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Renato Minore, Ogni cosa è in prestito, La nave di Teseo, Milano, 2021 pp. 292 € 20 Lettura di Giorgio Linguaglossa, Lo scetticismo integrale incontra la forma-poesia, «Se ogni cosa è in prestito lo è anche il dolore», Minore gioca a citare Marcuse, sa che ci troviamo tutti in una unica dimensione solitaria e olistica nella quale ci siamo abituati alla incomunicabilità questa sì, totalitaria, ci siamo abituati alle mezze frasi, alle mezze certezze, alle mezze superstizioni e al mezzo parlare, al parlottio

Renato Minore Ogni cosa è in prestito

Lo scetticismo integrale di Renato Minore

Abruzzese di nascita e romano di adozione, come il suo predecessore Ennio Flaiano, Renato Minore ha in comune con il suo conterraneo uno scetticismo adriatico divenuto scetticismo tirrenico per via della sua frequentazione della città più sorniona e meticcia d’Italia quale è Roma. Albeggia in Minore la consapevolezza che la forma-poesia abbia raggiunto in questi ultimi venti anni un gradiente terminale, che è giunto al capolinea il binario continiano della poesia innica e della poesia elegiaca, con annessi e connessi di sub-categorie come quelle costituite dal post-sperimentalismo e dalla poesia neo orfica. La poesia più matura di questi anni reca il contrassegno della sua insufficienza come genere e del suo essere periferica, è proprio questa constatazione che guida Minore verso gli aspetti secondari, laterali e trascurabili dell’esistenza. «Se ogni cosa è in prestito lo è anche il dolore» recita un suo verso che non vuole avere nulla di memorabile, che dopo la lettura vuole essere subito dimenticato; è incongruo e improprio trattare le grandi questioni della metafisica, ma è improprio anche la tascabilizzazione della metafisica, la sua messa in mora e in posizione minoritaria, così è inutile e controproducente perfino il «discorso sulla morte»:

Altra cosa la morte
dal discorso sulla morte e oggi
ho leggiucchiato di quel Louis comunista,
filosofo disperato senza più bussola
uccise Santippe uccise Alcina uccise Penelope,
e vive rintanato, dicono, senza avvilimento
quieto e balordo come la gatta che in tanti
l’altro giorno sentivamo miagolare sul pino.

*

E improvviso fu lo stupore
tra le parole
che sono piombo fuso,
ceralacca di feroce carità,
ognuna pure vale
la sua espiazione.
Un’anima abita
e custodisce il bosco.

*

Non esistere
sarà forse impossibile.
Nel multi verso-patchwork
a pochi millimetri
dal nostro presepe

*

Ogni candela è una stella.
In cima l’angelo di Wenders
precipita credendo di volare.

Che le parole possano ancora abitare
nel tenue lume di perla e turchese,

Ma per essere colpevoli di ciò che facciamo
dobbiamo essere colpevoli di ciò che siamo?

Come piccole bolle appena soffiate,
viviamo in spazi evanescenti.

Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?

*

Ma l’io è minimo, lo sai,
l’io è la lucerna
che hai dietro le gracili
tue spalle, è quel resto
di dente la stoviglia
bucherellata la spianata
di Hiroshima l’orlo
il fendente che non prende
la colla essiccata
sul tavolo di papà Leopardi,
è lo stabulario l’acquario
il dolorino dietro l’anca
il motorino che non si stanca,
la turbolenza, l’eccesso
discreto o eccitato,
la porosa granulare proprietà
dei corpi che si toccano,
degli amori che divergono.
È il quoziente tra il tanto dire
e il poco dare o il tanto dare
e il poco dire.

È lo scetticismo integrale che riscatta Renato Minore da ogni azzardo verso una poesia esclusivamente incentrata sull’io demiurgico o sulla tascabilizzazione delle questioni tradizionalmente considerate metafisiche, Minore sa bene che la poesia è una Musa timida e scontrosa che non ama i luoghi affollati, frequentati, disinfettati, igienizzati, che predilige la sordina del ritegno e della parola minoritaria; Minore sa che l’evento «io sono qui» non è il primo segnale che conduce dal nulla all’essere di una esistenza sempre più precaria ma è già il primo, magari precario, risultato di una massa di eventi che gli preesistono. «Io sono qui», allora, non è il richiamo testimoniale dell’univocità dell’esistenza ma un indicatore di un luogo che esiste in quanto non separato da tutti gli altri luoghi. Essere qui significa essere solitari, non indica altro che una traccia, un momento «terapeutico del concetto operativo». Minore gioca a citare Marcuse, sa che ci troviamo tutti in una unica dimensione solitaria e olistica nella quale ci siamo abituati alla incomunicabilità questa sì, totalitaria, ci siamo abituati alle mezze frasi, alle mezze certezze, alle mezze superstizioni e al mezzo parlare, al parlottio. La coscienza che si risveglia non si chiede: «dove sono?», ma: «forse sono?» Ecco il primo interrogativo che la poesia di Renato Minore solleva e ci coglie alle spalle: in quale relazione mi trovo con me stesso e con gli altri esseri umani? Siamo a tal punto disorientati dalle domande in minore che Minore ci consegna che immediatamente tentiamo di derubricarle; certo, sarebbe preferibile tornare alle antiche e pigre certezze dell’ontologia poetica della tradizione novecentesca, ma tutto è andato in rovina ed è diventato sabbia, terriccio instabile. La poesia di Renato Minore ci dice che non c’è nulla di più improprio che pensare ad una autosufficienza dell’io: «Ogni cosa è in prestito» titola la sua autoantologia, l’io non è altro che un eccentrico epicentro, una rete di debiti, un reticolo di prestiti, l’io non è nulla di diverso da tutti gli altri enti che abitano l’ ontologia metastabile in continua trasformazione del nostro mondo. Minore pensa la poesia come quasi-evento linguistico, un quasi-evento che si annuncia come irruzione di ciò che è per venire, o che è già avvenuto senza che ce ne accorgessimo, il quasi-evento di Minore è ciò che ormai è diventato assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare il quasi-evento linguistico sfida l’anticipazione e la posticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per avv-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolto e rispettato nella sua inappropriabilità e infungibilità. Ed ecco i suoi personaggi: la «maestra De Stefanis che «prima non mi conosceva/ dopo non mi riconobbe», Enrico con «il suo bell’occhio di vetro», il «bambino che cerca l’oro sull’atlante»

È dagli anni settanta del novecento che la poesia del logocentrismo è entrata in crisi una volta scoperta la perduta centralità dell’io, e la forma-poesia ne è risultata irrimediabilmente cambiata («Ed io/ ora proprio mi sento addosso quello che mi rende/ improponibile/ ad un’altra qualsiasi ipotesi di me…» p. 43). L’evento ontologico della poesia novecentesca: «Io sono qui», ha questa temibile implicazione esistenziale: «Nessun altro è qui, nel luogo dove mi trovo io», il qui e ora come luogo e tempo dell’io è la negazione decisa dell’altrove come luogo e tempo dell’Altro.
La poesia dell’«io penso dunque sono» della tradizione poetica del novecento, la «poesia da risultato sicuro», quella cioè del significante e del significato sicuro, è affondata insieme a quella tradizione. Io dunque significo e posso significare ciò che voglio è da considerarsi un falso assioma. La «poesia da risultato sicuro» è una poesia che deriva da un concetto di logos tutto sommato rassicurante, perché l’io ha a che fare soltanto con se medesimo: quello che l’io dice e quello che non dice si trova nel campo della verità, non si discute. Da questa impostazione ne deriva che il non-io non esiste, e quindi è fuori della verità, fuori del campo della verità. Una posizione indubbiamente comoda, rassicurante, gratificante che non si può discutere. Un concetto, si direbbe oggi, da «dittatura sanitaria», da «dittatura solitaria dell’io» (Ipse dixit), si potrebbe dire parafrasando un virologo che è andato di moda lo scorso anno secondo il quale «l’io è clinicamente morto».

(Giorgio Linguaglossa)

«E se le parole, se i versi non fossero altro che la misura di ogni nostra insufficienza? Se non fossero altro che l’indicazione del peso specifico di ogni nostra incertezza e di ogni nostra coscienza d’incompiuto? Come in un mulinello che prende a vorticare nell’acqua, prima piano, a larghi giri, e poi sempre più velocemente, così le poesie che Renato Minore raccoglie in questa sua autoantologia raccontano ogni vita a partire da una vita: perché se ogni cosa è in prestito, lo è anche il dolore e il nome di ciascuno. L’io lirico inventa e rimpasta tutto, è chiaro, e però questo libro, che fa il punto su cinquant’anni di scrittura di quella che Giuseppe Pontiggia considerava una delle voci italiane più sicure e originali, schiude le porte su di un vero e proprio catalogo di momenti di pura esistenza. Fedele al suo sguardo sempre innamorato della parola, Minore plana sull’amore, sull’infanzia, sulla solitudine, sulla memoria, sulla consistenza organica delle nostre percezioni, e lo fa senza trascurare vere e proprie carezze a Marilyn Monroe, Giacomo Leopardi, Ennio Flaiano, Jacques Lacan e Kikuo Takano».
[dalla quarta di copertina]

«Un testo bellissimo e cruciale su cui dovrebbero meditare tutti coloro che tuttora presumono di sé , della propria atteggiata sufficienza» [dalla prefazione di Giulio Ferroni]

Renato Minore, da Ogni cosa è in prestito Continua a leggere

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La Presentazione e la Rappresentazione nella poesia della nuova ontologia estetica, Poesie e Commenti di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Paul Muldoon, Paola Renzetti, Tiziana Antonilli, Lucio Mayoor Tosi, Adriano Ardovino, Kikuo Takano, Giorgio Linguaglossa

Mario M. Gabriele
inedito da Registro di bordo in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma
5

Il tempo riannodò i fili della memoria.
Uscimmo per andare ai magazzini Spandau.

Negli scaffali trovammo mostrine delle Schutzstaffel
e l’ultima edizione del Die Tageszeitung.

Un giovane livoriano lasciò i Tamburi nella notte.
Non fu facile tornare a casa.

Il triciclo portava fiori a Shiva
per una grazia a Geltrude Bisleri.

oh mammy, ora puoi salire sul Machu Picchu
e parlare con le colombe.

La ragazza sul treno adescava il Quinto Evangelio.
Al Savoia tornarono i ballerini di Grease.

Si sta in attesa di Hamm e Clov.
Beltrand si agita. Chiama un rom.

Gli dice di tenere tranquilla la notte.
Un puma fuggì dalla gabbia.

– Questa volta non lo prenderemo. Ci sono alberi e querce,
lupi e trappole nel bosco -, dissero i guardiani.

La linea della vita
è rimasta nella mano come una cicatrice.

Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.

Francesco Paolo Intini

Il gancio di Kikuo Takano

(libera traduzione di Renato Minore)

Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando chissà perché
lasciato chissà da chi
appeso così è un gancio proprio pauroso.
e speravo davvero che con la ruggine
mai dovessi provarlo (…)

Io ci aggiungerei una certa difficoltà di fronte all’Impersonale. Con chi prendersela se qualcosa non funziona? La macchina della razionalità affonda i denti nell’individuo in carne e ossa per dialogare con un Io creato dalla macchina stessa e dunque con meccanismi di natura numerica. L’io reale, il gufo che attende il suo turno nell’ufficio postale, lamentando e spazientendo accusa la sua impotenza come un colpo mortale, come si trattasse di aver visto l’efficienza dei campi di sterminio o la potenza dell’atomo nientificare Hiroshima. Un sentimento strano che non si lascia imbrigliare dalla metrica, né dai ritmi o dalle assonanze con cui si fa ancora poesia, semplicemente perché chiede di non piacere ma di annullarsi nel poeta stesso. E dunque l’unico rapporto tra l’Io ed il Mondo si fonda sulla negazione reciproca. Occorrono dei buoni elettroni per fondare un legame, altrimenti dominano quelli cattivi che spingono in basso lo sguardo o contro un cellulare l’orecchio per trascendere il filo che si percorre, secondo R. Minore.

ALGORITMO: L’IO.

Touch-screen e Dio in alto.
L’Everest affacciato alla scrivania.

Inutile rimpiangere la genealogia dell’india.
Ossido di carbonio sorpreso a respirare.

Il Nepal di via Einaudi si collega con la Cina.
Ma bisogna acquisire pratica di sentieri.

Salto di crepaccio
quanto nella lingua.

Parità con la pazienza del proletariato:
In fondo a un libro, incatenato nel Tartaro.

Il numero non era giusto
bisognava ricomporlo.

Avrebbe risposto un impiegato delle poste
Alzando lo sguardo dalla pece dello schermo.

E poi con gli uncini nello stomaco
come si fa a digerire Marx-Engels?

Marie Laure Colasson

Fare una poesia significa trovare il collegamento filiforme nascosto che ci riporta al nostro modo di vita a alla vita che abbiamo vissuto. La ricerca del padre da parte di Renato Minore ne è la prova compulsiva e significativa. È una ricerca ossessiva. Noi possiamo scrivere poesia soltanto se comprendiamo che viviamo all’interno di un sortilegio, quel cerchio magico che è il nostro modo-di-vita. La nostra residenza è la forma-di-vita che condividiamo. A questa forma di vita corrisponde una determinata forma di poesia, e quella del poeta di adozione romana è la sola forma-poesia che oggi possiamo adottare: non più la forma-diario, non più la forma cronologica di elencazione, ma una forma topologica, un luogo che non è un luogo.

Il linguaggio che impiega Minore, a ben guardare, è un linguaggio rifritto, di seconda cottura. Tutta la poesia di oggi è di seconda cottura, ripassata in padella. Così come anche la pittura: i vari strati di pittura, gli strati di colore sovrapposti intendo sui quali il pittore stende la pittura, ehm, definitiva. Volevo dire: ultima, giacché di definitivo nell’arte di oggi non è rimasto un bel niente. La poesia di Renato Minore mi dà la sensazione di una scrittura un po’ improvvisata, come se fosse una scrittura ancora da ultimare. Ma è che non è più possibile pensare di scrivere una scrittura definitiva e definita, oggi non è più pensabile pensare di licenziare una scrittura poetica ultimata. Oggi è forse possibile soltanto una scrittura che porti con sé un quantum di improvvisazione, di oscillazione… Che poi è, mi sembra di capire, quella cosa che sta a cuore alla nuova ontologia estetica. La nuova poesia ha in sé il marchio di fabbrica della propria vulnerabilità e della tendenza alla disparizione oltre che all’ammutinamento. Non saprei come altro dire quello che volevo dire…

Giorgio Linguaglossa

Concetto presentativo dell’arte di contro al concetto corrente di rappresentazione

Pensare l’essere direttamente, in termini assoluti – al modo di Hegel – è un modo analogo di pensare il nulla. Per il nostro concetto rappresentazionale, l’essere può essere pensato come un termine della differenza ontologica, può essere cioè distinto (unterschieden) e indirettamente identificato, con l’altro termine della stessa distinzione (Unterschiedenheit). Ma questa distinzione, in quanto differenza si manifesta nello scarto discorsivo in cui viene registrata la sua aporeticità. La conclusione di questo pensiero di Heidegger è nell’indicare l’essere come il ‘non’ dell’ente, come il ‘niente’ dell’ente. È questa la ragione che ha spinto  Heidegger, nella conferenza sul Principio d’identità, ad ammettere che il nostro linguaggio non possa  procedere in altro modo che nell’ambito del discorso, distinguendo i diversi snodi della articolazione logica, per infine formulare la tesi aporetica che «molto prima che si pervenga ad un principio (Satz) di identità, parla l’identità stessa».

Un’arte che appartiene tutta intera al pensiero rappresentativo è quella che si è praticata a lungo nel corso del novecento e in questi decenni ultimi. Quello che Marie Laure Colasson dice, che la nuova poesia è attenta ad un concetto di presentazione piuttosto che a quello tradizionale di rappresentazione, lo trovo altamente proficuo di sviluppi.

Leggiamo una poesia di Paul Muldoon

(premio Pulitzer nordirlandese) pubblicata da “tuttolibri” de “La Stampa” del 22 giugno 2019:

Rovescio

Tamburellare di pioggia
sul tettuccio della mia auto
come acquasanta
sul coperchio di una bara,
acquasanta e fango
che s’abbatte come un tonfo
benché mentre ne ascoltavo
il frastuono
quello s’affievolì nel silenzio
più spietato… L’ammucchiarono
per tutto il giorno
fin quando non m’abbandonai
a una contentezza
non avvertita da anni,
non da quell’inverno
in cui avevo indossato il mondo
sulla pelle nuda,
indossato la pelliccia verso l’interno

(trad di Luca Guerneri)

È ovvio che qui siamo davanti ad un tipo di poesia generata dal pensiero rappresentativo, si vuole rappresentare uno stato d’animo che scaturisce dalla esperienza della pioggia che cade «sul tettuccio della mia auto».
La seconda parte della composizione descrive la «contentezza» dell’io derivante da quella esperienza.

