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POESIE SCELTE DEL POETA LITUANO EDUARDAS MIEŽELAITIS (1919-1997)  Presentazione e traduzione di Paolo Statuti “L’oceano”, ” Le cascate del Niagara, ovvero a passeggio con Walt Whitman”, ” Iperbole”, “L’Elmetto e il Crespigno”, ” L’uomo”

Eduardas Mieželaitis manifestazione politica comunista Lituania

manifestazione politica comunista Lituania

Dal 1940, anno in cui fu invasa dall’Armata Rossa e annessa all’Unione Sovietica, la Lituania per 50 anni è rimasta separata dal mondo. Moltissimi scrittori furono costretti a emigrare. Ma le idee della libertà e dell’indipendenza, anche se manifestate attraverso allusioni e metafore, sono state sempre presenti nella coscienza degli scrittori di questo paese. Nella produzione letteraria lituana pre-indipendenza (riconquistata nel 1990) prevaleva l’impostazione ideologica. Storie di guerra, dopoguerra e tematiche relative alla realtà industriale. Tra i primi che contribuirono con i loro scritti a liberarsi dal realismo socialista ci furono diversi poeti, tra i quali Eduardas Mieželaitis.
Nacque a Kareiviškis il 3 ottobre 1919 e morì a Vilno il 6 giugno 1997. Raggiunse la notorietà a metà degli anni ’40, diventando uno degli autori più popolari nella Lituania Sovietica del dopoguerra. Poeta di grande talento, svolse un ruolo rilevante nella rinascita della qualità e della struttura lirica della poesia lituana. Amalgamando gli elementi folk tradizionali e le tecniche moderne associate al simbolismo e all’espressionismo letterario, Mieželaitis aspirava a creare una sintesi delle forme poetiche: versi canonici e versi sciolti, prosa e dialogo, musicalità e dissonanza. Egli intendeva la poesia come un mezzo per esplorare il significato e lo scopo dell’arte, e come relazione tra l’artista e la realtà. E’ considerato il principale innovatore nello sviluppo della letteratura lituana.
Esponendo il suo credo in una delle sue biografie, Mieželaitis dice: “Dimmi come consideri l’uomo e ti dirò chi sei. In altre parole – quali sono i tuoi principi umani e quale grado di umanesimo hai raggiunto. Perché l’uomo è un continente inesplorato verso cui punta costantemente l’ago della bussola umanistica.” L’autore analizzando l’uomo rivolge particolare attenzione alle sue mani: se le mani creano, o distruggono. “Le mani – dice Mieželaitis – rivelano l’uomo, dicono tutto di lui. Quanto egli ha creato e quanto ha distrutto.”
Molto belle sono le sue poesie dedicate ad Adam Mickiewicz e a Mikolajus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911) – il Pittore della Musica, molto legato alla Polonia e soprattutto a Varsavia. Di lui Romain Rolland (1866-1944) ha scritto: “Mi è difficile esprimere a parole l’eccitazione che questo straordinario artista ha suscitato in me, come uno che non solo ha arricchito l’arte della pittura, ma che ha anche ampliato il nostro orizzonte nella sfera della polifonia. E’ un continente spirituale del tutto nuovo e Čiurlionis è il suo primo Cristoforo Colombo.” Da alcuni critici egli è considerato un precursore di Kandinskij.
Molti versi di Mieželaitis sono nati dai suoi numerosi viaggi. Dalle impressioni riportate nei suoi viaggi in Italia, scaturiscono le sue personali interpretazioni della pittura e della scultura italiane (Giotto, Beato Angelico, Leonardo, Michelangelo). Il tema dell’eterno circolo della natura (unificazione e differenziazione) nonché nella vita spitituale dell’uomo sotto ogni latitudine, è il costante e inseparabile motivo che svolge un ruolo fondamentale nelle poesie scritte da Mieželaitis nella seconda metà della sua vita.
Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo in particolare: Tėviskes vejas (Vento del luogo natale, 1946), Svetimi akmenys (Pietre straniere, 1957), Žmogùs (Uomo, 1962), Lyriniai etiudai (Studi lirici, 1964), Antakalnio barokas (Il barocco di Antakalnis, 1971), Postskriptumai (Post scripta, 1986).
Presento qui alcune poesie di Eduardas Mieželaitis. Questa volta, non conoscendo il lituano e benché io sia restio a tradurre da una lingua intermedia, mi sono servito della versione inglese non rimata, preferendola a quella polacca, nella quale i poeti-traduttori hanno conservato spesso le rime esistenti, costringedoli in tal modo a creare soluzioni alternative rispetto alla letteralità dei testi originali.
Eduardas Mieželaitis 1

Eduardas Mieželaitis

L’oceano

Oceano!..
Vecchio come il nostro mondo è l’oceano,
anche i poemi che gli hanno dedicato sono vecchi,
eppure è sempre in movimento,
in perpetuo movimento,
e io mi sento come un’isola fusa nel suo stampo.
Lo ammetto, ci ripetiamo, siamo banali,
forse dopo tutto siamo infantili,
ma perché non paragonare la vita umana al mare?
Se le nazioni e la gente sono paragonate a isole,
perché allora non essere avvicinate al mare?
I poeti ci hanno giurato: “La vita è un oceano senza fine”,
ma bagnata nelle pozzanghere delle proprie lacrime.
Perciò noi sveliamo l’ingannevole idea
di navigare soli attraverso l’oceano
dimenticando le nostre paure…

Che incantevole elemento!
Osservando il suo moto che lascia senza fiato,
perfino affrontando i suoi venti vuoi restare,
perché il sapore del suo sale ti affascina,
e l’inno delle sue onde continui a sentire
come in una conchiglia…

Rigirati, oceano!
Tu ancora non hai provato tale libertà e sollievo…
Anche se alcune navi giacciono immobili nei tuoi fondali,
più nuovi vascelli – tuo orgoglio – accolgono la brezza…
Rigirati, o marosi di popolo!
Rigirati, umanità oceano!

Cosa io sono non lo so:
una piccola barca o un’isola, cioè qualcosa di solido,
non importa, o vita diletta, non risparmiare il mio cuore,
percuotilo come roccia con le tue onde senza sosta…

Io ammiro l’elevata umanità oceano,
io mi rallegro dei suoi flutti che lambiscono i continenti.
Che qualche snob tratti pure con scherno questa nozione,
ma per me la vita – l’umanità – e l’agitato oceano
è un’immagine che non invecchia mai,
essa offusca molte altre
tutte apparentemente nuove e audaci…
Rigirati, o mare pieno di vita!
Rigirati, o marosi di popolo!

Guarda, con mani di poetica devozione
noi terremo la madre Terra in movimento,
in perenne movimento…

Eduardas Mieželaitis cover

Le cascate del Niagara, ovvero a passeggio con Walt Whitman

1.
Stretta, come le parole nei sonetti, nella sua cornice di rive,
obbedendo ai canoni, scorre l’epica acqua del fiume,
come gli eventi in perenni poemi, come l’albero
della canoa che portava Hiawatha,
e come il fumo grigio del tabacco contorto dal vento,
che si levava nella quiete del meriggio dal suo calumet;
lenta come un tempo la Santa Maria di Colombo
veleggiava adagio, nella brezza medioevale.
Ed ecco, a un tratto, l’orlo del precipizio…Come un esercito
spinto in flussi umani a una guerra fratricida,
precipita a piombo nell’abisso e con fragore
rombano le trombe marziali.

2.
Ma ora al diavolo l’armonia,
al diavolo i canoni –
nessuna penna potrebbe frenare il ritmo dell’acqua.
Al diavolo i versi,
qui non servono a nessuno,
perché nel chiasso e nel tumulto del torrente
non li sentirebbe neanche il più sensibile orecchio.
Qui i versi devono essere assordanti come il tuono
o, almeno, come salve di cannoni,
perché qui legioni di acqua sfrenata sono in guerra.
Al diavolo anche la logica,
poiché qui prevale l’illogico
e nulla è rimasto delle regole geometriche.

Qui la forza prende il sopravvento.
La brutalità esce furiosa in superficie,
calpestando i deboli coi suoi piedi.
Qui domina una selvaggia massa irrompente,
qui di acqua infuria una guerra civile.

Qui le razze acquatiche
nera e bianca, rossa e gialla si mescolano,
e la democrazia della Natura trionfa.
Acqua e parole
sono bianchi e neri, rossi e gialli democratici
che infrangono l’intera struttura dei vecchi canoni,
infrangono le eterne e armoniose dittature,
creando un caos monumentale.

Qui non udrai mai il flauto del pastore.
Qui i tamburi rombano e le trombe di ottone erompono.
Ma sopra tutto questo inferno pende nell’aria
la colorita armonia del cielo –
l’arcobaleno
che incorona l’argentea testa di Walt Whitman,
il re del caos, il filosofo e il satiro,
mentre dalla sua nivea barba come briciole di pane
si versano sonore parole:
“And mind a word of the modern –
the word En Masse.”

Io dico a Walt Whitman:
una sola parola, come individuo, non ha senso,
perché non può mai vincere in nessuna battaglia.
Oggi vincitrici saranno le parole en masse –
eserciti di parole, brigate e legioni di parole,
movimenti di parole, rivoluzioni e rivolte,
e nascerà una nuova società di parole, parole – democratici,
un nuovo sistema democraticamente organizzato.

Questa cascata di parole
non può più essere stretta
nei confini dei giambi, dei dattili e così via,
perché ci sono troppe parole – intere masse di parole,
e per controllarle altre leggi e sistemi sono richiesti.
I loro versi originano dalle piene del fiume,
dalle raffiche di vento, dal sordo frastuono dei torni
e dallo schianto dei tuoni.
Il loro ritmo è l’asimmetria,
la pulsazione del disordine
che dominano in Natura.
Ma da questo caos emergerà
una magnifica caotica armonia.

E le parole prenderanno il colore da tutte le razze umane,
dalla terra, dall’acqua del mare, dall’erba e dall’acciaio.
E sopra la caotica massa d’acqua del Niagara
splenderà la bianca arruffata testa del vecchio Walt Whitman,
il grande Pan della poesia.

3.
Agghindo i miei versi come una bambola;
le faccio le trecce di rime,
e la lascio andare graziosa e linda,
bene acconciata come la testolina di mia figlia,
in perfetto ordine – una vera bambola.

Ma a volte come un giovane puledro essa scalpita,
all’improvviso prende un’altra strada,
e allora la poesia si scatena,
tanto che neanche Aleksandr Blok
avrebbe potuto tenerla a freno.

Ma ha senso comprimerla in rigidi canoni,
nel loro corto letto di Procuste,
se le metafore si mostrano e i versi ignorano la scansione,
se l’immagine, sguainata la spada, vuole sfidare il canone
e lottare finché uno dei due non soccomba?

Vale la pena restringere l’amplitudine del ritmo?
Dobbiamo sempre seguire la regola comune
e tessere come gli altri bardi – Dio onnipotente! –
continuare a tessere, spaventati dalle novità,
attorno all’asse giambo-trocaico?

Ora ditemi: i fiumi frequentano forse il giambo?
E la brezza si serve dei giambi?
Ditemi: ogni cosa che attraversa il cosmo
sembra forse anche di poco un nostro giambo terrestre
o un nostro trocheo? – ditemi, vi prego!

Allora perché dobbiamo ridurre la scala di un poema?
Lasciamo alla nostra poesia completa libertà.
Agghindo a volte la mia poesia, se necessario,
la pettino, perché sia in ordine, prima di mostrarla!
Ma in realtà la poesia-bambola non fa per me!

4.
Sono tornato alle mie rive, voi direte…
Sì, è vero!
I vortici, la cascata
formano quest’epoca.
Ma tornare dalla cascata
non è come tornare
alla massima velocità della Santa Maria,
o alla canoa di Hiawatha,
o al fumo contorto del suo calumet.

Qui il ritorno
è quello di un cavallo uscito dalla battaglia,
che tende nervosamente tutti i muscoli.
Nel nostro caso, il ritorno è accompagnato
dai ricordi del vortice della cascata.

Un fiume che precipita da un dirupo
scorre più lento, ma non ritorna.
E così noi abbiamo due canuti poli
sulle opposte rive del fiume:
il cieco Omero dai capelli bianchi
e Walt Whitman dai capelli bianchi.

Uno con le sue foglie di lauro,
l’altro con le sue foglie d’erba –
entrambi hanno verdi corone,
e attraverso il Niagara
si tendono la mano.

Eduardas Mieželaitis 2

L’Elmetto e il Crespigno

Accanto a un tronco marcito
Bagnato dall’acqua di una fonte
Un elmetto arrugginisce, afflitto,
E su di esso, temerario,

Come un audace alpinista
Si arrampica un vermetto. Vicino
Un uccellino esamina la spiaggia
Dove pensa di costruire il nido.

Le ultime schegge di ghiaccio
Si sciolgono e si mutano in rivoli.
Ma quale fiore nell’erba
Al vecchio elmetto si stringe?

Da sotto il suo cerchio di acciaio
Lo guarda un fragile crespigno.
Sfioragli il capo con la mano –
E’ vivo – imperituro…

Iperbole

Cos’è il cielo?
Cosa sono le stelle? Non sono semplici occhi blu?
Cos’è la luna? Non è un sopracciglio a forma di arco?
Non sono i tuoi tratti che nella mia poesia nascono
Disegnati nello spazio, e lasciati nei cieli a splendere?

Io disegno nello spazio
Il tuo viso effimero
Dalle stelle, dall’aria – con le tinte del tramonto,
Coi trilli dell’usignolo – una parodia
Di un poeta bambino che piange tristemente.

Disegno
Il tuo viso effimero dal nulla,
Dallo spazio, dal tempo, dai fulgidi tragitti degli uccelli,
Dai suoni, dal lampo, dalla pioggia, dal vento, dalla neve
E dai più astratti punti nel labirinto delle galassie.

Io posso sentire
La tua liscia pelle dipinta coi colori dell’aria,
Il mio occhio è attratto dal blu del tuo sguardo,
Il mio quadro ha il tuo profumo – il profumo
Del lillà che danza al chiaro di luna.

Ho appeso il ritratto
Qui, nel mio solaio,
E lo imploro di restare, come sogno che svanisce.
No, non è poeta chi non deruba i cieli,
Non è pittore chi non aggiunge le stelle ai propri colori.

Cos’è il cielo
Se le stelle sono i tuoi occhi e la luna – il tuo sopracciglio,
Il tramonto – le tue labbra che fluttuano come visione.
Il tuo immenso, immenso effimero ritratto
Disegnato da niente nello spazio
E’ il mio cielo!

L’uomo

Noi con due piedi sul globo della Terra.
Noi con due mani tese alla sfera del Sole.

Così tra il globo della Terra
e la sfera del Sole
io
sto…

Tonda è la mia testa – come il globo della Terra –
nel cui centro – come strati di carbone e metalli –
si trova il mio cervello che non vale di meno.
Io lo scavo
e ricavo
dall’acciaio
ogni genere di mezzi giganteschi:
treni
che collegano paesi lontani
tra loro,
navi che solcano gli oceani con ogni tempo,
aerei
che superano l’uccello in volo,
missili
veloci quasi come la luce
e rapidi
come il volo del mio pensiero…

Tonda è la mia testa – come la sfera del Sole –
dal cui centro nelle quattro direzioni
stupendi raggi si riversano:
essi alimentano la vita sulla Terra,
vi incoraggiano la nascita perpetua…

Cos’è la Terra?
Cosa vale senza di me?

…Un tempo una gigantesca e misera palla senza vita
vagava nelle sconfinate distese dello spazio…
La luna come specchio di notte da lontano
rifletteva la sua faccia brutta e butterata…
In miseria allora mi ha creato
e ha foggiato la mia testa come il Sole e la Terra…
La piccola palla – cioè la mia testa – è maturata in fretta,
ha superato il grande globo della Terra
e ora serve come suo asse permanente…
Quando è successo di ubbidire alle mie mani
Io ho rivelato la sua sorprendente bellezza…
E’ la Terra che ha creato me quindi
ma sono io
che l’ha rimodellata e l’ha resa
più nuova, più giovane e più splendida
che mai…

Coi miei piedi saldamente posati sulla Terra
e le mie braccia sempre tese verso il Sole,
io sto
come un ponte
che unisce la Terra
e il Sole
lungo il quale
verso la Terra
il Sole scende,
lungo il quale
verso il Sole
la Terra sale…

Tutte le splendide creazioni
io le ho foggiate dalla madre Terra
con le mie mani ingegnose,
non smettono mai di girarmi intorno
come una giostra variopinta…

…Le guardo girarmi intorno:
città con ponti e piazze,
case con ascensori e scale.
autovetture come insetti sulle ruote,
strutture di cemento e acciaio.
Vedo girare intorno alla mia testa veloci aeroplani,
e intorno ai miei piedi lunghi treni,
transatlantici che solcano acri
di mare e di oceano,
trattori e torni
che si muovono ruggendo,
io vedo lasciare le mie mani
come colombi in volo
molti satelliti e astronavi…

Di bell’aspetto, forte, di spalle larghe –
come un ponte che unisce la Terra
e il Sole –
io sto
al centro
del pianeta
irradiando sorrisi di luce solare
in tutte e quattro le direzioni.
Questo sono io –
l’uomo.

paolo statuti

Paolo Statuti

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).
Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.
Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.
A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica anche le sue traduzioni di poesia polacca, russa e inglese. Negli ultimi anni sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie polacche di: Marek Baterowicz, Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska, Konstanty Ildefons Gałczyński, Anna Kamieńska. Di prossima pubblicazione: Anna Świrszczyńska e Tadeusz Różewicz. Della poesia russa: Aleksander Puškin, Boris Pasternak e Osip Mandel’štam. A gennaio del 2016 è uscita la sua prima raccolta di poesie “La stella errante” (Ed. GSE).
Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.
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Philippe Beck POESIE SCELTE – “RENDIAMO ALLA POESIA IL SUO POSTO”Articolo di Xavier Person e Philippe Beck – Traduzione dal francese: Steven Grieco-Rathgeb. Traduzioni delle poesie dal francese di Trinita Buldrini e Donata Berra con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: “Poesie sulla Luna?”,”Il linguaggio poetico si è stereotipato in tutto l’Occidente”

bello femme in un interno.
http://next.liberation.fr/livres/2012/08/17/redonnons-sa-place-a-la-poesie_840341
Articolo di Xavier Person, Scrittore e critico, e Philippe Beck, Poeta e scrittore, apparso in Libération, 17 agosto 2012
(Traduzione dal francese: Steven Grieco-Rathgeb)

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Nell’ora in cui certi immaginano di fondere la poesia in un vasto insieme che riunisce il romanzo e il teatro (1), è forse bene ricordare il posto che può occupare la poesia in seno alla letteratura. E ciò di cui, per noi, “poesia” è il termine.
In questo tempo di crisi inedita, quando i disastri non sono più semplicemente dietro di noi, o di lato a noi, ma chiaramente di fronte a noi, è ancora tempo di fermarsi al vecchio termine “poesia”? Le modernità letterarie successive hanno, ciascuna nel proprio modo, dichiarato la caducità di questo termine, la sua invalidità, mentre nel contempo ne rifondavano le potenzialità. La morte ripetuta della poesia, l’addio che essa non cessa di dire a se stessa, inscrivono la sua dinamica all’interno di una interrogazione e di una incertezza che, paradossalmente, oggi le ridonano legittimità.
Altri l’hanno detto prima di noi, nella saturazione dei discorsi e delle parole impiegate che opacizzano il reale con le loro false evidenze, la scrittura poetica apre talvolta una breccia. Per una sorta di fermo nel flusso continuo della prosa del mondo, essa può operare disgiunzione. “Altre direzioni” è il cartello stradale che essa invita a seguire per uscire dalla via a senso unico che il linguaggio consueto sembra indicare.
Una politica della poesia è forse da immaginare nel senso di una sua “idioritmia”, per cui essa oppone uno iato inaccettabile alla normalizzazione delle maniere di essere e di pensare. Nel mentre, non si tratta di idolatrare le nostre singolarità, ma invece e piuttosto, affrontando il fallimento delle nostre certezze e delle nostre rappresentazioni, di impegnarci in ciò che ignoriamo di noi stessi e del mondo.
Intendiamoci bene: noi non vogliamo opporre la poesia al romanzo, a tutto il resto: né rinchiuderla in qualche cerchia di poeti in via di estinzione, ma piuttosto interrogare la letteratura a partire da “questa letteratura della letteratura”, in cosa consiste la poesia, questo “sforzo di stile”, “tasso di densità crudele”, che della poesia fa un’esperienza all’estrema punta della lingua e del pensiero. In questo scacco possibile del linguaggio e del pensiero, come anche in questa speranza.

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La poesia è più spesso un tentativo di costruzione, vedi precaria, di forme incerte. Essa può correre il rischio di altre disposizioni nella lingua, di altre configurazioni di pensiero, di emozioni. Che essa stia vicino al canto o vicino alla “letteralità della letteratura”, secondo Derrida, essa osa un qualcosa e, per questo, deve avere coraggio: “il coraggio, il cuore, il coraggio di rendersi, per tramite dell’allontanamento, a ciò che avviene qui dentro la lingua e attraverso la lingua, alle parole, ai nomi, ai verbi, e infine all’elemento della lettera […].”
Si tratta per noi di prendere ciò che va con il nome “poesia” abbastanza seriamente per cercarvi – perché no? – altri modi di vivere e di pensare. Costruire un capanna nel momento del disastro? No. In questo tempo sconosciuto in cui entriamo, possiamo noi continuare sempre a scrivere e a leggere ciò che già conosciamo, sempre la stessa storia?

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Pretesa eccessiva? E’ proprio l’attenzione a un parola che noi proponiamo, lontano dalle infantilizzazioni benevolenti ma nefaste alle quali la riducono spesso le azioni di “promozione”. Il coraggio di cui parliamo non richiama nessuna condiscendenza. Per cui, al di là della rimozione di una parola del frontone del Centre National du livre (CNL), è il senso stesso dell’azione culturale nel campo della “letteratura di ricerca” che potremmo oggi interrogare.
Gli editori, i librai e i bibliotecari, i giornalisti, i critici e i lettori di tutte le età, gli scrittori e gli artisti, i molteplici attori della vita letteraria continuano a porre l’attenzione alle scritture poetiche. Che il Centre Nationale du Livre faccia posto nella sua riforma a ciò che anima costoro è il meno che ci si può aspettare.
Nostro augurio è che le Assise del libro e della scrittura, di cui il Ministro della Cultura, Aurélie Filippetti, ha da poco confermato la messa in opera, prendano in conto le risonanze della parola “poesia”, e in questo modo, ciò che fa la nostra dignità di esseri di lingua, attraverso le stagioni.
Tale concertazione dà speranza agli scrittori, che si sono mobilitati per denunciare la maniera in cui il processo è stato imposto e i rischi che esso faceva correre al campo poetico. Ciò che può essere stata questione di rimuovere la parola “poesia” al fine di, secondo l’attuale Presidente del CNL, obbedire alle preconizzazioni della Corte dei Conti, non è insignificante.

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Nota (1): Prevista nel progetto di riforma del Centre Nationale du Livre (CNL), a data 12 marzo (2012), la soppressione della commissione Poesia del CNL è stata sospesa in luglio dalla ministro per la Culutra e la Comunicazione, Aurélie Filippetti, che prossimamente dovrebbe lanciare una concertazione su questo argomento.

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philippe beck

philippe beck

Bio-bibliografia di Philippe Beck

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Philippe Beck ha esordito nel 1996 all’età di 32 anni con la raccolta Garde-manche hypocrite (Guardamanica ipocrita). Nel 2003, una versione fortemente rivista della raccolta è apparsa, con il titolo Garde-manche Deux (Sovramanica Due). Nell’intervallo di sette anni fra queste due versioni, l’autore ha pubblicato ben nove raccolte di poesia; da allora, sono apparse altre tre. Se a queste aggiungiamo l’esauriente biografia intellettuale Beck l’impersonnage (Beck l’impersonaggio, 2006), è difficile sfuggire all’impressione che abbiamo davanti una persona veramente determinata. Il centro di questa determinazione è forse contenuto nella seguente affermazione: “Non si deve semplicemente dire ciò che è, ma ciò che può essere: ri/leggere il passato, ri-farlomondo, se volete.”
Philippe Beck, nato in 21 aprile 1963 a Strasbourg, ha studiato letterature e filosofia all’Università di Nantes. Lo sfondo filosofico non è certamente in contrasto con la natura pensosa della sua poesia. E anche la natura investigativa, visto che Beck scrive sempre in serie coese, all’interno di cui una idea principale viene, di poesia in poesia, variata, supplementata, corretta o revocata. Per le sue Poésies didactiques (Poesie didattiche, 2001) Beck ha tenuto presente una affermazione di Friedrich Schiller: “aspetta una poesia didattica in cui il pensiero in sé è e rimane poetico.” S tratta di una sfida a duello alla lingua, una sfida che Beck ha intrapreso più di dieci anni fa.
Le poesie di Beck sono quasi sempre commenti su testi precedenti, talvolta su se stesse, talvolta su altre. Un caso di quest’ultimo è Chants populaires (Canti popolari, 2007): a parte ‘l’ouverture’, e il ‘finale’, Beck ha ri-narrato 72 fiabe in origine compilate in periodo romantico dai fratelli Grimm. Ma la poesia offre più che una parafrasi: essa si carica di associazioni da una interpretazione psicoanalitica, la sociologia della letteratura o il dominio comune della cultura, in questo modo le “riscritture” portano il lettore in direzioni inaspettate. Lo stile stenografico, l’uso insolito delle maiuscole, i neologismi, tutto questo rallenta la lettura, di nuovo apre queste fiabe così ben conosciute e incoraggiano il lettore a elaborare i materiali offerti.
© John Fenoghen (Translated by John Irons)
(Traduzione dall’inglese: Steven Grieco-Rathgeb)
Pubblicazioni (selezione):
Garde-manche hypocrite (1996)
Chambre à roman fusible (1997)
Verre de l’époque Sur-Eddy (1998)
Rude merveilleux (1998)
Le Fermé de l’époque (1999)
Dernière mode familiale (2000)
Poésies didactiques (2001)
Contre un Boileau (1999)
Crude Marivaux (1999)
Aux recensions (2002)
Dans de la nature (2003)
Garde-manche Deux (2004)
Élégie Hé (2005)
Beck, l’impersonnage (2006)
Chants populaires (2007).
Links:
Philippe Beck on Lyrikline
[Philippe Beck ha partecipato a Poetry International Festival Rotterdam 2008.
Questo testo è stato scritto per quell’occasione.]
http://www.poetryinternationalweb.net/pi/site/poem/item/12445/auto/0/MOON

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foto donna al finestrino del treno
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Poesie sulla Luna?

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Parafrasando Nietzsche si può dire che «la Poesia è una specie di errore senza il quale una determinata specie di esseri viventi può vivere benissimo».

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Qualcuno sostiene che «parlare con la luna» è diventato oggi un atto ingenuo e sproblematizzante. Io invece ritengo vero il contrario: «tornare a parlare con la luna» è un atto di grande coraggio intellettuale e di contro conformismo. Si badi, io non dico anti conformismo, dico un’altra cosa. Philippe Beck riparte dalla Interrogazione. Ma interrogazione di cosa? Beck rifonda la interrogazione delle fiabe. Così si verifica una interrogazione seconda, chiede alle fiabe quali altri significati ci siano nel loro narrato. Se c’è una cornice iconico-simbolica, c’è anche un orizzonte iconico-simbolico, un significato. La sproblematizzazione che una certa cultura della affluent society ha indotto, che cioè fosse risibile scrivere poesia sulla luna, o sulle fiabe, o su Marte non ci convince più, è stata una pessima sproblematizzazione, un condizionamento che ha investito la poesia, che è stata colpita dal tabù della nominazione. Una cultura che istituisce tabù è una cultura della morte. Che l’atto della nominazione si riveli essere il lontanissimo parente dell’atto arcaico del dominio, è un dato di fatto difficilmente confutabile oggi. La sproblematizzazione investe non solo il soggetto ma anche e soprattutto l’oggetto, prescrivendo tabù e divieti, una poesia della privacy e della economia domestica. Oggi in Eurolandia si propala una filosofia poetica spicciola, una filosofia da elettrodomestico poetico. Nessuno azzarda più alcunché, si ha orrore di significare qualcosa, si ha orrore di parlare di metafisica, si ha orrore di argomentare in modo serio, si ha orrore di affrontare la frammentazione. Si pensa superficialmente che il frammento sia il topico. Errore, è ben altro. Il frammento è il nuovo simbolico. Invece, avviene che un certo tipo di minimalismo finisce dritto dentro la filosofia da elettrodomestico con tanto di applausi della confindustria generalista del consenso intellettuale. Ciò determina un duplice impasse narratologico: si scrive ciò che si può dire; ciò che non si può dire non si scrive. Con la conseguenza della recessione di intere tematiche nell’indicibile e di interi generi a kitsch.
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L’atto stenografico delle poesie di Beck rivitalizza la significazione equivale al suo modo di ripristinare e interpretare il frammento, è il suo modo di intendere il frammento. Beck è un poeta che va per paradossi, che va a zig zag, che sembra andare a tentoni, come una persona bendata, che si scontra con gli oggetti, che urta di qua e di là; fa una scrittura paradossale, sottrae alla significazione il significato usuale, introduce tra un verso e l’altro dislivelli semantici, scarti improvvisi. Ma non per gioco, è una necessità quella di Beck. Il linguaggio poetico si è, di fatto, stereotipato in tutto l’Occidente, e allora bisogna rivitalizzarlo, fare iniezioni di ossigeno nei tessuti morti della poesia che si fa oggi in Eurolandia, un fac-simile internazionale insipido e opaco ha preso il luogo della poesia. E allora, un poeta come Beck si ritaglia il suo spazio di manovra scantonando nell’assurdo e nelle associazioni inattese, tenta di operare un massaggio cardiaco sopra le costole di un proposizionalismo poetico asfittico.

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luna 3
LUNE
Au pays de Nuit Constante,
ciel est un drap noir
et monde un lit.
Ou lit est un monde.
Drap noir est tiré par-dessus.
Sommeil de jour
plus linge de lumière.
Lune est loin.
Étoiles sont loin.
Obscurité rime avec Antiquité.
Et poussière noire.
Plus ornement blanc.
D’où l’incendie pâle.
Des apprentis changent de pays.
Ils vont au pays où soleil
apparaît et disparaît.
Horizon est l’étage.
Ascenseur porte soleil
jusqu’à lui.
Soleil allume le plateau.
Horizon est un plateau
où montent des volumes
d’encre notamment.
Au pays de jour antique,
la nuit dépend d’un arbre.
L’arbre Solide.
Chêne est source de lumière
dans le noir.
Source est une sphère dans l’arbre.
Elle brille comme courbe ronde.
Lune est un soleil d’argent
dans l’arbre Monde?
Elle a un gris d’argent.
Elle étonne les apprentis.
Un rêve blanc.
Fixée au Chêne pour trois écus?
Lumière inventée
dans un pays de nuit?
Il y a un plein d’huile de pierre
en elle?
Lampe ronde est claire.
Qui est Lampiste
ou Responsable de Lumière?
Un apprenti met un drap noir
sur la lune.
Ils emportent Lune
au pays de la nuit officielle.
Il y a un chêne au pays noir.
Sève est sang blanc.
Lampe nouvelle fait une liesse
nouvelle.
Elle argente la campagne sombre.
Et baigne les chambres.
D’où des rondes dans les clairières.
Lune a son plein d’huile régulier.
+ un nettoyage hebdomadaire.
Pour un feu argenté.
Un feu gris intense.
Chaque apprenti emporte dans la tombe
un quart de lune.
Éclat de la sphère diminue peu à peu.
Noir antique revient.
L’usage des lanternes aussi,
après le choc nocturne.
Drap nocturne est l’habit du pays.
Lune est sous la terre.
Elle éclaire un enfer?
Elle cause une liesse au pays de rien?
Et la clandestinité de corps longs?
Il y a une lumière sous la terre?
Non.
Un gris lance l’Intense Mélancolie
dans des corps d’oubli.
Soleil est loin.
Le gris a ses fêtes de mélancolie
dont le bruit
atteint le ciel.
Vie souterraine est de la terre intense.
Jungle où les branches coupent
bandes de lumière passionnantes.
Des bandes grises ont une froideur
qui ouvre des yeux.
Elles lancent
la vie dessous.
Des corps sont debout.
Calme de terre domine parfois.
Mélancolie est tendue.
Lune doit tendre la terre d’en haut.
On l’attache au ciel.
Elle éclaire au loin de l’eau.
Mélancolie est préférée en haut.
Alors, elle descend.

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d’après ‘La Lune’
.
LUNA
Nel paese di Notte Costante
cielo è un lenzuolo nero
e mondo un letto.
O letto è un mondo.
Lenzuolo nero tirato su.
Sonno di giorno
con biancheria di luce.
Luna è lontana.
Stelle sono lontane.
Oscurità rima con Antichità.
E polvere nera.
Con ornamento bianco.
Da cui nasce l’incendio pallido.
Apprendisti cambiano paese.
Vanno nel paese dove sole
appare e scompare.
Orizzonte è il piano.
Ascensore porta sole
fino ad esso.
Sole illumina l’altipiano.
Orizzonte è un altipiano
dove salgono volumi
d’inchiostro segnatamente.
Nel paese di giorno antico,
la notte dipende da un albero.
L’albero Solido.
Quercia è sorgente di luce
Nel buio.
Sorgente è una sfera nell’albero.
Brilla come curva rotonda.
Luna è un sole d’argento
nell’albero Mondo?
Essa è di un grigio argenteo
stupisce gli apprendisti.
Un sogno bianco.
Fissata alla Quercia
per tre soldi?
Luce inventata
in un paese di notte?
C’è un pieno d’olio minerale
in essa?
Lampada rotonda è chiara
chi è Lumaio
o Responsabile di Luce?
Un apprendista mette un lenzuolo nero
sulla luna.
Portano via Luna
nel paese della notte ufficiale
C’è una quercia nel paese nero.
Linfa è sangue bianco.
Lampada nuova fa una festa
nuova.
Inargenta la campagna scura.
E bagna le camere.
Nascono girotondi nelle radure.
Luna ha il suo pieno d’olio regolare.
+ una pulizia settimanale.
Per un fuoco argentato.
Un fuoco grigio intenso.
Ogni apprendista porta nella tomba
un quarto di luna.
Splendore della sfera diminuisce a poco a poco.
Nero antico ritorna.
Anche l’uso delle lanterne,
dopo lo choc notturno.
Lenzuolo notturno è l’abito del paese.
Luna è sottoterra.
Rischiara un inferno?
Origina una festa nel paese di niente?
E la clandestinità di corpi lunghi?
C’è una luce sottoterra?
No.
Un grigio lancia l’Intensa Malinconia
in corpi d’oblio.
Sole è lontano.
Il grigio ha le sue feste di malinconia
il cui rumore
raggiunge il cielo.
Vita sotterranea è della terra intensa.
Giungla dove i rami tagliano
fasci di luce appassionanti.
Fasci grigi hanno una freddezza
che apre gli occhi.
Avviano la vita di sotto.
Dei corpi sono in piedi.
Calma di terra domina talvolta.
Malinconia è tesa.
Luna deve tendere la terra dall’alto.
La si attacca al cielo.
Rischiara lontano dall’acqua.
Malinconia è preferita in alto.
Allora, essa discende.
Da “La Luna” traduzione: Trinita Buldrini
.

foto donna distesa

RÉVERSIBILITÉ

En hiver, des flocons descendent
comme des plumes
d’oiseau discret.
Femme à la fenêtre noire
donne trois gouttes de sang
à Neige.
C’est un coquelicot de soi,
aux pétales séparés.
Elle a bientôt une enfant à trois couleurs.
Une couleur lui donne son nom.
Mère Suivante est peuplée.
Elle a un miroir qui dit si elle est singulière.
Miroir amagique.
L’enfant grandit. Elle est comme le jour.
L’interrogatoire du miroir
crée de nouvelles couleurs dans le coeur
de la mère suivant:
jaune et vert.
Coeur tangue dans le ventre.
Mère successive.
Orgueil pousse en elle,
comme herbe sombre.
Au loin dans la forêt, enfant
comme le jour est laissée.
Pompe animale est humanisée.
Pompe de discours et désir.
Dedans remplacé.
Réaffecté.
Neige semble éliminée.
Mais dans Forêt,
Neige retourne les feuilles. Nuit tombe.
Elle trouve une maison
Miniature. Comme Alice?
Nappe blanche et draps blancs dedans.
Est-ce le Hollandais Volant?
Un navire à bascule?
Nuit noire couvre montagnes
et ses mines futures.
Mère Suivante s’habille.
Elle vend du bel et bon.
Lacet coloré, peigne rond,
pomme à deux couleurs.
Blanche et rouge.
Blanche-Neige est presque morte,
ou morte officiellement. Décolorée. Miroir
dit la vérité froidement.
Et l’antichambre réelle.
Elle n’est pas dans la terre noire.
Elle est intacte dans le verre.
Des bêtes la pleurent.
Blanche a l’air de dormir infiniment.
Elle a un pré-sourire.
Elle est admirée d’un
qu’elle aime immédiatement ;
ou dans une brève suite de moments
commence l’élan.
Et le coeur de la ‘mère’
est cuit;
envie a brûlé ses mouvements.
Vie dure.

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D’après “Blanche –Neige”
.
REVERSIBILITA’
D’inverno, dei fiocchi cadono
come delle piume
d’uccello discreto.
Donna alla finestra nera
offre tre gocce di sangue
a Neve.
E’ un papavero di sé,
dai petali separati.
Le nasce presto una bambina di tre colori.
Un colore le dà il suo nome.
Madre Seguente è popolata.
Ha uno specchio che le dice se è unica.
Specchio a-magico.
La bambina cresce. E’ come il giorno.
La consultazione dello specchio
crea dei nuovi colori nel cuore
della madre seguente:
giallo e verde.
Cuore oscilla nel ventre.
Madre successiva.
Orgoglio spunta in lei,
come erba scura.
Nel cuore della foresta ,bambina
come il giorno è abbandonata.
Superbia bestiale è umanizzata.
Superbia di discorso e desiderio.
Didentro sostituito.
Ridestinato.
Neve sembra eliminata.
Ma dentro Foresta,
Neve rigira le foglie. Notte scende,
trova una casa
in Miniatura. Come Alice?
Tovaglia bianca e lenzuola bianche all’interno.
E’ l’Olandese Volante?
Una nave alla deriva?
Notte nera copre montagne
e le sue miniere future.
Madre Seguente si veste.
Vende bella roba.
Nastro colorato, pettine tondo,
mela di due colori.
Bianca e rossa.
Bianca-Neve è quasi morta,
o ufficialmente morta. Scolorita. Specchio
dice la verità freddamente.
E l’anticamera reale.
Non è nella terra nera.
E’ intatta nel vetro.
Animali la piangono.
Bianca pare dormire per sempre.
Accenna un semi- sorriso.
Viene ammirata da uno
ch’ella ama immediatamente;
o in un breve susseguirsi di momenti
comincia la passione.
E il cuore della ‘madre’
è accartocciato;
invidia ha bruciato i suoi palpiti.
Vita dura.

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philippe beck poet

philippe beck poet

(Da “Biancaneve” ) Traduzione: Trinita Buldrini
*
POÈME LIMINAIRE (UN VOLUME)
Un volume
sans vieillesse
est un groupe de tuyaux
du savoir sonore
comme en amour
un tuyau secondaire sonorise quelquefois
l´orgue silencieux :
tout seul, son tube fondamental se tait.
Le tube doré et silencieux
a besoin
du tuyau secondaire
pour être public.
Il y a un tuyau
du coeur d´un auteur
au coeur d´un public ;
et ce tuyau
est le canal secondaire
d´un orgue
dans le livre.
Noyau secret de conviction :
il y a de la chaux dans la craie
qui maquille la face du clown
vedette.
Un Hercule en habit
peut bien s´armer du tube
de blanc de plomb pour peindre
le soleil,
n´empêche. Le plomb est aussi
dans l´idée du soleil.
Mais le chanteur
n´est pas seulement
comme la femelle du canari :
il doit bien chanter,
et sans hourra spirituel.
Comme dit Stevenson :
je vais publier un livre de – hum – vers.
Bien.
POESIA PRELIMINARE (UN VOLUME)
Un volume
senza vecchiaia
è un gruppo di canne del sapere sonoro
come in amore
una canna secondaria sonorizza talvolta
l’organo silenzioso:
sola, la canna principale tace.
Il tubo dorato e silenzioso
ha bisogno della canna secondaria
per essere pubblico.
C’è una canna
dal cuore di un autore
al cuore di un pubblico;
e questa canna
è il canale secondario
di un organo
nel libro.
Nucleo segreto di convinzione :
c’è della calce nel gesso
che trucca la faccia di un capo
clown.
Un Ercole in marsina
può certo armarsi del tubetto
di biacca per dipingere
il sole,
niente lo vieta. Anche il piombo
è nell’idea del sole.
Ma il cantante
non è solo
come la femmina del canarino:
deve cantare bene,
e senza urrà spirituale.
Come dice Stevenson :
pubblicherò un libro di – ehm – versi.
Bene.
Traduzione: Trinita Buldrini
*
ON SE GARDE DE TOUCHER
On se garde de toucher,
on fuit,
si on est sage,
le poète maniaque.
Les enfants
lui donnent
la chasse, et, imprudemment,
le suivent.
Si,
déclamant ses vers
la tête haute
et allant au hasard,
il tombe par mégarde
dans un puits ou une fosse
comme l´oiseleur
qui piste les merles,
il peut bien crier
sur tous les tons :
Au secours! holà!
citoyens!,
nul ou quasiment
ne va le tirer de là.
D´ailleurs,
comment savoir
s´il n´est pas tombé
au trou
sciemment
et s´il acceptera
de l´aide?
Empédocle
Veut passer
pour un dieu :
il se jette
de sang-froid
dans l´Etna qui chauffe,
et laisse avec vista
derrière lui,
au bord du feu
des sandales parlantes.
Sauver un poète
malgré lui,
c´est le tuer,
s´il s´est
pour de bon
intoxiqué
d´une mort magnifique
et historique.

.

(Stance d´après Horace, Epître aux Pisons)
© Al Dante
From: Le Fermé de l’époque
Romainville: Al Dante, 2000
SI EVITA DI TOCCARE

.

