né ieri, né oggi, né domani”.

In italiano alcune poesie di Ajgi sono incluse nelle raccolte Poesia russa contemporanea da Evtušenko a Brodskij, a cura di G. Buttafava (1967) e Antologia ciuvascia. I canti del popolo del Volga, a cura di A. Scarcia (1986). Gennadij Ajgi è morto a 71 anni il 21 febbraio 2006. Come di consueto pubblico qui alcune sue poesie nella mia versione.

 

Gennadij Nikolaevič Ajgi Poem

Gennadij Nikolaevič Ajgi Poem

Poesie di Gennadij Ajgi tradotte da Paolo Statuti

 L’ovario

(Dall’omonimo poema ciuvascio)

Ad R. A.
che io sia tra di voi
come polverosa moneta trovata
tra fruscianti banconote
in una lubrica tasca di seta:
potrebbe risonare a piena voce
ma non ha niente su cui battere

quando rombano i contrabbassi
e quando si rammenta
come nell’infanzia il vento fumava
di pioggia in un mattino autunnale –

che io sia
un’attaccapanni verticale
sul quale si possono
appendere non solo cappotti
ma si può appendere anche qualcosa
più pesante di un cappotto

e quando non crederò più in me stesso
che sia viva la memoria
per ridarmi la tenacia
per sentire di nuovo sul viso
la pressione dei muscoli degli occhi Continua a leggere

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Lidia Gargiulo “Itinerari dell’esilio. I grandi temi della divina Commedia” LA COMMEDIA DI DANTE COME OPERA DELL’ESILIO

dante alighieri 4Lidia Gargiulo ha vinto il Premio Speciale per la Critica Letteraria con “Itinerari dell’Esilio” (Edilet) al Concorso Nazionale “Terzo Millennio”. Il premio le sarà consegnato oggi, sabato 24 ottobre 2015 alle ore 16 nel corso di una cerimonia che si terrà nel Palazzo Massimo alle Terme di Roma (Largo di Villa Peretti, 1 – Roma, nei pressi della Stazione Termini)

01 COP DANTELidia Gargiulo Itinerari dell’esilio. I grandi temi della Divina Commedia EdiLet, Roma, 2013 pp. 236 € 18,00

Dante Alighieri

Dante Alighieri

 Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Affrontare «i grandi temi della commedia» come fa Lidia Gargiulo in questo libro non era una impresa scontata, tante le difficoltà: ad iniziare dalla straordinaria complessità del viaggio dantesco nei tre regni dell’oltretomba, le stratificazioni delle interpretazioni analogiche, allegoriche e filosofiche che la gigantesca costruzione del poeta fiorentino ha fatto sì che si siano accavallate nel corso dei secoli; le modificazioni dei significati lessicali, la ricostruzione minuziosa della rete dei riscontri storici e filologici dei personaggi e degli episodi rappresentati nella Commedia. Tante difficoltà, dunque, tante sfide che l’autrice, nota poetessa, ha risolto con brillantezza e una prosa agile e precisa, aliena da complessità accademiche o lemmi burocratici. La Gargiulo coglie, con una sensibilità tutta moderna, con precisione l’aspetto caratteristico della Commedia, la quale «è un sistema compiuto e coerente, autoreferenziale in quanto regolato da proprie leggi interne. Per accedervi il lettore deve pre-disporre la mente e lo sguardo su un mondo diverso dal suo: questo poema infatti non racconta solo una straordinaria esperienza individuale, ma documenta anche una civiltà». (p. 26)

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

«Già nella Vita Nova Dante rivendicava ai poeti il diritto di usare l’allegoria» e riporta l’esempio di Ovidio: «quando Ovidio racconta che Orfeo ammansiva le belve col suono della cetra, vuole dire che la musica addolcisce i cuori crudeli»; ma nella lettera a Cangrande Dante distingue fra “allegoria dei poeti” e “allegoria dei teologi”. Distinzione importantissima perché introduce il concetto della libertà del poeta di costruire le sue allegorie pur restando convinto che solo la fede dà senso alla libertà degli uomini. La Commedia è dunque una allegoria del viaggio, ed il viaggio è visione dei luoghi dell’aldilà, quel posto che non è occupato dagli abitanti della Terra e distinto in Inferno, Purgatorio e Paradiso. È proprio questo grandioso scenario quello che permette a Dante di narrare la storia più meravigliosa che un poeta abbia mai narrato: la storia di un viaggio nell’oltretomba che si fa nel presente. La Gargiulo inquadra, con grande ricchezza di particolari e di dettagli storici e filologici, la struttura dell’opera dantesca entro il quadro della filosofia tomistica di San Tommaso, e non poteva essere diversamente in quanto quella era la filosofia adottata dalla Chiesa che consentiva di unire il sistema teocentrico del cristianesimo con il sistema cosmologico tolemaico in una sorta di perfetta architettura cosmologica, filosofica, teologica e simbolica.

Dante Alighieri 2La Gargiulo mette in evidenza il rovesciamento del modello classico: mentre per i pagani «inferno» è semplicemente un «luogo infero», sotterraneo, a cui approdano tutti i morti, l’«inferno» cristiano  il contrario di «paradiso», è il luogo privo di stelle dei condannati per l’eternità;  «man mano che il Viaggio procede, l’idea di governo e di libertà evolve da un modello di ispirazione aristotelica a un modello di ispirazione platonica, da forme dinamiche di convivenza… a forme via via più statiche che assorbono la libertà individuale in un disegno superiore pre-visto e pre-ordinato». (p. 43) I  capitoli dello studio si dipartono da quello centrale che mette a fuoco la questione della «Commedia», dei suoi requisiti formali e sostanziali. Nell’Inferno non ride nessuno, tranne Francesca da Rimini quando racconta che dal «disiato riso» di Ginevra nascerà la perdizione di Francesca da Rimini. Rifacendosi ai precetti della Poetica di Aristotele, laddove il filosofo greco la rifà alla imitazione di soggetti non nobili, ossia di basso ceto, per cui la commedia deve rivolgersi agli aspetti più modesti della realtà, quelli della vita di tutti i giorni, quindi anche la sua forma sarà dimessa. Così del «riso», secondo Aristotele c’è quello sguaiato e quello pacato da allegrezza diffusa. Ne consegue che l’Inferno è certamente ridicolo, cioè comico, nel senso che quanto avviene in esso deriva da una deformazione e una deviazione dall’ordine, in quanto originato dal baratro di una caduta; «sofferenza senza riscatto, deposito a fondo perduto del male», commenta l’autrice; il dolore non produce cambiamento, il «tristo ludo» dell’Inferno ha il suo fondamento nella immobilità del cosmo, di quella parte del cosmo che è stato escluso dalla visione di Dio comune a tutti i dannati, e il contrappasso è il regolo del castigo che viene comminato a tutti gli abitanti di quella dimensione.  «Molti dei mostri infernali (Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, le Erinni, i Centauri, i Giganti..) provengono dalla mitologia classica e dall’Erebo pagano… ma nella Commedia essi sono ribaltati dal tragico al comico, dalla sacralità degli inferi pagani alla sconcezza dell’inferno cristiano». (p. 58)

Dante Alighieri

Dante Alighieri

Il punto importante messo in luce dalla Gargiulo è che la Commedia è la prima opera dell’esilio. Nel 1301 l’espulsione dei Guelfi Bianchi e il ritorno dei Neri significarono per Dante l’imputazione di falsario e barattiere, l’esclusione a vita dalle cariche pubbliche e la multa di 5.000 fiorini. Ma nella Commedia la parola «esilio» non si incontra mai, non è un caso, è una parola rimossa ma è la parola chiave che mette in modo l’opera.

«L’ultima occasione di far ritorno fu la promulgazione nella Firenze dei Neri, di un Ordinamento di Perdono agli esuli Bianchi (1315), ma Dante Alighieri rifiutò»; (p.83) non è questa la via per un ritorno onorevole di Dante in patria, meglio l’esilio a vita. «Ma nella scelta di essere ‘fuori’ maturava un altro modo di essere ‘dentro’» commenta la Gargiulo. Dante è il primo poeta dell’età moderna: inventa la poesia dell’esiliato e dell’esilio, del disconosciuto in patria; da allora il tema dell’esilio sarà centrale nella poesia europea; fino a Leopardi, Holderlin, Milosz, Brodskij, Mandel’stam, Zagajevski. È il tema centrale che ha occupato le menti dei migliori poeti della nostra epoca. Mi sembra questo il significato attuale di questo libro, la Commedia dantesca viene letta da questo particolare punto di vista.

Lidia Gargiulo

Lidia Gargiulo

Lidia Gargiulo vive a Roma. Sue pubblicazioni:
 Dalla selva alla rosa – sulla Commedia di Dante
Insegnare il Novecento -1994
Duetto per Clodia – poesia
Penelope classica e jazz – poesia
Di chi è il bambino – poesia
I segni di Proserpina – poesia
Le rose di Sirmione – poesia
Solubile – poesia
L’invenzione del paradiso – romanzo
Le dita nell’inchiostro – diario-reportage sulla scuola
Ossovage – romanzo
Nacchere – romanzo
Solubile – poesia
Dall’Est – racconti
Dall’Est 2 – racconti
Versi e racconti pubblicati su periodici e riviste (Malavoglia, Tuttestorie, Insegnare, Pagine, Fermenti, Ecole…); è possibile leggere suoi racconti nei taccuini del  sito WWW.cittaelestelle.it

Collabora alle riviste : Ecole, Echi di psicoanalisi, Treccani Scuola online. Premi: Magna Laus al Concorso internazionale di poesia latina Certamen Catullianum  di Verona (1990); Segnalazione speciale al Concorso Internaz. di poesia Eugenio Montale (1992); Finalista al Premio Narrativa Inedita Italo Calvino (2002).

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Marco Onofrio “Da Omero all’e-book. Le tecnologie linguistiche e i loro riflessi sulla cultura”, Parte II

Evgenia Arbugaeva Weather_man

Evgenia Arbugaeva Weather_man

Alla metà del ‘400 data l’inizio della  “galassia Gutenberg”, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Se la scrittura trasferiva le parole dal mondo del suono a quello dello spazio visivo, la stampa le fissa definitivamente in questo spazio. Le parole stampate sono nitide, regolari, inevitabili, più facilmente leggibili. Ciò che è stampato diventa con ciò stesso fededegno, nella misura in cui tendenzialmente veritiero e “autorevole”. Il passaggio dal manoscritto al libro stampato segna il primo atto della “riproducibilità tecnica” della cultura. Prima di allora le edizioni erano manoscritte (da copisti, ma anche per mano dell’autore), e il libraio nella sua bottega – lo “scriptorium” – provvedeva a far trascrivere copie su ordinazione dell’originale. Il numero dei manoscritti era molto basso, la produzione lenta, il costo altissimo. D’altra parte la domanda era limitata, doveva rispondere alle esigenze di una casta culturalmente egemone ed endogamica (gli umanisti e i loro mecenati). La cultura era comunicazione interna fra “addetti ai lavori”: mittente e destinatario appartenevano alla medesima élite.

Albrecht Durer ex-libris 1516

Albrecht Durer ex-libris 1516

Con l’invenzione della stampa nasce la figura dell’editore-stampatore, d’ora in poi medium determinante (mai neutro) fra autore e lettore. L’editore deve vivere del proprio lavoro, ha dunque tutto l’interesse che i libri vengano acquistati e letti da un sempre maggior numero di persone. I lettori potenziali rappresentano un mercato da conquistare. C’è una domanda, cui occorre conformare l’offerta del prodotto tipografico. Anche se i maggiori utenti di libri restano chierici e umanisti (per i quali si stampano opere in latino), una notevole produzione comincia ad essere destinata a più larghe fasce di pubblico, i laici al di fuori dell’élite. Molti autori (i cosiddetti “poligrafi”), inaugurando forme più fluide e disinvolte di lavoro intellettuale, operano proficuamente, in simbiosi con gli editori, nella divulgazione della cultura “alta”, ma anche nella produzione di un’offerta agile, pensata e scritta apposta per rispondere al gusto degli “incolti”. È un fenomeno che contribuisce a normalizzare l’uso anche scritto del volgare. La stampa in volgare ha particolare sviluppo nell’Europa del Nord, dove viene utilizzata, come più efficace strumento di propaganda, dai movimenti politici e religiosi, ad esempio il protestantesimo. In Italia, invece, autori e stampatori continuano per molto tempo a scrivere e pubblicare soprattutto per l’élite culturale.

cardini cervo_unicorno

cardini cervo_unicorno

Lo sviluppo della stampa è rapido e progressivo (nel ‘500 le tirature si contano già sull’ordine delle migliaia di copie) e comporta alcuni fenomeni “collaterali”:

–  il libro costa molto meno del manoscritto: finché era prodotto a mano dal copista, come manufatto singolo, aveva un prezzo insostenibile per l’uomo comune eventualmente alfabetizzato e interessato all’acquisto;

–  di conseguenza, la produzione di libri in serie a costo accessibile permette alla cultura di abbracciare un pubblico enormemente più vasto di quello raggiungibile con i manoscritti;

– la stampa promuove in tutta Europa un vasto fenomeno di alfabetizzazione e di nuovo interesse per la cultura;

– l’editoria inserisce la cultura nel meccanismo economico, quindi la rende soggetta alle leggi di mercato;

–  l’editoria fa nascere un nuovo lettore, che a sua volta la sostiene e ne assicura il successo;

– la stampa elimina le incertezze e le idiosincrasie dei manoscritti, contribuendo alla standardizzazione delle lingue volgari.

Starry_Night by Eugeal

Starry_Night by Eugeal

La stampa, inoltre, trasforma le modalità della lettura, che da pubblica e orale diventa privata e silenziosa. All’epoca dei manoscritti, pochi di numero e poco maneggevoli, la lettura era ancora l’attività sociale di un soggetto che legge ad alta voce dinanzi a un uditorio (il predicatore dal pulpito, il banditore che proclama gli editti, il poeta che recita i suoi versi); i libri stampati, invece, sono numerosi e maneggevoli: chiunque può procurarsene una copia e, se lo può fare, leggerla in disparte. Tuttavia «anche dopo l’introduzione della stampa, la testualità raggiunse solo gradualmente il posto che oggi occupa all’interno delle culture nelle quali la lettura è soprattutto silenziosa (…) ancora per tutto il corso del XVIII secolo, molti testi letterari, anche se composti per iscritto, erano comunemente destinati ad essere recitati in pubblico, in origine dall’autore stesso. Leggere ad alta voce in famiglia o in altri piccoli gruppi era un’attività ancora comune all’inizio del XX secolo» (Ong).  Per questo molti autori, fino al Romanticismo, si esprimono, scrivendo, secondo una retorica basata ancora sull’oralità, come in vista di una pubblica lettura. Il lettore è un orecchio che ascolta più che uno sguardo che legge. Soltanto nel corso dell’Ottocento, con l’ulteriore sviluppo massificato della stampa, l’autore acquisisce una mentalità tipografica che lo porta a dialogare con lo spazio bianco del foglio (equivalente al silenzio), utilizzandolo in funzione espressiva. La stessa ricerca della “poesia pura” che sostanzia tanti sviluppi poetici del Simbolismo europeo, deriva secondo Ong «dal senso dell’autonomia dell’espressione della scrittura e, ancora più, dal senso di chiusura creato dalla stampa».

Ardengo Soffici Chimismi

Ardengo Soffici Chimismi

Il genere orale dell’epica lascia il passo al genere scritto del romanzo borghese, sempre più soggettivo e introspettivo, tipico frutto della cultura tipografica e della nuova coscienza che essa ha contribuito a sviluppare. Alle soglie del Novecento l’imponente sviluppo scientifico e tecnologico consente una sempre più sofisticata e precisa riproducibilità dell’opera d’arte (Benjamin), la quale si emancipa definitivamente dalla dimensione del “rito”. Con la possibilità di una fruizione potenzialmente infinita, l’arte perde l’antico valore cultuale, l’“aura”, l’unicità dell’“hic et nunc”. L’esperienza estetica si decontestualizza dall’evento originario che l’ha prodotta. Il rito collettivo viene parcellizzato in una serie continuativa di fruizioni solitarie. Non ha più senso parlare di “originale”, in quanto le copie sono prodotte meccanicamente in serie, su scala industriale, e tutte perfettamente identiche. L’arte diventa merce, creata per stimolare e soddisfare i bisogni e i sogni delle masse: nasce l’industria culturale. Mass media come radio e televisione importano tecnologie linguistiche “avvolgenti” che rendono passivo il fruitore, riportando in auge la dimensione orale e, per certi versi, quella magica delle epoche remote. La televisione è una “scatola radiofonica” che ha in più il beneficio pittografico delle immagini, profuse a getto continuo: una sorta di totem luminoso (il nuovo focolare delle famiglie) che ipnotizza l’attenzione dello spettatore, sostituendosi al suo pensiero. Quale miglior strumento per plasmare e controllare i voleri delle masse? Anche l’avvento del cinema (e di Hollywood come “fabbrica dei sogni”) modifica profondamente l’immaginario collettivo, le strutture percettive, i linguaggi della comunicazione e della ricerca artistica. I romanzi non saranno più gli stessi, dopo la diffusione mondiale dei film e l’assimilazione del montaggio e del ritmo cinematografico. Enormi cambiamenti nei processi di elaborazione semiotica dei linguaggi e di interpretazione semantica della “realtà” produce, fra l’altro, l’oceano di carta stampata (tabloid, rotocalchi, fotoromanzi, etc.) che inonda ogni giorno il pianeta, specialmente nella seconda metà del Novecento, fino alla soglia degli anni ’80.

The_Scream___Eugeal_version_by_Eugeal

The_Scream___Eugeal_version_by_Eugeal

L’ultima fase è quella che stiamo ancora vivendo. Il computer di massa, completando l’opera pervasiva svolta per decenni dalla televisione, giunge negli anni ’90 (dopo l’incubazione dei prototipi ad uso militare) a produrre la maggiore rivoluzione antropologica – nelle tecnologie dei linguaggi ma anche nelle abitudini quotidiane – dai tempi della stampa di Gutenberg. La diffusione mondiale del personal computer ha segnato l’avvento della terza rivoluzione industriale e – grazie alle incommensurabili potenzialità democratiche di Internet, senza cui questo blog non potrebbe esistere – della società a informazione globalizzata. Tutta la storia e tutta la cronaca del mondo sono simultaneamente a disposizione di ogni internauta: basta un clic. Il computer ha trasformato per sempre (in meglio) il modo di scrivere e di comporre “in fieri” l’architettura delle frasi digitate sullo schermo. Si è sveltito, ottimizzandosi, il lavoro nelle redazioni dei giornali, nelle case editrici, nelle tipografie. Intere biblioteche possono essere contenute e trasmesse in minuscoli dispositivi elettronici. Telefonini cellulari, iPhone, iPod, tablet, book reader e altri accessori, in continua evoluzione e rapidissima obsolescenza, completano il bagaglio iper-tecnologico dell’uomo contemporaneo; ma la “disponibilità totale” dei linguaggi e dei testi aumenta di pari passo il pericolo della loro dispersione entropica, con il conseguente indebolimento progressivo delle segnaletiche utili per orientarsi nel “labirinto”. I codici cambiano più velocemente di quanto impieghiamo ad impararli: essere up to date impone un aggiornamento continuo e compulsivo, parallelo a quello dei dispositivi. La storia si è accelerata a tal punto che sembra ferma: tutto è in rapidissima evoluzione. Il libro cartaceo è già stato affiancato dall’e-book e (forse?) rischia di esserne soppiantato. Siamo nel pieno di una rivoluzione culturale della quale non possiamo fino in fondo valutare gli scenari e gli sviluppi. Le grandi predizioni sono ormai fuori portata: ci è concesso, al più, di navigare a vista.

Marco Onofrio  

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Donato di Stasi “note su La tribù dell’eclisse di Giulia Perroni” (Passigli 2015)   con una selezione di brani poetici dal libro di Giulia Perroni

bello ritratto di donnaIl Poema dello Überall e del Nirgends di Donato di Stasi

Ci sono ancora nella scrittura poetica cose ineffabili che non si possono spiegare, un residuo di mistero, un qualcos’altro che continua imperterrito a mormorare alla coscienza insoddisfatta del poeta, alla verità incompleta della sua ragione. Questo qualcos’altro è il lato metastorico, inesauribile della realtà: presenta un carattere dubbio e anfibolico e non smette di interrogare con il suo mutismo, con i suoi balletti di ombre (la skiagraphia platonica).

La tribù dell’eclisse riguarda per un verso il mondo che non c’è più (la Sicilia favolosa dell’infanzia, l’infanzia storica ottocentesca di quest’Italia tribolata, la passione sociale e l’emancipazione delle donne), per altro verso argomenta del mondo che non c’è ancora (la certezza vivente della trascendenza, la presenza di una sfera intangibile, ma pienamente attingibile dal discorso poetico).

Nello sguardo rivolto al mondo che non c’è più si assiste a un ripetere dei fatti (gli studenti toscani che a Curtatone nella prima guerra d’indipendenza salvarono i piemontesi dall’accerchiamento austriaco, sacrificando le proprie giovani vite), si giunge a constatare verità dolorose (i ricordi familiari, la disfatta del nido, i rimpianti dopo la morte dei genitori), ci si dispone a rispecchiare le proprie ansie e i propri desideri in urto con l’ordinarietà omologante che dilaga in tutti gli strati della società.

Con il ricorso a uno straordinario e innovativo flusso poematico, work in progress  fitto di frammenti e di lacerti di senso, Giulia Perroni inaugura  a suo modo, e di suo pugno, un mondo che non è ancora venuto, stante l’attuale processo storico e il suo decorso temporale, totalmente preda del materialismo più distopico e annichilente, a cui è possibile opporre, salutarmente, l’indicazione di una smagante utopia, definita nei termini di non-luogo e non-tempo, esattamente com’è leggibile nei toni favolistici e mitici dell’incipit, messo lì non a caso:

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

C’era una Biancaneve che pativa
l’alba non appariva
in verde prato solo i nani compivano
il tormento di essere fatui e bimbi

(…)

Una guerra di lame inconsistenti
come le ombre che conquista il sole

Mia prigione che fa delle magnolie
un indugio di terra

E della donna e del rapporto antico
nella triade impetuosa non si parla (pp. 13-14)

Giulia Perroni forza il linguaggio, tenta di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che l’individuo sembra avere dimenticato, soprattutto nella sfera morale e nella dimensione dell’indicibile. L’impegno etico dell’Autrice risulta così intenso che riversa tutta la tensione nella parola, affinché riacquisti forza espressiva, attraverso un sapido mélange di suoni  e una concreta riabilitazione della struttura essenziale dei significati.

Da pagina 13 a pagina 167 scorre un ininterrotto fiume eracliteo di frammenti oscuri e chiarissimi, descrittivi e riflessivi, narrativi e astratti in senso mallarmeano, storici e atemporali, sociologici e assolutamente intimi, antropologici in senso culturale e biologici in quanto riferiti all’esistenza naturale del mondo e della donna che pronuncia il pronome personale io  e il pronome possessivo mio.

Ciascun frammento produce un duplice scatto intellettivo e volitivo, come se lo spirito fosse tornato ad abitare la casa dell’essere, pur con un diverso modo di incedere, rispetto al suo passato storico, riuscendo infatti a costringere in un’unica torsione esistenziale particolarità  e universalità.

Ciascun frammento fornisce una debita provvista di materiali, una spinta semantica tesa a percorrere i sentieri remoti dell’inconscio che, via via, affiorano in direzione di un racconto epico-archetipico:

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Eppure in me la vita era bellissima
come una dea da sacrifici umani
implacabile mostro che ghermiva
l’implacabile bimba che sognava

(…)

Conosci la ferita
Essa rimane tanto quanto il mio amore
Il Nirvana dell’albero risuona
si scolora la rabbia si allontana
l’ingrandito ruscello e nella mano
titilla i desideri (p. 15)

La sfera oscura e imprevedibile del sé nascosto viene fatta collidere con la dimensione superficiale delle cose, ne scaturisce un intenso sentimento della vita che spalanca una dimensione verticale e  perpetuamente innalza l’atto poetico al cielo della metafisica.