Si tratta di un modo di fare poesia che la nuova ontologia estetica ha abbandonato. Noi partiamo da un concetto presentativo della esperienza, e non più rappresentazionale. La presentazione degli eventi avviene sempre in modo diretto, non in modo indiretto come accade in questo tipo di poesia secondo cui la pioggia è importante per le ripercussioni psicologiche (la «contentezza») che può avere sull’io. La poesia che adotta il concetto presentativo dell’esperienza intende l’esperienza di un evento del mondo non solo per l’importanza che può avere sull’io ma perché l’evento è importante in sé e per sé, non soltanto per i riflessi psicologici che può avere su un «io» posizionato nel mondo che viene a coincidere con l’io dell’autore.

La NOE si limita a prendere atto che certi eventi (ad esempio, la pioggia) accadono e che sono importanti non perché suscitano la «contentezza» di un «io» (che è un modo riduttivo di fare esperienza degli eventi), ma perché sono importanti anche per tutti gli altri «io» che ci sono intorno, e sono importanti in sé e per sé, perché un evento è un evento per tutti. Ne deriva che la sintassi del modo presentazionale degli eventi muta di colpo, totalmente, muta la sintassi, che non sarà più narrazionale ma presentazionale.
Penso sia chiaro ai lettori che un tale approccio alla «narrazione» di un evento sia diametralmente lontano da quello rappresentativo vigente nella ontologia estetica del novecento che pensa l’arte in un modo che si limita a ripercorrere l’impiego delle categorie estetiche della tradizione senza innovarla, e senza neanche pensare di volerla innovare.
Per usare una formula di Giorgio Agamben che la impiega riguardo alla fotografia, penso che sia possibile utilizzarla anche per quanto riguarda la poesia della nuova ontologia estetica, la quale vuole «Dentrificare il Fuori» e, al contempo, direi: Fuorificare il Dentro. Continua a leggere

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Paradigma dello Specchio – Quattordici Poesie per quattordici poeti sul tema dello specchio, a cura di Gino Rago – Poesie di Ezra Pound, Sylvia Plath,  Wislawa Szymborska, Francesca Dono, Kikuo Takano, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia Leone, Lidia Popa, Edith Dzieduszycka, Ewa Lipska, Alejandra Alfaro Alfieri, Gino Rago, Annalisa Comes, Giorgio Linguaglossa,

Foto Lo specchio

La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica»

Quattordici  poeti si confrontano con il Paradigma dello Specchio. La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica».  La parola «specchio» deriva da «speculum», ed ha la stessa radice di «speculazione», cioè pensare qualcosa in rapporto ad un’altra. Lo «specchio» ci mette dinanzi agli occhi una immagine nella quale spesso non ci riconosciamo, e ci invita a pensare noi stessi in rapporto a ciò che vediamo riflesso nello specchio. È dal non-riconoscimento che ha inizio la speculazione intorno a ciò che noi siamo e ciò che non siamo; è attraverso l’immagine esterna a noi che possiamo speculare intorno a ciò che siamo o non siamo, perché ciò che noi vediamo di noi è sempre altro da ciò che noi credevamo di sapere…

«Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il Vuoto stesso […]».

 (Roland Barthes)

l’immagine allo specchio ci rivela il nostro sembiante come un «gioco» di significanti e di significati, di codici e di geroglifici inscritti tra le pieghe del nostro volto […]

Un  contesto di «gioco» nel quale la Parola, nel suo significato, rischia di farsi ambigua.  Da questa ambiguità trae l’origine il  «lutto» e da questo l’ impedimento al pieno dispiegarsi dell’adempimento nel tempo della «Storia».

La storia individuale è quindi una ripetizione del «gioco luttuoso» del Trauerspiel, ripetizione infinita della rottura, dell’incongiungibilità di suono e significato, della dif-ferenza tra significante e significato, del permanente rischio di parlare tramite la ciarla.

Autotrasparenza e autoriflessività sono due momenti dello «specchio» intorno ai quali ruota la rappresentazione nel Moderno. La rappresentazione si fa rappresentazione di se stessa, si duplica, si mostra nella trasparenza e nel riflesso allo specchio, mostra la propria struttura riflessiva e, nello stesso tempo, mette in atto un rapporto con il soggetto della rappresentazione di cui smarrisce la genesi; il soggetto si mostra «barrato» nella elisione direbbe Lacan* indicando in tal modo la lacuna intorno a cui si costituisce la rappresentazione, lacuna che colpisce, a ritroso, il soggetto, elidendolo. Così, il linguaggio tende al metalinguaggio e l’io tende al meta-io.

L’atteggiamento giubilatorio del bambino davanti allo specchio è, per Lacan,  la seduzione dello specchio, la fascinazione in cui si produce quello sdoppiamento nel soggetto per cui l’immagine riflessa diventa l’emblema nel quale il soggetto si riconosce e si identifica. Si è colti in imago prima ancora come persona, si è catturati dall’immagine statuaria che si produce sulla superficie dello specchio. Il corpo è la sede dell’ingovernabilità,  in balia dell’altro e della propria inibizione motoria. Il corps morcelé è l’espressione che Lacan utilizza per descrivere questo stato. Il «corpo-in-frammenti», è l’altro polo di questo processo che detta le regole, da un lato, allo disgregazione del soggetto tra la sua immagine unitaria, ortopedica, come dice Lacan, in cui il soggetto si aliena, e la frammentazione che rivela al soggetto il soggetto.

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria e in cui accade qualcosa che appare nel registro della finzione: la formazione di sé nell’immagine.

* M. Foucault, Les Mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad.it. Panaitescu E., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967 .

(Giorgio Linguaglossa)

Gif gemelli

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria

Niente è più astratto e sfuggente della nostra identità e nello stesso tempo niente è più esposto al giudizio altrui, è più concreto e visibile. A cominciare dal volto, la prima immagine di noi stessi. Da quasi due secoli la fotografia è legata alla nostra stessa idea di identità. Tutti portiamo con noi un documento con il nostro volto e abbiamo fotografie delle persone che più amiamo. Il rapporto emozionale che stringiamo con queste immagini è talmente complesso da farci rifiutare, qualche volta, i nostri stessi ritratti. Non ci riconosciamo, anche se bastano pochi anni per trovare sorprendentemente migliorate fotografie che prima detestavamo. Perché la fotografia è come la memoria: cambia. Non resta immobile, ma si trasforma sulla base della storia di ciascuno e dell’idea che si ha di se stessi.

(Ferdinando Scianna, Lo specchio vuoto, Laterza, 2015)

La creazione sarebbe secondo Jakob Böhme (1575-1624) una sorta di gigantesco specchio, cioè un enorme occhio che è in grado di guardare se stesso.

Un gruppo di cosmologi guidato da Julian Barbour, dell’Università di Oxford, ha ipotizzato che all’origine della freccia del tempo non ci sia l’entropia, ma la gravitazione.

Il loro modello cosmologico prevede, infatti, l’esistenza di due universi specchio, che evolvono simmetricamente – creando strutture complesse e ordinate, come le galassie, per esempio – a partire da uno stesso stato iniziale caotico, di dimensioni minime e densità massima.

Uno dei due universi va quindi in avanti nel tempo, l’altro indietro. Naturalmente non potremo mai incontrare gli ipotetici abitanti dell’universo specchio, perché ognuno percepirà di muoversi verso il futuro, allontanandosi da quello stato caotico primordiale.

Le particelle virtuali spesso appaiono in coppie che si annichilano a vicenda quasi istantaneamente. Tuttavia, prima di svanire possono avere un’influenza reale sull’ambiente circostante. Per esempio, i fotoni – i quanti di luce – possono saltare dentro e fuori un vuoto. Quando due specchi sono posti l’uno di fronte all’altro in un vuoto, all’esterno degli specchi possono esistere più fotoni virtuali di quanti ce ne sono nello spazio che li separa, generando una forza apparentemente misteriosa che tende ad avvicinare gli specchi.

Questo fenomeno, previsto nel 1948 dal fisico olandese Hendrik Casimir e da allora chiamato con il suo nome, fu osservato per la prima volta con specchi mantenuti in uno stato di quiete. I ricercatori però hanno previsto anche un effetto Casimir dinamico, che si osserva quando gli specchi sono in moto o quando gli oggetti subiscono qualche tipo di cambiamento. Ora il fisico Pasi Lähteenmäki dell’Università di Aalto,  in Finlandia, e colleghi, hanno dimostrato che variando la velocità con cui viaggia la luce è possibile farla apparire dal nulla.*

* notizie tratte da  http://www.lescienze.it/news/2013/02/16/news/luce_vuoto_quantistico_particelle_virtuali_fotoni_effetto_casimir_dinamico-1511221/

foto Ombra sulle scale

Quello che vedo lo ingoio all’istante

1 Ezra Pound

Sul suo viso allo Specchio
“O strano viso nello specchio!
O compagnia ribalda, ospite
sacro, o folle
sconvolto dal dolore, che risposta?
O voi moltitudini che lottate,
giocate e svanite,
scherzate, sfidate, mentite!
Io? Io? Io?
E voi?” Continua a leggere

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Gli oggetti, le cose, le parole – La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità. Dialogo tra Steven Grieco Rathgeb, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Raymond Queneau – Una poesia di Tomas Tranströmer, Anna Achmatova, Katarina Frostenson, Lucio Mayoor Tosi tradotta da Adeodato Piazza Nicolai

 

Foto segretaria

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità

Lucio Mayoor Tosi

Poesia che fai scrivere poesia

In quest’angolo d’America
regno delle tabaccherie – che Dio le strafulmini –
fai che questa stanza sia come quella di Hemingway;
quando la sera musicale
rallenta
le parole arrivano già scritte. Nella notte
tutte quelle lanterne accese. Prendimi
per mano, andiamo
in cucina. A nuoto
nell’aria gelida
di febbraio.
Il racconto di Coniglio.

Febbraio 2018, Candia Lomellina (PV)
La realtà è indescrivibile.

***

Poetry You Cause the Writing of Poetry

In this corner of America
kingdom of tobacco shops – May God strike them down –
make this room like that of Hemingway;
when evening music

slows down

the words come already written. In the night
all those lanterns lit up. Take me
by hand, let’s go in the kitchen. Swimming
in the freezing air
of February.

The tale of Rabbit.
February 208, Candia Lomellina (PV)
Reality cannot be described.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem Poesia che fai scrivere poesia.
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb

2 dicembre 2017

«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.

È da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.

In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.

L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.»

  Giorgio Linguaglossa

l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio.

  Raymond Queneau

 I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini.

 onto Chiara

Catapano Chiara   

2 dicembre 2017 alle 12:51 

“diversamente da questo, dobbiamo riflettere se i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore.”

Parto da qui. Negli ultimi mesi ho avuto modo di discutere a lungo con Steven Grieco-Rathgeb sulla virtualità della scrittura, della lingua che da suono si fa segno e poi di nuovo suono, in un travaso continuo, una ripetizione che internamente ha un profondo effetto rinnovatore: le lingue sono un tessuto vivo, che evolvono, muoiono in una forma per rinascere in un’altra. Ma il mistero del travaso (phōnē-morphé-phōnē, φωνή-μορφή-φωνή), conserva in sé il suo segreto.

Va sottolineato che le parole greche φωνή (voce) e φαίνω (mostrare) condividono la stessa radice. La voce si fa segno, lo racconta l’etimologia stessa di quelle parole che noi poeti adoperiamo come materia prima.

Mi ha detto, in una recente conversazione, come secondo lui la società tecnologica suo malgrado allontana dallo studio della lingua, della letteratura. Gli risposi che nella nostra società, stanca e in declino, pare di assistere ad un fenomeno che un tempo era diacronico, ed ora (in convergenza temporale) è divenuto sincronico: ovvero la lingua parlata e scritta è (per dirla con un ossimoro) “vissuta come morta”. Intendo dire che un tempo le lingue morte erano quelle classiche, antiche – quante volte mi hanno rivolto questa domanda, quand’ero al liceo: “Perché studi le lingue morte? A cosa “ti serve”?); oggi la stessa domanda mi viene rivolta da studenti che vengono da me per ripetere e studiare l’italiano: “Perché devo studiare la grammatica? Non mi servirà mai a niente”.

Dall’altra parte, una giovane insegnante di discipline plastiche, a scuola di mio figlio, racconta delle sue esperienze estive in Messico, dove ogni anno trascorre il periodo di pausa da scuola: lì insegna a leggere e scrivere a giovani e giovanissimi. E lei vuole portare ai nostri ragazzi, qui, la testimonianza di quello stupore che invade le fronti (diventano chiare, aperte quelle fronti!), quegli occhi, quando finalmente imparano a rendere simbolo il suono della loro voce, le parole pronunciate dal padre e dalla madre, e poi persino i loro pensieri, prima ancora che si trasformino in suono. Dicono di ciò che fanno, che stanno compiendo una magia.

Tornare alla virtualità della scrittura, riappropriarci dello stupore. Ripartire, come analfabeti, a leggere da capo il mondo.

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

Dipinto di Kuzma Petrov Vodkin, A. Achmatova

Una poesia di Anna Achmatova
(versione di Paolo Statuti) Continua a leggere

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Kikuo Takano (1927-2006) POESIE da Il senso del cielo (Passigli, 2017) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore,  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il Giappone degenerato in “piccola America”, con una intervista di Renato Minore a Kikuo Takano, traduzione di Yasuko Matsumoto

 

Gif Incrocio colored

Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.

Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

Foto femme vivant

Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».

Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.

La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.

Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:

Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.

Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.

La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.

Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?

Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore

  Takano, nella sua poesia ri­suona quella schiettezza luci­da e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo mae­stro?

«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ul­timi mi hanno dato una profon­da emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplo­rare/ e alla fine dell’intera esplo­razione/ arriveremo dove sia­mo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».

 Quanto ha influito la tradizio­ne Zen nel suo lavoro?

«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stes­si. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sem­pre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».

 E le letture di Heidegger e Montale?

 «Per quanto riguarda Heideg­ger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Cri­salide. Il poe­ta parla del tempo doloro­so della crisa­lide avvizzi­ta. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in que­sti versi come un’eco: conti­nuiamo a por­ci la doman­da sul nostro “dove anche se ci trovia­mo immersi nel dolore più profondo”».

 La musica è stata una componente im­portante del suo lavoro. Quan­to e in che misura ha influito sulla sua poesia?

«Per Valéry “la poesia dovreb­be aspirare allo stato della musi­ca”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica voca­le e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisi­bili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dol­cezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

Foto femme brillant

Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce

 Lei ha adottato il verso libe­ro, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, anti­tradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale que­sta sua scelta?

«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massi­ma naturalezza a scrivere poe­sie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così doloro­sa da affrontare dopo la secon­da guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantu­mi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poe­sie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furo­no tradotte in Giappone le poe­sie occidentali di ventinove po­eti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia euro­pea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».

 Takano ha lasciato il Giappo­ne di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.

 «La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Ita­lia, venendo in Italia. Sentia­mo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Ri­nascimento e continuano a far­lo vivere tuttora magnifica­mente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vatti­mo, il teorico del pensiero debo­le. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli consi­dera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa di­nanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppa­re il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».

 Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familia­re una realtà così lontana e così diversa dalla nostra co­me quella giapponese. Ma è davvero così distante?

«Quando il mio traduttore Pao­lo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nel­la superficialità. La bomba ato­mica non ha distrutto solo Hi­roshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappo­ne. Qui l’uomo comincia a di­struggere se stesso, addirittura rischia di sparire».

 Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vo­stro mondo nei confronti del­lo strapotere americano. Co­me considera questa tenden­za?

«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa po­tenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera cau­sa di rappacificazione. Per sve­gliare la nostra coesistenza vor­rei che questo secolo fosse chia­mato “il nuovo secolo rinasci­mentale”.»

 C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?

«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dob­biamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scri­vo poesia?”.

 E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comu­nicazione di massa?

«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la conse­gna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire co­scienzioso, dei mezzi di comu­nicazione di massa, quando però questi superano la barrie­ra dell’affarismo e dell’opportu­nismo».

Gif la Ruota della giostra

Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola

Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)

Girandola

Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo vertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?

 

Soliloquio

«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!

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Mario Gabriele, Poesie scelte da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017), con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Foto 4 femme

Ci sono state calunnie su Donovan,/ ma il vento ha pulito le piazze

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Gaetano Salveti, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Francesco D’Episcopo, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it

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la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Astorialità per eccesso di storia definirei questo ultimo lavoro di Mario Gabriele, al quale corrisponde un pluritematismo e un pluristilismo, in linea con i fondamenti della «nuova ontologia estetica». Ma la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo, e parole monouso gettate nella discarica abusiva dell’epitelio semantico dove questa poesia soggiorna gratis con tanto di permesso di soggiorno e di tramonto.