Si evita di toccare,
si fugge,
se si è avveduti,
il poeta maniaco.
I bambini
gli danno
la caccia e, imprudenti,
lo inseguono.
Se,
declamando i suoi versi
a testa alta
e andando a casaccio,
cade sbadato
in un pozzo o in un fosso
come l’uccellatore
in cerca di merli,
può anche gridare
in tutti i toni :
Aiuto ! olà !
cittadini !,
nessuno o quasi
andrà a toglierlo di là.
D’altronde
come sapere
se non è caduto
nel buco
a bella posta
e se accetterà
aiuto?
Empedocle
vuole passare
per un dio :
si getta
a sangue freddo
nell’Etna che ribolle,
e lascia, previdente,
dietro di sé,
ai bordi del fuoco
dei sandali parlanti.
Salvare un poeta
suo malgrado,
è ucciderlo,
se si è
per davvero
intossicato
di una morte magnifica
e storica.
.
(Stanza da Orazio, Ars poetica) Traduzione: Donata Berra
http://www.lyrikline.org/en/poems/poeme-liminaire-un-volume-735

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 Katarina Frostenson POESIE SCELTE traduzione di Enrico Tiozzo, Presentazione di Claudio Angelini tratta dalla prefazione a “Tre vie”

città in bianco e nero

città di sera

 da Prefazione a “Tre vie” di Katarina Frostenson di Claudio Angelini

Tra le voci più originali della letteratura contemporanea c’è quel­la di Katarina Frostenson, poetessa svedese che con la sua opera ha sconvolto il panorama lirico scandinavo, creando dissonanze ed ermetismo in un sistema che scorreva, quasi sereno, nell’alveo del modernismo e del post—simbolismo. Alla metafora la Frostenson predilige il suono, all’immagine il fonema. Così la sua non è una voce qualunque, ma la voce per eccellenza, la forza della parola, ora soffocata, ora stridente, ora morbida, ora impetuosa, che è alla base del verbo poetico, ovvero del verbo più assoluto, quello che si crea nei labirinti della gola e si riproduce per echi nei labirinti della mente. La poesia di Katarina è una poesia sonora che sgorga dall’u­dito e dall’animo e poi si condensa in frasi, perché il suono produce una concatenazione di pensieri e costruisce una tela affascinante. La sua lirica, pura e diretta, segue la logica della musica: i versi, come note, creano suggestioni e le raccolgono in brevi o lunghe sinfonie. Talvolta dodecafoniche, talaltra classicheggianti.
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Un discorso a parte merita l’ermetismo della Frostenson che forse è più apparente che reale. Soprattutto se per ermetici si in­tendono quei vocaboli creati per stupire e confondere, a causa della loro difficile interpretazione. O si considerano ermetiche analogie dal collegamento complesso e tecniche espressive ricercate. Katari­na non mira a niente di tutto ciò, perché punta all’essenziale: il suo­no come fonte di vita. Semmai le sue composizioni sono ermetiche perché ci riconducono spesso a miti, a leggende, a figure scaturite dalla filosofia misterica. Ma talvolta i suoi miti sono anche nella semplicità o nella complessità della natura, nel ritorno alla casa dei genitori, nel viaggio. Però, al di là di tutto, alla base della sua poesia, c’è sempre la voce con i suoi ritmi, le sue relazioni, il suo mistero.
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La stessa Katarina ha ricordato, all’inizio degli anni ‘80, che sco­prì la magia della parola a soli tre anni d’età quando fu colpita dal gran parlare che si faceva in Svezia di un transatlantico italiano spe­ronato e affondato dal rompighiaccio Stockholm: “La nave italiana si chiamava Andrea Doria e io andai ripetendo quel nome a voce alta da sola per tutta l’estate.” Insomma, da quando imparò a parla­re, amò il suono delle parole in sé, anche al di là del loro significato, come “un’esperienza estetica della bellezza”. Ma questa attrazione a volte nasceva anche da parole grottesche e provocatorie. Così, a scuola, andò gridando “Hugg dem i strupen och ät! (Tagliagli la gola e divorali), ripetendo una frase tratta da un libro d’avventure (un pò sanguinose) che aveva letto in quel periodo. Il che significa che in tenerissima età la Frostenson capì che il linguaggio è un co­dice, una convenzione: le parole e le immagini non sono parametri assoluti, ma variabili. In un certo senso, questa autrice si appropriò della stessa poetica che aveva spinto, negli anni ‘20 e ‘30, Magritte a de-automatizzare il rapporto tra significante e significato, attra­verso una serie di opere che rappresentavano degli oggetti e nello stesso tempo li negavano, come il quadro raffigurante una pipa e intitolato Questa non è una pipa. O quello dal titolo La luna in cui in realtà è dipinta una scarpa o quello che rappresenta un cappello ma è intitolato La neve. Magritte era “un tranquillo sabotatore” che cri­ticava — forse con un certo elitarismo intellettuale — l’immagine pittorica convenzionale attraverso le sue immagini e le sue didasca­lie provocatorie, Katarina Frostenson contesta la convenzionalità delle immagini poetiche attraverso la forza spontanea e poderosa dei suoi suoni. La sua poetica diventa una missione o una via cru­cis per riscoprire la parola. Così ci prende per mano e ci porta alle origini stesse della poesia, agli oracoli che annunciavano prodigi o catastrofi, ai corifei delle tragedie, ai lamenti, alle grida che conten­gono il significato recondito della morte e della vita. Se Magritte fu il primo semiologo visuale, la Frostenson è una semiologa sonora il cui linguaggio, inizialmente misterioso, si dilata in armonie, me­lodie e disarmonie che suggestionano il lettore. Aggiungerei che Katarina si libera dai condizionamenti dei modernisti affamati di ego e innamorati delle loro immagini per puntare all’essenza. La sua poesia non ha un padrone, la lettura scorre libera e, pur muo­vendosi a volte nell’oscurità, ha un punto di riferimento luminoso come un faro: la voce interiore.
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Staffan Bergsten scrive che “molte poesie si presentano come un cifrario segreto. S’intuisce un significato che rimane nascosto ad un occhio che lo contempli da una fredda distanza. Che cos’è dunque che si nasconde e perchè non arriva ad esprimersi chiaramente? Le stesse grandi domande possono applicarsi a molto di ciò che vie­ne creato in tutte le diramazioni dell’arte moderna, nella pittura e nella musica come nella poesia… Nello stesso tempo in cui queste poesie possono apparire ostili nella loro ermeticità, esse tuttavia attirano il lettore e lo stimolano — come avviene per ogni segreto — a cercare un’interpretazione.”
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Alla musica e alla voce interiore la stessa Frostenson fa un espli­cito riferimento quando elogia Henry Michaux: “I suoi scritti sono viaggi nel tempo e nello spazio che ricordano la musica. Quando lo leggo non penso parola per parola a quello che vuole esprimere, perché lo ascolto. Il testo ha una sorta di voce interiore.”
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Filosofia Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti 2

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Leggere Katarina significa soprattutto ascoltarla, ma non è ne­cessario essere in possesso della registrazione di un suo reading. È come se la sua voce fosse incorporata nelle sue parole scritte, o me­glio è come se le sue parole scritte avessero anche una componente corporea, fisica, vocale. I suoi versi danno senso compiuto ai suoni e li trasformano in melodia. Come ricorda Jan Arnald, questa autri­ce diventa la portavoce di una poesia al femminile, impegnata nella ricerca di un linguaggio più intimo e meno convenzionale, capace di esprimere le sue dimensioni più profonde. In questa ricerca per­de valore la sintassi tradizionale che lascia il passo a versi slegati tra loro e separati da ampi spazi, il tutto opportunamente studiato e vantaggio di una voce spesso oscura nel suo significato logico e per tale motivo sfuggente ad ogni tentativo di classificazione ma in gra­do di trasformarsi in canto rivelatore dei moti profondi dell’essere.
Un esempio, questi versi:

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Tralasciato

.

adesso quel suono ritorna un rauco prolungato respiro
nel quadro: una persona un campo novembre
un cane lupo strabico col naso macchiato nelle nude lande
sospette
come il tuo luogo
là, là dove l’attesa è estrema
Monaco Parigi Austerlitz Stoccolma Milano
la speranza delle città fredde
il sesso dei luoghi brutti luoghi dove l’immondizia sta
esposta come cosa santa
contagiosa nel voltarsi respingente
Siedo in una sala d’aspetto
e mangio naso nero bollito
Sono tempi di frutta. Caduta. Dietro i vetri
alti animali blu trascinano i loro zoccoli
attraverso alghe e piogge S’innalza
Precipita Non ho mai chiesto

.

La stessa Frostenton in varie occasioni, e in particolare nel suo saggio I crani, ha sottolineato la funzione centrale della voce nella sua produzione e ha scartato qualunque tentazione a una lirica me­taforica e imaginifica. “Quando un testo mi si avvicina, quando il ritmo mi si fa strada nel corpo, le chiostre dei denti cominciano a muoversi l’una verso l’altra, a battere. È sgradevole, una specie di tic, penso, ma è soltanto la voce che arriva.” Però, a parte l’imma­gine dei denti che battono, il testo è una sorta di spartito musicale. E se non si sente subito musica, si percepisce come un segnale acu­stico indistinto e poi sempre più chiaro, un qualcosa che — chiarirà la stessa Katarina — comincia con una nota e tende verso un canto.
“Per me — ha detto ancora questa autrice — le parole sono uno strumento di ricerca (dichiarazione del 1983), una possibilità di compiere viaggi in condizioni diverse dalla mia, di esplorare l’igno­to. La poesia è un enigma. Io amo ciò che è grezzo e brutale, ma qui in Svezia si apprezza soprattutto ciò che è ben ordinato e sottile, e si rifugge dal confuso e dall’indistinto. A me invece interessano le tensioni e le contrapposizioni.”
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Alla voce, intesa come “materia della poesia, come sua musa e suo demone”, Katarina ha dedicato una lirica, Mi chiamo voce, che è stata scolpita, in svedese e in italiano (traduzione curata da Enrico Tiozzo), nella primavera del 2008, nel Libro di pietra del Comune di Arpino, presso Roma. La voce è “alla base del ritmo” e, come ri­corda Tiozzo — suo grande traduttore ed estimatore — ogni poeta ha il suo unico e inconfondibile ritmo di voce. La natura del verso viene accostata da Katarina agli atomi eraclitei e il ritmo è forma in continuo cambiamento.
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filosofia Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti 1

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Spesso il suono trae spunto da miti tragici e tra di essi il più caro alla Frostenson è quello di Filomela, cui è dedicata una composizio­ne poetica nella raccolta Tankarna (I pensieri) del 1994. Compren­diamo dai versi iniziali della lirica che una lingua è stata strappata dal suo tessuto e sepolta sotto una pietra e approdiamo a Ovidio e alla sua leggenda. Filomela è rapita dallo sposo di sua sorella Proc­ne, il re di Tracia Tereo, che dopo averla violentata, la priva della lingua con una tenaglia perchè non possa rivelare le atrocità che ha dovuto subire. Ma la voce prevale sul silenzio, la verità sul tentati­vo di nascondere quel crimine. La lingua in qualche modo riesce a parlare. Filomela ricama su una tela un segno che indica a Procne la sorte che le è toccata e quando il crudele Tereo cerca di uccidere le due sorelle gli dei le salveranno trasformandole in uccelli. Così, la muta Filomela potrà diventare un usignolo capace di cantare. È uno dei miti che affascinarono anche T.S. Eliot, che lo ripropose con versi onomatopeutici in The Waste Land, ed è per eccellenza il mito della poesia, come riscatto dalla sofferenza. È affascinante il modo in cui Katarina si inserisce nella leggenda. I suoi versi comin­ciano con suoni indistinti, il mormorio (in svedese sorl) della lingua che vibra nella terra. Attraverso quei suoni il mito prende vita. Ed è un altro suono indistinto quello che ispira la raccolta Joner (Joni) del 1991: è il rumore dell’acqua che scorre. Gli ioni diventano particelle di energia. L’assassinio di una vergine è cadenzato da uno sgreto­lamento del linguaggio che fa eco allo smembramento del corpo. C’è un pò del mito di Atteone, trasformato in un cervo e sbranato dai suoi cani perchè colpevole di aver visto Artemide nuda al bagno. E c’è il riferimento a un’antica ballata svedese su una vergine ucci­sa. Il sacrificio, comunque, diventa poesia, la morte si trasforma in vita. La Frostenson è affascinata dalla mitologia della violenza, ma soprattutto da una lirica che nasce dalla sofferenza e da suono disar­ticolato che diventa voce per uno scopo eroico: salvare l’umanità.
.
Questa autrice ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui il Gran Premio della Società dei Nove nel 1989, il Premio Bellman nel 1994 e il Premio radiofonico svedese per la poesia lirica nel 1996. Il 20 dicembre 1992 è divenuta membro dell’Accademia di Svezia, un onore mai toccato a una scrittrice così giovane (aveva 38 anni).
In Italia la Frostenson è nota non solo per la sua poesia scolpita sulla pietra di Arpino, ma anche per alcune raccolte come La fonte del suono, Conversazioni e Dalla nuda terra al corallo pubblicate da editori come Crocetti e Il Leone di Venezia. Da noi, il suo vero o presunto ermetismo non ha certo suscitato diffidenza, visto che la poesia ermetica costituisce uno dei più bei momenti della nostra poesia del Novecento, grazie a Giuseppe Ungaretti, Salvatore Qua­simodo ed Eugenio Montale. C’è però da precisare che le illumina­zioni liriche dei nostri ermetici hanno pochi nessi con la produzio­ne di Katarina, tranne forse qualche componimento di Montale, affascinato quanto lei dal suono della parola.
Katarina Frostenson Tre vagar

Katarina Frostenson Tre vagar

Poesie di Katarina Frostenson
Da NEL GIALLO
.
Fermato, continuato
.
Le vetrine stanno lungo tutto il fiume le ombre
cadono giù verticali le città diventano centri
commerciali stessivolti
un pezzo di plastica blu galleggia sul fiume e la parola
incontestuale diventa chiara, s’accoppia con l’uguale
ben fissato
mondo circostante sono io una strada
passaggio le luci gialle non smettono mai
di lampeggiare
avanti alti amiamo sempre altrove il tuo sesso
è un occhio
indagata notte
la bucce grasse delle mele brillano nel buio
non marciscono rimangono là, illuminate
.
Non quadro
.
Nuda luce tutti i suoni
affondano scompaiono del tutto
è solo il movimento
nella stanza ondeggiante
sorriso distorto la luce del tuo viso
davanti al mio piede giace terra terra
è un quadro cinese
alla parete giunche, foschia
acqua, tenero fogliame e le vele
soltanto entrano sempre di più tra le montagne
nella foschia Il tuo volto
galleggia ovale acqua Una luna…
faccio un rapido gesto di sfogliare
sulla tua fronte Tu scuoti la testa
ti alzi Adesso arriva il suono
di nuovo: il tuo silenzio L’altra Sempre
l’altra
.
Tralasciato
.
adesso quel suono ritorna un rauco prolungato respiro
nel quadro: una persona un campo novembre
un cane lupo strabico col naso macchiato nelle nude
lande sospette
come il tuo luogo
là, là dove l’attesa è estrema
Monaco Parigi Austerlitz Stoccolma Milano
la speranza delle città fredde
il sesso dei luoghi brutti luoghi
dove l’immondizia sta
esposta come cosa santa
contagiosa nel voltarsi respingente
Siedo in una sala d’aspetto
e mangio naso nero bollito
Sono tempi di frutta. Caduta. Dietro i vetri
alti animali blu trascinano i loro zoccoli
attraverso alghe e piogge S’innalza
Precipita Non ho mai chiesto
senza convinzione
nella frase mozza
la mano nuda dell’occhio
la macchia che fissa
e nell’assenza arde una candela
.
Fuochi verdi
.
La strada è fiancheggiata da specchi coperti
il campo splende spento:
Tre pezze nere, e una verde
una fredda impronta nella mia anima
Tratto di distanza Il desiderio
è il mio pensiero
Il cielo stende il suo telo grigio
brucia un fuoco vicino al mio ginocchio
le lepri si muovono fra le spighe
.
7
Da JONI
.
La sua espressione
.
Lui è corso via
il suo volto è un cane da caccia. Il granello nell’occhio
La piega della frogia. La guancia nera
E lo splendore dello sguardo
Tutto respinge. Tutto
è solo soffio e brusìo
dietro la fronte non c’è niente
Lui è il Segugio
silenzio calcificato sui lineamenti
aspira
sente l’odore del Quadro
profondo, scuro dolce
sopra tutta la sua pelle di cane da caccia
dove lascia una traccia
Tutto l’occhio s’arrossa nel morso
perché è scomparso nel bosco dell’immagine
.
Katarina Frostenson Foto Mats Bäcker

Katarina Frostenson Foto Mats Bäcker

La natura del terrore
.
Cerco l’uomo che mi ucciderà. Il terreno è
verde o bianco. Stessa cosa. È un sentiero sicuro.
Tra gli alberi. La strada cammina dritta fra i tronchi
È un pezzo di terreno. E la strada continua in giù verso
una spiaggia
Ma sempre là, dove c’è una via breve fra i boschi
Ginepri, more di rovo. E il bosco fitto di abeti, alberida
cartellone didattico
Un canale. Un suono sussurrante, là – lontano. Qualcuno
combatte per
avere voce. Un inarcamento. Una schiena
Tu passi oltre
Davanti al bosco i passi si fermano, è qui ch’è accaduto.
Qui è accaduto.
Sono tutti gli occhi che negli anni hanno visto
chi ha fissato il suo sguardo nel silenzio
Alberi. Come un albero “sta al margine”. Non lo fa uscire.
Alberi – Terreno.
Due boschi, una strada. Due file d’alberi da ogni parte,
betulle, ginepri,
abeti Sono tutti occhi che negli anni hanno visto
e cercato di entrare.
Cercare riparo
fuggire con gli occhi nella schiena
Chi ha teso la sua schiena nell’esteso. Qualcuno vede.
Lo sguardo si gonfia
del tuo sguardo, del fatto che tu vedi – indietro
Alberi. “S’erigono” come gli alberi. Cominciano
a camminare come gli alberi – da soli.
Lo vede. Tu sei fuori. Al di fuori. Ora si chiude l’udito
Cerco la mano che prenderà la gola. Da una schiena.
Da un posto. Non c’è alcun segno nello splendore
della tela
Qualcuno combatte per avere voce. E qualcuno
non combatte.
.
La vergine parla:
.
Farò uscire la frase dalla frase sterminerò
la fiera che s’acquatta lì. Estrarrò
la pallottola da lui
dal cuore
e udirò –
la parola da un corpo
Come suona –
che cos’è che cammina sempre e non arriva mai
ed è Ostacolo
e non fa ostacolo
che cos’è che sta là
l’enigma dell’orrore –
Oh, mio nemico, io sono incoerente
Io sono l’apparenza, le parti e il sorriso
Io sono l’onda sonora nel vaso dell’aria
.
8
.
il mio cuore verbale che non batte. Entra solo
dentro, nella fortezza del corpo sognato. Finché affoga
nel sussurro del sangue
io sono senza traccia, senza luogo
sono luce travestita Io sono l’onda sonora intorno
e dentro la parola
sta’ in guardia
c’è uno schema
La madre apre il torace
nella luce del dopo. Risuona
la madre, nera radice
cuore – oro
Ma il corpo è vuoto
La risata della vergine
Moira
Perché ti voltasti
ero sola
Manca un passo
le soglie sono passi di sogno
tutto scivolava, sui tratti –
volevo mettere un segno
“il tratto della stanza”
era qui
che ti voltasti
Che quiete, nell’occhio
nulla si svela
nessuna cicatrice Giorno dopo giorno
mi odo parlare
parliamo, camminiamo, in giù, facciamo
e l’occhio guarda – che segno sulla fronte
dovrebbe arrivare
a macchiarsi
come si sa altrimenti dove
in quale tempo si è
e ci si perde. Tu non ti volti
più, quando dico
quando dico Tu forse non odi
io parlo come te
come una cuffia, un guscio parlante, affondato
in una voce che sempre più ti somiglia e nessuno
riconosce
Tu sei l’uscita
intorno, dovunque, tu sei la stanza
Tu ti voltasti
sarei stata un’altra se la stanza – non fosse stata
E d’ostacolo. Ti voltasti. Non sei questo
che stava là più chiaro
Dove sei andato, fra i tratti
tuoi propri, tu parli come me
così da presso non somigli a niente
tu guardi – indietro
ma se carezzo il tuo dente bianco così dolcemente
posso vedere – dentro
sempre più vicino, sono là dentro –
passo la lingua sopra i tuoi denti, esisti
tu sei Se
tu sei Forma. Tu sei –
odo parlare la mia voce
parlo come te
uno strano amore, così su per la schiena
invisibile, sulla pelle della nuca
che sale da dietro
che cammina sui miei paesi, lo capisco appena
e non vedo
affondato
immerso
scomparso
chiedo solo
possono i doni esser violenza
tu sei così
immenso – bordo
che è entrato, tagliando
tutto –
mi sento su un piatto
apparecchiata
intorno specchiata, come
senza differenza in niente
ma tradisci allora
e compi la pena
lascia che la parola entri – matura
voltati
qui tu non
esisti
voglio renderti solo
.
Interior Blond Volvo S90

Interior Blond Volvo S90

Da I PENSIERI
.
Voce
.
Mostro, mettiti intorno a me, che cos’è che dovrò
sentire. Grande e inspiegabilmente muta, una coperta di
cavalli Occhio, naso, lobo temporale, la guancia
è coperta la mia bocca,
perché sei dimenticata Un filo viene messo dentro,
un gusto di
minerali, sale Il piede sale per il passaggio stretto,
bianco e ignoto in me, il tratto giunge E l’aria è
forte, e fredda, e nera e alta Adesso bruco
l’erba del mondo
Immagine
che strano tratto paradisiaco è
o il contrario le ali della farfalla, nell’eliso
nel giallo cristallizzato sopra i prati
giacciono pesantemente gettati
pelli di scarpa dalla terra grassa
un dito del piede
uscito dal nero della carta
una scarpetta da ballo, un dito
dalla terra
e lo splendore dei cerchi nel solco
da cappotti scuri, l’umido della lana
sudario
abbracciati con le bocche sul terriccio e su di loro
piene di terra e il rosso
sulla strada di casa tra boschi, campi e gridi acuti
d’allarme degli uccelli
si giace fuori sui prati nella scura radice dei campi
del mondo
.
Io stessa in un vestito giallo
.
Disperdimi fratello, col tuo occhio che non si lascia
chiudere
che solo guarda, nulla vede, solo il chiarore e l’acqua che
riflette il sole
nel fogliame
nella verzura di luglio, sotto un albero
nel canestro blu intrecciato che ti contenne in grande
quando tutto sussurrava intorno a te
e tu eri come il miele
io stessa in un vestito giallo, scura
nell’albero, giallo sempre più scuro, più stridente,
urlante in alto
ma in silenzio, verso la cima dell’albero
trionfo, fratellino, sopra tutto
attraverso il peso della chioma
sento la testa del sole
.
Non sono la madre di nessuno
.
serpente, arrotolati
sotto il cielo stellato
io non sono la madre di nessuno
perciò rimango e vedo
che è solo il mio occhio
che si volge
da per tutto
per me stessa non sono nessuno
ma
nel deserto
io sono
chi può abbracciare tutto
.
Filomela
.
Il piccolo, foglio rosa
nella mia testa si muove
miracolo
io guardo fuori, è silenzio
il buio lascia arrivare i sussurri
la mia lingua fu sepolta sotto la pietra
ma la testa non ebbe pace
anche se la lingua è stata strappata dal suo tessuto
la voce era rimasta là dentro
come la testa ha pace
blu glicine è il tessuto che mi si spande intorno
odi, come il tono
cambia è dal suono che sollevi
la mia lingua è sepolta, il mio orecchio giubila
il mio vestito è scomparso la mia testa canta
enrico tiozzo

enrico tiozzo

Enrico Tiozzo è nato a Roma, dove si è laureato nel 1970 con una tesi sulla ricerca di Dio in Pär Lagerkvist, pubblicata lo stesso anno da Bulzoni. Da oltre trent’anni è professore ordinario di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Göteborg, in Svezia. È autore di numerosi studi sulla letteratura italiana del Novecento (Bonaviri, Bertolucci, Sciascia) e sulla lirica svedese contemporanea (Espmark, Forssell, Tranströmer). A partire dagli anni Settanta ha collaborato alle pagine per la cultura prima dei quotidiani “Il Tempo” e “Il Messaggero” di Roma, e successivamente a quelle del “Dagens Nyheter” di Stoccolma. Attivo anche come traduttore, è stato premiato nel 2003 dall’Accademia di Svezia per la qualità del suo lavoro. Tra le sue opere piú recenti figura Il premio Nobel e la letteratura italiana (Catania, La Cantinella, 2002).

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POESIE SCELTE di Paolo Statuti da “La stella errante” (2016), con 2 poesie inedite e 14 poesie edite – Commenti di Nazario Pardini e Giorgio Linguaglossa

de_chirico sole_sul_cavalletto_1973Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: Il principe-albero e Gocce di fantasia (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo L’albero che era un principe (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).

Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.

Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi. A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska e Tadeusz Rozewicz.  Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

pittura Henri Matisse 1941

Henri Matisse 1941

dalla Prefazione di Nazario Pardini

«…ciò che muove questa nostra avventura terrena… si riverbera in un canto “splendidamente monotono”, come sapeva dire, da par suo, Cesare Pavese della poesia. E qui ciò che domina è quella semplicità espressiva che i poeti raggiungono solo dopo anni di pensamenti, di meditazioni, di rielaborazioni di dati e suggestioni. Sta qui la grandezza del poeta: saper spiattellare su un vassoio d’argento un’anima zeppa di ogni conflittualità interiore; nel saperla proporre con spontaneità, e con un linguismo accessibile e conturbante; diretto e arrivante.

La cosa più difficile per uno scrittore è quella di saper tradurre l’intimità culturale e intellettiva in semplicità verbale. È quella la continuità, la monotonia che un poeta deve raggiungere perché ne divenga il marchio di fabbrica, il suo copyright; a ché nel tempo si faccia originalità e compattezza del suo poetare. Vita, sì! Qui c’è tutta con il potere del sogno, dell’amore, del memoriale, dell’inquietudine, della saudade, e della coscienza del tempus fugit: “ogni sera l’ombra ti fa muta”. Luci e ombre che nella loro simbiotica fusione offrono quel substrato di melanconia che fa parte del fatto di esistere. Ed è già presente, fin dai primi versi, la 6 Prefazione visione di un tempo che logora senza pietà, consumando le nostre speranze, le nostre illusioni.

.

(…) La sera faccio il bilancio
della giornata:
non è mai poco
non è mai molto
è quello che mi aspettavo
Affrettatevi però
prima che mi scada
la licenza di vendita (La bancarella)

.

Un bilancio abbastanza triste, che scaturisce da una visione obiettiva e oggettiva del mondo che attorno ci ruota senza sconti; un redde rationem ultimativo e finale sul nostro soggiorno umano; una licenza che non può essere rinnovata e che segna la scadenza del nostro esser-ci. Il Poeta parte da piccoli fatti, da realtà minime che ci stanno attorno, e con abilità metaforizzante, con giochi analogici, sa elevarsi al di sopra della stessa realtà per trarne conclusioni di generoso impatto emotivo; una fede che gli permette di trasferire all’azzurro le bellezze del Creato. Sono tante le configurazioni fenomeniche e le vicissitudini esistenziali accumulate negli anni. È lì che hanno covato, nel suo animo, trasformandosi in immagini di valore ontologico. Ed è da lì che l’Autore attinge per fare della sua storia un “poema” denso di intimi riflessi, di giochi di melanconica terrenità.

.

Lo sai che senza di te
non potrei vivere
che senza di te
non potrei nemmeno morire (Malinconia)

.

D’altronde gli ingredienti più redditizi per un canto di effusione lirico-emotiva sono proprio la memoria e il sentimento: una fecondità con cui tornano in campo
antiche primavere. È in quelle che il Poeta si rifugia per sfuggire alla tristezza della quotidianità. Ne fa un’alcova rigenerante, un mondo virtuale zeppo di volti e accadimenti di forte impatto umano.

.

A volte tornano immagini dimenticate
come nuovo stupore
a volte tornano parole dimenticate
come nuova scoperta
a volte tornano persone dimenticate
come nuova amicizia o nuovo amore
e ogni anno torna
il fresco odore della primavera
e il dorato sorriso dell’autunno
e ogni volta
l’anima ringiovanisce un po’
eppure è sempre più vecchia (Ritorni)

.

Ed è proprio la natura, con i suoi frammenti cromatici, con le sue parvenze simboliche, a farsi collaboratrice fedele nel ritrarre un esistere zeppo di sottrazioni, di autunni cadenti, o di soli imbronciati; nel farsi volume di un essere in cerca della sua consistenza.

.

Il fruscio delle foglie secche
punge il corpo
come vespa invisibile
sbatte una finestra
con monotona perfidia
oggi anche il sole fa il broncio
*
sbocconcellato da una grigia trina
che puzza di pioggia
se tu almeno fossi qui
mi diresti
che il fruscio delle foglie
è uno scherzo di Chopin
che la finestra che sbatte
è una tachicardia
e che una lettera non scritta
non è poi la fine del mondo (La lettera)

.

Ritratto perfetto di un mélange fra sentimento e ricordi che, col suo procedere monotono, sembra voglia potenziare l’epigrammatica condizione intimistica del Nostro: l’abito chiaro, gli occhi spenti, i saluti plastificati, le avide occhiate, il clic degli interruttori, i sogni, i ronfi, le coscienze archiviate. Tutto si condensa in una spietata successione di fatti e momenti, di sguardi e profumi, di suoni e gesti che danno luogo a una continuità scontata, a un persistere di accidents vissuti e rivissuti.

.

(…) L’abito scuro della sera
gli occhi accesi delle case
le avide occhiate
il clic degli interruttori
il cigolio delle reti
i sogni i ronfi
le coscienze archiviate (Continuità)

.

Ma non è raro che l’attenzione e la sensibilità del Poeta si soffermino su visioni accattivanti, su oggettivazioni traslate con interventi di natura etimo-fonica e simbolica di resa immaginifica per una sana poesia.

.

Roma, ogni notte
ti getti nei vortici
del tuo amante
e scorrete insieme
finché la draga dell’alba
non ti ripesca
grondante di luce
e di amore (Roma)

.

Una vera pittura suggestiva, una vera pennellata forgiata con ars inveniendi dove l’alba si fa draga grondante di luce e di amore: sinestetici tocchi ricamati di merletti fatti a mano; lavorati da mani artigiane aduse a tagli e ritagli;
a fantasie di urgente creatività. Né mancano sorpresa e meraviglia dinanzi al mistero che avvolge e sconvolge un poeta cosciente della miseria umana quando prova a misurarsi col tutto; dacché c’è questo tentativo da parte sua di avventurarsi in navigazioni di difficile approdo, in contemplazioni di stelle e di infiniti che lo sperdono in mondi impossibili, in contemplazioni stranianti.

.

(…) Una strada buia
in montagna
camminando a testa in su
pensando
ora la Terra è inerme
sotto il fuoco incrociato
del Cielo
Stelle leggiadre e superbe
sprofondate nel baratro dell’infinito
sembrano sapere qualcosa
e di tanto in tanto strizzano l’occhio (Stelle)

.

E l’opera si dipana in confessioni di un lirismo accattivante ed energico, dove il verso, con plastica morbidezza, accompagna i picchi ispirativi, le vertigini paniche e le meditazioni vitali […] Un caleidoscopio di perlustrazioni emozionali e di incontri onirici che rende questo “poema” plurimo, polivalente, disteso su scarti semantici e soluzioni linguistiche lontane da insidie di luoghi comuni e di epigonismi.

pittura Henri Matisse - 1947

Henri Matisse – 1947

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Paolo Statuti fa poesia coma fa pittura, pratica olio e pastello per quadretti postlirici lindi e pinti, ed essenziali, con un tocco magico di ironia e una componente surreale che è poi la sua compagna di viaggio domestica. Un donchisciottesco mulinare di mulini a vento lirici questi versi di Statuti, come indicano sia la copertina che la immagine posta su di essa. Il suo concetto di poesia è la semplicità, la domesticità, l’essenzialità avulsa da astratti intellettualismi e chimismi lirici o antilirici; per Statuti  la poesia è come la vita, misteriosa e inafferrabile, non la si può arrestare nell’attimo del tempo storico ma scorre via fluida e sfuggente come l’acqua, è una «stella errante»  che non si sa da dove venga e non si sa donde va. Una stella solitaria che la Musa si diverte ad incendiare d’un fuoco fatuo e debole. La poesia di Statuti ama indossare il saio francescano, i sandali di Francesco, la divisa della povertà, non ama la poesia degli intellettuali, costipata di intelligenza e di indigenza spirituale. Credo che la Musa ami questa poesia, perché la Signora rifugge l’inautenticità dei letterati e la noia dei supponenti; che sono poi le medesime ragioni che me la rendono affine e intimamente autentica.

pittura Henri Matisse - 1939

Henri Matisse – 1939

Due poesie inedite

Roma

Roma, ogni notte
ti getti nei vortici
del tuo amante
e scorrete insieme
finché la draga dell’alba
non ti ripesca
grondante di luce
e di amore.

Nato con la camicia

80 anni fa…
Forse sono nato con la camicia, forse…
di certo so che avevo occhi
di un azzurro inquieto –
come disse mia madre –
mani destinate a scrivere
e a dipingere,
orecchie sensibili
a parole e suoni…

Ora sono qui
in una camera d’ospedale,
con un orecchio sordo
che cercano di riparare,
e mi giungono ovattate
le parole del medico di turno:
“Come sente, signor Paolo?”
“Sento un fruscio di bosco,
ma non gli uccelli,
sento la brezza marina
ma non il grido dei gabbiani,
sento il mormorio del mare
ma non il fragore delle onde.
“Beh, lei può dirsi ancora fortunato” –
afferma il dottore.

Fuori della finestra
le nuvole scorrono pigre,
al cielo grigio
fa da tappeto
un bosco scuro,
guardo gli alberi
insolitamente immobili –
la quiete prima della tempesta?
Paolo Statuti Copertina 'La stella errante'Poesie di Paolo Statuti da “La stella errante” (2016)

Vita

Ogni giorno vai smerciando astuta
il logoro corredo dei tuoi stracci,
ti sforzi di ridere e scherzare
ma ogni sera l’ombra ti fa muta.

Il gufo

Solchi i flutti della notte
senza gorgheggi senza frulli
scivoli via silenzioso
sovrano del buio
i tuoi occhi – una corona
di topazi e smeraldi.
Come vorrei potermi celare
nelle tue soffici piume
e accarezzare con te
il velluto della notte!

A Masečín

A mia figlia

Il gallo chicchiriava presto
la mattina,
ma non m’infastidiva,
anzi mi rallegrava.
Schiamazzavano le galline
e ognuna credeva
d’essere la favorita.
Scrosciava la pioggia
e scorreva via,
scorreva via
come la vita.

Senzatetto

Ho dato qualcosa a un senzatetto,
mi ha sorriso e ringraziato:
grazie tante, signore…
vede, io sono schiavo
della mia povertà,
ma sono felice
della mia libertà.
Poi se n’è andato.
Lo guardavo allontanarsi:
lasciava sul terreno
le sue enormi impronte
di umanità.

La lettera

Il fruscio delle foglie secche
punge il corpo
come vespa invisibile
sbatte una finestra
con monotona perfidia
oggi anche il sole fa il broncio
sbocconcellato da una grigia trina
che puzza di pioggia
se tu almeno fossi qui
mi diresti
che il fruscio delle foglie
è uno scherzo di Chopin
che la finestra che sbatte
è una tachicardia
e che una lettera non scritta
non è poi la fine del mondo.

Ho visto un uomo…

Ho visto un uomo
con un buco nella scarpa
Il vestito mostrava
il lungo sfregamento
contro il tempo
Si è avvicinato al banco
dei liquori
la vodka nei suoi occhi
sgorgava dalla roccia
saltellava allegra
tra i ciottoli
la fissava pensando
com’è fresca
com’è limpida
peccato…
Mansueto mi ha sorriso
e se n’è andato
come Adamo –
cacciato dal paradiso
Ho visto un uomo
con un buco nella scarpa

Il sorriso della rosa

Ad Olga

Quando la rosa si schiude
sorride
e dai petali affiora l’anima,
come dal viso della Gioconda.
Il suo colore non conta,
la rosa è sempre bella,
e sorride…sorride
fino all’ultimo sospiro.
Le spine sono il suo destino,
il suo ornamento ingiunto,
la lieve malinconia
del suo sorriso.

Poesia

Se non sai cos’è la poesia,
immagina d’esser sordo
e udire scendere
dal cielo un accordo…
immagina d’esser cieco
e vedere accendersi
il fuoco del tramonto…
immagina d’esser muto
e poter dire:
tu piccola stella
risplendi, tremando
d’infinito…

Vecchio violoncello

Vecchio violoncello
annerito dal tempo
e accantonato
come una cosa inutile
ora sei come un fiume
di voci imprigionate
di carezze represse
sei come un nido abbandonato…
Ricordo il nonno
che ti stringeva a sé
per eseguire “il Cigno”
tutta la casa allora si fermava
per ascoltare
e anche gli uccelli tacevano
solo le tende vibravano
la sala si mutava in un lago
e il cigno scivolava via
fiero della sua bellezza
e del suo soffice candore
e noi lo seguivamo…
Com’è irreale
ora il tuo silenzio
rotto soltanto
dai rumori della strada
che non cessano mai…

Tadeusz Różewicz Paolo Statuti 1990

Tadeusz Różewicz e Paolo Statuti 1990

La mia ultima preghiera

Mio Dio,
quando mi chiamerai,
accoglimi con un sorriso
per come sono,
per quello che ho fatto
e non fatto nel bene e nel male,
non essere un giudice severo,
sii misericordioso,
ma con tutto il cuore t’imploro,
non farmi tornare mai più
su questo Pianeta:
potrei essere un corrotto
o un terrorista,
un padre senza lavoro
oppure un analfabeta,
un mafioso o un camorrista,
un bambino che muore di fame,
un clandestino annegato,
una donna violentata,
una pianta malata tra i rifiuti,
un pesce soffocato dalla plastica,
un uccello avvelenato
dall’aria inquinata.
Se devo rinascere, mio Dio,
trovami un luogo
nell’immenso universo,
lontano dall’uomo
e vicino ai saggi animali,
e se mi vedrai triste e solo
mandami un Tuo angelo
con tre ali,
sì, un angelo poeta,
musicista e pittore,
con una poesia da tradurre,
una cantata da ascoltare
e una tela da dipingere insieme.
Grazie, mio Dio e adesso –
l’ultimo favore –
che la mia anima
sia per sempre preda
del Tuo Infinito Amore

Il pianoforte

Pianoforte di casa mia,
pieno di tarli e di nostalgia,
che bel suono un tempo avevi,
quanti applausi ricevevi!
Ora sei solo con le corde antiche –
le tue mute care amiche.
Ricordo che cantavo con te
Fior di giaggiolo: eravamo in tre
con la mamma che accompagnava,
mentre Beethoven ci guardava.
Vicino a te pende ancora il diploma
che la mamma prese a Roma.
Ora vivi solo di ricordi
di tante note, di tanti accordi.
Chopin ti ha lasciato la sua impronta
e quando fuori la pioggia gronda,
risuona il preludio della goccia,
che batte e ribatte sulla roccia…
Vecchio pianoforte così scordato,
Pieno di acciacchi e così forato,
La polvere che copre la tua armonia
è la cipria del tempo che vola via.

La Festa dei Morti

Oggi i Morti sono assai indaffarati:
all’alba sono già svegli
si fanno gli auguri a vicenda
si baciano e si abbracciano
si presentano ai nuovi abitanti
poi si preparano ad accogliere
con gioia chi li viene a visitare
coi fiori in mano
e il passo incerto
Oggi i Morti rivivono con noi:
ascoltano i nostri sospiri
leggono i nostri desideri
asciugano le nostre lacrime
o fotografano i nostri sorrisi…
pregano con noi
Poi quando ce ne andiamo
e il silenzio torna ad avvolgere
i marmi le fronde e i lumini accesi
ancora per un po’ ci pensano
poi si riaddormentano felici
cullati dai nostri ricordi

Volava una nuvola…

Volava una nuvola
sfiorando le guglie,
lasciando sui tetti
batuffoli bianchi.
Rumore di passi:
qualcuno a casa tornava,
e come la nube
brandelli di vita
sulla strada lasciava.
Raccolse un ramo
e lo scagliò lontano,
poi come distratto
accarezzò due gatti
e un cane randagio
e salutò la luna.
Chi era?
Chissà,
forse un poeta

 

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Ida Magli (1925-2016) su “Gesù di Nazareth” e la “Madonna” a cura di Luciano Franceschetti

Gesù fotogramma film Il vangelo secondo MatteoGesù di Nazareth

La lettura dell’insegnamento di Gesù proposta dall’antropologa Ida Magli (spentasi il 21 febbraio all’età di 91 anni), è stata a lungo osteggiata ed avvolta nel silenzio. Era una lettura scomoda. Il libro, uscito nel 1987 e ora ripubblicato in edizione economica, dimostra che i Vangeli sono suscettibili delle interpretazioni più varie. Al falegname di Nazareth si può far dire tutto e il contrario di tutto. Vi sono studiosi che lo considerano un prodotto genuino della tradizionale religiosità ebraica, dalla quale nella sostanza non si sarebbe distaccato. Al contrario, Ida Magli lo presenta come colui che rompe  con l’Antico Testamento e con qualsiasi culto fondato su liturgie e mediazioni sacerdotali. Per Gesù una religione che si basi su rituali è una religione di morti (di «sepolcri imbiancati»), perché l’uomo «è vivo solo quando affida solo a se stesso, alla propria volontà, alla propria potenza, il suo agire, e il suo rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio».

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Gesù, sostiene Ida Magli, ha cancellato la distinzione tra sacro e profano. Quindi i suoi seguaci, compresi Pietro e Paolo, lo hanno tradito da subito (e non parliamo poi della Chiesa come istituzione). «Il cristianesimo» – si legge ancora in questo libro – «costituendosi con tutte le strutture del sacro, fin dal primo momento della morte di Gesù, non ha in nessun modo messo in atto quello che lui aveva proposto».

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Ha ragione Ida Magli? Ha torto? Difficile dirlo. Il pensiero di Gesù è interpretabile in tanti modi così clamorosamente diversi gli uni dagli altri, nessuno può pretendere di parlare in suo nome, tantomeno un consesso di uomini che si autoproclamano Chiesa cattolica. 

