
foto di Richard Vergez
Tre poesie di Alfredo de Palchi da Foemina tellus, 2010, Joker
Fredda
brilla di sole freddo al mattino
la zolla capovolta
con svolazzi di passere
su mucchi di letame che fumano l’odore
astringente
intorno gli spineti fioriti di ghiaccio sulle spine
i cortili medievali
che ti svuotano ai campi dove nei solchi
calchi il brulichio di verminai
di semenze
che a caso crescono gramigne
fiori campestri
spighe di grani selvatici
e papaveri per sfogliarsi
alla tua presenza losca di nero
nella calura che vibra
di clangori
dissonanza d’ogni
città al di là del fiume.
(4 dicembre, 2006)
*
Autunno
precocemente m’inganni con un giorno di luce
e un altro giorno di acqua che svuota le panche
della piazza e vento
che spiazza i colombi le passere
e scombuglia gli scoiattoli tra ventagli
di ramaglie tenaci a tenersi un po’ di foglie
non come tu sei
io sono tale e qual ero nel tuo corpus
mistico di vulva
un giorno così e un altro così
senza la fretta di arrivare là dove tu arrivi.
(17 ottobre, 2006)
*
potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.
(21 giugno, 2009)
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
In queste poesie si intravvede la presenza del fantasma che «scombuglia» l’ordine costituito dall’io. È la prima apparizione del fantasma che agisce liberamente e spezza, riduce in frantumi la sintassi e la sua logica, dissolve la poesia di paesaggio in una miriade di appercezioni. La sovradeterminazione stilistica è un simbolo di un conflitto presente che si dirama nelle ramificazioni scendenti di questa discendenza simbolica nei momenti in cui le forme verbali incrociano i nodi della struttura linguistica. Quando affermo con convinzione che la poesia di Alfredo de Palchi è la progenitrice della poesia di oggi, quella stilisticamente più evoluta, la nuova poesia, alludo a qualcosa di analogo a quel che intendeva in un commento di qualche tempo fa, Lucio Mayoor Tosi:
«In ognuna di queste poesie si avverte il bisogno di stare nel viaggio introspettivo, verso la conoscenza di sé ma tra le cose; quindi con l’intento di non fermarsi alla psicanalisi ma di trovare un senso ontologico nell’esistere. Al lettore non interessa quale sia la psiche del poeta, quali i suoi tormenti, gli interessa di trovarsi coinvolto nel percorso introspettivo. Si tratta infatti di una nuova dimensione, tra psicanalisi e storia, una dimensione del tutto inedita e inusuale.
Tra cent’anni, che diranno le persone di noi? Non sarà come adesso quando cerchiamo di leggere tra le rovine di civiltà passate: di noi si saprà tutto!».
Verissimo. Appunto, «di noi si saprà tutto».
Per questo affermo che «di noi» non si saprà niente, perché quello che al lettore del futuro posteriore interesserà sarà sapere «qualcosa» circa il funzionamento della nostra psiche, conoscere ciò che noi siamo stati capaci di rappresentare di noi stessi. Per tutto il resto ci saranno miliardi e miliardi di immagini, della televisione e di internet che lo renderanno edotto. Quello che al lettore del futuro importerà sarà conoscere «qualcosa» che non è contenuto in quelle miliardi di immagini e di informazioni che navigano nell’etere di internet. Chiaro? Di questo si occupa la «nuova ontologia estetica». Per chi ancora non abbia afferrato il concetto.
L’io, dice Freud, è soprattutto inconscio.1]
Siamo di fronte a un problema cruciale. Una tale affermazione sembrerebbe a prima vista contraddire l’evidenza che l’io sia quella parte della psiche che gode della facoltà di corrispondere al pensiero cosciente. Per comprende la portata di una tale affermazione, occorre innanzitutto chiarire cosa sia l’inconscio, o almeno quale sia la sua estensione nel sistema freudiano, al fine di poter darne ragione e cogliere successivamente il luogo e lo statuto dell’io.
Inconscio è innanzitutto la sede di quei contenuti, di quelle rappresentazioni che, per via dell’azione della rimozione, non raggiungono la coscienza. Nel sistema freudiano si distinguono rappresentazioni inconsce e rappresentazioni consce. Nella Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912) Freud chiama conscia «soltanto la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e di cui abbiamo percezione»2]. L’ovvietà di una simile definizione serve a tracciare la strada per il suo opposto, ossia per la definizione dell’inconscio:
«Una rappresentazione inconscia è quindi una rappresentazione che non avvertiamo ma la cui esistenza siamo pronti ad ammettere in base a indizi e prove di altro genere».3]
L’esistenza dell’inconscio lo si deduce da « indizi e prove di altro genere». Quali? Freud risponde: lapsus, atti mancati, motti di spirito, sogni; tutto ciò che sorprende il soggetto e lo coglie in fallo rispetto al suo voler-dire. Ed io aggiungo: le poesie. Nella rappresentazione poetica coabita il paradosso che negli enunciati, nel già detto, si nasconde e viene ad evidenza il non detto, il non enunciato, il linguaggio latente, il rimosso, che distorce e deforma il linguaggio rendendolo così idoneo alle necessità della nuova significazione.
La poesia di Lucio Mayoor Tosi, come quella di Donatella Costantina Giancaspero, la mia, quella di Mario Gabriele, di Francesca Dono ma anche quella di Alfonso Cataldi, di Carlo Livia, di Mauro Pierno e di altri poeti della nuova ontologia estetica è ricchissima di referti, di lessemi, di stracci dell’inconscio il cui linguaggio è, sostanzialmente, un linguaggio onirico, visionario, allucinogeno, ma anche sommamente razionale, ordinato in una scansione logica inafferrabile ma cogente… non dico cose così bizzarre se affermo che nel nuovo indirizzo della poesia italiana un posto centrale è occupato dalla indagine sull’inconscio.
L’inconscio per Freud «comprende da un lato atti che sono meramente latenti, provvisoriamente inconsci, ma che per il resto non differiscono in nulla dagli atti consci, e dall’altro processi come quelli rimossi, che, se diventassero coscienti, si discosterebbero necessariamente, e nel modo più reciso, dai rimanenti processi consci».4]
Come è noto, l’inconscio sfocia nel sistema Preconscio, un sistema che è in contatto e in comunicazione con il sistema Conscio e con l’Inconscio sia sul piano propriamente dinamico che sul piano topologico. Sul piano geografico il sistema Inconscio si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di estraneità tanto dal sistema Preconscio che da quello percezione-coscienza. Assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, e una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell’inconscio.

Suzanne Musard André Breton, 1929
L’Inconscio non è un abisso, non è un flusso di energia cieco.
Esso è piuttosto il luogo in cui accadono eventi, in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, le rappresentanze pulsionali, che sono investimenti, residui delle immagini mnestiche della cosa, di tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini, come asserisce Freud. L’inconscio sarebbe un sistema di tracce mnestiche, non impronte, da cui derivano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, «in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto». Ecco, credo che la nuova poesia che noi stiamo indagando tratti proprio queste, diciamo così, «trascrizioni», lessico del linguaggio freudiano, wortvorstellungen, lemmi dotati di semantica e di mantica.
Scrive Freud: «La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali»5].
1] Cfr. S. Freud, Das Ich und das Es, in Gesammelte Werke, S. Fischer Verlag, Frankfurt a/M, (18 voll.); trad. it. a cura di Musatti C., in Opere vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti (1917-1923), Bollati Boringhieri, Torino 1977, §. L’Io e l’Es, p. 482.
2] S. Freud, A note on the Unconscious in Psychoabalysis (1912), in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 6. Casi clinici e altri scritti (1906- 1912), Bollati Boringhieri, Torino 1974, Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), p. 575.
3] Cfr., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), cit; p. 576
4] S. Freud., Metapsicologia, § L’inconscio, in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915)., p. 49.
5] Cfr., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), cit; p. 576.
Tomas Tranströmer scrive:
La casa assomiglia al disegno di un bambino.
Un’innocenza sostitutiva che si è sviluppata perché troppo presto qualcuno ha rinunciato all’incarico di essere bambino. Apri la porta, entra! Qui dentro c’è inquietudine nel tetto e pace nelle pareti
*
Il tema della «finestra» quale luogo o zona dalla quale si può passare da una dimensione all’altra è molto presente nella poesia di Tranströmer. Così nella poesia di Carlo Livia il tema della «grande sala», del «salone» è il tema che consente all’autore di rappresentare e immaginare cose che altrimenti sarebbero irrappresentabili.
*
Lontano mi capita di fermarmi davanti a una delle nuove facciate.
Molte finestre che vanno a formare un’unica finestra.
la luce del cielo notturno vi è catturata e il movimento delle chiome degli alberi.
È un luogo riflettente senza onde, innalzato nella notte d’estate.
*
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
*
È doloroso passare attraverso le pareti, ci si ammala
ma è necessario.
Il mondo è uno. Ma le pareti…
E la parete è una parte di te –
uno lo sa o non lo sa ma è così per tutti
tranne che per i bambini piccoli. Per loro niente pareti.
*
Ma non sono maschere ora bensì volti
che emergono attraverso la bianca parete dell’oblio…
emergono attraverso la parete ridipinta dall’oblio
la parete bianca
scompaiono e ricompaiono.
*
Ho trascorso la notte nella casa densa di rumori.
Molti vogliono entrare attraverso le pareti
ma i più non arrivano fin là:
le loro voci sono sopraffatte dal brusio bianco dell’oblio.
Un canto anonimo sprofonda attraverso le pareti.
Ecco, da questi pochi esempi abbiamo la riprova e l’esemplificazione di quanta parte ha l’inconscio e le sue immagini nella ricerca della poesia moderna, anzi, si può dire che la parte prevalente, la più evoluta della poesia moderna europea ha a che fare con l’inconscio, con le sue inimmaginabili diramazioni, le sue complessità. Il senso di minaccia, il presentimento che «qualcosa» stia per avvenire che non avevamo previsto, ci turba e ci getta nell’angoscia:
… Qualcosa di oscuro
stava presso la soglia dei nostri cinque
sensi, senza oltrepassarla.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
*
Più debole del fruscio di una conchiglia
si udivano suoni e voci dalla città
che volteggiavano nella stanza deserta,
sussurrando e cercando un potere.
*
Una musica si sprigionò
e avanzò nella neve vorticante
con lunghi passi.
*
Una musica abbozzata come dalla
forza dell’orchestra prima che lo spettacolo abbia inizio.
*
Quando l’oscurità scese io stavo quieto
ma la mia ombra batteva
sul tamburo dello sconforto.
Quando i colpi cominciarono ad affievolirsi
vidi l’immagine di un’immagine.
*
Spengono la lampada e il suo globo brilla
per un attimo prima di sciogliersi
come una compressa nel bicchiere dell’oscurità.