Dire che nella poesia di Mario Gabriele c’è solo metalinguaggio equivale a dire che tutto è metalinguaggio, il nostro ordo idearum è fondato sul metalinguaggio, che lo stesso ordine significante è un metalinguaggio in azione, che non c’è una significazione «ultima» del linguaggio e non c’è mai stata neanche una significazione «prima», che non v’è parola né ultima né prima, la parola, e quella poetica in particolare, semmai si pone come «mancante», come non-presente. Così, genialmente, la poesia di Gabriele mostra come tutta la tradizione poetica è finita nel buco dell’ozono della propria disparizione. Al posto della parola che cercavamo troviamo altre parole, quelle usa e getta, e così via, l’una tira l’altra in un saliscendi senza fine, come al luna park. Non c’è alcun linguaggio perché tutto l’armamentario linguistico della poesia moderna è diventato metalinguaggio, cartapesta linguistica e iconica.

È il linguaggio in quanto metalinguaggio che apre nell’esistenza il vuoto entro cui la parola si dà come rifrazione di presenza-assenza, specchio duale che autoriflette il «vuoto» di cui essa è presenza. La poesia di Mario Gabriele può essere intesa alla stregua di una immensa e variegata superficie specchiante che riflette altri specchi, che vive in un gioco di rifrazioni e di rimandi semantici ed iconici. Ma si tratta di rimandi svuotati di qualsiasi simbolismo, sono specchi vuoti che riflettono il vuoto, come in una famosa poesia di Kikuo Takano. Il «viaggio», che l’autore richiama finanche nel titolo, nel nostro mondo telematico e globale è ormai diventato un viaggio turistico con tanto di accessori e di monitor, non è più possibile alcuna autenticità se non nel similoro e nel kitsch. Le poesie di oggidì che trattano con seriosità il tema del viaggio, fanno sorridere per la loro bontà perché periclitano agevolmente nel kitsch e nel piacevole, si adattano al piacevole e all’intrattenimento, sono un diversivo al gioco della canasta e della macumba.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaMario Gabriele  intende il «viaggio», appunto, «con Godot», con questo misterioso ospite che è la nostra Ombra, il nostro irraggiungibile sosia. Siamo noi stessi Godot, per questo non potremo mai raggiungere la nostra interiorità perché essa è stata ampiamente colonizzata dall’Altro dell’Altro, non c’è più nemmeno un angolino, un ricettacolo di autenticità nel mondo disilluso e amministrato da un ordo rerum onnivoro e globale.

Non v’è più alcuna economia monetaria della dicibilità perché tutto è diventato dicibile, tutto è scambiabile in base al valore di scambio, e la parola non fa eccezione, anch’essa è finita nell’imbuto del valore di scambio, perché non può esservi una esteriorità che non sia inclusa anche nel linguaggio, ed il linguaggio è il luogo per eccellenza dell’ambiguità e del gioco semantico della significazione, di ciò che non rientra nel linguaggio: quel misterioso «di-fuori» che si chiama «mondo». È per questo che la nuova poesia di Mario Gabriele, così sofisticata da apparire ingenuamente fuori-moda, si presenta come un manufatto ultroneo, ammicca ossessivamente a questo nuovo ordine post-simbolico fitto di simulacri nel quale oggi siamo tutti immersi, dove non c’è dialogo che possa durare qualche minuto, «Il Dialogo fu di breve durata» scrive ironicamente Gabriele in una poesia della raccolta, perché non c’è più nulla di cui dialogare, le cose si capiscono benissimo nell’ambito di un’altra economia monetaria, quella dei titoli di borsa e del mondo ridotto a intrattenimento futile, un ottimo fertilizzante per le menti decorticate della società mediatica.

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione. Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens, il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso.

In In viaggio con Godot, è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio», in una traslocazione locomozione senza tregua… è il linguaggio che si sottrae a se stesso… il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere un rinvio continuo… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vede nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si serializza in una molteplicità di sintagmi.

Nel volgere di pochi anni si è avverata la previsione di Marcuse: «è probabile che il secondo periodo di barbarie seguirà  ad un lungo periodo di civiltà». Il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza sen­za precedenti è la più imparziale delle accuse contro lo stesso processo della civilizzazione capitalistica, l’arte e la cultura sono state ammorbidite e derubricate a sottoprodotto del prodotto, della merce. L’ideologia dello sviluppo è profondamente irrazionale, non c’è più nulla da sviluppare se non la nostra barbarie ininterrotta. In un mondo in cui dieci famiglie detengono la ricchezza di circa quattro miliardi di persone, non è più possibile fare poesia, almeno la poesia che abbiamo conosciuto. E Mario Gabriele si è regolato di conseguenza. Per questo la sua poesia spinge oggettivamente verso il «nuovo». Pur all’interno di un mare di ciarpame e di belletristica mediatica essa diventa, oggettivamente, «irriconoscibile», in quanto non-merce che assume l’apparenza di merce che Gabriele derubrica a sub-merce.

Mario Gabriele è un poeta troppo dotato per non aver tirato le conseguenze in sede estetica di questa situazione macro storica, la sua è una poesia che assume la presunta «ricchezza» delle merci e delle citazioni della cultura mondiale come specchi per le allodole, è una poesia che si assume l’onere di essere il garante e il guardasigilli della non-verità del mondo amministrato.

Strilli Gabriele2

Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.
(Th.W. Adorno)

[…]
«già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione- e la società borghese non glielo perdonerà mai del tutto – e allora deve rendersi utile mediante una specie di valore d’uso, modellato sul piacere dei sensi. Così si falsifica, allo stesso modo di come si falsifica l’arte (…) il piacere sensoriale conserva qualcosa di infantile quando si presenta nell’arte in maniera letterale, intatta. Solo nel ricordo e nella nostalgia, non come copiato e come effetto immediato, esso viene assorbito dall’arte (…)»
[…]
«All’ontologia della falsa coscienza appartengono anche quegli aspetti nei quali la borghesia, che tanto liberò lo spirito quanto lo prese alla cavezza, accetta e gode, dello spirito, proprio ciò in cui non riesce completamente a credere – maligna anche contro se stessa. Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con la sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta».

«L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata»1].

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».2]

1] T.W. Adorno Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, trad. it di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, 1975 pp. 21 e segg.

28

La sera ci sorprese
facendo del giorno un rapido declino.
Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue
della signora Polonskij.
Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:
rondine di altri cieli e di altri nidi!
-Qui dura ancora il turnover.
Vado all’estero, mi rifaccio una vita,
troverò un lavoro,
avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.
Una stagione infausta si ferma
stretta dalle corde dell’autunno.
Nei vecchi bungalow si contano le ore.
La casa lungo il fiume
non ci appartiene più,
è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.
Max sta finendo Psicostasia politica.
Ti rivedo nel Bacio di Klimt.
Non c’é tavolozza senza il nero.
Quando Marisa tornerà da Dortmund
sarà come un lampo a ciel sereno,
chiederà le catenine di Istanbul,
prima di dire:-oh mamma, mamma,
perché sei rimasta così sola nel silenzio?

Strilli Gabriele

33

Da quale rovo sei venuta?
La stagione porta trappole.
Temi le Centurie, i mesi bisestili.
Un testamento è nel Caveau.
Aspettami quando il leone e l’agnello
si saranno fermati all’ombra delle oasi.
Noè ha attaversato il Topanga Canyon.
Il frutto dell’albero è maturo.
E’ diventata cieca la tua memoria.
Una tettoia d’anni è finita sul selciato.
L’anfora è rotta, Ubaldo!
L’anfora più bella è rotta.
Sono venuti giù acqua e neve.
A tratti si è fermato l’anticiclone.
Il vecchio Osborne non se ne è accorto.
Sta a guardare il sole che nasce e muore.
Preghiamo per i nostri gelsomini.
Il Signore solleva dalla polvere il misero,
innalza il povero dalle immondizie.
Scendiamo in una valle silente
nel giorno di tristezza di Makeda.
Il gran sacerdote,
lasciò messaggi nelle crepe del Muro,
senza piccioni viaggiatori
e pagaie, azzurro-mare.
Il pony express aspetta.Tace.
Augura: Feliz Navidad.
Il cammino si accorcia,
senza il miracolo da ponente.
A Daisy non diremo nulla
che possa scuotere i rami del suo bosco,
nulla di come è fatto il lazzaretto.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli Gabriele Ci sono anni che sembrano boschi

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Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica – Jacques Lacan, Giorgio Linguaglossa, Vincenzo Vitiello, Pier Aldo Rovatti, Steven Grieco-Rathgeb, Kikuo Takano, Jacques Derrida, Donatella Costantina Giancaspero, Anna Ventura

Gif tumblr_1Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

  1. (J. Lacan – seminario XI)

Giorgio Linguaglossa

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda

*

Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono  silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».

La verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».

Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».

Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza. L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna VenturaMario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.

I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».

Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza.

(Giorgio Linguaglossa)

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Citazioni

Non l’atto è prima della potenza, non l’essere è prima del possibile,
ma questo – il possibile, il possibile non la potenza –
è prima del mondo, della vita, dell’essere.
“La possibilità più in alto della realtà” mette in giuoco tutto…

Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero.
L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

(Vincenzo Vitiello)

L’evento è prima dell’essere, è più antico e originario dell’essere.
E questo dipende da quello come la possibilità
viene prima dell’evento e lo fonda.

(Giorgio Linguaglossa)

L’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale
ma può solo essere percorso.

(Pier Aldo Rovatti)

Pier Aldo Rovatti

 «L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? […] È ipotizzabile una logica del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero “forte” è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, dalla possibilità del perdersi: l’uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo possibile? […] In Umano, troppo umano leggiamo di un “impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose”. Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di “leggerezza” e di “libertà”: l’abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa.

In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un’immagine dell’ “oltreuomo” e si chiede: “Quali uomini si riveleranno allora i più forti?” E risponde: “I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli […].

L’uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo “spaziare” (o lo “starsene fuori”) non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all’acquisizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il “portar pesi” si trasforma in un “esser potenti”. […] Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall’abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l’uomo avvicina a sé. […] L’immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d’appoggio. […] Come può una simile precarietà essere la massima forza?

Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie “vere” della filosofia, il fine ultimo, l’unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l’eterno ritorno se non una “diversa” necessità? […] Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all’interno, allora il nulla che siamo non è poi così terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l’affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso.

Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione».

(Pier Aldo Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, contenuto ne Il pensiero debole; a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 29-51.)

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Jacques Derrida

Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto.

Steven Grieco Rathgeb

Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…

*
Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. […]

*
Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
(Steven Grieco-Rathgeb)

*
Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Kikuo Takano

Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette

Baratro

Quando ti ho abbracciato
la prima volta
non mi ero ancora chiesto
il senso di quell’abbraccio.

Quando ti ho abbracciato
una seconda volta
era come stringere un baratro.

e perché mai mi capita, non solo
con te, che ogni cosa che abbraccio
una seconda volta
si trasforma nel mio baratro?

Inevitabile

Inevitabile
come il peso attratto
dal centro della terra.

Inevitabile
non posso che precipitare dal cielo
che pure tanto ho desiderato.

Onto Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Donatella Costantina Giancaspero

Molti fatti nuovi

Molti fatti nuovi sono accaduti. Dopo.
I fili non hanno più retto.
Le parole sul bordo di una trama fittizia.

Dietro le quinte, chi sapeva il ritmo di una finestra
– come apre e chiude all’inganno del suono –
ha scritto la sua ultima misura.

Molti fenomeni si sono invertiti, sul calendario: la primavera.
Ad esempio, cedendo le ore a una stagione contraria;
ostinata in un grigio ritornello.

*

È presto. Poco prima dell’alba.
A quali inconsueti cammini si affida il risveglio
e gli interrogativi, replicati dallo specchio
– ora il tempo scredita il cielo. Brusco ricusa la luce –
A quali percorsi incita il treno prescelto – oppure toccato in sorte…

Un ordine stacca il convoglio. Brevemente
accelerando, scorre nei vetri.
Allo sguardo retrogrado.
Rettilineo incontro al giorno.
Fino al mare.

Molte strade si animano da qui.
Ristanno un po’, davanti a chi chiede la direzione
qual è.
Prendono tempo: ascoltano il passo.
Il cuore come pulsa.

Onto Ventura

Anna Ventura, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Anna Ventura

Utopia

Utopia è il luogo
in cui vorremmo essere nati,
ma siamo nati altrove.
Utopia è il luogo
in cui avremmo voluto crescere,
e scoprire il mondo,
ma siamo vissuti altrove,
e il mondo ci si è rivelato da solo,
spietato e inevitabile,
pericoloso.
Utopia è il luogo in cui, forse,
non ci sarà nemmeno concesso di morire:
perché anche questo sarebbe un privilegio.
Lungo il percorso
tanto ci siamo compromessi,
con la durezza del mondo reale,
da perdere le ali necessarie
a volare tanto in alto.
Ma abbiamo imparato a camminare.

Arbiter

L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.

Hic et nunc

Qui dove si stringe l’interno,
dove il raggio di ponente
riscalda il cuore
e gli oggetti scombinati e vecchi
tranquilli convivono,
qui dove la lampada conserva
la pulce nera
della mosca estiva, le piastrelle non brillano,
la polvere pacifica
sta sulle cose,
qui c’è la pace dell’inutile,
il tempo immobile
del dolce far niente,
lo sguardo osserva
dietro le garze rosse e bianche,
altre case, altri comignoli e tetti,
balconi, finestre, ballatoi,
dove la vita dei semplici
scorre
senza chiedersi come
e perché,e fino a quando,
e con quale fine o mistero.
No, non ha questa presunzione
la vita dei miei dirimpettai;
perciò qui sto bene anch’io,
come loro,
nel grande fiume delle cose
che non aspettano niente.

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Poesie di Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Kikuo Takano, Boris Pasternak, Samuel Beckett – Tre traduzioni di una poesia di Samuel Beckett – What is the word (Qual è la parola) di Beckett –  La petizione panlinguistica delle poetiche del secondo Novecento – Nuova ontologia estetica, Dialoghi e Appunti: Salvatore Martino, Paolo Statuti, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa 

Steven Grieco Rathgeb

 POESIE DEL MONSONE

 Per Chunni Kaul

1
Si dice che il poeta abbia un suo paesaggio

                                 “spoglio”

bianco-nero nella penombra
nel sogno variopinto del mondo

ecco il poeta

                                            apre le porte    apre le porte

2
Leggevo Seferis nel tempo delle piogge
a lungo dialogando
con la casa buia a mezzogiorno

Nella stanza accanto, una pittrice silenziosa.
Persone assenti gremivano l’aria.

Fuori, verde tuonante:
brezza che non soffia muove qualche foglia del banano.
Un cielo grave sulle strade ferme in ogni direzione.

Verde tuonante sulla vetrata, il grande geco.

Verde tuonante, ora pioggia sul tetto,
nella stanza di là, fra i mobili,
la mano di lei traccia colori nell’aria scura.

Dalla porta socchiusa le foglie del banano.
Dalla porta entravano strisciando i lunghi vermi del monsone.

Di esotico non esiste niente.

(da Supersimmetria, Jaipur, luglio 1996)

DALLA COLLINA DI BELLENDA

In effetti, non sappiamo più
se questo è scrivere o non scrivere.

Oltre un punto indefinito spariscono
anche le cose di cui scriviamo,
rimane solo la traccia del loro migrare:
e noi che ancora scendiamo sugli scogli
per studiare il mare, ad esempio,
lo spumeggiare che è già noi.

Perché le parole hanno un bell’inseguirsi
laddove il senso se ne libera: oltre
il punto di significazione
che non fornisce più certezze.

Solo dopo l’inspirazione sapremo meglio:
in questo tornare espirando
verso il suo silenzio.

(Ventimiglia, 2011)

Gino Rago
(Dal postmoderno decadentistico al postmoderno forte):

Il Vuoto non è il Nulla
Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
Non come vada il cielo”.
(…)
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio…Il vero poeta lo sa.
E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
(…)
In principio. Nei primissimi istanti… E’ solo il Vuoto.
Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. E’ un Vuoto zeppo di cose.
E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
(…)
E’ stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.

Helle Busacca e Pasolini nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

Caro Gino Rago,

questa tua poesia è una delle punte più alte della «nuova ontologia estetica». Hai abbandonato alle ortiche la vecchia e antiquata concezione delle parole che parlano dell’«io» e del «tu», la tua poesia ricomincia daccapo, alla maniera di Lucrezio, dal De rerum natura. Riprendi a tessere il filo del discorso poetico dall’origine, dal nulla e dal tutto.

L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità, che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce.

L’io, per quanto manifesto, reperisce altrove il suo statuto ontologico,
nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce come impalcatura del soggetto.

l’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.

L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio,
il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio,
il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose,
che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso,
che dialoga con se stesso…

Il mondo dell’innominabile, delle petizioni cieche in quanto prive di parole che stanno nell’inconscio, una volta raggiunto il Realitätprinzip, e cioè la dimensione propriamente linguistica, ecco che indossa l’abito di parole. Ma non sono quelle le parole che la petizione chiedeva, sono altre che la petizione non aveva previsto, né avrebbe mai potuto immaginare.

La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivolava invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale, in quanto diventata ipoteca panlinguistica. […]
Il linguaggio poetico, in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso
per via della stessa logica differenziale che vedeva nel gioco dei rinvii
la sua sola consistenza, si autonomizzava, si chiudeva su se stesso
e diventava linguaggio che si ciba di linguaggio. Una dimensione auto fagocitatoria.