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In una recente intervista, così rispondeva Ida Magli: « I vangeli sono un dato di fatto: qualcuno ha narrato o ha messo per iscritto quello che aveva visto. Seppure si dimostrasse che non è esistita quella persona chiamata Gesù di Nazaret, colui o coloro che l’hanno narrato sicuramente sono esistiti e non potevano inventare un personaggio come Gesù. Un “Gesù” non lo si può inventare, salvo che essere lui, o essere come lui. Hanno narrato i GESTI assolutamente incredibili nel contesto della vita di quella società. Sottolineo i GESTI perchè Gesù si è servito di gesti molto di più che di parole perchè i gesti non possono essere travisati, “interpretati”. La sua assoluta ribellione era rivolta contro una società che viveva di interpretazione delle parole e delle norme della Scrittura, moltiplicandole all’infinito. Su questo punto la Chiesa cattolica, come del resto quella ortodossa e le varie Chiese riformate, non si sono quasi per nulla soffermate  perchè hanno, in pratica, continuato nella prassi dell’interpretazione e della costruzione sulle parole. Ma le azioni di Gesù comportavano una totale rivoluzione proprio sotto questo aspetto ed erano traumatiche e sconvolgenti per tutti coloro che lo guardavano in quanto, non soltanto proibite, contaminanti, sottoposte a condanne durissime e in alcuni casi anche la morte (per esempio il non tener conto del divieto di compiere qualsiasi azione durante il tempo del Sabato comportava la morte), ma anche e soprattutto perché appunto condannavano il sistema, la forma mentis ebraica. Rivolgere la parola a una donna mestruata era proibito: nei Vangeli la presenza di episodi riguardanti i rapporti di Gesù con le donne è talmente preponderante in confronto agli scarni contenuti di tipo generale che se ne può facilmente dedurre che era questo comportamento quello che aveva colpito di più i suoi discepoli e tutti quelli che gli stavano intorno. Perfino nell’episodio commentato innumerevoli volte nel passare dei secoli della Samaritana al pozzo, se non si dice che le donne samaritane erano ritenute sempre impure, sempre mestruate fin dalla nascita, non  si capisce l’entità della “rottura” del sistema del sacro compiuta da Gesù: rivolgere la parola a una donna mestruata, toccare un oggetto toccato da lei (il contenitore dell’acqua) e parlare proprio a lei di una delle più difficili ed essenziali “novità” di vita: nulla è più concreto che la vita vera, quella dello spirito, mentre gli Ebrei che facevano più di cento gesti di purificazione al giorno con l’acqua non ci credevano affatto appunto per questo, ossia bisognava purificarsi all’infinito. Insomma: la Chiesa, pur credendo in Gesù, ha proseguito sulla strada della mentalità ebraica costituendo appunto una nuova teologia e il Gesù dei Vangeli è ancora tutto da scoprire.
Gesù Il vangelo secondo Matteo 3

Gesù Il vangelo secondo Matteo

“Il Figlio unigenito di Dio, Maria madre di Dio, il Salvatore” sono già “passaggi” teologici. Paolo, poi, non “ha visto” Gesù in azione: era un ebreo ed è rimasto con la mentalità ebraica. La differenza, il conflitto fra lui e Pietro, nasceva da questo. Gli uomini possono sperare nel messaggio di Gesù e in una vita nell’al di là? Penso di sì. Il “dopo la morte” è un pensiero che non abbandona mai l’uomo, che “fonda” l’uomo; Gesù, uomo fra gli uomini, non soltanto lo sapeva bene e lo sperimentava, ma aveva proprio per questo una infinita compassione degli uomini. Non si può, dunque, non sperare in un dopo la morte, ma Gesù è venuto ad insegnare a vivere, a come vincere la morte nella vita, servendosi non del sistema del Sacro, non delle norme tabuistiche, ma della vita stessa, della sua verità. Si tratta di “capire” ed “amare” ciò che realmente ha fatto Gesù, in che cosa ha “salvato” gli uomini: ha negato in tutto le norme, ma soprattutto, la forma mentis dell’Antico Testamento e delle sue interpretazioni. Del resto è per questo che l’hanno ammazzato, non potevano non ammazzarlo: il potere del Sacro si fonda sulle regole dell’interpretazione. Gesù ha negato il potere del Sacro. C’è un episodio in qualche modo definitivo da questo punto di vista, quello in cui Gesù dice al giovane che voleva andare a compiere il suo dovere di culto nei confronti della salma del padre morto: “Lascia che i morti costudiscano i loro morti”. I morti sono quelli che adempiono alle formule rituali. Ma, lo ripeto, le formule rituali nell’ebraismo non sono quelle che pensiamo oggi come formule: sono il vero ed unico sistema del Sacro. Il maggiore tradimento che la Chiesa ha compiuto nei confronti di Gesù è quello attuale: riportare Gesù nella continuità dell’ebraismo.  

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I gesti di Gesù sono concreti, producono effetti reali, non simbolici: la resurrezione di Lazzaro è reale, la guarigione del lebbroso è reale, la rottura del sabato è reale e così via. E’ soprattutto per questo motivo che Gesù prima agisce e soltanto dopo spiega con parole quello che ha fatto. L’interpretazione simbolica è già “teologica”. C’è del resto un episodio nei Vangeli nel quale è Gesù stesso a mettere in guardia sulla possibilità di questo equivoco, un equivoco facile per la mentalità ebraica contro  la quale combatte, ponendo l’accento su questo aspetto di realtà:  quando gli portano il paralitico perché lo guarisca e gli astanti s’impazientiscono perché lui invece gli dice che i suoi peccati sono perdonati, Gesù mette in rilievo proprio questo: voi credete che sia più facile cancellare i peccati, ma adesso io ti dico: “alzati e cammina” e vedrete che sono reali tutte e due le cose.
Gesù fotogramma film Il vangelo secondo Matteo. 2jpg

fotogramma film Il vangelo secondo Matteo.

E‘ vero che la Chiesa ha avuto dei grandi meriti: prima di tutto, ovviamente, per averci conservato i vangeli e l’assoluta bellezza della libertà spirituale, dell’amore, del perdono, mai conosciuta nella storia. Quali che siano stati e siano ancora le sue terribili colpe, sono colpe perchè ha mancato all’insegnamento di Gesù: se non ci avesse consegnato il messaggio di Gesù, forse non saremmo stati capaci neanche di capire che sbagliava. Soltanto che Gesù ha preteso la rinuncia al sistema di sicurezza dato dal Sacro, dalla “ripetizione” delle formule, ossia ha preteso la verità dell’amore, mentre la Chiesa non gli ha creduto, non ha avuto il coraggio di rinunciare alle formule. Ma come si può parlare a Gesù con delle formule? Lui ha detto: “non ripetete parole”, ma è chiaro che l’ha detto perchè nella società ebraica non c’era nè un gesto, nè una parola che non fosse prescritto, non c’era il rapporto d’amore diretto, a tu per tu con Dio. Nessuno di noi parla al proprio innamorato o innamorata ripetendo formule. L’amore inventa, dice sentimenti, pensieri sempre nuovi, o anche tace…ma mai formule, e Gesù odiava le formule, tutto quello che non è dettato dalla forza della verità dei sentimenti. Era un poeta e pensava ogni uomo come poeta: guardate i gigli dei campi…

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Cosa può fare la Chiesa concretamente? Abbandonare i luoghi deputati, le parole deputate, fare come Francesco (non come i Francescani): uscire dalle chiese, dalle parrocchie per parlare soltanto di Gesù, direttamente di Gesù, sine glossa, senza commenti eruditi ma con tutti gli strumenti che oggi abbiamo per descrivere meglio l’ambiente dei vangeli, i costumi contro i quali Gesù combatteva: l’impurità, la contaminazione, la ripetizione dei rituali, senza timore di offendere gli Ebrei. Se si crede in Gesù, non si può avere timore di offendere nessuno. Quello che offende è lo sfruttamento dei Santi e l’arricchimento attraverso i Santi (padre Pio, tanto per intenderci); l’ignoranza del clero anche quando ha studiato per anni perchè non è necessario studiare per parlare dell’amore, e dell’amore di Gesù, e il clero è arido quando parla come un legno secco. Non in televisione, ovviamente, ma per le strade, nei giardini (io vorrei che ci fosse a Roma, a Villa Borghese, per esempio, un albero di ritrovo per chiunque voglia parlare e sentir parlare di Gesù). Fanno più danno al cristianesimo i preti che parlano in televisione che non la mancanza assoluta di preti. Eliminare le messe quotidiane, la comunione quotidiana, tutto quello, insomma, che è “ripetizione”.
Gesù Accattone

Accattone, film di P.P. Pasolini

Come comportarsi con gli Ebrei? Io ho scritto un lungo capitolo per spiegare la situazione senza via d’uscita degli Ebrei nel mio libro “Il mulino di Ofelia” e debbo per forza rinviare a quello perchè il discorso è molto complesso, difficile da riassumere in poche righe. Posso dire soltanto la conclusione: gli Ebrei si sono messi da soli nella condizione di non essere creduti e di non essere amati affermando che loro sono il popolo prediletto. Nel mondo contemporaneo, nessuno può credere che un Dio, un vero Dio, un Dio di verità, di giustizia, d’amore “prediliga” qualcuno; nessuno lo può neanche accettare senza  rinunciare a credere in questo stesso Dio: “Hai un popolo prediletto, tieniti quello”. Inoltre gli Ebrei hanno commesso l’errore, forse irrecuperabile, con la riappropriazione della Palestina e la creazione dello Stato d’Israele, di chiudersi la strada che avevano sempre seguito, quella dell’attesa per il ritorno alla terra promessa. Adesso cosa possono attendere? O finisce il mondo (cosa che non sembra probabile) oppure, avendo raggiunto la terra promessa, dovrebbero essere “perfetti”, cosa altrettanto improbabile. Per questo, sono convinta che sia inutile qualsiasi sforzo da parte della Chiesa, sia di “convertirli” (a che cosa, visto che hanno raggiunto la terra promessa senza aspettare il Salvatore?), sia di riavvicinare il Vangelo all’Antico Testamento. Gravissimo tradimento nei confronti di Gesù, ma anche nei confronti dell’uomo moderno che, dopo il lungo percorso storico di civiltà giuridica compiuto dall’Occidente anche per effetto del Cristianesimo, credente o non credente che sia, ha orrore di una “pseudo” giustizia, quella della legge del taglione, della lapidazione delle adultere e degli omosessuali, ecc. Amare Gesù è facile, “vivere” cercando di far coincidere sempre la vita con l’amore, la giustizia, la verità, è molto difficile. Non è rinunciando alla verità, come fanno spesso i cattolici oggi, con il politicamente corretto, o con l’accettazione di tante verità quanti sono gli individui al mondo, che si può riavvicinarsi ai vangeli, di questo sono convinta. Non so che cosa si possa fare però per salvare l’Occidente cristiano dalla convulsa agonia nella quale si trova.
Gesù Il vangelo secondo Matteo 4

Gesù Il vangelo secondo Matteo

La Chiesa si è disinteressata dell’Europa fino dai tempi di Karol Wojtyla, il quale non ha detto che qualche parola di generico consenso sul progetto di unificazione europea, come se non comportasse enormi problemi per i popoli e soprattutto per i cattolici. Si è avuta l’impressione che l’Europa fosse data già per perduta, che ormai gli interessi della Chiesa fossero concentrati sull’India e sull’Africa per un facile “acquisto” di fedeli e di vocazioni. Sottolineo: “acquisto” perchè si tratta di persone talmente povere, sotto tutti gli aspetti, che il riuscire ad appartenere all’Occidente per mezzo del cattolicesimo si configura come il massimo bene, la massima fortuna. Anche qui si tratta ovviamente soltanto di un accenno al principale problema “missionario”, che dovrebbe essere guardato in faccia dai cattolici senza timore di offendere nessuno, perchè il cristianesimo non può radicarsi laddove manca la personalità di base europea, il gene psicologico e culturale latino-italiano, il suo senso del tempo, del giusto, della creatività, del “bello” in tutte le sue forme. Ci sono e ci saranno molti milioni di cattolici fuori dall’Europa, ma rappresentano e sempre più rappresenteranno una fra le tante piccole “chiese” che pullulano negli anfratti dell’islamismo, del buddhismo, dell’induismo, oggi ancora in qualche modo illuminati dalla potenza e dalla ricchezza dell’Europa, domani privi di questa loro quasi unica forza. Che senso può avere predicare l’umiltà, la rinuncia, il sacrificio, la povertà, la castità, a chi è così totalmente povero? Basta vedere un sia pur povero edificio di frati o di suore italiane nel contesto delle baracche africane o indiane per capire di quanti innumerevoli gradini sia fatta la povertà, e quanto noi si sia ricchi anche quando cerchiamo di comportarci come poveri e di “essere” poveri ». 

La Madonna

« Μὴ φοβοῦ, Μαριάμ· εὗρες γὰρ χάριν παρὰ τῷ Θεῷ. Καὶ ἰδοὺ συλλήψῃ ἐν γαστρὶ
καὶ τέξῃ υἱόν, καὶ καλέσεις τὸ ὄνομα αὐτοῦ Ἰησοῦν. Οὗτος ἔσται μέγας καὶ υἱὸς
Ὑψίστου κληθήσεται »
« Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai
e partorirai un figlio e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio di Dio »

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Vangelo secondo Luca

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«Della stessa autrice di “Gesù di Nazareth”», annuncia la copertina del libro, mirando a sottolineare un precedente successo editoriale della nostra grande antropologa più che l’oggetto di questa sua nuova analisi: il personaggio storico, l’evoluzione e la trasformazione della Madonna. Ricorrendo alla metodologia delle scienze umane, Ida Magli «elabora gli scarni dati sui quali la Chiesa costruì il mito della Madonna per ricondurne la figura alla condizione di donna ebrea, in una quotidiana esistenza contrassegnata dai conflitti con i riti fissati dalla tradizione religiosa. […] Particolare attenzione è posta dall’A. nel decodificare la costruzione culturale mariana, ravvisarne la rispondenza a precisi interessi ecclesiastici e illustrare l’itinerario delle principali “apparizioni”». (Mimmo Franzinelli)

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  • Con la biografia di santa Teresa di Lisieux […] mi sono resa conto ancor meglio che al centro della storia percorsa dall’Europa, l’immagine ideale della Donna è inamovibile, ossia fondante. Ma dire «immagine ideale della Donna» significa dire ancora una volta che il creatore dei significati è l’uomo-maschio, e che il suo porsi nei confronti della femminilità (il modo concreto di vivere il sesso ne è soltanto la conseguenza) non è «reale» (Premessa: la de-realtà della vita in Occidente, 10).
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  • L’unico maschio è Dio. Israele è la Sposa di Dio. Il patto di alleanza avviene attraverso una offerta sessuale: l’offerta del prepuzio. […] Inizia, così, la storia drammatica del rifiuto della sessualità nel cristianesimo che porterà, come logica conseguenza, ad attendere la fine del mondo (20).
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  • L’avvento del «bambino». […] Come si vede, il problema era cristologico. Ma da qui comincia l’immensa costruzione culturale che porta il nome di «Madonna». […] Ma soprattutto l’immagine di Maria come madre permette di concentrarsi sul bambino. È questa la vera novità portata dal cristianesimo (33).
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  • Una donna ebrea. La nascita di una bambina non era motivo di giubilo. L’unico figlio veramente «figlio» era il maschio […] (37)
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  • I conflitti col figlio. L’appellativo con il quale continua a chiamarla, anche negli ultimi istanti di vita, «Donna», e che ha indotto i commentatori ai più contorti ragionamenti per spiegare come mai non la chiami «madre» secondo le abitudini ebraiche, è soltanto una conferma. Non le riconosce alcun ruolo come madre (48).
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  • Maria di Nazareth secondo gli evangelisti. «Allora Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei». Su questo testo è stato costruito il dogma della divinità di Gesù.
  • maria-di-nazareth-618x403Ossessionati dall’integrità fisica. […] Esegeti, teologi, commentatori di tutti i generi hanno puntato su questo passo per affermare la verginità di Maria… Ma si tratta di fantasticherie. Gli ebrei, sia maschi che femmine, si sposavano per avere figli, considerati l’unica vera benedizione di Dio. La massima condanna era quella di non averli (65).
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  • L’ombra potente di Dio. Presso gli ebrei la potenza sessuale è numinosa e tremenda. […] Chiamare Dio a «testimone» è chiamare la forza della potenza sessuale (70).
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  • Un figlio illegittimo. Ma nella società ebraica non si è nessuno se non si ha un padre. Una ragazza-madre è una donnaccia […] Maria, dunque, deve essere legalmente sposata. Di qui la presenza di Giuseppe. Per la società Giuseppe è il padre. I teologi affermano che Giuseppe, in quanto padre legale, è il padre adottivo, ma è facile capire che si tratta di un falso. Giuseppe non è né l’una cosa né l’altra (76).
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  • La costruzione culturale della «Madonna». Ci troviamo ancora una volta di fronte alla mentalità ebraica dei seguaci di Gesù.[…] Il coito rende impuro il maschio, che è tenuto a rituali di purificazione per ritornare degno del rapporto con Dio, unico vero sposo dell’ebreo. Il corpo femminile è il «contenitore» della cosa più sacra: l’essenza della mascolinità, lo sperma (85).
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  • La «chiusura» fisica e morale delle donne. Il corpo femminile, dunque, viene tabuizzato, soprattutto nei periodi di massima «apertura»: il mestruo, il parto, il puerperio. […] È il sacerdozio, infatti, il controllo maschile sul mondo divino. La parola potente è strumento esclusivo del maschio, in analogia col pene, che è il primo strumento proiettivo che l’uomo conosca (91).
  • maria di Zeffirelli

    maria di Zeffirelli

    Un corpo perfetto. La teologia cattolica ha costruito a poco a poco, con la «Madonna», quello che gli uomini di tutti i tempi e di tutti i paesi hanno desiderato e tentato di costruire con le donne. (…) Immacolata concezione significa che la Madonna è stata concepita senza il peccato originale. (…) Essa perde qualsiasi concretezza biologica e diviene ciò che gli uomini desiderano: un corpo femminile perfettamente chiuso.
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  • La donna ideale e la Madonna. Vergine, vergine, vergine… Questa parola, che risuona di continuo, riflette, senza che più nessuno si accorga della sua fisica brutalità, la vera ossessione degli uomini (102).
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  • Tanti nomi per un’idea. Gli attributi della Madonna sono gli oggetti del desiderio che vengono incollati su di lei come su di un supporto onnivalente. Le infinite statue della Madonna, cariche di corone di collane di stelle di vestiti di mantelli, sono la Madonna.
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  • Rosa fresca aulentissima. […] Rigore ascetico significa in particolar modo intensificazione della rinuncia al sesso e di conseguenza maggior odio contro le donne. Il confronto oppositivo fra Eva e Maria, già presente nei Padri dei primi secoli, diventa tratto distintivo della lode alla Madonna e arma contro le donne. […] Il parallelo fra Eva e Maria, però, prende grande vigore perché permette di caricare tutto il male su Eva, prima donna e causa dell’ingresso della morte nel mondo (106).
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  • Bernardo e il furore amoroso. […] Se prendiamo come esempio Bernardo da Chiaravalle è perché san Bernardo è considerato il «dottore» mariano per eccellenza. […] L’interpretazione di Bernardo rimane una prova dell’impossibilità – una volta entrati nella distorsione logica con la quale si guarda alla Madonna – di conservare il senso della realtà (114).
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  • Gli eroi delle apparizioni. […] Come già sappiamo, sono gli innamorati della Madonna gli uomini che hanno agito con maggior forza e durezza nella storia della Chiesa. […] Dal 1800 in poi, invece, a queste apparizioni «private» si affiancano apparizioni per scopi «pubblici», per comunicare determinati messaggi alla società (122).
  • maria di Pasolini

    Maria di P.P. Pasolini

    Di queste Madonne è impossibile elencare i nomi, perché i santuari mariani sono i più numerosi che esistano al mondo. La Chiesa dice che è l’Immacolata? Che è l’Assunta? Che è la Madre di Dio? La gente lo ripete, convinta che si tratti della sua stessa verità, perché ciò che conta non è la definizione teologica, ma la sicurezza di quello in cui si crede […] (124).
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  • La concretezza del sacrificio simbolico. Grandi santuari si innalzano adesso nei luoghi dove gli eroi sono stati sacrificati. A Lourdes, a Lisieux, a Lucca, a Fatima, immensi, orribili edifici testimoniano il bisogno insopprimibile della società: offrire vittime. […] Lo scontro fra potenze maschili continua, dunque, ad avvenire tramite la femminilità (134).
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  • La Madonna e le sue immagini. Il problema, per quanto riguarda l’arte mariana, sta proprio qui: anche la Madonna è pura invenzione. La teologia mariana «inventa» tanto quanto inventa l’arte. […] Questa totale irrealtà corrisponde comunque a una idea, a una fantasia, a un desiderio, proiettati dal Maschio, unico creatore (141).
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  • Il prototipo della madre. Questa madre non parla di sé, ma della funzione di madre, così come la vogliono gli uomini: essere per il bambino.
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  • La tipologia simbolica della pittura. […] C’è in tutte queste Madonne un corpo senza corpo, che è proprio quello che vorrebbe la teologia. […] I dogmi mariani, infatti, parlano una lingua priva di linguaggio. Che attraversa la storia senza mai cambiare perché non può essere «parlata». In realtà si tratta di un metalinguaggio che propone soltanto «forme», che costruisce alienando (151).
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    maria di Pasolini

    Sintesi della morte. Naturalmente le più «umane» sono le pietà, le deposizioni, le crocifissioni. […] La Madonna diventa perciò colei che consacra il Potere, che induce al sacrificio, alle guerre, e viene esaltata con il nome di Regina delle Vittorie (153).
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  • Il tempo interrogativo della musica. Lo strumento musicale è come il corpo della donna: è «femmina». […] Femminile, dunque dalla parte del Male, diabolica. […] Ma le tentazioni si succedono sempre «analoghe»: la donna, la musica. Ambedue, «strumenti». Come è inevitabile, alla fine i due strumenti si unificano: il diavolo suona indifferentemente o la viola o il corpo della donna.
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  • La verità della perfetta invenzione. […] È vera, della verità della perfetta invenzione. […] Questo castello ha poi seguito una sua strada che non ha più nulla a che fare con Gesù. È l’assolutizzazione della Donna, sognata, idealizzata dai maschi, creatori della cultura e detentori del potere nei confronti delle donne (164).
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  • La non-scienza teologica. La sterminata bibliografia mariana (16.685 titoli in vent’anni, dal 1948 al 1968) non «nutre» il pensiero perché non apre nessuna possibilità di crescita: è un non-pensiero, la non-scienza per definizione. […] Di fatto, le proposizioni intorno alla Madonna non possono essere oggetto di discorso, né negativo, né positivo, perché appaiono chiaramente collocate nell’ambito dell’affabulazione (166).
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  • C’è quindi una profonda disparità fra Eva e Maria. […] Se schiaccia il serpente è perché non ha ingaggiato nessuna battaglia con lui. Se c’è lei, lui non c’è. Ma cos’è il serpente se non la sessualità maschile?
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  • La Bella e la Bestia. Lo scopo ultimo della costruzione «Madonna» è per il maschio eliminare il passaggio sessuale attraverso la femminilità. L’apparente trionfo di Lei è il trionfo di Lui: la dissoluzione di qualsiasi legame con la Donna.
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  • La divinizzazione dell’uomo. […] Costruire un Uomo – Gesù – che è anche Dio, è invece l’estremo tentativo per affermare che l’uomo è Dio attraverso il processo della procreazione.[…] Meglio l’indifferenza. L’uomo è uomo, anche se Dio non c’è, piuttosto che riconoscere di essersi messi al posto di Dio.
L’Autrice
Ida Magli (1925-2016), scrittrice e docente di Antropologia culturale all’Università di Roma, autrice di importanti saggi tra cui ricordiamo Gli uomini della penitenza, Alla scoperta di noi selvaggi, Gesù di Nazareth, Santa Teresa di Lisieux, Viaggio intorno all’uomo bianco, Storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, da giornalista e pubblicista, si è occupata vieppiù di temi attuali e politici: Sulla dignità della donna (la violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla), Sesso e potere.
  • Ida Magli, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 1982. Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1987. ISBN 88-17-13693-X
  • Ida Magli, La Madonna, Rizzoli, Milano 1987; Baldini Castoldi Dalai, Milano, 1997.
  • Ida Magli, La sessualita maschile, Mondadori, Milano 1989. ISBN 88-04-31023-5
  • Ida Magli, Teresa di Lisieux, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1995. ISBN 88-17-17040-2
  • Ida Magli, Contro l’Europa: tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht, Milano, Bompiani, 1997. ISBN 88-452-3511-4
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     RICORDANDO UMBERTO ECO: Il Gruppo 63, quarant’anni dopo  [Prolusione tenuta a Bologna per il Quarantennale del Gruppo 63, 8.5..2003. 1 Eco Gruppo 63, 2003] da www.umbertoeco.it

    umberto eco4

    Crediamo che il miglior modo per onorare la personalità umana e intellettuale di Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio 2016, sia quello di dargli la parola:

    Riunirsi non vent’anni ma quarant’anni dopo può avere due funzioni, o profili. Una è la riunione dei nostalgici di una monarchia, che si ritrovano perché vorrebbero che il tempo tornasse indietro. L’altro è la riunione dei vecchi compagni della terza A, nel corso della quale è bello rievocare il tempo perduto proprio perché si sa che non ritornerà più: nessuno pensa che si voglia tornare indietro, semplicemente si sta recitando il proprio longtemps je me suis couché de bonne heure, e ciascuno assapora nei discorsi degli altri la propria madeleine inzuppata nell’infuso di tiglio.

    Spero che questo nostro ritrovarci abbia più del simposio tra vecchi compagni di classe che del complotto di vandeani nostalgici, con un solo correttivo. Che ci si riunisce anche per riflettere su di un momento della cultura italiana, rileggendolo col senno di poi, per capire meglio che cosa sia avvenuto, e perché, e per aiutare i più giovani, che non c’erano, a comprenderlo meglio. Nella fattispecie, poiché non sapevo in anticipo chi avrei trovato in questa sala, ho pensato ad alcune annotazioni sull’ambiente culturale di quarant’anni fa, dirette principalmente a chi non c’era,e non a a tutti i sopravvissuti che ritrovo con grande piacere ma che, come era d’uso allora, mi contesteranno che tutto quanto avrò detto era sbagliato.

    Riandiamo dunque alle origini, e poiché parliamo qui a Bologna, nel ricordo ancora indimenticabile di Luciano Anceschi, ricordiamo che in principio era il Verri.

    Il verri

    Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956 in cui Anceschi mi ha telefonato. Lo conoscevo di fama. Che cosa poteva sapere lui di me? Che da meno di un anno e mezzo mi ero laureato a Torino in estetica, che vivevo ormai a Milano e stavo frequentando giovani poeti come Luciano Erba e Bartolo Cattafi, che vedevo Paci e Formaggio, che avevo pubblicato poche cose su riviste quasi clandestine? Mi ha dato appuntamento in un bar del centro. Voleva solo scambiare delle idee. Stava per iniziare una rivista e non stava cercando nomi famosi (li aveva già), cercava di mettere insieme dei giovani, non necessariamente suoi allievi, gente diversa, e voleva che parlassero tra loro. Gli avevano detto che c’era un giovanotto di ventiquattro anni con interessi che potevano incuriosire anche lui, e andava ad arruolarlo.

    Rievocavo anni fa l’episodio, durante la celebrazione funebre di Anceschi, qui all’Archiginnasio, con Fausto Curi, e gli domandavo: “Ma uno di noi, oggi, con tutte le grane che ha già, gli dicono che c’è in città un giovane che si è laureato in un’altra università, andremmo a cercarlo per fargli fare qualcosa?” Curi mi aveva risposto: “Ma ci barricheremmo in casa staccando il telefono!” Forse non ci barrichiamo sempre, almeno spero. Ma certo Anceschi non si barricava mai.

    Anceschi mi introdusse ai misteri del Blu Bar di Piazza Meda. Era un bar del centro, piuttosto anonimo, ma aveva una saletta nel retro, e tutti i sabati verso le sei arrivavano dei signori che si sedevano a chiacchierare di letteratura, prendendo un tè o un aperitivo: erano Montale, Gatto, Sereni, Ferrata, Dorfles, Paci, qualche scrittore di passaggio a Milano, e Carlo Bo dominava la scena coi suoi silenzi omerici. Certe sere quella saletta faceva pensare alle Giubbe Rosse. Contrabbandati da Anceschi, abbiamo iniziato ad arrivarvi noi giovanissimi. Ricordo quelle serate come occasioni epiche, e il dialogo generazionale non è stato infruttifero, almeno per noi. In un certo modo, però abbiamo contribuito a una lenta trasformazione di clima, ci passavamo le poesie dei futuri Novissimi, Glauco Cambon ci dava in lettura i dattiloscritti dei suoi primi saggi joyciani per Aut-Aut, Giuseppe Guglielmi ci leggeva i versi che poi avrebbe pubblicato sul primo Verri, dove rievocava una lei che recava su un piatto di Sèvres “anifructus brunito per la cena”. Il Verri stava per pubblicare una poesia che parlava di merda, sia pure con accenti arcaici.

    Anceschi mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Eco, veda un poco che cosa si può fare per questo ragazzo, il Balestrini. Ha ingegno, ma è pigro. Bisogna spingerlo a qualche attività, magari in una casa editrice.” Alcuni anni dopo, scoppiata la gran cagnara del Gruppo 63, Anceschi mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Eco, veda un poco che cosa si può fare con il Balestrini. Forse bisognerebbe frenarlo un poco…” Ma si vedeva che godeva dei frutti della sua seminagione, e viaggiava sornione tra le generazioni.

    Sto riguardandomi l’indice del primo numero del Verri, del 1956 (insieme alla filiforme e austera grafica di Michele Provinciali): poesie di Giuseppe Guglielmi e Luciano Erba, antologia di poeti americani tradotti da Rizzardi, saggi di Gorlier, Cambon, Giuliani, Barberi Squarotti, Pestalozza, e poi i giovanissimi come Barilli. I collaboratori si muovevano tra gli interessi di Linea Lombarda e quelli dei futuri Novissimi. I poeti che si recensivano erano Dylan Thomas, Pound, Montale (ma Sanguineti, estrema avanguardia post-poundiana, si occupava di Dante, Inferno I-III). Però, attenzione rispettosa alle Storie Ferraresi di Bassani, un omaggio di Anceschi a Gargiulo, uno scritto di Fausto Curi su Govoni…

    Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

    umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

    Il secondo numero ha un saggio di Montale su Gozzano, un René Wellek sul realismo (era appena uscita dal Mulino la traduzione di Teoria della letteratura di Wellek e Warren), un saggio di Cambon sul teatro di Wallace Stevens. Poesie di Cattafi e Giuliani, un racconto di Lalla Romano. Luciano Erba cura una antologia di nuovi poeti francesi, tra cui figura il giovane Yves Bonnefoy. Frattanto è uscito a Varese, per i tipi di un editore Magenta (o forse a Magenta per i tipi di Varese) il libro di un altro giovane, Laborintus, e ne dà notizia critica Giuliani. Squarotti recensisce e Leonetti e Zolla narratori, un giovane Melandri recensisce un libro di Borrello sull’estetica dell’esistenzialismo, Enzo Paci recensisce Perinetti, e io scopro di aver recensito il primo numero de Le surréalisme, même, diretto da Breton.

    Nel numero 4, insieme a un saggio estetico di Holthusen, poesie di Sereni e di Balestrini (e dunque due generazioni accanto), un’antologia di nuovi (o quasi) poeti tedeschi, Paul Celan, Höllerer, Ingeborg Bachmann. Giuliani recensisce Luzi e Le Ceneri di Gramsci di Pasolini, Curi recensisce Bo e Bo recensisce Ranuccio Bianchi Bandinelli, l’occhio del cinema di Pietro Bianchi è presentato da un misterioso A.A. E, visto che la recensionicina inizia con un accenno alle teorie di quegli anni “cervellotiche e talvolta repellenti, per lo più finite male”, e termina in forma di elenco, assai snobistico, di registi definiti come “incantevoli predilezioni”, ebbene qui si sente la zampa dell’esordiente e ancora contenuto Arbasino Alberto.

    Tra il 1958 e il 1959 appaiono antologizzati i giovani poeti russi e spagnoli, racconti di Pontiggia, Buzzi, Calvino, poesie di Vollaro, Risi, Cacciatore, Pasolini, Antonio Porta che si firma ancora Leo Paolazzi. La rivista della pressante neoavanguardia accoglie con rispetto il Gattopardo e Una vita violenta a opera di Barberi Squarotti, ma apre nel 1959 il discorso sul Nouveau Roman a opera di Barilli e con testi di Robbe-Grillet.

    Accanto a questa girandola di scoperte e – questa volta è il caso di dirlo – di anticipazioni sul “nuovo che avanza”, il Verri lancia sguardi pacati alla storia, e non disegna di tenere un piede nell’accademia, con un saggio di Teodorico Moretti Costanzi su Plotino, nel numero 2, mentre il secondo numero del 1958 è dedicata al barocco (con saggi di Bottari, Getto, Raimondi – ma il tema è troppo vasto e verrà ripreso nel numero 6 del 1959). Anche i poeti, che appaiono come nuovissimi, si chiamano Théodore Agrippa d’Aubigné o Jean de Sponde, e le prose sono di Giordano Bruno.

    Quindi, letture classiche sugli ultimi contemporanei e letture contemporanee sui classici, senza badar molto alle distinzioni di genere; uno sguardo equilibrato sia ai fremiti della nascente neoavanguardia, sia alle prove di scrittori già assestati; uno sguardo sulla cultura mondiale che rende fa del Verri, la cui linea lombarda si estende oltre le valli svizzere, una gaia econtinua gita a Chiasso di arbasiniana memoria. E, soprattutto in queste pagine i giovani recensivano i loro coetanei, e i più anziani recensivano i più giovani, o viceversa, alla sola insegna della curiosità, senza distinzioni di rango accademico – e questo era fenomeno importante per quei tempi.

    La rilettura degli indici potrebbe continuare, ma mi arresterei al primo sintomatico numero 1 del 1960, un anno prima dell’apparizione, nella biblioteca de Il Verri, della antologia dei Novissimi. Anceschi nell’intervento d’apertura saluta il quarto anno, lascia capire che è venuto il momento di portare avanti la ricerca, e apre un dibattito di voci discordi. Ma ospita con ben altro rilievo un cahier de doléances di Barilli, in cui si regolano i conti con Cassola, Pasolini e Testori, un saggio di Gugliemi in cui naturalmente si apre a Gadda, si salva Calvino, ma si conclude che Moravia e Pratolini s’intestardiscono a fare gli uomini di qualità. E a contrassegnare la decisione, per il futuro, di evitare di mancar di rispetto, un saggio di Arbasino s’intitola “I nipotini dell’ingegnere e il Gatto di casa De Feo”.

    SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

    Umberto Eco

    Una nuova vis polemica batte alle porte. Il Verri accenna felicemente a squilibrarsi, Anceschi rompe i ponti, evidentemente disposto a pagare lo scotto. E consentitiemi una nota personale. Avevo cominciato da qualche numero a pubblicare sul Verri alcuni pastiches nella rubrica intitolata “Diario Minimo”, testi miei e altrui, alternati da piccole citazioni, brani curiosi. Nel primo numero del 1960 scopro che l’idea di un’isola posta sul 180° parallelo (poi diventata venticinque anni dopo il tema del mio terzo romanzo) già doveva ronzarmi per la testa, perché cito gli allora novissimi versi di una canzone di San Remo (“E’ mezzanotte, quasi per tutti…”) e intitolo: Fusi Orari. Quindi trascrivo due brani. Il primo è dalla Critica del giudizio di Kant: “Inoltre alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità, specialmente per la proprietà, che hanno i suoi strumenti, di estendere la loro azione (sul vicinato) al di là di quel che si desidera… Il che non fanno le altre arti che parlano alla vista, bastando che si rivolgano gli occhi altrove, quando non si vuol dar adito alla loro impressione. E’ presso a poco come del piacere che dà un odore che si spande lontano: Colui che tira fuori dalla tasca il fazzoletto profumato, tratta quelli che gli sono intorno contro la loro volontà e, se vogliono respirare, li obbliga nello steso tempo a godere”.

    Subito dopo, quasi ad avvisare che non erano solo gli antichi a dir coglionate, ecco un brano da una lettera di Joyce a Frank Budgen: “Osservo un furtivo tentativo di contrapporre un certo signor Marcel Proust di quaggiù al firmatario della presente. Ho letto qualche pagina di costui. Non riesco a vedervi alcun talento particolare.” Decisamente, il Verri stava avviandosi a non rispettare più nessuno.

    Il clima

    Ma non bisogna dimenticare quello che stava avvenendo nelle altre arti. Non dirò dei pittori, che poi ci siamo ritrovati accanto alle prime riunioni del Gruppo 63, da Perilli a Novelli, da Franco Angeli a Fabio Mauri. Vorrei piuttosto ricordare quanto stava avenendo nell’ambiente musicale.

    A Milano, ancora nel 1956, veniva fischiato Schönberg alla scala. Alla prima di Passaggio, con musica di Berio e testo di Edoardo Sanguineti, nel 1962: il pubblico era così inviperito che, per condannare questa cosa nuova e atroce, aveva gridato: «centro-sinistra!». Roberto Leydi, recentemente scomparso, che non è mai stato arruolato nel gruppo 63 ma viveva le vicende della nuova musica insieme alla riscoperta di quella dei tempi andati, ricordava che una volta, in non so quale occasione, lui e Berio erano stati accolti dal grido “andate in Russia!” Per fortuna non ci sono andati perché, con l’aria che vi tirava allora, sarebbero finiti in un gulag. Ma per il pubblico di quegli anni il nuovo era comunista. Dove si vede che le cose non sono tanto cambiate nel giro degli ultimi quarant’anni, ovvero che nel regno della malafede vige una legge dell’eterno ritorno.

    C’era alla Rai di Milano, non ancora di Bossi, lo Studio di Fonologia musicale, diretto da Luciano Berio e Bruno Maderna, dove passavano smanettare con i nuovi strumenti elettronici Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Henry Pousseur ed altri. Sul finire degli anni cinquanta Luciano Berio aveva pubblicato i pochi numeri di Incontri Musicali, dove si è verificato il primo confronto tra teoria della Neue Musik e linguistica strutturale, con una polemica tra Pousseur e Nicolas Ruwet – e dagli articoli pubblicati in quella sede è nato nel 1962 il mio Opera Aperta. D’altra parte è stato proprio che in alcune serate musicali organizzate da Boulez a Parigi, verso la fine dei cinquanta ho incontrato Roland Barthes.

    Al Laboratorio di Fonologia era arrivato anche John Cage, le cui partiture (a metà tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate sull’Almanacco Bompiani 1962, decicato alle applicazioni dei calcolatori elettronici alle arti – e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape Mark I di Nanni Balestrini. Cage aveva composto a Milano il suo Fontana Mix, ma nessuno ricorda perché si chiamasse così. Cage era stato messo a pensione presso una signora Fontana, era un bellissimo uomo, la signora Fontana era molto più matura di lui e cercava dei pretesti per possederlo in fondo al corridoio. Cage, che notoriamente aveva tutt’altre tendenze, resisteva stoicamente. Alla fine aveva intitolato la sua composizione alla signora Fontana. Poi, rimasto senza un soldo, via Berio e Roberto Leydi, era approdato a Lascia e raddoppia come esperto sui funghi, eseguendo sul palcoscenico improbabili concerti per frullino, radio e altri elettrodomestici, mentre Mike Buongiorno domandava se quello era futurismo. Si stavano creando misteriose connessioni tra avanguardia e comunicazioni di massa, e molto prima della Pop Art.

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    Roma, 1960 Pier Paolo Pasolini con Italo Calvino al Caffe’ Rosati in piazza del Popolo

    Per continuare con gli eventi di quegli anni ricordo che nel 1960 esce finalmente in Italia lo Ulisse di Joyce, ma prima ancora, proprio con Berio, Roberto Leydi e Roberto Sanesi si componeva un evento musicale basato sulle onomatopee del capitolo 11 dell’opera, Omaggio a Joyce. Se dovessimo definirlo oggi, era un tentativo di capire i significati lavorando sui significanti, ovvero un omaggio al linguaggio come chiave per capire il mondo.

    Nel 1962 Bruno Munari organizza nella Galleria a Milano la prima mostra di arte cinetica e programmata, e di opere moltiplicate, con i contributi di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi e Grazia Varisco, del Gruppo N, di Enzo Mari e dello stesso Munari.

    Voglio dire che il Gruppo 63 non nasce nel vuoto, né nel vuoto era apparsa l’antologia dei Novissimi coi testi di Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta e Balestrini.

    In altra sede ho cercato di mostrare come molti di quei fermenti fossero espressione di un “illuminismo padano”, e non per caso Anceschi aveva scelto il nome di Verri per il titolo della sua rivista. Il Verri nasceva in quella Milano in cui durante la guerra le edizioni Rosa e Ballo avevanoi fatto conoscere i testi di Brecht, Yeats, gli espressionisti tedeschi e il primo Joyce, mentre da Torino Frassinelli ci aveva fatto conoscere e Melville, e il Portrait joyciano, e Kafka. Naturalmente termini come padano o lombardo hanno valore simbolico, perché a questo clima avevano appartenuto prima il sardo Gramsci e poi il siciliano Vittorini, e non sarà per caspo che la prima riunione del Gruppo 63 avvenga a Palermo nel corso di un festival musicale e teatrale di ampia apertura europea. Ma parlo di illuminismo padano perché l’ambiente culturale in cui nasceva il Gruppo 63 si caratterizzava per un rifiuto della cultura crociana, e dunque meridionale: era l’ambiente dei Banfi, del napoletano ormai torinese Abbagnano, dei Geymonat e dei Paci. Era l’ambiente in cui si scopriva il neopositivismo, si leggevano Pound ed Eliot, dove Bompiani nella collana Idee Nuove pubblicava tutto quello che nei decenni precedenti non era apparso nelle copertine floreali della Gius. Laterza e figli, dove il Mulino ci faceva conoscere teorie critiche ignorate sino ad allora, dai formalisti russi al New Criticism attraverso Wellek e Warren, l’ambiente dell’Einaudi, della Feltrinelli e poi del Saggiatore, che traducevano Husserl, Merleau Ponty o Wittgenstein, l’ambiente i cui si leggeva Gadda e si iniziava a riscorire uno Svevo di cui sino ad allora si diceva che scrivesse male, l’ambiente i cui Giovanni Getto leggeva il Paradiso dantesco avvicinandoci a una poesia dell’intelligenza che non era stata compresa appieno da un De Sanctis ancora legato a una poesia delle umane passioni.

    edoardo sanguineti interno

    edoardo sanguineti

    Nel triangolo Torino-Milano–Bologna fiorivano i primi approcci alle teorie strutturalistiche. Si noti che, benché in seguito qualcuno abbia parlato di un matrimonio tra avanguardia e strutturalismo, la notizia è falsa. Quasi nessuno nel giro del Gruppo 63 si occupava di strutturalismo, che caso mai era praticato dai filologi pavesi e torinesi, come Maria Corti, Cesare Segre, D’Arco Soilvio Avalle, e i due filoni marciavano per così dire indipendenti (l’unica eccezione ero forse io). Ma questi incroci creavano un clima.