*
… l’anima /sfregava contro il paesaggio come una barca /sfrega contro il pontile a cui è ormeggiata.
*
Il vento procedeva lentamente come se spingesse davanti a sé/ una carrozzina.
*
Il sogno in cui il dormiente sta disteso
diventa trasparente. Egli si muove, comincia
a cercare a tastoni gli utensili dell’attenzione –
quasi nello spazio.
*
Rivivo un sogno. Che io sto in un cimitero
da solo. Tutt’intorno splende l’erica
a perdita d’occhio. Chi aspetto? un amico. Perché
non viene? È già qui.
*
Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stesso.
*
La strada non finisce mai. L’orizzonte corre in avanti.
(T. Tranströmer)
Da dove viene l’inconscio?
«Non sono sicuro, dubito», è per Freud la frase che accende l’attenzione dell’analista allorquando il paziente parla, racconta ad esempio un sogno. E questo perché il dubbio, ci dice Freud, rappresenta una «resistenza»,1] è «il segno della resistenza». Bisogna fare riferimento al capitolo 6) de L’interpretazione dei sogni,2] in particolare al problema dell’«elaborazione secondaria». Quando possiamo pensare di avere accesso all’inconscio, di carpirne almeno in parte la sua presenza, la sua traccia nel discorso, per così dire, cosciente? Quando il soggetto dubita, quando non sa – risponde Freud – quando il soggetto mostra «incertezza» circa quello che ci racconta o ricostruisce, è allora che veniamo a sapere che c’è «resistenza», che qualcosa impedisce, mostra l’accesso a un contenuto diverso da quello manifesto, espresso.
È in quel momento che apprendiamo la via che porta all’inconscio, che qualcosa cioè nel celare mostra quanto cela in base alla dialettica del velo e della traccia, un discorso che possiede i tratti dell’alétheia. Nel sogno, infatti, l’io è ovunque, spezzettato, dissolto, disseminato accanto ad altri personaggi, disperso fra tutti i pensieri che vi sciamano. L’elaborazione diurna, il cosiddetto sogno ad occhi aperti, il sogno in stato di coscienza vigile, ha portato Freud a trovarsi di fronte al «vacillamento», all’impasse; quei buchi di memoria punteggiati di «non so, forse, non sono sicuro», sono tutte forme dubitative, in cui sovente colui che racconta si ritrova, e si perde. In ciò Freud ha visto il tratto saliente del soggetto dell’inconscio, le sue «resistenze» a quanto nel sogno si è manifestato attraverso e oltre la censura. «La via regia» verso l’inconscio non è altro, lo vediamo, che l’intoppo, il blocco, la sincope nel racconto che svela una resistenza, non intenzionale, certo, ma attuale con cui l’io si oppone al manifestarsi di pulsioni inconsce. Si tratta di un vacillamento contemporaneo dello stesso svuotamento del soggetto Ego che ha condotto dal dubbio alla certezza e dalla certezza di nuovo al dubbio; all’enunciato dell’io penso subentra l’io dubito; rimane comunque in questa sospensione della certezza che Freud reperisce il soggetto dell’inconscio, ovvero, l’Altro dell’Io.
Vediamo all’opera la duplice azione della Verdichtung (condensazione) e della Verschiebung (spostamento), istanze che agiscono sotto l’imperio della censura, una vera e propria rappresentazione di un sogno ad occhi aperti. Scrive Lacan:
«L’Entstellung, tradotta: trasposizione, in cui Freud mostra la precondizione generale della funzione del sogno, è ciò che sopra abbiamo designato con Sassure come lo scivolamento del significato sotto il significante, sempre in azione (da notare: inconscia) nel discorso.
La Verdichtung, o condensazione: cioè la struttura di sovrapposizione dei significanti in cui prende campo la metafora, e il cui nome, condensando in sé la Dichtung, indica la naturalità di questo meccanismo con la poesia, fino al punto di includere la funzione propriamente tradizionale di quest’ultima.
La Verschiebung, o spostamento: cioè, più vicino al termine tedesco, il viraggio della significazione dimostrato dalla metonimia e che, fin dalla sua apparizione in Freud, è presentato come il mezzo dell’inconscio più adatto a eludere la censura ».3]
1] Cfr. J. Lacan La scienza e la verità, in Scritti II, trad. it. Einaudi, p. 860
2] Cfr. S. Freud, Interpretazione dei sogni, cit., p. 297
3] J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio freudiano, in Scritti I, p. 506.
Il «fantasma»
Qui noi stiamo trattando del «fantasma» in poesia come equivalente di «maschera», di «personaggio» non «reale». Per accedere alle potenze numinose dell’inconscio, per rappresentare il teatro dei pupi dell’inconscio, non possiamo fare a meno di riferirci al «fantasma» e alle sue modalità di comparizione sul palcoscenico della «nuova poesia».
Inoltre, una caratteristica precipua del «fantasma» è che questi «non parla», appare sulla scena come limite dell’ordine simbolico, al confine tra l’immaginario e il simbolico, in quel sottile limen che mette in azione il simbolico e l’immaginario. Il mutismo del «fantasma» sarebbe necessitato affinché l’inconscio possa invece parlare. È il presupposto che fonda il linguaggio dell’inconscio…
È bene ricordare che nell’algebra lacaniana il fantasma possiede sì una dimensione «reale», nel senso in cui il «reale» è quanto risiede nell’oggetto a, ossia nel rapporto tra soggetto (barrato) e l’impossibile oggetto del godimento. Il« reale» è in un certo senso rappresentato dall’intera formula del fantasma, ma intesa come significazione assoluta, ossia in quanto frase che, letteralmente, (non) significa nulla. E in questo “non” messo tra parentesi c’è tutto il valore differenziale di cui il fantasma consiste, nel senso in cui non si può affatto affermare che il fantasma significhi il nulla di das Ding, perché, in quanto
assioma, significazione assoluta, il fantasma rimane sciolto dal legame di rimando proprio della significazione.
Il fantasma è un assioma, bisogna intendere con questa asserzione che la sua posizione rimane isolata nell’ambito della significazione. Un assioma in logica è un enunciato messo all’inizio, da cui per deduzione deriva ogni altro enunciato. Come tale un assioma è un inizio assoluto, ciò da cui tutto discende.
«Cos’è un assioma in logica? Essenzialmente è qualcosa di posto all’inizio. In qualunque trattato di logica ci sono definizioni di termini e assiomi; sono enunciati: primo, secondo, terzo, messi lì una volta per tutte, postulati. Non si possono discutere in nessun luogo, perché è a partire da essi che si possono produrre verità e falsità, cioè verifiche. Però prima di essi non c’è niente; sono un punto di partenza e un punto limite». 1]
Così il «fantasma», in quanto nel soggetto viene ad occupare la funzione di una «significazione assoluta», ovvero si pone come quel «significante purificato» che chiude la catena significante, che designa un limite oltre il quale non c’è più nulla da significare.
Il tempo del «fantasma» è l’istante, l’istantanea presenza del presente.
Il «fantasma» è lì dove il linguaggio manca. Pone un termine, un alt alle possibilità del linguaggio, perché è il presupposto affinché vi sia linguaggio.
Il silenzio è dentro il linguaggio, è contenuto nel linguaggio come suo presupposto, come confine «interno». Se non vi fosse il silenzio, non sorgerebbe neanche il linguaggio. Quindi, il linguaggio non deriva dal silenzio come una nota vulgata vorrebbe farci credere, ma è all’interno del linguaggio. Di conseguenza il «fantasma» sarebbe nient’altro che il commissario rappresentante del silenzio all’interno del linguaggio. La sentinella del linguaggio.
Il soggetto si risarcisce del fatto «che egli non è» – o meglio, che egli si trova in quel «posto in cui si vocifera che ‘l’universo è un difetto nella purezza del Non-Essere’».2]
Dire che il «fantasma» è un assioma significa che non vi è una «storia» del fantasma, un’origine a cui sia possibile risalire. Il «fantasma», a differenza del sintomo, non ha interpretazione, non mette in atto un lavoro della metafora e della metonimia per significare il desiderio inconscio. Il «fantasma» si pone come assolutezza, dotato di singolarità in virtù del suo fondamento assiomatico, di mero inizio. Ed è questa la ragione del fatto che Lacan pone il «fantasma» nel registro del Reale. Il reale è infatti quanto resta fuori-senso, quanto resta fuori dal simbolico. Il reale è il reale della mancanza. Il «reale», afferma Lacan, «è l’ambito di ciò che sussiste fuori dalla simbolizzazione”3]; e ancora: «Se lo si intende, è da un rifiuto che il reale prende esistenza; ciò di cui l’amore fa il suo soggetto è ciò che manca nel reale; ciò a cui il desiderio si arresta, è il sipario dietro cui questa mancanza è figurata nel reale».4]
Il «fantasma» non genera significato, non genera significanti, non produce senso. Abbiamo detto: il «fantasma» è un assioma, nel senso che dietro di lui, attorno a lui non c’è niente.
Sul piano simbolico il «fantasma» resta un significante interrotto e, se procura sorpresa, lo procura la di là delle intenzioni del soggetto, il quale se cerca di andare dentro la «maschera», si accorge che essa è vuota. Il «fantasma» è una maschera che sta di fronte al nulla del soggetto. Sul piano letterario, il «fantasma», si presenta come una istanza cieca che si offre alla fruizione contemplativa. Non ha senso in questa sede discettare se esso sia bello o brutto, esso occupa la zona anestetica dell’esistenza, indica quell’al di là del desiderio e del godimento, si offre soltanto alla contemplazione. Come si contempla una maschera nel carnevale di Venezia. Vuole essere soltanto contemplato.
Non è questione di appropriarsi del «fantasma», di afferrarlo, di possederlo, perché esso è in sé anestetico e anestetizzato. Il «fantasma» si può solo attraversare, come si attraversa la scena di un teatro per andare a vedere dietro le quinte. Lo si può soltanto vivere di riflesso. Infatti, Miller scrive:
«È come andare dietro le quinte di un teatro per vedere cosa vi succede e che cosa sostiene il suo funzionamento. […] L’attraversamento del fantasma è andare a fare un giro per le quinte, per sapere come questo funzioni” 5].
Il «fantasma» è una messa in scena. È tutta la scena. Dietro e intorno a lui non c’è altro, non c’è Altro dell’Altro. C’è il vuoto.
1] J.-A. Miller, Sintomo e fantasma, in Logiche della vita amorosa, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 1997, p. 101
2] Cfr Si veda, J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, cit., p. 823
3] J. Lacan, Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla Verneigung di Freud, in Scritti, cit., p. 381.
4] J. Lacan, La psicoanalisi e il suo insegnamento, in Scritti, cit., p. 431.