Nella dimensione auto fagocitatoria scivola inevitabilmente ogni petizione panlinguistica.

Che lo si voglia o no, la poesia del post-Novecento, così come è stato per la poesia del Novecento, è stata colpita a morte dal virus del panlogismo, sconosciuto ad altre epoche e alla poesia di altre civiltà.
Nulla è più disdicevole dell’atteggiamento panlogistico proprio delle poetiche sperimentali e post-sperimentali che pretendono di commutare una ipoteca linguistica in petizione di poetica, in intermezzo ludico facoltativo.

C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile,
che resiste testardamente alla irreggimentazione nel discorso poetico.
Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale.

L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”».
Il problema della “Cosa” è che di essa non sappiamo nulla, ma almeno adesso sappiamo che c’è, e con essa c’è anche il “Vuoto” che incombe sulla “Cosa” risucchiandola nel non essere dell’essere.
È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici, perché adesso sappiamo che c’è la “Cosa”, e con essa c’è il “Vuoto” che incombe minaccioso e tutto inghiotte.

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica. Continua a leggere

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Alfredo de Palchi LA QUESTIONE DELL’AUTENTICITÀ. 16 brani da Estetica dell’equilibrioGenesi della mia morte (inediti) – Il Soggetto, la Cosa e la Rimozione a cura di Giorgio Linguaglossa – Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare

Giorgio Linguaglossa

LA QUESTIONE DELL’«AUTENTICITÀ» nella poesia di Alfredo de Palchi: Estetica dell’equilibrio (Inedito)

 Mi è stato chiesto da più parti che cosa intenda per «poesie sull’autenticità». Posta l’«autenticità», l’«inautentico» non è la negazione della «autenticità» ma entra in essa come sua determinazione indefettibile. Ne deriva che «autentico» e «inautentico» non sono l’uno la negazione dell’altro ma costituiscono il loro complemento perfetto. Penso che della «autenticità» non si possa dare una definizione, è un concetto che sfugge da tutte le parti, il meno rischiarato dal pensiero filosofico. Cionondimeno, il problema dell’autenticità esiste, è concreto, tangibile, lo avvertiamo in ogni momento della nostra giornata, esso esiste ed insiste, anche e soprattutto nella nostra vita quotidiana, e la poesia non può sottrarsi a questo confronto, ne va della sua essenza, della sua credibilità. Si può fare poesia sull’autenticità anche parlando di uno sgabello rotto o di un orologio fermo o delle proprie mani o del saluto di bambini in un furgone in corsa come ha fatto Kikuo Takano. Anzi, forse, è il solo modo per affrontare questo terribile argomento: parlare d’altro, prenderlo alla larga, girargli intorno. Oppure, come ha fatto Alfredo de Palchi, scrivere sulla fine del mondo, come in questo poemetto di cui presentiamo la sezione «Genesi della mia morte».

Alfredo de Palchi è nato a Verona nel lontano 1926 e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italoamericano, a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il poeta più  asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua grande solitudine stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento. Il suo primo libro Sessioni con l’analista esce in Italia nel 1967 con Mondadori grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni, poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è un destino tutto singolare ma non difficile da decifrare e comprendere. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio La buia danza di scorpione (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri della cella durante la detenzione politica del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica dalla poesia italiana del suo tempo; estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica; negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza italiana, per di più de Palchi era visto con estremo sospetto per via della sua scelta politica in favore del regime fascista.

La poesia di de Palchi era chiaramente delineata fin dall’inizio: una individualità esasperata, un tragitto destinale che diventa tragitto della parola poetica. Il maledettismo di de Palchi non era nulla di letterario, non era costruito sui libri ma era stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento per la sua opera. Da una parte dunque la poesia depalchiana era colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non era comprensibile in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini politici e di schieramento politico. Con l’avvento del neorealismo officinesco e della coeva neoavanguardia la poesia di de Palchi venne messa in sordina come minore e “laterale” e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della sua poesia era stato già deciso e segnato. Finito in fuorigioco, chiuso dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravviverà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava (e risulta) incomprensibile alle istituzioni poetiche nazionali, era una poesia sostanzialmente troppo dissimile da quella letterariamente edulcorata e spregiudicata della Tradizione tardo novecentesca, innanzitutto quella particolare «identità», quella convergenza parallela tra vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di apparentamento della sua poesia con la poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie europee che la rendevano “oggettivamente” indigesta e illeggibile da parte del gusto medio corrente della civiltà letteraria nazionale. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia migliore di quella del Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci, o delle filastrocche di Paolo Volponi che allora andavano di moda, voglio dire che la sua poesia era sostanzialmente estranea e refrattaria anche al decorativo gusto manieristico degli epigoni di Sandro Penna e dei neomanieristi orfici. Il risultato fu una oggettiva e naturale “chiusura” del gusto corrente alla poesia depalchiana.

Oggi i tempi sono maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo» (per citare una dizione di Brodskij), da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Settanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano ma, per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” di Pasolini perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo sperimentale. Questo almeno nelle intenzioni di Pasolini. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile», e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo, con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dagli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione estetica e storica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Secondo Adorno «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1 Il «frammento» e la «traccia», abitano di preferenza la paratassi, essi regnano sovrani nella poesia Alfredo de Palchi. I frammenti aforistici di questi inediti di Estetica dell’equilibrio indicano che si è [un tempo] verificato un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce, in questi graffi, in queste frecce. Il linguaggio è ridotto a lacerti pseudo aforistici, a strappi, a frammenti conflittuali che non chiedono alcuna pacificazione ma semmai di essere trasferiti sulla pagina così come affiorano alla coscienza del poeta. Al fondo del principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è quest’ultima opera inedita di de Palchi, possiamo intravvedere, tramite una lente psicanalitica come una lente di ingrandimento, una sorta di traduzione da un testo originario [la Cosa] che è stato rimosso, da una «Cosa» che è scomparsa.

La scrittura poetica di de Palchi ha questa caratteristica, di voler tentare a tutti i costi di impossessarsi dalla Cosa, entrarci dentro, fare i conti con la Cosa che giace al fondo oscuro del linguaggio dell’inconscio, di fare una poesia «fuori dal significato» e «fuori dal significante». E noi ci chiediamo: Das Ding (la Cosa). Che cos’è la «Cosa»?

Per Lacan la «Cosa» non è «qualcosa»,2 una cosa in sé ineffabile o un noumeno, ma è un risultato dell’azione del linguaggio sul reale. Il linguaggio, agendo sul reale, lo traduce, lo negativizza, ma così facendo produce per differenza anche un «resto» della propria azione: la «Cosa», resto reale che non si lascia più assorbire nel significante.

Tra il linguaggio e la «Cosa» si dà dunque quel legame strutturale di implicazione reciproca che Lacan indica nell’altra proposizione fondamentale: «c’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nella realtà di un’apertura beante, di un buco»,3 perché sono le due facce di un medesimo evento, che accadono insieme l’una per differenza dall’altra. È anche in rapporto al linguaggio che si può parlare di un’estimità della «Cosa»: la «Cosa» è un’esteriorità radicale al linguaggio perché come tale è indicibile e irrapresentabile, è «fuori significato», ma insieme è intima al linguaggio perché è un risultato del linguaggio e, una volta accaduto, il vuoto della «Cosa» si installa nella catena significante impedendone la totalizzazione.

Per Lacan la «Cosa» è radicalmente «fuori significato» e quindi fondamentalmente «velata», estranea e irriducibile a ogni significato con cui possiamo tentare di esprimerla; l’installarsi di questo piano al di là del significato intacca il soggetto stesso nella sua esperienza; la «Cosa» è «già per sempre perduta»: una volta entrati nel linguaggio, l’oggetto del primo mitico godimento è «già sempre perduto»; l’esperienza inizia con la perdita e la cancellazione dell’origine e, se l’oggetto del godimento è per sua natura un oggetto ritrovato, «che sia stato perduto è la conseguenza – ma a posteriori – esso viene ritrovato, senza che vi sia per noi altro modo di sapere che è stato perduto se non attraverso questi ritrovamenti».4

In quanto fuori significato e già sempre perduta, la «Cosa» non è mai rappresentata in se stessa ma sempre in modo sostitutivo da «Altra cosa»6: proprio per questo essa «sarà sempre rappresentata da un vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualcos’altro – o, più esattamente, per il fatto di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro».5

Come abbiamo visto, la «Cosa» nella poesia di de Palchi è la traccia del negativo, la traccia di un «vuoto», di una zona oscura di tutto ciò che è stato fissato libidicamente  ed emotivamente nel periodo della carcerazione preventiva sofferta, è una costellazione di significanti che sfuggono a qualsiasi tentativo di metterli in ordine logico-causale, a qualsiasi razionalizzazione o ricostruzione secondaria degli eventi. In una certa misura, la teorizzazione di Lacan ci può aiutare a capire l’origine della scrittura depalchiana e la sua peculiarissima caratterizzazione espressiva, la sua instabilità semantica e la sua rigidità iconologica.

Come sappiamo, Heidegger viene utilizzato da Lacan in una direzione profondamente diversa. In Heidegger questa analisi si inserisce nel quadro di una descrizione fenomenologico-ontologica che cerca di pensare l’accadere del mondo nel rapporto con la singola cosa e nell’incrocio tra mortali e divini, terra e cielo, quindi pur sempre nel quadro di un pensiero che cerca il senso dell’abitare «poetico» dell’uomo nel mondo come una certa costellazione di significati. Lacan utilizza invece il tema del vuoto per installare nel cuore dell’esperienza un rapporto irriducibile alla pulsione e al godimento, una relazione con qualcosa che è radicalmente «fuori significato» e, potremmo dire, «fuori significante».

Questo «vuoto» della «Cosa», già nel Seminario VII e poi in seguito con l’elaborazione del concetto di «oggetto a», diventa un vuoto causativo del desiderio: che la «Cosa» sia «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung».6 Significa che essa non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto causa del desiderio, il vuoto che alle spalle del soggetto ne causa il desiderio mettendolo in movimento. L’esperienza del soggetto gravita attorno a questo vuoto inafferrabile che lo muove. Tra il soggetto e il godimento della «Cosa» si installa «il cerchio incantato».7 del linguaggio: la tensione verso il godimento assumerà così la forma della trasgressione di una barriera e quello del Seminario VII, come osserva Miller, è il paradigma del godimento impossibile.9 Il vuoto mette in movimento il desiderio del soggetto verso la «Cosa» come oggetto del godimento pieno e assoluto, il cui raggiungimento tuttavia comporterebbe la distruzione dell’esperienza del soggetto, perché questa si sostiene precisamente sulla distanza tra i due poli: «la distanza tra il soggetto e das Ding […] è appunto la condizione della parola»10.

È la concezione stessa del soggetto che si modifica significativamente rispetto alla tradizione psicoanalitica e all’esserci heideggeriano: l’accadere di questo «fuori significato» che è la «Cosa» intacca il soggetto e si incide nella sua carne, perché condiziona tutta la sua esperienza. Il soggetto paga il proprio ingresso nell’ordine simbolico con la perdita del godimento pieno e con la propria istituzione come soggetto radicalmente eccentrico in quanto desiderante. L’«al di là del significato» agisce dunque nell’istituirsi del soggetto come tale. Il soggetto si istituisce scindendosi tra l’ambito significante-linguistico e quel resto «fuori significato» che è la «Cosa» e tutta la sua esperienza consiste nell’oscillazione di questo rapporto, che è quel che ne scandisce il ritmo e ne scrive il dramma. In un certo senso, il soggetto stesso è la «Cosa», non è più il Ci dell’essere, ma ex-iste la «Cosa» e il suo «vuoto».

Questo legame costitutivo tra «soggetto» e «Cosa» porta con sé anche l’importanza dei temi del «supplemento» e del «resto» per ripensare lo statuto del soggetto. Se il soggetto accade in quel movimento differenziale tra linguaggio e reale, se la «Cosa» è già sempre perduta e rappresentata da altra cosa, l’esperienza si istituisce a partire dalla cancellazione dell’origine e consiste nella serie dei ritrovamenti di oggetti sostitutivi che suppliscono a un’origine che non ha mai avuto luogo come tale. L’esperienza del soggetto si svolge dunque in quella che Derrida descrive come «la strana struttura del supplemento: una possibilità produce a ritardo ciò cui è detta aggiungersi» 11.

C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.

La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. . . come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»

de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi.

1 T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, p. 514
2 Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan Nóema, 4-1 (2013)
  1. 140.
    3 Ivi, p. 144.
    4 Ivi, p. 141. Cfr. anche pp. 67-68.
    5 Ivi, p. 141.
    6 Ivi, p. 154.
    7 Ivi, p. 67.
    8 Ivi, p. 160.
    9 Cfr. J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento, in Id., I paradigmi del godimento,
10 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 81.
11 Id., La direzione della cura, cit., p. 625. Lacan richiama la «libbra di carne» anche al termine de Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 373.
 

Alfredo de Palchi                

da ESTETICA DELL’EQUILIBRIO

Genesi della mia morte

1-16 novembre 2015

1

È animale quantitativo autoqualitativo autorevole prepotente razzista astuto violento e da unico vile appartenente alla fauna spadroneggia su ogni specie. . . nell‘antico Latium l’antropoide legionario conquista e costruisce civiltà a ovest sud est nord. . .

pregiudizialmente assume che tu, fine di tutto, sia femmina perenne temibile di nome Mors Moarte Mort Muerte Morte. . .

2

antropoide nemico dell’antropoide determino che sei il prototipo della femmina sensitiva e intuitiva più del figuro maschile Tod a nord. . . massiccio barbaro più temibile di te femmina alle centurie di Germanicus. . . la danza del Tod risplende massiccia nelle vampe che leccano via ingiustizia e ceneri dai forni. . . di tutti incolpevole arrivi all’istante deleterio dentro cui a ciascuna esistenza abbassi le palpebre. . .

3

il due novembre giorno delle ombre in piedi accanto al loro tumulo ostili al Giardino dell’Eden che hanno distrutto lasciando il mito senza ricordo. . . giorno che si tramuta in stranezza irreale quando moltitudini di defunti viventi spasseggiano vivaci nel cimitero. . . leggono lapidi d’ignoti e depositano crisantemi alla lapide d’un familiare. . . un precario sussurrare ssssss invade le tombe. . . da farabutto ogni scomparso diventa probo ma farabutto rimane per l’antropoide vivente che non smette di essere farabutto e assassino di animali docili del mitologico Giardino dell’Eden. . . il giorno dei fiori marciti non inganna il tuo giungere alla equa falcidia. . .

4

alla mia concezione concepisco la tua presenza e in quell’istante di turpiloquio genitoriale un’intesa superna inizia tra noi. . . per mesi in delirio da un male che mi infesta nelle giovani braccia della madre che non mi può allattare. . . a tre anni mi riporti alla vita sul triciclo in fondo alla scala dove mi spinge l’infantile invidia del compagno di giochi. . . mi riporti alla vita una seconda volta quando lo stesso piccolo antropoide mi spinge a stringere nella mano un filo elettrico. . . il corpo scuote fino all’arrivo del nonno che mi sente urlare. . . sei la protettrice e salvatrice dalla mia incoscienza alla coscienza. . . l’aspro tuo sentore d’incenso mi sottrae dagli odori dei defunti vivi che ti odiano senza capire quello che io capisco di te con riconoscenza. . . defunti vivi e perenni ti odiano perché mi felicito della tua beneficenza. . .

5

cosciente mi avvicino mentalmente a te Signora dell’altrove e ti fai riconoscere a soffi d’aria che mi rasentano delicatamente in segno di protezione. . . mi proteggi dalla SS nazista a Peschiera  in novembre 1943 quando misura la mia testa di sedicenne divertito senza sospettare un significato culturalmente criminale . . . la differenza di un millimetro può farmi distinguere ebreo. . . ebreo dalla sedicente scienza del frenologo austriaco Franz Joseph Gall.

6

autunno 1944 a Villabartolomea soldati tedeschi e brigatisti neri ritornano dal rastrellamento di sbandati nel fondo delle valli basso Veronese. . . la mia bionda compagna Ginetta mi avverte di non andare al traghetto sull’Adige. . . tramite la compagna tu mi fai evitare una raffica di pallottole proveniente dal traghetto e finita a bucare due brigatisti all’attracco. . . alla compagna ventenne mai chiedo di chiarire il mio sospetto. . . ci vogliamo bene e tu che mi proteggi sai se il bene talvolta è più forte del male. . .

7

27 aprile 1945. . . quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti. . . io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti. . . in fretta giungono dei soldati americani che impongono fine alla scena schiaffeggiando i quattro musi infazzolettati di rosso bifolco al collo. . . nelle carceri mandamentali mi schiazzano la schiena a cinghiate di cuoio. . . steso sul pavimento di legno mi scarponano mi bruciano le ascelle con fogli de L’Arena. . . e mi forzano a ingoiare una scodella di acqua sapone e peli di barba. . . tu salvatrice che senti i miei urli di aiuto mi liberi dal loro male uno alla volta entro due mesi. . . chi in motocicletta si schiaccia sotto un camion. . . due che annegano nell’Adige. . . e Nerone Cella nome e cognome      anagrafico condannato per rapina a mano armata e violenza carnale. . . e sei anni più tardi liberi me dal mio autunnale maleficio nella Senna. . .