    Mi ricordo che Eugenio Scalfari, che mi aveva invitato a collaborare all’Espresso nel 1965, mi diceva all’inizio, quando recensivo Lévi-Strauss, di non dimenticare che stavo scrivendo per un pubblico di avvocati crociani meridionali. Quello era il clima anche del pensiero più laicamente aperto alla novità, ma io rispondevo a Scalfari, che peraltro mi lasciava fare, che i lettori dell’Espresso erano ormai i nipoti di quegli avvocati crociani, leggevano Barthes o Pound, e si costituivano in scuola di Palermo.

    E non bisogna dimenticare quale fosse allora l’ossatura della cultura marxista. Per i grandi dibattiti “ufficiali” sulle arti essa si allineava ai dettami del realismo socialista sovietico – e di lì le scomuniche ad autori pure vicini al PC che apparivano peccare vuoi di romanticismo di ritorno vuoi di qualche altra perversione, e non sto parlando di autori d’avanguardia ma del Pratolini di Metello o del Visconti di Senso, per non dire ovviamente del gelo di fronte ai film di Antonioni, che in parte assolto perché si suggeriva che mettesse in scena, sia pure sotto forma di drammi privati, l’alienazione del mondo capitalistico. Ma in effetti la formazione culturale dei marxisti italiani era ancora fondamentalmente crociana e idealistica.

    Per capire questo clima occorre pensare agli sforzi fatti da Vittorini, peraltro già eretico sin dai tempi del Politecnico (titolo che ancora una volta richiamava l’illuminismo lombardo di Cattaneo) quando nel 1962 ha operato la svolta storica del Menabò 5. Nel 1961 Vittorini aveva dedicato il Menabò 4 alla letteratura industriale, intendendo col termine gli scrittori che si occupavano della nuova realtà dell’industria (da due anni Ottieri aveva pubblicato nei Gettoni il suo bellissimo Donnarumma all’assalto e sul Mebabò 4 pubblicava un “Taccuino industriale”). Nel Menabò 2 del 1960 Vittorini aveva già pubblicato “La ragazza Carla” di Pagliarani, poi pezzo forte dell’antologia dei Novissimi. Con il suo solito fiuto aveva deciso di dedicare il Menabò 5 a un nuovo modo di intendere l’espressione “letteratura e industria”, focalizzando l’attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia.. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti sopra lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio “Sul modo di formare come impegno sulla realtà” apparivano prove narrative oltraggiosissime di Edoardo Sanguineti, Nani Filippini e Furio Colombo. Vi appariva un saggio, apprentemente polemico, ma sostanzialmente complice, di Italo Calvino (“La sfida al labirinto”), che allora mi aveva detto: “Scusa, ma Vittorini [e dietro a Vittorini stava la cultura marxista dell’epoca, da cui egli si era liberato ma alla quale in fin dei conti doveva ancora rendere conto] mi ha chiesto di stendere un cordone sanitario.” Caro e amabile Calvino che in futuro avrebbe incrociato i suoi destini con quelli dei sentieri che si biforcano e con gli sperimentalismi dell’Oulipo.

    Insomma, rispetto al mondo della cultura marxista i nuovi scrittori, che ritenevano che l’impegno stesse nel linguaggio e non nella tematica politicizzata, erano visti come mosche cocchiere del neocapitalismo, e non contava che tra di loro vi fossero alcuni, come per esempio Sanguineti, esplicitamente schierati a sinistra.

    Incontro con Italo Calvino

    italo calvino

    Le contestazioni

    Capire questo ambiente – e l’urto che si creava tra Gruppo 63 e altri settori della cultura italiana – serve a decifrare anche una serie di reazioni spesso furiose e di appassionate contestazioni. Per riandare solo a ricordi personali, nel 1962 Opera aperta (che pure, vi ricordo, parlava di Joyce e Mallarmé e persino di Brecht, e non della merda d’artista di Piero Manzoni), e poi il numero 6 di Menabò, se avevano suscitato consensi o feconda polemica “dal di dentro” da parte di Eugenio Battisti, Elio Pagliarani, Filiberto Menna, Walter Mauro, Emilio Garroni, Bruno Zevi, Glauco Cambon, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, e – strenuamente e intelligentemente polemico – Gianni Scalia, aveva subito dal di fuori attacchi feroci. Aldo Rossi su Paese Sera scriveva: “dite a quel giovane saggista che apre e chiude le opere, quasi fossero usci, giochi di carte o governi a sinistra, che andrà a finire in cattedra e che i suoi alunni, imparando a tenersi informati su decine di riviste, diventeranno così bravi da voler prendere il suo posto” (il che per fortuna fu mirabile profezia, e non ho mai capito perché i miei alunni non dovessero leggere decine di riviste). L’Unità per la firma di Velso Mucci parlava di ritorno al decadentismo, L’osservatore romano a firma Fortunato Pasqualino si chiedeva perché gli scrittori si stessero mai cacciando nel sottobosco della critica scientifica e filosofica e si votassero ad assurdi dilemmi extra-estetici. Su Filmcritica, allora di ispirazione paleomarxista, prova ne sia che ne era nume tutaleare il futuro missino Armando Plebe, si parlava di “opera aperta come opera assurda” Sull’Espresso, allora testata degli ultimi crociani abbarbicati all’intuizione lirica come gli ultimi giapponesi sulle isole del Pacifico dopo la fine della guerra, Vittorio Saltini si domandava con Machado (innocente) come mai “le più potenti perversioni del gusto avranno sempre dei soliti avvocati che difendano le loro maggiori stravaganze”. Rinascita, sia pure a insaputa del più prudente autore, Luigi Pestalozza, intitolava la sua recensione come “L’opera aperta musicale e i sofismi di Umberto Eco”. Paese Sera Libri condannava le improbabili esercitazioni sul linguaggio, Walter Pedullà sull’Avanti rilevava come “Eco stia a sostegno di pochi inesperti e modestissimi narratori d’avanguardia”.

    Per non dire di quando nel 1963 ho pubblicato due articoli su Rinascita, per invito dell’indimenticabile e apertissmo Mario Spinella, per richiamare la cultura allora di sinistra a una attenta considerazione delle nuove letterature, degli studi sulle comunicazioni di massa. Apriti cielo. Solo Alberto Asor Rosa in Mondo Nuovo del novembre 62 ha prestato orecchio all’appello. La risposta più virulenta era arrivata da Rinascita, e pazienza che fosse da parte di di Rossana Rossanda, che non è mai riuscita in vita sua a cambiare una sola idea, ma è curioso che tra i più severi critici da parte marxista apparissero Massimo Pini, oggi AN, e un saggio in due puntate di un giovane marxista francese, secondo il quale cercare di mettere insieme strutturalismo e marxismo era impresa disperata e troppo neocapitalistica. Si chiamava Louis Althusser e queste cose le ha pubblicate su Rinascita 1963, due anni prima di scrivere Pour Marx e Lire le Capital. Bei tempi.

    Nel corso di tutte queste vicende Montale seguiva in tono preoccupato gli eventi, che non riusciva ad accettare, ma ad essi dedicava numerosi articoli sul Corriere, come uno che s’interroghi – caso amirevole considerando la sua età e la sua storia.

    eugenio montale 2La societa’ letteraria italiana

    Dopo di che è stato quasi per forza di cose che un giorno Balestrini (e non so se fossi il primo con cui ne parlava, ma eravamo in una tavola calda vicino a Brera), mi ha detto che il momento era venuto di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi, ciascuno parlando male anzitutto dell’altro – poi, se avanzava tempo, degli altri, quelli che secondo noi intendevano la letteratura come “consolazione” e non come provocazione. Mi ricordo che Balestrini mi avea detto “faremo morire di rabbia un sacco di gente”. Ebbene sembrava una spacconata, ma ha funzionato.

    Perché il Gruppo 63 che si riuniva a Palermo senza, all’inizio, strombazzare troppo l’iniziativa, e – se ci pensiamo bene – facendosi i fatti suoi, doveva fare arrabbiare tanta gente?

    Per capire questa storia occorre fare un passo indietro a ricordare cosa fosse la società letteraria italiana (indipendentemente dalle posizioni ideologiche) verso la fine degli anni cinquanta. Si trattava di una società che era vissuta in difesa e in muto sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime – dico che non si allineavano quanto a scelte stilistiche, indipendentemente dalle convinzioni e persino dalle viltà politiche di molti – erano a mala pena tollerati. Si riunivanmo in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata. Era stato ingiusto, forse, Arbasino, a domandarsi perchè non avessero mai fatto una gita a Chiasso, dove avrebbero potuto trovare tutta la letteratura europea. Magari attraverso spalloni, ma Pavese aveva pur letto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori che aveva pubblicato in Americana. Ma, se da dentro riuscivano a ricevere tutto, o molto, essi non potevano andare fuori.

    Debbo raccontare un episodio personale, e mi scuso, ma in quel caso ho avuto come una rivelazione. Dunque, nel 1963 il Times Literary Supplement aveva deciso di dedicare una serie di numeri , nel settembre 1963, a “The critical moment”, ovvero a un panorama delle nuove tendenze della critica. Sono stato invitato a partecipare, e come me erano stati invitiati Roland Barthes, Raymond Picard, che poi sarebbe diventao il suo arcinemico, George Steiner, René Wellek, Harry Levin, Emil Steiger, Damaso Alonso, Jan Kott e altri. Figurarsi il mio orgoglio, all’età di trent’anni essere messo in tale insigne compagnia, quando nessuno dei miei testi era ancora stato tradotto in inglese. Credo di averlo detto a mia moglie, per mostrarle che non aveva sposato proprio l’ultimo degli imbecilli, e poi ho taciuto.

    Sta di fatto che l’altro italiano invitato era Emilio Cecchi, dico Emilio Cecchi, uno dei più illustri studiosi di letteratura anglo-americana. Nessuno era più degno di lui di essere incluso in quella lista. Ebbene, Emilio Cecchi, onusto di lauri accademici, considerato all’epoca l’unico che potesse competere con Mario Praz per il titolo di massimo anglista italiano, in occasione di quell’evento ha scritto due articoli sul Corriere della Sera, uno per dire che era in opera quella raccolta, uno per recensirla appena uscita.

    Che cosa vuole dire questo? Che un uomo come Emilio Cecchi, dopo anni di dittatura e di guerra, trovava finalmente ascolto nel mondo anglosassone, e ne era giustamente fiero. Io, per quanto mi riguardava, ritenevo perfettamente normale che gli inglesi mi avessero letto in italiano nel 1962 e mi chiedessero un intervento nel 1963. Per la mia generazione, il mondo si era allargato. Non andavamo a Chiasso, ma a Parigi e a Londra in aereo.

    Eugenio Montale upupaSi era verificato uno scarto drammatico tra noi e la generazione precedente, che ha dovuto sopravvivere sotto il fascismo, perdere gli anni più belli nella resistenza, o nelle squadre di Salò. Noi, quelli nati intorno agli anni trenta, siamo stati una generazione fortunata.. I nostri fratelli maggiori sono stati distrutti dalle guerra, se non sono morti si sono laurerati con dieci anni di ritardo, alcuni di essi non sono riusciti a capire che cosa fosse il fascismo, altri lo hanno imparato a proprie spese faticosamente nei Guf. Noi siamo arrivati alla liberazione e alla rinascita del paese che avevamo chi dieci, chi quattordici, chi quindici anni. Vergini. Consapevoli abbastanza per aver capito quello che era accaduto prima, innocenti abbastanza perché non avevamo avuto il tempo di comprometterci. Noi siamo stati una generazione che ha iniziato a entrare nell’età adulta quando tutte le opportunità erano aperte, ed eravamo pronti a ogni rischio, mentre i nostri maggiori erano ancora abituati a proteggersi l’uno con l’altro.

    Agli inizi qualcuno aveva parlato del Gruppo 63 come di un movimento di giovani turchi che cercavano con azioni provocatorie di dare la scalata alle roccaforti del potere culturale. Ma se qualcosa distingueva la neo-avanguardia da quella d’inizio secolo, era che noi non eravamo dei bohémien che vivevano in soffitta e cercavano disperatamente di pubblicare le loro posia nel giornaletto locale. Ciascuno di noi, a trent’anni, aveva già pubblicato uno o due libri, era ormai inserito in quella che si chiamava allora l’industria culturale, e con mansioni direttive, chi nelle case editrici, chi nel giornali, chi nella Rai. In questo senso il Gruppo 63 è stato l’espressione di una generazione che non si ribellava dal di fuori bensì dal di dentro.

    Non è stata una polemica contro l’establishment, è stata una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno certamente nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Se è vero che gli avanguardisti storici erano incendiari che morivano poi da pompieri, il Gruppo 63 è stato un movimento nato nella caserma dei pompieri, dove poi alcuni sono finiti incendiari. Il gruppo esprimeva una forma di gaiezza, e ciò faceva soffrire lo scrittore che per definizione si voleva sofferente.

    bello diabolik ed Eva Kant

    diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

    Rivoluzione nelle forme

    La cosiddetta neo-avanguardia del Gruppo 63 irritava la cultura che allora si diceva impegnata (fondata, lo abbiamo visto, su un connubio tra poetica del realismo socialista e marx-crocianesimo, ircocervo, a pensarci bene oggi, assai curioso, una sorta di Casa delle Libertà culturale in cui potevano convivere fieri reazionari (almeno dal punto di vista letterario) e impegnati socialisti, paleo-idealisti e materialisti vuoi storici che dialettici. Il Gruppo 63 non pareva credere al gesto rivoluzionario, fosse pure quello dei futuristi che scandalizzavano i buoni borghesi al Salone Margherita. Aveva ormai capito che i gesti rivoluzionari, nella nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così duttile e smaliziata da far proprio ogni elemento di disturbo, e fagocitare ogni proposta di eversione immettendola in un circolo dell’accettazione e della mercificazione. L’eversione artistica non poteva più assimilarsi all’eversione politica. E quindi la neo-avanguardia, ponendosi come progetto di eversione dal di dentro, tentava di aggiustare il tiro, di spostare la polemica su obiettivi più radicali, difficilmente immunizzabili, di cambiare i tempi e le tecniche di guerra e soprattutto di anticipare o provocare, attraverso le soluzioni dell’arte, una visione diversa della società in cui si muoveva.

    La vocazione profonda della cosiddetta neo-avanguardia era stata individuata bene da Angelo Guglielmi, nel 1964, nel suo Avanguardia e sperimentalismo. Se l’avanguardia era sempre stata movimento di rottura violenta, diverso era lo sperimentalismo, per cui se i futuristi, i dadaisti, i surrealisti erano stati avanguardia, scrittori sperimentali erano stati invece Proust, Eliot o Joyce. E certamente la maggior parte dei convenuti al convegno di Palermo 1963 stavano più dalla parte dello sperimentalismo che da quello dell’avanguardia.

    Per questo, a proposito della prima riunione di Palermo, avevo parlato di una Generazione di Nettuno, opposta alla Generazione di Vulcano, e avevo coniato l’espressione di “avanguardia in vagone letto” (malignamente pensando a Mussolini, che non aveva preso parte alla marcia su Roma e aveva raggiunto appunto in vagone letto, il giorno dopo, i suoi plotoni, ben sapendo che la marcia contava assai poco, visto che il re era d’accordo, e un parlamento democratico lo si scalza a poco a poco dal di dentro e non prendendo una Bastiglia ormai vuota).

    L’accostamento era sarcastico, ma serviva a polemizzare con chi si stava ancora immaginando i neo-avanguardisti come truppa d’assalto al palazzo d’inverno del potere letterario. Voleva dire che sapevamo benissimo che avrebbero rifiutato di metterci in prigione, e non valeva la pena di farsi eroiche illusioni. Al gesto rivoluzionario si voleva sostituire la lenta sperimentazione, alla rivolta la filologia. Scrivevo allora:

    Al gesto che chiarifica tutto in un colpo (la mia posizione e quella degli altri) succede la proposta che al momento non chiarisce ancora nulla, … solo si sa che la direzione è buona, e a lunga scadenza i semi che si stanno gettando daranno un frutto insospettato. Per il momento, nel corso della fase mediana, anche il lavoro che si fa entrerà a far parte del gioco (nulla ne esce): ma intanto grazie a questo lavoro si sta configurando un nuovo modo di vedere le cose, di parlare delle cose, di individuare le cose per agirvi. Non c’è alibi eroico che, al momento, dia giustificazione di sorta. Si sta come, nella taverna, Jenny dei Pirati : un giorno verrà una nave, e Jenny schioccherà le dita e farà cadere le teste. Ma per intanto Jenny lava i piatti e rifà i letti. Intanto scruta nel volto gli avventori, ne mima i gesti, il modo di bere il vino… preme la mano sui guanciali per rifare forme delle teste che vi si sono posate. In ogni suo gesto … si cela un progetto, un esperimento di gesti diversi. E non è detto che Jenny faccia solo questo: già sin d’ora potrà intrattenere un carteggio segreto con la Tortuga, a tarda notte muovere la lampada davanti ai vetri della sua stanza per segnalare i movimenti degli avventori; e darà rifugio sotto il suo letto ai compagni braccati. Ma questo farà come un’altra Jenny, che non è la Jenny della locanda, con la sua funzione tecnica precisa, lavare i piatti e rifare i letti. Come son fatti i piatti ? Di quale legno i letti? E c’è una relazione tra il legno e la forma dei letti, e la natura degli avventori? Cosa di questo sarà ricuperabile il giorno dello sbarco? Jenny perciò non fa rivoluzioni, nel suo mestiere. Fa della filologia. Ma il gesto sperimentale non potrà attardarsi su se stesso – nella sequenza delle ricerche successive non si perderà di vista il fine? Nulla di piu facile. Di quì la necessità di un controllo reciproco, di una discussione, non ad opera finita, ma mentre l’opera si fa. I gesti di ciascuno sono così diversi che solo confrontandoli fase per fase se ne potranno individuare le direzioni comuni o complementari. La generazione ha capito che, poiché la verifica non è più data dallo scandalo effettivo di ogni singola proposta; non rimane che la verifica comune, l’incontro e il. controllo delle triangolazioni. Certo, nulla piu dell’effusione lirica individuale sfugge a ogni triangolazione: segno che la generazione non crede all’effusione lirica. E se con essa si identifica la poesia, ebbene, sia chiaro che la generazione non crede neppure alla poesia. Evidentemente crede a qualcos’altro. Forse non ne conosce neppure ancora il nome.

    Alberto Moravia esistenzialismo

    Alberto Moravia scrittore dell’esistenzialismo

    Immaginatevi se l’estetica del realismo socialista poteva vedere con favore simili affermazioni. Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria non era stata la posizione che diremmo “politica” del Gruppo. Era stata una diversa disposizione al dialogo e al confronto. Ho parlato di una società letteraria confinata nei propri luoghi deputati, e impegnata per ragioni storiche di sopravvivenza a proteggere i propri membri e a mantenere intatto l’unico suo capitale, la idea sacrale del poeta e dell’uomo di cultura. Era una generazione che poteva conoscere il dissenso, ma lo consumava attraverso un mutuo ignorarsi delle varie conventicole, e preferiva la malignità sussurrata al bar alla stroncatura su un pubblico elzeviro. Per così dire era una generazione abituata a lavare i panni sporchi in famiglia (se ne distinguevano solo i marxisti, per tradizione inclini alla polemica e all’attacco, ma anche in quei casi, tranne che venissero messi in causa i canoni di un’estetica di partito, il tentativo era piuttosto quello di arruolare compagni di strada, non di respingerli).

    Cosa era stato invece messo in scena a Palermo? Intorno a un tavolo un gruppo di poeti, romanzieri, critici (e pittori e musicisti in funzione di auditori) ascoltava alcuni dei presenti che leggevano le loro opere più recenti. Capitoli, pagine, frammenti, esempi, excerpta. Se i presenti costituivano un gruppo, a prima vista pareva fosse per le sole ragioni per cui fu “gruppo” il manipolo di vittime sul ponte di San Luis Rey. Insieme alla squadra del Verri sedevano chi, come Pignotti, veniva da diverse esperienze fiorentine; o come Leonetti, da una linea Officina-Menabò; e vagantes come Ferretti, come Marmori isolato a Parigi, o Amelia Rosselli, a cui sarebbero poi toccati padrini che a Palermo non c’erano.

    E anche tra i collaboratori del Verri già esistevano divergenze di opinioni venute in chiaro in quei giorni, prefìguratesi già da tempo, acuitesi in seguito. La valutazione che Sanguineti e Barilli davano del marxismo era, a esempio, difforme. Sui problemi dell’opera aperta la posizione di Guglielmi era lontana dalla mia. Sarebbe stato difficile trovare analogie di poetica tra il fiume verbale della Rosselli e la precisione brechtiana di Pagliarani. Sull’atteggiamento emotivo verso i dati della realtà tecnologica contemporanea Balestrini e Pignotti, pur così diversi tra loro, si erano trovati di fronte all’opposizione radicale di Sanguineti. E poi, basta mettere di fronte una pagina di Balestrini e una di Manganelli per domandarsi, con qualche buona ragione, che cosa avessero in comune quei due curiosi individui.

    Eppure le persone convenute a Palermo erano accomunate sia da una volontà di sperimentazione che da una esigenza di dialogo rissoso, senza pietà e senza infingimenti. Gli scrittori si leggevano a vicenda i loro testi ma, dato che c’erano fratture originarie, nessuna lettura fatta riscuoteva il consenso generale. Non ci si dichiarava perplessi: ci si diceva contro. E si diceva il perché. Quali fossero i perché non conta. Conta che in questa società letteraria l’unità si stava realizzando a poco a poco attraverso due implicite assunzioni di metodo: I) ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca sottoponendola alle reazioni altrui; 2) la collaborazione si manifestava come assenza di pietà e di indulgenza. Correvano definizioni da levare la pelle agli animi troppo sensibili. Espresso pubblicamente nell’ambito di una società letteraria apollinea, ciascuno di questi giudizi avrebbe segnato la fine di una bella amicizia. A Palermo il dissenso generava invece amicizia.

    Ripellino-Bosco

    Angelo Maria Ripellino a Praga

    Mi ero reso conto che il gruppo esisteva, solo giorni dopo, parlandone con un letterato di altra generazione. Cercavo di dimostrargli che a Palermo non si era costituito un movimento omogeneo. Alle tre accuse: “Vi rimprovero di avere fatto gruppo. Di averlo fatto su base generazionale. Di averlo fatto in opposizione a qualcuno e a qualcosa”, facevo osservare che era tipico di ogni epoca il costituirsi di correnti, che spesso il denominatore comune era su base generazionale (si licet, Sturm und Drang, Scapigliatura, Die Brűcke o Ronda), e opponevo comunque l’argomento conciliante e definitivo: lui stesso, se avesse voluto, avrebbe potuto venire a Palermo, sedere a quel tavolo, leggere il. suo testo più recente; e sarebbe stato accolto col rispetto e la stima dovuta all’autore, e la franchezza dovuta a quegli oggetti di esercizio critico che sono le opere. Risposta: “Io non sarei mai venuto a Palermo. Non accetto di sottoporre ad altri un lavoro in fieri. Lo scrittore realizza se stesso solo davanti alla pagina bianca, e in quella si conclude, realizzandola.” Cosa rispondere ?

    Questo era stato il messaggio offensivo lanciato dal gruppo e, a rileggere le razioni di allora, c’è da rimanere sconcertati di fronte alle ripulse, le proteste, i barricamenti difensivi. Anzi, oserei dire che la fortuna del Gruppo, la sua visibilità massmediatica, è stata dovuta ai suoi avversari.

    Rimane tipica la faccenda delle Liale 63. Era stato Sanguineti, mi pare, a dire che Cassola e Bassani erano le Liale 1963. Battuta che ora ritengo ingiusta almeno rispetto a Bassani, senza dimenticare che all’epoca accanito denigratore del Giardino dei Finzi-Contini era proprio Vittorini. Ma insomma, se la battuta fosse stata lasciata cadere, o avesse circolato come una delle tante boutades messe in giro in Piazza del Popolo o in Via Veneto da Flaiano o Mazzacurati, saremmoi rimasti all’aneddoto a circolazione orale. Invece fu proprio Bassani, evidentemente impreparato al gioco provocatorio dell’invettiva e uso a ben altra, come si diceva allora, civiltà letteraria, a scatenare un’accorata polemica su Paese Sera, contribuendo ad allargare lo scandalo a macchia d’olio.

    D’altra parte, qualche anno dopo gli amici fiorentini, con la complicità mia e di Camilla Cederna, avevano organizzato un Premio Fata, da opporre al Premio Strega, e da essere conferito al libro più brutto dell’anno. Niente più di una idea goliardica, e la giuria aveva fatto apposta ad assegnarlo a Pasolini. E Pasolini, polemista così combattivo e per tanti versi attento alle nuove provocazioni culturali, non aveva resistito e – sapendo che il premio sarebbe stato assegnato a lui – aveva inviato per la sera della premiazione una lettera in cui spiegava perché il verdetto fosse ingiusto.

    Come si vede, non si può negare una componente goliardica a tente provocazioni del gruppo, ma il gruppo andava a finire sulle pagine dei giornali non per le sue imprese da studente beffardo, bensì per le reazioni scandalizzate dei presidi colpiti dalla beffa.

    Passati poi i primi e poco eroici furori, le opposizioni alla neo-avanguardia hanno preso un’altra strada: non si parlava più di monellacci insolenti, ma si diceva che il gruppo esprimeva molte belle teorie e nessuna opera valida. Questa contestazione dura ancora adesso, ma si avvale di un delizioso argomento che definirò del carciofo. Quando il tempo ha fatto giustizia e si è scoperto, da parte della critica ufficiale, che Porta era un grande poeta, Germano Lombardi o Emilio Tadini grandi romanzieri, Manganelli un altissimo prosatore o, per parlare di chi è stato assolto ancora in vita, non si è potuto negare (e faccio solo due esempi senza pretendere di esaurire l’elenco) il talento di Arbasino o di Malerba, allora si è detto: ”Sì, ma costoro non appartenevano di fatto al gruppo, erano soltanto di passaggio.” Ora è ovvio che, se io denigro il cinema americano e, quando qualcuno mi cita Orson Welles o John Ford, Humphrey Bogart o Bette Davis, e via dicendo, a ogni nome io rispondo che però quelli non erano veramente americani nel senso più profondo del termine, alla fine del gioco, tolte via via le varie parti del carciofo, il cinema americano si riduce a Gianni e Pinotto e io ho vinto la partita. Ma così si è fatto e ancora si sta facendo su varie gazzette.

    foto donna mascherataRimettersi in causa

    Certamente, come in tutti i cenacoli d’avanguardia, si è spinta talora la polemica e la sperimentazione all’eccesso, basti pensare al gusto dell’illeggibilità. Però ritengo sia stata una stagione produttiva, in cui in ogni caso si è concimato molto. Ma soprattutto non ès stata una stagione dogmatica, nel senso che nel corso degli anni (e questo certamente sconcertava ancor più gli avversari) attraverso le sue varie riunioni il Gruppo sapeva rimettere in questione le idee dell’inizio.

    A questo proposito vorrei ricordare la riunione del Gruppo del 1965, due anni dopo. Vorrei ricordare la relazione iniziale di Renato Barilli, già teorico di tutti gli sperimentalismi del Nouveau Roman, che si trovava a quel punto a fare i conti col nuovo Robbe Grillet, e con Grass, e con Pynchon, e citava il riscoperto Roussel, che amava Verne. Diceva Barilli che sino ad allora si era privilegiata la fine dell’intreccio, e il blocco dell’azione nell’epifania e nell’estasi materialistica, ma che stava iniziando una nuova fase della narrativa con la rivalutazione dell’azione, sia pure di una azione autre. In quei giorni era stato proiettato un curioso collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica incerta, una storia fatta con spezzoni di storie, anzi di situazioni standard, di topoi del cinema commerciale. E si era visto che il pubblico aveva reagito con maggior piacere proprio nei punti in cui, sino a pochi anni prima, avrebbe dato segni di scandalo, e cioè dove le conseguenze logiche e temporali dell’azione tradizionale venivano eluse e le attese apparivano violentemente frustrate. L’avanguardia stava diventando tradizione, ciò che appariva dissonante qualche anno prima diventava miele per le orecchie (o per gli occhi). L’inaccettabilità del messaggio non era più criterio principe per una narrativa (e per qualsiasi arte) sperimentale, visto che l’inaccettabile era ormai codificato come piacevole. Ma quello che attirava nel lavoro di Baruchello e Grifi era la rivisitazione ironica e critica di un piacevole filmico che veniva rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in crisi.

    In quei giorni a Palermo 1965 era stata discussa, senza ancora saperlo, la insorgente poetica del post-moderno, solo che all’epoca il termine non circolava ancora.

    Sin dal 1962 un musicista severamente seriale come Henry Pousseur, parlando dei Beatles, mi diceva “essi lavorano per noi”, ed io gli rispondevo che anche lui stava lavorando per loro (e in quegli anni Cathy Berberian ci mostrava che i Beatles potevano essere eseguiti in uno stile alla Purcell).

    Dall’interno del Gruppo si avvertiva che, se la sperimentazione precedente aveva portato alla tela bianca, alla scena vuota, o (e credo che sia stato il prodotto estremo del primo Gruppo 63) nel 1968 Gian Pio Torricelli pubblicava da Lerici Coazione a contare, in cui per una cinquantina di pagine apparivano stampati in lettere alfabetiche, l’uno appresso all’altro e senza virgole, i numeri da uno a cinquemilacentotrentadue – se a questo si era giunti, finiva allora un’epoca e doveva incominciarne un’altra.

    Un’epoca in cui Balestrini passava dal collage di parole a un collage di situazioni sociopolitiche, Sanguineti non abbandonava del tutto la Palus Putredinis dei primi anni cinquanta ma si avventurava nel 1963 con Capriccio italiano e nel 1967 con Il Gioco dell’oca in territori di più affabile narratività, e potrei continuare con altre citazioni.

    foto le gambe sbagliate

    foto le gambe sbagliate

    La contraddizione e il suicidio

    Quale è stata la contraddizione fondamentale del Gruppo 63? Ho detto che, non potendo rifare la scelta innocente delle avanguardie storiche, la maggior parte dei partecipanti al Gruppo praticavano un più sotterraneo sperimentalismo letterario, e non a caso loro nume tutelare non erano dadaisti o futuristi ma Gadda. E tuttavia nella stessa definizione di neo-avanguardia, che non ricordo più se fosse stata appioppata dall’esterno o venisse dall’interno, o arrivata dall’esterno fosse stata accettata con ilare serenità – giocava ancora i richiamo alle avanguardie storiche. Ora c’è una differenza sostanziale tra movimenti di avanguardia e letteratura sperimentale, ameno quanta ce ne poteva essere tra Boccioni e Joyce.

    Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia aveva bene fissato le caratteristiche di questi movimenti. Erano: attivismo (fascino dell’avventura, gratuità del fine), antagonismo (si agisce contro qualcosa o qualcuno), nichilismo (si fa tabula rasa dei valori tradizionali), culto della giovinezza (la querelle des ancien set des modernes), ludicità (arte come gioco), prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda (violenta imposizione del proprio modello a esclusione di tutti gli altri), rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, nel senso di senso agonico dell’olocausto, capacità di suicidio al momento giusto, e gusto della propria catastrofe.

    Invece lo sperimentalismo è devozione all’opera singola. L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardistica.

    Ora nel Gruppo 63 sono convissute le due anime, ed è ovvio che l’anima avanguardistica abbia prevalso nel creare la sua immagine massmediatica. Se i testi sperimentali, a dispetto di tante contestazione, ancora rimangono, i gesti avanguardistici non potevano che vivere una breve stagione.

    Il momento in cui il Gruppo 63 ha scelto definitivamente la via dell’avanguardia è stato paradossalmente quello in cui ritornava, dallo sperimentalismo sul linguaggio, all’impegno pubblico e politico. E’ stata la stagione di Quindici, che ha visto drammatiche conversioni all’utopia sessantottesca, o sofferte resistenze, e alla fine ha portato la rivista (e indirettamente, con essa, il Gruppo) a un deliberato suicidio – proprio nel senso dell’agonismo di Poggioli. Nella catastrofe stoicamente voluta di Quindici sono venute ovviamente allo scoperto divisioni che esistevano sin dall’inizio, ma che erano state superate grazie alla scelta del dialogo reciproco. Confrontandosi con le tensioni immediate di un periodo storico tra i più contradditori e animati, il Gruppo ha deciso che non poteva continuare a fingere un’unità che non c’era all’inizio. Ma questa assenza di unità che aveva fatto la sua forza interna, e la sua energia di provocazione all’esterno, ora ne sanciva il giusto suicidio. Il Gruppo si consegnava, se non alla storia, almeno alle occasioni celebrative di un quarantennio più tardi.

    Fu vera gloria? Tutti possono rispondere, meno che noi. Che quel lavoro abbia dato dei frutti, lo credo, e si può creare tradizione ed esempio anche attraverso i propri errori. Soltanto mi spiace che questa riunione sia incompleta e che lungo il cammino siano caduti, tra i più noti, Antonio Porta, Giorgio Manganelli, Enrico Filippini, Emilio Tadini, Adriano Spatola, Corrado Costa, Germano Lombardi, Giancarlo Marmori e, tra quelli che erano stati allora attivi compagni di strada, Amelia Rosselli, Pietro Buttitta, Andrea Barbato, Angelo Maria Ripellino, Franco Lucentini, Giuseppe e Guido Guglielmi, per non dire di Vittorini e Calvino. Che il loro ricordo accompagni questo nostro simposio e gli dia l’unica e ragionevole nota di nostalgia.

     

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    ALFREDO RIENZI – POESIE SCELTE da “Notizie dal 72° parallelo” (Joker, 2015) “Iróstene di Sitzia”, “Terza giornata di Kristian Rosenkreutz”, “Vincent B. sceglie una fotografia per il corredo funerario”, “Una domanda di Irma C.”, “Julius, volgendo le spalle alla nave”, “Di Arcadio e di un suo pensiero fluttuante”, “Anosh riconosce l’inganno e gli ingannatori” , con un Commento di Giorgio Linguaglossa, un Appunto dell’Autore e uno stralcio della quarta di copertina di Sandro Montalto.

    foto New York City

    New York City

    Alfredo Rienzi, nato a Venosa nel 1959, risiede dal 1963 a Torino, dove esercita la professione di Medico. Ha pubblicato in poesia: Pianeta truccato, elusioni! (Torino, 1989), Contemplando segni, silloge poetica vincitrice del X Premio “Montale”, in Sette poeti del Premio Montale, (Scheiwiller, Milano, 1993); Oltrelinee (Dell’Orso, Alessandria, 1994), poesie, Premio Città di Torino 1996, segnalato al XIV Premio Montale. Ha pubblicato Simmetrie(Joker, 2000) Custodi e invasori (Mimesis, 2005) e Notizie dal 72° parallelo” (Joker, 2015).  E’ pubblicato, tra le altre, nelle seguenti antologie: L’addomesticamento del bue (Il grappolo, Salerno, 1991); Opere d’inchiostro 1991-1995 (Assessorato alla Gioventù, Torino, 1995); Parole e forme per il terzo millennio, (Ed. Ippogrifo, Torino, 1997); Antologie de poezie piemontezâ Poeti piemontesi contemporanei, Pref. di Elio Gioanola (Ed. Studia, Cluj-Napoca, Romania, 1998); Florilegio per il terzo millennio (Campanotto, Udine 1999). Ha tradotto per il Centro per lo Studio delle Letterature e delle Culture delle Aree Emergenti dell’Università degli Studi di Torino testi da OEvre poétique di L. S. Senghor, tuttora inediti. alfredorienzi@libero.it

    Commento di Giorgio Linguaglossa

    Le allucinazioni ipnagogiche sono esperienze intense e vivide che si verificano all’inizio di un periodo di sonno e avvengono spesso in aggiunta alla cosiddetta “Paralisi nel sonno”. Paralisi nel sonno o paralisi ipnagogiche. È molto difficoltoso per il soggetto distinguere l’allucinazione dalla realtà.  Alcune volte le allucinazioni ipnagogiche possono costituire un’esperienza piuttosto spaventosa, specialmente perché l’illusione consiste in soggetti terrificanti. La scienza medica ci dice che nel momento in cui si vive l’esperienza, l’approccio migliore consiste nel riflettere che tutto ciò che si sta manifestando non è reale e calmare il proprio panico di fronte a queste illusioni (visive, tattili e uditive) in quanto si alimentano delle stesse paure del soggetto dormiente, e infine scompaiono lasciando il posto ad un sonno ristoratore.
    Si può dire che Alfredo Rienzi ha imparato a fare tesoro di questo genere di «disturbo» e lo ha tradotto in una vera e propria poetica. Una poetica della notte. Ha imparato  a riconoscere l’allucinazione come parte integrante della condizione umana e a trascriverla in poesia. Si può affermare, con una certa approssimazione, che la poesia di Rienzi è parente del sogno e delle allucinazioni uditive e sensoriali, se poi queste sensazioni siano esperienze reali o virtuali è una materia che esula dalle competenze di un critico letterario, l’importante è averle individuate e riconosciute sul piano letterario. Poesia ipnagogica, dunque, che utilizza un piano basso del linguaggio per un contenuto alto e desultorio. Che sia Iróstene di Sitzia che parla (un filosofo inventato) o altri, non importa, nello stato di dormiveglia tra veglia e sonno, non c’è più distinzione tra il reale e l’onirico, tra il vero, il verosimile e il falso; in realtà chi parla, parla dal 72° parallelo:

    .

    Conosco l’inganno e gli ingannatori
    la frode e i frodatori
    e mi lascio ingannare, e frodare
    perché so stare al gioco e compiacere
    il bagatto e la sua asta e la giocoleria del suo occhio alboreo.

    .

    parla ad un ipotetico uditorio posto nel futuro passato, ad una età senza tempo e senza passato, ad una civiltà umana affetta da amnesia del tempo. C’è una «enfasi di fango» in una «città» ritrovata, c’è una «tana del gambero» dispersa nei ricordi onirici, ci sono cose irriconoscibili e dimenticate, emendate e cicatrizzate che ritornano negli incubi allucinatori… anche lo stile fonde in maniera originale il tono sapienziale con un lessico sobrio, giocato soprattutto sullo straniamento tra sostantivi e aggettivi. Direi che lo stile, affatto demotico, si adatta bene alla curvatura del contenuto piantato e conficcato bene nell’ordito di una sintassi che vuole indurre il lettore a credere nella dimensione di mezzo, nella dimensione ipnagogica, che il reale è ciò che è irreale, e viceversa. Insomma, la poesia di Rienzi, da sempre, ha lavorato in questa direzione, e in quest’ultimo libro si ha la sensazione che il poeta abbia raggiunto un risultato estetico davvero tangibile. Dopo la lettera di Alfredo Rienzi, presentiamo i brani iniziali del libro:
    Evgenia Arbugaeva Weather_man_04-1

    Evgenia Arbugaeva Weather_man

    Torino, 17 dicembre 2015

    Carissimo Giorgio
    ecco, per il più vorace e acuto (e apprezzato!) indagatore e conoscitore di poesia contemporanea il mio ultimo e sofferto contributo…
    Come siamo arrivati qui? Il silenzio, evidentemente, non è esercizio del quale il poeta sia capace, nonostante la consapevolezza della polverizzazione delle voci, delle forme, dei contenuti, dei linguaggi, delle occasioni, ecc ecc.
    Per un certo tempo ho creduto quasi sinceramente che la Parola postuma, cui hai donato la tua preziosa prefazione, fosse davvero una dichiarazione di resa. Dire nel vociare massivo, equivale, di fatto a dire ciò che non può essere ascoltato, né letto, quindi equivale al silenzio. Ma il silenzio, sostengo da tempo, è potere esclusivo degli dei (e ben praticato!). Quindi tra la saggezza del non dire e la necessità connaturata alla parola, ecco che mi sono trovato a raccogliere, stimolato da Sandro Montalto,  materiali sparsi degli ultimi dieci anni e, scenograficamente, anziché sostenerne l’ambizione a costituire una poetica, un linguaggio, o almeno il contorno un poeta, li ho relegati a ciò che metonimicamente è la poesia di oggi, credo in maniera abbastanza vicina alla tua visione.
    La voce narrante rinuncia alla sua centralità, non tanto per l’espediente, se vuoi anche ingenuo, della galleria di personaggi, ma perché non ha più, all’orizzonte, una centralità di tralicci linguistici. Subisce indifferentemente spostamenti linguistico-narrativi disparatissimi e qualsiasi progetto di costruzione è troppo alieno alla frantumazione-polverizzazione dei materiali di riferimento. Con Notizie (plurale, allusivo non a tematiche omogenee ma a, appunto, a singole annotazioni, peraltro “lontane” come a qualcuno potrà sembrare alludere il 72° parallelo che, in realtà è retto da volontarie o involontarie polisemie o da inarticolabili squarci anagogici) ho preso coscienza che non c’è più, o non c’è ora, quantomeno, la volontà di edificazione di nulla, nemmeno di un’architettura interna al libro (sezioni, linguaggi, referenti…). Chiaro che la scrittura non è anarchica o impulsiva, il verso abbastanza lavorato, la medietà linguistica aborrita il giusto e la tensione sempre abbastanza verticale e le ridondanti epigrafi vagheggiano universi poetici ai quali ancorarsi, ma non ipotizzabili ora (anche se qua e là, epigonicamente – come ti piace dire – o embrionalmente e con discontinuità qualche eccezione si può vedere).
    Spero che tu riesca a darne una lettura. Con sincerità sei ancora uno dei pochi dei quali si ha certezza di avere una lettura competente e sincera. Sono molto contento di quanto il tempo ti stia rendendo in termini di riconoscimento e autorevolezza: molti pigolano e passano, tu resti e sei un riferimento ineludibile. “L’Ombra delle Parole” è veramente magnifico e pieno di rivelazioni.
    (Alfredo Rienzi)

    .