5] J.-A. Miller, Sintomo e fantasma, in Logiche della vita amorosa, cit., p. 101.
Una poesia di Carlo Livia
Nella sala della cerimonia vidi: due cavalieri feriti, donne di marmo, un bambino addormentato, una dea in lacrime, un ricordo di giardini e rossori, un peccato, molti sospiri, notti piene di anime, fanciulle d’un tempo, un amore in vesti di glicine, un terrore tinto di corallo, il sogno d’un angelo scomparso, un’aurora malata d’ardesia, una luce eterna, un vento triste con un giuramento, un’assenza con guanti di musica, un sorriso dipinto.
Un silenzio inaudito mi sfiorò e scomparve.
Qualcuno disse “per sempre”, due volte.
Il tempo s’inondo’ di lacrime.
Una voce, colma di cielo, pronunciò il mio nome.
Il ruolo dell’inconscio nella poesia di Carlo Livia
In questa poesia di Carlo Livia, ad esempio, abbiamo un chiarissimo esempio di «reale» molto lontano dal reale convenzionale della poesia italiana che va di moda oggi.
La poesia inizia con un dato concreto e nettamente definito: «Nella sala della cerimonia». Sembra dunque un enunciato di tipo realistico, e invece subito dopo ha inizio una serie di immagini in sequenza del tutto illogiche, oniriche, sovra reali, pur se tutte perfettamente definite nei minimi particolari. Ci troviamo nel mondo dell’inconscio con il poeta nelle vesti del pescatore di perle con la canna da pesca intento a cogliere i pesci e le ostriche. S’intende che tra le immagini ripescate da Carlo Livia e quelle dell’inconscio c’è sempre un abisso, non bisogna ingenuamente credere che le immagini della poesia si identifichino con le immagini dell’inconscio, l’operazione di Livia è più accorta e complessa, essa si limita a delineare delle immagini di sogno per tentare di «catturare» le rappresentazioni «cieche» dell’inconscio. È questo il punto di distinzione, ed è importante rimarcarlo.
In Tomas Tranströmer per esempio, ricorrono frequentissimamente alcune immagini simbolo: le «finestre», le «pareti bianche», «l’oblio bianco», la «casa» una «sala» dove si sta rinchiusi, dalla quale non si può uscire, «la città»…
La profondità della parola potrebbe senz’altro attingere all’incoscio, anche nel caso di testi ‘coscienti’. De Palchi è un poeta straordinario: ho letto e recensito tutta la sua opera.
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Autunno
precocemente m’inganni con un giorno di luce
e un altro giorno di acqua che svuota le panche
della piazza e vento
che spiazza i colombi le passere
e scombuglia gli scoiattoli tra ventagli
di ramaglie tenaci a tenersi un po’ di foglie
non come tu sei
io sono tale e qual ero nel tuo corpus
mistico di vulva
un giorno così e un altro così
senza la fretta di arrivare là dove tu arrivi.
ALFREDO DE PALCHI
La prima poesia di De Palchi mi riporta, per attrazione estetica, alle fotografie di Bresson e alla musica verbale di Bertolucci e di altri poeti del Novecento, più inclini verso questo tipo di linguaggio.
,Autunno, invece, assembla scatti onirici e decisamente più idonei a trasfigurare campi magnetici affini ad una linea classica, da Mottetti montaliani, con un “tu” confidenziale e non decriptabile. Un distacco poetico, rispetto alle opere precedenti.
TOMAS TRANSTRÖMER
Autobiografia di un Nobel
(Traduzione di Enrico Tiozzo)
“Cominciai le elementari alla scuola popolare Katarina Norra, dove ebbi per maestra R., una signorina nubile e molto curata che cambiava vestito ogni giorno. All’ ultima ora del sabato era solita dare a ogni bambino una caramella, ma per il resto era piuttosto severa, e fioccavano spesso tirate di capelli e sberle, anche se mai a me che ero figlio di una maestra. Il mio compito principale nel primo trimestre fu di starmene zitto e fermo nel mio banco. Sapevo già scrivere e far di conto. Passavo il tempo a ritagliare carte colorate, ma cosa ritagliassi non lo ricordo. Credo che l’ atmosfera fosse abbastanza buona nel primo anno di scuola, ma poi a poco a poco diventò più dura. Quello che faceva perdere la pazienza alla maestra era ogni turbamento dell’ ordine, ogni genere di scompiglio. Non si doveva essere irrequieti o rumorosi. E nemmeno deboli. Non si dovevano avere difficoltà inattese nell’ imparare qualcosa. In generale non si doveva fare niente di inatteso. Una bambina che se la faceva addosso per la paurae la vergogna non poteva aspettarsi nessuna pietà. Come ho detto, io ero protetto dalle punizioni corporali perché ero figlio di una maestra. Ma l’ atmosfera pesante che accompagnava i rimproveri e le minacce la pativo. Sullo sfondo c’ era il Direttore, un tipo pericoloso dal naso aquilino. La cosa più grave era finire in riformatorio, come si minacciava in particolari occasioni. Non lo consideravo come un pericolo per me personalmente, ma già il fatto in sé creava malessere. Che cosa fosse un riformatorio potevo facilmente immaginarlo, soprattutto avendo sentito il nome che si dava a uno di quegli istituti:
« skrubba », cioè « Scrosta », che faceva pensare a grattugie e pialle.
Che la tortura venisse quotidianamente praticata sugli internati mi pareva evidente. Nell’ immagine del mondo che mi ero creato rientrava dunque l’ idea che ci fossero istituti speciali dove gli adulti torturavano i bambini – magari anche a morte – perché erano stati cattivi. Era terribile, ma doveva essere così. Se uno faceva il cattivo… Quando un bambino della scuola veniva portato in riformatorio e tornava l’ anno dopo, lo consideravo come resuscitato dai morti. Una minaccia più realistica era l’ evacuazione. Nei primi anni di guerra si prevedeva l’ evacuazione di tutti gli scolari dalle grandi città. La mamma marcò a inchiostro il nome Tranströmer su tutte le nostre lenzuola e varie altre cose. La questione era se sarei stato evacuato con la mamma e i suoi allievi o con i miei compagni di classe della Katarina Norra, ovvero deportato con la maestra R. Sospettavo quest’ ultima soluzione. Non ci fu nessuna evacuazione. La vita a scuola seguì il suo corso. Io non desideravo altro che le lezioni finissero per potermi gettare su quello che veramente mi interessava: l’ Africa, il mondo subacqueo, il Medioevo, eccetera. L’ unica cosa che veramente mi affascinava a scuola erano i tabelloni didattici. Li adoravo. La gioia più grande era accompagnare la maestra al deposito e tirare fuori qualche consunta tavola di cartone. Si poteva approfittarne per sbirciare anche gli altri tabelloni che erano appesi lì.
Ne facevo anch’ io di simili, entro i miei limiti, a casa. Una differenza importante tra la mia vita e quella dei miei compagni era che io non avevo un papà da mostrare. La maggior parte di loro veniva da famiglie di operai dove il divorzio evidentemente era molto raro. Io non volevo mai ammettere che ci fosse qualcosa di strano nella mia situazione familiare. Neanche con me stesso. No, io avevo un papà e anche se lo vedevo solo una volta all’ anno (in genere la vigilia di Natale), ero sempre in contatto con lui- una volta, per esempio, durante la guerra, era stato su una torpediniera e da lì mi aveva scritto una lettera divertente,e cose del genere. Mi sarebbe piaciuto far vedere quella lettera, ma non mi veniva naturale. (…) Sentivo fortemente il pericolo di essere considerato un diverso perché nel fondo di me stesso sospettavo di esserlo. Ero divorato da interessi che nessun bambino normale avrebbe avuto. Seguivo corsi facoltativi di disegno e disegnavo scene subacquee: pesci, ricci di mare, granchi, conchiglie. La maestra osservava ad alta voce che i miei disegni erano molto «speciali» e io ripiombavo nel panico. C’ era un tipo di adulti insensibili che mi indicava continuamente come un originale. I compagni in realtà erano più tolleranti. Non ero popolare, ma neanche preso di mira. Hasse, un ragazzo scuro e alto che era cinque volte più forte di me, aveva l’ abitudine di buttarmi a terra a ogni intervallo, il primo anno di scuola.
All’ inizio opponevo una fiera resistenza, ma non serviva a niente, lui mi atterrava comunque e trionfava. Alla fine trovai il modo di frustrarlo: una totale rilassatezza. Quando si avvicinava, fingevo che il mio io se ne fosse volato via e avesse lasciato soltanto un cadavere, uno straccio senza vita che lui poteva calpestare quanto voleva. Si stufò. Penso a quanto possa avere significato per me, più avanti nella vita, il metodo di trasformarsi in uno straccio senza vita. L’ arte di lasciarsi calpestare senza perdere l’ autostima. Non l’ ho usata troppo spesso? A volte funziona, a volte no. (…) Soltanto un paio di miei compagni delle elementari proseguì nella scuola media. E nessuno oltre a me fece domanda per entrare al Ginnasio Liceo Pubblico Superiore per Ragazzi di Södermalm, cioè il liceo classico di Söder. C’ era un esame di ammissione alla scuola superiore. Delle prove ricordo solo che sbagliai a scrivere la parola «particolarmente». La scrissi con due l. Da allora mi rimase un disturbo legato a quella parola che durò fino agli anni Sessanta.
Ricordo con molta chiarezza il mio primo giorno di scuola alle medie di Söder, nell’ autunno del 1942. L’ immagine che ne ho conservato è questa. Mi trovo in mezzo a ragazzi di undici anni tutti sconosciuti. Ho un nodo allo stomaco per il nervosismo, mi sento insicuro e solo. Alcuni degli altri sembrano conoscersi bene – quelli che vengono dalla scuola Preparatoria di Mariatorget. Cerco invano qualche volto familiare della scuola Katarina Norra. L’ atmosfera è in parte di oscura inquietudine e in parte di attesa e speranza.
(…) Ogni mattina tutti gli scolari si riunivano nell’ aula magna, cantavano salmi e ascoltavano la predica di uno degli insegnanti di religione. Poi si andava nelle rispettive classi. L’ atmosfera collettiva del liceo classico di Söder è immortalata nel film Spasimo (girato nel 1944, era ispirato agli anni dell’ adolescenza di Ingmar Bergman, sceneggiatore della pellicola, N.d.T.) che fu girato nella scuola in quel periodo. (…) Qualche volta accompagnavo a casa Palle. Era Palle in effetti il mio miglior amico il primo anno. Avevamo molte cose in comune: suo padre era molto assente – era marinaio – e lui era figlio unico di una mamma gentile che pareva sempre contenta di vedermi. Come me Palle aveva sviluppato un sacco di manie da figlio unico, viveva per i suoi interessi. Era soprattutto collezionista. Di cosa? Di tutto. Di etichette di birra, scatole di fiammiferi, spade, asce, francobolli, cartoline, conchiglie, oggetti etnografici e ossa.