8

l’antropoide che non intuisce grazia e bellezza della tua carità generosa per tua concessione entra nell’oltre senza o con dolori atroci. . . per mali non generati dalla tua irreale verità che lenisce o fornisce altri mali pure generati dal divino volere che l’antropoide crede impresario del tutto. . . io che intuisco le tue manifestazioni di grazia o punitive seguo scientemente l’interminabile scia di strascinanti nel tempio di sacerdoti che in coro eterno vociano a porta inferi. . . un continuo aspro fumo d’incenso svolazza attorno il catafalco universale sopra cui splende la spietata tua presenza del lutto. . .

9

con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .

10

alla mia indifferenza occorre che ogni male canceroso e virale termini dolorosamente la razza antropoide. . . non basta la guerra si getti le carogne dentro fosse e corroderle con la calcina e nei musei cimiteriali. . . non basta il terrorismo  si

consideri  giustizia o crimine. . . non basta il tuo imparziale giudizio o nuovo evento. . . non basta qualsiasi religione sia cancro incurabile. . . non basta il globo terracque sia stracarico di antropoide massa. . . che la tua equa indifferenza la sforzi all’asfissia. . .

11

Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . .  superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .

12

con totale volere disprezzo l’errore di natura la mia razza brutale inferiore schifosa sudiciume da cui provengo e a cui schianto l’anatema. . . che il torturatore in nome della scienza vivisezioni i propri figli. . . che l’operaio del massacro quotidiano nel mattatoio abbia stessa sorte. . . che il cacciatore cada nella trappola sia colpito dalla freccia e dal proiettile. . . che il cucciolo antropoide cresca odiando il padre che lo istruisce a diventare mostro seviziatore e assassino di animali puri abbia la medesima gioia di urlare in pena. . . che ciascun antropoide sia usato abusato seviziato torturato e sbudellato. . . che la mia infima razza si abolisca dalla grande fauna sul pianeta in caduta libera. . . che l’eliminazione della mia razza sia la realizzazione del mitico Giardino dell’Eden. . .

13

con il loro sudiciume miliardi di futili antropoidi sovrappesano sul pianeta che sbalza nel vuoto infinito. . . società e culture di insaziabili divorano tutto di tutto. . . dalla radice ai vegetali alle granaglie dal verme allo scarafaggio dalla talpa allo scoiattolo dal nido di topo al nido di rondine dall‘animale domestico a quello ormai estinto. . . periodi estremi di carestia segnalano generosità della terra che si alleggerisce della quantità enorme di sterco da degradarsi con la mucillaggine cadaverica. . .

14

non ho un pensiero di te morte. . . sei tu che mi pensi con realistica nostalgia di nutrice in diamanti foschi che mi leggi un breviario lunghissimo di note lessicalmente stonate secondo il solfeggio di ombre e di luci. . . tu mi pensi con amore di madre coraggio per un figlio antico che troppo lentamente cresce tra rigori di vili che insulto perché non restino in pace. . .

15

Madre natura, non è madre, è casualità potente dal microbo alla radice d‘ogno tipo di vegetazione e di animale. . . incluso

l‘animale che presume di essersi dissocato dalla fauna. . . si è autorizzato a ingrandirsi chiamandosi epocalmente una varietà di homo, ipocritizzando la sua vita  microbiologica apice della natura. . . natura è indifferente, micidiale, è di una bellezza inquietante, ed è il male assoluto. . . homo, apice del male, è natura distruttiva e commette pulizie terrestri quante ne combina natura. . . si allegirisce di Homo, diventa morte che non ha immagine. . 

16

periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . .  e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.

 

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Venerdì 13 novembre 2015 alle ore 19.00, presso l’Ambasciata della Repubblica di Serbia in Roma via dei Monti Parioli, 20 Presentazione della Antologia di Duška Vrhovac Quanto non sta nel fiato. Farà gli onori di casa l’ambasciatore S.E. Sig.ra Ana Hrustanovic. Saranno presenti Duška Vrhovac, Ennio Cavalli, Giorgio Linguaglossa, Plinio Perilli, il curatore del volume Ugo Magnanti. Prevista la partecipazione di Dejana Peruničić, addetto culturale dell’Ambasciata INTERVISTA ALLA POETESSA SERBA DUŠKA VRHOVAC “ALLARGANDO I CONFINI LA SOCIETA’ MODERNA RESTRINGE LE PROSPETTIVE” a cura di Giorgio Linguaglossa con alcune Poesie di Duška Vrhovac, Traduzione dal serbo: Cvijeta Jakšić

Venerdì 13 novembre 2015 alle ore 19.00, presso l’Ambasciata della Repubblica di Serbia in Roma via dei Monti Parioli, 20 Presentazione della Antologia di Duška Vrhovac Quanto non sta nel fiato. Farà gli onori di casa l’ambasciatore S.E. Sig.ra Ana Hrustanovic. Saranno presenti Duška Vrhovac, Ennio Cavalli, Giorgio Linguaglossa, Plinio Perilli, il curatore del volume Ugo Magnanti. Prevista la partecipazione di Dejana Peruničić, addetto culturale dell’Ambasciata INTERVISTA ALLA POETESSA SERBA DUŠKA VRHOVAC “ALLARGANDO I CONFINI LA SOCIETA’ MODERNA RESTRINGE LE PROSPETTIVE” a cura di Giorgio Linguaglossa con alcune Poesie di Duška Vrhovac, Traduzione dal serbo: Isabella Meloncelli e Cvijeta Jakšić

Duska Vrhovac Typewriters

Duska Vrhovac Typewriters

Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).

Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.

È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia. Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:

Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia;
Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia;
Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia;
Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986)
S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987)
Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988)
Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990)
I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991)
S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996)
Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996)
Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997)
Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002)
Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006)
Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007)
Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008)
Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009)
Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010)
Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011)
Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013)
Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)

Duska Vrhovac Allen Ginsberg Belgrado

Duska Vrhovac Allen Ginsberg Belgrado

1) Domanda: Cara Duška Vrhovac, riprendiamo il filo del discorso. Ti porrò alcune domande sulla tua poesia e, in generale, sulla poesia che si fa in Europa; credo che per un lettore italiano sia interessante il pensiero di una poetessa serba che ha vissuto a lungo in Italia. Qual è stata, a tuo avviso, l’influenza della rivoluzione mediatica sulla tua poesia? Intendo dire che nell’ultimo decennio del Novecento si è avvertita, almeno qui in Italia, una certa stanchezza di idee e di proposte, la poesia europea sembrerebbe essersi stabilizzata al livello della poesia del privato, del quotidiano, del corpo, della cronaca, della protesta, del ritorno all’elegia, insomma, sulla misura della Crisi della Ragione Poetica. Però, paradossalmente, proprio questa Crisi ha provocato in questi ultimi anni il risveglio della poesia e una nuova fioritura di poesia. In tal senso, sarei propenso ad inquadrare anche la tua Antologia “Quanto non sta nel fiato” edito in Italia da Fusibilialibri nel 2015. Che poi è lo stesso discorso che tu porti avanti con la tua poesia quando scrivi:

Gli esegeti dei movimenti d’arte odierni,
di quelli poetici in particolare,
hanno già detto che la poesia è tutto,
performance, gioco per gioco,
e multimedialità da gradire molto.
La poesia è di per sé già tentativo
che l’uomo, di cui tutto è stato detto,
abbia lui stesso a dire qualcosa,
di sé naturalmente.
Non è forse questo il tempo ideale per la poesia?

Duska Vrhovac Sobe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)

Duska Vrhovac Sobe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)

Risposta: ALLARGANDO I CONFINI LA SOCIETA’ MODERNA RESTRINGE LE PROSPETTIVE

Il mondo è globalizzato ed il diavolo ha già fatto la maggior parte del suo lavoro, questo è sicuro. Ma è anche sicuro che da quando il mondo è mondo il bene sopprime il male e dopo la pioggia comunque viene il sole. Per quanto sembri out, è quello che, malgrado tutti gli evidenti motivi di pessimismo, continua a spronare l’ottimismo insito, benché ce ne siano pochi di motivi. La cosa peggiore sta sicuramente nel fatto che la nostra società moderna purtroppo restringe le prospettive mentre sta allargando i confini. Paradossale, ma è proprio così.

La comunicazione oggi, in qualsiasi settore si svolga, per essere visibile ed efficiente richiede la provocazione. Vuol dire che sono passati i tempi del lento e quieto rialzare della coscienza e che per qualsiasi tipo di successo ci vuole un’azione veloce ed efficace i cui effetti saranno immediati. È però difficilissimo evitarne le conseguenze negative nella cultura, nell’arte, nella letteratura ed in particolare nella poesia, a proposito della quale si parla degli stessi problemi nelle varie parti del mondo. Sta morendo oppure si trova sul punto zero e cerca un nuovo inizio? È sprofondata indecentemente in basso invece di salire sempre più in alto? Come liberare la poesia (da che cosa)?

In sostanza, tutte le risposte si potrebbero ridurre in poche frasi. Come sempre, la poesia anche oggi nasce in date circostanze, nella realtà politica, ideologica, sociale e culturale del proprio tempo ed è soggetta a tutte le sue malattie. Perciò, possiamo dire che la crisi della scrittura non esiste da nessuna parte e che il problema è piuttosto l’iperproduzione e la mancanza di criteri di valore, che già da un bel po’ vengono stabiliti dai più idonei (politicamente) e dai più abili (nel senso del commercio e marketing). Inoltre, la possibilità di pubblicare è molto grande, il che favorisce l’iperproduzione e la selezione negativa, ammesso che una selezione che non sia negativa esista.

Non è neanche vero che oggi la poesia non sia letta, anche se è vero che i libri di poesia si vendono molto meno di quelli di narrativa e degli opuscoli che spiegano come diventare ricco, come essere felice, come scegliere quello/a giusto/a, come curarsi in modo veloce ed economico da malattie incurabili, e così via. Ma anche qui tutto è abbastanza chiaro, una pubblicità imponente ed un buon marketing riescono a vendere un cattivo libro di qualsiasi genere. Perché allora non vendere anche un libro di poesia? Si trascura che, comunque, un testo poetico richiede un maggiore impegno di tutti i partecipanti: scrittori, curatori, editori, marketing e, infine, l’utente. E questi sono i tempi della velocità (fast food, viaggi veloci, relazioni sbrigative, arricchimenti veloci, consumi veloci, e persino veloci arrivi ad un vuoto che poi viene riempito dalle stesse cose che l’hanno causato, dalla “merce” priva di spirito). Allora, come “imporre” la poesia? Unicamente istituendo criteri di valore, facendo una pubblicità buona ed imponente, essendo disponibili e – inevitabilmente – investendo. Il solo problema è che gli investimenti in spiritualità, e la buona poesia è necessariamente spiritualità, oggi più che mai comportano il grande rischio di non vedere mai un ritorno. Ed è un rischio che nessuno più vuole. Arriviamo così alla questione dell’atteggiamento della società e dello stato verso la cultura e verso l’arte in genere, quindi anche verso la poesia, la vera regina di tute le arti, per quanto sembri patetico dirlo. Quale Paese oggi ha una strategia culturale? I Paesi che ci tengono alla cultura ed all’arte tengono conto del futuro culturale della propria nazione, della lingua, della società in genere, hanno una strategia culturale.

Io vengo dallo spazio “buio” dell’Europa dove ad ogni generazione è garantita almeno una guerra ogni 20-40 anni; tutto il resto è incerto. E quindi la cultura è agli estremi margini. Per questa ragione anche il rapporto con la cultura era migliore in quello stato marcio e ormai distrutto, inadeguato e chiamato “comunista”, di quanto non lo sia in questo stato democratico che si sta arrampicando sugli specchi per raggiungere gli standard europei che l’Europa ha già superato, distruggendo se stessa nel senso culturale e culturologico.

Duska Vrhovac Alaetin Tahir, Fazıl Hüsnü Dağlarca Struga, Macedonia 1986

Duska Vrhovac Alaetin Tahir, Fazıl Hüsnü Dağlarca Struga, Macedonia 1986

2) Domanda: Quale è stato, a tuo avviso, il ruolo che il modernismo europeo (da Mandel’stam ed Eliot passando per Auden, Milosz, Rozewicz, Herbert, Vasko Popa, Kikuo Takano fino ai giorni nostri) ha avuto sulla tua poesia?

3) Domanda: Qual è la tua opinione sulle poetiche dello sperimentalismo che dagli anni Sessanta e Settanta ha invaso la poesia europea? Voglio dire: è stata una esperienza utile quella dello sperimentalismo europeo per la tua poesia?

4) Domanda: Piccolo popolo quello serbo, poesia grande?

Duska Vrhovac I Wear My Shadow Inside Me, Forest Books, Londra, 1991.Risposta: POPOLI PICCOLI E POESIA GRANDE

Isidora Sekulić (1877-1958), una delle donne più sagge nella storia della letteratura serba, romanziera, saggista, traduttrice, poliglotta, per educazione professoressa di matematica, scriveva delle sorti dei popoli piccoli e delle lingue piccole. Nel 1932 ha scritto anche quanto segue:

“Nei popoli piccoli, dal regnante al pastore – cantante, su ogni punto trema e si spezza qualcosa che sta tra due equilibri, uno che si perde e l’altro che si viene a creare. Nei piccoli popoli è in atto quello che la storia dell’arte chiama Rinascimento e che invece le scienze naturali chiamano molto meglio: elementi degli eventi. I popoli piccoli, infatti, sono materiale più cosmico che europeo, il quale per volontà divina può entrare in un attimo in nuovi eventi, diventare nuovo mondo; ovviamente, per volontà divina può anche essere sospinto più in profondità tra gli elementi. È un gioco sul filo di lama, è un risplendere e spegnersi in una goccia di rugiada. È la poesia del popolo piccolo, dappertutto e quindi anche nella pittura.” (Isidora Sekulić, Balkan, Plavi jahač, Beograd, 2003).

Forse tutti quelli che in qualsiasi modo si occupano dei Balcani, ed  in particolare quelli che studiano la poesia di questi territori, dovrebbero prima leggere questo saggio di Isidora. Voglio credere che leggerlo faciliterebbe la comprensione di alcune cose e renderebbe possibile cognizioni più profonde. Una di queste cognizioni probabilmente sarebbe che spesso nell’intimo di questi artisti, nel loro carattere, c’è qualcosa che tende al surreale, all’incredibile, nonché qualcosa di profondamente atavistico. Per questo motivo molti di loro credono che niente succeda per caso ma che oltre al visibile ed al comprensibile ci sono sempre significati e sequenze di eventi più profondi. Neanch’io sono un’eccezione. Quindi espongo qui un dato apparentemente poco importante sul mio popolo piccolo (che una volta era più grande ed aveva una cultura maggiore, cosa che oggi si può intuire e provare nella lingua e nella scrittura, più ricchi e più perfetti di quanto non lo sia la nostra odierna cultura). I serbi sono un popolo molto talentuoso. Rispetto al numero degli abitanti hanno dato un gran numero di artisti riconosciuti nel mondo, scrittori, pittori, poeti e scienziati. Uno di questi grandi poeti è Vasko Popa.

Duska Vrhovac, photo by Lisa Bernardini

Duska Vrhovac, photo by Lisa Bernardini

5) Domanda: Oggi tutto è ecologia. Forse anche la poesia dell’Occidente di oggi sembrerebbe rientrare nel concetto di ecologia. Qual è il tuo pensiero?

 Risposta: NON BASTA L’ALIMENTAZIONE SANA PER UNA VITA SANA

Oggi tutto è ecologia. Forse il maggior simbolismo che potrebbe riferirsi alla poesia, sebbene riguardi la sopravvivenza, sta proprio nel tentativo di coltivare alimenti sani sul suolo che ha generato Nikola Tesla, Mihajlo Pupin, il premio Nobel Ivo Andrić e tanti altri personaggi importanti, sul suolo chiamato Europa dell’est oppure Balcani occidentali, su questo suolo permanentemente inquinato da materiali tossici provenienti dalla demolizione di grandi complessi industriali e chimici e l’uso di armi con uranio impoverito durante i bombardamenti della NATO della Jugoslavia nel 1999! E noi coltiviamo questi alimenti sani. E li compriamo. E li vendiamo ai paesi che hanno preso parte ai bombardamenti, perché niente può sostituire la vita. E niente può sostituire la poesia che quindi sopravvive in tutti i tempi e sopravvivrà finché l’uomo possiede i sentimenti, finché non passa in uno stadio successivo che inevitabilmente cambierà tutto. I sentimenti precedono tuttora la ragione. La poesia sopravvivrà anche perché per la vita non è sufficiente la sola alimentazione sana.

Duska Vrhovac Chantal - Duska, ritratto di poetessa, Parigi 84

Duska Vrhovac Chantal – Duska, ritratto di poetessa, Parigi 84

6) Domanda: Un autore modernista di alto livello come Vasko Popa risulta poco tradotto in Italia. Ti chiedo: come mai?