    Un appunto per una possibile Nota dell’Autore

    “Si parla di ‘poetica’ di un artista, quando egli stabilmente raggiunge […] caratteri peculiari e costanti nella frequentazione delle sue opere, ossia quando egli diventa ‘riconoscibile’ nella sua arte con continuità e stabilità.”
    Questa definizione di poetica, del compianto Gianmario Lucini, nell’Introduzione del I volume di Poeti e poetiche, del 2012, ha avuto il potere di focalizzare la mia cronica inquietudine per concetti quali, appunto, la ‘riconoscibilità’, la ‘cifra stilistica’ e simili. Come se nei conflitti sempre urenti che fondano buona parte della necessità poetica, il doversi preoccupare o almeno occupare del proprio abito stilistico, del replicare se stessi, potesse determinarne uno forse superfluo o implosivo. Come se nel proseguire la propria navigazione nei sicuri canali già percorsi si aggrumasse col tempo il rischio ferale della in-espressività, del plagio di se stessi. E’ probabilmente questo un mio affanno lucidamente ossessivo; è certo, invece, che in molti casi l’ossessione è quella di ripetersi, di confermarsi, di spendersi con l’invariabile moneta con la propria effigie. È probabile, d’altronde, che esista anche in questo campo dell’agire umano quell’aurea via mediana, così facile da teorizzare, quanto, nella realtà, difficile da trovare e impossibile da percorrere.
    Nonostante il sistematico progetto di depistaggio e mascheramento, potrebbe anche accadere, in queste Notizie, di scorgere sedimenti e tracce che rimandino a un minimo comune denominatore del mio ascoltare e ridire, passato e presente. Se così fosse, lo considererei un piccolo passo verso il noto tempio di Delfi.
    (Alfredo Rienzi)
    Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-1

    Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-

    dalla quarta di copertina di Sandro Montalto del libro “Notizie dal 72° parallelo” Joker 2015 pp. 72 € 13

    Il vastissimo poema di Rienzi (…) ci ha abituati a un linguaggio raffinato e vario, e a una attenzione formale tanto esplicita quanto aggraziata. Una poesia di contenuto che non raramente recupera intenti a loro modo narrativi, o almeno evocativi: brandelli di sapienza antica, ma sempre verificata sotto le sollecitazioni dell’oggi, che assumono volentieri l’aspetto di apologhi di eterna saggezza. Ma questo sfondo di narratività non deve far pensare ad un cedimento verso i territori dell’abbassamento prosastico, della rinuncia alla complessità o del lavoro sulla lingua e sull’immagine: si tratta semmai di un recupero di modelli mediorientali e orientali (si cita addirittura Omar Kayyam), ma anche di certa poesia dell’Europa dell’Est, o all’esperienza di poeti come Borges (con Borges la poesia di Rienzi condivide diverse metafore fondamentali, disseminate lungo il suo percorso poetico: basti citare la rosa, il fiume, la notte, la spada, il viandante). E proprio riflettendo sull’essenza di questi modelli può risultare chiaro un certo senso di “sacro” che aleggia in questa poesia: il senso di una parola “pesante”, carica di valenze, che concretizza percorsi non di rado per aspera ad astra e nel suo farsi a tratti ieratica significa il suo non voler dimenticare la difficoltà dell’esistere. Una parola che non dimentica la sua piccolezza di fronte alle immensità che vuole esplorare, ma anche consapevole della propria forza e della dignità della propria missione…
    Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

    Evgenia Arbugaeva Weather_man

    Poesie scelte di Alfredo Rienzi da “Notizie dal 72° parallelo”, Joker 2015 

    Di qua scorreva lento il fiume (lo so:
    la metafora è come annegata nelle sue stesse acque).
    Il mare attende e la sorgente tace
    non considera del tempo la linea
    il cerchio o il decimale
    della costante universale.
    Ascoltavi di me contraddizioni
    e dei flussi e con mani di rugiada
    lavavi il fango dai miei piedi.

    Iróstene di Sitzia

    Imparo a farmi acqua
    contro la lama della spada
    aria al morso dei lupi che invadono le soglie del visibile
    il tragitto dell’arma mi attraversa
    come la mano il fumo dell’incenso
    imparo a farmi chiarore
    all’occhio calunnioso del corvo.

    .

    Beniamino ricorda invito e promesse di uno sconosciuto
    nel giorno del settimo compleanno

    Siedi vicino a me, nella pausa tra i tuoi giochi
    ora che ti ha toccato la vergine spada del tempo
    che il più immaginario tra i tuoi amici da giorni si nasconde
    appena dopo averti rivelato
    che le nuvole e il fiume sono la stessa cosa
    la stessa cosa il pianto e il mare. Siedi
    ti dispenserò il rito della nascita e dell’ascesa al monte
    il nascondimento nella grotta
    l’agguato al drago e il balzo
    col peso come fossi sulla luna
    il decollo che attende la caduta
    la medicina che non guarisce la malattia che non hai.

    .

    St. Y. invia notizie dal 72° parallelo

    Il vento qui solleva i fogli
    carte come colombe, notizie decadenti
    il battito d’ali è innaturale

    non si compirà l’aereo tragitto

    io sto, col mio debito stampato
    sul petto come ecchimosi
    una virgola oscena in mezzo agli occhi
    un liquido indelebile di sangue
    e il peso scriteriato dell’usura

    a noi portatori sani dei mali
    del mondo, recalcitranti ma in fondo
    buoni consumatori
    quale fu il dubbio non espresso,
    la segreta ragione
    la segreta ragione…?

    .
    Terza giornata di Kristian Rosenkreutz

    L’avvenimento ebbe remota origine
    sì, c’era luce, e forse anche troppa
    e rendeva incerti i bordi delle ombre
    gli odori erano netti ma incoerenti
    le aringhe profumavano di frutta
    il latte alitava come aceto e via di questo passo

    insomma c’era qualcosa nell’aria
    che rendeva inconoscibile il luogo
    familiare – tra la città e la torre
    anche l’arco dei rondoni fletteva a formule inadatte al volo.

    Come fu possibile che nessuno s’accorse dell’inganno?

    Il nemico era lì, appena oltre la notte.

    scoppiarono in lamenti i condannati
    penosamente, in suppliche e pianti,
    tardive preghiere, genuflessioni

    Il barbaro mostrò la coppa d’oblivione
    ma era ancora il dolore da patire
    così la versò in terra (un’arida terra
    che per tre giorni disconobbe l’erba).

    Noi osservammo tremanti ed accucciati
    all’ombra dell’acacia.

    Ci volle molto tempo
    prima che tutti fossero impiccati,
    decapitati, affogati nell’acqua
    o giustiziati in altri orrendi modi.
    Il giardino, prima così affollato,
    divenne sempre più vuoto
    e alla fine
    solo restarono, muti, i soldati.

    Il tuo pianto imparò il silenzio.
    A cosa servì l’orrore
    l’osceno rito di sangue e fango?

    Poi ci lavammo mani
    e capo alla fontana.

    Alfredo Rienzi

    Alfredo Rienzi

    Vincent B. sceglie una fotografia per il corredo funerario

    È quella in cui sei tu nel campo di grano ancora verde
    e il delirio di papaveri che canta il canto dell’indomata silfide
    per tutte le creature visibili e invisibili nel cielo
    che scende fin sulle cime dei pioppi

    lo so, l’immagine è venuta un po’ sfocata
    e sovraesposta quanto basta a credere che sia d’un altro luogo
    dove la terra e la materia poco a poco si diradano
    e il fuoco può passare oltre la pelle senza bruciare e diventare sangue

    tu sei di lato e guardi in una direzione dove s’abbracciano
    la vita e la resurrezione
    e mostri il profilo e la sua bellezza di collina
    e un’incisura che accenna ad un sorriso senza causa

    riponila il giorno del passaggio vicino alla mia mano destra
    che possa nei primi passi oltre il confine mostrarla ai custodi del cammino
    e chiedere di aspettarti anche in quell’Oltre.

     

    Una domanda di Irma C., pittrice d’alberi, a un monaco basiliano

    Come puoi allo stesso modo amare
    – chiedevi con le labbra appena mosse –
    la vittima e il carnefice, chi dice
    e chi tace, chi sceglie e chi attende
    al bivio, fermo, il santo o l’uomo lupo?

    Guardavo, mentre addolciva l’aria
    un canto in genovese, i tuoi occhi
    tra il grigio e il verde antico, né lustri né opachi.

    Ti risposi non lo so, mi viene naturale e cercavo
    quale mano in te fosse dell’una, quale dell’altro.

    .
    Jan N. K. svela ipnagogie alla sua concubina

    Ripensai alla tana del gambero
    sulla riva del torbido fiume
    e mi vidi salpare da Nantucket
    dopo una notte che si denudò
    dalle sue tenebre senza fare niente altro che attendere
    rievocai quel calore quasi lieve del liquido che scende
    dalle spine attorno al capo
    e salmodiai tra me e me come l’unguento che scende lungo la barba di Aronne
    finché il dolore non fu così forte da smascherare la menzogna e urlare
    e tu molto ottusamente mi chiedesti
    se avessi più paura a partire o a restare…

    Ma tu hai conosciuto mai qualcosa vivere
    e riuscire a restare immobile?

    Eys, nella prima decade di maggio

    Ho visto sai le querce anche fiorire
    senza rumore, un grado di colore
    attentamente scelto, con la modestia tipica dei forti.

    … e ricordi le maschere che a caso
    abbiamo scelto e posto innanzi al volto?
    C’era disordine nel magazzino: tu ne prendesti una da regina
    o dama d’alta corte, la mia era nera e non riconoscesti
    più neanche l’occhio che ti guardava con disperso amore
    la voce che sapesti distorta negli orgasmi
    e il senso del mio dire, del mio stare.

    .
    Ingannevole epilogo del ciclo di Yibel

    L’inizio fu una voce
    lo schermo del sogno ancora nero
    come al cinema quando il narratore
    anticipa la scena che verrà
    il morso del lupo fu improvviso
    ma Yibel pensò che fosse ora di smetterla coi lupi
    che stavano ripopolando i monti
    con fatica di tutti, lupi, uomini e capre
    e che non si dovesse ancora abusare
    di luoghi comuni, dannosi a tutti,
    lupi, uomini e capre…
    Poteva bastare: il morso fu improvviso.

    Poi comparve la scena, ma, si sa,
    nei sogni le figure hanno spesso
    contorni incerti e molli
    o cambiano senza che neppure si capisca
    cosa siano in origine e cosa vogliano diventare
    e negli incubi il tutto è peggiorato
    dal ritmo che impazzisce (troppo veloce o troppo lento)
    e da un respiro che rapprende l’aria in pietra.
    Allora… (io non so farlo, ma sembra
    dai grimoires facile come bere un calice di birra
    – la metafora con l’acqua, non stupitevi, s’userà sempre di meno…)
    …allora si dispose ad osservare
    come uno spettatore indifferente
    quelle visioni inafferrate, quella pena
    senz’occhi, e comprese come quella fosse la realtà.

    .
    Un ignavo rivede la propria fine

    Non ci fu volontà in mezzo al fiume
    le acque erano placide ed opache
    nel caldo di luglio, la sponda sabbiosa

    mi parve indifferente tornare a riva
    o lasciarsi portare dalla liquida mano:
    e l’una e l’altra parola chiedevano

    di essere pronunciate, nella scelta:
    ma il vero ignavo fino in fondo resta
    equidistante: né dramma né commedia

    fu assecondare i flussi sonnolenti…
    Non ebbi certo volontà di morte
    ma credo sia stata la vita, offesa, a ritirarsi.

    .
    Julius, volgendo le spalle alla nave

    «Che tu possa piangere come un violino
    Ridere come petalo toccato dal raggio»
    (L. Ionas)

    Sto infisso nella terra
    – di chiodi e arbusti, ibrida semenza –
    nell’armatura esigente del mio soma
    con i quindici o i cent’anni che espongo
    secondo il vento o il luccichio dei fiori
    nel lampeggiare d’un settembre caldo
    come non ne ricordo negli ultimi trent’anni.

    Sta suo malgrado intorno a me la vita.

    Deanna sul treno regionale veloce 10270

    Le ore furenti e umide dell’amore
    le riprese accelerate sul bianco
    tumulto delle nuvole e l’immobile
    turchese dove s’adagiano le Dominazioni.
    Le sparse tracce sulla neve, poca,
    la direzione della loro lingua
    in alfabeto estinto senza che pietosa mano ne avesse
    indicato le curve, il loro allontanarsi
    l’andare e il tornare, il puntare attorno all’asse del mondo.
    I treni nella notte, le stelle (o i lampioni) nella notte
    i ventosi spiriti nella notte.
    Cosa salvare, cosa offrire al Moloch?
    Duramente concede la domanda
    scelte multiple, silenzi, attese…

    .
    Di Arcadio e di un suo pensiero fluttuante

    Mi conosci questi pensieri
    non dimeno mi parli di felicità, e io ascolto.
    (M. Luzi)

    Svenduta la sua casa familiare
    gli somiglia di più l’attuale condizione
    d’affitto, d’ospite a scadenza.
    Ha nuove mura e un comodo scrittoio
    i vanagloriosi o dolenti oggetti
    le risorte cornici, le penne dei rapaci.
    Ma cosa è suo, cosa gli è prestato?
    Meglio, così, si specchia ogni mattino
    il suo pensiero fluttuante d’instabilità
    e il suo abitare i vani grigio chiaro
    e gli scuri del cranio, del torace e
    il palco d’ossa da ristrutturare:
    stesse regole per l’uso e la scadenza,
    sola differenza, in questa sua materia,
    un prezzo più alto e un tempo meno concordato.

     Anosh riconosce l’inganno e gli ingannatori

    «Lontano
    si lamentano i cani e confonde
    l’insonnia gli errori della vita ».
    (G. Lucini, Istruzioni per la notte, I.)

    Conosco l’inganno e gli ingannatori
    la frode e i frodatori
    e mi lascio ingannare, e frodare
    perché so stare al gioco e compiacere
    il bagatto e la sua asta e la giocoleria del suo occhio alboreo.

    Gli alberi erano bianchi:
    di neve o di fiori non importa:
    dell’una o degli altri l’impermanenza
    ho appreso e il trucco dell’apparire e del mutare.
    Voi dite: è naturale
    ma anche il tempo come il mare è a volte qualcosa di abissale.

    Così l’ingannatore mi sorride
    ingannato dalla mia falsa resa
    e il frodatore annusa il molto nulla
    che gli ho concesso, lo soppesa, mostra
    ai suoi sodali quel che pensa esserne
    il centro, lo stringe tra pollice e indice
    si accanisce sui margini di fumo
    ma non giunge a farsene un’idea
    a estrarne un asterisco, un duepunti, una moneta falsa o fuori corso.

    Gli alberi erano rossi:
    di frutta o di sangue non importa.

    .
    Jazim Alahany

    Osservava passare nubi
    non (ripeto: non) silenziose
    ogni residuo del cielo suonava
    e c’era come odore di cenere
    sulle città
    una guerriglia oscena
    per la parola non vera
    ma ripulita e ornata come un’alcova

    c’era al suolo un inutile sudore
    una chiassosa finzione di pianto
    per le strade, e una sconveniente
    enfasi di fango.

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    George Steiner : INTERVISTA “L’Europe est en train de sacrifier ses jeunes” par Juliette Cerf “Nous comprenons mal les sources intimes de la création”, “La littérature et la philosophie sont-elles encore complices aujourd’hui?” “L’Europe traverse aujourd’hui une crise dramatique”, “La littérature a choisi le domaine des petites relations personnelles”, “La mondialisation”, “L’Europe reste le lieu du massacre”, “N’oublions jamais que les deux guerres mondiales furent des guerres civiles européennes”, “les nouvelles technologies menacent le « silence » et l’« intimité » nécessaires à la rencontre avec les grandes oeuvres”

    Pittura Botticelli Allegoria dell'invidia

    Botticelli Allegoria

     Grand érudit, George Steiner incarne l’humanisme européen. Il regrette que littérature, philosophie et sciences ne communiquent plus entre elles. Comment comprendre notre monde, s’interroge-t-il, si la culture se rétrécit ?
    Nietzsche, Héraclite et Dante sont les héros de son nouveau livre, Poésie de la pensée, mais ils attendront un peu. George Steiner nous accueille dans sa maison de Cambridge avec une confidence farceuse, entre une tranche de panettone et un café : lors des débuts de l’Eurostar, il proposait de donner un shilling au premier enfant qui apercevrait un poisson dans le tunnel sous la Manche. « Les parents étaient effarés ! » s’amuse le professeur de littérature comparée. Ce mélange de facétie et d’érudition, d’intelligence et de gentillesse, caractérise bien George Steiner. Né en 1929, à Paris, d’une mère viennoise et d’un père tchèque qui avait eu la prescience de l’horreur nazie, ce maître à lire polyglotte a déchiffré Homère et Cicéron dès son plus jeune âge, sous la houlette de son géniteur, un grand intellectuel juif, féru d’art et de musique, qui voulait éveiller en lui le professeur (le sens propre du mot « rabbin »). En 1940, la famille embarque pour New York sur le dernier bateau parti de Gênes. Après des études à Chicago puis à Oxford, Steiner rejoint à Londres la rédaction de The Economist. Il traverse à nouveau l’Atlantique pour interviewer Oppenheimer, l’inventeur de la bombe atomique, qui le fait entrer à l’institut de Princeton. C’est le « tournant » de sa vie. Tout en publiant ses grands livres, Tolstoï ou Dostoïevski, Langage et Silence, etc., souvent issus de la matière de ses cours, il fonde le Churchill College à Cambridge, devient critique littéraire au New Yorker et rejoint l’université de Genève. Rencontre avec un grand humaniste européen, dont la pensée a fait le tour du monde.
    George Steiner Grau-2

    george steiner

    “Si l’on n’est pas saisi dans sa jeunesse
    par un espoir, fût-il illusoire, que reste-t-il ? Rien.”

    L’Europe vit une crise profonde. Son effondrement est-il selon vous possible ?

    En son état actuel, c’est possible. Mais on va s’en sortir d’une façon ou d’une autre. L’ironie, c’est que l’Allemagne pourrait dominer de nouveau. Reculons d’un pas. Entre le mois d’août 1914 et le mois de mai 1945, l’Europe, de Madrid à Moscou, de Copenhague à Palerme, a perdu près de 80 millions d’êtres humains dans les guerres, déportations, camps de la mort, famines, bombardements. Le miracle, c’est qu’elle ait subsisté. Mais sa résurrection n’a été que partielle. L’Europe traverse aujourd’hui une crise dramatique ; elle est en train de sacrifier une génération, celle de ses jeunes, qui ne croient pas en l’avenir. Quand j’étais jeune, il y avait toutes sortes d’espoirs : le communisme, et comment ! Le fascisme, qui est aussi un espoir, il ne faut pas se tromper. Il y avait aussi, pour le Juif, le sionisme. Il y avait, il y avait, il y avait… Tout cela, nous ne l’avons plus. Or, si l’on n’est pas saisi dans sa jeunesse par un espoir, fût-il illusoire, que reste-t-il ? Rien. Le grand rêve messianique socialiste a débouché sur le goulag et sur François Hollande – je prends son nom comme un symbole, je ne critique pas sa personne. Le fascisme a sombré dans l’horreur. L’Etat d’Israël doit survivre impérativement, mais son nationalisme est une tragédie, profondément contraire au génie juif, qui est cosmopolite. Je veux être errant, moi. Je vis d’après la devise du Baal Shem Tov, grand rabbin du XVIIIe siècle : « La vérité est toujours en exil. »

    La mondialisation ne favorise-t-elle pas cette errance ?

    Il n’y a jamais eu une telle fermeture géographique. Quand on quittait l’Angleterre, on pouvait aller en Australie, en Inde, au Canada ; il n’y a aujourd’hui plus de permis de travail. La planète se ferme. Chaque nuit, des centaines de personnes essaient de rejoindre l’Europe depuis le Maghreb. La planète est en mouvement, mais vers quoi ? Horrible est le destin actuel des réfugiés. On m’a fait l’honneur, en Allemagne, d’un grand discours devant le gouvernement. Je l’ai terminé ainsi : « Mesdames et Messieurs, toutes les étoiles deviennent maintenant jaunes. »

    “En Malaisie, on parle trois langues.
    Cette idée d’une langue maternelle
    est une idée très nationaliste et romantique.”

    Vous sentez-vous malgré tout toujours européen ?

    L’Europe reste le lieu du massacre, de l’incompréhensible, mais aussi des cultures que j’aime. Je lui dois tout, et je veux être là où sont mes morts. Je veux rester à portée de la Shoah, là où je peux parler mes quatre langues. C’est mon grand repos, c’est ma joie, c’est mon plaisir. J’ai appris l’italien après l’anglais, le français et l’allemand, mes trois langues d’enfance. Ma mère commençait une phrase dans une langue et la finissait dans une autre, sans le remarquer. Je n’ai pas eu de langue maternelle, mais, contrairement aux idées reçues, c’est assez commun. En Suède, on a le finlandais et le suédois ; en Malaisie, on parle trois langues. Cette idée d’une langue maternelle est une idée très nationaliste et romantique. Mon multilinguisme m’a permis d’enseigner, d’écrire Après Babel : une poétique du dire et de la traduction et de me sentir chez moi partout. Chaque langue est une fenêtre ouverte sur le monde. Tout ce terrible enracinement de Monsieur Barrès ! Les arbres ont des racines ; moi, j’ai des jambes, et c’est un progrès immense, croyez-moi !

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    george steiner

    Dans Poésie de la pensée, votre nouveau livre, vous rappelez que Sartre voulait être à la fois Stendhal et Spinoza. Le style mène-t-il à la pensée ?

    Oui, toute philosophie est un acte de langage. Le rythme, le vocabulaire, la syntaxe, tout ce qui nous conduit vers la poésie, nous le rencontrons également dans le texte philosophique, aussi abstrait soit-il. « Toute pensée commence par un poème », écrivait Alain à propos de Valéry. Les grands penseurs sont souvent des écrivains suprêmes, tels Nietzsche ou Kierkegaard. Bergson, l’un des maîtres de la langue française, a reçu le prix Nobel de littérature. Platon mérite d’être comparé à Shakespeare en ce qui concerne la création de personnages, de gestes dramatiques. Mais la relation entre pensée et écriture peut aussi se révéler conflictuelle. Certains philosophes tiennent à écrire très mal, à suffoquer l’écrivain en eux, comme Hegel, roi de l’anti-style. Cette double tradition du génie lyrique chez un Platon et celle de la pédagogie sévère, du système, chez un Aristote est là depuis le début.

    “N’oublions jamais que les deux guerres mondiales
    furent des guerres civiles européennes.”

    La littérature et la philosophie sont-elles encore complices aujourd’hui ?

    Les deux formes me semblent menacées. La littérature a choisi le domaine des petites relations personnelles. Elle ne sait plus aborder les grands thèmes métaphysiques. Nous n’avons plus de Balzac, de Zola. Aucun domaine n’échappait à ces génies de la comédie humaine. Proust aussi a créé un monde inépuisable, et Ulysse, de Joyce, est encore tout proche d’Homère… Joyce, c’est la charnière entre les deux grands mondes, celui du classique et celui du chaos. Jadis, la philosophie aussi pouvait se dire universelle. Le monde entier était ouvert à la pensée d’un Spinoza. Aujourd’hui, une immense partie de l’univers nous est fermée. Notre monde se rétrécit. Les sciences nous sont devenues inaccessibles. Qui peut comprendre les dernières aventures de la génétique, de l’astrophysique, de la biologie ? Qui peut les expliquer au profane ? Les savoirs ne communiquent plus ; les écrivains et les philosophes sont désormais incapables de nous faire entendre la science. La science brille pourtant par son imaginaire. Comment prétendre parler de la conscience humaine en laissant de côté ce qu’il y a de plus audacieux, de plus imaginatif ? Je m’inquiète de savoir ce que veut dire « être lettré » aujourd’hui – « to be literate », l’expression est encore plus forte en anglais. Peut-on être lettré sans comprendre une équation non linéaire ? La culture est menacée de devenir provinciale. Peut-être faudra-t-il repenser toute notre conception de la culture. Je veux vous raconter une expérience qui m’a infiniment ému : un soir, l’un de mes collègues de Cambridge, un prix Nobel, un homme charmant, avec lequel je dînais, m’a demandé de l’aider sur un texte de Lacan auquel il ne comprenait rien. La modestie d’un grand scientifique comparée à l’orgueil, à la superbe, de nos byzantins maîtres de l’obscurité…

    Vous défendez la culture classique de l’honnête homme, et en même temps vous insistez sur sa fragilité. Pourquoi ?

    Parce que la grande culture a failli devant la barbarie. N’oublions jamais que les deux guerres mondiales furent des guerres civiles européennes. L’Allemagne, le pays de Hegel, Fichte et Schelling, matrice de la pensée philosophique, a connu la pire des barbaries. Les humanités ne nous ont pas protégés ; au contraire, elles ont souvent été les alliées de l’inhumain. Buchenwald n’est situé qu’à quelques kilomètres de Weimar. Comment certains hommes pouvaient-ils jouer Bach et Schubert chez eux le soir et torturer le matin dans les camps ?

    “Apprendre par cœur, c’est entrer
    dans l’œuvre même : ‘Tu vas vivre en moi
    et je vais vivre avec toi’.”

    george_steiner

    george steiner

    A quoi sert la culture, alors, si elle ne nous rend pas plus humains ?

    Elle rend supportable l’existence. Ce n’est pas gai d’être mortels, non, ce n’est pas gai du tout. Nous sommes tous confrontés au cancer, au stress, à la peur ; chaque jour peut porter un adieu, et il n’y a rien de plus angoissant. Je vais vous confier une chose bien enfantine : ma femme et moi venons de perdre notre chien Ben. C’est horrible pour nous, tant cet animal a été au centre de notre vie – et même sur la couverture du Cahier de L’Herne qui m’a été consacré !

    Je ne peux passer une journée sans musique, sans beauté, sans poésie. C’est ma réassurance, ma survie. La compagnie des grands maîtres me donne un sentiment infini de fierté et de reconnaissance. Je veux leur dire merci. En les apprenant par coeur. Ce que nous apprenons par coeur, personne ne peut nous l’enlever. Ni la censure, ni la police politique, ni le kitsch qui nous entoure. Apprendre par coeur, c’est entrer dans l’oeuvre même : « Tu vas vivre en moi et je vais vivre avec toi. » Les textes marchent à côté de nous ; se promener avec un poème de Baudelaire, c’est être en très bonne compagnie.

    Selon vous, les nouvelles technologies menacent le « silence » et l’« intimité » nécessaires à la rencontre avec les grandes oeuvres…

    Oui, la qualité du silence est organiquement liée à celle du langage. Vous et moi sommes assis ici, dans cette maison entourée d’un jardin, où il n’y a pas un autre son que notre conversation. Ici, je peux travailler, je peux rêver, je peux essayer de penser. Le silence est devenu un luxe immense. Les gens vivent dans le vacarme. Il n’y a plus de nuit dans les villes. Les jeunes ont peur du silence. Que va-t-il advenir de la lecture sérieuse et difficile ? Lire une page de Platon quand on a un Walkman sur les oreilles ? Cela me fait très peur. Les nouvelles technologies transforment le dialogue avec le livre. Elles abrègent, simplifient, connectent. L’esprit est « câblé ». On ne lit plus de la même façon aujourd’hui. Le phénomène Harry Potter apparaît comme une exception. Tous les enfants de la Terre, l’enfant esquimau, l’enfant zoulou, lisent et relisent cette saga ultra anglaise douée d’un vocabulaire riche et d’une syntaxe sophistiquée. C’est formidable. Le livre est un grand défenseur de la vie privée. Il n’y a pas en français de mot pour dire « privacy ». « Intimité » le traduit très mal. L’Angleterre est encore un pays de « privacy ». Ce qui peut avoir des côtés absurdes : on peut être voisins pendant cinquante ans et ne pas échanger une seule parole. Ce culte de la « private life » a une immense valeur politique : c’est une capacité de résistance.

    “Avec l’art conceptuel, non, je n’arrive pas à suivre.”

    Vous venez d’évoquer Harry Potter. Au détour de Poésie de la pensée, vous osez un rapprochement entre la dialectique de Hegel, négation de la négation, et le « rien de rien » d’Edith Piaf. Pourquoi la culture populaire ne vous a-t-elle pas plus intéressé ?

    J’ai raté le coche. Notamment avec le cinéma. Si je pouvais reprendre ma vie, j’essaierais de comprendre pourquoi, parmi les forces créatrices de la fin du XIXe au début du XXe siècle, le film devrait peut-être passer en première place. Shakespeare, aujourd’hui, écrirait des scripts. Je me suis trompé, tant j’étais un enfant du grec et du latin et d’un père ultra conservateur classique. On ne peut pas être à jour sur tout. Avec la musique, oui : j’écoute des compositeurs qui viennent après Boulez et qui me passionnent. Avec l’art conceptuel, non, je n’arrive pas à suivre : je vais à Beaubourg, on me montre une pile de briques en me disant que c’est une oeuvre importante, je ne sais pas quoi dire ; alors que je comprends Bacon qui cite Velázquez, Greco et Goya. Il vaut mieux être honnête sur ses erreurs que d’essayer de bluffer.

    Vous ne vous considérez pas comme un créateur ?

    Non, il ne faut pas confondre les fonctions. Même le critique, le commentateur, l’exégète le plus doué est à des années-lumière du créateur. Pouchkine disait : « Merci mon traducteur, merci mon éditeur, merci mon critique, vous portez mes lettres, c’est moi qui les écris. » Moi aussi, je porte le courrier. C’est un très grand privilège, mais qui n’a rien à voir avec le miracle d’un vers qui va chanter pour toujours. Nous comprenons mal les sources intimes de la création. Par exemple, nous sommes à Berne, voilà des années… Des enfants partent en pique-nique avec leur institutrice, qui les met devant un viaduc. Ils dessinent, l’institutrice regarde par-dessus l’épaule d’un bambin ; il a mis des bottes aux piliers ! Tous les viaducs, depuis ce jour-là, sont en marche. Cet enfant s’appelait Paul Klee. La création change tout ce qu’elle contemple, quelques traits suffisent à un créateur pour nous faire voir ce qui était déjà là. Quel mystère déclenche la création ? J’ai écrit Grammaires de la création pour le comprendre. A la fin de ma vie, je ne comprends toujours pas.

    Comprendre, serait-ce manquer l’art ?

    En un sens, je suis content de ne pas comprendre. Imaginez-vous un monde où la neurochimie nous expliquerait Mozart… C’est concevable, et cela me fait peur. Les machines sont déjà interactives avec le cerveau : l’ordinateur et le genre humain travaillent ensemble. Il se pourrait d’ailleurs qu’un jour les historiens se rendent compte que l’événement le plus important du XXe siècle, ce n’était pas la guerre, ni le krach financier, mais le soir où Kasparov, le joueur d’échecs, a perdu sa partie contre une petite boîte en métal. Et noté : « La machine n’a pas calculé, elle a pensé. » Quand j’ai vu cela, j’ai demandé leur avis à mes collègues de Cambridge qui sont les hauts rois de la science. Ils m’ont dit qu’ils ne savaient pas si la pensée n’était pas un calcul. C’est une réponse effrayante ! La petite boîte pourra-­t-elle un jour composer de la musique ?

    A lire
    Poésie de la pensée, de George Steiner, traduit de l’anglais par Pierre-Emmanuel Dauzat, éd. Gallimard, 290 p., 20 €.

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    ADRIANA  GLORIA  MARIGO – POESIE SCELTE da “Senza il mio nome” (Campanotto, 2015) con uno stralcio della Prefazione di Geo Vasile e una Nota critica di Flaminia Cruciani

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    Adriana Gloria Marigo vive tra Padova e Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Attualmente cura la presentazione di libri, collabora a riviste culturali con interventi critici secondo una visione letterario-psicoanalitica. Recentemente ha curato con il filologo Geo Vasile l’edizione italiana di Elegie del poeta romeno Valeriu Andreanu. È curatrice della collana di poesia di Caosfera Edizioni di Vicenza. Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano – LietoColle, 2009 e L’essenziale curvatura del cielo – La Vita Felice, 2012, Impermanenza, plaquette per le edizioni Pulcino Elefante, 2015. Dal 2012 è tra i poeti invitati all’annuale rassegna FlussidiVersi sulla poesia mitteleuropea che la Regione Veneto promuove nella città di Caorle. Su invito dell’Associazione Scrittori Sloveni nell’aprile 2014 presenta a Lubiana L’essenziale curvatura del cielo e a Capodistria incontra gli studenti della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università del Litorale per un dialogo sulla poesia e sul significato di essere poeti. Predilige la diffusione della poesia in una dimensione multidisciplinare e all’interno di altre espressioni artistiche, quali pittura e fotografia: a giugno 2014 ha presentato a Castelfranco Veneto il lavoro poetico sulle fotografie di viaggio di Imaire De Poli nell’evento “Di Terra e Arte” del Centro di Ricerca Artistica Immaginario Sonoro. Cura per Samgha la rubrica “Porto sepolto”. [a.g.m] Contatti:  adrianagloriamarigo@gmail.com

    dalla Prefazione di Geo Vasile

        Nel tentativo di definire la sua poetica, facciamo ricorso alle arti figurative, più precisamente all’estetica del cubismo di Robert Delaunay definito dallo stesso Apollinaire cubismo orfico. Prima di parlare del vero, stupendo spettacolo intraverbale offerto dall’autrice, diremo che i suoi componimenti poetici vengono scritti con elementi attinti ad una realtà visiva irreale, creata da Adriana Gloria Marigo e da lei dotata d’una realtà possente. L’azione espressiva consiste sempre per il poeta autentico in lente progressioni, in circonvoluzioni avvolgenti, in avvicinamenti circospetti e, tuttavia, ambiziosi. Il poeta  vuole sempre giungere alla totalità e alla totalità sacrifica la possibilità, permettendo ad essa di rifluire in quella, coinvolgendole entrambe nella stessa dinamicità.

         Senza il tuo nome  attesta un rigoroso costruttore di improbabilità, che sa procedere per paragoni e analogie, e  la cui intelligenza si rivela dans un ordre insensé, che sa improvvisare da trovatore senza smettere di pianificare o di pensare. Improbalità implicite od eventualità fornite da una memoria potenziale o funzionale proprio in opposizione alla memoria storica, legata cioè ai ricordi personali. Quel luziano «conoscere per ardore»  è una scelta dei versi della Marigo tra la presenza estrema dell’istante e la presenza estrema del possibile, favorendo quest’ultimo affinché dia la sensazione di vivere di più.

         Volendo far emergere il clima generale del libro, ma anche i dettagli delle interferenze gravitazionali dei versi, c’è da notare sin dai primi testi un’aria quasi sovrumana, irrespirabile per il comune lettore, che mette a fuoco l’uomo e la sua attesa nel tempo, «innumeri enti dell’attesa» e soprattutto la “parola” che non appena «sciogliamo le ombre» dobbiamo farla sorgere «per numinoso nominare». Dell’eccelsa icastica fanno parte espressioni rarissime tipo D’Annunzio, Montale, Sanguineti Zanzotto: «sfrigolio sabbiale della clessidra, la pugna di Saturno, incline a smorirsi, abissi oceanidi, intuizione aligera, erba frugifera, corsa vessillifera, infeudarsi, materia trina ecc., antinomie: chiarore – cupezza erbosa, ecc.»,  sinestesie: «il suono o il grido della luce, il gioco costellato dell’ombra, magnete ultimo d’intima fibra, sfolgorii correnti di fiume, ecc. ».

         Da sottolineare nella poesia della Marigo c’è anche la non comune potenza intuitiva che sappia vedere immagini sensibili come simboli. La sua ricerca poetica sembra sia destinata alla purificazione per mezzo dei misteri della bellezza pura della parola, dell’esistenza degli umani che affrontano il paradigma postmoderno della loro sorte: la fine.

    de chirico maschere

    de chirico maschere

    dalla Nota  di Flaminia Cruciani

    Senza il mio nome ci convoca nel temenos della parola che viene officiata per nominare l’innominabile e l’impresentabile, per cogliere l’inafferrabile e l’intraducibile che sta dietro il visibile. Si avvera uno spazio, o chōra, un luogo circolare non collocato che aspetta di ricevere il marchio del verso per manifestarsi, che giunge lampeggiante ad aprire uno spazio metalogico, un luogo introvabile che spalanca le profondità dell’enigma esistenziale, in cui si supera la contraddizione della natura e la sua determinazione.  La natura, di sacralità pagana, è uno dei cardini di questa poetica, ma appare incorporea, trasfigurata, che non lascia incantata l’autrice ma rappresenta il porto da cui salpare per giungere al suo segreto, per mettere in evidenza il chiasma, l’intreccio fra orizzonte esterno e interno, il rapporto fra visibilità e invisibilità, verso cui la poetessa ha un atteggiamento da fenomenologo, come conferma la dedica: All’invisibile che schiude la parola. È così che si attua l’esperienza trascendente della natura e dei suoi fondamenti, in cui la tensione è superare la phýsis e saldarsi al suo mistero, alla sua meta-phýsis, al suo significato preesistente e originario.

    E come procede l’autrice in questa rappresentazione? Attraverso il dire sibillino, la parola profetica e una poesia colta con un verso alto e luminoso di una trasparenza transitiva, che unge l’esperienza dall’alto come una benedizione implacabile, e con una visionarietà che la avvicina al giovane William Blake. Agisce “mettendo la forza in riserva nei segni” nella capacità evocativa d’immagini dell’abisso simbolico. Il verso di Gloria giunge come folgore a spalancare l’universo del pensiero mitico, di una logica non determinata, in cui si attuano uno sfondamento della natura e la sua lucida compenetrazione. Qui le aporie sono celebrate da una voce nitida che autorizza la coesistenza e l’affidabilità di soluzioni antitetiche e svela antinomie che non attendono di essere risolte, secondo un procedimento letterario che trova un parallelo musicale nella melodia infinita wagneriana. In questa logica di non contraddizione la poetessa ci orienta e ci disorienta in un tempo/spazio sincronico, in un’ontologia essenziale in eccesso di significato, che trova in se stessa l’abbattimento del limite e della distinzione fra l’altro e l’infinitamente altro.

    Come in un prontuario oracolare, questa poesia ha la forza delle antiche sentenze sibilline, dei pronunciamenti profetici che vogliono risvegliare il lettore dal sonno del Logos e ridestarlo al Mythos. La consacrazione della sfera naturale, che viene sciolta dalla sua destinazione umana, avviene attraverso l’uso sapiente della parola che, come nelle antiche cosmogonie, qui ha potere creatore. Il nome è concepito come suono creatore, che dà origine alla vita, il suono primordiale, chiamato dagli egizi “risata” o “grido” del dio Toth, o come le sillabe mistiche, presenti nel Libro della Genesi che inizia con le parole «In principio era il verbo» o nell’Enuma Elish, la più antica cosmogonia conosciuta della Mesopotamia antica.  Anche la tradizione vedica ci informa su un mondo creato che origina da un essere ancora immateriale che dalla quiete del non essere risuona.

    de chirico un maestoso silenzio maschere

    de chirico un maestoso silenzio maschere

    Poesie di Adriana Gloria Marigo

    da   I

    Abbiamo conservato la flessibile
    luce lungo la pietra
    grigia d’Eleusi a salvare
    la parola che non s’addomestica
    sorta dall’erta vertiginosa

    magnete ultimo d’intima fibra
    pregio di perpetuo rischio.

    Amor Coeli

    Sovrastati dal suono della luce
    non ci trattengono basse correnti
    dove motteggia sempre vero

    il tonfo della specie

    bassura transitiva di minimo
    non accettabile all’inquieto
    malleolo in danza.
    da II

    Il dono del fuoco

    Per il dono del fuoco
    ogni movenza non fu più
    l’appena prima:

    un’intuizione informe
    antecedente la storia
    non idiomatica ancora

    sottrasse la notte al terrore
    per il nero, per il giro celeste
    lo spartito delle stelle

    la gravità delle sfere
    dell’altro ardente allo zenit
    quando sulla terra

    si stende fresca l’ombra
    o lunga nella stagione
    incline a smorirsi

    rivelò l’infero celato
    la complicanza della colpa
    il fregio quando la grazia tocca.

    de chirico Ettore e Andromaca 1916

    de chirico Ettore e Andromaca 1916

    Su “La morte della Pizia” di F. Durrenmatt

    Morì la Pizia per oracolare
    inganno, doppiezza di parola
    levata in vaticinio nel tempo
    dismesso all’alloro
    al fornice sacro ̶

    rovinò la voce solforata
    accartocciò il passo
    disforme al pneuma allucinato.

    Se si oscura la storia

    Se si oscura la storia
    poco resta all’àncora
    della memoria: il simulacro
    dell’opera, il rauco sussulto
    di un’ora insolita
    scostamenti peregrini

    spersa l’origine della parola.

    *

    Facile sarebbe accoglierci
    entro l’elegia della neve

    ma dalle onde abrase
    da venti intemerati

    cade il suono, cade l’ora
    assedia dominanza di futuro
    destina all’agone la stretta
    pupilla in svettanza di luce nera.

    Da Luino a Colmegna

    È l’aggregarsi di questa luce
    soave e indifferente sugli oggetti
    a portarmi indietro

    al passo scolpito di collina
    a tendini e nervi vivissimi
    al mai perso talento ad essermi

    esatta di misura visibile
    peso e contropeso
    sull’appiglio dell’ombra.

    Il grido della luce stamani

    Il grido della luce stamani
    folgora la distanza
    il gioco costellato d’Erebo
    nell’inciso spazio degli sterpi.

    Più in alto il respiro di neve
    inarca il giorno
    agl’innumeri enti all’attesa.

    E s’avvera l’azzurro teso

    Stando in maestà la luna
    di notte viene un vento raro
    ad avvolgersi selvatico
    sugli alberi spersi nella brughiera
    a sconfinare stelle fino in terra.

    E s’avvera l’azzurro teso,
    la sua pagina infinita

    Adriana Gloria Marigo senza il mio nome

    da III

    Appare alle volte il tuo sguardo

    Sale dalla terra
    la voce serica
    di cose remote,
    un mormorio di futuro.

    Appare alle volte
    il tuo sguardo erbaceo
    e trema nelle mani
    il biancospino all’aria zefira.

    Vana riconosco
    la pianura alla tangente
    celeste per solo prodigio,
    sarabanda d’astri.

    *

    Di fiorescenza memorante
    qualcosa più di te cara avanza –

    forse l’ombra che l’albero getta
    forse la chiara domanda
    o entrambe fluenti a disfare
    la sintesi di gennaio
    nel cordiale talento per il cosmo

    alta d’ardore la fiamma
    a risarcire il danno.
    *

    Spersi gli anni antelucani
    nell’iride agemina, mostravi
    il palmo della mano dinnanzi
    al mare per il quale tremi.

    Tutte le monadi in seduta
    plenaria nel punto esatto
    di minima distanza inspirai

    espirai il maestrale
    delle tue orbite gaudiose
    fini di materia trina.

    *

    Fragile al talento del mio nome
    dall’asperità della soglia
    infrangi il riguardo della distanza
    il desiderio passato in giudicato.

    Il suono che deponi non allerta
    la parola smentita
    l’assenso ad altro vivere ̶

    io, remigante in volo.

    adriana gloria marigo viso

    Adriana Gloria Marigo

    Forzate le ossa
    alla disciplina del monte
    ci destiniamo a eludere
    l’erratica lontananza del mare
    il fasto mattinale di Borea
    sul refolo che l’onda minore
    discanta sulla rena –

    nel gemmare viva l’ora
    involve persino il tempo
    nell’armonia profonda.
    *

    Perdimi, lasciami
    ove più non s’intessono
    fronda e nido –
    indietro, alla morgana

    mangia i semi di Persefone
    dimentica la specie che sono
    la cucitura eccellente
    sulla veste di festa –

    vivere ti è consentito
    senza il mio nome.