(…) Di Palle, che è morto quarantacinque anni fa senza diventare adulto, mi sento coetaneo. Ma i miei anziani insegnanti, «i vecchi» come venivano chiamati tutti quanti, rimangono vecchi nella memoria, anche se i più anziani di loro avevano l’ età che ho io adesso mentre scrivo queste righe. Ci si sente sempre più giovani di quanto non si è. Dentro di me porto tutti i miei volti passati come un albero i suoi cerchi. La loro somma sono «io». Lo specchio vede solo il mio ultimo volto, io sento tutti i miei precedenti. Gli insegnanti che occupano più spazio nella memoria sono naturalmente quelli che creavano un’ alta tensione, gli originali più pittoreschi. Non erano la maggioranza, ma comunque molti. In alcuni c’ era un che di tragico che anche noi potevamo intuire. Una situazione di sofferenza che appariva così: io so che non potrò essere amato da queste invidiabili teste di cavolo che ho davanti, ma farò almeno in modo di restare indimenticabile! (…) Ero uno studente discreto, ma non uno dei migliori. Biologia avrebbe potuto essere la mia materia preferita. Ma ebbi un insegnante troppo particolare per la maggior parte della scuola superiore. Una volta aveva commesso qualcosa di irrimediabile, era stato ammonito e ormai era un vulcano spento. Le materie migliori per me erano storia e geografia. Avevo per insegnante non di ruolo Brännman, un giovane rubicondo, energico, con i capelli chiari e lisci che avevano tendenza a drizzarsi quando si arrabbiava, il che avveniva abbastanza spesso. Era pieno di buona volontà, mi piaceva. Scrivevo sempre temi su argomenti presi da storia e geografia. Erano sempre temi lunghi. A questo proposito ebbi modo di sentire molto tempo dopo una storia da Bo Grandien (scrittore e giornalista svedese, N.d.T. ), anche lui studente del liceo classico di Söder.
Bo diventò mio grande amico negli anni del ginnasio, ma alle medie non ci conoscevamo. Bo mi raccontò che aveva sentito parlare di me la prima volta passando vicino a un gruppo di miei compagni di classe durante un intervallo. Ci avevano appena restituito i temi ed erano scontenti dei loro voti. Bo udì l’ irritata replica: “Mica tutti possono scrivere in fretta come Tranan! (soprannome dato dai compagni a Tranströmer, significa “la gru”, N.d.T. )”. Bo aveva dedotto che Tranan fosse un tipo detestabile che bisognava evitare. Per me questa storia è in qualche modo consolatoria.
Attualmente noto per la mia scarsa produttività, ero allora evidentemente conosciuto come scrittore lampo, uno che peccava per troppa produttività, uno stakanovista della parola…
TOMAS TRANSTRÖMER
(Traduzione di Enrico Tiozzo)
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GR
Alfredo de Palchi
“una linea dantesca? Il petrarchismo come malattia congenita del corpo della Tradizione?”
Indubbiamente. È dagli anni 1950 che ripeto la stessa convinzione senza punti di domanda. Il petrarchismo rimane quello del maestro. Quello che ‘poeti’ fanno da sette secoli non è altro che bella calligrafia.I professori meritevoli devono mettersi in testa che l’epoca modioevale-moderna terminò alla fine di aprile 1945.
Contemporaneo è sempre Dante, per questo meno amato di Francesco.
Gino Rago
A Vienna, con Alfredo de Palchi alla Paradeplatz
La Paradeplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.
Francesco Giuseppe è a Trieste, a Piazza dell’Unità.
Il Danubio scorre a Roma, il Tevere inonda le piazze di Praga.
Alla Paradeplatz di Vienna l’Imperatrice danza con l’uomo senza qualità.
Alla fine di un Impero tutto si rimescola, nuvolaglie
nelle arcate del Colosseo.
Alla Paradeplatz Alfredo al Caffè beve un Campari.
La marcia di Radetzky? Un ronzio d’api dall’Adige.
L’artiglieria d’Austria-Ungheria?
Cioccolato fondente nella pasticceria.
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GR
Un piccolo contributo dal mio libro “Vorrei che quel domani fosse oggi – Riflessi d’amore e vita”
RICONQUISTARE ME STESSO
Intelletto in tumulto,
pensieri che saettano selvaggi senza finalità.
Scompiglio,
sfuggono le briglie della vita.
Un ronzio insopportabile mi sovraccarica.
Ipotesi e paure si scambiano di posto,
come un pendolo che oscilla,
senza decidere da che parte stare.
Terrorizzato che si fermi nel lato sbagliato.
L’ostacolo incontrato è più duro del diamante,
non posso tornare indietro,
scelgo di provare.
Mi sbriciolo in evanescenti particelle.
Rimane solo un accenno di consapevolezza,
nel crepuscolo della ragione.
raccolgo la mente in un’arca,
proteggendo il mio essere dal clamore furioso.
Accucciato nella sua capiente stiva.
E attendo soluzioni per svellere i vincoli,
indizi che solo io posso scorgere.
Schegge tra le pliche del tempo.
Frammenti da ricomporre.
Risolvendo l’enigma soffocante,
sino a scioglierlo in uno sbuffo di fumo.
Una poesia alla maniera di Tranströmer
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/10/05/linconscio-il-suo-emergere-nella-poesia-moderna-poesie-di-alfredo-de-palchi-tomas-transtromer-carlo-livia-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-38371
Io e il mio sosia eravamo in una grande piazza
una folla variopinta si era radunata,
pesci rossi nuotavano nella boccia di vetro
e ci guardavano con curiosità.
Penso seriamente che un vero poeta dopo aver letto le poesie di Tranströmer dovrebbe smettere di scrivere, oppure, dovrebbe cambiare mestiere…
Oppure chiedergli consiglio. Tempo fa lo immaginavo di spalle, anziano, sdraiato sull’erba nel giardino di una casa che non mai visto. Adesso entra educatamente dalla porta di casa mia; io aspetto, non penso ( lo so fare); potremmo stare così per ore; finché lui dice: scrivi come un capriolo stonato.
io ero il mio sosia,
sempre insieme per ogni avventura
avevamo provato ad essere una piazza,
una folla variopinta o dei pesci rossi
ma ci è solo riuscito di diventare
la curiosità che nuota dentro la boccia.
Ben detto!
Ho un ricordo, perso in un’epoca della mia vita tempestosa, dovevo difendermi in tre procedimenti penali che un procuratore mi aveva allestito contro… stavo cercando una casa in affitto o da comprare a Pistoia, dove all’epoca abitavo…
Ricordo di essere entrato in un ufficio di una Banca presso la quale ero andato a chiedere un prestito. Ecco il ricordo:
Una grande sala illuminata, bianca.
Al centro una scrivania in radica, una sedia.
Il pavimento è in candido marmo, penso di Carrara.
Un signore vestito di bianco è in piedi, mi aspetta.
Entro nella sala. Silenzio assoluto. Avverto lo scricchiare
delle scarpe sul pavimento. Sono in ascolto.
Sono passati 38 anni e ancora non sono sicuro se si tratti di un ricordo o se sia stato un sogno. Ancora oggi ci torno sopra con la memoria ma non so darmi una risposta esaustiva.
Dopo tanti anni di ricerche sono arrivato alla conclusione che si sia trattato di un sogno e che la mia coscienza lo abbia archiviato come «realtà», scambiando di posto il sogno con la realtà. E che in questo «scambio» ci sia un «mistero». Un Enigma. Come sia avvenuto questo scambio e perché, me lo chiedo spesso ma non sono riuscito ad arrivare ad alcuna conclusione. Sì, forse una ce l’ho: che l’origine delle mie metafore abbia avuto l’abbrivio lì, in quella zona, diciamo, di «scambio».
Senza saperlo e senza volerlo è li che sono «diventato» poeta, cioè una persona che commercia normalmente con le metafore. Fu a quell’epoca, o poco dopo, che a Venezia, un giorno una signora distinta mi fermò per la via e mi abbracciò salutandomi con affetto. Io rimasi sorpreso. Lei mi chiamò per nome, ma era il nome di un altro. Io replicai semplicemente che l’Altro non ero io e lei, osservandomi attentamente in viso, mi disse: «ma lei è uguale ad un mio carissimo amico con cui sono stata anche ieri! Siete due gocce d’acqua!».
L’evento mi sorprese. Quindi in giro per Venezia c’era il mio sosia che conduceva la sua vita senza sapere che il suo Alter-Ego anche lui stava a Venezia e viveva e camminava per le calli senza sapere dell’esistenza del suo sosia.
Io e il mio sosia eravamo in una grande piazza
una folla variopinta si era radunata,
pesci rossi nuotavano nella boccia di vetro
e ci guardavano con curiosità.
Ad una conclusione però sono arrivato, che noi tutti viviamo all’interno di un ologramma, che l’universo è semplicemente l’effetto di due specchi che si riflettono a vicenda. E noi siamo l’effetto di quel rispecchiamento, Non c’è nulla di bizzarro in tutto ciò, né tanto meno di mistico. Tutto quello che c’è tra i due specchi è tutto ciò che c’è nell’universo. Un effetto di specchi, l’uno di fronte all’altro. Due specchi che riflettono il vuoto.
L’io dunque è ridotto alla istantaneità della presenza, all’istantaneità della sua voce
impalcatura di quello che un tempo lontano è stato il «soggetto», ombra ormai non più desiderante del «soggetto» antico, quello rammemorante della perduta elegia che ha abitato con lustro il Novecento (da Pascoli a Bertolucci fino a Bacchini e odierni epigoni). Quell’io che aveva assunto con Cartesio quella dimensione inaugurale della modernità in cui pensiero ed essere si congiungevano sotto il regime della rappresentazione, come già aveva ravvisato Heidegger, quell’io è definitivamente tramontato, è subentrato al suo posto un io dimezzato, declassato, infermo, parziale, in frammenti, in derelizione. E quindi, proprio in ragione di ciò, in preda al proprio delirio di onnipotenza.
La questione la solleverà Lacan, non tanto nel negare l’era della rappresentazione dell’essere, quanto nel ribadire che è proprio con l’avvento «storico» di questa era che il soggetto si configura come quel momento di divisione, di scissione tra pensiero ed essere, tra essere e rappresentazione e di occultamento che Freud e la psicoanalisi erediteranno. L’istantaneità, l’abitare il presente assoluto del soggetto post-lacaniano altro non è che la prefigurazione della necessità di sottrarre il soggetto stesso a quella condizione definita da Lacan la «beanza», ovvero, in termini heideggeriani, la piena identificazione del soggetto con l’essere.2]
In fin dei conti, sia l’io che il non-io, i personaggi pronominali acquistano rilievo linguistico dalla divaricazione che si è aperta tra linguaggio ed essere.