A una realtà impotente, contraffatta, disperata, Giulia Perroni sostituisce l’istante fatale e decisivo del suo linguaggio che progredisce per frammenti verso la totalità, troppo commovente, troppo esaltante per non essere colta: Überall (ovunque) e Nirgends (novunque, in nessun posto) costituiscono gli estremi confini tra i quali si svolge il viaggio della dickinsoniana Tribù dell’eclisse. Nel corso del tragitto l’istante si radicalizza, si sottrae alla temporalità, per farsi concreto e esistente, per manifestare (una volta vissuto) l’aspirazione inconcussa all’unità, al fondamento, all’assoluto.
Frammenti vicini tra loro, irregolari e asimmetrici (versi ipometri e ipermetri, strofe di diversa lunghezza, distici, terzine, quartine, sestine, ottava rima, ecc.), disegnano un percorso lento e accelerato, fino a che l’ultima parola si spegne in un silenzio gravido di verità.

Frammenti non preordinati, prosainversi mutevole, frutto di una scrittura raffinata, disposta su differenti piani espressivi che risalgono dall’impercettibilità inconscia alla chiarezza significante della coscienza.

Giulia Perroni alza un canto dolcissimo, a tratti ruvido, tenue e fragoroso: suoni e sillabe di altezza sempre mobile, dentro microintervalli di senso, mai statici, dinamicamente centripeti, volutamente centrifughi, proprio a imitare il battito della vita, diastole e sistole di una ragionata e casuale irradiazione di significanti e significati.

Frammenti non univocamente interpretabili, enigmatici senza nascondere nulla, chiaroveggenti senza la stucchevolezza del profetismo, realistici senza mai perdere il riferimento al significato ultimo delle cose:

Giuseppe Pedota, L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca
Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno (p. 81)

Giulia Perroni pratica i suoi esercizi di respirazione, immergendosi nella complessa articolazione del divenire, assecondando la polivalenza del tempo: riepiloga le forme assunte dalla Storia e le distrugge,  ribadisce il valore della vita e il suo logoramento, si lega al principio della stabilitas loci (la Sicilia nel verso Il suo giardino ha sette stelle e spade) e assomma un fitto tessuto di paradossi (Il nostro sogno è il sogno). Permanenza e mutevolezza si piegano all’erranza degli anni attraverso altri luoghi (Roma in primis), così il tempo può fungere da trincea arcaica dell’essere in forma di itinerarium verso il trascendente (Il pozzo il suo sublime) e di descriptio di vicende biografiche individuali e collettive (E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori, Il brulicare i tulipani d’oro). Sempre Giulia Perroni alimenta il pathos con il suo ritmo incantatorio, arabescando una peregrinatio animae, un’agnizione, un riconoscimento delle pulsioni più profonde attorno a cui si muove uno sciame di pensieri dolenti e naufraganti.

Se l’opera del Tempo deve essere analizzata a dovere, allora il viaggio terreno non può che essere retrogrado: nulla torna e se torna è solo leggenda, favola, filastrocca. Il tempo è sempre altro: impassibile, ridicolo, tragico, farsesco. Il tempo non torna indietro anche se tornare è indispensabile, e per questo occorre rivolgersi alla poesia, l’unica in grado di farlo, l’unica capace di riaprire porte, di salire e scendere gradini, di accarezzare con lo sguardo luoghi perduti, battaglie combattute contro la malattia e la morte, contro i blocchi inseparabili di ingiustizia e solitudine.

Proprio perché il reale si disarticola, se ne cerca il filo, secondo la spinta unitiva a configurare il proprio microcosmo mitico nel macrocosmo storico, perciò si delinea la conciliazione tragica degli eventi tra l’infinitamente spirituale e il finitamente materiale:

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Il fato oscuro che accompagnava i reprobi

L’angoscia millenaria dei popoli

Ed io vidi che tutto era silenzio

(…)

E quell’incendio mite che occhieggiava
Portando le radici oltre lo stento
Portando in giro i morti (p. 87)

Giulia Perroni abbandona le forme chiuse  e slarga la scrittura con l’ardore più vivo e più tenue, a seconda che l’espressione tocchi la visceralità o la riflessione. Vinta la forza di gravità il  flusso poematico può cadere in alto e in basso, in uno spazio isotopo dove è possibile porre ogni singolo evento al posto giusto, vale a dire nella totalità che tutto regge e legittima. Senza un intelletto assennato e organizzato e una volontà altrettanto dissennata non esiste perfezione espressiva, non esiste la poesia.

L’essere tautologico si apre alle infinite antinomie, ciascuna segnata da un’occasione  esistenziale e resa con una straordinaria catena analogica che tocca ogni genere letterario (il reperto realistico, la cronaca quotidiana, l’empito lirico, l’eccesso espressionistico, il resoconto sociologico): in  sostanza una scrittura minimale che si accende di visionarietà e oltranza metafisica.

In certe pagine più silenziose il ductus poetico si libera dalle sue finzioni abituali, diventa più perspicace e d’improvviso appare la vita in se stessa, diversa da quella che percepiamo normalmente, oltre lo possibilità dello sguardo, al di là delle forme consuete  e rassicuranti della ragione.

La scrittura fa il vuoto e il vuoto si allarga, non senza crudezza e paura, allora le immagini si scindono e frantumano, sprofondano in un loro abisso e con esse le cose, riconnesse tra loro e riallacciate al soggetto che scrive.

Giulia Perroni non teme di affacciarsi su questo paesaggio interiore: ne distingue gli attimi, ciascuno dilatato fino all’eterno. Vertigine  e stabilità si succedono in modo rocambolesco, all’apparenza casuale e incomprensibile (la forma poematica del libro). Le parole-idee si distendono agostinianamente fra ambizione e miseria: la vita torna a essere grande, insolita, una fantasmagoria di ricordi e fantasie, cronache  e riflessioni. È questa la certezza della vittoria sull’oblio, il miracolo di un passato ripetuto per fotogrammi a sostenere e a legittimare il presente:

Una neve cadeva da alti rami, una svelta clessidra ne induceva
voci di rabbia unite a quei vulcani che inneggiano alla vita
era l’Immenso la chiocciola in disuso la fontana il dubbio
adamantino di certezze, era il pastrano delle nuvole buie

(…)

L’estate come un pioppo o una vernice di smisurato crederci

O un enigma affacciato sul brivido (pp.142-143)

Giuseppe Pedota L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Giulia Perroni esce fuori dalla finzione che è divenuta la poesia del fare poesia, di più frammenta e critica la poesia autoreferenziale, riuscendo a comporre un inusitato poema incentrato sul concetto di poematicità, vale a dire scrittura lacerata, molteplice presenza di voci divaricate, impiego voluto di materiali poveri, enunciati da un nuovo soggetto lirico, spossessato, decentrato come se fosse una terza persona, o meglio una quarta persona singolare.

Il lettore potrà notare una scrittura più libera, più plastica, inclusiva dell’extraletterario, problematica, incompiuta, al pari dell’incompiutezza dell’epoca contemporanea. Non si lasci ingannare dalla struttura frammentaria, perché il poematico possiede la sua propria narratività e la sua evidente discorsività che ovviamente non possono essere quelle della prosa stricto sensu.

Risaltano, si contrappongono e si amalgamano classicità  e tradizione in una ridda di archetipi, stratificazioni, generi multipli e canoni extra-ordinari, nei quali non è difficile imbattersi in erotismi, epigrammi funebri, sentenze, cronache di case regnanti (gli Stuart scozzesi p.es.), tutto pur di restituire l’uomo all’umano.

La tribù dell’eclisse  va letto come un tutto, esso si mostra prototipo di complessità e unicità. Parlare di complessità tocca il substrato di una scrittura plurale, polisemica, sentimento della maggiore profondità possibile. Parlare di unicità allude al salto dal nulla al qualcosa, dal mutismo catatonico della massa omologata alla voce dispiegata e originale dello scrittore, in questo caso particolare di una scrittrice fra le più caparbie e più autenticamente in cerca di una forma veramente moderna di poesia.  

Nereidi, nottetempo, appena dopo l’equinozio d’autunno

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse copGiulia Perroni da La tribù dell’eclisse (Passigli, 2015)
(…)
Io bevevo la pioggia sacrosanta come le zolle in cielo
e mi stupivo che la bellezza fosse nelle strade
oscura nella forza

Mi stupivo che fossi io la bellezza

La vittoria di serpi di corallo

Voi date onore ai morti, cavalieri

Cavalieri che nelle lance mai perdete il giorno

Giulia era bella nel soffitto d’oro

Malinconia d’un tempo

Cavalieri che forse veleggiate
alla ricerca della vita bionda
del calice che imprime la sua fine
non uccidete gli uomini già morti

Ci fu un tempo ora l’anima è stravolta
la gran virtù s’è fatta titubanza
pepita d’oro e attimo violento
nella stanza degli echi

La ferocia è la paga dei vigliacchi
l’estirpare rinfocola la notte
e il grigio buio aliena le sorgenti

Non ci sarà speranza

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca

Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno

L’ossessione che naviga nel cielo

E questo è tutto

Origine del vero

C’è silenzio quando origlia la notte

Era tabù la stanza di orologi
di fucili di lame di fanfare
brillava solo il mondo solo il mare
e l’abbraccio magnifico e stupendo
con la vita del tutto

Solo il mare

L’immensità che canta

Il mare azzurro denso d’amore e quieto

Penzolava una rosa dal giardino
dalla soglia si nutre la speranza
anche oggi un fiore rosa
penzola all’aria fuori dal cancello

Anche oggi è la vita
mescolata ai colchici dell’ombra

Ezra rimane duro e battagliero
solitario e profondo
ed anche chi non seppe dire il mantra
che popolava i secoli

Dorme con me la vita

Gli sconfitti hanno una giara che riabbaglia il senso
la pregnanza che illude le chimere

Abbiate pace tutti quelli che vissero

Ogni cosa serve per essere

Venne la pietra a contrastare l’acqua, il fuoco la vertigine
il riparo fu nel sole bellissimo la vita quando l’arte ci avvolse
e in quei momenti come dentro l’amore si discinse
il giorno con la pioggia

E in quei momenti di mezzo sole l’arte fu fulgore

Per la vita strapperò le catene

Anche mia figlia è sogno

Per la vita datemi un nodo per i lestofanti
forse ne avrò pietà
ma non c’è forza che oscuri in me l’Amore
che possa dire smetti di sognare

Io non potrò lasciarle nella casa il sandalo dei lumi o l’impreciso
bianco sconforto delle tele bianche nelle attese ghiottissime
dei nembi non potrò con sveltissimi riguardi tambureggiare
varchi e gelsomini né capriole di nubi oltre lo sguardo ma dirle
che l’eccelso può apparire e darle pace e un’ottima carezza

I lestofanti sono indistinguibili
ma tu per me rimani
accetta il sole sopra ai mandarini
è un disegno di vita

Per favore rimani

Dal deserto sorgono fiabe dentro visi scuri

Rimani, ogni cosa avrà corso

I lestofanti fuggiranno più svelti della luna
quando i cervi camminano e singhiozzano
sulle radure d’api e cinghialini
faranno d’aria i monti

Fuggiranno e tu sarai regina

Te lo prometto

Anche se il male grida
vivrà sempre nel mondo la speranza

I pacifisti hanno nel raggio amaro ribattezzato il fascino
la luna in sette spade c’è silenzio un messaggio cifrato
per chi ascolta

La bellezza verrà te lo prometto

Lo promette lo Spirito alla folla

Nel discorso che viene da montagne

E resiste l’immagine dipinta
sotto cui ero solita mangiare
la fiamma con la luna la fierezza
i cavalieri usciti da quel mare

Tutto così sognante

Poi la vita

La guardo in occhi di ferocia e argento
e ho paura del buio
così come nessuno potrà mai riempire
il mio essere donna

C’era bellezza intorno
nonostante lo stridere dei ferri

C’era un’asse e una luce

La giustizia

Lontana e indispensabile

L’aurora

Necessaria ferocia del linguaggio
ora che tutto è aperto

L’albero incauto a cui mancò una foglia

Altezza del coraggio

Il suo nome fu quello

Quello solo

Coraggio

Come se i sogni nutrano
e passeggino
in un sogno deciso

Olga e Giulia a braccetto
ed io tremante come un nudo fagiano

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

La bellezza

Io piccolina

Olga e Giulia e la donna
che sputava in faccia ai suoi carnefici la vita

C’era un giardino un giorno
una volta sì c’era

C’era una volta

Un principe e una luce

Un guardiano di faggi

Un promontorio

Una lucciola spersa tra le foglie

Una eresia

Un incanto

Una carrozza che possedeva i suoi lingotti d’oro

Sono perduta e ascolto: così assurdo il linguaggio

Così acceso il cantare e il mormorio che fa di sale la cintura d’oro

Ho cento rapimenti

Lincoln ucciso, ucciso Petrosino ed ucciso Giuliano

E tanti ancora moriranno nel dubbio

Chi colora i rami della pioggia?

La bellezza fuori dal mondo viva

(…)

Una neve cadeva da alti rami, una svelta clessidra ne induceva
voci di rabbia unita a quei vulcani che inneggiano alla vita
era l’Immenso la chiocciola in disuso la fontana il dubbio
adamantino di certezza, era il pastrano delle nuvole buie

Qualcosa andava come preghiera al laccio
o all’evidenza del rosa delle origini
un pasticcio dentro quel me d’osceno
e tante immagini o persone che escono dal mare
in disincanto come fossero gemiti riflessi del colore del buio

Come poteva dirsi ancora sole quell’estate indolente
e il suo confine nel corallo di fiaba?

La maestria franosa del Vedente, l’onore primordiale delle piazze

L’estate come un pioppo o una vernice di smisurato crederci

O un enigma affacciato sul brivido

(…)

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida a un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Sì, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli Inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore del silenzio

C’è luna piena ancora

Giulia Perroni

Giulia Perroni

La ricordo

Uno Stuart sposò quell’antenata
( signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle Veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie
chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone
all’armi incredibili più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi
con tutti i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’ Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

(…)

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Giulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino Edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “Appunti critici” (Roma 2002), per lei un saggio e ancora in “Poiesis” (n. 23-24) scrive su La cognizione del sublime. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su «Poeti italiani verso il nuovo millennio», Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in «La maschera e il vuoto», Aracne 2005  e in «Tra esotismo ed esoterismo», Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su «La Mosca» di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su «La Gazzetta di Parma».

I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana.

Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

Donato Di StasiDonato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

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Luca Ariano POESIE SCELTE da “Ero altrove” (2015) con un Commento di Salvatore Ritrovato

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il servizio pubblico a Roma

Luca Ariano (Mortara – PV 1979) vive e lavora a Parma. Di poesia ha pubblicato: Bagliori crepuscolari nel buio (1999), Bitume d’intorno (2005), Contratto a termine (2010) e Tracce nel fango (2011) oltre a testi presenti in antologia. Ha curato Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto 2008) e Pro/Testo (Fara 2009). Nel 2012 per le Edizioni d’If è uscito il poemetto I Resistenti, scritto con Carmine De Falco, tra i vincitori del Premio Russo – Mazzacurati. Collabora a riviste e fa parte di Ultranovecento. Nel 2014 per Prospero Editore ha pubblicato l’e-book La Renault di Aldo Moro con una prefazione di Guido Mattia Gallerani. Nel 2015 per Dot.com.Press-Le Voci della Luna ha dato alle stampe Ero altrove.

 

città scorcio urbano

Commento di Salvatore Ritrovato

Non saprei dire se Ero altrove segna il passaggio a una maturità più consapevole, occorrerà vedere il prosieguo; senz’altro si può dire che essa guarda, come poche altre raccolte di così detti ‘giovani’ poeti che magari hanno maggiore risonanza, al Novecento pur avendo i piedi piantati saldamente nel nuovo millennio. Ammesso pure il valore ermeneutico di queste categorie meramente convenzionali della storia occidentale, io credo che la poesia di Ariano guardi in maniera effettuale, non ideologico, al presente, nel quale è inevitabile che coesistano, stratificandosi ed entrando spesso in confitto, più epoche della storia di una nazione che (da Stilicone ai Partigiani alla seconda repubblica) non ha mai cessato di chiamarsi Italia, prima ancora di esistere sul piano amministrativo. Guardare al presente è una delle operazioni più difficili, per un poeta, mi piace sottolinearlo: infatti, è alto il rischio di scivolare sulle parole, senza riuscire a mettere l’oggetto scrutato alla giusta distanza. Ma per fare questo Luca Ariano provvede ad alleggerire, per quanto possibile, il discorso, concentrandosi su nomi e verbi che, nella composizione delle diverse sequenze, ci restituiscono i fatti in una visione cruda, scabra, essenziale, ma non denaturata, né asettica. Non occorrono cornici per entrare nella prospettiva esistenziale del poeta, che anche quando sembra, almeno sulle soglie di qualche sezione (come La Renault di Aldo Moro), di portare il lettore su una pista precisa, verificabile, in verità non mira a interpretarne la dimensione politica, e a prendere posizione, ma a rilevarne i riflessi nella prospettiva etica dei suoi personaggi che vivono la storia dal margine, che se mai un giorno saranno famosi, lo dovranno non a una goffa esibizione mediatica, ma alla qualità intrinseca della loro vita.
Luca Ariano non fa della poesia un portato del suo ‘impegno’, dietro il quale si scorge una dichiarazione politica, un manifesto, e così via; tutt’altro, Luca si dedica alla poesia come al solo linguaggio che può finalmente ribaltare i triti luoghi comuni sulla letteratura impegnata, ove non vi sia una lucida e strenua coscienza della nostra condizione esistenziale.

(dalla Prefazione di Salvatore Ritrovato)

Luca Ariano ero-altrove-1

Otto poesie di Luca Ariano da “Ero altrove”

Il dottor Saverio mai avrebbe fatto il medico:
uno studio avviato… il padre uno dei migliori…
l’hanno incastrato con una valigetta di soldi…
una Mercedes luccicante.
Era davvero bella – dicono – fino agli anni Settanta,
poi la droga… il terrorismo ma ancora perdersi
in banconi profumati di verdura,
pesce scaricato coi camion dalla costa.
Marceranno con la camicia cachi, saluti romani
pronti a bastonare all’occorrenza.
Guido – lo stesso nome del nonno partigiano,
suo padre vent’anni di galera per banda armata,
l’hanno intercettato con volantini a cinque punte
e un mitra da comunista combattente.
L’odore di temporale dalle campagne
prima che l’acqua tracimi fogne schiumanti
e Teresa nel volo d’un’altra stagione
che non tornerà in un fruscio di vento.

*

Anche di notte l’Enrico lavüra,
come i cinesi o i giargianès
negli anni Sessanta: l’imprenditùr
lo chiamano ma per arrivare a fine mese
insegna lingue morte senza profitto.
L’Amalia assapora una caramella
alla liquirizia sentendosi bambina
quando tutti stavano bene
e l’Andrea – forse un po’ di freddo
o una mala bevuta – vomita
in qualche angolo… senza di lei
sarebbe un barbùn.
Era l’antico mattatoio – orgoglio
di generazioni di beccai, ora cimitero
di amianto… taniche.
Fiulin – in testa Teresa, pare fuoriuscito
da una sezione fumosa anni Cinquanta
ma non ci sono rivoluzioni, scioperi,
Guerra Fredda, destra, sinistra
e in auto un libro di Berlinguer…
uno scherzo… solo uno scherzo.
Campi di fiori gialli nel fresco del viaggio
da far l’amore fino a tardi
mentre le strade invecchiano discrete.

*

L’Enrico pochi ghèll in saccoccia,
anche oggi lavora fino a notte fonda
e in testa frasi da professore di paese:
«Sarete la classe dirigente di domani!»
Primo ora che la fiolètta l’è andà
solo sul divano fumerà un torcione
guardando vecchi film
e fuori vociare sui marciapiedi.
Il mare ridà antichi tesori
affondati in qualche tempesta
e Carletto operaio di tempi postmoderni
cronometra ogni gesto prima di essere
delocalizzato dall’altra parte del sole.
L’Andrea dopo un giorno a scrivere storie
in poche righe ha voglia di parlare,
di ascoltare dal canale il canto delle rane
come fossero altri tempi.

*

Marcellino a digiuno
un cucchiaio d’olio d’oliva
come voleva sua madre:
è tutta salute tra l’odore di limoni,
basilico e la risacca del mare.
Il cantiere navale fin da ragazzo,
le prime sigarette e le notti al porto:
tra i fumi d’inverno è spirato
poco dopo la pensione coi polmoni asciugati.
L’Armando bancario da sette generazioni
– forse ebrei scappati dalla Spagna –
ha iniziato con il nonno a giocare a carte
per ammazzare il tempo.
Si è bruciato a poker,
cacciato per un ammanco di cassa,
«Commissario… commissario…»
Ancora più caldo il vento d’estate
tra viali che trasudano azoto
e l’odore dei tigli è quasi archeologia.

*

Luca Ariano

Luca Ariano

L’Emilio quella chiamata
l’ha aspettata per giorni:
forse era al bagno… a comprare il pane
o aggiornarsi per nuovi corsi.
Non è rimasta che la preghiera mattutina
e il capo chino oltre il portone.
Gianni quando spegneva le prime candeline
non si sentiva un bambino come gli altri;
bastava un attimo per perdere il respiro
e ascoltando Faber con gli occhi lucidi:
“Spiare i ragazzi giocare al ritmo del mio cuore malato…”
Ancora li vede giocare sospirando per strada
ma alla sera quel bacio è un sorriso
lungo una sorsata al tramonto.
Fiulin torna come se nulla fosse cambiato
tra gli ultimi postumi d’estate:
un fiume di fango travolge case,
un sindaco colpito a morte
e domani ricominceranno le scuole
come il vento voltando pagine s’una banchina.

*

«Ben poca cosa è un poeta se non è in grado
di comporre senza angosce,
passo dopo passo, in qualsiasi momento
e con sicura efficacia stilistica qualsiasi motivo
che sia riuscito a concepire con chiarezza.»

Gabriel Ferrater

Lüìs non lo riconoscerebbe il suo paese:
era un borgo da romanzo di Fenoglio o Gadda.
Ora Ndranghetisti a dettar legge tra auto bruciate…
pizzo ancora caldo e appalti pilotati.
Dopo una partita a carte e on biccér de vín
«Se vedèm!» all’uscita del circolo
travolto da un’auto a folle velocità;
è sepolto in un cimitero nebbioso
accanto al fiume pieno di gamberi della Louisiana.
In un caffè vagamente francese
per scrittori e intellettuali dissidenti
– oggi un fast food – un poeta decise
che non sarebbe vissuto oltre mezzo secolo:
se n’è andato nel suo appartamento
tra fogli volanti una notte d’inverno.

*

Tiberius etiam ad rapinas convertit animum.
Gaius Suetonius Tranquillus

Di carovane nel deserto
già ne parla la Bibbia,
nella città dove sostò Abramo
conquistata dai Romani ora dai coloni.
Svetonio narra che Tiberio
nel suo secessus Caprensis adescasse pueros
e un vecchio senatore sdentato
offrisse carne fresca per l’Imperatore.
Tacito non conferma né smentisce.
L’Enrico tra colline nebbiose
odorose di legna arsa per l’inverno,
di Barbaresco appena stappato
e una canzone nella testa
«Pedala… pedala… pedala»
Teresa si sente come foglie secche
cadute nell’acqua e scarpe
che lasciano passi impantanati
in quei giorni di buio presto.