 Risposta: A PROPOSITO DI VASKO POPA Commento di Duška Vrhovac. Traduzione dal serbo: Cvijeta Jakšić

Mentre nella mia vita ero collegata all’Italia da un’amicizia giovanile che mi ha regalato un’altra famiglia incrementando il mio amore per la cultura, l’arte ed il popolo italiano, nella mia casa di Belgrado ci sono due cose che da qualche tempo mi ricordano Roma: il libro delle mie poesie scelte in italiano, Quanto non sta nel fiato e serigrafia ritoccata a mano, del maestro Ezio Farinelli, sulla parete del mio soggiorno. Perché parlo del mio libro? Perché la nascita di quel libro mi ha arrecato molta gioia, ma anche un attimo di disagio. Fu all’Isola dei poeti Tiberina, quando mentre ne tenevo in mano commossa la seconda edizione mostrandola al pubblico, ho saputo che a Vasko Popa, il poeta sul quale avevo scritto la mia tesi agli esami di maturità, uno dei maggiori poeti serbi del Novecento, non è mai stato pubblicato un libro in italiano. Poco dopo ho letto un articolo di  Giorgio Linguaglossa che diceva che avrebbe volentieri visto la poesia di Vasco Popa edita da qualche grande casa editrice italiana. La raccomandazione mi ha fatto sentire riconoscente perché l’unico modo di conoscere un poeta è che sia tradotto e pubblicato, quindi accessibile.

Vasko Popa è senza dubbio un poeta di formato internazionale e la sua opera già durante la sua vita ha superato tutti i confini, geografici, nazionali, generazionali, ideologici e linguistici. Durante la sua vita, nonostante fosse stato pure contestato da alcuni autori, ha ottenuto gloria, riconoscimenti e premi. Il mondo gli ha dato anche di più: il poeta che ha pubblicato 8 collezioni (circa 400 poesie) ed è stato scelto in circa 30 antologie ha visto durante la vita la stampa di 54 libri con il suo nome in giro per il mondo, libri per i quali ha avuto elogi da alcuni dei poeti più riconosciuti, e voluminosi studi sulla sua poesia sono stati pubblicati in Inghilterra, Germania, Francia, gli USA.

È vero che Popa non è completamente sconosciuto al pubblico letterario italiano, anche se la prima presentazione è avvenuta appena 20 anni dopo la sua morte. Il merito della prima presentazione importante della poesia del Popa in Italia va alla rivista „In forma di parole”, che ha pubblicato un’ampia scelta di poesia con traduzione a fronte curata da Lorenzo Casson. La postfazione è firmata da Dan Octavian Cepraga, il quale rileva che si tratta davvero di un poeta di eccezionale rilievo. Una recensione molto ispirata del numero della rivista „In forma di parole” dedicato a Popa, intitolata “Il poeta-mago che cantò la liberazione dei Balcani”, è firmata da Rigoni Mario Andrea nelle pagine culturali del „Corriere della Sera“ (30 luglio 2011, pagina 53).

Credo di dover dire che questo non è sufficiente e che una pubblicazione delle poesie di Popa in italiano sarebbe sicuramente utile e farebbe la gioia del pubblico letterario italiano e degli amatori della buona poesia. Ecco alcuni fatti che lo confermano.

Duska Vrhovac Miami Airport 2008

Duska Vrhovac Miami Airport 2008

Con il suo primo libro di poesie, Kora (La corteccia), un libro caratterizzato da sintassi, contenuto e forma insoliti, Vasko Popa – insieme a Miodrag Pavlović (1928-2014) con il suo libro 87 poesie, ha creato un’importante svolta nella poesia serba dei primi anni cinquanta. Con la sua espressione poetica moderna, liberata da tutti i dogmi dell’epoca, la poesia di Popa rinnovava la freschezza poetica del mondo ed è diventata subito vicina alle generazioni giovani che influenzerà diventando non solo il precursore della poesia serba moderna ma anche il personaggio chiave della poesia contemporanea che ha segnato l’epoca definendo sicuramente le direzioni dell’ulteriore sviluppo della poesia.
L’espressione poetica di Popa è affine all’aforisma, al proverbio, è ellittica e concisa, la lingua è essenziale e lapidaria. Scrive in versi brevi senza rima e punteggiatura, versi molto vicini alla metrica della poesia popolare serba. La caratteristica della poesia di Popa è una “ricchezza linguistica e rigorosità sintattica”. Una relazione particolare, complessa ed essenziale con la tradizione, un patriottismo sano senza cariche ideologiche o nazionalistiche, ma con piena conoscenza della storia e della cultura, con la capacità di dimostrare l’insieme e la particolarità con un dettaglio, dimostrano una sua sublime capacità di tradurre tutte le cose, gli oggetti ed i fenomeni in motivi poetici. I contrasti ed i conflitti universali, tutto l’esistente, si incontrano nel suo campo del non-riposo rendendo la sua poesia filosofica e metafisica. Parco con le parole, Popa spalanca le porte ai pensieri ed ai significati. È un grande poeta anche perché la sua poesia rappresenta un fermo nesso tra le accezioni più larghe della tradizione e del nostro tempo. È un’opera che “per unicità di metodo e significato quasi non trova pari, un’opera che con diversi e singoli progetti, artisticamente realizzati e ritrovati nella realtà poetica … ascende verso significati universali”.

Per Vasko Popa, come ha detto lui stesso in un’intervista, “la Poesia in verità è la personificazione dell’armonia senza la quale in fin dei conti non è possibile vivere… Con la mia poesia desidero esprimere esattamente quello che ho scritto. Se sapessi esprimerlo in altro modo, probabilmente non scriverei…”

In un altro discorso, parlando di tradizione, dice: „Le nostre poesie sulla battaglia del Kosovo ed il nostro mito del Kosovo rappresentano una miniera di diamanti. Senza fine né fondo!… Io ne ho tolto solo alcuni grumi. Varrebbe la pena spendere una vita intera a portare alla luce queste preziosità…“

Quando fu pubblicata nella biblioteca eccezionale Rukom pisano (Scritto a mano – Milan Rakić, Valjevo), la sua collezione di poesie Lontano dentro di noi, scritta a mano da lui stesso, Popa scrisse nell’introduzione: „Le poesie che scrivo creano cerchi, i cerchi creano libri. Per la biblioteca. Scritto a mano dal poeta ho scelto il circolo Daleko u nama (Lontano dentro di noi).

Daleko u nama consiste di trenta poesie, il numero dei giorni di un mese. Il mese si è protratto a otto anni interi dato che le poesie sono state scritte nel periodo 1943-1951. Il ciclo di poesie Lontano dentro di noi è pubblicato nel mio primo libro La corteccia del 1953. Anche queste poesie sono dedicate a Haša…“

Haša era il primo amore di Vasko e la sua moglie fino alla fine. Si sa poco della loro vita privata.

Duska Vrhovac in the beginning is the word

Duska Vrhovac in the beginning is the word

7) Domanda: A tuo avviso, vedi un futuro per la poesia nel mondo che si sta costruendo? Quale è la linea di orientamento e di sviluppo della tua poesia?

Risposta di Duška Vrhovac

 A trovare la mia parola

Tanti poeti hanno già cantato già
come nel granello di sabbia si veda il mondo intero,
sul palmo l’infinito, nell’occhio la volta celeste
e come in un giorno ci può stare l’eternità.

Quanti hanno esaltato l’amore,
maledetto la sofferenza, la tristezza e il dolore,
descritto la morte, inferno, casa felice e paradiso,
invocato l’immortalità dell’opera e del proprio nome.

Tutto detto, visto,
intuito, tutto cantato,
nulla che non sia stato.
Allora io che ci sto a fare qui,
come la prima donna e il primo uomo,
come Dio stesso?

A dire quanto già detto?
A descrivere quanto già descritto?
A trovare la mia parola.

Cercando il titolo

Da giorni le parole mi perseguitano,
grandi, policrome e sonore,
ubique; in ciò che ho desiderato
o che non ho saputo dire,
gradevoli, aggressive,
chiare, sfuggenti,
quelle a tre facce
o del tutto comuni, ingannatrici.
Cerco di inventarmene una nuova,
per forgiarla come filo d’oro,
incandescente, ardente, tagliente, grave,
che da sola penetri memoria e senso.
inseguo e perseguo questa parola
che possa contenere tutto questo libro chiuso,
tutto questo caos e questo grido,
ma dal primo attimo,
dal primo brivido e dal primo
verso, e ancora prima.
Solo una batte in mezzo alla fronte
anzi dentro,
sporge dalle tempie,
vaga attraverso la mia insonnia,
scambia i nomi dei piatti che ordino
e delle strade che percorro,
i nomi degli amici che chiamo,
dei conoscenti che saluto mentre passo,
dei momenti preziosi di cui ho memoria,
impressi bene in mente,
dell’amante che desidero.
Ecco che lei, implacabile e brillante,
prevale su di me; si scrive da sé
e subito si accresce all’infinito,
battente come pioggia torrenziale,
come neve fatale o funerei banchi di nebbia,
fino a inondarmi tutta, a pervadermi e assorbirmi,
questa sola e unica parola, come una bandiera,
come fosse in lei tutto racchiuso: Resistenza.

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac, Steven Grieco e Rita Mellace Roma giugno 2015, Isola Tiberina

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac, Steven Grieco e Rita Mellace Roma giugno 2015, Isola Tiberina

Poeti

I poeti sono una banda
di presuntuosi vagabondi,
interpreti ingannevoli
del quotidiano e dell’eterno
ricercatori vani,
smodati amanti,
cacciatori di parole perdute
inseguitori di strade e mari.

I poeti sono giardinieri superbi
di intricati giardini regali,
precursori di deviazioni stellari,
messaggeri di navi affondate,
violatori di sentieri segreti,
magistrali riparatori
di Carri Grandi e Piccoli,
raccoglitori di polvere astrale.

I poeti sono ladri di visioni,
scopritori di utopie scartate,
ciarlatani di ogni specie,
degustatori di piatti avvelenati,
figli degeneri e di professione seduttori,
cavalieri che volontariamente
alla ghigliottina offrono la loro testa
eseguendo da se stessi la condanna.

I poeti sono custodi incoronati
dell’essenza risposta nella lingua,
amanti dei misteri insolubili
ammaliatori e provocatori,
sono i prediletti degli Dei,
assaggiatori di bevande portentose
e dissipatori vani
delle proprie vite.

I poeti sono gli ultimi germogli
della specie più sottile di esseri cosmici,
coltivatori di fiori bianchi interiori
e falsi creatori di mondi insostenibili.
I poeti sono interpreti dei segni perduti,
portatori di messaggi essenziali
e di avviso che la vita è inesauribile,
e l’universo un progetto mai finito.

I poeti sono lucciole sull’aia del cosmo,
conquistatori della grande fascia
di colori che fa l’arcobaleno
esecutori della musica sacra
da cui è nato l’universo.
I poeti sono invisibili interlocutori
nel silenzio sul senso e sul non senso
di tutto ciò che si vede e non si vede.
I poeti sono i miei soli veri fratelli.

da Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (trad. Isabella Meloncelli Viterbo, FusibiliaLibri, 2014 pp. 126 € 13)

9 commenti

Archiviato in interviste, Poesia serba contemporanea

HAIKU di Luigi Celi CON UNA MISSIVA a Giorgio Linguaglossa: “Osservazioni sull’haiku”, “Sospensione della temporalità”, “La mia scelta iconica della danzatrice”, “Essere contemporanei”, “Sul concetto di ‘impermanenza’”, “Essere contemporanei, scegliere il proprio tempo”

Toshinobu Yamazaki (1866 - 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki (1866 – 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Caro Giorgio,

ho letto, sul tuo blog, interessanti commenti ai miei haiku. Ringrazio tutti, a prescindere. Un grazie particolare a Gino Rago, lo stimo molto anche come poeta!, e  complimenti a chi si ispira ai miei haiku per comporre un suo testo; si fa ermeneutica in tanti modi, anche con le risonanze. Poi ci sono la tue preziose Note. Che dire? La poesia dovrebbe poter esistere per sé, come tu scrivi, non comunicare altro “messaggio” che se stessa, il mezzo nelle società mediatiche diventa il fine, e dovrebbe valere sia che rispetti i canoni sia che li insidi e destabilizzi. Nel caso, è proprio del Satori Zen – come scrive Barthes, l’intento “di prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell’anima” e produrre anche una sorta di “sospensione panica del linguaggio”, quel “bianco che cancella in noi il regno dei Codici”. Se dopo aver studiato l’haiku non ho rispettato del tutto certi criteri tradizionali è perché sono convinto della natura in certo modo eversiva della poesia. Anche se so che chi non può sopportare gli eretici, li manderà al rogo. Zanzotto e Giuliano Manacorda scrivevano, a proposito dell’haiku in occidente, che “bisogna stare in guardia” da ogni “iperortodossia, che potrebbe rischiare i pericoli dell’isterilimento”. Ma quelli erano poeti e critici fatti di una pasta del tutto particolare.

Quello che tu chiami “sospensione della temporalità” nel suo nesso con il Satori (citando Barthes) si verifica nell’ “istante” in cui l’haiku stesso icasticamente si produce quasi a voler fissare il “divenire”; e come se l’haiku dicesse all’ “attimo” – con Goethe – “fermati sei bello!”. Tuttavia la prospettiva di fondo dell’haiku, e dei miei haiku occidentali o orientali che siano (io vorrei proporre di considerare la poesia territorio di dialogo) resta quella del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), della “impermanenza” di tutte le cose, come ci ricorda un’esperta di letterature comparate, Rosalma Salina Borello. La studiosa cita tra l’altro un libro di Carlo Calza “Stile Giappone” (Einaudi Torino 2002) per sostenere una tesi che mi corrisponde. Scrive che è proprio il “femminile” ad attrarre e significare quanto vi sia di “illusorio e lieve e impermanente” nel vivere: “l’iki di cui sarebbe custode e depositaria, al massimo grado, l’oiran, la cortigiana d’alto rango (l’unica figura femminile (…) cui fosse consentito possedere caratteri di visibilità e un qualche margine di ben contenuta e ritualizzata autonomia)”.

giapponese 5La mia scelta iconica della danzatrice, può essere compresa meglio se collocata al posto dell’oiran: ne vuol essere il corrispettivo moderno occidentale. Solo in questo senso accetto che ci possa essere una qualche nascosta valenza simbolica nei miei haiku, ma l’haiku rimane ancorato alla semplicità realistica dell’esperienza. A questo proposito vorrei usare una citazione del prof. Emerico Giachery tratta da una sua preziosa disamina del canto V dell’Inferno, in cui discute della speranza di un critico di poter leggere Dante, “senza commenti, solo ascoltando l’ebbrezza del suo linguaggio, il suono delle sue rime…”. Giachery dopo avere obiettato che non è detto “che quella sognata freschezza e immediatezza debba rimanere guastata senza rimedio dal lavoro paziente e fedele di filologi e interpreti…”, fa una concessione a quella che rimane un’ingenua aspirazione; “Dovrebbe poter accadere ciò di cui parla un aforisma taoista. Prima che cominci il cammino del Tao, i monti sono  monti, i fiumi sono fiumi; durante il cammino tutto appare problematico, e i monti non sembrano più monti né i fiumi sembrano fiumi. Ma alla fine, raggiunta la meta, ecco che i monti diventano ancora monti, i fiumi ancora più fiumi”.

Ho composto i miei haiku di getto durante uno spettacolo all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, spettacolo di danza e poesia o di haiku tradotti in danza e posizioni mimiche; spettacolo poi replicato nello spazio gestito da me e da Giulia Perroni, nell’Ass. culturale Aleph in Trastevere il 04-03-2011, sotto la regia di Sandra Fuciarelli e per iniziativa e su testi letti e tradotti da Yasuko Matsumoto. Questa mia scelta di mettere al centro dei miei haiku le danzatrici ebbe in apparenza un’origine occasionale, ma fu come se una forza inconscia mi guidasse. Nel suo possibile accostamento a un femminile che emerge sulla scena e fissa la propria visibilità in movimenti, forme e posizioni di bellezza, la ballerina, in armonia con la Natura, nella sua valenza epifanica, fa della scena un campo non solo di rappresentazione ma di vita. Direi pure che la fascinazione del bello, nelle sue implicazioni anche erotiche, nel turbamento che si collega al sesso e alla vita, fa tuttuno con l’arte, la musica, la poesia; questa esperienza ha forse qualcosa a che fare anche con il Tantra. Non intendo approfondire. Non tocca all’autore farlo. Su questo punto non dirò più nulla. L’irrompere del corpo femminile con i suoi umori, la morbidezza flessuosa e omnipervasiva del suo proporsi e imporsi fa dell’occhio che guarda e della mano che traduce in parole e in versi un evento (Erlebnis). Voglio evitare che questo mio intervento possa essere equivocato come interpretazione dell’haiku. L’haiku non vuole essere interpretato ma colto nella sua immediatezza sensibile. Fare entrare con l’effrazione l’interpretazione (il senso) – scriveva Lacan – non può che sciuparlo.

giapponese 2Tuttavia dirò che lo stesso concetto di “impermanenza”, con cui si misura la luce oscura, mi si perdoni l’ossimoro, dell’haiku, ha subito nella storia, nell’etica e nel gusto delle radicali modificazioni: si è andati infatti dal significare “l’impermanenza buddhista di derivazione induista a ciò che l’impermanenza diviene in una dimensione più laica, alta o degradata… Penso a come poi lo intese Asai Ryöi, nei suoi “Racconti del mondo fluttuante (Ukiyo monogatari) del 1661: ‘Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua, questo io chiamo ukiyo’.