È caratteristico che in un certo tipo di scrittura poetica i «soggetti» acquistino senso all’interno dell’organizzazione frastica da una sintassi fortemente condizionata dall’attrito tra il discorso indiretto (prevalente) e quello diretto (episodico), con tanto di ironico distacco dell’io che enuncia dall’enunciato.
Per concludere, direi che il garante di tutta l’operazione stilistica è caratterizzato dalla consapevolezza della mancanza ontologica di ogni rappresentazione linguistica del cosiddetto «reale», che non c’è più un garante, che lo stile non può più fungere da garante di qualsivoglia operazione scrittoria.
1] “L’enunciazione è l’istanza linguistica, logicamente presupposta dall’esistenza stessa dell’enunciato […] che promuove il passaggio tra la competenza e la performance linguistica […] l’enunciazione è chiamata ad attualizzare lo spazio globale delle virtualità semiotiche, cioè il luogo delle strutture semio narrative […] allo stesso tempo è l’istanza di instaurazione del soggetto (dell’enunciazione). Il luogo, che si può chiamare l’ «Ego, hic et nunc», è prima della sua articolazione semioticamente vuoto e semanticamente (in quanto deposito di senso) troppo pieno: è la proiezione (per mezzo delle procedure di débrayage) fuori da questa istanza degli attanti dell’enunciato e delle coordinate spazio temporali, a costituire il soggetto dell’enunciazione attraverso tutto ciò che esso non è”.
A.J. Greimas, J. Courtes, Sémiotique. Dictionaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979; a cura di Fabbri P., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007, pp. 125-126.
2] E. Benveniste Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Saggiatore Economici, 1994. Si veda in particolare il saggio dedicato alla funzione dei pronomi pp. 301-8. 114 M. Heidegger, Moira, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 2007 (3a ed.), pp. 158-75.
Penso anch’io che non ci sia nulla di bizzarro o di mistico in tutto ciò. Del resto la parola mistico in sé non dice nulla, se non che si sperimenta qualcosa che sembra inconsueto all’esperienza sensibile. Ad esempio nei sogni appaiono spesso facce di persone sconosciute, ma questo accade anche nella vita reale, basta uscire di casa e volenti o nolenti incontreremo persone sconosciute. Non ci facciamo caso ma i sogni ne saranno pieni. L’inconscio è in certo senso il diario di bordo della nostra mente. Ne parlo perché ci ho lavorato molto, sia con la meditazione che servendomi della piscoterapia. Sono due discipline, anche queste per nulla bizzarre o mistiche spirituali. Nella prima la mente viene osservata in toto, nella seconda la si mette in gioco. La psicoterapia, ma anche la psicanalisi tradizionale, è funzionale alla meditazione. A me interessava, nella poesia di Tranströmer la contemporaneità dei due avvenimenti, come nel tuo caso l’ambiente e la situazione in cui ti venisti a trovare. In Tranströmer assistiamo al momento in cui i due eventi coincidono; qualcosa che può far pensare al sogno ad occhi aperti ma non è così: nella sua poesia vita reale e percezione inconscia accadono nello stesso momento, solo che una esclude l’altra – se Orfeo si volta Euridice scompare – e bisogna essere proprio bravi per vederle entrambi. Ma in poesia si può fare.
Caro Lucio,
condivido. Sto mettendo mano a una mia raccolta inedita. La sto riscrivendo in distici, ma riscrivendola mi sono accorto che la struttura in distici mi obbliga a rivedere spesso la disposizione dei versi e correggere tutta la punteggiatura! – Incredibile. Ecco cosa volevo intendere quando dicevo che la struttura in distici è costrittiva e usavo la parola «severità» di quella griglia. La struttura in distici ti obbliga a ripensare lo scorrimento frastico e a correggere la punteggiatura.
Fatto sta che una poesia non deve essere affatto pensata già imbalsamata nella struttura in distici, altrimenti l’effetto sarebbe superficiale, ne verrebbe fuori una musichetta meccanica, sempre quella. La bellezza della struttura in distici è data proprio dalla sua inapplicabilità a una poesia tradizionale che abbisogna di strofe o di uno strofone…
La struttura in distici cambia l’assetto strategico della poesia, perché è una struttura antichissima, precedente ai poeti elegiaci di età romana, probabilmente risalente agli albori della poesia scritta, a quegli abracadabra con cui gli sciamani usavano condire le loro formule magiche. ha una sua storia che travalica la poesia della nuova ontologia estetica, la forza, preme dall’esterno…
Avevo sollevato qualche obiezione in questo senso quando iniziammo a parlare di distici, proprio a proposito della musichetta meccanica. Ma giungevo a dire che l’adozione del distico avrebbe finito col condizionare l’atto del concepimento. Oggi ne sono contento, a patto che non si torni al metro. E’ lì che secondo me bisogna stare attenti, almeno per chi come me avesse tendenza a chiudere. Quindi, mi sono detto, si baderà a dare al distico libere misure.
Sebbene la tentazione è forte, se in pasticceria si trovano anche monostici e terzine… Però va bene, se la struttura è antichissima facciamo un triplo salto mortale nel tempo, antecedente a Dante, a salutare gli sciamani, nostri amici e fratelli.
Caro Giorgio, oppure ( se autentico) proseguire nella propria evoluzione. L’uno non può essere eguale all’altro, o escluderlo.
Vivaci agitavano le pinne,
percorrendo itinerari concentrici.
Lungo l’orlo degli opposti universi.
Aprivano e chiudevano la bocca,
una volta scoperto l’occulto segreto.
Io sono materia
il sosia è riflesso.
caro Giuseppe Tacconelli,
con questa poesia a mio avviso tu hai compiuto un notevolissimo salto di qualità. Non posso che augurarti di continuare così. Nella brevità c’è più sugo, più concentrazione di pensiero e di azione.
Amico mio ti ringrazio, sei molto gentile. Ho utilizzato a volte, nel mio modesto procedere, versi più asciutti a seconda della necessità d’espressione. Però non mi sento a mio agio nello strutturare sinteticamente in ogni situazione, è una necessità mentale a sviscerare il pensiero. Ciò mi ha reso alcune soddisfazioni che ovviamente non mi fanno sentire tecnicamente arrivato, sono tutti punti di ripartenza verso il miglioramento. Raccolgo quindi l’indicazione e ripongo tra i preziosi suggerimenti.
Fredda
brilla di sole freddo al mattino
la zolla capovolta
con svolazzi di passere
su mucchi di letame che fumano l’odore
astringente
intorno gli spineti fioriti di ghiaccio sulle spine
i cortili medievali
che ti svuotano ai campi dove nei solchi
calchi il brulichio di verminai
di semenze
che a caso crescono gramigne
fiori campestri
spighe di grani selvatici
e papaveri per sfogliarsi
alla tua presenza losca di nero
nella calura che vibra
di clangori
dissonanza d’ogni
città al di là del fiume.
(4 dicembre, 2006)
Per una analisi approfondita dei versi di Alfredo de Palchi, come in questo testo apparso in Feomina tellus, 2010 Jocker bisogna innanzitutto conoscere il retroterra esperienziale, la storia individuale, il percorso culturale e, in ultimo ma non ultimo, la commistione di tutte queste cose con un fattore misterico che sta alla base dell’alchimia di tutte le componenti.
Il testo esordisce con un aggettivo, “fredda” (aggettivo femminile di freddo) che apre uno scenario simbolico e figurato, perentorio di, in senso figurato, inerzia, senza vita, indifferente, per poi nel verso successivo introdurre un ossimoro “sole freddo” e che continua, l’ossimoro, dilatandosi nel caldo, per poi ancora nel ghiaccio negli svolazzi di “Passere”, allegoria implicita, per finire “sui mucchi di letame che fumano”.
Da qui si aprono strade impervie di psicoanalisi che sarebbe da investigare o comunque tenere a mente fin dall’inizio dell’anadiplosi “fredda-freddo”.
Il testo contiene un insieme di sensazioni e di percezioni, oltre che di immagini figurative di una natura reale, presente e viva nell’immaginario con aperture e chiusure improvvise, si veda ad esempio il termine “astringente”, tanto aggettivo in connessione con l’odore, quanto, invece, isolato nel verso, come sostantivo, nel qual caso attenuante.
Si percepisce il mantice, il soffio d’aria che si svuota nel corollario naturalistico, metafora di campi brulicanti di sementi, fiori selvatici, ancorché gramigne, spighe, papaveri. Il movimento è dato da una immagine grottesca come il verminaio e “losca di nero”, in un crescendo di calura e di clangori* per finire in una dissonanza, quasi una disarmonia come prodotto finale di un crescendo che, partendo da un incipit fredda-freddo e passando per una simbologia aulica maestosa, termina in un fiume.
caro Talia,
nel tuo incipit dici esattamente questo:”Per una analisi approfondita dei versi di Alfredo de Palchi, come in questo testo apparso su Foemina tellus, 2010 Joker, bisogna innanzitutto conoscere il retroterra esperenziale, la storia individuale, il percorso culturale e in ultimo ma non ultimo, la commistione di tutte queste cose con un fattore misterico che sta alla base dell’alchimia di tutte le componenti”.
Mi sembra, con questa sintesi che tu voglia allacciarti come premessa critica, al mio breve intervento, (sempre se non sbaglio), rispetto al tuo blindamento e premessa .
A dire il vero, mi sono soltanto attenuto all’estetica dei versi di De Palchi e al suo displùvio linguistico, molto diverso da quello realizzato con le opere precedenti (Sessione con l’analista,La buia danza di scorpione, Paradigm).
So che la scelta dei testi è stata una iniziativa presa da Giorgio, e che de Palchi non c’entra niente con questa pubblicazione. Ma atteniamoci ai dati.
Se assembliamo i tre testi esaminando il linguaggio, lasciando stare le intonacature di vario genere come le assonanze, le dissonanze,
i trasferimenti mentali di vario genere, ciò che differenzia l’esame estetico è soprattutto il confronto con le precedenti esposizioni poetiche attive sul piano propositivo di de Palchi, rispetto a quanto si legge in questa pagina. Guardando anche la data di composizione dei tre testi, 2006-2009, e avvicinandomi al concetto più ampio che “il fantasma è un personaggio non reale” come dice Linguaglossa, fantasma che trasferisco in questo caso, secondo me, all’esposizione estetica della forma, rispetto alle prime opere, mi viene da dire che de Palchi ha operato una frattura per una retroattiva “Beltà” poetica. Cordialmente.