*

“E cielo e terra e mare invocano
la nuova luce che sorge sul mondo,
luce che irrompe nel cuore dell’uomo,
luce allo stesso splendore del giorno.”

David Maria Turoldo

Sarà stato il Settantasette
– forse il Settantotto – in un appartamento
non lontano da Botteghe Oscure
in un conflitto a fuoco coi brigatisti
è morto l’agente Pietro Ruotolo.
Lascia una figlia di cinque anni,
ora storica scrive su quegli anni
e non ha mai visto negli occhi gli assassini.
L’Emilio alla festa di Natale con gli studenti
tra un Padre Nostro, un Ave Maria
e canti di Natale – magari fosse una poesia
di Turoldo – vorrebbe salire su un tetto…
una gru… in piazza come suo padre
tra zampe d’elefante e zazzere al vento.
Il tramonto è una crema al salmone
da spalmare su un cielo d’inverno;
Teresa e Fiulin in un’autostrada
di campi oscurati si ricorda la torre STAR:
«Mamma guarda quelli del brodo!»
ma il sapore delle verdure
è un volo interrotto prima della nebbia.

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Marco Onofrio “Da Omero all’e-book. Le tecnologie linguistiche e i loro riflessi sulla cultura”, Parte I

il trucco è un sistema linguistico

il trucco è un sistema linguistico

Il linguaggio umano è una funzione istintiva che asseconda strutture logiche innate e circuiti di “grammatica universale” endogeni alla fisiologia stessa del cervello. Ma è una funzione che, d’altra parte, diventa acquisita, artificiale, “culturale”, se inquadrata su un piano evolutivo superiore, laddove le capacità linguistiche – svincolandosi dagli impulsi basilari della sopravvivenza – raggiungono livelli anche estremamente raffinati (filosofia, poesia, scienza, etc.). L’individuo è predestinato a parlare e a scrivere; però non lo farà se non stimolato da una comunità sociale, inevitabilmente determinata sul piano storico, che ne formi e ne plasmi anche il pensiero, oltre che il modo di comunicarlo. La vocazione linguistica deve veicolarsi ad una lingua, cioè a un sistema convenzionale di simboli uditivi volontariamente prodotti.

La lingua è una tecnologia per “abitare il mondo”, depotenziandone i rischi e trasformandolo – situazione dopo situazione – in “ambiente” riconoscibile. Ogni lingua offre la possibilità creativa di articolare, maneggiare e dominare il pensiero cosciente, che in realtà è inseparabile dal linguaggio: quando pensiamo lo facciamo comunque in una lingua, attraverso un flusso di parole silenziose. Ogni parola è l’etichetta sonora di un concetto. Il pittogramma e l’ideogramma sono tecnologie linguistiche di “sintesi”: hanno una capacità analitica minore di quella che garantisce la scomposizione alfabetica dei suoni. L’invenzione dell’alfabeto, 3500 anni or sono, rappresenta la prima grande rivoluzione tecnologica a diretto impatto cognitivo: il suono della lingua, condensato nella forma visiva di un segno convenzionale, allarga notevolmente gli orizzonti della conoscenza e la capacità di incidere nel mondo. L’uomo ratifica così il proprio destino di “animale simbolico”, gettando le basi per la conquista progressiva dei regni della natura. Ai tempi biologici si sovrappone l’emersione prepotente dei tempi storici: sorgono, e vengono in seguito “statuite”, le culture propriamente dette.

Moderno, Make up iperrealista

Moderno, Make up iperrealista

Furono i greci a sviluppare il primo alfabeto completo e universale, provvisto anche di vocali. L’alfabeto greco ebbe particolare successo perché più di ogni altro si dimostrava in grado di riprodurre in astratto il suono, traducendolo in equivalenti visivi. Questo, secondo Walter Ong, favorì lo sviluppo del pensiero analitico in Occidente. Infatti, cominciando a interiorizzare la tecnologia della scrittura, i greci videro evolvere il loro pensiero nella direzione che di solito consegue al passaggio dall’oralità alla scrittura. Quando ciò avviene, la codificazione e la conservazione del sapere non si servono più della memoria: la mente si libera dall’incombenza di dover ricordare (dacché il testo scritto è consultabile all’infinito) e quindi può volgersi a pensieri nuovi, più astratti, liberi, originali. Muta la Weltanschauung dell’uomo: la scrittura separa il soggetto dall’oggetto della conoscenza, «permette un’introspezione sempre più articolata, e come mai avvenne prima apre la psiche non solo al mondo esterno e oggettivo, separato da essa, ma anche all’io interiore di fronte al quale il mondo oggettivo si pone» (Ong). Leggere significa vedere, e vedere significa essere di fronte, distanziati da ciò che si guarda. Il suono, invece, «giunge simultaneamente da ogni direzione: chi ascolta è al centro del proprio mondo uditivo, che lo avvolge facendolo sentire immerso nelle sensazioni e nell’esistenza stessa» (Ong). La civiltà orale, infatti, è partecipatoria e magica: concepisce il mondo come fenomeno continuo, con al centro l’uomo che ne è “ombelico” senziente. Essa trova difficoltà a separare l’oggetto dal soggetto della percezione, a concepire cioè un pensiero analitico anziché totalizzante, astratto anziché situazionale, neutro anziché agonistico.

Elsa Martinelli, 1967 trucco tricolore

Elsa Martinelli, 1967 trucco tricolore

Platone intrattiene un rapporto ambiguo con la scrittura: da un lato, nel “Fedro” e nella “Settima Lettera”, la biasima in quanto colpevole dell’indebolimento della memoria e incapace di rispondere (se interrogata, infatti, “maestosamente tace”); dall’altro ne sostiene implicitamente le sorti, sia quando sceglie di redigere in forma scritta queste obiezioni, sia quando bandisce i poeti dalla sua Repubblica ideale, poiché compiono una mimesi di secondo grado, realizzando “copie di copie” delle idee. E non solo: Platone condanna l’effetto della poesia come perniciosa “paralisi del pensiero”, un veleno psichico fuorviante per la conoscenza delle cose quali realmente sono. I poeti impiegano effetti acustici che confondono l’intelligenza di chi ascolta. Dunque i filosofi, non i poeti, debbono stare al centro del progetto educativo ellenico. In realtà, i poeti che Platone poteva conoscere sono gli ultimi rappresentanti dell’antico mondo orale e mnemonico, ormai in procinto di lasciare il passo al nuovo mondo analitico e astratto della scrittura, di certo più congeniale all’iperuranio immobile delle Idee. Secondo Ong, «Platone non era consapevole che questa sua antipatia per i poeti era in realtà rivolta all’antica economia cognitiva orale (…). Egli provava questa antipatia poiché viveva in un’epoca in cui l’alfabeto cominciava appena ad essere sufficientemente interiorizzato da influenzare il pensiero greco, compreso il suo». La poesia arcaica greca non è ancora “arte” e “letteratura”, ma necessità politica e sociale: serve a formare e integrare l’individuo nel contesto della collettività. Il “genio greco” si è formato nella dimensione orale, ed è cresciuto sui principi acustici e ritmici che sfruttano la tecnica dell’eco come espediente mnemonico. Aedi e rapsodi custodiscono e tramandano la paideia ancestrale comunitaria: i racconti di antenati ed eroi veicolano un’enciclopedia di valori e conoscenze, in pratica tutto il sapere di un’epoca, attraverso cui può rafforzarsi la coesione del gruppo sociale. La Grecia emerge all’alba della Storia solo dopo la trascrizione alfabetica delle opere di Omero ed Esiodo. La scrittura favorisce il passaggio dal pensiero mitico al pensiero razionale.

Andy-Warhol-painting

Andy-Warhol-painting

Nell’antica Roma il latino scritto è una formalizzazione letteraria che si distanzia, anche molto, dalle caratteristiche del parlato vivo, il cosiddetto “latino volgare”. È attraverso l’azione abrasiva di quest’ultimo che ha modo di emergere, con effetto retroattivo, il substrato linguistico su cui il latino si è imposto, regione dopo regione, nel processo di espansione unificante dell’impero. Con il declino dell’impero anche l’unità linguistica ufficiale si frammenta nei rivoli delle lingue romanze, a partire dalla pragmatica orale del latino: di una lingua, cioè, che già da secoli si è viepiù diversificata nello spettro delle sue varietà geografiche. Il latino cessa di funzionare come lingua viva e sopravvive come lingua di alta cultura, scritta e parlata dai chierici di tutta Europa. Il latino colto del Medioevo è ormai una lingua “astratta”, completamente dominata dalla scrittura, e rappresenta il contesto più adatto da cui far nascere il mondo della Scolastica e, successivamente, la scienza moderna. Nel frattempo si vanno sviluppando in parallelo, con dignità autonoma e risultati talora altissimi, le varie letterature romanze.

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 22 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013), Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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Archiviato in discorso poetico

INVITO venerdì 23 ottobre all’Aleph, Roma, vicolo del Bologna, 72 ore 17.30 Presentazione Antologia Selected Poems “Three Stills in the Frame” Chelsea Editions 2015 di Giorgio Linguaglossa – Presentano Luigi Celi, Steven Grieco e Marco Onofrio, leggerà alcune poesie Giulia Perroni

Giorgio-Linguaglossa-Three Stills In the Frame 2015<strong>INVITO venerdì 23 ottobre all’Aleph, Roma, vicolo del Bologna, 72 ore 17.30 Presentazione Antologia Selected Poems “Three Stills in the Frame” Chelsea Editions 2015 di Giorgio Linguaglossa – Presentano Luigi Celi, Steven Grieco e Marco Onofrio, leggerà alcune poesie Giulia Perroni</strong>

Alcune poesie da “Three Stills in the Frame”, traduzione di Steven Grieco

de_chirico sole_sul_cavalletto_1973

Paesaggio con sole spento

Palazzo illuminato. Una finestra buia. Qualcuno
spalanca la finestra. La voce del cuculo galleggia
nella notte fresca e verde e senza luna.

Una bambina corre nella notte
tiene stretta nella mano una cordicella
legata in alto a un sole spento.

LANDSCAPE WITH EXTINGUISHED SUN

A lighted palace. A dark window. Someone
opens the window. The cuckoo’s voice drifts
upon the cool green moonless night.

A little girl runs in the night
in her hand she grasps a string that’s
tied high up to an extinguished sun.

de chirico ettore e andromaca particolare

de chirico ettore e andromaca particolare

Il profilo di Enceladon

Frammisto alla nebbia, sul davanzale della finestra, brilla
il rosso geranio del mattino; a sera è ancora là.
Nel fotogramma della finestra il tuo volto, di profilo,
trascorre da destra a sinistra, torna indietro,
va contro la direzione del tempo, alla ricerca dello spazio,
si dirige verso la cornice ed esce fuori del quadro.

L’orologio da polso che per dieci anni si era fermato
ha ripreso a camminare, i bambini fuori della finestra
cantano in coro Happy Birthday to you
mentre il televisore dice che è esplosa una bomba a Bagdad.
Sulla rastrelliera ci sono, ora come allora, i cappelli di Enceladon
le sue sciarpe colorate, i soprabiti; e c’è ancora il suo profumo.

ENCELADON’S PROFILE

On the window sill, gleaming through the fog,
morning’s red geranium. In the evening it’s still there.
Inside the photo of the window, your face in profile
shifts from right to left, comes back,
proceeds opposite to time in search of space,
moves towards the picture frame and exits the picture.

The wrist watch that stopped for ten years
is working again. The children outside the window
sing, “Happy birthday to you” in chorus,
while the tv announces that a bomb has exploded in Baghdad.
Enceladon’s hats are on the hat rack, just as they used to be,
and her coloured scarves and overcoats. And her scent, it’s still there.

de chirico il trovatore

de chirico il trovatore

Il tedio di Dio

Guardavo al di là dei cancelli arrugginiti: transenne,
cavalli di Frisia e fili spinati.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra,
sono colpevoli di tracotanza – mi disse una voce dal buio –
assiepate ad altre ombre vivono nell’ombra».
Oltre le transenne c’era il sole bianco.
«Il tedio di Dio è un sole bianco che si è inabissato», mormorò una voce
tra le ombre.
“È un pensiero folle”, pensai e passai oltre le ombre maledette.
…………………………………………
«La notte è la locanda di Dio, dove Dio prende alloggio per il sonno»,
disse un’altra voce da un altoparlante nascosto chissà dove.
“Vivono di notte – pensai – le ombre bianche della polizia segreta
che sono state dismesse come un abito”.
…………………………………………
Sopra la spalliera della sedia accanto alla sciarpa rossa del giorno
c’è un salotto scarlatto:
ad una gruccia sono appese le ombre delle uniformi,
pallide linci dagli occhi squamosi;
Kafka suona il clarinetto e Mozart fa l’impiegato del catasto,
il sole bianco tramonta
tra le alghe verdi dello stagno, uomini della polizia segreta
con uniformi militari perlustrano la palude
alla ricerca del sole inabissato.
Illumino con la torcia tascabile il buio:
periferia di una città inesistente, palazzi e strade di vetro,
archi e pontili trasparenti precipitano nel vuoto senza spazio,
bambine giocano col l’hula hoop accanto a statue cristalliche.
“Ma non c’è anima viva”, penso ma è appena un pensiero:
mi metto una mano sul cuore
e mi accorgo con orrore che esce dal retro dello sterno.
………………………………………
«Il riso è il paradiso dell’Inferno»,
disse una terza voce da un altoparlante posto in alto, sopra un parapetto;
ma ero sconcertato e mi affacciai a una finestra:
c’era il mare azzurro.
………………………………………
«Il bacio di Dio è un sole bianco – dissi tra me – che si è inabissato»;
“è un pensiero folle – pensai – non è quello che volevo dire…”

GOD’S TEDIUM

I was looking beyond the rusty gates: barriers,
chevaux-de-frise and barbed wire.
“Here there are men who have sold their own shadows:
they’re guilty of arrogance,” said a voice in the dark.
“They live in the shadows, together with crowds of other shadows.”
Beyond the barriers was the white sun.
“God’s tedium is a white sun that sank,”
a voice muttered amongst the shadows.
“What madness,” I thought, and walked past the cursed shadows.

“Night is the tavern of God, where God puts up for the night to sleep,”
said another voice from a loudspeaker hidden somewhere or other.
“They live at night,” I thought. “The white shadows of the secret police
that have been cast off like garments.”

On the back of the chair near the red
scarf of day, a scarlet living room.
Shadows of uniforms hang from a clothes hanger,
pale lynxes with scaly eyes.
Kafka is playing the clarinet and Mozart is a petty clerk in the registry office.
The white sun sets in a pond
amongst green weeds, members of the secret police
wearing military uniforms search the marsh
for the sun that sank.
I light up the darkness with a flashlight:
suburbs of a non-existent city, buildings and streets of glass,
arches and transparent wharves with a hoola hoop next to crystallic statues.
“Not a single soul here,” I think, but it’s barely a thought.
I put my hand on my heart and realize to my horror
it’s coming out from behind the breast bone.

“Laughter is the paradise of Hell,”
said a third voice from a loudspeaker high up on a parapet.
But I was dismayed and looked out of the window:
the blue sea.

“The kiss of God is a white sun that sank,” I mumbled.
“What madness,” I thought. “This is not what I wanted to say…”

Giorgio De Chirico la metafisica

Giorgio De Chirico la metafisica

Canto dei marinai assiderati

Da una porta sul retro del mare volano basso le poiane azzurre
verso il sole diafano,
affiorano dai bulbi degli oblò delle navi affondate
i fantasmi, i clienti della locanda del tedio, simili
ad ombre bianche; «voi siete di qui?», mi chiedono.
Con sussiego Madame Hanska fa entrare le ombre bianche
nella stamberga della felicità, non li ama
e non li detesta e assegna loro una stanza
con vista sul mare;
«it’s wonderful», dice con voce roca,
con un gesto teatrale suona il campanellino,
si apre il tendaggio scarlatto:
il cielo si affretta ad entrare e fa scomparire le ombre
che danno la caccia al buio.
Fanno ingresso nell’antichambre il Signor Cogito
ed il Signor Hieronymus, il re di Francia e il re di Spagna, Tiziano
e Rembrandt, Mozart e Ionesco.
«Tutti i servizi sono attivi», dice la Signora
mentre consegna agli ospiti il coupon del diritto.
La notte si richiude come un’immensa botola
sul fondo della tomba del mare.
Nuota la stella marina verso il suo firmamento:
la costellazione di chiodi delle stelle
tiene dritto l’albero maestro, ma laggiù nella stiva
dormono i marinai assiderati:
Mozart e Rembrandt insieme ai mozzi e ai vogatori.
Ancora oggi se tendi l’orecchio ad est
degli embrici del mare dorato
puoi udire il falso canto delle aonidi
le allegre canzoni dell’equipaggio
simili al tintinnio di sonagli d’argento.

SONG OF THE FROZEN SAILORS

Sky-blue buzzards fly out of a door at the back the sea
towards the translucid sun.
Like white shadows, the ghosts, the patrons of the tavern
of tedium emerge from the bulbs of the portholes of sunken ships
and ask me: “Are you from here?”
Haughtily, Mme Hanska ushers the white shadows
into the hovel of happiness. She doesn’t love them
nor does she hate them, and gives them a room
with a view of the sea.
“It’s wonderful,” she says hoarsely,
and with a theatrical wave of the hand she rings a little bell,
and a scarlet curtain opens up.
The sky enters hurriedly and dispels the shadows
that are busy hunting down the darkness.
Enter into the antichamber Mister Cogito
and Mr. Hieronymous, the king of France and the king of Spain, Titian
and Rembrandt, Mozart and Ionesco.
“All the facilities are up and working,” says Madame,
and she gives each guest a membership card.
The night closes up again like a giant manhole
at the bottom of the tomb of the sea.
The sea star swims towards a firmament of its own.
The constellation of stars like nails
keep the headmast straight, but down in the hold
sleep the frozen sailors.
Mozart and Rembrandt alongside the deck hands and oarsmen.
Still today if you listen carefully to the east
out of the tiles of the golden sea
you’ll hear the Aonids’ false song,
the crew’s cheerful melodies
like the jingling of silvery jingle-bells.

de-chirico piazzaIl Signor K. era là

Aveva appuntato, Cogito, l’indirizzo della Signora Marlene
su un foglietto di carta che teneva in fondo alla tasca interna della giacca.
Voleva congedarsi. Prese il foglietto in mano.

Intanto, i premorienti si affollano nei vagoni merci.
Gendarmi portano al guinzaglio i mastini,
rovistano in ogni angolo della Zentralbahnhof,
perlustrano i binari.
Nella sala d’aspetto, c’è chi gioca con i serpenti,
chi pettina i capelli alle bambole,
chi suona il violoncello.
Tchiajkovski strimpella qualcosa al pianoforte,
più in là Vermeer dipinge di profilo una ragazza.

La luce si spense sul lastricato. Nella Kammerspiel
color fucsia la bella Marlene canta al pianoforte
il Lied della morte e della nostalgia.

Il Signor Cogito ama questo luogo di pace,
non saprebbe farne a meno.
Berlino. Anni Trenta.
Sulle ciglia, sulla pelliccia, sui guanti grigi
del Signor Cogito adesso cade una neve soffice.

Il lampionista si voltò, vicino a noi accese un lampione
e si mise a fischiare un’aria di Mozart.
I soldati scrivono cartoline alle fidanzate.
«Che epoca è questa?», chiede Cogito
alla bella Marlene nel salotto color fucsia.
Salieri fuma una sigaretta nel divano scarlatto,
ufficiali della Wermacht giocano a whist nel reservoir.
«Signor Cogito lei è un vero umorista», gli risponde
la Signora Marlene dall’antichambre.
C’è chi gioca con i décolleté, chi con la vedova nera,
c’è chi gioca con i serpenti, chi pettina i capelli alle bambole.
Una neve soffice si posa sulla pelliccia di Cogito
che si affaccia a una finestra. È quasi inverno.

Il cigolio meccanico degli usignoli si arrestò.
Il Signor K. era ancora là, tra lo stipite e la porta.
«Gutentag Herr Cogito…»

MR. K WAS THERE

Cogito had noted Madam Marlene’s address
on a slip of paper which he kept in the inside pocket of his jacket.
He wanted to say goodbye. He took the slip of paper in his hands.

Meanwhile, the pre-dying push their way into the freight trains.
Gendarmes walk bulldogs on a leash,
they’re searching in every corner of the Zentralbahnhof,
they walk up and down the tracks looking carefully.
In the waiting room some people are playing with snakes,
others are wasting time
or playing the cello.
Tchaikovsky bangs on the piano,
Vermeer over there is painting the portrait of a girl.

The light went out on the flagstones. In the fuchsia Kammerspiel
the lovely Marlene sits at the piano and sings
the nostalgic Lied of death.

Mr. Cogito loves this peaceful place,
he couldn’t live without it.
Berlin. The 1930s.
On Mr Cogito’s eyelashes, on his fur coat
and grey gloves, soft snow is falling.

The lamp lighter turned around, lit a street lamp
near us and started whistling an aria from Mozart.
The soldiers write postcards to their fiancés.
“What period is this?” Cogito asks
the lovely Marlene in the fuchsia drawing room.
Salieri is smoking a cigarette on the scarlet couch,
Wehrmacht officers play whist in the reservoir.
“Mr Cogito, you’ve got a real sense of humour,”
Madam Marlene replies from the antechamber.
Some people are playing with décolletés, others with the black widow,
some with snakes, some are wasting time.
Soft snow falls on Cogito’s fur coat
as he leans out of the window. It’s almost winter.