    Flaminia Cruciani. Romana, si è laureata in Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico, presso Sapienza Università di Roma sotto la guida del Prof. Matthiae. Ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Archeologia Orientale nella stessa università per poi perfezionare i suoi studi con un Master di II livello in “Architettura per l’Archeologia – Archeologia per l’Architettura” per la valorizzazione del patrimonio culturale. Per lunghi anni ha partecipato alle annuali campagne di scavo in Siria, in qualità di membro della “Missione archeologica italiana a Ebla”. Ha poi conseguito una seconda laurea triennale in “Storia dell’arte” ed è attualmente iscritta per il conseguimento della magistrale. Presso la stessa università tiene annualmente corsi sul rapporto tra l’iconografia e il testo nella tradizione mesopotamica. Si è specializzata inoltre in Discipline Analogiche, attraverso lo studio dell’Ipnosi Dinamica, della Comunicazione Analogica non Verbale e della Filosofia Analogica, conseguendo il titolo di Analogista, una professione di aiuto per la lettura e la decodifica delle dinamiche emozionali profonde. Da diversi anni è operatore certificato di Psych-K. Ha inoltre inventato il “Noli me tangere®”, uno strumento fondato sul potere evocativo delle immagini in grado di favorire il processo di individuazione della persona. Nel 2008 ha pubblicato Sorso di Notte Potabile, ed. LietoColle. Suoi testi letterari sono presenti in numerose antologie, fra cui la recente 42 voci per la pace, ed. Nomos. È stata selezionata fra i giovani poeti italiani contemporanei per il Bombardeo de Poemas sobre Milán, opera del collettivo cileno Casagrande. Esponente del movimento mitomodernista, è tra i fondatori e gli ideatori del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia.

    6 commenti

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    Alfredo de Palchi POESIE INEDITE da  “NIHIL” sezione “Ombre II”  (2008) con uno scritto di Luigi Fontanella e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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    Alfredo De Palchi

    Da uno scritto di Luigi Fontanella:

    «Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

    .

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    Alfredo de Palchi

    Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
    Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
    Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
    alfredo de palchi italy 1953

    alfredo de palchi in Italia, 1953

    Commento di Giorgio Linguaglossa «Il problematico è l’indicibile dell’ordine assertorio»

     Il testo di Alfredo De Palchi è dichiarativo perché il locutore teme che esso possa essere equivocato dal lettore risponditore. Ecco perché il locutore De Palchi si esprime mediante una proposizionalità dichiarativa. Una frase dichiarativa è tale quando dichiara con la massima precisione il proprio oggetto. Al limite, anche una iperbole può essere dichiarativa, anche un insulto, perché riguardano immediatamente un oggetto. Quindi, dichiarativo nel senso di non interlocutorio, non ambiguo (nel senso di Empson dell’ambiguità connaturata al linguaggio poetico), anzi, dichiarativo nel senso di letterale, che evita il figurato per sfiducia nelle qualità denotative che il discorso figurato ha.

    .

    L’ordine assertorio esclude l’indicibile dal logos. Lo stile dichiarativo sta all’ordine assertorio come due sorelle siamesi; ma c’è un terzo escluso: l’indicibile che ritorna con il ritorno dell’ombra mnestica e scompagina lo stile dichiarativo.

    .

    Alfredo de Palchi opta per un discorso dichiarativo, dove il locutore tenta, attraverso una messa in ordine del discorso, di evitare il figurato mediante la pronuncia di una parola che non rimandi ad altro da sé, che non rimandi a nessun non-detto implicito. Ma è una pia illusione. Anche tra le maglie delle espressioni dichiarative, il non letterale, il figurato si insinua ripetutamente con il ritorno del rimosso. Il rimosso c’è fin quando vuole celare l’Altro, l’Estraneo. Come non c’è gerarchia tra il letterale e il figurato, così si dà una diversa problematicità a secondo della pressione che si fa sulla letteralizzazione o, al converso, sulla de-letteralizzazione. È la natura problematica del logos che sta a fondamento della ambiguità semantica, non quindi il significante sganciato da un soggetto, quanto il significante per un soggetto che, a sua volta, è in rapporto con un altro significante e con un altro significato.

    .

    È il tema dell’Altro, o dell’Estraneo che pone la necessità di chiederci se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».1 La risposta di Lacan sarà che il luogo del soggetto è radicalmente eccentrico in quanto esso nasce come campo dell’Altro. Luogo della catena differenziale dei significanti, il soggetto nasce con il significante, nasce diviso. Il soggetto che si costituisce a partire dall’Altro, è sempre un soggetto alienato, separato. Una struttura analoga la si ritrova in Heidegger, dove l’Ereignis (l’evento appropriante) è insieme e indissociabilmente Enteignis (espropriazione). L’Altro di Lacan è innanzitutto l’Altro del linguaggio come catena significante, così come per Heidegger il linguaggio è la «casa dell’essere» e «il modo più proprio dell’Ereignen», dunque l’ambito stesso in cui accade l’appropriazione reciproca di uomo ed essere. Questo rapporto si sostiene sulla priorità e autonomia del linguaggio rispetto all’uomo: come Heidegger afferma che innanzitutto «il linguaggio parla» e non l’uomo e che l’uomo è uomo in quanto è all’ascolto e corrisponde a questo linguaggio che sfugge al suo potere; così per Lacan «è il mondo delle parole a creare il mondo delle cose […] L’uomo parla dunque, ma è perché il simbolo lo ha fatto uomo».1

    .

    Il testo dichiarativo per eccellenza è un testo testamentario, là dove il locutore deve attenersi con il massimo scrupolo alle esigenze della letteralizzazione proprio per evitare le ambiguità del discorso fonosimbolico. Il paradosso è che in questi testi della raccolta inedita Nihil di De Palchi, il locutore si esprime con un linguaggio apodittico, testamentario, nel senso di testamentum, di dichiarazione ultimativa delle volontà ultime del locutore.

    .

    E qui de Palchi pronuncia le sue volontà definitive, si esprime senza curarsi del risponditore, il quale non dovrà fare altro che accettare il legato testamentario di una parola tellurica e tellurizzata da una ferita inferta ab origine. De Palchi ritorna all’engramma, alla ferita primordiale, a quando fu accusato dalla giustizia italiana di omicidio, subendo sei anni di carcere preventivo per poi essere prosciolto per non aver commesso il fatto. Il poeta in questi cinquanta e più anni è rimasto fermo a quella sconvolgente esperienza, a quel trauma. È il ritorno del rimosso che qui ha luogo. Una pulsione desiderante guida il discorso poetico di de Palchi per un riscatto che nessun risarcimento potrà mai acquietare. Un engramma profondo che ritorna alla coscienza e richiede una elaborazione secondaria del rappresentante ideativo. Appunto, è questa la funzione del discorso poetico di de Palchi, il suo essere un sostituto necessitato dell’engramma originario, il travestimento del rappresentante ideativo.

    .

    La declinazione dei verbi al presente di tutta la raccolta poetica depalchiana, riflette questo ritorno dell’engramma, questa modalità di ripresentazione dell’Estraneo in ogni attimo della temporalità.
    E la violenza effrattiva del lessico depalchiano è una spia dell’investimento psichico intervenuto a far luogo da quei lontani anni di ingiusta prigionia. Il soggetto depalchiano è un soggetto scisso, diviso, originariamente appartenente al campo dell’Altro. Proprio perciò il soggetto depalchiano è un soggetto desiderante in quanto «il desiderio è la metonimia della mancanza ad essere».2 Il desiderio, nel suo carattere eccentrico, è l’espressione di questa mancanza-a-essere, di questa negatività che attraversa il soggetto e gli impedisce di essere fondante e fondato. Ritengo questa problematica importante perché getta luce sul modo di procedere della poesia depalchiana e sulla sua natura effrattiva, frizionale, vulcanica. Non pacificata, insomma.
    1 Lacan  Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychalalyse (1964) Seuil, Paris
    2Ibidem
    Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

    Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

    Poesie di Alfredo De Palchi da Nihil (2008–2013)

    Idi di marzo
    dalle fogne con coltelli
    nel grembiule di macellai
    da pugnalare la mia schiena di Giulio
    che da oltreoceano conquisto arte
    e Calpurnia ancora nel mistero della sua casa

    non stringo mani insanguinate per macchiarti appena

    ti raggiungo per rotolare insieme lungo la via
    imperiale di archi musicali

    poi non “si muore”
    perché dalla gola smercio lo sputo definitivo.

    *

    Trema la terra della pagnotta e la mia si scuote
    di bifolchi

    si riconoscono nel sangue barbaro che insozza
    e in chi sciacqua il coltello nell’Adige
    tra la dissoluzione dei ponti l’eroica
    viltà degli sfuggenti dal cranio sfuggente

    prima del vagito segui gli eventi di amata alla deriva
    nella corrente fluviale butti i fiori e struggente
    corri tra la casa e la tomba di giulietta

    le costole diventano pietre di procida
    la volontà della mente frantuma la muraglia
    ed è mediterraneo che diluvia sale

    europa delenda est
    non per tua causa di amata che tra dissidi
    e onori errati eviti l’amato
    invano lo disconosci come aberrazione girovaga
    del tuo longineo corpo tellurico

    delenda est per te oppure
    rinascita après le déluge d’avril nelle Venezie.

    *

    pellerossa quanto la terracotta
    s-centrato dal dottor calligaris

    con olio di serpe unge e avvelena i funghi cosmetici
    che cucini per cibarmi di orizzonti
    a rasoterra dove l’humus cresce di vomiti
    e predatori in camicia bianca
    nell’antico otre di terracotta si raggruma
    acqua piovana polvere del deserto
    semenza arida che svuoti all’alba––
    con mani di penelope
    mi sfili attorno filo di lana per giacere
    nella barca di fiume stretti dalla nostra ombra

    l’onda veloce dopo onda ci srotola
    sulla riva frastagliata due statue d’argilla
    con la conchiglia falsa all’orecchio.

    *

    Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
    di foglie che spiccano voli
    da raffiche di vento sotto alberi
    che passano accanto tra panche deserte . . .
    in simili giorni abito il parco di Union Square dove

    la folla indegna del bel tempo
    mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
    cartocci plastica giornali sputi
    da disgustare i piccioni . . . e canestri vuoti di rifiuti

    a nord sul piedestallo Lincoln
    è il turista slavato che porge
    grani a uccelli invisibili––
    lo ringrazio con un cenno di mano

    a sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
    alla marmaglia nello sguazzo
    strappando le ombrelle––
    lo ringrazio con un cenno di mano

    a est il desolato Lafayette mano destra al cuore
    con la sinistra indica al suolo la saving bank
    di fronte in greek revival fallita––
    lo ringrazio con un cenno di mano

    a ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
    dallo spicchio d’acqua
    “preparati per la scalata”…
    io che capisco se mi interessa di capire mormoro
    “su per il tuo fianco a voragine
    per annunciare il mio discorso dalla montagna”.
    Il lavoro nobilita la belva alla vita
    trascorsa a grattare il salario della paura
    in una giungla di lapidi

    si legge, qui giace dio il mediocre costruttore
    e qui Cleopatra con una serpe in mano––giglio
    offerto a Marcantonio

    più in là giace un raccolto di ossi
    attribuito al farabutto amico François
    accanto a quello di Francesco impazzito di cristo
    e della sua Chiara che per boschi giunge a Todi
    da Jacopone, il più folle

    e laggiù sotto quel rettangolo di letame
    l’altro mio amico Arthur
    giace con un abbraccio di zanne invendute

    amata amica figlia madre sorella
    prontamente perfetta per il mio arrivo
    allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.

     

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    INTERVISTA DIALOGO tra Renato Minore e Orhan Pamuk su l’Oriente e l’Occidente, sul romanzo pubblicato da Einaudi, La stranezza che ho nella testa (2016), “una storia d’amore che si trasforma in commedia degli equivoci” – Riflessioni su Istanbul, la “sua borghesia occidentalizzata” e sul romanzo Museo dell’innocenza con un Commento di Giorgio Linguaglossa

    orahn pamuk 2

    orhan pamuk

    Intervista pubblicata sul mensile “50 e più”/febbraio 2016

    Orhan Pamuk, Premio Nobel nel 2007, il primo vinto da uno scrittore del suo Paese. Ha prevalso la Ragione politica perché il nome e la figura di Pamuk, vessillo di cultura laica e romanziere postmoderno, primo intellettuale del mondo musulmano che ha apertamente condannato la fatwa contro Salman Rusdie, sono spesso diventati un simbolo della difesa dei diritti civili e dei conti con il proprio passato da parte della Turchia, in procinto di entrare nell’Ue.
    Nella motivazione del Nobel si legge che «nell’anima melanconica della sua città Natale, Istanbul, ha scoperto nuovi simboli dello scontro e della interrelazione delle culture». E Orhan Pamuk dice che i suoi romanzi parlano sia dell’Oriente che dell’Occidente per mettere in evidenza le strane armonie e i punti di contatto che esistono tra le due realtà. Sono all’opposto dello scontro di civiltà teorizzato da Hungington. In Istanbul, che è insieme racconto d’infanzia e romanzo di formazione, ritratto di una vocazione e insieme di una città, Pamuk racconta che, durante la sua giovinezza, visse il passaggio da un modo di vita familiare tradizionale a uno stile di vita più vicino all’Occidente. E lo scontro tra vecchio e nuovo, tra progressismo e reazione in un miscela torbida di sentimenti stravolti e bassa sensualità, è al centro del romanzo della sua rivelazione, La casa del silenzio che si svolge dentro e attorno a una vecchia dimora di famiglia, emblematica della Turchia incapace di spezzare i ceppi del passato.

    Orahn Pamuk La stranezza che ho nella testaIn Istanbul lei si è detto convinto che in qualche parte della città ci sia un altro Orhan. Lo ha trovato? Nei suoi romanzi l’identità e il doppio sono sempre presenti…

    «Ho avuto come modelli letterari Calvino e Borges, molto ho imparato da loro. Scrivendo io immagino la mia second life, la seconda vita realistica e non virtuale, però. Penso che si possa fare qualcosa nella nostra vita per cambiare tutto, i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro lavoro. E così ognuno di noi, se vuole, in questo mondo terreno può avere una seconda occasione».

    “Io ho voluto immedesimarmi in quella figura per calarmi in un personaggio veramente povero, vedere Istanbul con gli occhi degli immigrati più derelitti” dice ancora Pamuk. Il romanzo è l’ultimo del sessantatrenne scrittore turco, premio Nobel nel 2007, appena pubblicato in Italia (La stranezza che ho nella testa Einaudi, 570 pagine 22 euro). Il racconto è incentrato su una storia d’amore che si trasforma in commedia degli equivoci. Protagonista è Mevlut Karataþ, ambulante di boza (bevanda turca leggermente alcolica), un lavoratore indefesso e inguaribile ottimista, profondo conoscitore dei vicoli che il romanziere utilizza come pretesto per guidare il lettore nel cuore di Istanbul Nel romanzo, costruito come una ballata popolare a più voci (e per molte voci), nell’altalenarsi delle voci ogni personaggio racconta la propria parte di storia, da comparsa di un grande cast che ruota intorno all’umile venditore di “avventure e sogni” . E sono storie come incalzate da quel fiato di epos picaresco che trascina Pamuk tra storia sociale e memoria personale. Storie che mescolano ogni differenza politica religiosa, sessuale e riflettono, come miniaturizzate, le grandi questioni della Turchia contemporanea, il colpo di Stato dell’80, la guerra tra l’esercito turco e il Pkk, l’ascesa di Erdogan.

    «Narro la vita di un ambulante, un certo Mevlut, che vende boza (una bevanda locale, ndr) il suo ambiente familiare, l’esodo dall’Anatolia ad Istanbul negli anni ’60. E, attorno a lui, tanta gente povera che costruisce casupole abusive, a mani nude, in periferia; proprietari di piccole botteghe. Un’umanità che cerca di sopravvivere alla vita di strada».

    Orahn Pamuk 1

    Orhan Pamuk

    La città si evolve. Anche il protagonista?

    «Mevlut, sì. Il mio problema non era solo di descrivere ogni suo aspetto, ma anche di mostrare che la sua sopravvivenza non è il risultato di un paradosso. Anche nei momenti più bui ci sono forme di ricchezza dell’esistenza come ironia e comicità. Proprio qui si incrociano il lato romantico dell’immaginazione e la scrittura “storica”».

    “Io ho voluto immedesimarmi in quella figura per calarmi in un personaggio veramente povero, vedere Istanbul con gli occhi degli immigrati più derelitti” dice ancora Pamuk.

    Istanbul, dove ha raccontato con immagini e fotografie di famiglia e di luoghi, disegni e riproduzioni di antiche incisioni, i ricordi della sua città.Un’elegia in cui, però, «il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita». Istanbul, dove ha raccontato con immagini e fotografie di famiglia e di luoghi, disegni e riproduzioni di antiche incisioni, i ricordi della sua città . Un’elegia in cui, però, “il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita In Istanbul , che è insieme racconto d’infanzia e romanzo di formazione, ritratto di una vocazione e insieme di u na città, una vera enciclopedia della capitale turca con i suoi palazzi, le sue moschee, le sue piazze, i suoi vicoletti, i suoi caffè,”Non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in terre lontane”.

    Museo

     “Sei anni ha impiegato Pamuk a scrivere il romanzo. E da almeno uno si è gettato anima e corpo nel progetto del museo. Alcuni artigiani hanno riprodotto tutti gli oggetti inventati e presenti nel libro, riconducibili però agli anni Ottanta, epoca in cui si svolge la vicenda, una storia d’amore lunga una vita in cui lo scrittore ha descritto i dettagli, le gioie e le sofferenze dell’amore. Ad esempio i portaceneri con il marchio Sat-sat, l’azienda del protagonista Kemal. O le bottigliette di gazzosa Meltem. O ancora le sigarette appartenute all’amata Fusun con tanto di rossetto sul filtro.

    Museo letterario nel senso che gli oggetti hanno un valore narrativo e affettivo. Biglietti di tram, vecchie foto di famiglia, bambole, vestiti, libri, pettini, orecchini, orologi rotti, scatole di biscotti, ritagli di giornali, scacchiere, sirenghe, cane di porcellana in 83 bacheche come i capitoli del romanzo. Racconta non solo la storia d’amore Fusun e Kemal, il racconto visuale della loro travagliata storia d’amore, ma anche la cultura di un’intera nazione, traendo spunto dagli oggetti. Kemal, per sopravvivere al rimpianto e alla nostalgia, trova consolazione nel raccogliere e collezionare oggetti che lo aiutano a ricordare un tempo inesorabilmente sfuggito e ricostruito nei suoi momenti essenziali.La sua ossessione come quella di Pamuk è «dimenticarsi del tempo», isolare per sempre momenti di felicità rompendo per sempre quell’accumulo di secondi uno sull’altro che è lo scorrere lineare delle ore. Kemal inizia a collezionale oggetti per collezionare curare l’infelicità del suo amore reso impossibile dalle circostanze riproducendo attraverso le cose i momenti di pienezza che ha vissuto.

    Dal Museo una Istanbul vintage che riproduce le scene del romanzo, le cartoline dell’Hotel Hilton, avamposto di lusso nella metropoli, le bottiglie della gazosa Meltem e la pubblicità affidata ad un bionda prosperosa tipo borra peroni, i menu dei ristoranti, le figurine dei calciatori e star del cinema i pacchetti di sigarette di marche.

    C’è soprapposizione della finzione narrativa con la vita e l’esperienza dello scrittore. Il museo è quello di una generazione che nella Istanbul degli Anni Settanta celebra la nostalgia di un’età dell’innocenza attraverso gli oggetti che la rappresentano e in cui si riconoscono. La storia di un mondo. O in altre parole la storia di Istanbul ancora una volta in scena.

    «Scrivere un romanzo a volte comporta di dover ricordare vecchi oggetti o immagini d’altri tempi e rimetterli insieme per costruire qualcosa di nuovo: costruire questo museo mi ha fatto rivivere le stesse sensazioni .Vogliamo parlare della vita odierna di come sono le nostre vite oggi, attraverso gli oggetti del passato. A volte lo viviamo con la consapevolezza che un giorno, nel futuro, ne avremo memoria e allora il nostro senso della storia è simile al sentimento che proviamo visitando i musei. Il nostro museo è costruito su due desideri contraddittori: ricordare la storia degli oggetti e al tempo stesso mostrarne la loro innocenza atemporale.

    “Quando la storia era pronta – continua Pamuk – allora ho cercato le cose. Ma ad esempio non ho mai scritto dei vestiti di Fusun, fino a quando non ho trovato abiti di quegli anni che davvero corrispondessero alla donna amata da Kemal. Quindi prima vedevo gli oggetti, e poi inventavo il capitolo. C’è stata una fase in cui mi sono comportato come un normale narratore che scrive la sua storia. E poi altri momenti in cui pensavo agli oggetti, e li cercavo ovunque per metterli nel libro. E nel museo. È stato un obiettivo doppio che mi sono autoimposto, piuttosto sfibrante”.

    Orahn Pamuk Il Museo dell'innocenzaIl personaggio principale di gran parte della sua fiction più importante è la città di Istanbul. Da questo punto di vista, i suoi romanzi sono continuazioni o integrazioni o confutazioni dei precedenti? In che cosa “La strategia che ho nella testa” continua integra o confuta gli altri?

    “La città della mia infanzia, quella del mio libro di memorie, ‘Istanbul’,era all’insegna della malinconia., dietro le porte chiuse, nella vita di famiglia. Una città in bianco e nero, che si sentiva ai margini dell’Europa, non era ricca. Nel nuovo romanzo la narrazione inizia all’inizio degli anni Settanta e arriva fino ad oggi. Siamo fuori, nella strada insieme a negozianti, affamati, venditori ambulanti, costruttori un po’ loschi”,

    In “Museo dell’innocenza” Istanbul è dalla parte vista dalla borghesia occidentalizzata, moderna, laica, nella” Stranezza che ho nella testa” è vista dalla parte dei ceti popolari, più coinvolti dalle lotte politiche e religiose. La città di Istanbul qui è quella delle classi inferiori, dei lavoratori che fanno ogni sorta di mestiere per sopravvivere, come i venditori ambulanti. E un tema quanto mai attuale considerando la Turchia di oggi. Come le piccole storie diventano la grande storia, le grandi storie di tutti.

    Ci sono modi diversi di raccontare quella storia. Uno è quello di prendere il punto di vista di un intellettuale della borghesia. Io ho tratteggiato i mille dettagli della vita quotidiana da punto di vsta di altre persone, da come vivono nella cucina di casa a come fanno la spesa al mercato, come frequentano la scuola o fanno il servizio militare. Ho cercato insomma la vita quotidiana di un uomo assolutamente comune, un uomo comunque. Ho cercato di descrivere a pieno l’umanità di un personaggio simile,il mio povero Melvut come Tolstoi avrebbe fatto con i suoi aristocratici o Proust per uno dei suoi francesi alto borghesi. Con l’avvertenza che possiamo fare a meno dell’intellettuale che filtra questa realtà. Questa realtà l’abbiamo in presa diretta”.

    Un albero genealogico, un suo disegno di venditore di boza, altri disegni,una cronologia e un indice dei nomi, oltre alla bella fotografia finale di Guler. Oltre il testo nel suo romanzo c’è molto d’altro. Si direbbe che tutto ciò non sia una semplice integrazione visiva, ma che la veste, la cura editoriale fanno parte della storia che racconta, un elemento attraverso cui essa si forma e si consolida.

    “Non occorre che siamo così conservatori da essere attaccati alle tecniche del romanzo ottocentesco. Una vicenda così complessa può essere aiutata da ciò che ci offre la tecnologia, foto disegni e altro. Tutto può aiutare il lettore alfine da darmi emozioni, sentimenti idee sensazioni e il più possibili estese”.

    Orahn Pamuk

    Orahn Pamuk

    Gli emigrati che lei racconta di quegli anni sono comunque diversi dai migranti e dai rifugiati di oggi?

    Mervut viene dall’Anatolia Centrale. Anche se la vita non è stata mai facile, la sua scelta non è però così radicale. Non varca i confini del suo paese, non cambia lingua, non cambia religione. E’ possibile che in quegli anni ce ne siano stati tanti come lui che dalla Turchia sono passati alla Germania. Ho visto di buon occhio da parte della Germania l’annunzio che sarebbe disposta ad accoglierne centinaia di migliaia ogni anno, speriamo che non trattino i turchi come li hanno trattati cinquanta anni fa. Ho visto grandi strette di mano tra gli esponenti della comunità europea e del governo turco. Non vorrei però che si chiedesse alla Turchia di far da filtri per gli indesiderabili mussulmani d’Asia che tentano di passare in Europa. L’Unione Europea deve fare di più per la Turchia: che la rendesse felice, visto che deve pensare al suo ingresso nell’Unione, ma deve essere più attenta a quello che la stessa Turchia combina sul terreno delle liberta democratiche fondamentali.

    Qui, invece, mette in scena tre sorelle, due delle quali sposeranno il protagonista, e le impegna in monologhi molto credibile. Quali difficoltà ha trovato calandosi nel loro punto di vista?

    Nessuna difficoltà, questo è il mio primo romanzo femminista, e non resterà l’unico. Detto da un maschio turco, le suonerà come un ossimoro, e infatti lo dico in modo ironico; tuttavia, mi ritengo molto contento dei risultati. Mi sembra di essere riuscito, infatti, a rappresentare bene la condizione in cui vivono le donne in Turchia, la repressione a cui sono soggette, gli abusi che subiscono, la loro umanità fatta di rabbia espressa in un linguaggio spesso molto affilato, la loro immaginazione, il loro senso dell’umorismo, e in definitiva il loro essere tramiti di un vero pensiero alternativo. In quanto figlio di una madre che aveva una sorella maggiore e una minore, ricordo benissimo le sedute tra queste tre donne, che si raccontavano a vicenda la relazione con i loro mariti, confrontavano le reciproche situazioni familiari, producevano una battuta dopo l’altra, e ridevano davvero molto.

    Mi riferivo al suo ultimo romanzo La stranezza che ho nella testa, una sorta di flashback sui cambiamenti degli ultimi quarant’anni a Istanbul. Che cosa la spinge a scrivere?

    «Da un lato, la forza dell’immaginazione (rapportando futuro e passato, si inventa un altro mondo, uno spazio poetico) e dall’altro, più concretamente, la realtà vista attraverso la sociologia e l’antropologia».

    Dopo il Nobel, a che cosa può aspirare uno scrittore?

    «Devo ultimare una decina di libri già in cantiere, di cui ho pronte tantissime annotazioni, raccolte meticolosamente. In più mi piacerebbe trovare qualcosa che mi permetta di coniugare insieme scrittura e pittura. La tavolozza mi ha attirato sin dall’adolescenza. Lei ha davanti un pittore morto che da qualche anno tenta di risuscitare».

    Questa intervista esce sul magazine del Pen Italia. Che legami ha con lo Stivale?

    «Mi incanta. Visito tutte le Biennali di Venezia. Nel 2009 ho anche insegnato per un mese Letteratura comparata a Ca’ Foscari. Ho ricordi bellissimi. Svegliarmi presto al mattino, prendere la gondola per andare all’ateneo… Ero felice. Anche se i gondolieri erano sempre di umore nero. Mi guardavano storto perché trovavano insufficienti i pochi euro che pagavo per raggiungere la sponda opposta del canale. Prendere il caffè in un bar, prima di entrare all’Università, mi faceva altrettanto felice. Lo storico palazzo di Ca’ Foscari, con i grandi saloni pieni di specchi, Venezia stessa e i miei studenti erano speciali».

    Commento di Giorgio Linguaglossa

    Scrive Orhan Pamuk:

    «il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita». Istanbul, dove ha raccontato con immagini e fotografie di famiglia e di luoghi, disegni e riproduzioni di antiche incisioni, i ricordi della sua città . Un’elegia in cui, però, “il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita In Istanbul , che è insieme racconto d’infanzia e romanzo di formazione, ritratto di una vocazione e insieme di una città».

    E ancora:

    «Scrivere un romanzo a volte comporta di dover ricordare vecchi oggetti o immagini d’altri tempi e rimetterli insieme per costruire qualcosa di nuovo: costruire questo museo mi ha fatto rivivere le stesse sensazioni .Vogliamo parlare della vita odierna di come sono le nostre vite oggi, attraverso gli oggetti del passato. A volte lo viviamo con la consapevolezza che un giorno, nel futuro, ne avremo memoria e allora il nostro senso della storia è simile al sentimento che proviamo visitando i musei. Il nostro museo è costruito su due desideri contraddittori: ricordare la storia degli oggetti e al tempo stesso mostrarne la loro innocenza atemporale.

    “Quando la storia era pronta – continua Pamuk – allora ho cercato le cose. Ma ad esempio non ho mai scritto dei vestiti di Fusun, fino a quando non ho trovato abiti di quegli anni che davvero corrispondessero alla donna amata da Kemal. Quindi prima vedevo gli oggetti, e poi inventavo il capitolo. C’è stata una fase in cui mi sono comportato come un normale narratore che scrive la sua storia. E poi altri momenti in cui pensavo agli oggetti, e li cercavo ovunque per metterli nel libro. E nel museo. È stato un obiettivo doppio che mi sono autoimposto, piuttosto sfibrante”.

    Ripenso a libri fondamentali come “Altre foto per album” di Giorgia Stecher (1996). Anche in questo libro sono venuti prima gli oggetti (delle vecchie fotografie di famiglia) e poi le poesie. Ripenso anche ad una mia poesia: “Tre fotogrammi dentro la cornice” in cui i protagonisti sono gli oggetti, quelli ritrovati e quelli ricordati, oltre a vecchie fotografie dei miei genitori giovani nell’Italia del dopoguerra.

    Ripenso a certe poesie di Steven Grieco dove lui sembra parlare d’altro, ma in realtà parla con l’Altro, ma in codice, in una sua personalissima lingua, parla con sua moglie e sua figlia, con le immagini filtrate attraverso la sua memoria e con l’aiuto di fotografie. Parla perché vorrebbe modificare il destino. assurdo. Ma, si sa che la poesia segue una sua logica assurda, un pensiero assurdo. La poesia pensa l’impensato.

    Quando parlavo dell’importanza degli oggetti perduti e poi ritrovati (citando, in un altro post, i romanzi di Salman Rushdie) volevo alludere proprio a questo, che la letteratura parte sempre da oggetti fisici, che sono realmente esistiti, e poi va verso l’etere… Gli oggetti sono i frammenti della nostra esistenza che si è nel frattempo frammentata… e sarebbe inutile voler ricostruire l’oggetto infranto. Noi possiamo soltanto immaginare l’oggetto infranto.

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    Renato Minore, foto Dino Ignani

    Renato Minore (Chieti, 7 settembre 1944), risiede da oltre trent’anni a Roma. Si è laureato in lettere moderne con Natalino Sapegno e si è specializzato in filoologia moderna. Giornalista professionista dal 1971 presso i servizi giornalistici della RAI, attualmente è il critico letterario de “Il Messaggero”. Ha insegnato Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università di Roma.
    Come narratore ha pubblicato i romanzi Rimbaud (Mondadori), Il dominio del cuore (Mondadori), Leopardi, l’infanzia le città gli amori (Bompiani). Come poeta ha pubblicato: La piuma e la biglia (Almanacco Lo specchio Mondadori), Non ne so più di prima (Edizione del Leone) Le bugie dei poeti (Scheiwiller), Nella notte impenetrabile (Passigli), I profitti del cuore (Scheiwiller). I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha scritto per settimanali come “Il Mondo”, quotidiani come “la Repubblica”, riviste culturali come “Paragone”.
    La sua attività critica è raccolta nei volumi: Giovanni Boine (La Nuova Italia, 1975), Intellettuali mass media società (Bulzoni 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco 1986), Dopo Montale Incontri con i poeti italiani (Zerintya 1993), Poeti al telefono (Cosmopoli 1994), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1995), I moralismi del Novecento (Poligrafico dello Stato 1997) e le serie: Sul telefonino: Il tam tam del terzo millennio (Cosmopoli 1996), Il mondo mobile (Cosmopoli 1997), La piazza universale (1998). Sul divismo: Fragili e immortali, Il divismo all’origine (Cosmopoli 1997), Lo schermo impuro: Il divismo tra cinema e società (Cosmopoli 1998), Il pianeta delle illusioni: Il divismo negli anni Sessanta (Cosmopoli 1999) Eroi virtuali: Il divismo Campiello, l’Estense, il Buzzati, il Flaiano, il Capri, il Città di Modena per la critica.
    Alle soglie del duemila (Cosmopoli 1999). Sulla comunicazione: Futuro virtuale (Cosmopoli 1995), Rotte virtuali (Cosmopoli 1996), Rotte convergenti (1997), L’italiano degli altri (Newton Compton 2010).
     

     

     

     

     

     

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    Rossella Cerniglia QUATTRO POESIE da   Sehnsucht   (1995) – Una Riflessione sulla funzione e sul valore della Poesia e una Intervista a cura di Giorgio Linguaglossa. La poesia come  rifondazione e ricreazione di una comunità linguistica; La poesia è magia che si è liberata della necessità di essere menzogna; Ritorno alla poesia lirica; L’arché; La poesia nel mondo super tecnologico

    foto Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection

    Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection

    Rossella Cerniglia è nata a Palermo il 14 ottobre 1949, dove vive. Laureata in Filosofia è stata a lungo docente di materia letterarie nei Licei della stessa città. La sua attività letteraria ha inizio con la pubblicazione di Allusioni del Tempo, ed. ASLA – Palermo 1980; seguono Io sono il Negativo (ed. Circolo Pitrè – Palermo 1983; Ypokeimenon, ed. La Centona – Palermo 1991; Oscuro viaggio, ed. Forum/Quinta Generazione – Forlì 1992; Fragmenta, Edizioni del Leone – Venezia 1994; Sehnsucht, ed. Bastogi – Foggia 1995; Il Canto della Notte, ed. Bastogi – Foggia 1997; D’Amore e morte, stampato a Palermo nell’anno 2000;L’inarrivabile meta, ed. Ila Palma – Palermo 2002; Tra luce ed ombra il canto si dispiega (antologia e studio critico comprendente anche i testi di altri quattro autori palermitani, a cura da Ester Monachino), ed. Ila Palma – Palermo 2002;Mentre cadeva il giorno, ed. Piero Manni – Lecce 2003; Aporia (, ed. Piero Manni – Lecce 2006; Penelope e altre poesie, ed. Campanotto – Pasian di Prato 2009. In ultimo, nel giugno del 2013, per l’Editore Guido Miano di Milano, ha pubblicato un’Antologia che propone un breve saggio delle prime dodici sillogi poetiche, con disamina di Enzo Concardi.  Altre opere sono in attesa di pubblicazione. Nel 1999 ha, altresì, pubblicato il romanzo Edonè…edonè. Nel 2007, ancora per l’editore Piero Manni di Lecce, viene stampato il suo secondo romanzo dal titolo Adolescenza infinita e infine, per l’Editore Aletti di Villalba di Guidonia, il libro di racconti Il tessuto dell’anima. È presente con alcune poesie nella Antologia Il rumore delle Parole a cura di Giorgio Linguaglossa EdiLet, Roma, 2015. Collabora ad alcune riviste ed ha ricevuto favorevoli riconoscimenti e attestazioni da parte di numerosi critici e letterati. Suoi versi e profili critici sono presenti in antologie e riviste letterarie, tra cui L’Altro Novecento (vol. II e III) a cura di Vittoriano Esposito edito da Bastogi, 1997; nella rivista Poesia dell’editore Crocetti di Milano; in Poeti scelti per il terzo millennio (2008), inStoria della Letteratura italiana (vol. IV,  (2009)  e in Poeti italiani scelti di livello europeo ( 2012), dell’Editore Guido Miano di Milano.

    arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

    isola dei morti Arnold Böcklin Toteninsel (versione originale)

    Rossella Cerniglia da Sehnsucht – 1995 –

    L’ISOLA

    Nel lontano meriggio, l’ansia d’imbarco rotta,
    furono tutti al ponte a salutare. Furono una cosa
    il gesto e il cuore, e le mani ed i visi e i palpitanti addii,
    fluttuarono entro il sogno, brevemente.

    Qui lo sguardo non vide che un tormento interiore:
    cosa, il destino, se non la fedeltà agli eventi?

    Poi si disciolsero i nitidi profili, il mare fu
    un azzurro trepidante, gonfio d’angoscia tersa,
    le fronde, unico verde in lontananza,
    incupirono i pensieri, e tra la solitudine marina,
    lungi dal dileguarsi, recò l’affanno incerto smarrimento
    come anima che, libera dal corpo, senta la nudità
    tremante e sola.

    Questo mio corpo è l’Isola, pensò il navigatore, mia prigione
    per questo con ansia e con dolore mi diparto. Quanto seminai
    e produssi entro gli angusti limiti, ivi ha cuore e sostanza:
    questa è la vita, la terrena vita che ci diede il destino,
    è questa fedeltà ch’io pago con dolore, nel rimanere io stesso,
    nel non volere che il dolore da cui fuggo. Così, pare,
    decisero gli dei; così, da sempre, chi degli uomini tesse le vicende,
    i corpi legò alla terra da cui nacquero, d’un desiderio
    oscuro fornì l’esule, per cui sentì il richiamo del grembo
    da cui venne, e in cui, giacendo, altre vite saranno a germogliare.

    Ma cosa, allora, porta fuori di me quest’ansietà di vita,
    dove il desiderio corre lontano dalla fonte e perché, in eterno,
    la contraddizione mi dilania? Quand’ero la mia Isola
    ero solo e negato all’esistente, ma a volte, anch’io sentii
    d’essere goccia dell’immenso fiume o lacrima assorta
    nel torpore di ghiaccio d’un mattino.
    Mi feriva il mio essere-me, soprattutto ciò ch’era più mio:
    gli aranceti dorati nel mio sole, la campagna aperta
    e sospirante e i teneri ronzii d’un mondo infimo
    che nessuno ode, distratto, per avere quel mondo cancellato
    e che talvolta alla memoria irrompe con accenti d’una vita pura.

    Quest’ansietà di crescere, che il figlio separò dalla madre,
    con uguale dolore mi rapisce all’Isola, mia condanna,
    ma nel distacco puro, vedo crescere solo il peso inesorabile,
    poiché questo è destino d’ogni umano: che varchi il suo confine
    e a sé ritorni. Così colui di cui bene sappiamo il navigare
    non visse un tempo solo: sempre un Ulisse fu ov’è un porto
    e un’Isola che attende; un porto, una promessa
    o un dolore, da cui fuggiva nel lontano giorno.

    .
    OMBRE NELLA CATTEDRALE

    Era nella città la calda luce afosa
    dell’agosto. Dopo la breve sosta nelle piazze
    stanco del lungo andare, il pellegrino,
    venuto da un angolo di mondo ad ammirare
    remoti fasti delle età sublimi
    -stretti tra le facciate medievali
    vicoli grevi d’ombra e d’abbandono-
    fuga cerca e riparo alla calura
    e nei santuari colmi d’oscura quiete
    muove gli stanchi passi, tra le navate alte
    sino al sacrario d’un altare dove, al colmo,
    oscilla la pura fiamma silenziosa.

    Siede nel Tempio. Ascolta. Il silenzio grava
    dalle oscure volte, sbiadendo come ricordo passeggero,
    vano, la vita di fuori troppo umana
    e il divenire che urge nella fretta che ogni cosa
    assale e le coscienze adesca con amo menzognero.

    È tempo di pregare. Da un oscuro groviglio, liberata,
    una preghiera lentamente sale, non voluta,
    come il naufrago, tolto agli impedimenti
    del fondo, emerge fino all’onda e al turbinio
    azzurro del cielo.

    Sulle crociere e sugli intrecci delle navate
    alte, la quiete obliosa rende una volta
    umano, comprensibile, il Mistero
    celato nella fiammella tremula
    che agita le ombre, e l’abside
    come cuore nel petto custodisce.

    Scivola, come unguento, a lenire le ferite
    una pace che asserena e l’anima trae conforto
    nel sentire che Altro c’è ed Eterno, oltre il bene
    finito che non dura, benché con ansia il vivente
    non cessi d’inseguirlo.

    Domani, la radiosa certezza del giorno
    farà di te ancora un altro uomo: come sogno
    ricorderai che la pace, oggi, ha carezzato la tua anima
    come fa la brezza lieve con gli ulivi.
    foto donna con ventaglio

    NARCISO

    La fonte era, tra canne, un muto specchio.
    Venne il pastore e alla muta acqua
    abbeverò il suo gregge.

    Ma nel riflesso sognò un’essenza nuova:
    d’esser di Cizio, magnifico straniero,
    di ricca veste adorno e nobile d’animo e di mente;
    così vagheggiò l’altro se stesso.

    Il pastore “Narciso” era chiamato.

    E lo straniero? Vedesti un giorno, o Narciso,
    lo straniero? Era il divino Adone, di regali vesti
    adorno, che lo sguardo infino al tuo sospinse un giorno,
    quegli che altri dissero che tu eri, tanto la somiglianza
    s’era fatta carne?
    Ma duro come la roccia da penetrare è l’intendimento dell’altro.

    Narciso! È il tuo specchio! Non vedi
    con che occhi ti guarda, come della veste
    apre le pieghe e con mano tremante
    sfiora le tue costole, tra le sue dita non senti
    un corpo fatto aria?

    Narciso, l’anima vuole!

    .
    PER UNA VOLTA…

    Come aprire vorrei le vesti
    che ti infiorano, racconto inenarrato,
    e incerto e casto per pudore
    trovarti corpo che non si dona, ovunque amato,
    per una volta…
    parola violentata nell’arcano
    corpo sorpreso nel torpore
    apre le braccia amanti
    a lunga sete.

    Rossella Cerniglia volto

    Rossella Cerniglia

    INTERVISTA a Rossella Cerniglia a cura di Giorgio Linguaglossa

    Domanda:  Assodato il  carattere e il valore polisemico della lingua e della parola poetica, o meglio, del Discorso poetico, è lecito, secondo te, interpretare la poesia di un autore come atto di rifondazione e ricreazione di una comunità linguistica?

    Risposta: È  ormai universalmente accettato che il soggettivo entri nell’interpretazione della parola poetica. Chi legge e interpreta, in realtà, rifà a suo modo l’opera, la ricrea secondo le categorie della sua soggettività, la quale sempre emerge in qualsivoglia approccio  conoscitivo. Ma da ciò, tuttavia, non deriva che tale intromissione sia un diritto istituzionalizzato, quanto piuttosto il limite che contrassegna la monadicità di una condizione.