Caro Mario M. Gabriele,
non era mia intenzione allacciarmi con la mia premessa su de Palchi al tuo intervento che, invece, come sempre, ritengo pertinente. Hai perfettamente ragione quando dici che le poesie di Foemina tellus, 2010 siano diverse (e aggiungo, molto diverse, sostanzialmente e accademicamente) da Sessione con l’analista,La buia danza di scorpione. In Foemina tellus siamo di fronte alla metafora, al simbolismo, al corpo della donna, alla Dea Madre, alla morte, ma nel contempo, se si legge il libro, si noterà che sono presenti tutti i quadri d’insieme della poesia depalchiana: letame, sputi, topi, profferte sessuali, invettive, il tutto compreso tra toni crudi e premesse accademiche (non in senso negativo), o di “Beltà poetica” come tu affermi e come io ho cercato di dire nell’analisi del testo.
A proposito del “blindamento” della mia premessa a de Palchi non ho capito cosa intendi.
caro Talia,
il termine “blindamento” da me usato, nasce dopo aver letto la tua introduzione, quando scrivi: “Per una analisi approfondita dei versi di de Palchi bisogna innanzitutto conoscere il retroterra esperenziale il percorso culturale “, cosa che ha determinato in me una sorta di “censura”. (E’ stata, perdonami, solo una sensazione) L’esame obiettivo ha riguardato tre poesie e come queste ultime si inseriscano nell’evento temporale di ieri e oggi, determinando un cambio di rotta del linguaggio e delle situazioni venutesi a realizzare a seguito di un “rallentamento” estetico rispetto alle proposizioni precedenti.Spero con questa nota di trovarti d’accordo e di essere stato preciso nel chiarimento. Un cordiale saluto.
Caro Gabriele.
la premessa ai versi di de Palchi è quasi un format. Mi spiego meglio con questo esempio: Per una analisi approfondita dei versi di de Palchi, Mario M. Gabriele, Giorgio Liguaglossa, Steven Greco, Mayoor Tosi, Talia ecc.., come in questo/i testo/i apparso in XXX bisogna innanzitutto conoscere il retroterra esperienziale, la storia individuale, il percorso culturale e, in ultimo ma non ultimo, la commistione di tutte queste cose con un fattore misterico che sta alla base dell’alchimia di tutte le componenti.
E’ indubbio che la storia personale di de Palchi sia un favore scatenante, un trauma primario e originario, allo stesso tempo anche la nostra storia personale (mia, tua, di Grieco di Tosi, di Linguaglossa) lo è per parte.
Ma nel caso di de Palchi la storia personale rappresenta la centralità, o meglio la poesia di de Palchi è credibile a partire da questo assunto. E’ un riscatto, un colpo di reni, una voce fuori dal coro, un dire: se voi pensate questo, io vi dico quest’altro. De Palchi dalle regole ha fatto una non regola.
Ognuno di noi ha una esperienza diversa, con molti/pochi traumi lievi o profondi. Ma sono i traumi? Nel qual caso ne ho uno di pesante, non pesante però come quello di de Palchi, e riguarda il padre.
Boh, l’alchimia, le occasioni, anche il non aspettarsi niente e non fare niente oltre quello che si è fatto, scrivere , finché morte non ci separi.
E si scrive di noi stessi.
Mi accorgo del mio sessismo di rimando, quindi devo riformulare.
“Per una analisi approfondita dei versi di Anna Ventura, Letizia Leone, Costantina Giancaspero, Busacca, Stecher Achmatova, Rosselli, Gaspara, Insana, Bettarini, Zanovello…
Non so se la poesia di Livia sia composta di una parte diciamo nella forma di prosa e una parte in versi, la commistione in questo caso disorienta, ma nella parte in così detta prosa poetica, ravviso nell’elencazione un mondo liviano da interrogare. Mi verrebbe da chiedere, innanzitutto, perché i cavalieri sono feriti e le donne sono di marmo? Classica immagine del bimbo addormentato, rossori e peccato e sospiri rimandano a una tradizione ottocentesca alla Keats, alla Wuthering Heights, mentre terrore tinto di corallo è molto splatter, cosi come è prezioso il verso “un’aurora malata d’ardesia”. La luce eterna è un classico dei filmoni sulla bibbia e il resto, mi si perdoni inutile.
Penso che Carlo Livia tenti una operazione molto problematica. Condivido i rilievi espressi da Giuseppe Talia, penso che Livia voglia omogeneizzate in un unico stile composito gli stilemi di Wuthering Heights, Keats, i Prerafaelliti, la tradizione ottocentesca con i mottetti di Cioran e il surrealismo… certe aggettivazioni rendono palese questo indirizzo… si tratta di un tentativo molto periglioso, in questo tipo di costruzione è facile slittare su un aggettivo o su un sostantivo abusato, si tratta di un congegno linguistico che richiede una padronanza assoluta (o meglio, una abitazione) di vari universi lessicali.
Per quanto riguarda le tre poesie di Alfredo de Palchi, la scelta è stata tutta mia, me ne assumo la responsabilità, l’autore non sa nulla, come nulla sapeva Carlo Livia che avrei inserito quella sua poesia e non un’altra. Di solito nelle mie escursioni teorico critiche mi appoggio a certi testi per rendere evidente il percorso di pensiero che sto tentando, si tratta di spunti, di tentativi, anche improvvisati che spero mi si perdoneranno, ma la bellezza dei commenti e del blog è proprio questa, affrontare le sollecitazioni che il presente ti porge…
Un “io” molto solido quello di Alfredo De Palchi, in apparente contrasto con il fantasma di cui si sta trattando. Ma fantasmatica è la rievocazione di persone e luoghi, alla maniera sua dell’horror. Anche qui il segno strattona il linguaggio ma è vero che qualcosa si è perso nella forma tradizionale. Però capita a tutti di fare ogni tanto un acquerello.
Prendo dalla poesia “Seminario di sogno” (Poesia dal silenzio, ed. Crocetti) le parti che ho trovato più incuriosenti, relativamente all’inconscio e allo stato onirico:
(…)
Accade che ti addormenti a teatro.
A metà dell’opera cadono le palpebre.
Un attimo di doppia esposizione: là davanti
la scena è traversata da un sogno.
Poi la scena scompare, la scena sei tu.
Il teatro nella profondità autentica!
(…)
Una vertiginosa commedia che si stampa
davanti alle mura claustrali delle palpebre.
Esemplare unico. E’ qui, proprio ora!
(…)
C’è un sognare fuori-raggio-visivo
perennemente in funzione.Luce per altri occhi.
Una zona dove pensieri striscianti imparano a camminare.
Qui si parla del fenomeno della doppia esposizione. Non so dire se si tratti dello stato preconscio, penso di sì. L’immagine onirica prende il posto dell’immagine reale, ma è sembra reale anch’essa. Chi avesse familiarità con il proprio inconscio – non come lo sprovveduto Orfeo, troppo sentimentale – potrebbe chiedersi onestamente quale delle due realtà sia quella vera, o se siano vere entrambe. Il fenomeno della “doppia esposizione” è comune a tutte le persone, senza che lo sappiano, ad esempio nel prefigurare una situazione… ma nel caso specifico, Tranströmer tratta del trasferimento da una realtà all’altra, e del fatto che possiamo assistere a questo avvenimento a patto che l’io non si identifichi, con nessuna delle parti, ma sia un osservatore terzo; come a teatro, appunto, lo spettacolo unico di noi stessi e della rappresentazione: perfetta descrizione del tempo interno esterno, più i relativi universi…
Grazie, Giorgio, per la lettura, preziosa e illuminante come sempre, del mio testo. Il problema, in questa dimensione espressiva, non è solo nella difficoltà di tradurre in strutture linguistiche, più o meno decomposte e deformate, immagini e referti semanticamente ciechi dell’inconscio, ma soprattutto nella possibilità di aprirsi un varco per scandagliare la dimensione inconscia. Sciamani, profeti e poeti d’ogni epoca e setta hanno tentato in tutti i modi di raggiungere l’ecstasis, con danze, musiche, ebbrezze e droghe, per connettersi alla trascendenza, divina o ctonia, spirituale o infrapsichica, secondo i paradigmi.
Ma perché “il sogno rivela la realtà che l’idea si lascia molto indietro” ( Kafka)? O, in fonemi nicciani, perché l’arte vale più della verità. Rimbaud ha scritto: non è corretto dire “io penso”, ma “sono pensato”. Si tratta, come notò Croce, di un’esperienza spirituale nuova, che sovverte e dilata codici e assiologie tradizionali, del tutto eteronomi a questa dimensione.
Per rispondere a Talia, direi che è inutile cercare un senso razionale, concettuale in icone e metafore oniriche che tentano di sovvertire l’uso strumentale, normativo e dominatore del linguaggio, per farsi ascolto e accoglienza, preservando il mistero e la trascendenza dell’essere:
“La poesia è l’amore realizzato/ del desiderio rimasto desiderio”
( René Char )
Caro Livia,
se affermi che “è inutile cercare un senso razionale, concettuale in icone e metafore oniriche che tentano di sovvertire l’uso strumentale, normativo e dominatore del linguaggio, per farsi ascolto e accoglienza, preservando il mistero e la trascendenza dell’essere”, mi metti in una posizione spiacevole: da una parte mi dici che tutti i miei strumenti sono spuntati o inservibili perché inutili in quanto mediati dal linguaggio, quindi da norme e regole e che invece la trascendenza con il mistero e le metafore iconiche e oniriche sovvertono il senso razionale in “un desiderio rimasto desiderio”.
Interessante. E anche divertente.
Ecco perché nutro forti dubbi sul surrealismo, da sempre.
“Una voce, colma di cielo, pronunciò il mio nome.”
Fateci caso, nei sogni sono quasi sempre gli altri a parlare. Noi assistiamo, ascoltiamo, vediamo, proviamo emozioni. I rapporti di forza si invertono, l’io che nel conscio pensa e decide, nell’inconscio resta in balia degli eventi, ammutolisce. L’azione ci desterebbe. Ma di fatto è così nella vita: può non sembrare ma è più il tempo che trascorriamo soli e in silenzio di quello che spendiamo in chiacchiere. L’inconscio riflette senza limiti solo il reale.
Nella poesia di Livia è facile immaginare che la voce di mamma abbia sussurrato il suo nome. E’ il primo regalo che ci viene fatto, quello che si dà normalmente ai cuccioli. E’ il seme dell’identità, ma anche dell’io… sicché fermarsi all’io è un po’ come restare all’infanzia.
Non entro nel merito ma la forma a elenco a me piace molto, se ben spesa. E’ frammento allo stato puro. Divertente il fatto che Livia gli abbia dedicato la pare in prosa, e abbia messo in poesia quella, diciamo così, ordinaria. Immagino ci stia lavorando.
Di soppiatto nel delirio eloquente
rabbrividisce un segno che indelebile
sovverte la catasta. Hai messo mano
alle ingiustizie, forzandone il feretro.