The mechanical creak of nightingales stopped.
Mr K. was still there, between the door-jamb and the door.
“Guten Tag, Herr Cogito…”

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DIECI POESIE di Umberto Fiori da “Poesie” (Oscar Mondadori, 1986-2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949 dal 1954 vive a Milano. È autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007). Del 2009 è Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie, in collaborazione con il chitarrista Luciano Margorani. Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002). L’ultima raccolta è Voi (Mondadori, 2009), ora inclusa, insieme a tutte le sue poesie e ad alcuni inediti nell’Oscar Mondadori uscito nel 2014.

umberto fiori copertinaCommento di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Umberto Fiori c’è un percorso che parte da Sereni de Gli strumenti umani (1965), attraversa Giovanni Raboni e giunge fino al De Angelis di Somiglianze (1976) e al Cucchi de Il disperso (1976); c’è un abbassamento tutto lombardo del lessico. È una poesia di sottotoni, c’è il parlato anonimo di un «io» che si sottrae dalla scena, che si nasconde. La poesia di Fiori, fin dai suoi esordi, è sempre stata ricca di figure segnaletiche di luoghi urbani indicati di scorcio, in tralice (mai in prospettiva); le figuralità sono intercambiabili, gettoni della anonimia della vita moderna («i palazzi», «la tangenziale», «un capannone», «sui viali»); ci sono poi le diciture  del tempo  atmosferico e cronometrico, per lo più dizioni intenzionalmente indistinte: «In piena notte», «un giorno…», «una volta», «Ogni mattina», «Quando», «come quando», «È come quando di nuovo…», «una certa fermata», «in giro», «per un paio di piani», «tra le case», «da qualche parte», «è stato ottobre, gennaio». Molto frequentati risultano i deittici: («qua intorno», «lì intorno», «Qui ora c’è questa rete / e al di là della rete / questo terreno», «Le cose sono lì…», «Giorno e notte, qua sotto», «ogni giorno son qua»), che indicano luoghi generici, indistinti, indeterminati e intercambiabili. Gli oggetti, i macchinari, gli strumenti sono anch’essi indicati da termini generici («le macchine si muovono a scatti»), sembrano non avere nessun rapporto con gli agenti umani, sembrano mossi da forze esogene, esterne, indipendenti dalla volontà degli umani; anche le parti del proprio corpo sembrano essersi liberate dalla dipendenza dell’io, sono pezzi meccanici che si sono sottratti alle leggi della fisiologia («Lo vedi questo piede, / quando mi siedo, come lo metto?»); il sintagma «gente» è impiegato in modo equivalente al sintagma «i tanti»:

In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli

Le indicazioni di luogo non indicano mai in quale città si svolgano i «fatti»; le locuzioni stradali sono sempre asettiche, indeterminate, neutrali non sono serventi alla riconoscibilità dei luoghi; le figure non sono neanche tipizzate come simboli (di qui la distanza abissale dai simboli montaliani, dalle Dora Markus, da Clizia, da Arsenio etc.) ma sono anonime, indistinte, grigie, impersonali, impolverate, unidimensionali; la ricorrente frequenza di nomenclature toponomastiche: strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto etc.), indica località urbane intercambiabili, ci si può trovare a Milano ma anche a Genova o altrove. I verbi coniugati per la maggior parte al presente vogliono indicare questa anonimia di fondo dei luoghi, delle persone e del tempo, non illustrano mai azioni concrete, atti, volizioni, quanto piuttosto degli accadimenti estemporanei e intertestuali tra una poesia e l’altra, denunciano l’appiattimento sulla dimensione del presente. Non c’è una temporalità riconoscibile, c’è semmai una temporalità impolverata, opaca, indistinta, si avverte quasi l’odore dei muri scrostati, i fumi di scarico del traffico urbano, dei destini affetti da anonimia. Diversamente da Montale, non c’è mai alcun momento che introduce all’epifania, non c’è alcuna epifania. La poesia sliricizzata di Fiori prende atto, come un registratore, delle esistenze nelle metropoli dei nostri giorni, non si propone, né lo potrebbe, alcun antagonismo al simbolismo (come erroneamente è stato sostenuto da qualche commentatore), perché non c’è alcun simbolismo nella segnaletica dei segnali stradali o nelle nomenclature delle strade. Anche dal punto di vista stilistico e sintattico questa poesia accetta di sopravvivere nella latenza anonima del «parlato» e di un «dettato» in chiave mimetico-realistica. Paradossalmente, si realizza una poesia senza stile, peraltro non richiesto dalla materia trattata, anzi, si verifica addirittura un raddoppiamento delle istanze mimetiche, quasi un iperrealismo, quasi a voler compensare l’irrealtà e l’indistinzione dei paesaggi urbani: «Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni»; «Siamo lontani dalle cose vere / che abbiamo intorno. / Siamo in errore» (Pedone); «lì davanti li hai / e non li vedi ancora» (Tangenziale); «Vedi? Parlare ci separa» (Spiegarsi); «nessuno parla – o ascolta – veramente». (Il discorso e la voce I)

Umberto Fiori

Umberto Fiori

Umberto Fiori

Apparizione

Alte sopra la tangenziale, chiare,
due case con in mezzo un capannone.
È questa l’apparizione,
ma non c’è niente da annunciare.

Eppure solo a vederli
là fermi, diritti davanti al sole,
i muri ti consolano
più di qualsiasi parola.

Cancellate, ringhiere,
scale, colonne, cornicioni:
ha l’aria, tutto, come se qualcuno
dovesse veramente rimanere.

.
Allarme

In piena notte
sui viali scatta un allarme.
Si ferma, e poi ripete
due note acute, tremende, con la furia
di un bambino che gioca.
Nei muri bui dei palazzi lì sopra
le finestre si aprono, si accendono.

Tranne la strada
in mezzo ai rami, vuota,
niente si vede.
Si tirano le tende
e si rimane intorno a questo urlo
come si sta in un campo
intorno a un fuoco.

(da Esempi, 1992)

.
Di guardia

Mi conoscono bene, hanno ragione:
io sono come un cane,
una di quelle bestie nere che dormono
intorno ai capannoni industriali
e se passi, si avventano di colpo
sulla rete metallica
e più gli dici “Buono!”, più si sgolano.
Adesso, chi li consola?
Finché non hai girato l’angolo
gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi.
Scoprono i denti, mordono
anche il filo spinato; ma sono gli occhi
che fanno più paura: sereni
e puri come quelli di un neonato
o di una statua.
Hanno imparato il compito: questo recinto
tenerlo sgombro. Sia senso del dovere
o invece solo istinto, non ti commuove
almeno per un attimo
la scena che -loro- sempre, tutta la vita,
li fa smaniare, li esalta
e li avvelena?
Io, per me, lo capisco
meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,
questo discorso.
La riconosco bene la voce
fanatica, che sbraita per difendere
-così, alla cieca, per pura gelosia-
l’angolo dove l’hanno incatenata.
Tu non sai che cos’è, stare di guardia,
in ogni odore
sentire una minaccia
a quei tre metri di terreno,
urlare in faccia al mondo intero
fino a perdere il fiato, e non sapere
cosa c’è da salvare, a che cosa
veramente si tiene.

(da Chiarimenti, 1995)

Minitram anni Cinquanta

Minitram anni Cinquanta

Per strada

Se all’angolo una signora
– o magari un vigile –
si volta
con la faccia scavata dalla luce
della bella giornata
e parla –proprio a me,
a me, qui- del rispetto che si è perso
o del caldo che fa,
io mi sento mancare, come un santo
quando lo sfiora l’eternità.

Sento le piante crescere, sento la terra
girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto
deve ancora succedere.

(da Chiarimenti, 1995)

Strettoie

In tanti vanno, lungo il marciapiede,
continuamente. S’incrociano e si scansano,
rallentano e poi avanti. Filano, scorrono
svelti e tranquilli, finché
di qua c’è un mucchio di assi, di là
un rimorchio di camion.

Soltanto uno ci passa.

*

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud --- milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

Uno soltanto: ma chi?

Ogni volta ti incanti,
prima di entrare.
Rimani lì a pensarci
una vita.

Dall’altra parte la gente arriva spedita,
s’infila nella strettoia. Tu le fai ala
come una folla al suo sovrano.

*

Con un mezzo sorriso
ti fai da parte, lasci che sfili
un cane
che tira una signora,
poi un tizio che viene
dietro di lei, deciso; ti sporgi appena
e subito rientri,
fai largo a un altro con una moto.

Guardali come sono calmi, sereni,
mentre ti passano di fronte
senza parlare, con gli occhi fissi nel vuoto,
ognuno un sole che sorge.
Beati, indifferenti:
sembrano dèi.

Tu invece, lì sull’attenti,
mastichi amaro.

*

Cos’è, rancore
quello che ti prende
ogni volta? Che torto ti hanno fatto?
Passare tu, volevi,
al posto loro?

No, non è questo.

*

Né tu, né gli altri. In quel passaggio stretto
vorresti che nessuno avesse cuore
di penetrare;
che durasse per sempre
e per tutti quell’attimo di scrupolo,
di esitazione;
che soltanto a vederlo, questo sentiero
sacrificato, in mezzo a due transenne,
le persone restassero impietrite
da un infinito rispetto.

*

Allora, fermi a un imbocco
e all’altro della strettoia,
mille volte ripetere l’invito
– prego, si accomodi!-
e mille volte regalarci il mondo
con gli occhi e con le mani, e mille volte
rifiutare, e invitarci, finché l’asfalto
che ci separa, a furia di cerimonie
si spacchi, e l’erba lì in mezzo ricresca alta
come se mai
ci fosse passato un uomo.

(da Tutti, 1998)
*

Contatti

Lo vedi come sono
storto, contratto? Lo vedi questo piede,
quando mi siedo, come lo metto?
È tutto per lo sforzo, in tanti anni,
di non urtare le persone. Stretto
contro un sedile, dentro l’autobus pieno,
stare a posto, evitare
coi miei vicini
persino il minimo contatto.
Sulle panchine delle sale d’aspetto
o in treno, in corridoio, era una pena
ogni momento sentire sfiorarsi il buio
del mio ginocchio e del loro.
Ore e ore, giornate intere:
uno di fianco all’altro
stavamo, come i gusti del gelato
nel bar della stazione.
Di vero tra noi, di giusto,
lo spazio di due dita
era rimasto.

(da Tutti, 1998)

*

Eccomi

Dello sbuffo di polvere che si alza
tra le forsizie e le macchine,
di quest’aria di pioggia, di questi morti
alla televisione,
richiami di cornacchie, sirene
di ambulanze,
nessuno ci assicura.
Del baretto incendiato, dell’abbraccio
di una donna al suo dobermann
all’ombra, qui, del portone
– del loro male, del loro bene –
abbiamo perso la misura.
Facce, bottiglie rotte, rami fioriti:
il mare in cui nuotiamo
precipita
nei nostri occhi senza fondo.
Eppure quando mi chiamano
mi volto ancora – vedi? –
e rispondo.

(da La bella vista, 2002)

bruxelles-tram

bruxelles-tram

Diciotto e ventisette

Le macchine che si muovono
a scatti lungo il viale, poi restano
ferme in fila al semaforo,
non sono vuote.

Ogni volante, una testa. Come due uova
rimaste nel cestello di cartone,
il taxista e il cliente
guardano avanti.

È troppo nuova per te, questa scena?
Perché tremi? Cos’è, non l’hai mai visto
il suo broncio di pietra
venirti incontro? Non sei ancora pronto
a queste facce, a queste ruote?

Ancora ti sconvolgi, di fronte
all’autotreno che non si ribalta,
alle minacce che non arrivano, al cuore
strappato vivo
dal petto di nessuno
e stretto in mano, e sollevato in alto?

(da La bella vista, 2002)

.
[Insieme a voi]

Insieme a voi
ho visto il mare brillare, le case correre
sempre più grandi
sotto i carrelli del boeing.
“Che caldo fa oggi”, ho detto
quando era caldo.
Anche per me è stato ottobre,
gennaio. So cos’è un letto,
una stella, un autobus.
Ho riso, ho avuto sete.
La terza ho fatto, la quarta.
Non basta ancora? Quando
mi prenderete?
Potrò essere mai
dalla vostra parte?

.
[Le vostre accuse, i vostri]

Le vostre accuse, i vostri
rimproveri, di nuovo.
……………………………….Mentre li smonto
come posso, uno a uno,
citando fatti, nomi, date,
mentre riconto sulle dita i miei due,
tre, quattro meriti,
e vi abbaio sul muso la mia vita
non dite niente: mi guardate.

Le orecchie rosse, le vene
gonfie sul collo
– cosa guardate? Lo so, lo so che il bene
è diverso.

Ma non vi fa pietà
vedere come
ogni giorno son qua
a fargli il verso?

(da Voi, 2009)

20 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea

HAIKU di Luigi Celi CON UNA MISSIVA a Giorgio Linguaglossa: “Osservazioni sull’haiku”, “Sospensione della temporalità”, “La mia scelta iconica della danzatrice”, “Essere contemporanei”, “Sul concetto di ‘impermanenza’”, “Essere contemporanei, scegliere il proprio tempo”

Toshinobu Yamazaki (1866 - 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki (1866 – 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Caro Giorgio,

ho letto, sul tuo blog, interessanti commenti ai miei haiku. Ringrazio tutti, a prescindere. Un grazie particolare a Gino Rago, lo stimo molto anche come poeta!, e  complimenti a chi si ispira ai miei haiku per comporre un suo testo; si fa ermeneutica in tanti modi, anche con le risonanze. Poi ci sono la tue preziose Note. Che dire? La poesia dovrebbe poter esistere per sé, come tu scrivi, non comunicare altro “messaggio” che se stessa, il mezzo nelle società mediatiche diventa il fine, e dovrebbe valere sia che rispetti i canoni sia che li insidi e destabilizzi. Nel caso, è proprio del Satori Zen – come scrive Barthes, l’intento “di prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell’anima” e produrre anche una sorta di “sospensione panica del linguaggio”, quel “bianco che cancella in noi il regno dei Codici”. Se dopo aver studiato l’haiku non ho rispettato del tutto certi criteri tradizionali è perché sono convinto della natura in certo modo eversiva della poesia. Anche se so che chi non può sopportare gli eretici, li manderà al rogo. Zanzotto e Giuliano Manacorda scrivevano, a proposito dell’haiku in occidente, che “bisogna stare in guardia” da ogni “iperortodossia, che potrebbe rischiare i pericoli dell’isterilimento”. Ma quelli erano poeti e critici fatti di una pasta del tutto particolare.

Quello che tu chiami “sospensione della temporalità” nel suo nesso con il Satori (citando Barthes) si verifica nell’ “istante” in cui l’haiku stesso icasticamente si produce quasi a voler fissare il “divenire”; e come se l’haiku dicesse all’ “attimo” – con Goethe – “fermati sei bello!”. Tuttavia la prospettiva di fondo dell’haiku, e dei miei haiku occidentali o orientali che siano (io vorrei proporre di considerare la poesia territorio di dialogo) resta quella del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), della “impermanenza” di tutte le cose, come ci ricorda un’esperta di letterature comparate, Rosalma Salina Borello. La studiosa cita tra l’altro un libro di Carlo Calza “Stile Giappone” (Einaudi Torino 2002) per sostenere una tesi che mi corrisponde. Scrive che è proprio il “femminile” ad attrarre e significare quanto vi sia di “illusorio e lieve e impermanente” nel vivere: “l’iki di cui sarebbe custode e depositaria, al massimo grado, l’oiran, la cortigiana d’alto rango (l’unica figura femminile (…) cui fosse consentito possedere caratteri di visibilità e un qualche margine di ben contenuta e ritualizzata autonomia)”.

giapponese 5La mia scelta iconica della danzatrice, può essere compresa meglio se collocata al posto dell’oiran: ne vuol essere il corrispettivo moderno occidentale. Solo in questo senso accetto che ci possa essere una qualche nascosta valenza simbolica nei miei haiku, ma l’haiku rimane ancorato alla semplicità realistica dell’esperienza. A questo proposito vorrei usare una citazione del prof. Emerico Giachery tratta da una sua preziosa disamina del canto V dell’Inferno, in cui discute della speranza di un critico di poter leggere Dante, “senza commenti, solo ascoltando l’ebbrezza del suo linguaggio, il suono delle sue rime…”. Giachery dopo avere obiettato che non è detto “che quella sognata freschezza e immediatezza debba rimanere guastata senza rimedio dal lavoro paziente e fedele di filologi e interpreti…”, fa una concessione a quella che rimane un’ingenua aspirazione; “Dovrebbe poter accadere ciò di cui parla un aforisma taoista. Prima che cominci il cammino del Tao, i monti sono  monti, i fiumi sono fiumi; durante il cammino tutto appare problematico, e i monti non sembrano più monti né i fiumi sembrano fiumi. Ma alla fine, raggiunta la meta, ecco che i monti diventano ancora monti, i fiumi ancora più fiumi”.

Ho composto i miei haiku di getto durante uno spettacolo all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, spettacolo di danza e poesia o di haiku tradotti in danza e posizioni mimiche; spettacolo poi replicato nello spazio gestito da me e da Giulia Perroni, nell’Ass. culturale Aleph in Trastevere il 04-03-2011, sotto la regia di Sandra Fuciarelli e per iniziativa e su testi letti e tradotti da Yasuko Matsumoto. Questa mia scelta di mettere al centro dei miei haiku le danzatrici ebbe in apparenza un’origine occasionale, ma fu come se una forza inconscia mi guidasse. Nel suo possibile accostamento a un femminile che emerge sulla scena e fissa la propria visibilità in movimenti, forme e posizioni di bellezza, la ballerina, in armonia con la Natura, nella sua valenza epifanica, fa della scena un campo non solo di rappresentazione ma di vita. Direi pure che la fascinazione del bello, nelle sue implicazioni anche erotiche, nel turbamento che si collega al sesso e alla vita, fa tuttuno con l’arte, la musica, la poesia; questa esperienza ha forse qualcosa a che fare anche con il Tantra. Non intendo approfondire. Non tocca all’autore farlo. Su questo punto non dirò più nulla. L’irrompere del corpo femminile con i suoi umori, la morbidezza flessuosa e omnipervasiva del suo proporsi e imporsi fa dell’occhio che guarda e della mano che traduce in parole e in versi un evento (Erlebnis). Voglio evitare che questo mio intervento possa essere equivocato come interpretazione dell’haiku. L’haiku non vuole essere interpretato ma colto nella sua immediatezza sensibile. Fare entrare con l’effrazione l’interpretazione (il senso) – scriveva Lacan – non può che sciuparlo.

giapponese 2Tuttavia dirò che lo stesso concetto di “impermanenza”, con cui si misura la luce oscura, mi si perdoni l’ossimoro, dell’haiku, ha subito nella storia, nell’etica e nel gusto delle radicali modificazioni: si è andati infatti dal significare “l’impermanenza buddhista di derivazione induista a ciò che l’impermanenza diviene in una dimensione più laica, alta o degradata… Penso a come poi lo intese Asai Ryöi, nei suoi “Racconti del mondo fluttuante (Ukiyo monogatari) del 1661: ‘Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua, questo io chiamo ukiyo’.

L’illuminante testo, che ho appena citato si trova in Se una notte una farfalla sogna di essere Zhuang-zi (nota 111, di p. 91) di Rosalma Salina Borello; esso è tratto e collegato al libro di Gian Carlo Calza citato, dove si precisa che anche la società nipponica ha modificato, direi in senso laico, il concetto di “impermanenza”, quando si andava elaborando l’estetica dell’ukiyo: “Era in questa società che si riflettevano i nuovi gusti e comportamenti e le nuove aspirazioni sviluppati intorno ai teatri del kabuki e alle città senza notte dove le grandi cortigiane creavano nuovi gesti e comportamenti… Dove le case di piacere si trasformavano in veri e propri salotti, in cui, oltre ai grandi mercanti, si incontravano attori, letterati, artisti, editori, ma anche aristocratici in incognito”. Secondo Salina Borello la cultura occidentale contemporanea non può non sentirsi attratta da quest’immagine del mondo fluttuante, proprio per l’ideologia del postmoderno come “apologia della deriva, sulla scorta dell’esaltato dérèglement delle avanguardie storiche, ma anche, non dimentichiamolo, dell’immaginario metamorfico della grande stagione barocca europea”. Seppure è così, l’haiku storicamente e filosoficamente è connotato da antinomie; esso continua a nascondere complesse valenze etico-religiose, naturalistiche, esistenziali, filosofiche.

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

La penetrazione del buddhismo e del taoismo aveva già determinato un mutamento di gusto, una evoluzione del pensiero e delle modalità espressive in arte, in poesia (…in Giappone, perlomeno a partire dal XII – XIII secolo). Quando poi l’haiku nasce, nel XVII sec., dal tanka, con la sottrazione di due versi, si formò la sua struttura di due quinari e un settenario, l’hokku, chiamato haikai o haiku. Questa struttura poetica divenne per così dire a se stante. Rese l’haiku poeticamente dignitoso Jinshiro Munefusa Matsuo, detto Bashō. Siamo nel 1600. Dopo di lui, un secolo dopo, tra i grandi, abbiamo Buson Josa e nel XIX secolo Issa Kobayashi, autore di ventimila haiku. La modernizzazione e l’occidentalizzazione – caro Giorgio – non la fa Luigi Celi, ha inizio con Shiki Masaoka (1867-1902) e Takahama Kyoshi della Scuola Hotoghisu’; costoro subiscono l’influsso del realismo occidentale. Hekigodo diede vita al ‘nuovo haiku’, egli non rispetterà le diciassette sillabe entrate nel canone, né il kigo. L’eretico per eccellenza fu Seisensui, mentre Shuoshi sempre su influsso occidentale liricizza l’haiku. Le scuole di haiku pullulano in Giappone e in Occidente, se ne potrebbero nominare a centinaia. Volendoci richiamare alla tradizione, nell’haiku dei grandi c’è un intrinseco richiamo al modo di vivere e di percepire l’impermanenza e il koan zen. Chi vuole approfondire questi temi può procurarsi il mio recente saggio (mi scuso se mi autopromuovo) di più di settanta pagine in Fior di Loto, sulla poetica di Kikuo Takano; testo sul rapporto musica-poesia, oltre che tra poesia e filosofia (di cui mi occupo). Fior di Loto è opera di Sergio Allegrini, Yasuko Matsumoto e del sottoscritto, per l’Istituto bibliografico italiano di musicologia (Ibimus) – Roma 2014 – saggio per il quale sono invitato a maggio in Giappone. Volendo solo accennare ai rapporti tra l’haiku e il koan, dirò che il poeta cerca di vuotarsi dell’io, come il meditante zen. Dunque coesistono due anime nel Waka, nella poesia nipponica, una ascetica – se è vero che il grande Bashō , per l’haiku, ha fatto una scelta di vita monastica, e l’altra che in qualche modo si riconnette alle sue origini più laiche: così era nei poeti di corte e nella poesia canonizzata per editti imperiali.

Essere contemporanei, scegliere il proprio tempo, riconoscere il luogo esteriore/interiore del proprio operare in un mare di configurazioni e metamorfismi stilistici, concettuali, emotivi, anche nella contraddizione, è sapersi al proprio posto, per quanto nani sulle spalle dei giganti. Dichiarare che i propri haiku sono “occidentali” è una necessità di campo, un atto di verità. Se si volesse continuare a parlare dei massimi sistemi non sarebbero da trascurare le questioni linguistiche, che non affronto in questa sede. Dico solo che senza una consapevolezza della lingua e del come i giapponesi disponevano le loro poesie non si va da nessuna parte. Per altro non basta lo studio dei sincronismi, delle strutture formali, non basta contare le sillabe, occorre indagare la diacronia di ogni struttura. Senso/non-senso dei processi linguistici…, sapere perché si opera anche la deformazione, si produca il degrado della lingua. Se poi senso e non-senso sono uniti, come in un ossimoro, questa è un’altra questione. Senso e non senso, come essere, nulla e divenire, finiscono con il coinnestarsi in un amalgama di mistero. Il silenzio contemplativo della natura, l’osservazione senza giudizio si trasferiscono in poesia, si fanno poesia perché lo sono già in natura (quanta poesia nella natura nipponica!).

Bairei Kouno (1844 - 1895)

Bairei Kouno (1844 – 1895)

L’asimmetria tra le parti dell’haiku, l’antinomia tra i due ku, che non si sopporta in un haiku scritto in occidente, nasconde l’antinomia di fondo di ogni esistenza, fino all’esperienza vuota del nulla, alla sua epifania priva di rivelazione. Ciò è certo qualcosa di più che una questione metrica. Siamo nel cuore dell’haiku, della sua possibile assimilazione al koan zen, esperienza di vita meditante. Rimasticare senza possibile via d’uscita un motto, un enigma, un problema posto dal maestro al discepolo, posto e riproposto senza che – scrive R. Barthes – ci sia possibile soluzione… Stiamo sostenendo l’esistenza di una linea di nascosta confluenza tra la consapevolezza meditante zen (zazen), il riposo meditante (Samadhi) e l’icasticità dell’haiku, che concentra in un attimo, in lampi d’immagini, in pochi versi, caratteri inconciliati della realtà, fino a mostrare la prossimità al nulla, al vuoto.

Il problema dell’esistenza, della verità e del senso, per noi occidentali, segue altri percorsi.

La via del Tao non è propriamente la nostra via. Ecco perché si possono scrivere degli haiku occidentali; haiku tali che non possono mai essere totalmente haiku. Ma forse nessun haiku è stato mai veramente perfetto, come nessuna poesia è la Poesia tout court. L’haiku – più di altri generi – nasce come dal “Divenire” eracliteo, o dalla impermanenza, come meglio si dice. “Noi esistiamo grazie all’Assenza”, scriveva Takano. L’haiku fa del Nulla e di ogni kenotico sottrarsi lo sfondo del suo misterioso riproporsi nel tempo.