       In essa si esprime l’assoluta identità del soggetto con se stesso e l’assoluta impenetrabilità della prospettiva interiore  sacralizzata attraverso la parola.    La parola è, infatti, ciò che appartiene all’haecceitas, all’assoluta soggettività, dal momento che  non ci riferiamo qui alla parola quotidiana, ma a quella poetica.

       Nel microcosmo umano si ripropone, pertanto, l’assoluta unicità di Dio: esso è altrettanto irraggiungibile quanto il macrocosmo divino. E allo stesso modo che l’unità divina risulta solamente avvicinabile per gradi, così l’unità monadica, l’haecceitas umana, è accostabile più o meno intimamente, mai prendibile.

       Ogni arbitraria intromissione è una violazione. La creazione poetica, o più genericamente artistica, corrisponde, infatti, all’atto divino che crea il mondo, la realtà che oltrepassa il suo Sé.

       L’uomo che riceve il mondo da Dio, deve mostrare fedeltà alle Sue leggi, non stravolgerle a suo arbitrio. Allo stesso modo, un’interpretazione che neghi il valore intrinseco all’opera d’arte,  alla sua inarrivabile haecceitas, sostituendole qualcos’altro ad arbitrio, è bestemmia e trasgressione.

       Dio non ha imposto le sue leggi perché fossero fatte a brandelli, interpretate secondo i nostri fini, non ci ha consegnato un mondo perché lo distruggessimo, seguendo distorti intenti, ma per rispettarlo e custodirlo, per conoscerlo ed amarlo, poiché in esso si dispiega e si esprime la Sua essenza: allo stesso modo è da considerare il prodotto dell’artista.

    Domanda: Secondo te, qual è l’input della creatività artistica?

    Risposta  Il tendere a Dio è, sostanzialmente, l’input di ogni creatività artistica e, per certi versi, anche di ogni creatività umana. Nella creazione l’uomo  –  come Dio  –  mette al mondo se stesso, ripete l’atto di Dio che estrapola da sé il suo Sé, ed esso diventa la Realtà, l’altro da sé rispetto all’Origine. 

       L’opera d’arte è la creazione di un mondo assolutamente individuale, l’estrapolazione di un sé, che senza quest’atto sarebbe stato “nullo”.

       Come Dio crea una Materia che racchiude uno Spirito che-ha-da-venir-fuori, così l’artista mette al mondo, non certo il suo corpo, ma il suo spirito, la sua anima, che rimarrebbe nascosta, e come inesistente, senza quest’atto. E quest’atto è , paradossalmente, ciò che traduce lo spirito in materia, in prodotto fenomenico, reale (il prodotto artistico). Indica, cioè, uno scadimento dell’originario sé, così come la dimensione del reale, che si genera dall’Origine, rappresenta uno scadimento in confronto all’assoluta purezza ed unicità di Dio.

       Ma, come dicevo, la creazione è in ogni uomo; ogni uomo ha in sé una capacità creativa che mette in atto in vari gradi e misure. L’opera d’arte  –  che può, a sua volta, essere scandita in gradazioni  –  è solo la più essenziale messa al mondo di noi stessi, la più autentica forma di noi proiettata di fuori.

    Perciò, interpretare soggettivamente il prodotto artistico è inevitabile, ma non auspicabile. Perché sia possibile una più giusta interpretazione occorre  una conoscenza dell’altro il più possibile profonda ed estesa perché rispettare l’opera della creazione è essenziale.

    Se l’elemento soggettivo di chi interpreta entra nell’interpretazione, si crea un’ interferenza che è contaminazione, e questo rappresenta piuttosto un limite a tale penetrazione che è simile, per la sua irraggiungibilità, a quella della Monade-Dio.

     foto volto con gattoDomanda: Allora, come è possibile, secondo te, pervenire ad una conoscenza delle ragioni e delle verità costitutive della poesia di un autore? In altri termini, come è possibile interpretare in  maniera attendibile un testo di poesia?

    Risposta: Lo sforzo deve essere concepito come tentativo di  avvicinamento, mai concluso, alla  realtà  più intima e più vera dell’altro, paragonabile a quello per cui attraverso la conoscenza più autentica e profonda della realtà cerchiamo «Dio».

    Domanda: Adorno scrive che «La poesia è magia che si è liberata della necessità di essere menzogna». Detto da un filosofo marxista, ha veramente un sapore paradossale. Della poesia in generale, della sua essenza e scaturigine, e  del valore da assegnare ad essa che cosa mi dici? 

    Risposta: Si è sempre discusso intorno ad una possibile definizione della poesia, sulla sua scaturigine e sul valore da assegnare ad essa. Ma è difficile trovare risposte soddisfacenti a tali quesiti. D’altra parte, la conoscenza scientifica, che così grandi passi ha compiuto negli ultimi due secoli, sembrerebbe, per la sua stessa forza, oscurare ogni altra forma di conoscenza. La scienza produce progresso, teoria e tecnologia sono ormai indissolubilmente legate, comprendono e modificano la realtà che ci circonda. E il concetto di conoscenza è, sempre più legato a quello di utilità, ne costituisce il fine irrinunciabile da cui  il concetto di poesia rimane tagliato fuori.

     Domanda: Che  cosa fare,  allora,  della  poesia?   Non   finirà   con   l’essere  bandita   da   questo   mondo super tecnologico?

    Risposta: In fondo credo che, come la scienza ha un suo specifico approccio al mondo, suoi codici, suoi principi da applicare, così è per la poesia. Entrambe mirano allo stesso scopo: la conoscenza della realtà, una conoscenza che dia risposte a tutti i perché dell’uomo. Ma se unico è lo scopo, diverso è l’approccio, diversi gli strumenti adoperati. Esse leggono i diversi volti del reale che si fondono in unità. La scienza ne esplora vari settori con una ragione più asettica, mondata, il più possibile, della soggettività, col rigore che astrae dalla materia solo le forme essenziali, le strutture quantificabili e misurabili. Ma una ragione siffatta, nel suo astratto rigore, nella sua schematicità è uno strumento freddo, in grado di guardare solo alla superficie delle cose.                          

    foto volto con berretto rossoDomanda: In che consiste, allora, il più specifico compito che vuole assumersi la poesia?  

     Risposta:   La poesia, al contrario, vuole andare al cuore della realtà, nell’anima delle cose, vuole sondarne le zone d’ombra, il mistero che il mondo racchiude nelle sue profondità, l’intima essenza dell’esistente, il suo fondamento e il suo senso più proprio. Forse è un tentativo: l’anima dell’uomo che avvicina l’anima del mondo e viceversa; e in questo tentativo vi è corrispondenza, vi è analogia, e da qui scaturisce quel senso panico che è la comunione col Tutto. In questo tentativo la ragione non ci appare disumanata, semplice struttura mentale invariabilmente presente in tutti gli uomini, ma fusione di individualità ed universalità, ragione che si colora del nostro sentire e della nostra anima.

    Così, vari sono i modi di approccio e di comprensione del mondo che si integrano e si completano a vicenda per adempiere ad un unico scopo.

    In questa assimilazione dei due poli della conoscenza in cui soggetto e oggetto divengono uno, la poesia attua quella sintesi che pone il microcosmo umano in stretta relazione col macrocosmo divino.

    Domanda:  Ai nostri giorni sembra sempre più difficile credere alle possibilità di un ritorno alla poesia lirica. Che cosa ne pensi?

    Risposta:   In relazione a un concetto di poesia che mi appartiene – nel senso che tale elaborazione è andata maturando attraverso riflessioni ed esperienze di vita, ritengo di poter affermare che la poesia, soprattutto la poesia lirica, nasce da un’insoddisfazione di fondo, dall’angoscia che ci deriva da un senso di mancanza, di incompletezza, di castrazione dell’anima che sente forte questo bisogno di espandersi sino ad essere tutto (quello che, altrove, ho chiamato sentimento teocratico della coscienza). Uno degli aspetti essenziali dell’essere dell’uomo è, – secondo quanto sta sotto i nostri occhi, ma anche secondo quanto Schopenhauer ha teorizzato – la volizione. Ogni progresso ed ogni conquista umana sono affidati ad essa: alla ineluttabilità del volere. L’uomo tende sempre a ciò che gli manca, e quando lo consegue c’è sempre qualcos’altro che gli manca. L’uomo manca sempre di qualcosa proprio perché essere limitato e imperfetto e, pertanto, è necessitato a desiderare sempre.

     Solo Dio, in quanto Illimitato, Infinito, Perfetto, Eterno, non tende a niente, Egli è il «motore immobile» secondo la definizione aristotelica. Questo continuo tendere dell’uomo a qualcosa che sempre gli manca, questo bisogno di dilatazione dello spirito sino all’assolutezza, al già accennato sentimento teocratico della coscienza, che è il volere per sé la stessa divinità di Dio, è indice di questa mancanza radicale, di questa lontananza e irraggiungibilità che è la trascendenza di Dio, Trascendenza che è il fine ultimo di ogni desiderare e di ogni divenire, fine che l’uomo -consapevolmente o inconsapevolmente- insegue, ma che vive, innanzitutto, come Abbandono.  Abbandono a vivere una vita priva di senso, poiché solo Dio potrebbe giustificare e dar senso all’esistenza, Dio che ne rappresenta il fondamento e il principio, la scaturigine di tutte le cose. Tale conoscenza, tuttavia, non appartiene agli uomini di questa terra, così Dio rimane sempre incomprensibile, al di là dell’orizzonte mondano, infinitamente remoto rispetto alla realtà del nostro mondo e della nostra esistenza. Ma pure in tale impossibilità di prensione del trascendente, l’uomo -e in lui anche la poesia- non smetteranno mai di cercare, tra le pieghe del Mistero, tra le ombre di un mondo che non fornisce sufficienti risposte ai nostri perché, quella Luce che è la stessa Verità di Dio.           

     Naturalmente tale ricerca si pone in termini problematici, dal momento che ciò che è limitato (l’uomo) non potrà mai comprendere l’illimitato (Dio), quanto meno all’interno di quella struttura che chiamiamo “esistenza”. Ma l’esigenza rimane, pur in questa consapevolezza, pertanto l’uomo non smetterà mai di cercare, attraverso contraddizioni, incertezze, illusioni, qualcosa che riesca a fondare e a dare significato alla sua vita. La conclusione è chiara: la vita non è che questa costante ricerca, che ha svariate forme, è viaggio, è progetto, è cammino, è un mare in tempesta nel quale annaspiamo, è conoscenza e progresso, nel quale forze opposte sembrano scontrarsi, è oscurità nella quale traluce il mistero di Dio, e di tale crogiolo incandescente la Poesia offre ampia e, spesso, alta testimonianza.

    Domanda: Che cosa intendi con la parola “Dio”?

    Risposta:  Per Dio intendo l’origine e il fondamento di tutte le cose, quello che i presocratici definivano Arché, vale a dire ciò che si colloca al di là dell’orizzonte umano e lo sovrasta. La struttura della nostra esistenza ha per essenza il limite, nella realtà tutto diviene proprio perché è limitato, condizionato, tutto è incanalato entro coordinate dalle quali, per nostra sola forza, non possiamo uscire. Ma questo ci comunica anche quella volontà di rottura di questi vincoli -che è costitutiva della nostra stessa struttura esistenziale come volizione – contro la sovrastruttura di una gabbia (l’esistenza) che non ci consente più il ricongiungimento col divino. Ma L’uomo, forse perché programmato anche a questo, ha in sé l’aspirazione irriducibile a scardinare questo limite e queste barriere a ricongiungersi a quella Patria lontana che è la stessa pienezza e infinità dello Spirito (Dio). Conosco due vie, che, pur all’interno di questa ferrea struttura che è l’esistenza, aprono uno spiraglio sul Sovramondo: L’Amore e la Poesia.

     

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    MARCO AMENDOLARA  (1968-2008)  POESIE SCELTE – La salvezza infinita delle parole – Scrittura e destino nell’opera poetica di Marco Amendolara  con un Commento di Mario Fresa

    città in bianco e nero

    città di sera

     Marco Amendolara nasce a Salerno il 17 ottobre 1968. Poeta, critico letterario e d’arte, traduttore di poesia latina. Laureato in Filosofia e in Lettere moderne, ha svolto un’intensa attività pubblicistica, collaborando a vari periodici e quotidiani, tra i quali Il Mattino, Il Giornale d’Italia, Caffè Michelangiolo e L’area di Broca. Tra i suoi libri di poesia: Rimmel, Extravagantes, Ravello 1986 (queste prime due opere come Omar Dalmjrò); Misteri di Seymour, Altri Termini, Napoli 1989; Fogli selvatici, con Ugo Marano, La Fabbrica Felice 1993; Stelle e devianze, La Fabbrica Felice 1993; Epigrammi, Nuova Frontiera, Salerno 2006; La passione prima del gelo (auto-antologia di poesie e traduzioni, Ripostes e Marocchino blu 2007); L’amore alle porte, Plectica & Bishop, Salerno-Giffoni Sei Casali 2007; La bevanda di Mitridate, Marocchino Blu 2008. Muore di sua volontà, a Salerno, il 16 luglio 2008.

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    Commento di Mario Fresa

    Marco Amendolara ha vissuto come uno straordinario viandante della parola: poeta tragico e adamantino, saggista di rara e luminosa intelligenza, frequentò la scrittura con un’anarchica e selvaggia inquietudine, impaziente e poliedrica, remota le mille miglia da ogni accademismo cattedratico. Poeta, innanzi tutto, abbiamo detto: silenzioso e lontanissimo, certo, dai luoghi delle vetrine dei reading e dei festival e, in generale, dalle cabale dei poeti laureati; studioso puntuale e brillante, fu più volte rifiutato dall’ambiente universitario, le cui arroganti e mafiose combriccole gli negarono l’accesso come docente, preferendogli patentati somari, immersi in un’ignoranza e in un cretinismo inenarrabili. Marco si offriva agli altri col dono di una tenerezza senza pari: sembrava, nella sua chiara trasparenza di uomo indifeso e generoso, una magica creatura precipitata suo malgrado, e per isbaglio, in una terra estranea, sorda e inospitale. La sua disarmante impreparazione alla pesantezza della vita comune lo aveva spinto sempre di più a rifugiarsi nelle fantasime dolci della scrittura.

    Persisteva, certo, in lui, un’amarezza profondissima, ogni volta che registrava la meschina disattenzione che la sua città (dico le sue istituzioni “culturali”: in primis l’ateneo, e poi le varie fondazioncine, le case e casupole della poesia, le gazzette locali, eccetera eccetera) sprezzantemente gli mostrava; disattenzione che oggi si è tramutata, com’era prevedibile, in tardiva e ipocrita glorificazione. Dopo l’esordio poetico assai precoce, Amendolara pubblica pochi versi; ma legge molta, moltissima poesia, soprattutto novecentesca, e la analizza con un acume critico eccezionale.

    Marco-Amendolara-visto-da-Anna-De-Rosa 2004

    Marco-Amendolara-visto-da-Anna-De-Rosa 2004

    Nel 2005 stampa – quasi timidamente, presso un editore semiclandestino – un volumetto di testi intelligentemente concisi e affilati, dal titolo Epigrammi. C’è una durezza acuminata e ferma che si esprime nella forza implosiva di questi versi; da essi emerge, incontrastabile, la visione della ostinata crudeltà di un mondo che, insensibile e inerte, non vuole e non sa rispondere al disperato richiamo di ascolto del poeta. Il tempo e la sua vanitas, il suo discendere nell’abisso interminabile della nullificazione, e il folle desiderio di essere, una volta per tutte, fuori dalla ragna imprigionante del tempo stesso, costituiscono i temi e i motivi costanti della breve e intensissima silloge: «lo specchio diventa vecchio, / riflettendo una gioventù enigmatica, / mentre gli altri / si affannano a contare / le tue primavere»; ma vi è pure ritratta, con una impagabile ironia, la patetica schiera dei piccoli finti intellettuali, indefessi carrieristi e galoppini, affatto privi di ritegno, che Amendolara ben conosceva e derideva. Altri versi, invece, tolta la maschera dolce e amara del sarcasmo e dell’ ironia, si aprono sulla pagina come improvvise esplosioni di un’estenuata dolenza: e suonano come un’acuta condanna, irredimibile e totale: «quando vedrai il corpo / da una parte e la mente dall’altra, / il sangue sarà uscito assolutamente, / rimarrà solo uno spettro, / saprai che non c’entravi niente, / che la questione era tutta interiore, / e mi perdonerai.»  

    In questi Epigrammi sono incise parole violentissime, che nella quotidiana gratuità del comune linguaggio accomodante noi spesso dimentichiamo e non vogliamo pronunciare: e cioè «sangue, «svanire», «scomparire», «nulla», «freddo», «crudeltà». Leggerle, intenderle, viverle profondamente significa disperare, schiantarsi, rovinare. La mattina di mercoledì 16 luglio del 2008, Marco continua a chiedere a se stesso dove andare, e in nome di quale amore sia giusto continuare a illudersi della felicità dell’esistenza. In un attimo si abbandona, con una dolce violenza, e apprende a essere nomade e nessuno, per sempre.Sceglie la morte e cancella, in un istante, le larve speciose dei suoi sogni.Lascia inedita una raccolta, Il corpo e l’orto, che i familiari danno alle stampe nel 2014 presso La Vita Felice (la pubblicazione è inficiata, però, da una brutta postfazione di Renzo Paris, assai modesta sul piano critico e scioccamente autoreferenziale). In questo nuovo libro estremo, il soggetto retrocede e si annulla, offrendosi in sacrificio alla crudele rilevanza di una realtà impenetrabile e bruta, e ingaggia un’insostenibile lotta a corpo a corpo con la propria identità e con il mondo che lo circonda e che lo assedia. Amendolara registra: «Coincidi veramente con il tuo corpo, / o sei altro, sei in altro, / e non lo sai?». È la scrittura stessa a diventare immagine di un’alterità che scompone e sconvolge l’identità e il soggetto. La natura immensa precipita nell’infinitesimale spazio del singolo io. Il corpo diventa l’orto che l’ospita, che senza sosta alcuna concima se stesso, e che infine lo consuma.

    È un io ch’è pronto ad accogliere, fin dalla nascita, il gelo finale di un desiderato inabissamento, di un freddo eterno e inconsumabile che insidia già «tessuti, giunture, l’intera presenza / umana» e che poi consegna il corpo, misero specchio di crudeli lusinghe, alla pace del «sonno» o dell’«ascensione», facendogli assumere «una dignità oggettiva, /intoccabile, quasi un esempio / di body-art, senza piacere di finzioni». L’esercizio della graduale destituzione di sé, vera meta della scrittura poetica, appare dunque, ora, compiuto. Quando il poeta s’identifica con il suo corpo, smarrendosi in esso, giunge a coincidere, e a confondersi, con il nulla: istante miracoloso, questo, nel quale si discioglie, fino a sparire, l’«ombra delittuosa» che da sempre, con dolore, lo insegue e l’imprigiona.

    Bello Giacomo Costa città immaginaria

    Giacomo Costa, città immaginaria

    Poesie scelte di Marco Amendolara

    Un’orrenda pioggia di isotopi
    Colpisce violenta i giardini
    e gli orti.
    Nell’ombra avvengono mutazioni:
    la natura si apre come
    un fiore velenoso,
    colori venèfici si spargono
    in ogni dove; noi stessi,
    ormai entità prenatali,
    ridotti a oggetti mostruosi,
    perduta anche la paura…
    *

    Il pozzo, un antispecchio
    che non vuole conoscere
    il tuo volto.
    Almeno, non quei lineamenti
    che tu aspetti riflessi.
    Come quando la terra
    viene scavata, mai guardare
    dentro, troppo tardi
    uno si ritrae.

    *

    Quando non hai corpo ti conosci meglio,
    scorre e dice l’acqua
    mentre si specchia in te;
    quando non sei corpo
    susciti ogni meraviglia
    e, meravigliato, sei sbigottito
    della conquista.
    La natura ti annulla, è niente,
    e tu sei natura.

    *

    Dietro il giardino, lì
    Non ci vedono.
    Mi fai mancare il respiro;
    non è una colpa,
    vorrei che accadesse anche a te, ma dolcemente,
    non come un’asma che spaventa.
    E intravedi, dalle pozzanghere,
    un’immagine accesa
    che appartiene a chi ti parla.
    Prima il volto era bruno o grigio;
    adesso tu hai colorato di rosso
    gentile, innocente,
    le vie del corpo
    e sento cambiare di me le tinte.
    Con lui, con altri lui,
    compivi una simile magia?
    (Allontana ogni voce,
    con tenerezza impedisci la bocca…)

    *

    Vorresti abbandonare il corpo
    rimanendo in vita, adesso che fiamme
    maestose, misteriose insidiano
    ogni capillare, ganglio, fibra
    e consumato il senso della gioventù
    avanza inequivocabile, odiata e necessaria,
    la maturità.

    *

    Tutto questo freddo da quando
    sei nato; forse è la fine
    che viene a liberarti, si spera
    nel segno della salvezza.
    Per il resto, conviene fingere
    ogni smargiassata, adottare
    comportamenti da gaglioffo,
    per illudersi che questa misera
    presenza non scompaia del tutto.

    Marco Amendolara

    Marco Amendolara

    Il gatto, astratto nel paesaggio lunare;
    solo, un uomo, lungo un sentiero
    dove ogni cosa sembra straniata,
    lui per intero, anzi immerso
    così completamente nel paesaggio,
    da essere unito a quello e indistinto.
    Guazza, orti, batraci, giardini,
    cavolaie che si attardano sulle verdure;
    e tu, dissolto, cenere,
    tu stesso orto.

    *

    Il corpo diventò rosso, febbrile,
    e ogni pensiero svanì nel delirio.
    L’ossessione era sopravvivere,
    con l’inferno che bussava,
    orribile come si dipinge.

    *

    Fu quella sola volta,
    seduto al tavolo,
    che avesti la sensazione
    di vivere sempre,
    finché il vino rimase
    nel bicchiere.
    Dopo, un sapore di ferro
    e di sangue invase la bocca,
    ti assediò,
    e i fantasmi continuarono
    una losca frequentazione.

    *

    I pronomi si rimpiattano in un vortice d’ombra,
    in abisso,
    e non sai più con chi parli,
    se parli,
    anche se uno specchio
    conforta e ammonisce.
    orribile come si dipinge.

    (Rimmel, 1986)

    I

    Lentamente
    scrivo sulla sabbia lievemente
    con dita poco appuntite, dolcemente,
    (par délicatesse) forse, scrivo
    parole di cenere per farmi intendere
    con più certezza di morire

    XX

    Le mie poesie si compongono di odii
    uccidendomi stratagemmi di delirio,
    cripta che vede in pezzi un’eleganza rara
    una fine di stelle

    XXII

    Alla settima coppa
    Babilonia si apre di lilla,
    e grandi effluvi sprigiona;
    (macabra fine, dipinta di
    bianchi veli)
    con i miei occhiali da sole
    varco le mura…

    (Seymour, 1989)

    Dopo un incendio di parole
    Bisogna che le stelle
    Invitino il poeta a riposarsi.
    Nella cenere del sonno
    Le palpebre si socchiudono,
    Il sogno prende ali di rosa
    Diviene fiore e sigillo
    Del giorno venuto e venente.
    Nella Venere del cielo
    Gli occhi riconoscono
    La propria struttura acquea,
    E si chiudono nel bianco
    Di nuove ipotesi
    (I guanti rosa di Baudelaire
    Sono un’altra meraviglia del mondo).

    *

    Il non detto è la prigione della lingua
    E le superfici róse, le apparenze
    Che non ingannano, si fanno
    Come niente specchi del destino.
    Nell’enigma degli occhi il poeta
    Diviene esteta, profeta degli dei
    Fedifraghi del proprio essere.
    Nello schianto delle tempie,
    Emozione che il cielo non contiene,
    Celato il filo d’oro si dipana,
    Crea nella mente nuovi magmi.
    E’ nostro augurio
    Che il vestibolo sia questo.

    *

    Fine e perversione
    Di alcool o follia
    E’ scheletro
    Di questo libretto: canto, allegoria,
    Reliquario di muse alchemiche,
    Delirium tremens, magico scontro
    Di machinae angelo rum.
    Malgrado il pensiero decadente,
    La vanità gola di vita e di lussuria,
    Tutti gli angioletti di questo mondo,
    I micini, le pantere e le ragazze
    Sanno
    Che la rarefazione dei cieli
    Non scompare
    Né finirà
    Grazie a bestemmie o a radiazioni.

    (Stelle e devianze, 1993)

    foto casa in disordine

    Fantasmi (1)

    Chiamare amico se amore non è aprire
    perché una parola è tutto e tu sei
    maestro di gesti, un lungo fuoco orientale
    a notte, portatore di fiori,
    non avrai altro corpo che quello
    e basterà per sempre,
    nessuno troverà il nome.

    Fantasmi (3)

    Quello che scrive, per quanto si sa,
    potrebbe essere anche lì a bere birra
    o a leggere l’ennesimo poeta francese.
    O un servo, un attore col sigaro acceso.
    Insomma un cadavere quanto altri
    pronto all’incendio alla forza pregante
    in cerca di messaggi senza parole
    tutto consumato nel buio dell’indecenza.

    Fantasmi (4)

    Fra le docce non ogni scherzo
    è permesso perché l’energia
    va sempre conservata per disegni
    migliori dice l’acqua che scende
    su un corpo di bagnoschiuma,
    mentre l’ombelico parla una nuova
    lingua, verticale quest’altra,
    ascensiva, come un viaggio
    di bicicletta fra prati
    quando la stagione invita al grido
    e alla licenza.

    A Barbara

    Ma i giorni si sono rinnovati nella ricerca,
    e più vicini agli angeli perché più umili
    i corpi sembrano contenti di vivere
    e di bere, ameranno scardinare porte,
    chiedere un po’ di celeste sui soffitti;
    poi, senza fare baccano in lettura,
    suggerire a chi più gli piace i versi
    di uno che dice:
    “E quanta voglia ho di lasciarmi andare,
    di fare un po’ di chiacchiere, di dire la verità,
    di mandare lo spleen alla nebbia, al diavolo, alla forca,
    di prendere qualcuno per mano e: Sii gentile,
    dirgli, visto che andiamo per la stessa strada…”

    A Guido

    In incendio dal centro un corpo
    è chiamato alla lotta, fra veglia
    e veglia, fra sosta e sosta,
    sotto la pioggia, in gara,
    accanto alla forza delle parole,
    nel vino, nel vivo, fra rosso e gelo,
    fra amici nel grido o nel buio
    una voce giusta chiamata in silenzio
    lo sguardo.

    *

    Esodo

    Non è come voce scrittura è più santa
    e puttana è di chi legge o riscrive
    è di chi in parola e in sguardo vive
    le indecenze e le stelle, le forze
    che il centro di me hanno aperto
    alla fuga.

    (1993)

    Mario Fresa per L'Ombra

    Mario Fresa

    Mario Fresa è nato nel 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Oltre a indagini sulla cultura della traduzione letteraria, si è dedicato alla poesia italiana e francese dell’Otto-Novecento. Come poeta esordisce nel 1999, presentato su «Specchio della Stampa» da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi appaiono nell’antologia Nuovissima poesia italiana(Mondadori 2004) e su varie riviste, tra le quali «Caffè Michelangiolo» (n. 3, 2003), «Paragone» (n. 60-61-62, 2005), «Nuovi Argomenti» (vol. 45, Mondadori 2009). È del 2002 la raccolta prefata da Maurizio Cucchi Liaison, cui fanno seguitoCostellazione urbana («Almanacco dello Specchio» di Mondadori, n. 4, 2008), il poemetto Alluminio, con la prefazione di Mario Santagostini (2008) e Uno stupore quieto, introduzione di Maurizio Cucchi (La collana, Stampa, 2012). Un’anticipazione della sua nuova raccolta poetica è apparsa sul n. 16 di «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice. Collabora a riviste e a quotidiani e cura la rubrica Sguardi sul periodico «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

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    Donato di Stasi Sanguinando per Edoardo Sanguineti (1930-2010) (Qualche verità sull’Avanguardia) Con una scelta di testi da “Laborintus”, “L’intera impalcatura poematica si sostiene su tre capisaldi: retorica, etica, gnoseologia”, “L’universo reificato della Palus Putredinis”, “Utopia e Distopia: da Postkarten a Cataletto”, “Finale di partita”, “il kitsch, il trash, il pulp e lo splatter”

    edoardo sanguineti interno

    edoardo sanguineti

    Scrittore a tenuta stagna, professore, deputato, Edoardo Sanguineti (1930-2010) lascia zeppo di sue pubblicazioni il lettino dell’ambulatorio junghiano e marxiano. Crede nell’eticità della Storia, praticando una sua morale sincretica stoico-epicurea, riversata appieno in quel Gruppo 63, che segna negli anni del boom economico italiana una stagione innovativa, una decente idea di letteratura, dopo le patacche del tardo ermetismo e del neorealismo. Ciò che maggiormente impressiona in Lui è la dimensione che assume, avendo spintonato la metafisica, per una volta sul serio, al di là delle pagine: autore mefitico e mefistofelico, lavora a un puzzle aforismatico ton-sur-ton, senza divagare quasi mai, avvalendosi al riguardo di una inattaccabile disciplina dialettica.

    Sanguineti è un angosciato materialista storico: le sue fabbriche testuali spaziano in un pessottimismo antimanieristico, scrutano e analizzano, incidono le piaghe sociali con il bisturi della praxis, producendo distinzioni fra il kitsch e il trash, il pulp e lo splatter, in buona sostanza la circolarità infinita delle merci che inzeppa senza vergogna il Magazzino dei Monatti Globalizzato.

    Non c’è affaccio nelle similprose sanguinetiane: i paesaggi vengono catalogati come pattumiere, il clima richiama un immarcescibile Dies Irae, le città oniriques (vere e proprie installazioni dell’Inconscio Collettivo) non smaltiscono che lenzuola sporche e piatti ingrommati. Rinsaldando coordinate esclusivamente empiriche, Sanguineti rivolta per terra lirismi e teatrini sentimentali, si proietta dentro una foschia spazio-temporale che attende pur sempre i bagliori dell’utopia.

    Scavando e riscavando nella prima metà della torbiera poetica del Nostro si incontrano strati ostili, inerziali, tanatici, al limite dell’imbarazzo per il senso comune, eppure appetibili per chiunque voglia continuare a praticare gli spasmi dell’intelligenza. L’occhio digitale corporeo registri per l’intanto il prensile elenco di opere con tanto di charme trecentesco (il glamour della Comedìa dantesca) e di stizzosissime ironie pro disgraziati e diseredati: Catamerone (1951-1971), Postkarten (1972-1977), Stracciafoglio  (1977-1979), Scartabello (1980), Cataletto (1981), Fuori catalogo (1957-1981), il tutto racchiuso nel feltrinelliano Segnalibro. Poesie 1951-1981, pubblicato nel 1982 (qui segnatamente viene compulsata la riedizione del 2010).

    Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

    umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

    Nel 1956 il poeta ligure schiaccia sulla mesta tradizione italiana il suo poundiano Laborintus, fatto uscire nella collana Oggetto e Simbolo diretta da Luciano Anceschi, mallevadore di lì a poco della fortunatissima rivista il Verri. Sbaglia chi assimila Laborintus al ready-made duchampiano (un coacervo di materiali affastellati impoeticamente): qui si seziona, si stravolge, si muove la macchina significante a piacimento, si spinge il pedale della  corporeità, delle superfici tattili, dello scontro fisico con il Nulla. Non che la versificazione non risulti a tratti indigeribile, a causa degli infiniti rimandi ipertestuali che schianterebbero l’erudito più pedante in odore di faustismo, ma è come se lo stomaco-cervello dell’Autore volesse digerire l’intera cultura occidentale per vomitarla con lucidità e circospezione, al fine di proporre un nuovo modello di soggettività critica, libertaria, edonistica, moderatamente cinica, virtuosa senza esitazioni, volta a stabilire un contatto autentico con la natura profonda delle cose.

    Sanguineti porta sulla sua gobba di studioso le deformazioni e le trasfigurazioni di una lingua ripetitiva, parentetica, esclamativa, gonfiata volutamente di arcaismi medievali e di modernità franco-tedesche; in questo senso rimuove  le barriere del provincialismo nostrano, impastando la tradizione mitteleuropea con il Perelà di Palazzeschi, i futuristi fino ad allora ostracizzati, il bric-à-brac di Gozzano, le Revolverate di Gian Pietro Lucini e avant tout  l’Alighieri, quale feroce accusatore di un’Italia guasta e stercoraria, oltre che ineffabile manipolatore di linguaggi pietrosi.

    Riconoscibili di primo acchito, i versi a lungo metraggio di Laborintus riprendono la vocazione epifonematica della mistica biblica, i protratti respiri epici di Whitman, le potenti figurazioni surreali di Laforgue, e ancora le corrosive oggettivazioni della premiata ditta novecentesca, a firma Eliot&Pound.

    Si assiste a una strana mistura di eros, epos  e thanatos: l’ars  sanguinetiana ruota attorno a organismi strofici mutili, ellittici, sghembi come I giocatori di carte di Paul Cézanne (“e noi; non come Plinio (noi) Ruben; iste fuit ille; der Jude; / semper suspensi (nos); non recitiamo (noi) storia; MARMORIBUS das Jot”, Laborintus, XXVII, p. 48).

    Che dire di questo chierico marxiano, vagante per i sopramondi intellettuali, la cui utopia non si è realizzata? Si può dire questo:  per Lui una società tanto mefitica e purulenta (qual è la nostra)  non può avere speranza di salubrità.

    edoardo sanguineti fuma

    edoardo sanguineti

    Laborintus  si pone come un’opera aperta, una torre moresca da cui avvistare massacri enormi di parole, immense città morte di libri servili e qualche sparuta colonna dorica di autori méprisés (Lukàcs e Restif de la Bretonne, per citarne un paio).

    Sanguineti non ha lacrime in tasca, né sofferenze antiche sui degradi del cuore, piuttosto un bisogno di muoversi per ridurre il décalage  fra il Paese Reale e la Perenne Vacanza della Repubblica delle Lettere, à propos conia la metafora disottundente della Palus Putredinis, vero lascito testamentario del nostro rhétoriqueur. La Palus implica il concetto di solitudine totale in un universo reificato, dove si perde l’essenza stessa dell’essere umano; qui con la macellazione delle parole affiorano i rimasugli di relazioni fallite, le finte decorazioni del lamentismo, il pessimo lusso di una civiltà che si pretende eterna. Di fronte a individui che vengono ottenebrati e istruiti a essere niente, il protagonista, Laszo, impara la consistenza carnea della coscienza collettiva e l’inconsistenza del solipsismo: non si fa fatica a registrare l’impressione di un werk affollato, polifonico, scritto e proclamato in pubblico (“con le quattro tonsille in fermentazione con le trombe con i cadaveri / con le sinagoghe devo sostituirti con le stazioni termali con i logaritmi / con i circhi equestri / con dieci monosillabi che esprimano dolore”, Laborintus, XIV, p. 31).

    Per assestare un colpo mortale alla catatonia moderna, Sanguineti ingrossa le pagine, ne dilata l’orizzonte linguistico, ricorre a una scrittura smisurata, stridula, deflagrante, che prende atto dell’avvenuto, senza però avere molta forza e altrettanta voglia di preparare un qualsiasi avvento. Non crede il Nostro nel poema-mito, quale costruzione simbolica del mondo, per questa ragione nelle sue pagine-schema adotta la prassi della decostruzione semantica, senza peraltro raggiungere mai la spregiudicatezza nichilistica della tabula rasa, altrimenti non si sarebbe messo a competere in abilità con gli ordini retorici medievali e rinascimentali.

    L’intera impalcatura poematica si sostiene su tre capisaldi: retorica, etica, gnoseologia, strettamente cooperanti ad arringare e concionare, piuttosto che a discorrere impressionisticamente. Ne  è dimostrazione la rinuncia a esprimersi come individuo lirico per assumere kafkianamente, senza investitura da parte di chicchessia, l’incarico di portavoce della crisi in sé,  di una moltitudine di disagi storicamente determinati.

    edoardo sanguineti mani

    edoardo sanguineti

    Eppure pochi si accorgono della rivoluzione critica e teorica di Laborintus, pochissimi colgono la laboriosa ruminazione novecentesca del Nostro, fermandosi per lo più all’aspetto secondario del citazionismo per il tramite di sequenze logiche (montaggio&assemblaggio) di materiali variantissimi.

    Ribollente e avventuroso, Laborintus attacca le forme sociali rancide del capitalismo, sostituendovi il pigmento forte della provocazione e della semanticità più radicale (“il mio der Mensch ist gut / la mia tessitura delle idee / la mia impaginazione per mezzo della complicazione / la mia complicazione e idea come ossessione / pensiero come limitazione / ordine come limitazione come negazione ordine come semplificazione pensiero / come implicazione o deduzione o previsione complicazione / come affermazione sperimentale nuova relazione melmosa the exudation”, Laborintus, VI, p. 19).

    A distanza di sessant’anni che cosa rimane di un opus così corrosivo rispetto agli enunciati foucaultiani, melliflui, del Potere? Più del felice ludus liberatorio, sopravvive l’indicazione di una salutare abissalità, di una complessità capace di articolare sapidi significati per ogni piano ontico-esistenziale.

    Laborintus turbina come un’apocalisse, per questo sbagliano gli imitatori a stazionare esclusivamente sul diametro dell’asemanticità: ottengono il disastroso effetto di produrre un gorgo di testi oscuri, illeggibili, francamente inutili.

    La spiazzante creatività sanguinetiana merita altra sorte, di certo letture sfrontate, senza temere incontri/scontri taglienti e sanguinanti con i testi.

     A guardare bene Laborintus soffre di bibliofagia, nel senso che divora, formalmente e concettualmente, i libri successivi: Sanguineti non si rinnova, interpreta se stesso, eccede in confidenza, istituzionalizza la sua inquietudine che finisce per diventare quel solco retorico dentro al quale inciampano gli epigoni, invischiati nel reculer pour mieux sauter (rinculano verso la destrutturazione per saltare nello sterile gioco linguistico fine a se stesso). Nei brogliacci post Laborintus  il Professor Sottile si limita  a immettere un sovratono di filologia, in accordo con Saint-Beuve, secondo cui la qualità in letteratura dipende dall’aver frequentato un buon corso di retorica; ne consegue che l’eversione linguistica del Nostro abbandona il piano utopico di una palingenesi sociale per naufragare nelle acque  distopiche del conservatorismo italian style.

     Non smette mai di piovere fra una strofa e un’altra, spira un’aria di tregenda nell’opus qui al vaglio ermeneutico, dunque Sanguineti condannato alla postumità, a un irraggiungibile totemismo che spaventa il lector medius, spinto a rintanarsi nei parchi edenici della Grande Consolatrice (la poesia tayloristica, la catena di montaggio lirica)?. Loook to this poet: i suoi versi si scaldano fino a diventare una graticola su cui bisogna farsi rosolare per capire qualcosa dello zeitgeist;  sulle braci della tradizione offre un esercizio critico adulto, lontano dalla narcosi a occhi aperti e dall’infantilismo, malattia suprema del postmodernismo.

    edoardo sanguineti massima

    testo di e. sanguineti

    Trattasi di écriture pour connoisseurs che insiste sulla crisi della crisi, a tempo di ragtime  e di rap (bassi alternati e melopee metropolitane in 4/4), secondo le modalità della lingua di Hölderlin, dell’illuminismo alla Diderot e dell’atticismo ciceroniano (“oh totius orbis thensaurus mnemonico thensaurus / sempre sempre sarai la mia lanterna magica / et nomina nuda tenemus / in nudum carnalem amorem et in nuda constructionem / corporis tui”, Laborintus, XIII, cit. p. 30).

    All’insegna della jouissance, Sanguineti compone il vademecum di una partecipazione problematica alla civitas, svuota l’estetica a larga diffusione attraverso la depauperizzazione del linguaggio poetico, sottratto alla manipolazione generalizzata: lo svuotamento estetico a cui sottopone i suoi testi determina la fine del riflesso condizionato che attanaglia i cani di Pavlov dell’elegia a tutti i costi; a partire da queste posizioni la riformulazione dell’umanesimo, ovvero l’esplorazione di un territorio non convenzionale, né conosciuto, in vero il luogo geometrico di una rinnovata negoziazione tra artista e pubblico, tanto che il letterato eversivo e il lettore sfrontato possono assumere un ruolo decisivo per la sopravvivenza della letteratura.

    Sanguineti taglia la coda che gli fa da poggiaposto e rinuncia alla condizione arcaica del contemplare: libera la sua poesia dalla condizione monacale di specchio metaforico del mondo, per ricomprenderla attivamente nelle dinamiche del reale e riqualificarne lo status  tra l’adorniano non lasciarsi capire e il voler essere capita (“la mia vitalità si è rifugiata in basso: in un relitto atrofizzato, minimo”, Scartabello, VIII, p. 290).

    Sanguineti ha liquidato (senza trionfalismi) la sua epoca, serve rendersi conto se l’epoca presente non stia organizzando i suoi cerimoniali (congressi vuotamente esornativi, pubblicazioni pleonastiche e agiografiche) per liquidarlo a sua volta e in via definitiva, promuovendolo a padre, seppur scomodo, delle Patrie Lettere (promoveatur ut amoveatur): finis.

    edoardo sanguineti poesia scappo da te

    edoardo sanguineti, poesia “scappo da te”

    da Laborintus

    1

    composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
    riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
    immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
    -noi che riceviamo la qualità dai tempi
    tu e tu mio spazioso corpo ,
    di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’ idea del nuoto
    sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
    lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
    composta terra delle distensioni dialogiche insistenze intemperanti
    le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste
    [condizioni
    esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi qui è il
    [dibattimento
    liberazioni frequenza e forza e agitazione potenziata e altro
    aliquotlineae desiderantur
    dove dormi cuore ritagliato
    e incollato e illustrato con documentazioni viscerali dove soprattutto
    vedete igienicamente nell’acqua antifermentativa ma fissati adesso
    quelli i nani extratemporali i nani insomma o Ellie
    nell’ aria inquinata
    in un costante cratere anatomico ellittico
    perché ulteriormente diremo che non possono crescere
    tu sempre la mia natura e rasserenata tu canzone metodologica
    periferica introspezione dell’introversione forza centrifuga delimitata
    Ellie tenue corpo di peccaminose escrescenze
    che possiamo roteare
    e rivolgere e odorare e adorare nel tempo
    desiderantur (essi)
    analizzatori e analizzatrici desiderantur (essi) personaggi anche
    ed erotici e sofisticati
    desiderantur desiderantur

    .
    14.