L’illuminante testo, che ho appena citato si trova in Se una notte una farfalla sogna di essere Zhuang-zi (nota 111, di p. 91) di Rosalma Salina Borello; esso è tratto e collegato al libro di Gian Carlo Calza citato, dove si precisa che anche la società nipponica ha modificato, direi in senso laico, il concetto di “impermanenza”, quando si andava elaborando l’estetica dell’ukiyo: “Era in questa società che si riflettevano i nuovi gusti e comportamenti e le nuove aspirazioni sviluppati intorno ai teatri del kabuki e alle città senza notte dove le grandi cortigiane creavano nuovi gesti e comportamenti… Dove le case di piacere si trasformavano in veri e propri salotti, in cui, oltre ai grandi mercanti, si incontravano attori, letterati, artisti, editori, ma anche aristocratici in incognito”. Secondo Salina Borello la cultura occidentale contemporanea non può non sentirsi attratta da quest’immagine del mondo fluttuante, proprio per l’ideologia del postmoderno come “apologia della deriva, sulla scorta dell’esaltato dérèglement delle avanguardie storiche, ma anche, non dimentichiamolo, dell’immaginario metamorfico della grande stagione barocca europea”. Seppure è così, l’haiku storicamente e filosoficamente è connotato da antinomie; esso continua a nascondere complesse valenze etico-religiose, naturalistiche, esistenziali, filosofiche.

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

La penetrazione del buddhismo e del taoismo aveva già determinato un mutamento di gusto, una evoluzione del pensiero e delle modalità espressive in arte, in poesia (…in Giappone, perlomeno a partire dal XII – XIII secolo). Quando poi l’haiku nasce, nel XVII sec., dal tanka, con la sottrazione di due versi, si formò la sua struttura di due quinari e un settenario, l’hokku, chiamato haikai o haiku. Questa struttura poetica divenne per così dire a se stante. Rese l’haiku poeticamente dignitoso Jinshiro Munefusa Matsuo, detto Bashō. Siamo nel 1600. Dopo di lui, un secolo dopo, tra i grandi, abbiamo Buson Josa e nel XIX secolo Issa Kobayashi, autore di ventimila haiku. La modernizzazione e l’occidentalizzazione – caro Giorgio – non la fa Luigi Celi, ha inizio con Shiki Masaoka (1867-1902) e Takahama Kyoshi della Scuola Hotoghisu’; costoro subiscono l’influsso del realismo occidentale. Hekigodo diede vita al ‘nuovo haiku’, egli non rispetterà le diciassette sillabe entrate nel canone, né il kigo. L’eretico per eccellenza fu Seisensui, mentre Shuoshi sempre su influsso occidentale liricizza l’haiku. Le scuole di haiku pullulano in Giappone e in Occidente, se ne potrebbero nominare a centinaia. Volendoci richiamare alla tradizione, nell’haiku dei grandi c’è un intrinseco richiamo al modo di vivere e di percepire l’impermanenza e il koan zen. Chi vuole approfondire questi temi può procurarsi il mio recente saggio (mi scuso se mi autopromuovo) di più di settanta pagine in Fior di Loto, sulla poetica di Kikuo Takano; testo sul rapporto musica-poesia, oltre che tra poesia e filosofia (di cui mi occupo). Fior di Loto è opera di Sergio Allegrini, Yasuko Matsumoto e del sottoscritto, per l’Istituto bibliografico italiano di musicologia (Ibimus) – Roma 2014 – saggio per il quale sono invitato a maggio in Giappone. Volendo solo accennare ai rapporti tra l’haiku e il koan, dirò che il poeta cerca di vuotarsi dell’io, come il meditante zen. Dunque coesistono due anime nel Waka, nella poesia nipponica, una ascetica – se è vero che il grande Bashō , per l’haiku, ha fatto una scelta di vita monastica, e l’altra che in qualche modo si riconnette alle sue origini più laiche: così era nei poeti di corte e nella poesia canonizzata per editti imperiali.

Essere contemporanei, scegliere il proprio tempo, riconoscere il luogo esteriore/interiore del proprio operare in un mare di configurazioni e metamorfismi stilistici, concettuali, emotivi, anche nella contraddizione, è sapersi al proprio posto, per quanto nani sulle spalle dei giganti. Dichiarare che i propri haiku sono “occidentali” è una necessità di campo, un atto di verità. Se si volesse continuare a parlare dei massimi sistemi non sarebbero da trascurare le questioni linguistiche, che non affronto in questa sede. Dico solo che senza una consapevolezza della lingua e del come i giapponesi disponevano le loro poesie non si va da nessuna parte. Per altro non basta lo studio dei sincronismi, delle strutture formali, non basta contare le sillabe, occorre indagare la diacronia di ogni struttura. Senso/non-senso dei processi linguistici…, sapere perché si opera anche la deformazione, si produca il degrado della lingua. Se poi senso e non-senso sono uniti, come in un ossimoro, questa è un’altra questione. Senso e non senso, come essere, nulla e divenire, finiscono con il coinnestarsi in un amalgama di mistero. Il silenzio contemplativo della natura, l’osservazione senza giudizio si trasferiscono in poesia, si fanno poesia perché lo sono già in natura (quanta poesia nella natura nipponica!).

Bairei Kouno (1844 - 1895)

Bairei Kouno (1844 – 1895)

L’asimmetria tra le parti dell’haiku, l’antinomia tra i due ku, che non si sopporta in un haiku scritto in occidente, nasconde l’antinomia di fondo di ogni esistenza, fino all’esperienza vuota del nulla, alla sua epifania priva di rivelazione. Ciò è certo qualcosa di più che una questione metrica. Siamo nel cuore dell’haiku, della sua possibile assimilazione al koan zen, esperienza di vita meditante. Rimasticare senza possibile via d’uscita un motto, un enigma, un problema posto dal maestro al discepolo, posto e riproposto senza che – scrive R. Barthes – ci sia possibile soluzione… Stiamo sostenendo l’esistenza di una linea di nascosta confluenza tra la consapevolezza meditante zen (zazen), il riposo meditante (Samadhi) e l’icasticità dell’haiku, che concentra in un attimo, in lampi d’immagini, in pochi versi, caratteri inconciliati della realtà, fino a mostrare la prossimità al nulla, al vuoto.

Il problema dell’esistenza, della verità e del senso, per noi occidentali, segue altri percorsi.

La via del Tao non è propriamente la nostra via. Ecco perché si possono scrivere degli haiku occidentali; haiku tali che non possono mai essere totalmente haiku. Ma forse nessun haiku è stato mai veramente perfetto, come nessuna poesia è la Poesia tout court. L’haiku – più di altri generi – nasce come dal “Divenire” eracliteo, o dalla impermanenza, come meglio si dice. “Noi esistiamo grazie all’Assenza”, scriveva Takano. L’haiku fa del Nulla e di ogni kenotico sottrarsi lo sfondo del suo misterioso riproporsi nel tempo.

Un’ultima cosa: i punti di contatto tra occidente e oriente sono molteplici. È auspicabile ricercarli. Può la poesia farsi voce di dialogo e di ciò che la cultura e la filosofia contemporanee, dominate dalla tecnica, dal mercato soprattutto finanziario e dalla mercificazione post-umana sono incapaci perfino di nominare in modo convincente e dignitoso? Il problema che pongo non è solo di linguaggio. Il linguaggio è la “casa dell’essere” o del nulla? Come viene concepito il nulla in Oriente, nella filosofia cinese e nipponica? Come è stato concepito ed è concepito in Occidente? Tutto ciò ha molto a che fare con l’haiku, con la poesia, con la filosofia. Noi, gli haiku – se li apprezziamo – li vogliamo gustare però nella loro offerta di realtà, sperando che qualcuno non cerchi di sostituire questo piccolo dono con la testa dell’autore su un piatto d’argento, convinto dalle sue stesse Salomè danzanti. È il rischio che corro presentando le mie oiran in versi, forse troppo sensuali e apparentemente dissacranti. Tuttavia mi domando, ora un po’ stranito, come si possa sostenere che nei miei haiku non ci sia pensiero e sfondo filosofico, quello (e leggo con ancora maggiore sorpresa) da cui l’haiku dovrebbe essere generato? Vorrei pure rassicurare chi si pone il problema di sapere di quanto debba abbassarsi per rassomigliarmi. Mi auguro che nessuno scriva come me, sarei felice che ognuno ritrovasse la propria cifra linguistica, per essere poeta senza dovere abbassare gli altri per esistere.

Ti lascio con questo motto, che mi invento per te e per gli affettuosi amici del tuo blog: – La poesia sia la tua, la nostra Arianna, in questo labirinto; dopo Babele ci sia una Pentecoste! –

(Luigi Celi)

Japanese Priest

Japanese Priest

Luigi Celi
In anfore cave

la spina punge
soltanto il corpo vivo
non disperare
*
uccello morto
volato sulla stella
canta il passato
*
magnolia bianca
l’occhio che la contempla
diventa fiore
*
è noche oscura
pregando nel profondo
la luce affiora
*
è notte scura
la rosa nel giardino
la rende chiara
*
prugna vermiglia
la colgo coi miei occhi
senza sfiorarla
*
ho spalle d’alba
rivolte contro il buio
d’ogni passato
*
Morfeo ha il filo
spalanca labirinti
al mio sognare
*
anfore cave
liquide le parole
canto disperse
*
barca stagliata
sul ciglio d’orizzonte
ferma anche il sole
*
tra i ciclamini
profumano danzando
fanciulle in fiore
*
danzano lievi
nell’aria ricamando
fili di luce
*
più sensuale
la danza nella notte
l’occhio s’accende
*
varcano in danze
i margini più cupi
non è più notte
*
d’edera tirso
vessillo di baccanti
e rosso vino
*
se disamata
divora la sua carne
una baccante
*
è di mirtillo
il nido della sera
sanguina il cuore
*
occhi e lapilli
l’anima è nel vulcano
lava ribolle
*
l’occhio interiore
sanato nella pace
vola più in alto
*
le ballerine
annodano le chiome
foglie nel vento
*
non c’è pienezza
se il tempo non rivela
il suo mistero
*
cade dall’alto
la mela newtoniana
non sa il motivo
*
ha la bellezza
un’anima nascosta
seppure esposta
*
amo del miele
il dolce che rivela
lavoro d’api
*
piccole cose
e grandi risonanze
contrasti e segni
*
danza una bimba
al canto della pioggia
là nell’aiola
*
svuota l’inferno
d’un bimbo il puro pianto
il suo dolore
*
i raggi d’oro
nel grembo degli ulivi
orme del sole
*
sul lago verde
non canta certo il cigno
la quiete canta
*
un re impazzito
ci veste e poi ci sveste
funesto il tempo
*
malanni e cure
innalzano sul corpo
duplice scanno
*
l’ultima storia
un po’ come la prima
Genesi eterna
*

l'opera migliore allievo Kiitsu Suzuki (1796-1858)

l’opera del migliore allievo Kiitsu Suzuki (1796-1858)

corpo d’infante
crescendo nutre il segno
di verde gemma
*
mente sapiente
ama le cose belle
ma sa temerle
*
un giglio puro
t’abbaglia il suo candore
pure di notte
*
è l’informale
il segno d’un passaggio
crepuscolare
*
incubi e sogni
liquidi persistenti
e fluttuanti
*
vecchio gabbiano
franato di celeste
dentro il suo volo
*
piange un bambino
e questo rende chiaro
il suo destino
*
pure nell’alba
lo sguardo si prepara
alla sua sera
*
non c’è mattino
che non nasconda in seno
altro destino
*
segno il dormire
anticipa la sorte
d’ogni mortale
*
si ferma il tempo
se di silenzio nutro
la mia preghiera
*
lume di luna
straluna nella sera
apre la notte
*
un doppio sguardo
radica la visione
nell’occhio interno
*
tra siepi e rovi
brillano tra le spine
succose more
*
fermate il tempo
nel carcere del tempo
senso è non senso
*
cruna di fede
s’oscura la mia stella
estasi cruda
*
Dio del mio niente
non cerco fondamento
d’ogni mio abisso
*
occhi e farfalle
in libertà d’azzurro
ridono d’ali
*
danzano lievi
intorno a un punto fisso
è perno un mimo
*
uomo e caprone
il satiro danzante
salta leggiadro
*
satiro il mimo
si veste sulla scena
del vello d’oro
*
germina il mimo
pluralità di senso
in un sol gesto
*
sul volto il mimo
ha maschera che parla
senza parlare
*
un mimo ombroso
disteso sotto un pino
sogna la luce
*
angelo il mimo
di marmo il suo mantello
di carne il cuore
*
danzano tutte
piantato il mimo è fermo
petroso il gesto
*
le danzatrici
le gambe sollevate
a volo d’ali
*
un capro il mimo
distrugge le viole
crudo in amore
*
satiro il mimo
le corna in controvento
uomo e caprone
*
un mimo orrendo
coperto dal suo manto
titilla un seno
*
bevendo vino
danzano tre baccanti
nude tra i veli
*
olio d’amore
scivola giù dal seno
nel grembo d’oro
*
non dirmi nulla
dei mandorli fioriti
se inverno è sempre
*
più vero il sogno
se in sonno si connette
alla sua fonte
*
lo scarabeo
pure d’estate è nero
anche di giorno
*
le foglie morte
autunno insanguinato
da mane a sera
*
nuvola bianca
sul nero della valle
quasi farfalla
*
il pettirosso
all’albero si stringe
fermo nel canto
*
cerchi nell’acqua
il sasso l’ha prodotti
anche nell’occhio
*
soffia già il vento
l’anima è devastata
come la rosa
*
lievi danzanti
nei vortici dell’aria
foglie farfalle
*
bambole vive
tra fiori di mimosa
festa in giardino
*
glicini azzurri
bagnati dal suo pianto
sulle mie mani
*
bianca rugiada
riposa sopra il verde
e sui capelli
*
fiocchi di neve
perlacei son caduti
conchiglia il mare
*
ritorna al cielo
del mare la condensa
il mare in cielo
*
sogno nell’arte
si compia nel mio sogno
il mio destino
*

luigi celi

luigi celi

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia.

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su Hebenon, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. Hanno scritto di lui tra gli altri: Domenico Alvino, Lea Canducci, Antonio Coppola, Philippe Démeron, Luigi Fontanella, Piera Mattei, Roberto Pagan, Gino Rago, Arnaldo Zambardi. Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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Archiviato in haiku occidentali

Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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POESIE SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO o DELL’IDENTITA’ (ovvero, il poeta allo specchio) – Poesie di Kikuo Takano (1927-1998) “Lo specchio”, “In me” – Poesie di Bertolt Brecht (1898-1956) “Scacciato per buone ragioni”, “A coloro che verranno”

hopkins Autoritratto

john hopkins Autoritratto

 (È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

 È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano

 Kikuo Takano nato a Sado nel 1927 muore nel 1998, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.

In me

In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato che non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.

Lo specchio

Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.

(da L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Berthold Brecht (che poi semplificò il suo nome in Bertolt) nacque ad Augusta, in Baviera, nel 1898 da una famiglia discretamente agiata, della borghesia industriale.
Nel 1917 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Monaco, ma poi passò a quella di medicina perché era più facile, per uno studente di quel corso, evitare il servizio militare. Proprio in quegli anni pubblicò poesie e opere teatrali. Nel 1922 riscosse un discreto successo con Tamburi nella notte e nello stesso anno si sposò con l’attrice Marianne Zoff. Nel 1924 si trasferì a Berlino e nel ’27, fallito il primo matrimonio, si sposò con un’altra attrice, Helen Weigel, da cui ebbe due figli. A Berlino si affermò come drammaturgo e fece amicizia e collaborò con molti musicisti del tempi come Kurt Weil e Paul Hindemith.
All’avvento del nazismo al potere, nel 1933, Brecht con la famiglia dalla Germania in volontario esilio: andò in Danimarca e vi rimase fino al 1939, manifestando idee comuniste, anche se non si iscrisse mai al partito. Alla vigilia della seconda guerra mondiale dalla Danimarca passò in Svezia e di qui in Finlandia e in Russia per approdare, infine, negli Stati Uniti d’America dove si stabilì in California, a Santa Monica, fino al 1946 vivendo quasi totalmente isolato. Sospettato di attività antiamericane, nel 1948 rientrò in Europa e si stabilì a Berlino Est dove, malgrado il suo professato comunismo, fu guardato con sospetto per le sue posizioni polemiche e per il suo individualismo. Tuttavia le sue opere erano rappresentate ovunque e proprio a Berlino egli organizzò la compagnia teatrale Deutsches Ensemble (1949) che divenne ampiamente famosa in tutta Europa. Brecht morì a Berlino nell’agosto 1956 per infarto cardiaco.