Un’ultima cosa: i punti di contatto tra occidente e oriente sono molteplici. È auspicabile ricercarli. Può la poesia farsi voce di dialogo e di ciò che la cultura e la filosofia contemporanee, dominate dalla tecnica, dal mercato soprattutto finanziario e dalla mercificazione post-umana sono incapaci perfino di nominare in modo convincente e dignitoso? Il problema che pongo non è solo di linguaggio. Il linguaggio è la “casa dell’essere” o del nulla? Come viene concepito il nulla in Oriente, nella filosofia cinese e nipponica? Come è stato concepito ed è concepito in Occidente? Tutto ciò ha molto a che fare con l’haiku, con la poesia, con la filosofia. Noi, gli haiku – se li apprezziamo – li vogliamo gustare però nella loro offerta di realtà, sperando che qualcuno non cerchi di sostituire questo piccolo dono con la testa dell’autore su un piatto d’argento, convinto dalle sue stesse Salomè danzanti. È il rischio che corro presentando le mie oiran in versi, forse troppo sensuali e apparentemente dissacranti. Tuttavia mi domando, ora un po’ stranito, come si possa sostenere che nei miei haiku non ci sia pensiero e sfondo filosofico, quello (e leggo con ancora maggiore sorpresa) da cui l’haiku dovrebbe essere generato? Vorrei pure rassicurare chi si pone il problema di sapere di quanto debba abbassarsi per rassomigliarmi. Mi auguro che nessuno scriva come me, sarei felice che ognuno ritrovasse la propria cifra linguistica, per essere poeta senza dovere abbassare gli altri per esistere.

Ti lascio con questo motto, che mi invento per te e per gli affettuosi amici del tuo blog: – La poesia sia la tua, la nostra Arianna, in questo labirinto; dopo Babele ci sia una Pentecoste! –

(Luigi Celi)

Japanese Priest

Japanese Priest

Luigi Celi
In anfore cave

la spina punge
soltanto il corpo vivo
non disperare
*
uccello morto
volato sulla stella
canta il passato
*
magnolia bianca
l’occhio che la contempla
diventa fiore
*
è noche oscura
pregando nel profondo
la luce affiora
*
è notte scura
la rosa nel giardino
la rende chiara
*
prugna vermiglia
la colgo coi miei occhi
senza sfiorarla
*
ho spalle d’alba
rivolte contro il buio
d’ogni passato
*
Morfeo ha il filo
spalanca labirinti
al mio sognare
*
anfore cave
liquide le parole
canto disperse
*
barca stagliata
sul ciglio d’orizzonte
ferma anche il sole
*
tra i ciclamini
profumano danzando
fanciulle in fiore
*
danzano lievi
nell’aria ricamando
fili di luce
*
più sensuale
la danza nella notte
l’occhio s’accende
*
varcano in danze
i margini più cupi
non è più notte
*
d’edera tirso
vessillo di baccanti
e rosso vino
*
se disamata
divora la sua carne
una baccante
*
è di mirtillo
il nido della sera
sanguina il cuore
*
occhi e lapilli
l’anima è nel vulcano
lava ribolle
*
l’occhio interiore
sanato nella pace
vola più in alto
*
le ballerine
annodano le chiome
foglie nel vento
*
non c’è pienezza
se il tempo non rivela
il suo mistero
*
cade dall’alto
la mela newtoniana
non sa il motivo
*
ha la bellezza
un’anima nascosta
seppure esposta
*
amo del miele
il dolce che rivela
lavoro d’api
*
piccole cose
e grandi risonanze
contrasti e segni
*
danza una bimba
al canto della pioggia
là nell’aiola
*
svuota l’inferno
d’un bimbo il puro pianto
il suo dolore
*
i raggi d’oro
nel grembo degli ulivi
orme del sole
*
sul lago verde
non canta certo il cigno
la quiete canta
*
un re impazzito
ci veste e poi ci sveste
funesto il tempo
*
malanni e cure
innalzano sul corpo
duplice scanno
*
l’ultima storia
un po’ come la prima
Genesi eterna
*

l'opera migliore allievo Kiitsu Suzuki (1796-1858)

l’opera del migliore allievo Kiitsu Suzuki (1796-1858)

corpo d’infante
crescendo nutre il segno
di verde gemma
*
mente sapiente
ama le cose belle
ma sa temerle
*
un giglio puro
t’abbaglia il suo candore
pure di notte
*
è l’informale
il segno d’un passaggio
crepuscolare
*
incubi e sogni
liquidi persistenti
e fluttuanti
*
vecchio gabbiano
franato di celeste
dentro il suo volo
*
piange un bambino
e questo rende chiaro
il suo destino
*
pure nell’alba
lo sguardo si prepara
alla sua sera
*
non c’è mattino
che non nasconda in seno
altro destino
*
segno il dormire
anticipa la sorte
d’ogni mortale
*
si ferma il tempo
se di silenzio nutro
la mia preghiera
*
lume di luna
straluna nella sera
apre la notte
*
un doppio sguardo
radica la visione
nell’occhio interno
*
tra siepi e rovi
brillano tra le spine
succose more
*
fermate il tempo
nel carcere del tempo
senso è non senso
*
cruna di fede
s’oscura la mia stella
estasi cruda
*
Dio del mio niente
non cerco fondamento
d’ogni mio abisso
*
occhi e farfalle
in libertà d’azzurro
ridono d’ali
*
danzano lievi
intorno a un punto fisso
è perno un mimo
*
uomo e caprone
il satiro danzante
salta leggiadro
*
satiro il mimo
si veste sulla scena
del vello d’oro
*
germina il mimo
pluralità di senso
in un sol gesto
*
sul volto il mimo
ha maschera che parla
senza parlare
*
un mimo ombroso
disteso sotto un pino
sogna la luce
*
angelo il mimo
di marmo il suo mantello
di carne il cuore
*
danzano tutte
piantato il mimo è fermo
petroso il gesto
*
le danzatrici
le gambe sollevate
a volo d’ali
*
un capro il mimo
distrugge le viole
crudo in amore
*
satiro il mimo
le corna in controvento
uomo e caprone
*
un mimo orrendo
coperto dal suo manto
titilla un seno
*
bevendo vino
danzano tre baccanti
nude tra i veli
*
olio d’amore
scivola giù dal seno
nel grembo d’oro
*
non dirmi nulla
dei mandorli fioriti
se inverno è sempre
*
più vero il sogno
se in sonno si connette
alla sua fonte
*
lo scarabeo
pure d’estate è nero
anche di giorno
*
le foglie morte
autunno insanguinato
da mane a sera
*
nuvola bianca
sul nero della valle
quasi farfalla
*
il pettirosso
all’albero si stringe
fermo nel canto
*
cerchi nell’acqua
il sasso l’ha prodotti
anche nell’occhio
*
soffia già il vento
l’anima è devastata
come la rosa
*
lievi danzanti
nei vortici dell’aria
foglie farfalle
*
bambole vive
tra fiori di mimosa
festa in giardino
*
glicini azzurri
bagnati dal suo pianto
sulle mie mani
*
bianca rugiada
riposa sopra il verde
e sui capelli
*
fiocchi di neve
perlacei son caduti
conchiglia il mare
*
ritorna al cielo
del mare la condensa
il mare in cielo
*
sogno nell’arte
si compia nel mio sogno
il mio destino
*

luigi celi

luigi celi

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia.

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su Hebenon, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. Hanno scritto di lui tra gli altri: Domenico Alvino, Lea Canducci, Antonio Coppola, Philippe Démeron, Luigi Fontanella, Piera Mattei, Roberto Pagan, Gino Rago, Arnaldo Zambardi. Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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Giorgina Busca Gernetti SEI POESIE tratte da “Echi e sussurri” (2015) Commento di Marco Onofrio

raffigurazione dei misteri eleusini

raffigurazione dei misteri eleusini

Giorgina Busca Gernetti è nata a Piacenza, si è laureata con lode in Lettere Classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore  di Milano ed è stata docente di Italiano e Latino nel Liceo Classico di Gallarate (Varese), città dove tuttora vive. Ha studiato pianoforte nel Conservatorio di Piacenza. Pur avendo composto poesie fin dall’adolescenza, ha iniziato tardi a renderle note. Ha pubblicato i libri di poesia Asfodeli (1998), L’isola dei miti (1999), La luna e la memoria (2000), Ombra della sera (2002), La memoria e la parola (2005), Parole d’ombraluce (2006), Onda per onda (2007), L’anima e il lago (2010, con rassegna critica 2012²), “Amores” (2014); “Echi e sussurri” (2015). Inoltre ha scritto il saggio su Cesare Pavese Itinerario verso il 27 agosto 1950 (in “Annali del Centro Pannunzio 2009; in estratto 2012) e i racconti Sette storie al femminile (in “Dedalusn.1, 2011; in estratto 2013).

Saffo

Saffo

Giorgina Busca Gernetti è una “sognatrice dell’essere” che cerca l’eterno nel tempo, e questo è il movimento del suo sguardo: inseguendo la chioma della sua stella, affonda gli occhi in cielo e scopre l’iridescente complessità che innerva ogni atomo del mondo. Le materie e le energie innumerevoli della totalità – orizzonte sempre irraggiungibile – vengono da lei articolate sotto forma di scansione puntuale dei singoli portati, cioè di analisi infinitesime delle sfumature, di appercezione dei passaggi nevralgici, di lettura delle soglie critiche, e così ricondotte – attraverso le innumerevoli stratificazioni dello sguardo – ad essere poesia, nella condensazione eidetica ed epistemica dell’esperienza che il percorso delle sessantaquattro composizioni raccolte in questa nuova silloge (Polistampa, 2015, pp. 120, Euro 10) svolge e racchiude, a mo’ di sintesi esemplare.

gioco della palla pittura parietale stile pompeiano

gioco della palla pittura parietale stile pompeiano

Il segnacolo di questo percorso è già nel titolo. Gli echi ci introducono al cosmo dell’“eterno ritorno”, ovvero a un’idea fondamentale di immutabilità ciclica nell’impermanenza. C’è un residuo ontologico al fondo del perenne divenire, per cui «tutto scorre come un fiume», ma ciò che è accaduto è incancellabile (neanche Dio può far sì che non sia accaduto): resta e ritorna per sempre. I sussurri alludono alla vocazione linguistica (tra lo svelarsi semiotico e il ritrarsi simbolico) del reale, per cui tutto comunica incessantemente, liberando l’essenza del proprio essere ed emettendo il segnale della sua presenza, nella conferma temporale dello spazio. Il vento, ad esempio, è «affabulante», racconta le fatiche degli uomini, la sofferenza eterna della vita. E le stelle sono «trama di miti / intessuta d’eterno»: linguaggio cifrato di «segni arcani» che «effondono una casta / ineffabile quiete» e, insieme, un brivido di orrore. Il presupposto della poesia è la disposizione all’ascolto. Occorre raggiungere il silenzio, cioè staccarsi dalle sovrastrutture, gli inganni, le false voci dell’io. Svuotarsi delle interferenze. Trasformarsi in «orecchi che ascoltano», come scrive Rilke citato in apertura di libro: solo così è possibile ritrovare la «traccia infinita» del «Dio perduto». Il silenzio, in realtà, è pieno di magie segrete da sfogliare come infiorescenze, «voci impercettibili», brividi, fremiti, riverberi. Il silenzio parla e sussurra con le «mute vibrazioni del tempo» che il poeta percepisce e raccoglie, iniettandole dentro le parole. Ecco perché il percorso poetico nasce dalla notte (“Fiori della notte” si intitola la prima sezione) intesa come spoliazione, sprofondamento, varco per raggiungere l’essenza. La notte è sacra, è madre, è amica. La poetessa aspira ad annullarsi nel suo alveo originario, in guisa di regressione uterina: «Accoglimi nel seno / del tuo corpo materno, sacra notte». La notte, inoltre, è un simbolo spirituale che esprime, suggestivamente, un’ascesa dentro la discesa: occorre affrontare e attraversare l’ombra per placare le «tenebre dell’anima», poiché «solo nel buio» può spalancarsi la radura luminosa dell’essenza. È nel buio, peraltro, che «germina il seme»: «la gemma nel buio / la vita dalla morte attende». Impossibile rinascere, se prima non si è disposti a morire. Giacché la realtà è impastata di metamorfosi, è un caleidoscopio di energie impegnate nella trasmutazione eterna della materia. La “machina” del divenire è come la bocca di un’immensa impastatrice che tutto rimescola incessantemente: «Tutto trascorre dalla vita a morte / da morte a vita forse in altra forma» in un ritmo cosmico di «vita e morte, rinascita e ancor morte», come il ciclo delle stagioni. Al centro di questa metamorfosi c’è il Logos, il plesso nodale che raccorda le energie e il raggio multiverso delle loro direzioni. È la divina necessità: «la mole / che grava sulle cose», le regge da dentro e le fa andare come devono. La stessa forza per cui nella clessidra i «granelli di sabbia non si fermano. / Non c’è parola magica / per interrompere quel flusso tragico / della vita che fugge inesorabile». Lo sguardo del poeta funge da raccordo olistico tra le figure del nascente che sorgono («tenera foglia danzante nel vento»; «parola che sboccia»; «vibrante a nuova vita») e quelle moriture che scompaiono («Si sta spegnendo quella luce fioca»; «eco vanescente»): le ricompone in superiore armonia dialettica, oltre il conflitto dei loro contrari.

ORFEO e EURIDICE rilievo Napoli

ORFEO e EURIDICE rilievo Napoli

La lirica di Giorgina Busca Gernetti ha incisa, negli apici del suo “entusiasmo” panico e del suo ardore creativo, una radice “epica”, di apertura cosmica e meditazione metafisica, che utilizza la parola per consentire alle cose di manifestarsi, di incarnarsi in suono. Il mondo appare alle parole in ragione della loro capacità di circoscrivere “un” mondo, anzi: di farsi mondo. Le cose salgono vivide dalla pagina poiché distillate dopo lunga macerazione e raccolte nel pieno della loro maturità. È un tipo di canto che raggiunge la potenza delle sue visioni attingendole da una sorgente arcana e profonda, dimorante nei pressi dell’Essere, oltre la soglia dei sentieri fallaci, il rumore delle chiacchiere, la crosta delle inutili apparenze. Sfondare la superficie significa addentrarsi nel regno polisemico della complessità, senza dirimerne le aporie o fugarne le ambivalenze. Cade per conseguenza la barriera divisoria tra dentro e fuori, ricordo e sogno, soggetto e mondo. È allora che, da lì in poi, si esplora il buio. Si affrontano baratri. Si percepiscono misteri. Si raccolgono sgomenti. Il fuoco mentale è uno specchio interiore che rende traslucido lo sguardo e dona la forza di sfiorare corde profondissime, per musiche sublimi. Le cose “ascendono” nel canto del poeta, sorgono nel suono illuminate. In questo libro si celebra ampiamente la potenza trasfigurante del canto, che il poeta non inventa a capriccio, ma raccoglie dal cuore stesso delle cose, e ascolta, e trascrive con fedeltà necessaria, come sotto dettatura, impossibilitato a fare altrimenti. La musica «nasce nell’animo» come un «soffio divino» che «sfiora labbra ridenti». Il poeta deve abbandonarsi confidente al cuore delle cose, se vuole che esse gli porgano il cuore – per confidenza, per sovrabbondanza di energie.

DocHdl1OnPTRtmpTargetSi avverte l’amore sconfinato che Giorgina Busca Gernetti, forse a contrappeso dell’origine padana, nutre per la dimensione geografica e storica del Mediterraneo. Natura e cultura in accordo di “echi”, racchiuse e oltrepassate nella superiore sintesi umana. Ecco il vento, il sole, l’acqua (elemento primordiale, «grembo materno», origine «fremente di forza / vitale»), e la bellezza sublime del mare, dove l’anima «si ridesta / alla serenità, alla dolcezza» e il cielo benigno «sorride e avvolge il mondo»; e allora il «meriggio dell’Ellade assolata», l’ora divina e panica delle apparizioni, e l’infinita solitudine di Capo Sounion, già cantato da Byron; e la Grecia del Mito – Corinto, Micene, Olimpia – che ha posto le pietre angolari dell’Occidente, con il fascino dell’antichità, lo splendore dei secoli, le rovine che parlano al tempo di memento mori, significando la loro eternità. L’attrazione per il mondo classico non è solo questione di gusto, di educazione estetica, ma obbedisce a un impulso etico fondamentale: la ricerca della pace, dell’armonia, del “ritorno a casa” («Vorrei avere anch’io una mia Itaca») alla fine della deriva «verso oscuro abisso», laddove invece esistere è «vagare senza rotta certa». E allora «dimenticare la disarmonia / (…) abbandonarmi / e perdermi nel favoloso Mito» che non è qualcosa di remoto e irrecuperabile, ma un nucleo «palpitante» poiché eternamente vivo dentro noi. C’è un movimento doppio e talvolta simultaneo, sul “nastro trasportatore” della percezione poetica: se il presente sprofonda fino alle scaturigini del mito, il mito può a sua volta emergere dal presente, attualizzandosi nell’attimo del suo manifestarsi. Come quando l’autrice si sente chiamare tra la folla della Plaka ad Atene: «Giorgina, vieni! Sono Menelao». C’è un sospiro nostalgico senza tempo all’origine del porsi sospeso di questa scrittura, in equilibrio precario tra incanto e disincanto. Gli echi e i sussurri del mondo con cui si entra in risonanza conducono alla «quiete assorta» del presagio, a un “allarme” di stupefazione. Emergono irradiazioni oniriche, figure, epifanie, «sagome traslucide», attraverso cui ha modo di apparire il «colore del sogno», la «mistica parvenza», «l’incanto di magico oblio», l’«estatica felicità». La percezione oscilla tra l’«eco del ricordo» e il «sogno del presente», entrambe le dimensioni trasumananti, apportatrici di gioia e profondità. Ma la luce apollinea è turbata dall’inquietudine delle «voci difformi»: l’«arcana armonia» è tanto più efficace e convincente quanto maggiore è la lotta sostenuta per con-tenere la dialettica degli opposti (la vera cultura classica nasce dall’agonismo).

ombra-sera

ombra-sera

E il retroterra “classico” e “letterario” (con gli infiniti echi di letture assimilate) non soffoca il vitalismo innato della voce poetica, con la sua impronta inconfondibile, ma anzi la fortifica, dandole corpo e peso di memoria, attraverso un ritmo interiore che solidifica l’apertura in fondamento. L’armonia finale non è un guscio prezioso sovrapposto da fuori, ma il frutto organico di una conquista umana, esercitata nell’arduo tirocinio dello stile. Con questo libro di classico nitore, intriso di umori romantici distillati e plasmato al fuoco liquido di una passione purissima, Giorgina Busca Gernetti propone un itinerario poetico dirompente e felicemente inattuale, nella misura in cui non rinuncia a priori alla dicibilità del mondo, alla fede nella parola, alla possibilità di affrontare con efficacia, lasciando una traccia, i temi più importanti. Ed essere inattuali, in tempi di insulso minimalismo, è forse quanto di meglio possa augurarsi oggi un poeta.

(Marco Onofrio, tratto dalla Prefazione al volume)   

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti

LA CLESSIDRA

Di vita gli attimi nella clessidra
del tempo scorrono lenti-veloci
come sottile sabbia che discende
sul fondo e non risale per la mole
che grava sulle cose.

Impietosa clessidra questa vita
chiusa in un piccolo cristallo fragile
che all’umile mortale
inconsistente, lieve come un’ombra
uno spazio più vasto non concede.

I granelli di sabbia non si fermano.
Non c’è parola magica
per interrompere quel flusso tragico
della vita che fugge inesorabile
verso un baratro oscuro, un nero abisso.

Abisso che sprofonda in un abisso.

ALLA NOTTE

Notte, mia chiara notte di lucenti
stelle trafitta nel tuo manto oscuro,
avvolgimi ed annullami nel tepido
rifugio del tuo limpido, infinito
spazio incommensurabile.

Quali soffici nuvole i tormenti,
sfilacciate nel bruno a coprir stelle
per attimi impalpabili, a svelarle
nella loro armonia, trama di miti
intessuta d’eterno.

Tace la luna nuova.
Il suo buio silenzio un vuoto imprime
nel tuo spazio divino, tra le stelle.
Ma più chiare le faci del tuo regno
scintillano ad accogliere il mio voto.

Accoglimi nel seno
del tuo corpo materno, sacra notte;
via dal pensiero le nuvole scaccia
sì che la luce splenda senza un’ombra
nel mio annullarmi in te, mia notte amica.

.
ALBA DELL’ANIMA

Nel lucore dell’alba
l’anima lieve si libra nell’aria
– tenera foglia danzante nel vento –
candida e pura, dall’ombra mondata
degli angosciosi tormenti di ieri.

Fresca rugiada sull’erba, sui rami
dei meli in fiore, dei mandorli e peschi,
tutto ristora, disseta, risveglia,
rafforza e fiero vigore v’infonde
per la lotta del vivere.

Rugiada scende limpida nell’anima
– puro lavacro in sacrosanto rito –
e pace effonde, luce più serena,
intima forza ad affrontare il giorno
senza tetri timori.

TYRRHENUS

Il dio Tirreno m’accoglie paterno
tra le sue sacre braccia cristalline.
Ecco di nuovo i pesci a me d’intorno
guizzanti senza tèma
del corpo mio di terrestre creatura.

Nel giorno torrido della Canicola
improvvisa una gelida corrente
per donarmi frescura m’accarezza
nell’azzurro tepore dell’abbraccio
di Tirreno divino.

Acqua, mia amica limpida e fedele,
eccomi nel tuo grembo
più sicura e serena che tra gli uomini
sulla terra, creature indifferenti,
incuranti di chi vive tra loro.

Nel tuo grembo materno, acqua, ritrovo
il caldo affetto troppo raramente
goduto per gli abbracci degli umani
nella mia triste infanzia solitaria,
muta di luce e amore.

.
TRAMONTO SULLO JONIO

Accecava la luce, rispecchiata
dal vasto mare che l’agile brezza
lievemente increspava e sulla rena,
sulle rocce rugose, sugli aguzzi
scogli emersi dall’acqua la sua candida
schiuma a trina spargeva.

Ma fu il tramonto. Il mare s’imbruniva
sempre più rapido verso il crepuscolo
che distende il suo velo cupo e triste
sulle cose del mondo, fin nell’animo
di chi sente le mute vibrazioni
del crudo Tempo edace.

Gelido vuoto intorno si diffuse
e le rocce, la rena, il mare, il cielo
parvero tristi e amari come l’animo
privo di calda luce che ristora
dall’angoscia e il tormento della vita
spegne finché c’è il sole.

Il buio invase la distesa equorea,
la rena scura e fredda, la scogliera
ormai invisibili. Solo sciacquìo
triste dell’onde sulle rocce nere,
voce del mare che pare rimpiangere
la diurna aurata luce.

.
SULL’ACRÒPOLI D’ATENE

Dimenticare tutto sull’Acròpoli
d’Atene, nella luce cristallina
dell’Ellade ventosa e fascinosa,
dal cielo azzurro vivo come il mare
guizzante di delfini.

Tra due colonne, seduta nell’ombra
del bianco sacrosanto Partenone
che splende di bellezza
e cinge di silenzio chi vi sosta,
ho interrogata la mia vita amara.

Perché la morte in guerra di mio padre
nel fiore della gaia giovinezza
prima che il soffio vitale e la luce
il mio volto animassero
in un sorriso forse già intristito?

Perché il pianto segreto di mia madre,
lontana dagli sguardi e dai conforti,
invece della gioia e dei sorrisi
che fan sbocciare fiori profumati
nella culla ridente intorno al bimbo?

Dimenticare tutto sull’Acròpoli
– echeggia nel silenzio l’arpa eolica –
confidando l’angoscia
alle Kore che l’architrave reggono,
il bel volto sereno di sorriso.