Bianco o nero è facile temporalizzare ora.
I cavalieri stanchi saltellano ad elle
lontano negli steccati dove appaiono in lontananza le fiere alterne.
GRAZIE Grande OMBRA.
Di soppiatto
rabbrividisce un segno.
Sovverte la catasta.
Un quasi haiku.
GRAZIE Pierno
Servono nuove partiture
(…)
«Una vera poesia si è vista passare
a Stoccolma, nel lontano 2011».
Le gambe delle ragazze prendono
in giro gli insegnanti.
Si potrebbe dire che è presto. Come
sur la Croisette, quando ancora
non passa gente. Sul mare un vascello
pieno di stoccafissi.
May – ott 2018
Quando torni dai cancelli d’Africa
nelle savane stanche
resti maleodoranti affrettano il dolore.
La carne è debole!
Creme strofinate a forza per resistere.
GRAZIE OMBRA.
http://www.journal-psychoanalysis.eu/dodici-domande-su-psicoanalisi-e-filosofia/
Intervista a Felice Cimatti (Università della Calabria) sul rapporto tra la psicoanalisi e la filosofia
I. Che cosa della psicoanalisi interessa lei filosofo, oggi, e perché?
Posso rispondere a partire dal mio lavoro ‘filosofico’. Mi occupo di linguaggio, e soprattutto del modo in cui il linguaggio, in tutte le sue forme, modifica il corpo umano. Prima vorrei però provare a rispondere a una domanda che non è stata posta, ma che è dietro questa stessa domanda: perché si chiede alla filosofia la ragione del suo interesse per la psicoanalisi? Perché non dovrebbe interessare un filosofo, il discorso psicoanalitico? E viceversa, naturalmente. Come se psicoanalisi e filosofia fossero pratiche e saperi vicini, ma non coincidenti. In generale credo che psicoanalisi e filosofia siano due forme di esistenza (forme-di-vita, usando l’espressione di Agamben ripresa da Wittgenstein) che, per il loro carattere intrinseco, non credono al loro tempo. Sono inattuali. Per questa ragione sono spesso criticate per non avere un oggetto preciso, per non essere abbastanza scientifiche, per essere troppo astratte. In questo senso forse sono accomunate da qualcosa di simile, una stessa esigenza difensiva. Per questo si cercano. Più in generale la psicoanalisi può servire alla filosofia per introdurre nel suo campo qualcosa che sfugge alla presa della ragione e del calcolo. Credo che ogni filosofo, che non sia un ‘semplice’ filosofo disciplinare, come un filosofo della biologia o della musica, ma voglia rimanere nell’ambizione della filosofia, dovrebbe comunque passare prima o poi per la psicoanalisi. Passare per l’inconscio vuol dire questo, passare per la lacuna del pensiero, per i suoi buchi, le sue esitazioni. Naturalmente si può parlare dell’inconscio solo in modo rigoroso, almeno per me il modello inarrivabile è il Tractatus. Credo che solo i logici possano davvero apprezzare la poesia, e quindi l’inconscio. Io purtroppo non sono un logico.
Tornando ora alla domanda, mi interessa la psicoanalisi, quella lacaniana in particolare, perché è quella che più di ogni altro riflette sul “mistero” del linguaggio (la formula è di Chomsky; a proposito, temo che parlare di linguaggio senza avere attraversato Chomsky sia inutile; Chomsky è il Lacan della linguistica, nonostante quello che pensa di Lacan). Mi interessa il fatto del linguaggio, in particolare il nucleo ricorsivo e sintattico del linguaggio; il ’900 è il secolo che ha scoperto che il linguaggio non né semantica né pragmatica, bensì logica (Wittgenstein), forma (Saussure), significante (Lacan), sintassi (Chomsky). Mi interessa allora capire come cambia il corpo di un animale altrimenti molto simile a un qualunque mammifero, l’effetto dell’essere infettati dal virus del linguaggio (immagine di Deacon). Come cambia il corpo umano? Quali pensieri può pensare? Quali emozioni può provare? Anche il mio interesse per l’animalità, da questo punto di vista, incrocia questa domanda, perché l’animale è un vivente non infettato dal linguaggio. Al contrario, il divenire-animale di cui parlano Deleuze e Guattari è il problema dell’animale umano, che è umano perché non è mai stato un animale. Psicoanalisi per me significa: corpo + linguaggio = ?
II. Quale contributo filosofico alla psicoanalisi lei considera tra i più significativi, almeno per il Suo approccio alla psicoanalisi?
La filosofia che mi interessa è quella che affronta la questione di cui parlavo nella risposta alla prima domanda. Quindi Wittgenstein, soprattutto. Poi la linguistica, ma soprattutto quella chomskyana, che mi sembra quella teoreticamente più interessante. Poi mi interessa la filosofia di Deleuze, sempre di più, perché è l’unico filosofo davvero importante che non sia passato, nel ’900, per la svolta linguistica, in base alla quale tutti i problemi filosofici andavano affrontati a partire dal linguaggio. Almeno per me Deleuze è stato il risveglio dal sonno dogmatico del linguaggio come organo del pensiero. Penso invece che l’ermeneutica e il decostruzionismo non abbiano molto da dire alla psicoanalisi. A me interessa la psicoanalisi come pratica formale, sintattica, effetto di significante. La psicoanalisi che mi interessa è quella lacaniana, che alla fine ha un solo problema, sbarazzarsi del senso. Quindi tutte le filosofie del senso non mi interessano, tutte le filosofie che non hanno bisogno del senso mi interessano. Penso, a questo riguardo, che la psicoanalisi – soprattutto quella lacaniana, quella che parla sempre del significante – potrebbe occuparsi anche di certe pratiche scientifiche che programmaticamente non hanno bisogno del senso, ad esempio l’etologia e la psicologia comportamentistica. Skinner è il grande incompreso della psicologia, ma la sua psicologia ha moltissimi punti di contatto con il progetto lacaniano. Penso infine che Agamben, per quanto si occupi molto poco di psicoanalisi, avrebbe molto da dire agli psicoanalisti.
III. A parte Freud, c’è qualche altro psicoanalista che secondo lei influenza in modo proficuo una riflessione filosofica sulla psicoanalisi?
Ho già risposto, Lacan soprattutto. Ma non perché Lacan parli spesso di filosofia, perché Lacan pensa in modo rigoroso e conseguente la questione del linguaggio e del suo impatto sul corpo umano. Non sono molti gli psicoanalisti con lo stesso rigore, almeno quelli che conosco io. Poi mi interessano gli psicoanalisti che seguono la linea di Melanie Klein, quindi Winnicott e Bion, soprattutto. Mi piace molto anche Laplanche, che però, in fondo, sviluppa tesi di Lacan. In generale la psicoanalisi mi sembra ammalata di un doppio morbo, e apparentemente contraddittorio; da un lato cerca continuamente il senso, così si trasforma spesso in una specie di ermeneutica, oppure di fenomenologia (il concetto di “empatia” andrebbe proibito, a proposito). Allo stesso tempo la psicoanalisi spesso “dialoga” (come si dice) con le neuroscienze. Un dialogo inutile, perché neuroscienze significa soltanto: la psicoanalisi è falsa, non ha un oggetto, non ha un metodo. Come se il condannato a morte volesse dialogare con il boia che sta per decapitarlo. D’altronde credo che per molta psicoanalisi valga la sentenza lapidaria di Wittgenstein per la psicologia: metodo scientifico e confusione concettuale. Solo che nella psicoanalisi non c’è nemmeno il metodo scientifico! D’altronde succede la stessa cosa per molta filosofia, che crede che le neuroscienze possano accogliere al loro interno il discorso filosofico. Anche in questo caso non si capisce che le neuroscienze non sanno che farsene della filosofia. Ancora una volta torna la questione della vicinanza fra psicoanalisi e filosofia; forse sono accumunate da una stessa stupidità verso il presente.
IV. Possiamo chiederLe se Lei ha avuto un percorso psicoanalitico, e se esercita come psicoanalista? In ogni caso, come vede quel che accade nella pratica clinica analitica? Ovvero, che cosa veramente accade in una cura?
Sono stato in analisi per circa dieci anni, una psicoanalisi freudiana, l’analista, una donna, interveniva poco, ma nei momenti salienti. Non sono psicoanalista, anche se come tanti per un certo periodo ho pensato di iscrivermi a Psicologia per poter in futuro diventare psicoanalista. Ma visto quello che si insegna a Psicologia, oltre al fatto che non avevo voglia di studiare cose che ritengo sciocche, alla fine – come tutti, o quasi tutti – ho rinunciato all’idea. Che succede in analisi? Non so rispondere, le posso raccontare di alcuni momenti molto belli vissuti in analisi. Lo studio della mia analista era all’ultimo piano di una palazzina di Roma, nel centro storico. Dalla finestra entravano i rumori della città, i versi dei gabbiani, il traffico lontano. Lì sul lettino, l’analista alle mie spalle, fra i pochi momenti della mia vita in cui mi sia sentito al sicuro. In quei momenti, come dice Wittgenstein, sentivo il “miracolo” del fatto che il mondo c’è. La psicoanalisi mi ha permesso quei momenti. E forse mi ha permesso di cercarli anche fuori di lì. L’analista aveva lo studio in una via di un famoso fornaio romano. Tutte le volte che uscivo dal suo studio passavo davanti al fornaio, e mi dicevo che ci sarei entrato solo il giorno che avessi finito l’analisi. Come poi ho fatto. Quindi si potrebbe dire che sono andato in analisi per poter entrare in un negozio di dolciumi. In effetti da allora ci entro spesso!
V. Nietzsche e Freud. Quest’ultimo ammise di non aver mai veramente letto Nietzsche, perché temeva di scoprire che Nietzsche aveva già detto l’essenziale di quel che pensava di aver detto lui. Come vede il rapporto tra Freud e Nietzsche?
Non ho molto da dire su questo punto. Come ho scritto a me interessa il rigore che lascia spazio alla poesia, non sono attratto da subito dalla poesia. Per quanto mi riguarda penso che, almeno nei Dipartimenti di Filosofia, bisognerebbe arrivare a leggere Freud e Nietzsche solo dopo aver fatto esami di Logica, Filosofia della Scienza e di Linguistica. Prima la regola, poi la via d’uscita. Per questa ragione credo Freud avesse ragione. Non si è mai troppo vecchi, in un certo senso, per leggere Nietzsche. In generale provo a leggere Nietzsche come il filosofo del domani, come Foucault diceva di Deleuze. Non è ancora arrivato il tempo di Nietzsche. Mentre quello di Freud temo sia un po’ passato. Almeno il Freud conservatore, il Freud realista, il Freud scientista. Freud però è troppe cose per poterne parlare al singolare.