La Raccolta Steffin di Brecht comprende poesie composte fra il 1937 e il 1940).

 

Bertolt Brecht

 Scacciato per buone ragioni

Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto ed educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né esser servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
con la gente del basso ceto.

Così hanno allevato un traditore, istruito
nelle loro arti; e costui
li tradisce al nemico.

Sì, dico in giro i loro segreti. In mezzo al popolo
sto e spiego
come ingannano, quelli, e predico quel che verrà, perché io
sono introdotto nei loro piani.
Il latino dei loro preti venali
lo traduco parola per parola in lingua volgare, dove
si rivela un imbroglio. La bilancia della loro giustizia
la tiro giù e mostro
i falsi pesi. E le loro spie riferiscono
che siedo con i depredati quando
tramano la rivolta.

Essi m’han diffidato e m’hanno tolto
quel che col mio lavoro ho guadagnato. E quando non mi sono emendato
mi hanno dato la caccia; ma
ormai in casa mia
soltanto scritti c’erano, che svelavano
le loro trame contro il popolo. Così
m’han perseguito con un mandato di cattura
che mi imputa una mentalità degradata, cioè
la mentalità dei degradati.

Dove giungo, sono uno marcato a fuoco
per tutti i possidenti; ma i nullatenenti
leggono il mandato di cattura e
mi concedono un rifugio. Quelli, io sento
dire allora, per scacciarti avevano
buone ragioni.

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno ... (B. Brecht)

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno … (B. Brecht)

A coloro che verranno

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha ancora ricevuta.

Quali tempi sono questi quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’angoscia?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto.)

“Mangia e bevi, – Mi dicono: – E sii contento di averne”
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!

II

Nelle città venni al tempo del disordine
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

III

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa la voce roca. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

(1939)
(da Poesie di Svendborg (1939) Traduzione di Franco Fortini, Einaudi, 1976)

 

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UNDICI POESIE METAFISICHE di Kikuo Takano (1927-1998) da “L’infiammata assenza” Commento di Renato Minore

Tokyo Maison Hermes

Tokyo Maison Hermes

 Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya.L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da RyuichiTamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.

“Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste: Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle”. E ancora: “Sulla Terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato o gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo innanzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nascere”. Queste sono parole di Kikuo Takano, un poeta che non ha mai smesso di interrogarsi non solo sull’essere e sul nascere, ma sul mondo intero. Perché il cielo è così sfuggente? Perché il mare è così rancoroso? Perché una trottola trova il suo equilibrio solo nel movimento? Perché dio si trova solo con le parole del cuore? E perché dio non risponde, quasi fosse un dio individuale, ad personam e non di tutti gli uomini?

ponte di legno tra i ciliegi in fiore

ponte di legno tra i ciliegi in fiore

 Takano è un poeta complesso, a dispetto dell’estrema semplicità stilistica e formale delle sue poesie. Si parte dal fiore, dalla farfalla, dal moto circolare che ogni giorno, quasi per inerzia, conduce il sole a nascere e a morire. Ma poi si arriva lontano e, quasi senza accorgersene, uno si ritrova a parlare dell’origine dell’universo, dell’amore, di dio. (…) È la visione della natura che ogni giorno combatte per uscire da sé e diventare altro. È un equilibrio sottile e impercettibile che lega le forze naturali in una lotta perenne, tra l’andare e il restare, tra il bene e il male, tra il nascere e il morire.

Takano parte dall’infinitamente piccolo, dall’osservazione delle forme più semplici. Una tradizione giapponese che sopravvive da almeno sei secoli e che, dopo la II guerra mondiale, ha preso forma in Giappone con gruppo raccolto intorno alla rivista ‘Arechi’. Ma Takano va oltre: non è più soltanto osservazione e identificazione con la natura. È un’interrogazione continua sul ‘senso’ della natura. Sul senso della nostra esistenza. Evangelica, oserei dire. O meglio, biblica: è il feroce punto di domanda dell’uomo davanti all’immensità, prima di disperare.

Tokyo

Tokyo

Potremmo dire che anche l’amore, per Takano, si inserisce in questa visione panteistica dell’universo. Il prato che si distende e accoglie le sagome degli amanti; il cielo che continua il suo giro idiota, indifferente alle lacrime di una donna abbandonata; la farfalla che punta verso un confine visibile solo ai suoi occhi miopi e non si accorge del dramma di un uomo sconfitto. Sono parte del tutto e, quindi, anche del sentimento. Entrano in quella vertiginosa girandola di identità nascoste, che solo l’osservazione del tutto restituisce. Il mondo è visto da Takano come un dono non richiesto. Come un bimbo che si veda ricevere un giocattolo del quale sa poco o nulla e si chiede cosa farne. Ma poi comincia a osservarlo, a sventrarlo, a scardinarne le parti… E in questo si ritrova gran parte della filosofia del Tao, di Lao-Tsu: «Il grave è radice del leggero, / il quieto è signore dell’irrequieto. / Per questo il santo viaggia tutto il giorno / senza discostarsi dal bagaglio, / anche se possiede palazzi regali / placidamente se ne sta distaccato».

L’uomo che si trova, suo malgrado, dentro un disegno oscuro, complesso, immenso quasi. L’uomo che non riesce a capire perché mai in quel momento lui e solo lui può e deve trovarsi in quel determinato punto, a dire quelle determinate parole. Ecco le domande che maggiormente assillano Takano; un determinismo del presente che inscatola la natura umana e sembra definirla. Ma poi questa muta forma, come in un quadro di Picasso: diventa uccello, farfalla, pistole, diamante, rana o portafogli. Impossibile inscatolarla, aveva insegnato Jaspers, uno dei maestri del poeta. Non resta che la distanza: protési verso l’obiettivo, ma con la testa rivolta indietro, in una specie di Angelus Novus improvvisato. O come insegnava Lao  Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta. Forse nessuno capirà mai queste parole ma quando leggiamo Takano che scrive: «Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi», ecco che si srotola una immagine bellissima. Quella di un uomo che rinuncia a se stesso, si spoglia delle sue convenzioni i ridiventa puro. Bambino. Assoluto.

Tokyo paesaggio urbano

Tokyo paesaggio urbano “Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi”

Non è un caso che Kikuo Takano abbia rinunciato a produrre verso nel trentennio che va dagli anni Settanta ai Novanta. In quegli anni infatti la poesia stava attraversando quella temperie che passerà alla storia come sperimentale (…) E non a caso il suo lavoro è stato spesso paragonato a poeti quali Eliot, a cui è accomunato da un vocabolario asciutto e metafisico, scabro e essenziale. Il silenzio dei cieli muti di Takano è il contrappeso dei mondi spogli di Eliot…

Un oscuro senso di desiderio insoddisfatto percorre tutta la produzione di Takano: da una parte l’aspirazione a essere uomo, a imporre la propria umanità scabrosa, dall’altra la consapevolezza che l’unica salvezza è l’assenza di passioni. Si gioca su questi due registri il filo che tiene insieme le poesie: l’assenza e il desiderio. E, in mezzo, un dio che si fa negare… Il silenzio di dio è bergmaniano, ha un che di tragico perché è il silenzio dell’uomo: nessuna risposta a nessuna domanda ma in fondo che cos’è la vita se non aspettare invano?… Come due specchi che vengono messi l’uno di fronte all’altro e insieme rispecchiano un vuoto infinito, per usare le parole del poeta.

(Renato Minore)

Kikuo Takano L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 pp106 € 9,30 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore

Kikuo Takano 2

Kikuo Takano

Burattino

Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette.

Il treno

Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.

Ed io penso:
“Ma le mani non dimenticano”.
Non dimenticano quelle mani d’essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.

Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
E cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per aver certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.

.
Il gancio

Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando, chissà perché,
lasciato chissà da chi,
appeso così, è un gancio proprio pauroso.
E speravo davvero che, con la ruggine,
mai dovessi provarlo.

Ma ora desidero
vedere me capovolto
a quel gancio dove non c’è
proprio nulla da appendere.

Kikuo Takano cop 2
Il cigno

«Osserva bene il cigno,
valuta tutto grazie al cigno»,
un tempo era questo
il mio severo proposito.

Ma quanto è dura la vita del cigno:
con le sue ali bianche
egli rifiuta la luce
e dentro alimenta la tenebra.

.
Corda

«Lascia andare le mani, abbandonale».
Qualcuno me lo bisbiglia all’orecchio.
All’improvviso lo ho ascoltato
mentre stringevo una temibile corda,
più la tiro da ogni parte
e più diventa lunga.
Davvero inutile maneggiarla,
ben me ne accorgo,
ma se non la toccassi
sarei tutto soffocato
da quella corda.

tokyo paesaggio urbano

tokyo paesaggio urbano “Lao Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta”

Due giochi di prestigio

“Ecco uno spago
e ne prendo i capi,
li annodo, ne faccio un anello:
di che si tratta?”
Ma è ormai banale
sentire cose simili.

“ecco, lo sciolgo,
ma da qualche parte
sarà pur finito l’anello”.
È un sempliciotto
chi me lo domanda.

“Di nuovo lo annodo,
compare l’anello,
torno a scioglierlo
e quello scompare,
ripeto il nodo,
spunta fuori l’anello,
ma se torno a snodarlo
l’anello non c’è più”.

*

Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Tokyo

Tokyo

Lo specchio

Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.

.
In me

In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato ce non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.

kikuo takano copertina

Sempre una voce

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Se piangi
vai oltre il dolore.
E ti accorgi che nell’addio
c’è l’incontro”.
Così ti parlava Dio, sfiorandoti
con la mano la schiena.

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Con pazienza
aspetta, e per meglio guardare
impara a chiudere gli occhi”.
Così ti parlava Dio, con una lieve
carezza sui capelli.

Quando nel dolore piangevi
senza poter far nulla
quel Dio lo avevi accanto,
a volte ti portava sulle sue spalle.

.
Se ti dico

Se ti dico che è la destra,
mi rispondi: “Anch’io la destra”,
se ti dico che è la sinistra
mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
E così insieme abbiamo atteso l’alba.
Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
era il desiderio dell’uno per l’altra
e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
e noi, senza neppure toccarci,
eravamo stupiti da tanto desiderio.

“Siamo stati stupiti come bambini…”
E ora tu mi disprezzi
“sì, ti odio
perché l’hai contemplata come in estasi
senza svegliarmi con uno schiaffo
anch’io abbagliata da quella visione”.

Senza darti uno schiaffo.
un pesante schiaffo.
E noi, in quell’istante,
eravamo già oltre quella “domanda”;
tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
io avrei detto il mio
e con questi nostri addii
avremmo potuto iniziare
ogni notte e ogni mattina.

Ma ancora mi chiedi:
“Non poteva quell’addio
prender congedo dall’addio?”
Ed io ancora ti ripeto
quando diversa è la “domanda”,
che sparisca quella “domanda”.
Abbiamo fatto esperienza non d’amore
ma di tempo, il tempo vuoto,
e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
Avesti dovuto capirlo anche tu.

Ma alla fine che cosa vuol dire?
Se mi confronto con te,
scuoti il capo in modo banale
e banalmente mi rimproveri.
Erano inutili quei giorni,
inutili quelle lotte.
Oggi sentiamo come peccato
l’esperienza dopo aver recuperato
ciò che abbiamo vissuto.
Oh, la spola della tessitura!
È un terribile filo: più costruisce la trama
più si sfila l’altra parte del bandolo
E passano i giorni in cui mi capita
di dipanare sempre fil filo.

(da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte VI) Kikuo Takano, Octavio Paz, Salvatore Toma, Mariella De Santis, Anthony Robbins

magritte golconda

magritte golconda

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

 

 

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano cop

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kikuo Takano

Sempre una voce

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Se piangi
vai oltre il dolore.
E ti accorgi che nell’addio
c’è l’incontro”.
Così ti parlava Dio, sfiorandoti
con la mano la schiena.

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Con pazienza
aspetta, e per meglio guardare
impara a chiudere gli occhi”.
Così ti parlava Dio, con una lieve
carezza sui capelli.

Quando nel dolore piangevi
senza poter far nulla
quel Dio lo avevi accanto,
a volte ti portava sulle sue spalle.

 

Se ti dico

Se ti dico che è la destra,
mi rispondi: “Anch’io la destra”,
se ti dico che è la sinistra
mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
E così insieme abbiamo atteso l’alba.
Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
era il desiderio dell’uno per l’altra
e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
e noi, senza neppure toccarci,
eravamo stupiti da tanto desiderio.

“Siamo stati stupiti come bambini…”
E ora tu mi disprezzi
“sì, ti odio
perché l’hai contemplata come in estasi
senza svegliarmi con uno schiaffo
anch’io abbagliata da quella visione”.

Senza darti uno schiaffo.
un pesante schiaffo.
E noi, in quell’istante,
eravamo già oltre quella “domanda”;
tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
io avrei detto il mio
e con questi nostri addii
avremmo potuto iniziare
ogni notte e ogni mattina.

Ma ancora mi chiedi:
“Non poteva quell’addio
prender congedo dall’addio?”
Ed io ancora ti ripeto
quando diversa è la “domanda”,
che sparisca quella “domanda”.
Abbiamo fatto esperienza non d’amore
ma di tempo, il tempo vuoto,
e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
Avesti dovuto capirlo anche tu.

Ma alla fine che cosa vuol dire?
Se mi confronto con te,
scuoti il capo in modo banale
e banalmente mi rimproveri.
Erano inutili quei giorni,
inutili quelle lotte.
Oggi sentiamo come peccato
l’esperienza dopo aver recuperato
ciò che abbiamo vissuto.
Oh, la spola della tessitura!
È un terribile filo: più costruisce la trama
più si sfila l’altra parte del bandolo
E passano i giorni in cui mi capita
di dipanare sempre fil filo.

(da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e trad di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

 

Octavio Paz (1914-1998)

Octavio Paz (1914-1998)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Octavio Paz

La luce sostiene – lievi, reali –
il picco bianco e le querce nere,
il sentiero che avanza,
l’albero che resta;

la luce nascente cerca il suo cammino,
fiume titubante che disegna
i suoi dubbi e li trasforma in certezze,
fiume del’alba su palpebre chiuse;

la luce scolpisce il vento sulle tende,
fa si ogni ora un corpo vivo,
entra nella stanza e guizza,
scalza, sul filo del coltello;

la luce nasce donna in uno specchio,
nuda sotto un diafano fogliame
uno sguardo la incatena,
la dissolve un palpebrare;

la luce palpa i frutti e palpa l’invisibile,
brocca dove bevono chiarori gli occhi,
fiamma tagliata in fiore e candela in veglia
dove la farfalla dalle ali nere si brucia:

la luce apre le pieghe del lenzuolo
e i risvolti della pubertà,
arde nel camino, le sue fiamme divenute ombre
si arrampicano sui muri, edera di desiderio;

la luce non assolve né condanna,
non è giusta e non è ingiusta,
la luce con mani invisibili innalza
gli edifici della simmetria;

la luce se ne va per un varco di riflessi
e ritorna a se stessa:
è una mano che si inventa,
un occhio che si guarda nelle sue invenzioni.

La luce è tempo che si pensa.

(da Il fuoco di ogni giorno Garzanti, 1992 trad. Ernesto Franco)

 

Salvatore Toma

Salvatore Toma

salvatore toma copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore Toma

Testamento

Quando sarò morto
che non vi venga in mente
di mettere manifesti:
è morto serenamente
o dopo lunga sofferenza
o peggio ancora in grazia di dio.
Io sono morto
per la vostra presenza.

*

Presso mezzogiorno
mi sono scavata la fossa
nel mio bosco di querce,
ci ho messo una croce
e ci ho scritto sopra
oltre al mio nome
una buona dose di vita vissuta.
poi sono uscito per strada
a guardare la gente
con occhi diversi

(da Canzoniere della morte, Einaudi, 1999)

 

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Mariella DeSantis copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mariella De Santis

Porta d’ingresso

fummo una porta d’ingresso, un numero civico
che fatico a rammentare, un passaggio in taxi
per le vie di Roma che dell’autunno scroscia
nel grembo delle donne la sottile decadenza.
Non altro nascondono le poetabili foglie d’oro
o le muffe dei funghi se non quel simile umore
che a corpo ancora non freddo si netta
per decente inumazione.

.

Le cose che vanno

Le cose che vanno
non sempre hanno il tempo
di tiepidi addii,
a volte poi sembra vadano
invece restano per sempre
a morire con noi.

.

Punti cardinali

verso sud, dove più tu sei lontano, ci sono io
a est la tua gioia che è sempre per domani
a nord ti fermi anche se vorresti andare
forse a quel sud guardando, da cui fuggo io
e non ci incontriamo mai se non nelle punte
ad ovest di due letti solitari. Continua a leggere

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