Dimenticare la disarmonia
della mia oscura vita
nell’armonia divina dell’Acròpoli
sull’orma lieve della Dea Poliàde
che invisibile ascolta il mio lamento.

Dimenticare tutto, abbandonarmi
e perdermi nel favoloso Mito
sbocciato come un fiore in tempo antico,
ma vivo e palpitante nel mio animo:
sacro Mito immortale.

Mythos, Mythos, Mythos…

    

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Giorgio Linguaglossa: «La Riforma del Discorso Poetico post-Montale»,  l’«immediatezza espressiva dell’estetica post-letteraria delle odierne scritture poetiche», «pseudo-letteratura», «post-presente», «super-post-fantascienza», «post-fantasy», «Paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico» La «forma-poesia» della poesia Dopo il Novecento

bello figura femminile con gazza 

Richard Millet ne L’inferno del romanzo (2012) parla di «autenticità dell’immediatezza  dell’estetica post-letteraria» del nuovo romanzo; e così prosegue:

«Nel postletterario, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio», o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico». L’autenticità data dall’immediatezza sarebbe quindi l’obiettivo dello scrittore post-letterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria»; «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento».

Con le dovute differenze, credo che possiamo estendere la categoria dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria anche alla poesia contemporanea. Anch’io ho parlato spesso di «post-contemporaneo» e di «post-poesia», intendendo sostanzialmente un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato anche la debolezza delle direzioni di ricerca di quello che ho definito «minimalismo». Lo ammetto, meglio sarebbe stato aggiornare tale definizione con quella di «post-minimalismo» delle scritture poetiche di massa, nel senso che oggi in tutto ciò che accade sembra d’obbligo far precedere l’etichetta «post»: post-sperimentalismo quindi,  post-esistenzialismo, post-chatpoetry, post-del-post. Tutto ciò che avviene nella pseudo-letteratura del tempo mediatico sembra presentizzato in un post-presente, il presente diventerebbe la dimensione unica, una dimensione superficiaria unidimensionale, ciò che sembrerebbe confermato anche dalle tendenze del romanzo di intrattenimento che dal fantasy e dalla fantascienza sembra spostarsi verso le forme ibride di intrattenimento di post-fantasy e di super-post-fantascienza. Quello che tento di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca sono impegnate in una forma-scrittura dell’immediatezza, quasi che l’autenticità del romanzo e della scrittura poetica  la si possa agganciare, appunto, con l’esca dell’immediatezza espressiva.

Cinzia Pellin I Migliori Anni, 2009, olio su tela, cm79x149

Cinzia Pellin I Migliori Anni, 2009, olio su tela, cm79x149

Nulla di più errato e fuorviante! Per quanto riguarda la mia tesi del paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico, entro il quale la quasi totalità delle scritture poetiche contemporanee rischia di periclitare, detto in breve, volevo alludere non al concetto di «egemonia», fuorviante e inappropriato quando si parla di poesia contemporanea, ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca, del diario e del quotidiano) sarebbero perfettamente digeribili dalla lettura della post-massa acculturata del Medio Ceto Mediatico. Certo «professionismo dell’a capo», come stigmatizza il critico Sabino Caronia diventa l’arbitrio di un a capo che può avvenire in tutti i modi, con le preposizioni, con le particelle avversative, con i pronomi personali, e chi più ne ha più ne metta. Vorrei però prendere le distanze da una facile tendenza a voler stigmatizzare la «dittatura del Medio Evo Mediatico» in quanto questa posizione sottintenderebbe un approccio moralistico al problema del paradigma moderato e unidimensionale che sembra aver preso piede negli uffici stampa degli editori necessariamente impegnati in una difesa delle residue quote di mercato editoriale dei libri.

La situazione descritta sembra essere ancora più grave per la poesia, che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità anche ai piani alti della cultura poetica italiana, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta non hanno più creduto possibile una difesa della forma-poesia: Montale, Pasolini, Sanguineti e altri di seguito. Da questo punto di vista, paradossalmente, una difesa della forma poesia è più evidente nei Quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, il più drastico atto d’accusa del «sistema Italia», che non ne La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, il quale si appoggia ad una struttura strofica e timbrica ancora tradizionale, ma è una difesa della tradizione che va in direzione di retroguardia e non  di apertura all’orizzonte dei linguaggi poetici del futuro. È un po’ tutto l’establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa, credendo che una sorta di neutralismo o di prudente e ironica apertura nei confronti dei linguaggi telemediatici costituisse un argine sufficiente, una misura di sicurezza verso una forma-poesia aggiornata, con il risultato indiretto, invece, di rendere la forma-poesia recettizia della aproblematicità dei linguaggi telemediatici.

Anna Ventura copertina tu quoqueQuel neutralismo ha finito per consegnare alla generazione dei più giovani una forma-poesia sostanzialmente debole, minata al suo interno dalle spinte populistiche e demotiche provenienti dalla società della massa telemediatica. La storia della poesia degli anni Ottanta e Novanta sta lì a dimostrare la scarsa consapevolezza di questa problematica da parte della poesia italiana.

A questo punto, ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto da chi sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche della poesia del Novecento. Non escludo che ci possano essere nel prossimo futuro dei poeti di valore (e ce ne sono), quello che escludo è che finora nessun poeta italiano degli ultimi quarantacinque anni, cioè dalla data di pubblicazione di Satura (1971) di Montale, è stato capace di fare quella Riforma del discorso poetico nelle dimensioni richieste dal presente stato delle cose. Certo, ci sono stati l’ultimo Franco Fortini di Composita solvantur (1995), Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca (I quanti del suicidio del 1972), e poi Maria Rosaria Madonna (con Stige, 1992), Anna Ventura (Antologia Tu quoque 1978-2013), Roberto Bertoldo (Pergamena dei ribelli, 2011), ed altri ancora che non posso nominare, poeti di indiscutibile talento che si sono mossi nella direzione di una fuoriuscita dal novecentismo aproblematico, ma resta ancora da scalare la salita più ripida, c’è ancora da sudare le sette fatidiche camicie. In una parola, c’è da porre mano alla Riforma di quel discorso poetico ereditato dalla impostazione in diminuendo che ne ha dato Eugenio Montale. Leggiamo una poesia da Pergamena dei ribelli:

Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.

Antonio Sagredo cop

Ad esempio, per la poesia di un autore ancora inedito in volume in Italia, Antonio Sagredo, di cui però è uscito in edizione bilingue per la Chelsea Editions un volume antologico della sua poesia a New York, ho scritto di recente: «la parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso». Ecco una poesia dell’ultimo Antonio Sagredo:

Prove mostruose
(8)

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

Ed ecco una poesia di Anna Ventura apparsa di recente su questo blog:

La vergine di Norimberga*

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

*notizie storiche sulla Vergine di Norimberga

La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.

La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.

Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).

*

Per tornare al nostro discorso, intendevo dire che una riforma linguistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di immediata riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di rottura determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica di chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di  naufragi. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.

 

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Bartolomeo Bellanova DUE POESIE INEDITE “Tremano gli affreschi” “Il compianto – variazioni sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Edward Burne Johns Destino

Edward Burne Johns Destino

Bartolomeo Bellanova nasce a Bologna il 2 settembre 1965. L’attenzione ai temi sociali e di denuncia civile caratterizza il cammino di narrativa e poesia dell’autore che fa parte del Gruppo di poesia bolognese multiVERSI che organizza eventi letterari sui temi più “scottanti” inerenti al cambiamento sociale e ambientale (emarginazione, nuove povertà, migranti, diritto alla casa …). La fuga e il Risveglio (2009) è il suo romanzo d’esordio Il secondo romanzo “Ogni lacrima è degna” (Inediti – Aprile 2012) si è aggiudicato una mozione di merito nel Concorso letterario Insieme nel Mondo Edizione settembre 2012 – Sezione Narrativa Edita. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie. E’ di imminente pubblicazione la raccolta poetica A perdicuore (David and Matthaus Edizioni) che contiene una scelta di testi scritti tra il 2011 e il 2014 e di riflessioni critiche.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Resto un po’ sconcertato, sorpreso e anche sedotto da questo vasto affresco di Bartolomeo Bellanova il quale ha il coraggio che soltanto la sicurezza sui propri mezzi espressivi può dare ad un artista. Bellanova traccia qui un polittico dove ogni predella rimanda alla seguente e si riallaccia alla precedente in un racconto alla maniera di un amanuense, che verga il manoscritto con mano sicura da una miniatura all’altra, da un affresco all’altro in un crescendo di rimandi pittorici che creano il punto di climax, una colonna musicale che ha la tranquilla estensione di una sinfonia wagneriana con suoni ampi e ondeggianti, con volute musicali imperiose e seducenti. Il bello è che Bellanova raggiunge tali esiti senza profferire neanche una rima, neanche al mezzo o casuale che sia; anzi, la rima, «la relazione della gioia», è bandita da questo affresco che sembra conoscere soltanto le ampie distese canore di un coro. Bellanova non inserisce neanche un personaggio, è una poesia senza personaggi questa, l’autore si consegna ad una poesia dall’andamento prosodico severo e indulgente ad un tempo. Tutti sono personaggi del Tutto, di un polittico che li ricomprende e li cancella ad un tempo, in un tempo senza tempo e senza spazio. Sono qui presenti il Giotto del ciclo della Cappella degli Scrovegni, la Madonna del cardellino di Raffaello, il Califfo nero dello stato islamico, la veduta del Canal Grande del Tintoretto, la nascita di Venere e la Primavera del Botticelli, San Francesco che ammansisce il lupo di Gubbio, l’Arcangelo Gabriele dipinto da Leonardo da Vinci nella Annunciazione. Sono presenti tutte queste figure e tutti questi colori, non come intarsio di citazioni illustri ma come una messa funebre di una tradizione di cui il poeta si sente derubato, spossessato, fino al punto di climax posto al centro della poesia, fino a quella gondola nera che appare come lugubre annunzio di un eccidio a venire o che si è già compiuto.

Una gondola sinuosa e nera
lascia le acque del Canal Grande[1] addobbato a festa

Da questo momento in giù la poesia sembra discendere in un andante largo e disteso verso il delta finale come un grande e tranquillo estuario di un fiume denso di ombre e di colori.

[1] Veduta del Canal Grande di Antonio Canal, detto Canaletto (1726-1728) ) – Firenze Galleria degli Uffizi

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova

Tremano gli affreschi

Tremano gli affreschi sulle volte di cielo della Cappella 2),
i pastelli cerulei e oro di Giotto languiscono nell’ansia.
San Francesco hai ammansito il lupo di Gubbio,
ma gli uomini lupo sono in agguato per sbranarti.
Delle tue stimmate gli adepti del califfo nero 3)
vogliono fare bersaglio per la loro mitraglia.

Che tonfo al cuore ti stringe,
che pena di lacrime ingoiate ti comprime il petto,
Madonna del Cardellino 4) che accarezzi incessante il bambino,
curano i tuoi polpastrelli la sua pelle lattea.
Pregano pazienza le tue dita
e dalle tue labbra socchiuse non esce suono,
leggi distratta, sillabe e accenti più non comprendi.

S’alza Zefiro 5) cupo, si ritorce, soffia lapilli e cenere, tossisce.
Venere 6) grondante di gocce d’ambrosia incandescente
rientra elegante nella conchiglia dorata.
Nettuno coi muscoli di bronzo, fa che si schiuda lontano
dal Mediterraneo dov’echeggia terrore,
lontano dalle sponde, risacca di ossa inermi,
lontano dallo sguardo oppiaceo dei crocieristi
ballerini sul cimitero liquido.

Piume e parole ingoia insieme
l’Arcangelo Gabriele 7) di profilo inginocchiato,
la mano inferma benedice la madre ignara
e le ali strappa a morsi
schiacciato, esile figura, da cupi presagi.

Una gondola sinuosa e nera
lascia le acque del Canal Grande 8) addobbato a festa.
Cerca rifugio sotto l’ombra dei ponti sottili,
s’insinua nel tremolio libertino di luce,
scia sui riflessi sbiaditi di calle, campi e porticati, non trova pace.
Straripano domande senza risposte
per le stanze tutte della Galleria,
incredule vertigini di vita e di morte.
Sono usciti dal ventre infecondo di Lucifero quei neri spettri
con le pupille affamate di sangue?
O sono stati partoriti dagli incubi notturni
della nostra cattiva coscienza?
Rituali, sacrifici umani somministrano ogni giorno,
trivellano senza sosta la nostra mente confusa.
Hanno usurpato il colore del sole,
d’arancio ora si veste la morte che conduce al supplizio
i condannati con le pupille assetate di pietà.
Teste impagliate di uomini, di donne, di fanciulli
esibiti nel salotto mediatico ostaggio della loro follia.
Od Dio, Allah, Yahweh, cada la lama dalla mano alzata di Giacobbe,
sopravviva Isacco legato all’altare,
sopravviva l’agnello nudo legato alle nostre colpe inconfessate.
Noi che lo sterco del diavolo ci comanda ogni gesto,
noi che abbiamo gettato dalla rupe Tarpea milioni di uomini
per continuare a ingozzarci di foie-gras.

Mia cara, com’è soffice la colata di marmo bianco
sui nostri corpi protesi in un bacio,
tu Psiche, io Amore possiamo spiccare il volo
dal piedistallo, fissi gli occhi negli occhi,
stretti in un vortice immune al tempo, che buca ogni spazio.
Passione umana, più forte d’ogni sozzura,
d’ogni martellata degli attori della barbarie,
passione che redime il sangue delle loro brutture.

Allora vola Amore mio, accendi le pagine di un libro di casa in casa,
di riva in riva, da valle a valle, sia un coro, un canto in piena,
un contrappunto di parole libere.
Non potranno fare falò dell’immaginazione felpata,
non potranno impallinare la sfrenata fantasia
coi loro fucili di precisione.
Ci hanno provato i kapò dagli stivali neri e le suole nere,
milioni d’uomini hanno schiacciato come moscerini
e col loro sangue abbiamo fatto trasfusioni di libertà e di “mai più”
e abbiamo magnificato destini di barocca vacuità.

Mi guardo intorno intirizzito,
la memoria si è nascosta nel convoglio lattiginoso
delle nuvole basse e la nostra vista va
a intermittenza come i nostri pensieri.
Catturiamola viva, catturiamola subito,
prima che si disperda nella bruma per sempre.

[2] Ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni – Padova,  terminati da Giotto nel 1306
[3] Abu Bakr al Baghdadi, il Califfo nero dello Stato islamico (Isis)
[4] La Madonna del Cardellino, celebre dipinto di Raffaello (1506) – Firenze Galleria degli Uffizi
[5] La Primavera di Sandro Botticelli (1482) – Firenze Galleria degli Uffizi
[6] Nascita di Venere di Sandro Botticelli (databile tra il 1482 e il 1485) – Firenze Galleria degli Uffizi
[7] L’Annunciazione, dipinto attribuito a Leonardo Da Vinci (databile tra il 1472 e il 1475) – Firenze Galleria degli Uffizi
[8] Veduta del Canal Grande di Antonio Canal, detto Canaletto (1726-1728) ) – Firenze Galleria degli Uffizi

Il compianto – variazioni sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca [1]

Quel volto di terracotta infrange l’aria,
un refolo di vento lambisce il mio orecchio.
E’ vivo di sangue e vene gonfie quel collo
e muscoli tirati quel corpo proteso.
I vestiti le balze, le pieghe,
nulla può rallentare la sua corsa scaccia morte
dallo sguardo del figlio.

Riconosco la smorfia potente
d’impotente dolore d’uomo ovunque,
d’uomo qualunque, di pelle qualunque.
Un perché disperato e stretto sale a chiocciola
dalle pareti delle grotte primordiali
fino a esplodere nella bocca come lava d’accusa,
come pianto di vulcano.

Oh Madonna di Mariupol [2] che vedi i pezzi di tua figlia
insieme alle patate al mercato,
liberali dai loro peccati
e getta nelle sabbie mobili
chi gli ha insegnato a lanciare i missili!

Oh Madonna di Kobane [3] che vedi la testa di tuo figlio mozzata
dalle barbe nere del demonio,
liberali dai loro peccati
e getta nel fango chi gli ha insegnato a affilare le lame.

Oh Madonna del Mediterraneo con gli occhi del tuo neonato
sfuocati nei tuoi giù sui fondali salati,
ribellati ai traghettatori della disperazione.

Voi Cristi deposti dal vostro supplizio
consolate tutte le mamme del mondo.
Tamponate l’emorragia della loro ostinata speranza,
chiudete loro gli occhi con la dolcezza delle vostre poppate.
Dipingete alle madri tutte l’aureola grigia
della loro precoce senilità.

Fitta è la palude dei nostri peggiori marciumi
che ne perdo i contorni
e continuo a brancolare i giorni
come cieco illuso di esserne uscito.

[1] A Bologna, all’interno della chiesa di Santa Maria della Vita è conservato  il famoso Compianto del Cristo Morto di Nicolò dell’Arca; il gruppo scultoreo è composto da sette figure policrome in terracotta a grandezza naturale: la Vergine, le tre Marie, San Giovanni Apostolo e Giuseppe d’ Arimatea che piangono sul corpo del Cristo morto. L’opera è stata commissionata dalla Confraternita a Nicolò d’Apulia, detto dell’Arca perché autore dell’arca sepolcrale di San Domenico nell’omonima chiesa bolognese, nel 1463.

[2] Su questa cittadina dell’Ucraina sabato 24 gennaio 2015 sono stati lanciati razzi nel mezzo di un mercato provocando la morte di una trentina di persone e quasi cento feriti.

[3] E’ una città nel nord della Siria molto vicino al confine turco che per mesi è stata quasi interamente nelle mani dell’Isis prima di venire riconquistata a fine gennaio 2015 dalle forze curde.

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Edith de Hody Dzieduszycka DUE POESIE EDITE da “Nella notte un treno” (2009) E CINQUE POESIE INEDITE  con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

fotogramma di un film di Antonioni

fotogramma di un film di Antonioni

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata “Ombres” (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Nel 2016 pubblica il romanzo Intrecci, con Genesi, La parola alle parole e, nel 2018 Squarci, con Progetto Cultura, Roma.

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Direi che anche noi in Italia abbiamo poetesse di tutto rispetto che si rifanno alla linea europea del minimalismo metafisico o del minimalismo esistenziale, e precisamente: Anna Ventura e Edith Dzieduszycka. Il perché è presto detto: c’è bisogno oggi di questa poesia, c’è bisogno di parlare al lettore delle condizioni di instabilità e di incertezza della esistenza nel mondo moderno in modo diretto e colloquiale, senza mettere a disagio il lettore di fronte a chissà quali metafisiche del cuore o a posticci soprassalti di angoscia. La Dzieduszycka, come del resto la Szymborska, la capostipite di questo nuovo indirizzo della più alta poesia femminile, tratta appunto questa materia, interroga il «Vuoto», il «silenzio», le «pagine bianche», «uno spazio di niente», un «treno» che srotola «i suoi vagoni». Che cosa accade in questo tipo di poesia? Nulla, non accade nulla di particolarmente significativo, ed appunto questo è significativo. «E poi / all’improvviso», succede qualcosa che non avevamo previsto né immaginato, «da carrozze sventrate» «dilagano» «parole». È questa l’epifania laica del nostro tempo prosaico. È questo l’evento. La poesia della Dzieduszycka narra instancabilmente questo evento, lo narra e lo rinarra in modo quasi ossessivo alla ricerca di una chiave, di un significato. Che sta là, o almeno sembra che stia lì, sotto il tappeto, o sotto la scrivania, o appoggiato sul davanzale della finestra, basta afferrarlo. E invece quello sfugge, si sottrae. E l’indagine prosegue, non può che proseguire la ricerca e afferrare finalmente quell’oggetto, quel significato che ci sfugge, che si sottrae misteriosamente. Ed appunto questo, credo, è il significato profondo della poesia di Edith Dzieduszycka: la scomparsa del significato dall’esistenza, la sottrazione della soglia dove quel significato un tempo lontano stabilmente dimorava. Forse, in un altro tempo, in un’altra civiltà c’era ancora «la retta via», « un percorso esatto / una strada precisa / chiaramente tracciata / davanti ai nostri passi», oggi al poeta del nostro tempo non è dato altro che «vuote vie polverose», «ignoti paesaggi sprovvisti di cornice».

edith dzieduszycka

edith dzieduszycka

da Nella notte un treno (Dans la nuit un train) Edizione bilingue, Il Salice, Locarno, 2009

Vuoto
silenzio
pagine bianche
uno spazio di niente
tranquillo furtivo treno
srotolando i suoi vagoni
immagini sfocate
suoni impercettibili
emergenti
qua e là.
E poi
all’improvviso
nell’afa d’una sera d’estate
si schiude la ferita
dilagano
pressanti
da carrozze sventrate
invadono la scena
parole accumulate
corteo d’immagini
nel tempo seppellite.

*

Un foglio di carta
una penna
nient’altro
o quasi
scarabocchi abbozzati
segni allineati
sottratti al sonno
ai sogni strappati
evaporati all’alba.
Lasciati liberi
nel cuore della notte
tornano a celarsi
facendo perdere
fugaci fuochi fatui
loro deboli tracce.

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Inediti

Se per caso
ci fosse
retta una via
un percorso esatto
una strada precisa
chiaramente tracciata
davanti ai nostri passi
sulla sabbia
l’asfalto
anche sull’acqua
se fosse lineare
decisa
evidente
sarebbe molto semplice
sarebbe troppo bello
soprattutto sarebbe
una noia.
*

Nella vita che fa?

Ma che domanda è questa?
Ma come si permette
di entrare così
con le sue scarpe grosse
dentro il mio privato?

Io a Lei non l’ho chiesto
mi sono ben guardata
d’indagare e frugare
in fondo al Suo bagaglio

Chi sa cosa sarebbe
venuto allo scoperto?
Mi vengono i brividi
a soltanto pensarci

Ognun ha le sue case
di ombre e di mistero
le cose più preziose
ed insieme sfuggenti
che si possa serbare

Lo so io “Che faccio”?

Rispondo “No di certo
giacché tutto un groviglio
si contorce all’interno
di cui nemmeno io
sospetto la risposta.
*

Che cosa verrà fuori
dalla mente assopita sul ciglio del letargo
laddove s’aggrovigliano
come nastri azzuffati da un gatto molesto

vuote vie polverose
solchi sterminati a perdita di sguardo
laddove fitta stagna una nebbia fumosa
che serpeggia e s’infiltra al di là del pensiero?

Cosa macinerà nel tremore
del sogno sull’uscio cigolante
d’un viaggio senza mèta
la coscienza incosciente?

Ignoti paesaggi sprovvisti di cornice
lande a strapiombo sopra rude scogliere
cieli vaganti e plumbei trafitti
da bagliori e nembi fuggitivi?

Cosa riporterà col risveglio
dell’alba l’ondosa mente
di quel mondo leggero
dentro il quale affonda con palpebre

di piombo e riemerge greve
di luoghi inaccessibili
indistinti sussurri bisbigliando segreti
ombre senza nomi dalle vesti stracciate?
*

Arriva sì
arriva
con l’alba incrinata
sfregiata porcellana
dalla viscida lingua
d’una nebbia in agguato
che lecca indiscreta
il davanzale grigio

Arriva sì
arriva
dapprima timido
presto incredulo
lo smarrimento

E poi scatta la rabbia
che brucia la ferita
dello star desta

da sola
nella penombra ostile

del non capire mai
cosa ci faccio

a guardare il cielo
fuori dalla finestra
mentre sbatte nervosa
alle persiane blu
l’ala dell’albero
lì piantato anche lui
a guardia di chi sa cosa.
*
Non avrò conosciuto
come Santa Teresa
estasi mistiche
né orgasmi di marmo
dagli occhi riversi

Non avrò d’Arco
Giovanna novella
in lontananza
percepito le voci
giungendo dalle nuvole

Più dubbi che certezze
finora nel bagaglio
che dietro mi trascino
roveti spine fiori
in uguale misura

e l’orizzonte spento
ad un’incerta ora
come la tenda rossa
che richiude il palco
alla fine dell’opera.