VI. Sin dagli inizi della psicoanalisi, con Fenichel, Bernfeld, Reich, Fromm ed altri, si è sviluppato un filone freudo-marxista sia tra gli analisti che tra i filosofi, tutt’oggi fiorente. Come va pensato oggi il rapporto tra Marx, marxisti e psicoanalisi?
È un filone che mi interessa molto (ho provato ad occuparmene nel libro La vita che verrà). Credo che questi psicoanalisti siano gli unici che abbiano qualcosa da dire sul nostro tempo. Troppo spesso mi sembra che la psicoanalisi sia diventato un sapere conformista e conformizzante, tranquillizzante (da questo punto di vista è più difficile ‘addomesticare’ Lacan). L’inconscio fa paura, oppure non serve a nulla, anzi, serve per aumentare la produttività in una industria. Certo, si tratta di una prospettiva spesso ingenua (penso in particolare a Reich), e tuttavia è tuttora vitale, anche se mi sembra che non se ne parli più molto. Su Marx, credo che bisognerebbe riprendere la questione della “reificazione”, ma rovesciandola: oggi la rivoluzione passa per l’abbandono di ogni umanesimo, passa per un radicale divenire-animale dell’umano, per un confondersi con il mondo.
VII. Lei crede che la psicoanalisi possa essere uno strumento utile per interpretare i fenomeni politici, sociali e di costume di oggi? In particolare, le differenze di genere, il processo emancipativo delle donne e di persone con orientamenti sessuali non ortodossi? E se sì, secondo quale chiave?
Francamente no. Anzi, tutte le volte che sento parlare di politica o economia usando il lessico della psicoanalisi mi sembra che non si stia dicendo nulla di preciso, e tantomeno di necessario. In particolare mi mettono a disagio le critiche psicoanalitiche del capitalismo contemporaneo, le critiche basate sul concetto di persona, di valore, di socialità umana. Tutti concetti che per la psicoanalisi – in particolare quella lacaniana – sono privi di sostanza. Il soggetto, per la psicoanalisi, non va difeso, semmai va fatto esplodere. Qui, fra l’altro, c’è un equivoco ricorrente: la psicoanalisi prova a portare un essere umano a diventare un corpo, non una soggettività. Questa prospettiva, quella che parla dell’ultimo insegnamento di Lacan (sviluppato soprattutto da Jacques-Alain Miller) come di una ricerca del reale del corpo, viene spesso criticata come una specie di esortazione all’egoismo. Ma l’egoismo è una figura della soggettività. Il corpo non è né egoista né altruista. Il corpo reale, piuttosto, è un corpo che non ha bisogno di nulla, tantomeno delle tanto aborrite merci, cioè delle cose. In fondo le merci fanno paura perché sono cose; ma la psicoanalisi non è un umanesimo, quindi non ha nulla da temere dalle cose.
VIII. Una parte della fenomenologia filosofica si è occupata della psicoanalisi. Anche chi procede sulla scia del pensiero di Heidegger e chi coltiva l’ermeneutica spesso ha tematizzato la psicoanalisi. Che cosa lei pensa di questa “appropriazione” fenomenologica della psicoanalisi?
Un clamoroso equivoco. La psicoanalisi, quella lacaniana almeno, è una faccenda di forme e sintassi. Una fenomenologia psicoanalitica è una espressione autocontraddittoria. Se c’è qualcosa di cui sbarazzarsi è del senso, della soggettività, anche di quella pura, come anche del corpo vissuto. Il significante va preso sul serio. Per questo Lacan è interessante, perché lo prende davvero sul serio.
IX. A partire da Popper, si è sviluppata nel corso dei decenni una corrente di critica radicale della psicoanalisi che ne nega la plausibilità scientifica assimilandola a una mitologia, e contesta la validità della pratica analitica. Come si pone Lei in questo dibattito, se in qualche modo Lei vi si pone?
Roba vecchia, francamente. In generale non vedo perché la psicoanalisi dovrebbe accreditarsi come pratica scientifica. Una pratica può essere efficace e teoricamente salda anche senza essere una scienza. Poi non è chiaro che cosa sia questa “scienza” con cui confrontarsi. Se poi scienza sostanzialmente vuol dire, come credo che non possa non voler dire, matematica ed esperimenti, allora la psicoanalisi non è una scienza, punto. E allora, che succede? Fra l’altro una scienza “vera” è vera proprio perché considera la psicoanalisi una specie di superstizione. Non si tratta di convincere un chimico, ad esempio, che la psicoanalisi è una cosa seria, perché essere un chimico vuol dire: la psicoanalisi NON può essere una cosa seria. Che dialogo si sta cercando, allora? La psicoanalisi deve ritrovare il suo oggetto, che direi, con Lacan, è il corpo affetto dal significante. Questo è il suo oggetto, e lo studia con il suo metodo, associazioni libere e talking cure. Questo non basta per qualificarla come scienza, va bene. Ma chi ha detto che una pratica o è scientifica oppure non ha valore? Questo vuol dire anche, ovviamente, che la psicoanalisi non ha niente a che fare con la psicologia (non dimentichiamo Wittgenstein, metodo sperimentale e confusione concettuale). Questo tocca una questione centrale, che se la psicoanalisi non è una forma di scienza non può più rientrare fra le spese mediche, non sarà rimborsabile dalle assicurazioni e così via. Mi rendo conto che il problema esiste, ma che almeno sia chiaro che è una faccenda di soldi, non di epistemologia.
X. Trova importante che la psicoanalisi oggi si confronti con il sapere biologico (scienze dell’evoluzione, neuroscienze) e con le scienze in generale?
Mi permetto di essere brutale, no. No perché non trova lì le risposte ai suoi problemi, e se ce le trovasse il suo sapere sarebbe ormai inutile, giustamente inutile. Dopodiché, è utile e importante avere una idea realistica e scientificamente plausibile di che cosa sia un corpo vivente, di come funzioni una lingua, come sia fatto un computer e così via. Ma non perché un neuroscienziato abbia qualcosa da dire sulla psicoanalisi. Qualcosa di pertinente e utile, intendo. Se poi uno pensa che la psicoanalisi si occupi di “Io” ed “Es”, ad esempio, e poi arriva uno che dice dove sono localizzati nel cervello, è chiaro che questa non è la psicoanalisi. E se invece la psicoanalisi si occupa di queste entità immaginarie, allora è giusto che sparisca. Si pensi al culto odierno per Darwin, come se nella Origine delle specie ci fosse la risposta per ogni domanda. Questo culto della personalità non ha niente a che fare con la scienza.
XI. Oggi la psicoanalisi si confronta con psicoterapie e teorie rivali – la psicoterapia comportamentale e/o cognitiva, la psicoterapia sistemica-relazionale, e svariati altri tipi di cure. Come situa lei la psicoanalisi in relazione a queste? E in particolare, possiamo dire che la psicoanalisi sia una psicoterapia, e se sì, in che senso?
Domanda tecnica, a cui non penso di poter rispondere in modo adeguato per difetto di competenza. Ci provo comunque. Qui credo che il punto decisivo sia capire di che si occupa la psicoanalisi, quale sia il suo oggetto “scientifico”, nel senso che non c’è una pratica scientifica in senso lato che non abbia un oggetto. Se l’oggetto è genericamente la psiche del paziente, senza altre qualificazioni, il suo disagio, la sua sofferenza, allora credo che su questo fronte la psicoanalisi abbia del tutto perso la battaglia, ma anche la guerra. Le tante psicoterapie esistenti mi sembrano molto più veloci, ed efficaci sul breve periodo (come è tristemente noto sul lungo periodo siamo già morti), per non parlare di quanto sono meno costose. C’è poi tutta la faccenda degli psicofarmaci, che non si capisce perché vengano demonizzati. Non è che la talking cure sia migliore di per sé. Fra l’altro dietro questo pregiudizio c’è un fondo di dualismo, che in uno psicoanalista proprio non dovrebbe esserci. La talking cure è – come hanno sempre saputo i retori – uno psicofarmaco, nel senso letterale che la parola entra nel corpo umano attraverso l’orecchio, e raggiunge il cervello (la “mente”?) attraverso una serie di passaggi materiali, in particolare elettro-chimici. La talking cure può essere curativa proprio perché è materialmente e quindi causalmente efficace, altrimenti non funzionerebbe nemmeno in linea di principio (una psicoanalisi nello spazio extraterrestre è impossibile per motivi fisici). Quindi, qual è il problema con gli psicofarmaci? Veniamo così alla seconda parte della domanda. Se la psicoanalisi ha per oggetto il corpo affetto dal significante, allora non è una psicoterapia, perché non si occupa di rafforzare l’Io, ad esempio, ma nemmeno di rendere il soggetto più forte e capace di sopportare la vita. In questo senso la psicoanalisi non ha nulla da temere dalle psicoterapie, ma solo se chiarisce a sé stessa quello che fa, qual è il suo oggetto, e qual è il suo metodo. Su questo esercizio di autocomprensione, però, sono piuttosto scettico.
XII. Molti filosofi si sono interessati particolarmente al pensiero di Jacques Lacan. Che valore e che senso lei dà al contributo après coup di Lacan?
Ho parlato finora di Lacan, o almeno spero di averlo fatto. Lacan ha rimesso in moto la psicoanalisi, l’ha liberata dall’abbraccio mortale della psicologia e della medicina, le ha dato un oggetto, e un metodo, un obiettivo (liberare il corpo dalla stretta asfissiante del significante). L’unico problema è che mi sembra che anche questa rivoluzione sia stata, come accadde a Freud, riassorbita. I lacaniani, quanto sono ancora lacaniani? Non è in questione la fedeltà al “vero” Lacan, questione ridicola (si pensi agli attacchi vergognosi a cui è stato sottoposto Massimo Recalcati, da parte del lacanismo ufficiale, per dir così). Si tratta di capire quanto Lacan può ancora essere Lacan. Si assiste, mi sembra, a un generale movimento di reazione, nei costumi sessuali, nella politica (nazionalismo, fascismo, razzismo), nella società (ad esempio, nessuno sembra più avere nulla da dire sulla povertà, che ormai non è più sentita come una questione politica, ma un problema di solidarietà, se non di elemosina). In questo quadro la psicoanalisi lacaniana credo sia di fronte alla stessa domanda a cui tutti siamo chiamati: c’è ancora spazio per un pensiero radicale, come quello lacaniano ad esempio? C’è più di una ragione per essere pessimisti. Rimane il fatto che Lacan non si lascia ingabbiare. Per questo non si riesce a smettere di leggerlo.
Mi riesce difficile capire come mai la psicoanalisi non dovrebbe interessare ai filosofi. Mi sorprendere “l’essere” se inascoltato per furor di logica; mi chiedo a cosa possa servire…