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Leo Savani DIECI POESIE INEDITE con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

Leo Savani (pseudonimo di Franco Bottacini) è nato a Verona una calda domenica di maggio del 1951. Libri pubblicati: Vele bianche  (grafiche Arcangelo Verona, 1981) e Ventilabri (Rebellato, 1984).

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Nel 1952 il geniale compositore John Cage presentò la sua partitura 4′.33, che compendia molti aspetti dell’estetica cageana, e che egli stesso definì il suo pezzo migliore. – “Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33 come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”. Chiunque voglia immergersi nella musica di Cage anche coloro che non hanno mai preso uno strumento musicale in mano, possono farlo, possono fare musica. Basta indossare un abito da concerto e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare nulla. L’esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica”? che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall’esterno. Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì la persona sente almeno il proprio battito cardiaco).

Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4’33  si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.-“Sentivo e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l’atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O, altrimenti detto: è l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un’altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”?. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell’International Music Council dell’Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio. Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo.

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kate-moss-to-cover-the-60th-anniversary-edition-of-playboy

In queste poesie di Leo Savani si ha l’impressione di un ineliminabile rumore di fondo, che il tempo forte sintattico resti, per così dire, dipendente da un tempo forte ritmico nel quale le percussioni e le inversioni sono all’ordine del giorno e rappresentano una interessante morfologia della composizione poetica. Leo Savani scarta istintivamente la costruzione musicale basata sulla struttura armonica in favore di una struttura ritmica, intesa semplicemente come successione di durate, che possono ospitare qualsiasi parola purché svuotata di senso e di sensorialità. E non c’è neanche una direzionalità temporale in queste poesie, saltata anch’essa insieme alla dialettica di subordinazione che presiede la ragione ideologica dell’Occidente, secondo cui la priorità temporale, ciò che viene prima, assume automaticamente una superiorità rispetto a ciò che viene dopo. Ebbene, questo assioma viene ad essere svuotato di significato. In tal senso, la balbuzie e le inversioni sono serventi all’interno di questo processo di svuotamento di senso della costruzione poetica.

Credo che Leo Savani sia un autore consapevole  del fatto che per aggirare il nostro desiderio di trovare sempre l’emozione nella poesia sia necessario andare oltre il correlativo oggettivo, che si debba abdicare al modello di controllo composizionale tipica della poesia del Novecento, sia della tradizione che dell’Antitradizione, rimuovere tutte le tracce di identificazione personale con il testo.

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Per vedere l’affetto che fa
(20 aprile 2006)

Julie era un intarsio
di occhi profondi come il mare
sulla seggiola dell’osteria davanti alla spiaggia
Julie aveva capelli quasi rossi. Del resto
non era forse francese di Lione?

Maria l’amica greca suonava iridi languide
di birra vino e ouzo al tramonto
aveva la lingua impastata
e mandava riflessi nei capelli del polacco
che ogni tanto raggiungeva a Bialystok

Dietro gli occhi della madre il figlio di Julie
aveva facce larghe e piatte da vietnamita
(Julie dice che anche a lui tra un po’
sarà stretta quest’isola
e andrà con la sorella. Perso anche lui)

Maria non ha figli ma cova il seme
nei sensi e nell’anima come nei pensieri

Eh sì la se
(11 maggio 2006)

Essi la sera
la loro pelle scura strappava le barche
alle braccia forti del mare
Fin troppo calmi e lontani erano
i capi dei loro rituali
Se così fosse – ti dicevi
che oltre l’orizzonte delle onde
oltre la schiuma di ponente
l’arcano di un altro mondo deponesse?
Poi il mare ti confondeva di nero
e un brivido ma leggero
ti disegnava l’inquietudine alla schiena.

E me? Io vorrei essere sempre là
ad allineare ancora sul muro
le piccole tue cose
sas-sile-gnicon-chiglie
opercoli di giada in tessuti nei suoi capelli
ad asciugarsi e ritrovarli bagnati
quando la rugiada si fa mattino

.
Ascalepio
(24 febbraio 2007)

E chi di noi, non io, ti dici
potrà mai più partire dicendo:
Ricordati: dobbiamo
un gallo ad Ascalepio?

Eppure dice il filosofo
quelle voci sono davvero accadute?

Io ho capito solo che il silenzio
è un suono che si ripete e propaga
nel vuoto dell’eco, nell’universo.

.
Julie nel viavai
(14 aprile 2007)

Stavolta
il riflesso dei rossi capelli
di Julie ti colse
profondo riflesso nell’azzurro
dei suoi occhi da Lione
tra le piante di quel viavai.

Questa volta
Julie non ha figli
quest’anno
ha pupille trafitte
di arresa dolcezza
– c’è un grillotalpa
tra il caprifoglio e il mirto:
Lo schiaccio?
Ma no, risponde calma
non fa che il suo lavoro.
Julie.

.
Parole girevoli
(luglio 2007)

Qui anche il mare
è perfino troppo quieto
Io batto la pioggia
e penso come compenso
a poche parole,
in fondo.

A parole girevoli
come queste.
O alle parole come pietre
che mi hai insegnato a incidere.
Tornite tonde levigate
dalla corrente delle nostre isole
o puntute frantumate spinte
dai fronti stanchi dei ghiacciai.

Leo Savani

Leo Savani

Giuli 40 (Ancora viavai)
(6 aprile 2008)

Non mi fermerò più in quel viavai
O mi fermerò ancora. Tanto
i capelli della ragazza di Lione
hanno lampi celesti nel vento
che muta il cielo come sipari
nell’asilo nido delle piante

Julìe?
La ragazza dagli occhi francesi
del figlio vietnamita.

Sotto questa pioggia e le nuvole
che passano, un po’ si ripara
dagli scrosci della corriera
Avrà storie da raccontare
e calze da rammendare, ancora
i grillitalpa da schiacciare

*

(6 aprile 2008)

Nelle luride primavere di Voutakos
vivo a mio modo
cercando cocci e selci
sotto la pioggia
e legni levigati dal mare
e pezzi di conchiglie orfane

.
Da maskino
(25 aprile 2009)

la giulì dagli occhi
di figlio vietnamita
c’è ancora in questo aprile, lì
nel viaviai religioso operoso di bruchi e insetti
ad allevare zolle da attecchire
al vento delle avene da nord
– prima che le bruci l’estate

Solo un lampo d’azzurro, per la verità,
dietro i capelli gialli d’onda
tra gli stretti filari di piccole tamerici
(«per viti è tardi quasi, passi a tuoi rischi
per il damaskino, sì», lei che ha studiato a Firenze»)

Aveva la faccia già arrostita dal sole e dal vento, Giudilì?

Chi sa per dove para i suoi pensieri, ora
e per dove si porta dietro le sue sere
se hanno un po’ di tempo per le taberne
lungo i locali ancora chiusi
con la spuma frizzante del mare
dove si incontrano bocche precarie
di giovani coppie polacche
che si scambiano occhiate intrise d’ouzo

Ferdinando Scianna volto velato

Ferdinando Scianna volto velato

Sopra
(19 luglio 2009)

Il prete colto affonda la malinconia
nella sua vecchia barba
Scansando in fretta aghio gheorghes
va ad aspettare le nove
per la nave
nel porto del mare rosso della sera

Torna ogni anno, un acciacco nuovo
per le sue Turmac che non gli porto

Chissà se mai ha visto
il lampo degli occhi di Julie doltremare
o quelli del figlio vietnamita e chissà
se aspettando in porto
l’onda giusta per la nave delle nove
nel cielo rosso del mare dove affonda le nostalgie
– intanto
benedirà le cartoline
in partenza dal molo di mezzo
quello da dove salpano i sospiri degli albanesi
pronunciando omelie in ghe e ics e troppe consonanti.

Avvento
(11 settembre 2010)

quel vento ancora e ancora
ci porta umori dal continente
e umori da altri mari. Scopre
e flagella i fianchi di cisto delle montagne. Scortica
i ginepri e ribalta le vele ai marinai. Picchia
le canne che difendono le vite a passo corto dei viavai
La sera poi si acquieta e accende qualche luce di musica lontana

.
Cui Paros?
(10 luglio 2011)

Qui, sarà stato anche qui
che il viaggio di Martin
si fece soggiorno

Qui dove i sospiri degli albanesi
guardano lontano oltre il mare
qui dove dall’ossidiana
ai vasi ai marmi alle crete
tutto si fa mistico
di un sole e di una luce
che trascolorano e trafiggono i colori

E tu sei sopra quel trillio
d’un volo di allodola
alto sulle pensose pinete d’Epidaouro

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“Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi”, Conversazioni  con narratori e poeti di Paolo Di Paolo. Lettura di Marco Onofrio

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Viene in mente, sfogliando Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi, di Paolo Di Paolo (Laterza, 2007, pp. 208, Euro 14), il concetto di “leggibilità del mondo” analizzato qualche anno fa, in uno splendido e corposo saggio, dal filosofo tedesco Hans Blumenberg. Il mondo come libro da “leggere” con gli occhi e con i piedi, viaggiandoci dentro; ma anche, specularmente, il libro come mondo da esplorare: entrambi da sentire con la pienezza esistenziale del corpo, nel tempo che scorre, attraverso i sensi ordinari o misteriosi “sesti sensi” che veicolano l’irripetibile magia di certi attimi, di certi “contatti”. Come quelli con i diciannove scrittori (Camilleri, Campo, Culicchia, A. Debenedetti, Capriolo, Marcoaldi, Petrignani, Petri, Fusini, Affinati, Mazzucco, Riccarelli, Gamberale, Trevi, Maraini, Anedda, Covito, La Capria, Tabucchi) che Di Paolo, viaggiando a sua volta (da Roma a Parigi, da Torino a Lisbona), ha raggiunto e incontrato nei luoghi reali e mentali del viaggio. Ed è davvero con tatto che egli li avvicina, mettendoli nelle migliori condizioni per rivelarsi, in quanto scrittori, viaggiatori, uomini. “Ogni viaggio è un romanzo”, dunque: ma anche ogni romanzo è un viaggio – di parole, attraverso le parole. La scrittura è un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio, dice Antonio Tabucchi. Un viaggio da fermi, magari nel chiuso di una stanza, con un libro in mano. Tutti i viaggi possibili, tutte le nuvole del cielo, tutte le «voluttà vaste e cangianti e sconosciute» sono racchiuse nei libri. Nel loro riflesso di carta scopri città o paesaggi sconosciuti e immaginari, pensieri mai concepiti, fantasie e rapporti mai scorti in precedenza.

Edward Hopper Compartimento C vagone 293

Edward Hopper Compartimento C vagone 293

Ogni viaggio è un itinerario simbolico di conoscenza: una forma misteriosa che si disegna dinanzi a un occhio spalancato sul mondo, un occhio-mondo che si trasforma, che aderisce alle nostre identità. Ci sono forti corrispondenze tra libri e paesaggi: paesaggi di libri e libri di paesaggi. Distinguiamo così tra una geografia fisica (esterna), che studiamo noiosamente a scuola e che impariamo ad amare solo quando, poi, i viaggi li facciamo per davvero; e una geografia sentimentale (interiore): una psicogeografia che trovi censita attraverso i libri, letti come mappe e atlanti delle emozioni, dove trovi il confine infinito delle u-topie, dei luoghi che non esistono; le luci diafane di certe contrade, pregne di un mistero remotissimo e immanente; la forma diafana delle città invisibili: ma anche, più semplicemente, gli angoli nuovi di ciò che normalmente conosciamo. Com’è dunque questo viaggio che esce fuori dagli occhi e dalla viva voce degli scrittori? Certamente molto diverso dal surrogato di esperienza che ci propone il turismo di massa, quello dei villaggi e dei tour operator, dove tutto è preconfezionato, organizzato, tempificato, e scorre indifferente, senza lasciare traccia. Il viaggio degli scrittori, invece, esce dalle logiche perverse della globalizzazione: permette così di comprendere che il mondo «è grande e diverso. Per questo è bello: perché è grande e diverso, ed è impossibile conoscerlo tutto». È un viaggio lento e senza tempo: può così sedimentarsi, lasciando tracce nello sguardo, echi nella mente, curve di silenzio dentro al cuore. È il viaggio che si rivela nel suo potere gnoseologico ed epifanico, per cui un dettaglio di sfumatura (magari il rumore della pioggia sui vetri, un odore, una musica, una luce) si accende, si impone sullo sfondo, si illumina e illumina a sua volta, sicché – per suo tramite – il mondo tutto finisce per manifestarsi. Può contare più l’alberghetto senza nome che il reperto millenario; così come, nella ricerca storiografica, più il “documento” di vita che il conclamato “monumento” che rappresenta.

Paolo Di Paolo ogni viaggioÈ un viaggio, quello degli scrittori, che obbedisce ad esigenze interiori di conoscenza, di scoperta, di evoluzione. Non come “fuga dal mondo”, ma come tramite e forma di una più profonda relazione con esso. Il viaggiatore, infatti, si porta dietro il suo mondo come in un guscio di lumaca (Ugo Riccarelli), ma si lascia implicare dalla “dispersione” inevitabile che il viaggio, quando è esperienza autentica, comporta. E così, nella trasformazione, «si dimentica di sé» − dice Franco Marcoaldi − e diventa «un Nessuno che aderisce alle pieghe del mondo, diventa gli alberi che vede, le montagne che scala, i nuovi cibi che mangia, le persone che incontra». Lo scrittore si disperde ma anche stranamente si raccoglie nell’identità fisica e metafisica del luogo: diventa la sua “carne”. Capisce così quale straordinaria, luminosa costellazione di senso si apra, a mo’ di gemma, in ogni centimetro quadrato del pianeta. Può allora provare, come Rossana Campo a Parigi, l’esperienza “estatica” di entrare nel corpo della città, di “esplodere” per diventarne parte. Una passeggiata per le strade di Parigi può operare una “trasformazione alchemica”: nutre la mente e droga l’immaginazione. Ancora più esaltante può essere l’esperienza di spaesamento: l’arte di smarrirsi di cui ci parla Walter Benjamin. Provare fino in fondo, fino ai limiti del caos, o del panico, la rischiosa libertà della non-appartenenza: sentirsi sempre e dovunque un po’ stranieri. Trovarsi ad esempio in un Paese lontanissimo, senza contatti, senza conoscere la lingua (neanche una parola), senza denaro, camminando per dove non si sa. Immergersi nella folla, nella marea umana. Leggere libri di vita negli occhi della gente. Raccogliere storie. È proprio dello scrittore (e del lettore suo vicario) questo guardare noi stessi con gli occhi degli altri: questa capacità camaleontica di essere l’altro, di dare se stesso all’altro. Oppure viaggiare per improvviso impulso, per divenire prossimi alla vita e obbedire intensamente al suo richiamo. Prendere il primo treno che parte, senza motivo, senza conoscerne la destinazione. L’irrequietezza del viaggiatore è la divina curiositas: inquietudine e nostalgia di chi cerca casa, di Ulisse che parte sempre per ritornare (o torna per ripartire). «Le città», dice Giuseppe Culicchia, «cominci a capirle davvero solo quando te ne vai. Hai bisogno di allontanarti molte volte, per vedere meglio ciò che avevi vicino».

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

I viaggi come avventure dello sguardo e della mente: scoperte sentimentali, pellegrinaggi, risarcimenti. Ma ci sono anche le “false partenze” di cui parla Raffaele La Capria, uno per cui «il viaggio più avventuroso si può compierlo anche dentro casa. O appena fuori». I viaggi come occasioni mancate: perché qualcosa sfugge sempre, e allora bisogna ritornarci, come rileggere un libro. I luoghi dove non andremo mai, o quelli dove non andremo più. I luoghi che sogniamo da una vita e «prima o poi ci vado» (ma davvero non si parte mai). Che peccato sarebbe non vedere, morire senza aver visto le spezie e le perle da raccogliere lungo il cammino, e i colori, i profumi, gli oggetti, gli incontri: quel che non cerchi e che trovi per caso, al di là della mappa o della guida turistica. È nelle terre di mezzo, nei luoghi di confine, nei dettagli e negli interstizi: è lì che si svela l’essenza metafisica delle cose, il nucleo profondo della realtà. Il viaggio cattura e libera lo spazio dell’identità, della libertà, del senso delle cose: uno spazio che sono proprio gli scrittori a difendere, perché hanno e si danno il compito di custodire le cose dalla morte. La scrittura, infatti, è il più libero e avventuroso dei viaggi. Scrivere è un altro modo di camminare: un passo dopo l’altro, una parola dopo l’altra: e le raccogli lungo il percorso come le briciole di Pollicino.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Abitando le pagine dei libri, poi, si finisce per abitare e amare un luogo leggendo, da cui il desiderio e/o la scelta di andarci a vivere. Ma non è questione di distanza: può stupirci più una passeggiata di cento metri che un viaggio intercontinentale di tre mesi. Dipende dallo sguardo. E lo sguardo si trasforma attraverso il viaggio: nella realtà fisica del mondo come in quella immateriale della scrittura. I libri orientano, allenano, educano, potenziano il nostro modo di guardare alle cose. Ci spingono a compiere un viaggio di pensiero. Insegnano a pensare. I libri non finiscono mai, anche quando chiudi l’ultima pagina. Continuano ad abitarci nella testa; lavorano silenziosamente; ci spingono a crescere, a cambiare, a crescere. E gli scrittori incidono il senso dei luoghi: cambiano per sempre il modo di guardarli. Dopo aver letto Joyce, visiteremo o abiteremo Dublino in modo diverso. Ci sono autori e libri che ci fanno da guida, che avvertiamo congeniali al nostro passo, come buoni compagni di viaggio. I libri ci danno la possibilità di viaggiare dentro le persone, nei loro sentimenti; di attraversare quelli che Calvino definisce “livelli di realtà”.

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

La scrittura è un tapis roulant che ci trasporta attraverso gli universi paralleli. Pensiamo con emozione ai viaggi infiniti che potenzialmente ci attendono in una biblioteca! O al viaggio dei libri usati, saturi di vita, quando, con ansia di scoperta, li rovistiamo nelle bancarelle: le mani e gli occhi che li hanno incrociati, il tempo e le case e gli scaffali delle librerie attraverso cui sono passati per arrivare a noi… Anche questo libro di Paolo Di Paolo è – ovviamente – un viaggio: un viaggio attraverso il viaggio degli scrittori, che a sua volta si produce attraverso il viaggio della vita, loro e di tutti. Noi e il mondo viaggiamo dentro i libri, che a loro volta viaggiano nel mondo, attraverso noi. È un viaggio simultaneo e senza fine, che percorre migliaia di luoghi, pieno di proposte, spunti, biforcazioni, alternative, finestre da cui affacciarsi per ingoiare con lo sguardo panorami. E fa venire voglia di partire, leggere, diventare: voglia di essere ciò che siamo e sognare chi non saremo mai.

Marco Onofrio

Marco Onofrio

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 22 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009), il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato,  all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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Ubaldo de Robertis POESIE SCELTE Inedite “Ad immagine dell’infinito”, “Il presente, la sola dimensione”, “A Max Frisch”, e una poesia edita “Da Diomedee”, (2008) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Henri Matisse - 1939

Henri Matisse – 1939

Ubaldo de Robertis ha origini marchigiane e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: G. Linguaglossa, F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie.

Henri Matisse - 1947

Henri Matisse – 1947

Commento di Giorgio Linguaglossa

Non siamo alla teatralizzazione delle vicende private dell’io come avviene nella poesia frequentata in Occidente nell’epoca della stagnazione spirituale e della straordinaria leggerezza dell’essere, e neanche in un sotto-genere, in quello che elegge il «tu» quale destinatario di testi-missiva. Ubaldo De Robertis opta per l’esplicita forma dialogica e parla con il lettore, un misterioso «implicito», una specie di «doppio» (?) della propria coscienza, ovvero, con il lettore spettatore. De Robertis racconta sempre un evento preciso (un non-detto, un implicito) con il massimo risparmio di parole-cornice, ecco la ragione della incisività del verso lineare di questa poesia, che termina proprio lì dove deve terminare, ma il significato è nel verso successivo, si nasconde in una omissione, in un segmento omesso, nella elusione, nel non-detto. Il lettore viene posto davanti ad un evento-racconto, il non-detto, l’inesplicito. Non c’è un versante edificante in questa poesia, il lettore non viene disturbato da eccessi enfatici, e questo è un punto a vantaggio dell’autore che mostra una sicurezza di dizione e una icasticità del lessico di accorta fattura. È una particolare poesia di inazione, di impliciti, di non-detto questa dell’autore. Non si tratta, credo, soltanto di un metodo di composizione ma anche e soprattutto di un metodo di addestramento alla vita, esercizio militare dell’anima.

Se prendiamo la composizione base della poesia di Ubaldo de Robertis, ci accorgiamo che l’autore compone come riprendendo il filo di un discorso abbozzato in precedenza. Si può leggere la poesia di de Robertis a ritroso, dall’ultima alla prima composizione e nulla cambierebbe del senso complessivo, perché non c’è un senso, ma una serie di sensi. Le composizioni entrano subito nel tema dialogico: c’è l’introibo ad un oggetto eisistenziale, per lo più un «negoziato» con il lettore.

Henri Matisse 1941

Henri Matisse 1941

C’è una componente «sacrale» in questo metodo ma è un «sacro» nutrito di falso e inautenticità. «Non si dà vera vita nella falsa», ha scritto Adorno in tempi non sospetti in Dialettica dell’illuminismo (1947). Nel frattempo, il mondo è diventato integralmente falso, e l’«io» ne è una degna protesi, il «tu» è una immagine posticcia, che non si sa quando sorge e quando non sia più una proiezione dell’«io». E così via. Il segreto forse si cela nell’assenza, nell’impronta, nella traccia. E sarà compito del lettore esercitare l’indagine nell’atto della lettura. Direi che in questo genere di poesia è prioritario l’atto della investigazione. La poesia si costruisce come interpretazione del non-detto, del non-accaduto. Il  momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della deduzione; l’analisi è, insieme, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme, visione panoramica dell’io e del tu. Di qui l’abbondanza di deittici e dei sintagmi segnaletici dei luoghi.

Una procedura sottoposta alla logica della sintassi. Il metodo di scrittura di Ubaldo de Robertis consente lo scorrimento delle proposizioni, è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra le proposizioni, un percorso duale, relazionale dal quale ciò che si è definitivamente assottigliato sembra essere la «sostanza», la stoffa delle relazioni umane. La stessa abbondanza di deittici, dicevo, cioè di quelle unità pronominali e avverbiali che si possono rintracciare in questa poesia, sono una spia delle relazioni spaziali e temporali che si organizzano intorno al «soggetto», che costituisce il principale punto di riferimento, il semaforo «significazionista (?)» e relazionale delle composizioni.

Ubaldo de Robertis

Ubaldo de Robertis

Poesie di Ubaldo de Robertis

(A Max Frisch)

Mare e cielo adunati in un unico sguardo,
visione maestosa, sublime. Ritta sullo scoglio
una minuscola figura, si toglie il cappello
alzandolo il più possibile per sventolarlo.
E non ci sono vele all’orizzonte, angoli ristretti, relitti,
solo stupore, a Palavas, con cui riempirsi gli occhi,
ebbrezza che in un uomo ordinario sparisce.
Non in Courbet. Fierezza, monumentalità,
unisce a quella solitudine, della sua luce
penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno
e ha bisogno della luce del mondo per esistere.

Nel retroterra un uomo è diventato pietra.
Medusa non l’ha guardato, chissà perché è impietrito
e a che fine le ombre s’intrecciano sul capo anguicrinito,
quale identità lui che, forse, ha conosciuto
molti luoghi in cui fermarsi per rendersi invisibile.
Chi è? Ha forse consumato per intero il respiro?

Lo spazio intorno trasfigura per la rapidità
con cui sfilano tram, un continuo va e vieni.
Uomini che si muovono come nuvole incombenti,
senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale,
e persistono ancora… a passare. Forme dissolventi.

Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare,
prendere una via, ripartire all’istante:
“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?
Per quasi tutto il tempo della vita io l’ho sfuggita
riducendomi in solitudine.”
Amnesia di esseri e luoghi.
Agli uomini comuni poco è concesso di chiedere, o sapere,
arduo trarre inferenze, deduzioni.
Immagini indurite, alterate, confuse con quelle di altri.

Quei peli di un rosso chimico slavati, gli occhi azzurri
iniettati di ruggine, l’arcata inferiore sporgente,
sulla fronte appena percettibile il segno di una cicatrice.
Il tempo estatico dell’insurrezione delirante
ti può esplodere in faccia, auto-annientare, come l’esaltazione
di Corbet per la Comune, pagata a caro prezzo.

Nessuna espressione, ansia di abbandonare le tenebre,
persiste la storica immobilità.
E quel suono alto nell’aria? Un nuovo espediente?
Solleva il Quartetto per Archi l’alto sentire, l’Opera 132,
quanto di più solenne e impenetrabile ci sia nel Genio,
afflitto da ipoacusia. Musica, tempo di redenzione, dell’utopia.
Nessuno che sia disposto ad accoglierla.
Nessuno che sappia congiungersi con Beethoven.
Suoni, segni, e note, alte in numero sempre minore,
condurranno a un raggiro.
L’ assurdità è che uno ha coscienza della propria vuotezza
e l’altro, annichilito, non ha un’identità.
Ma se nella tasca interna della sua giacca scovate un biglietto,
solo andata, per Amsterdam,
Signori, non dubitate quell’uomo sono io.

Henri Matisse 1939

Henri Matisse 1939

*

Il presente: la sola dimensione.
E ha perso il nome, l’essenza, causa sui
e per l’azione di famulus miserandi
fautori dell’espansione, corruttori d’identità.

Fletto la passività, sfato la connessione,
frantumo gli argini, l’indolenza
che assume valenza metafisica.

A lungo fu il grigio degli sguardi
ora un piccolo astro rosso lucente
lumeggia nella mente come esigenza
di un luogo limpido, nuovo, d’aria e di luce.

(contro-voce)
Senza paesaggio che lo distingua,
con troppi punti di approdo,
troppi crocevia da oltrepassare.
Una trappola claustrofobica.
La fiera globale non è poi
così male, spinge lo sviluppo,
riduce la povertà, vale l’adagio
del sempre ci sarà chi affligge
e qualcun altro che sarà oppresso,
e poi… esiste la libertà intera?

In mare o terra, scortato dal miraggio
seducente, fra l’istante di un crollo
nell’abisso e il ritorno alla vita,
lascia dall’altro lato il servaggio,
l’inedito è di fronte, l’impazienza di scoprire
la propria identità,
l’idea di sé difforme dagli altri,
e di sé attraverso il tempo. Sincronico
e diacronico, – direbbe Saussure.

Co-abitare l’isola, antica come il mito.
Perché nessuno la nomina?
Perché gli echi sono inaudibili?

In quell’arcaica natura in cui si raccolgono
le ombre, mani come rami stringono altre mani,
arbusti sempreverdi, compatti, ricadenti sulla terra
vermiglia, s’ incontrano fra spigliate fioriture
di intenso color lilla, rosse bacche fragranti.
Una sorta di Origine.

E c’è chi, affrancato, scuote le catene,
festosamente, chi sente come un’epifania
la contorsione di quel corpo accorso
dietro una promessa che l’animale-uomo
è legittimato a fare: das versprechen darf.

Certi danzano, ridono,
altri parlano un lessico ermetico, inconsueto.

E’ forse necessario un nuovo linguaggio?
Un idioma segreto?

Co-abito l’inquietudine, il dubbio
che tradisce, scruto in faccia l’incertezza,
per capirne il senso.

La mancata dialettica non lascia individuare
inediti scenari, antidoti alla coazione a ripetere,
/vero elemento demoniaco/, la dimensione
dell’agire, saggiare la vertigine della libertà
che ad ognuno dovrà rivelarsi.

Majakovskij tuonava:
/Noi la dialettica non l’imparammo da Hegel //
quando sotto i proiettili /dinnanzi a noi
fuggivano i borghesi,//

Qui, alcuni fuggono, ripiegano,
tenendo in petto, semplicemente,
il senso di vertigine, il mancato riscatto.

Arretrano. Volgono i passi,
si consegnano alla prassi.

E i crolli?
Le macerie ammassate sulla via?

Eretto intorno all’isola, o forse nella mente,
l’archivolto azzurro-cielo sorregge l’utopia
perché il mondo non sia più
come un non so che di apparente.

L’esperienza gradualmente si invera.
In evidenza l’effettiva identità, la memoria,
stili di vita relegati ai margini,
in penombra le paure, le perplessità,.

Per gioia ogni voce diventerà riconoscibile.
Nessuno incererà “de’ compagni/senza dimora/
le orecchie”, per godere la bellezza del canto
delle sirene, più deliziose che mai.
Nella congiuntura le incantatrici ritroveranno,
definitivamente, la loro dionisiaca voce.

Henri Matisse - 1923

Henri Matisse – 1923

*

«La clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo
capovolta e tu con essa..
Friedrich Nietzsche: La gaia scienza

Ad immagine dell’infinito

La gravità zelante di un valletto, in ombra,
sul cono più alto, stagnante, ad ogni soprassalto.
Estraniato. Nella bonaccia. Sul palcoscenico di vetro
si illude di mandare fuori tempo il congegno.
Tempo rubato. Dilazionato.
All’improvviso si sente mancare la terra sotto i piedi,
mentre si avvicina alla gola che apre al sottomondo segreto,
non può tornare indietro, sospinto, a capofitto declina
in tante traiettorie frenetiche, sul fondo,
stilla come sangue da una stretta ferita,
scontroso, perché sa che non potrà abitare
le stesse posizioni ogni volta che la clessidra
sarà sovvertita.
Ma c’è qualcosa che lo umanizza,
che oltrepassa e trascende il tempo.
Perduto?
Ritrovato?
O un irreversibile salto verso il nulla?

E rovesciato, nell’aria, inizia un nuovo ciclo
verso un tempo nuovo di cui è arduo carpire l’intensità
di ciò che passa, o anche la tenuità,
difficile esibire immagini coerenti della nostra presenza,
scoprire un’effettiva, reale, misura interiore,
per comporre tutti questi frammenti(di sabbia)
in pensieri dicibili.
Dicci pure, Louis Borges: fu realmente di miele
l’ultima goccia attingibile della tua clessidra?

(Inedite)

da: Diomedee, Edizioni Joker, 2008

Aghi d’albero gomitoli senza nome
flutti di acque verdastre mormoranti
angoli asciutti sabbie delicate
falesie bianche
spiagge curvate come lame
come dame stanche

Isole che gareggiano per bellezza
con ogni terra ferma
isole di leggende di storie
isole di memorie senza vele
Isole invisibili di croci
Isole senza voci.
Isole dei fuochi silenziosi
dei sentieri di pietra
dei monoliti dei ciclopici massi
dei taglienti sassi

Isole delle notti tolleranti
di sconsolate amanti
Isole dove siamo nati
dove siamo approdati
dove abbiamo vegliato
dove abbiamo cantato
Isole dove abbiamo pianto.

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Aldo Onorati “La speranza e la tenebra” Romanzo (Anemone Purpurea, 2007) Lettura di Marco Onofrio

una via di Palermo

una via di Palermo, 1900

La speranza e la tenebra (Anemone Purpurea, II edizione, 2007, pp. 288, Euro 13) è un corposo e potente romanzo storico di Aldo Onorati, pubblicato da Corrado Lampe nel 1997, ambientato a Roma e nei Castelli Romani, in un arco di tempo che va dal 1900 al 1965, attraverso le vicende private e pubbliche del personaggio protagonista, Felice Fortunati. Onorati adotta un procedimento narrativo eterodiegetico (la scrittura veicola una voce “fuori campo”, esterna ma non estranea al mondo descritto) con focalizzazione interna ai personaggi (gli accadimenti sono colti in coincidenza con il loro punto di vista). Felice Fortunati è un personaggio-Novecento: nasce infatti insieme al “secolo breve”, la notte di capodanno. È figlio di contadini, viene educato e cresciuto dalla terra, in mezzo alle voci di una natura ancora incontaminata, in una dimensione per cui uomini, animali e cose sono tutti sullo stesso piano biologico ancestrale. Poi però l’Eden infantile e villereccio comincia a venarsi di crepe, e sorgono i primi “perché?” di Felice. La ruota di un carretto schiaccia la testa a Fido, il suo amato cane, compagno inseparabile di giochi: e Felice si chiede «che male aveva fatto Fido?». Dalle trasparenze dell’idillio emerge il volto crudele della natura: «un giorno, mentre portava il granturco alle galline, assisté a uno spettacolo orripilante. Una lucertola, ipnotizzata, stava entrando nelle fauci di una lunga serpe. La striscia verde cupo aveva puntato gli occhi negli occhi della vittima. E, con la freddezza irrevocabile della necessità, uccideva una vita per alimentare la propria». Poi irrompe la bufera della grande Storia, con lo scoppio della prima guerra mondiale: i ragazzi cadono al fronte e Felice si chiede: «che sono nati a fare?».  Poi, nel 1918, scoppia l’epidemia della Spagnola, che miete vittime in ogni famiglia. Felice, toccato personalmente giacché perde la madre, si chiede disperato: «Perché tanta povera gente? Che male ha fatto?». Di seguito, Felice viene accusato ingiustamente di omicidio, e finisce carcerato 5 anni…

Mario De Biasi_ 1954 stampa d'epoca

Mario De Biasi_ 1954 stampa d’epoca

Insomma, ironia del nome, Felice Fortunati ne passa di tutti i colori. È l’eterna epopea degli umili che in lui si ripropone e rappresenta; quelli verso i quali sembra maggiormente accanirsi, forse perché più deboli, la dolorosa assurdità che domina il mondo. Anche le domande di Felice sono, per motivi diversi, “assurde”: perché si nasce e si muore? cos’è questa forza arcana e assoluta che spinge le cose alla vita e le riproduce con irrazionale volontà? cos’è il «palpito cieco» che costringe gli esseri a vivere con reciproco danno? perché dunque il «disegno maligno della natura, la quale si allea con gli empi e distrugge i propositi degli uomini buoni»? perché il mondo sta in mano ai malvagi? perché punisce continuamente i giusti? perché dà tutto a chi ha già tutto? perché è così contorto l’animo umano, questo «buio fondale» senza strade certe?

Ci troviamo dinanzi la “maturazione alla vita” di Felice, per cui tra le chiavi del libro c’è anche, plausibile, quella del Bildungsroman. Felice sonda cioè, attraverso la propria umile esperienza storica, la stortura primordiale della creazione, corrotta dal “peccato originale” e inquinata dal Male in ogni piega. L’uomo è sintesi emblematica di questo stato di cose: altrove Onorati lo definisce «dio minore fuso a satana», che però è in grado di volare «senz’ali»: capace delle più bieche abiezioni e, al contempo, degli slanci più mirabili e sublimi. Viene subito in mente il “Discorso sulla dignità dell’uomo” di Giovanni Pico della Mirandola. Ma il libero arbitrio individuale è come schiacciato da forze insormontabili, agenti nelle circostanze cosmiche e storiche che ne determinano il corso dentro l’esistenza. Così Felice: la giustizia lo toglie dal carcere dov’era ingiustamente detenuto, ma la risorgente ingiustizia lo porta ad essere perseguitato dai fascisti, in particolare il suo “alter ego” in negativo, l’antagonista Cassione Loffa, il “caporale” di turno (direbbe Totò) che lo prende di mira per futili motivi. Felice, peraltro, non è tipo da scoraggiarsi facilmente: è un idealista puro che – anzi – non recede mai. Non come l’ex compagno di carcere Saverio, che pure ne ha acceso la passione politica. Saverio ha mollato, è sceso a compromessi: «Il confino dopo, il carcere prima…. A un certo momento mi son detto: il mio sacrificio non cambia niente». È qui la radice del male, il passaggio critico da cui origina la stortura. I malvagi prevedono e confidano che i probi, vessati onniparte dall’ingiustizia, a un dato punto rinuncino per stanchezza a esercitare il bene, giudicandolo ormai inefficace. Si rinuncia al bene perché ci si sente disperati, soli, isolati, insignificanti, e si percepisce vano il proprio contributo in un mondo che sta e va da tutt’altra parte. Si rinuncia al bene quando ci si accorge che perseguendolo si fa il danno proprio e talvolta anche quello altrui, mentre chi persegue il male non solo non paga la colpa, ma spesso ne ottiene straordinari benefici.

Roma, tram anni Sessanta

Roma, tram anni Sessanta

Felice è disilluso, ma non per questo privo di speranza, di fiducia nella possibilità della giustizia, dell’uguaglianza, della fraternità. Nel mondo c’è il continuo «trionfo del male sul bene, della mediocrità sul valore, della furbizia sulla trasparente intelligenza, del compromesso sulla chiarezza». Ma non ci si può rassegnare a credere che vinca sempre il malvagio. Felice sa e sente che occorre sempre e comunque reagire, farsi coraggio, lottare per la verità, per l’avvento di un mondo pulito, libero da intrallazzi, da marciume, corruzione, ipocrisia; un mondo capace di dare onore al merito vero, quando invece le capacità individuali servono per lo più a «farsi strada nella vita, cioè ad accaparrarsi un giro di potenti». Il mondo «non è fatto né per i geni, né per i santi, ma per i furbi», scrive Onorati: è questa l’amara verità.

Fra tutte le disgrazie che affliggono Felice, ce n’è una davvero immedicabile: la seconda guerra mondiale gli porta via per sempre il figlio Tranquillo. Così, benché incapace di odiare e incline a comprendere e giustificare tutti, stavolta Felice dà colpa al regime fascista e sente l’esigenza, anzi il dovere morale, di rifarsi per tutte le ingiustizie patite. La “vendetta” non sarà violenta, ma costruttiva e operativa, etica. Decide di entrare nel vivo della lotta politica: darsi da fare per una nuova società, lottare per un domani migliore. A partire dalla piccola ma ugualmente importante realtà locale: il suo paese. Felice crede nell’uomo, prima che nel cittadino: «Prima di chiedere a un uomo la tessera politica, chiedetegli la coscienza». È l’individuo che fa santo l’ideale, non viceversa. Felice intende il politico come “saggio servitore” dell’elettorato: concezione ingenua agli occhi del mondo, poiché da sempre la politica è un gioco sporco e intricato di compromessi e opportunismi. Felice scopre sulla propria pelle che «la morale è una cosa, la politica è un’altra: è calcolo, non sentimentalismo»: Machiavelli docet. La prassi politica, tranne eccezioni scomode e isolate, è interesse privato mascherato da interesse pubblico. I politici sono diabolici sofisti della comunicazione e abili mistificatori dell’etica: promettono qualunque cosa pur di ottenere il voto, cioè il potere, e il privilegio economico e sociale di gestirne le potenzialità. D’altra parte, se l’elettorato stesso vede nel politico un “dispensatore di favori” ad personam, che cosa attendersi da chi tiene il coltello dalla parte del manico ed è messo nelle condizioni di approfittarne? La libidine del potere è la perfida Eva che provoca la cacciata dall’eden incorrotto dell’Idea. Un conto l’idea, un conto la sua applicazione pratica tra gli ingranaggi e gli infiniti vincoli del mondo… Esempio tipico del politico-camaleonte, disposto e, anzi, favorevole ai compromessi, è lo spregevole Cassione Loffa. (Attenzione: è bene precisare che Onorati ha una visione complessa e aporetica dell’uomo, e perciò come narratore dà udienza alle opposte interpretazioni, al conflitto delle voci e dei pensieri. Anche il male ha le sue “ragioni”, e la luce, a sua volta, è autentica solo dal contrasto con la tenebra. Onorati lascia che parlino i fatti del racconto – spetta al lettore giudicare e ai personaggi stessi commentare l’evolversi della vicenda – poiché confida ancora nella parola come potente sintesi gnoseologica, e soprattutto grimaldello per la ricerca di una verità non data a priori, ma partecipata “in fieri”, dal concorso dialettico delle forze in gioco).

Aldo Onorati cop speranza tenebraCassione Loffa è spregevole, dunque, perché tale dimostra di essere attraverso il suo modo di pensare e agire. I fatti dicono che è un impostore, un infido, un opportunista, uno di quelli che restano a galla su ogni fiume, su ogni corrente. È il gran voltagabbana: prima è fascista, poi diventa gerarca prepotente; poi dopo la guerra si ricicla comunista (organizza sotto il nome di “camicie rosse” le sue vecchie camicie nere), poi ancora repubblicano… Il sistema si regge e sopravvive, generazione dopo generazione, su un tacito patto di connivenza generale e di omertà: nessuno ha il coraggio di dire che il re è nudo, dacché ciascuno, chi più chi meno, ha il proprio interesse a far finta di nulla. Dal romanzo emerge in negativo la gente, la folla, come un coro amorfo ma non neutro, a servizio del male e della sua distratta “banalità”. La maggioranza degli uomini è stolta: spesso, infatti, hanno ragione le minoranze. La folla è volubile e ingrata: con niente distrugge una persona e con niente la esalta… Basta poco per passare dagli altari alla polvere, o viceversa. Ecco allora i perniciosi “si dice” rimbalzati di bocca in bocca; le infondate immaginazioni; le maligne insinuazioni… e soprattutto le chiacchiere: «il mondo è abituato alla chiacchiere: chi la dice più grossa diventa priore».

L’entrata in politica di Felice coincide coi suoi primi problemi di vista: emorragie retiniche rischiano di renderlo cieco. Un disturbo evidentemente simbolico, quasi una compensazione psicosomatica al suo disperato bisogno di vedere le brutture del mondo per estirparle. Felice, malgrado tutto, riesce a diventare sindaco del suo paese. Vive tra la gente e vuole risolverne davvero i problemi: dedica anche 20 ore al giorno alla realizzazione dei suoi propositi di rinnovamento e moralizzazione della cosa pubblica. È un sindaco onnipresente; dunque di intralcio a coloro che vogliono fare il proprio comodo, e simpatico soltanto agli uomini liberi, non faziosi, non legati all’utile del momento. «Felice andava avanti, imperterrito, ostinato, sempre più convinto di stare nel giusto». Ma il vicesindaco Vivenzio lo avverte: «Non lo aggiusterai tu il mondo… che da millenni va a rovescio. Il mondo è una mola pesante; se ti ci metti contro ne vieni schiacciato inesorabilmente». Il percorso umano e politico dell’idealista Felice Fortunati si snoda così tra luce e cecità, speranza e tenebra, ostinata perseveranza e amara sfiducia. Ci sono momenti di sconforto in cui ammette che è impossibile cambiare il mondo imbrogliato, perché l’«imbroglio ha un miliardo di facce e ti imbroglia sempre», e allora starebbe quasi per mollare («è inutile combattere contro i mulini a vento… perché? per chi?»); ma poi non riesce a darsi per vinto, e continua, continua, perché sente che «la bellezza basta da sola a giustificare l’esistenza di una cosa» e che «il mondo non merita niente, ma io ti dico che il bene non è sprecato». L’ideale è tutto, anche se non c’è che ingiustizia, dolore, morte: «Il mondo è quello che è, ma guai a gettare le armi. Il male c’è ed è forte (…) ma chi non lotta per migliorare gli uomini, diventa alleato dei malvagi». Pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, dunque.

la Seicento taxi anni Sessanta

la Seicento taxi anni Sessanta

E tuttavia la chiusura del romanzo è cupa e sconsolata: la tenebra, da ultimo, prevale. Immobilizzato dalla malattia agli occhi, Felice resta vittima del sistema per cui «l’idea tra due fette di pane vale di più» poiché, per quanto giusta, senza “rendiconto” finirà per apparire sciocca e vana. La giunta del Comune viene travolta da uno scandalo di profitti illeciti. Felice, coerente fino in fondo, si dimette proprio quando potrebbe finalmente arricchirsi, spartendo sottobanco le porzioni o almeno le briciole del maltolto. E dà alle fiamme, sconfitto, il suo ultimo programma politico. Giusto in tempo per assistere alla fine della civiltà rurale, cioè al genocidio di un mondo di valori millenari: le terre lottizzate dal capitale, la natura fiorente ricoperta dal cemento e dal catrame, le acque e le arie inquinate, i canti dei contadini cancellati per sempre, il cancro dilagante del consumismo, i «visi impertinenti» dei nuovi figli dell’abbondanza… Ovvero il crepuscolo di una civiltà che Onorati registra – in parallelo con Pier Paolo Pasolini – attraverso molte sue opere, e soprattutto in quel capolavoro antropologico e letterario che è la Saga degli ominidi (1972).

                                                                                                                                   Marco Onofrio

Aldo Onorati, dal saggio inedito “Discorso sulla libertà”

Per avere il pelo lucido e i lombi grassi, bisogna stare a catena e servire un padrone. Nessuno protegge i cani randagi. Nessuno getta ad essi un pezzo di pane, anzi: benché mansueti, sono scansati da molti e qualcuno li prende anche a sassate. I cani che latrano nelle ville patronali, al riparo e sicuri del proprio avvenire, suggeriscono ai loro fratelli selvatici di imitarli. Ma essi non possono farlo, perché sono nati così: non possono andare contro natura. Servi o liberi si nasce, non si diventa. Si diventa padroni, ma questo è il lato opposto di una stessa medaglia: il padrone è fondamentalmente un servo e il servo è un padrone in potenza. Gli uomini liberi non saranno mai né l’uno né l’altro. Ecco perché sono scomodi a tutti, combattuti ovunque senza tregua. Gli uomini liberi però sono la coscienza del mondo. Il loro destino è salire in croce, bruciare sul rogo, bere la cicuta, andare in esilio, subire l’umiliazione del sopruso, la persecuzione o – quel che è peggio – la condanna calcolata del silenzio. La storia, tuttavia, li riabilita e li porta come esempio, magari per servirsene e continuare a opprimere i “nati liberi”. Questo è il loro destino. E la loro grandezza.

aldo onoratiAldo Onorati, nato ad Albano di Roma nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Intervite oggi» e «Quaderni di filologia e critica».
Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con Edilet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, Edilet).
Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012).
La sua autorità di dantista lo porta a commentare il sommo Poeta in Italia e all’estero. Di recente, la Presidenza Centrale della Società Dante Alighieri gli ha conferito, al Vittoriano di Roma, il diploma di benemerenza con medaglia d’oro «Per la profonda conoscenza dell’Opera dantesca, al punto di diventare testimone nel mondo della Divina Commedia». È in via di pubblicazione con la stessa Società un’ampia sinossi critica dei 34 canti dell’Inferno.
Le sue opere di poesia e di narrativa sono state tradotte in 16 lingue, fra cui Coreano, Esperanto, Francese, Inglese (Ultima «Incontro con Zaccaria Negroni», X ed.), Spagnolo, Portoghese, Romeno, Tedesco, Russo (la silloge «Domande assurde» è apparsa prima a Mosca, tradotta e prefata da Evghenij Solonovich, e poi in Italia), Cinese, Polacco etc.
Ha diretto una collana di ecologia da Armando, scrivendo alcuni libri di successo per le scuole: «Ecologia, Cassandra del Duemila». Al presente collabora a “Pagine della Dante” e a «Leggeretutti».

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