    .
    con le quattro tonsille in fermentazione con le trombe con i cadaveri
    con le sinagoghe devo sostituirti con le stazioni termali con i logaritmi
    con i circhi equestri
    con dieci monosillabi che esprimano dolore
    con dieci numeri brevi che esprimano perturbazioni
    mettere la polvere
    nei tuoi denti le pastiglie nei tuoi tappeti aprire le mie sorgenti
    dentro il tuo antichissimo atlante
    i tuoi fiori sospenderò finalmente
    ai testicoli dei cimiteri ai divani del tuo ingegno
    intestinale
    devo con opportunità i tuoi almanacchi dal mio argento escludere
    i tuoi tamburi dalle mie vesciche
    il tuo arcipelago dai miei giornali
    pitagorici
    piangere la pietra e la pietra e la pietra
    la pietra ininterrottamente con il ghetto delle immaginazioni
    in supplicazioni sognate di pietra
    ma pietra che non porta distrazione
    esplorare i colori della tua lingua come morti vermi mistici
    di lacrime di pietra
    ma pietra irrimediabilmente morale

    .

    il tuo filamento patetico rifiuta le scodelle truccate
    i corpi ulcerati così vicini al disfacimento
    con la lima ispida
    devo trattare i tuoi alberi del pane
    devo mangiare il fuoco e la teosofia
    trattare anche l’ospedale psichiatrico dei tuoi deserti rocciosi
    oh più tollerante di qualche foresta
    più nervale di qualsiasi nervo e pertanto scopertamente fibrosa
    tratto la tua recisione e quando batte le immagini il tuo sputo spasmodico
    oh esultanza per gli aghi sub specie mortis
    e adesso
    il nonparlare il nonpensare il nonpiangere
    disperatamente parlano pensano piangono durante il ventre della torpedine
    in ipso nudo amore carnali
    in ipso animae et corporis matrimonio
    per quale causa vomitano le tuniche intima anima e bastonano l’estate
    e con la coda stimolano il sale e la pioggia?
    .
    23
    .
    s.d. ma 1951 (unruhig) καί κρίνουσιν e socchiudo gli occhi
    οἱ πολλοί e mi domanda (L): fai il giuoco delle luci?
    καί κατά τῆς μουσικῆς ἔρgα ah quale continuità! andante K. 467
    qui è bella la regione (lago di Sompunt) e tu sei l’inverno Laszo veramente
    et j’y mis du raisonnement e non basta et du pathétique e non basta
    ancora καί τά τῶν ποιητῶν and CAPITAL LETTERS
    et ce mélange de comique ah sono avvilito adesso et de pathétique
    una tristezza ah in me contengo qui devoit plaire
    sono dimesso et devoit même sono dimesso, non umile
    surprendre! ma distratto da futilità ma immerso in qualche cosa
    and CREATURES gli amori OF THE MIND di spiacevole realmente
    très-intéressant mi è accaduto dans le pathétique un incidente
    che dans le comique mi autorizza très-agréable
    a soffrire!
    e qui convien ricordarsi che Aristotile
    sí c’è la tristezza mi dice c’è anche questo ma non questo
    oltanto, io ho capito and REPRESENTATIONS non si vale mai
    OF THE THINGS delle parole passioni o patetico per significar
    le perturbazioni and SEMINAL PRINCIPLES dell’animo; et πάθη
    tragicam scaenam fecit πάθημα e L ma leggi lambda: in quel momento
    πaθητικόν
    ho capito καί κρίνουσιν ἄμεινον egli intende
    sempre di significar le fisiche and ALPHABETICAL NOTIONS affezioni
    del corpo: come sono i colpi
    i tormenti è come se io mi spogliassi le ferite le morti
    di fronte a te
    et de ea commentarium reliquit
    (de λ) ecc. de morte ho capito
    che non avevo (coloro che non sono trascurati!) mai
    RADICAL IRRADIATIONS ecco: avuto niente
    e ho trovato (in quel momento); che cosa può trovare
    chi non ha mai avuto niente?
    TUTTO; and ARCHETYPAL IDEAS!
    this immensely varied subject-matter is expressed!
    et j’avois satisfait le goût baroque de mes compatriotes!
    .
    26
    ah il mio sonno; e ah? e involuzione? e ah e oh? devoluzione? (e uh?)
    e volizione! e nel tuo aspetto e infinito e generantur!
    ex putrefactione; complesse terre; ex superfluitate;
    livida Palus
    livida nascitur bene strutturata Palus; lividissima (lividissima terra)
    (lividissima): cuius aqua est livida; (aqua) nascitur! (aqua) lividissima!
    et omnia corpora oh strutture! corpora o strutture mortuorum
    corpora mortua o strutture putrescunt; generantur! amori!
    resolvuntur;
    (λ) lividissima λ! lividissima! (palus)
    particolarissima minima; minima pietra; definizione; sonno; universo;
    Laszo? una definizione! (ah λ) complesse terre; nascitur!
    ah inconfondibile precisabile! ah inconfondibile! minima!
    oh iterazione! oh pietra! oh identica identica sempre;
    dentica oh! alla tua essenza amore identica!
    alla tua vita e generazione! e volizione! (corruzione) perché essenze
    le origini; essenze;
    e ah e oh? (terre?)
    complesse composte terre (pietre); universali; Palus;
    (pietre?) al tuo lividore; amore; al tuo dolore; uguale tu!
    una definizione tu! liquore! definizione! di Laszo definizione!
    generazione tu! liquore liquore tu! lividissima mater:

    .

    Donato Di Stasi

    Donato di Stasi

    Donato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

    Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

    È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba. Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

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    STIGMATA, Antologia bilingue italiano-inglese Shearsman Books, Bristol, trad. Cristina Viti. Presentazione il 9 febbraio 2016, h 19,30, a Swedenborg Hall, 20/21 Bloomsbury Way, Londra. Presentano il libro: l’editore Tony Frazer, Cristina Viti e Ian Seed (prof. all’University of Lancaster and the University of Cumbria). È presente l’Autore. – Gëzim Hajdari / Erbamara Barihidhët Cosmo Iannone Editore, 2013, Dodici poesie, con un Commento di Giuseppina Di Leo

    Gezim Hajdari Stigmata, Shearsman Books, Bristol 2016Shearsman Books – Gezim Hajdari – Stigmata Translated by Cristina Viti. Bilingual Italian/English edition. Published November 2015. Paperback, 142pp, 9 x 6ins. ISBN 9781848614413 [Download…

    SHEARSMAN.COM

    http://www.shearsman.com/…/pr…/5914-gezim-hajdari—stigmata

    http://www.shearsman.com/shearsman-reading-events

    *

    Hajdari Gëzim / Erbamara Barihidhët Cosmo Iannone Editore, 2013 con un Commento di Giuseppina Di Leo

    Hajdari Gëzim / Erbamara Barihidhët – 1. ed. – Isernia: Cosmo Iannone Editore, 2013 (Kumacreola: Collana di parole migranti e studi transculturali diretta da Armando Gnisci). – pag. 83 € 10,00. Testo albanese, con traduzione a fronte. In appendice: Monumento dell’erba amara, di Andrea Gazzoni.

    Nota dell’autore

     Erbamara, scritta nel 1976 mentre frequentavo l’ultimo anno delle superiori nella città di Lushnje, in Albania, non venne pubblicata dall’editore del regime “N. Frashëri” di Tirana.

    Secondo la censura: «i testi della raccolta non trattano il tema del nostro villaggio socialista; l’eroe delle poesie è un solitario che sfugge ai suoi coetanei, all’Associazione dei Pionieri, alla realtà; inoltre nei versi sono assenti le trasformazioni che hanno portato il socialismo in campagna sotto la guida del Partito…». A quell’epoca la silloge aveva come titolo Il diario del bosco. Ho tradotto i testi in italiano nel 1999. Due anni dopo, nel 2001, l’opera è stata pubblicata per la prima volta da Fara Editore. Questa nuova pubblicazione è ampliata ed include testi nuovi rispetto alla prima edizione. Offrendo ai lettori questi versi è come se tornassi indietro di molti anni nel gelido e inospitale inverno della dittatura albanese dove ebbe inizio il mio percorso poetico.

    Gëzim Hajdari

    gezim hajdari_foto

    Gezim Hajdari

    Commento di Giuseppina Di Leo

    «Sogno la morte ogni volta / che torna la primavera. / I gemiti si perdono piano piano / nella nudità della pioggia. //…». La condizione di profugo si avverte immediatamente sin dalla prima poesia della raccolta Erbamara. Ci sono versi «gioiosi e tristi», di una nudità panica, nei quali il senso della perdita prevale come coscienza di un’età incisa nei segni del corpo («Di fumo e alcool / odora così presto il mio corpo…»).

    È una paura antica, di morte, che si fa strada e il poeta la nomina, quasi per scongiurarla: «Chissà quale mare oscuro un giorno / stroncherà la mia voce.». Allora a premere è la precarietà della dimensione umana, che si richiama alla dimensione del tempo e al suo scorrere. Eppure, in questo caso, la parola si fa messaggero del corpo. Il poeta ne è cosciente, e come Eliot in The waste land, vede la morte in ciò che la vita, esibendosi, ci  modella a suo piacimento con i nostri cambiamenti.

    Il poeta sa che a sostenerlo e guidarlo è la parola, portatrice del canto della sua terra; mentre, se venisse a mancargli la voce la terra, da materna, acquisterebbe una dimensione famelica, che incessantemente lo divorerebbe. È come se nascondesse un fondo oscuro e ambiguo la poesia della lontananza di Hajdari, una quasi non-esistenza nel disgregarsi del corpo-parola, conseguenza diretta della separazione fisica dai luoghi d’origine. Di tanta morte il poeta continuerà a cantare, e per quella terra che non rivedrà ne avvertirà incessantemente la nostalgia,: «…Percorrerò per l’ultima volta / la strada dove correvo nell’infanzia. / Se sarà al crepuscolo, / le lucciole illumineranno la nuova dimora.» (Mi troveranno nei campi trebbiati).

    Si direbbe quasi che un disegno premonitore sia al fondo della vita di Hajdari (la data di nascita del poeta coincide con la morte del dittatore Stalin). Un evento ineluttabile è dunque la poesia, che è poesia del dolore, del distacco dalle origini e perdita della parola. Una parola che era già eco nel suo pronunciarsi («Gli stornelli che scavavano nella roccia / come se fossero impazziti…»).

    Persino la morte si mostrerà spietata, né porterà riscatto all’esistenza: «Anche nell’aldilà mi suonerà / la maledizione nell’alba: / «Non avrai mai fortuna, che tu possa morire / per strada, come un cane!…» (Anche nell’aldilà mi suonerà). La morte, nella sua accezione di annullamento del ricordo andrebbe intesa come pensiero immanente che trova il suo posto nel luogo della poesia: essa condurrà un corpo giovane tra le rovine, per riportare in vita, in maniera, se possibile, ancor più atroce, i richiami ancestrali della terra-madre. Solo così agendo, luogo e memoria diventeranno tutt’uno e quasi legami imprescindibili e, in tal modo, con essi, più dolorosi si faranno i ricordi.

    I due temi  ricorrenti in Erbamara, tempo e ricordo, sono al centro di tutta la produzione del “contadino” Hajdari. Come scrive Andrea Gazzoni: «L’erba dei campi di Darsìa è amara, ma più vera e più durevole di quell’allucinazione collettiva che è il potere. […] Aruspice che legge i segni delle colline di Darsìa, il poeta di Erbamara colleziona e annota i vaticini per trovare una chiave capace di rompere la maledizione di un presente sempre uguale, a cui ci condanna il «fango incanutito da secoli», il fango che «si unisce all’eterno» impastando la stessa illusoria permanenza del regime dittatoriale. Ma ogni presagio colto è tanto più sinistro quanto è nitido per i sensi. …».

    Gezim Hajdari nel suo studio

    Gezim Hajdari nel suo studio

    Dal momento che ogni cosa è andata perduta e man mano che il ricordo si perde «sul volto del tempo», «Come una pelle nera», il poeta s’impone la ricerca costante de perché, mentre intorno persino i frutti del suo giardino, cadendo, fanno eco «come brutti sogni.» (Nulla albeggia).

    Una elegia del dolore è Erbamara: la brutalità degli anni dittatoriali è infissa nel corpo e risuona nella voce. Il destino sembra dunque segnato e lo perseguiterà «come ombra». Eppure la morte non gli fa paura, se consente la libertà del ricordo: «Due cose porterò con me / nel paradiso promesso: / i pianti in primavera delle prede / e i canti dei gitani.» (Ora vago tormentato nel paese).

    «Immensa come te, collina, / è la mia angoscia. / Ogni verso ardente che m’ispiri / è amore e tormento.» Il poeta rievoca ovunque l’habitat naturale come termine di paragone della propria esistenza, immedesimandosi con la natura e con gli esseri che la abitano. In particolare, sono le creature della notte quelle che sente a lui più simili, quando si liberano nell’aria e danno vita a «sogni e speranze nel nulla», fino a al confondersi di «grida e voci» (Immensa come te, collina).

    Tempo e memoria sono irrevocabilmente persi in «incendi e abissi». Al poeta non resta che domandarsi che fine abbiano fatto i suoi anni giovanili, così lontani come la giovinezza: «Dove si nascondono i miei anni verdi? / Da collina a collina, / la pelle dell’infanzia perduta / suona e trema al vento.» Gli echi del paesaggio della Darsìa chiamano il poeta quasi a volerlo consolare per la distanza che lo separa; solo un dialogo immaginario gli permette di rispondere dicendo che la sua presenza è sempre lì.

    L’andamento piano è una costante delle liriche di questa raccolta, ne misura insieme forza e capacità espressiva. Ma, la poesia, è in grado di esaudire il desiderio? Sembrerebbe di no. Difatti, alla domanda: «Mia patria, / perché quest’amore folle per te?», il poeta nega possa esserci un risarcimento per mezzo dei versi che, anzi, segnano la lacerazione tracciandone maggiormente la ferita:

    Mia patria,
    perché quest’amore folle per te?
    Tu mi hai fatto nascere
    per essere la tua ferita.
    I miei versi m’inseguono
    come vecchi assassini.
    Ogni notte si rompe qualcosa
    nel profondo del mio ghiaccio.
    Gezim Hajdari a Udine 2011

    Gezim Hajdari a Udine 2011

    Meglio però non lasciarsi ingannare, poiché è dal tormento dei versi che nasce il bisogno comunicativo del poeta. Quando la poesia eleva il «luogo» essa funge da anello di trasmissione di un’idea che diventi «condivisibile», come magistralmente sottolinea Gazzoni: «Esilio in patria ed esilio fuori dai confini si richiamano l’un l’altro attraverso la ricorrenza, nell’opera di Hajdari, di posture, situazioni, gesti e stilemi. Ma ora fermiamoci qui, sulla soglia finale di Erbamara, senza addentrarci nella poesia che Hajdari ha composto in seguito. Lasciamo al lettore il gusto di prendere in mano i singoli volumi o l’antologia delle Poesie scelte, leggendo i testi in sequenza come un unico ciclo poetico, coerente e compatto pur nelle sue trasformazioni, tutte direttamente o indirettamente legate alla terra di Darsìa e alla sua memoria. Proprio questa centralità del luogo nella poesia di Erbamara (e poi di tutta l’opera hajdariana) rivela un’istintiva affinità con i poeti che cominciano dal loro luogo particolare, per quanto marginale sia, per farne poi nel linguaggio e nella memoria della letteratura un luogo di tutti, un luogo comune (dicibile, condivisibile, in una parola: traducibile)…».

    Nessuno sa se ancora resisto
    in quest’angolo di terra arsa
    e scrivo a notte fonda ubriaco
    versi gioiosi e tristi.
    Sogno la morte ogni volta
    che torna la primavera.
    I gemiti si perdono piano piano
    nella nudità della pioggia.
    Come brucia in fretta
    la mia giovinezza senza richiami!
    Ovunque dintorno mi sorridono
    rose e coltelli.
    Di fumo e alcool
    odora così presto il mio corpo.
    Chissà quale male oscuro un giorno
    stroncherà la mia voce.
    *
    Mi troveranno nei campi trebbiati
    senza respiro tra le labbra,
    sdraiato sulla paglia che adoravo
    con i colombi che beccano accanto.
    Sul volto il fazzoletto bianco di mia madre,
    mi porteranno nella stanza natale:
    «Povero ragazzo, quanto ha sofferto!»
    dirà la gente intorno al mio corpo.
    Dopo avermi lavato
    con l’acqua fresca del pozzo,
    mi metteranno sul carro del grano
    tirato dai buoi di campagna.
    Percorrerò per l’ultima volta
    la strada dove correvo nell’infanzia.
    Se sarà al crepuscolo,
    le lucciole illumineranno la nuova dimora.
    Gezim Hajdari, Siena 2000 (1)

    Gezim Hajdari Siena 2000

    Anche nell’aldilà mi suonerà
    la maledizione nell’alba:
    «Non avrai mai fortuna, che tu possa morire
    per strada, come un cane!»

    Ricorderò con timore
    il mio dio crudele,
    la melagrana spaccata
    sotto la luna piena.

    L’anatra che si tuffava nel lago,
    i tori insanguinati.
    Come un segno lugubre
    il richiamo della volpe nel buio.

    Gli stornelli che scavavano nella roccia
    come se fossero impazziti,
    le spine nere che cacciavo con l’ago
    dai piedi di mia madre.

    *

    Ora vago tormentato nel paese
    come uno spirito accoltellato.
    Non mi fa più paura la morte
    né il freddo della sera.

    So chi mi ha amato
    nella collina delirante.
    Un amore eterno:
    il fango e il buio invernale.

    Dietro le spalle m’insegue
    come ombra il destino.
    Tra i calmanti notturni scelgo
    il veleno della vipera.

    Due cose porterò con me
    nel paradiso promesso:
    i pianti in primavera delle prede
    e i canti dei gitani.

    *

    Nulla albeggia
    sul volto del tempo.

    Come una pelle nera
    la notte balcanica.

    Nell’abisso della valle
    polvere i miei desideri,
    cenere le mie stagioni.

    Cosa cerco
    in cima alla collina
    di un paese tormentato
    e di ubriachi?

    Fuori, nel giardino,
    il vento fa cadere le cotogne nel fango
    come brutti sogni.

    Gezim Hajdari Siena 2000

    Gezim Hajdari Siena 2000

    Appoggiati al muro della casetta,
    nell’ultimo giorno d’autunno,
    prendiamo il sole che picchia,
    io e una lucertola senza coda.

    Nulla accade in questa provincia,
    gli stessi uomini, gli stessi i volti.
    Tutto si trascina con fatica
    nel fango incanutito da secoli.

    D’ora in poi, nell’arena del gelo,
    ci sentiremo soli nella collina cupa.
    Io e il falco combatteremo
    con i denti e gli artigli.

    Sdraiato sulla terra umida
    assaporo l’erbamara dei prati.
    Negli abissi dei cieli impazziti
    si perde il mio sguardo.

    Non lontano dalla mia dimora,
    dove si fecondano i fulmini,
    il vento del mare porta come misericordia
    le voci degl’internati nei Campi .

    *

    Non m’interessa
    quale sarà il mio destino.
    Se si nasconde qualcosa intorno
    no, non voglio saperlo.

    Ho vissuto così a lungo
    nel mio terrore.
    Ho vagato per le strade Hajdaraj
    come nella mia tomba.

    So ciò che mi attende
    dietro ogni crepuscolo.
    In un mondo di coltelli
    non chiedo di salvarmi.

    *

    Spesso a notte fonda
    entra una strana voce nella mia stanza,
    giunge sempre alla stessa ora
    dal profondo di un pozzo scuro.

    Siede accanto al mio letto
    cupa e minacciosa.
    Quante volte mi sono svegliato
    in ansia e spavento.

    «Non ti spaventare fanciullo –
    mi ripete ogni volta al buio –
    le ombre che ti si affacciano nei sogni,
    non sono che chimere.

    Vivrai a lungo da guerriero
    tra vipere e corvi.
    Per compagni di viaggio avrai
    solo spine e pietre.

    Vai avanti per la tua strada,
    non dar retta ai finti oracoli.
    Il tuo seme di contadino
    inciderà sul fango albanese.»

    Poi si dilegua nel buio
    del fondo del pozzo scuro,
    per tornare ogni notte alla stessa ora
    più cupa e minacciosa.

    Gezim Hajdari, Siena 2000 (2)

    Gezim Hajdari, Siena 2000

    Luna,
    è fuggita anche questa stagione
    senza un bacio
    nella notte bianca.

    Cielo,
    è passato anche quest’anno
    senza una ragione,
    con la sete dei pozzi prosciugati
    nelle nostre labbra nere.

    Valle,
    sta andando anche questo secolo
    come un toro abbattuto,
    con il tempo che ci scivola tra le dita
    e il canto del cuculo da collina a collina.

    *

    Non piangere,
    è il pettirosso che corre
    sul ghiaccio del ruscello.

    Presto fiorirà il mandorlo
    e gli uccelli lirici ci canteranno
    nelle vene.

    Non piangere,
    ho percorso la tua ferita
    per raggiungerti.
    *

    Mia patria,
    perché quest’amore folle per te?

    Tu mi hai fatto nascere
    per essere la tua ferita.

    Dove nascondermi
    nella collina brulla?

    I miei versi m’inseguono
    come vecchi assassini.

    Ogni notte si rompe qualcosa
    nel profondo del mio ghiaccio.

    *

    Gli anni si sciolsero,
    ad uno ad uno si persero.
    A stormi le rondini
    nei cieli volarono.

    Nel cortile lasciarono
    piume e richiami.
    Sulle grondaie delle casette
    nidi e rumori.

    Altri anni giunsero
    di tuoni e gioia.
    Altri voli di rondini
    abbandonarono i nidi.

    Nelle colline di Darsìa,
    di buio e freddo,
    invano attendiamo
    una chimera all’orizzonte.

    Le primavere fuggirono,
    per gli abissi gocciolarono.
    Come i cieli grigi
    anche noi invecchiamo.

    Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.
    In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.
    Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.
    Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.
    La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.
    È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone.
    Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3.
    Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari.
    Dal 1992, vive come esule in Italia.
    Opere
    Ha pubblicato in Albania
    • Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;
    • Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte).
    • Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010
     
    Ha pubblicato in Italia in bilingue
    • Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993
    • Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995
    • Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000
    • Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001
    • Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013
    • Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007
    • Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006
    • Maldiluna/ Dhimbjehëne,Besa, 2005. II edizione Besa 2007
    • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005,
    • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007
    • Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007
    • Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008
    • Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014
    • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008
    • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014
    • Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011
    • Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012
    • I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012
    • Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013
    giuseppina di leo1

    giuseppina di leo

    Giuseppina Di Leo. Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959, sono laureata in Lettere; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Mie poesie, un racconto e interventi di critica letteraria sono ospitati su libri e riviste (Proa Italia, Poeti e Poesia, Limina Mentis Editore, Incroci), nonché su blog e siti dedicati alla poesia.

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    GUIDO CAVALLI: DIECI POESIE  da “Nel castagneto” (Diabasis, 2015) dalla Postfazione di Giovanni Ronchini “Cercando un altro inizio”, “I lupi tornano sull’Appennino settentrionale”

    pittura Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98

    Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98

    Guido Cavalli è nato nel 1974 a Parma. Coautore dei romanzi e dei racconti di Errico Malò (tra i quali Cielo di paese, Scaramuccia, La veglia, La neve ai cancelli) collabora con la rivista di filosofia Kasparhauser. È del 2005 la sua prima raccolta di versi, Piccolo canzoniere selvatico (Manni).

    Dalla postfazione di Giovanni Ronchini, Cercando un altro inizio (o del bisogno di appartenere)

    I dieci anni trascorsi tra la prima raccolta, Il piccolo can­zoniere selvatico, e la seconda, la coerenza di temi e di ac­centi tra i due libri ‑ sebbene, in questo, sembri che quei temi e quegli accenti siano oggetto di un ulteriore scavo, una discesa per certi versi più profonda e dunque più sma­scherante ‑ inducono a domandarsi dove nasca la poesia di Guido Cavalli, quale sia la sua matrice, da dove essa venga generata.

    Ci sono infatti un bisogno e una necessità a indurre Ca­valli a scrivere versi: il bisogno di costruire una identità, un’appartenenza e dunque di contro la necessità di deci­frare i contorni della propria inappartenenza; innanzitutto la mancanza del padre, la sua sparizione, ha reciso i rami dell’albero genealogico, rischia di escludere Guido dalla sua storia famigliare:

    Ancora adesso io confondo il fruscio / delle foglie e il bi­sbiglio del sonno / in cui calavo come fossi già senza padre / e senza me stesso creato, non generato, / risvegliato alla coscienza ma non nato / da te o da corpo umano

    e ne ha per lui resa più complicata la possibilità di accoglier­ne le eredità, di sentirsi riconosciuto ‑ più che di riconoscer­si ‑ nelle proprie radici.

    Sanare questa ferita, ricucirne i lembi sfrangiati, ricostru­ire la solidità di un vincolo di appartenenza (quello dei le­gami famigliari ‑ la condivisione di una stessa aria, di uno stesso linguaggio, di quella stessa “inguarita ferita” ‑ e del legame con la natura, vero e proprio punto di incontro con le proprie radici biologiche) e ingaggiare una lotta contro l’esclusione, questi appaiono i motori principali della poesia di Cavalli. Ciò può avvenire, sebbene non più in modo defi­nitivo, per sempre consapevole della cacciata dal paradiso, attraverso una rigorosa ripetizione di riti sedimentati nel tempo e depositati in fondo alla memoria inconscia.

    Quello della natura è forse il principale dei lin­guaggi necessari alla ricostruzione del vincolo, una sorta di lasciapassare, la chiave per ricostruire e comprendere il re­sto; non tanto, si badi, la natura come “libro”, ma proprio come insieme di segni, una specie di ventre semiotico, una disposizione di elementi che uniti significano (e che dun­que vanno letti e interpretati), una Lingua madre di un paese ormai remoto, / cancellato dagli atlanti della storia, / verde casa dell’infanzia […], che per essere decifrata deve essere percorsa e tradotta (fare poesia, pertanto, è camminare tra i segni della natura, pre-sentire, cioè disciplinarsi all’ascol­to, all’osservazione attenta, alla costruzione dei nessi di una vera e propria sintassi): così la ghiandaia che occhieggia tra i rami è sospesa come una parola scritta, le cime lontane in un giorno sereno sono come parole che sulla pagina ristanno / inaccessibili, e il ghiaccio delle cime è un “foglio bianco”, così, ancora, il castagneto è una comunità di parole, “che tutto possono compiere”:

    Ora qui ci incontriamo. / Tra le parole, come in un bosco / dove i faggi salgono diritti / e le radure s’aprono cieche / e l’incuria ha cancellato le carraie / che dalle ultime case del paese / vengono su. / […] Immersa nel folto, questa pagina / sia il luogo convenuto / per il nostro appuntamento.

    Guido Cavalli Nel castagneto copertinaLa condizione di poeta è perciò una condizione privile­giata: è il poeta il solo che può instaurare un rapporto con­fidenziale con la natura:

    Erano i giorni in cui cambia l’autunno. / Durante un’escur­sione solitaria / ecco la risposta: “sarai tu / il mio confidente”. // Restai a vagare a lungo / sotto gli sguardi accigliati / di certi abeti bianchi, / finché un cenno di rami poi non venne / a indicarmi da dove discendere

    È il poeta l’unico in grado di pre-sentire, cioè possedere quelle “virtù premonitrici”, quella sensibilità più spiccata, più vibrante, che gli consentono di esercitare un ruolo quasi sacrale, religioso, vedere, prima degli altri, con occhi diversi i segni della natura, disporli secondo una logica grammati­cale e dare loro un significato, dunque interpretarli, capirne il senso.

    Senza questa capacità e senza la volontà di farne uso, la natu­ra rimarrebbe un insieme disorganico di fenomeni, una lingua morta; è il poeta a liberarla dallo stato di “idea”, secondo una visione che sembra discendere direttamente da Schopenhauer, e a individuare ciò che essa rappresenta: in questo modo il poe­ta è anche l’unico in grado di ricostruire quella catena di vincoli per ripristinare l’appartenenza e l’identità perdute.

    La poesia, però, richiede un’abilità manuale, la capacità di disporre le parole, di indirizzarne il senso, di scoprirne i suoni e la musica, di allacciarle alle tradizioni. Nel castagne­to, a differenza del Piccolo canzoniere selvatico, è un eserci­zio sull’endecasillabo, sulle sue virtù musicali; è, ancora, una sperimentazione delle infinite possibilità delle simmetrie, secondo una strategia che le adopera utilizzando una varietà di soluzioni. L’endecasillabo di Cavalli, specie strutturato in versi sciolti, il metro più frequentemente utilizzato in questa raccolta, è sinuoso, raramente franto da poche opportune cesure, modulato su una accentazione perlopiù canonica (sulla quarta o sulla sesta sede), e su un uso estremamente parco della rima (frequente, però, la rima al mezzo e talvolta le assonanze e le consonanze), variamente alternato a versi più brevi, soprattutto il novenario o il settenario: ecco allora presentarsi alcune forme della tradizione ‑funzionali al dia­logo che il poeta vuole riaprire con il proprio albero genea­logico, non solo pertanto quello famigliare, ma anche quello poetico ‑, a volte anche soltanto riecheggiate: la canzone, ad esempio, (che in certi casi sembra potersi sciogliere nel po­emetto narrativo, come nel testo eponimo Nel castagneto), ma anche il madrigale e, almeno in un caso, la filastrocca di origine popolare (si veda Il sentiero risale il fianco lento, con quel particolare ricorso alla rima baciata).

    I testi, poi, sono un reticolo di simmetrie e ripetizioni, ottenute attraverso l’insistenza su alcune figure come l’allit­terazione, in pochi ma significativi casi la paronomasia, la ri­presa di termini o sintagmi da una strofa all’altra (una specie di coblas capfinidas volutamente imperfette) e soprattutto, massicciamente, la similitudine (come, ad esempio, proprio Nel castagneto, dove le stanze del testo sono costruite in due sezioni ‑un’ombra, forse, di fronte e sirma ‑anticipate dalle due chiavi della similitudine, appunto: “come”/“così”).

    pittura Antonio Ligabue Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

    Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

    Il risultato, anche alla luce di un lessico e di una sintassi sfrondate dalle ipoteche sia di oscurità ed espressionismi d’accatto, sia dal vizio della retorica:

    Allora noi cercheremo un poeta, / uno che non ammali le parole, / uno che non le affami d’aria vuota, / che non rida a vederle zoppicare / come una bestia ferita, una ruota / piegata (Da una lettera di Karl Heinrich a Georg Trakl)

    è un delicato ma acuto impressionismo, una poesia visi­va, descrittiva non immemore di alcune eredità fondative del verso novecentesco, primo tra tutti Pascoli. Oppure, seppure in misura minore, Jahier (quello di Ragaz­zo, in particolare nei versi dedicati al mistero del suicidio del genitore, come in A colloquio con il padre, dove si può leggere un distico come questo: Non è per solitudine che si uccide / ma per un senso di giustizia). Ma più d’ogni altra cosa è riconoscibile il fitto reticolo di elementi riconducibili al luogo di origine (non a caso si parlava, prima, di tradizioni e non di tradizione): il patrimonio popolare delle fiabe, dei culti pagani e pre-cristiani, la Bibbia rimasticata dai vecchi, il côté lessicale e narrativo della montagna (per certi aspetti non dissimile da quello sintetizzato nella poetica di Rigoni Stern), il Bertolucci alpestre di Casarola (alcuni versi, come già nel Piccolo canzoniere selvatico, sembrano rubati al poeta di Viaggio d’inverno), il Bacchini poeta scienziato, il lirico delle pietre fossili (O l’eco dell’abisso, custodita / nell’inca­vo della conchiglia fossile […]) a cui ci pare Cavalli faccia esplicito riferimento invocando “la Musa selvatica, antico sgomento”, lo Zucchi di Tra le cose che aspettano (seppu­re con minore partecipazione, limitatamente alla presenza totemica e metaforica dei lupi). E soprattutto la prosa del narratore antropologo parmigiano Mario Ferraguti (penso soprattutto a due sue opere, Dove il vento si ferma a mangia­re le pere, Diabasis 2010) e a Ti segno e ti incanto del 2012): con Ferraguti, Cavalli condivide la sensibile osservazione delle comunità dell’Appennino, quella umana – dei vecchi, dei racconti, delle fole, della mitologia della montagna, delle “antiche vergini silvane” “coronate di bacche selvatiche”, e dei loro riti magici – e quella naturale, la presenza discreta degli animali, dei vegetali, le loro tracce, la loro lingua, il messaggio che essi comunicano; con Ferraguti, infine, Cavalli con­divide anche la stessa età, così che forse si può pensare a un carattere generazionale al quale i due scrittori stanno dando voce: la polverizzazione delle identità e delle appartenenze (sociali, culturali, politiche, religiose, famigliari) e il tenta­tivo, da parte di chi ne avverte la mancanza, di un difficile restauro, una costruzione ex post, una vera e propria ricerca dell’identità perduta, un bisogno di appartenere:

    Oggi che vivo in questo tempo incolto, / cammino insieme a tanti senza parte. / I vecchi sono morti e queste cose / le scrivo senza dover incontrare / il loro sguardo. (La discendenza)

    pittura Antonio Ligabue Autoritratto 5

    Antonio Ligabue Autoritratto

    Da: Guido Cavalli, Nel castagneto (2015)

    I lupi tornano sull’Appennino settentrionale.
    Piccoli branchi compaiono all’orlo
    dei boschi. Scendono lenti tra i campi,
    fiutano l’aria dei paesi vuoti.
    Sentono che non c’è più odore d’uomini
    e allora vengono senza paura.
    Girano intorno alle fontane asciutte.
    All’aperto dei sagrati si coricano
    e immobili nell’ora della sera
    somigliano a grigie statue romaniche.

    Un uscio vecchio sbatte per due volte.
    Un cesto vuoto rotola nell’orto.
    Un secchio gocciola sotto la fonte.
    Intanto noi dove siamo? Perché
    abbiamo preso la sembianza d’ombre
    impigliate ai vetri delle finestre,
    d’orme nei letti di polvere e cenere?

    *

    In mezzo all’erba incolta del pometo
    frutti maturi che la troppa attesa
    ha reso ormai amari. Qui a marcire
    ristanno e bruni scioglieranno in terra.

    Dalla casa di pietra abbandonata
    non viene più nessuno a raccogliere
    le mele e sotto il castagno spezzato
    il padre e il figlio non siedono più.

    Solo un rumore di pioggia echeggia
    nell’aria azzurra. Nemmeno le anime
    sono rimaste di chi è vissuto qui.

    «Sempre recente nasce la natura,
    mentre il nostro segno è già trapassato.

    Ma se curiosità avessi di cosa
    andavamo l’un l’altro conversando
    seduti sotto il castagno spezzato,
    dimmi, a chi mai potrei domandare?»

    Con la notte viene il primo gelo.
    Spaccherà la lucida corteccia
    del melo, giù fino alla radice.

    *

    La sera in cima ai borghi di montagna
    quando rabbuia, odore di legna
    e l’aria si fa scura e sulla pietra
    che un tempo stava in fondo al mare appare
    dolce il colore del lillà. Intorno
    tutto è fermato e sembra presagire
    un ritorno a quell’epoca archeana:
    già inabissano i vecchi cippi, sparsi
    lungo i bordi dei campi incoltivati.
    Poi in fondo alla notte della terra
    si trasmuteranno in nuovi elementi,
    parole rifulgenti come il sale.

    *

    Piove nel bosco. Rabbuia il cielo.
    Tra i rami corre il lamento d’un vento
    straniero. Forse è l’autunno che viene?
    In alto le foglie bagnate specchiano
    ancora l’ultima luce del giorno.
    Forse qui intorno o già in fondo al sentiero
    presto risuonerà un passo lieve.

    *

    Oltre l’ultima svolta del sentiero
    finalmente appare ciò che precede
    ogni attesa – io salivo distratto
    per il bosco luminoso di maggio,
    e c’era odore di foglie bagnate
    e umidore di terre feconde.

    pittura Antonio Ligabue Falcone bianco

    Antonio Ligabue Falcone bianco

    Piccole colonie di betulle bianche
    sparse in alto lassù
    lungo le dorsali dell’Appennino.
    Giovani comunità cresciute
    tra le valli mentre intorno
    svettano faggeti e abetaie.

    Le incontro appena dietro una falsa cima
    e m’accorgo d’esserci dentro solo quando
    la luce è familiare,
    le foglie basse trattengono l’aria
    e l’eco di certe confidenze
    che avevo dimenticato tornano
    alla mente suggerite dai rami.

    Fuori, nel bosco dei sempreverdi,
    l’occhio resinoso delle cortecce
    osserva severo il viandante
    seduto a riposare un momento
    sotto le betulle bianche.

    *

    Si mostra di nascosto la natura
    e ciò che resta più in alto.

    Anche addomesticata la sua forza
    e dedotta dal caso la sua grazia,
    nella sua voce è un dire ch’è parola –
    la incontri nel folto del bosco
    se lasci alle spalle
    la favola del mondo.

    «Perché non sediamo tra i faggi
    e gli abeti, io e te l’un l’altro accanto?»

    *

    Riprendo in mano il libro del filosofo,
    il suo colloquio con le parole
    camminando per sentieri di montagna.

    La pagina si apre e lo sguardo
    si alza verso il vero e verso il paesaggio
    dov’è ancora visibile la lotta
    tra ciò che rimane e ciò che rovina.

    «Ma la parola è custode. Ascolta
    e ti indica dove guardare».

    Finalmente la pioggia viene
    sulla terra, sulle foglie e dove
    l’autunno distenderà a marcire.

    Rincasando in fretta chiudo il libro.
    Spegne l’eco del dire e presto la cenere
    del detto. Per oggi è conclusa
    la scuola del presentire.

    *

    Così vado attraverso la natura:
    senza toccarla, senza trattenerla
    seguo il sentiero che porta più in l’alto,
    risoluto alla ripida salita
    salgo fino alle cime, all’abbandono
    del riparo, all’esporsi dell’aperto.

    *

    Ora qui ci rincontriamo.
    Tra le parole, come in un bosco
    dove i faggi salgono diritti
    e le radure s’aprono cieche
    e l’incuria ha cancellato le carraie
    che dalle ultime case del paese
    vengono su.

    «Scrivi, Grisha. Credi alle parole,
    che tutto possano compiere, tutto
    accada nel loro presente».

    Immersa nel folto, questa pagina
    sia il luogo convenuto
    per il nostro appuntamento.

    *

    In quella casa accanto alla fontana
    passammo insieme un’estate tranquilla.
    Le bimbe raccoglievano nei prati
    certi rari fiori d’arnica bianca.

    Nelle ore più calde scendevamo
    nel greto calcinato del torrente.
    Oppure in mezzo ai boschi di nocciole
    cercavamo ramaglia da intagliare.

    Quando veniva la sera, sul colle,
    quel paese stretto al suo campanile
    bruniva al ridiscendere del sole
    oltre il profilo acuto del crinale.

    La notte, al sonno poi ci accompagnava
    il discorrere prossimo dell’acqua.
    Una luna silenziosa svoltava
    tra costellazioni ferme e serene.

    *

    In alto scuotono le foglie secche.
    Domani, l’ultimo colpo di vento,
    e poseranno altrove,
    cose tra le cose.

    Intorno, quasi addormentate, battono
    parole minerali, antichi salmi
    e anche noi ce ne andiamo per la via
    mentre già risuonano canti
    di radi profeti.

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    ITALIA IN GUERRA – Perché i titoli italiani ambiti dagli stranieri oggi scendono in borsa? Semplice, per farli diventare un affare, magari poi ricattandoci sulla legge di stabilità per obbligarci a privatizzare…

    italia guerra

    da scenarieconomici.it

    Tanto per parlare in modo comprensibile, oggi la borsa italiana è sotto forte pressione. Anche in modo ingiustificato direi, come abbiamo visto in passato, ad esempio le banche nostrane sono sotto attacco. Dico ingiustificato perché a guardare ad esempio Deutsche Bank molti dei nostri istituti dovrebbero essere in salita e non in discesa per come sono solidi. Ma la puzza di bruciato arriva anche e soprattutto da altre parti. Come ben sapete negli scorsi due anni abbiamo rilevato sui giornali come ci fosse enorme interesse per le aziende potenzialmente privatizzabili dallo Stato italiano, escludendo ENI che è intoccabile dagli europei senza l’avallo d’oltreoceano (vedasi le presidenze ENI degli ultimi 20 anni e capirete quanti e quali aderenze abbia il cane a sei zampe con gli USA), le due aziende in cima alla lista dei desideri continentali sono due, ENEL e Finmeccanica. Energia e difesa, due settori strategici. Sono due aziende che macinano fior di utili se comparate con i propri competitors, ENEL è certamente la miglior utility del continente e probabilmente del mondo mentre Finmeccanica è leader assoluto in settori strategici di difesa quali l’elicotteristica, i sistemi radar, il supporto alla la missilistica (…). La prima, ENEL, di interesse, tedesco, la seconda francese.

    Bene, sappiate anche che oggi Finmeccanica e ENEL stanno vivendo un momento di passione , titoli in crollo in modo veramente ingiustificato. E dico questo forte della comparazione con i titoli omologhi del settore ma di paesi limitrofi, Francia e Germania ad esempio.

     titoli 1

    Ricordo lo scorso anno quando per ottenere l’approvazione della legge di stabilità 2016 il governo italiano dovette scendere per ENEL, minacciata da Bruxelles, sotto il limite dell’OPA obbligatoria fissata al 30% in modo da renderla contendibile. E questo era un desiderata tedesco da tempo, fin da Fukushima quando improvvidamente Berlino decise di limitare la produzione nucleare in patria, con un crollo dei suoi campioni del settore. Ossia, ciò comportò la contromisura necessaria, ossia la richiesta al governo più filoeuropeo di avvicinare ENEL ai suoi campioni nazionali in forte crisi, per salvarli. Leggasi, una fusione o una acquisizione tout court. Il piano fallì solo lo scorso maggio quando il Governo ed ENEL si misero d’accordo per sviluppare la banda larga in fibra in Italia, di fatto allargando l’ambito della legge sulla golden share promulgata da Monti nel 2012 con ENEL che incredibilmente [ma solo fino ad un certo punto] prima ENEL non era coperta dal provvedimento. Da lì se ci pensate bene sono iniziati i guai per Renzi, un’escalation che non sembra destinata ad esaurirsi a breve, non prima della prossima decisione di Draghi di acquistare non solo bonds statali a mercato aperto il prossimo marzo (…).

    NON VA DIMENTICATO CHE ENEL E’ L’UNICA UTILITY MONDIALE DI UNA CERTA DOMENSIONE IMMUNE O QUASI DA UNA DISCESA DEI PREZZI DELL’ENERGIA A PREZZO FISSO VISTA L’ASSENZA DI GENERAZIONE A APPUNTO A PREZZO FISSO COME QUELLA NUCLEARE.

    titoli 2

    La seconda azienda oggetto di interesse straniero (francese questa volta) è Finmeccanica. Per questa azienda possiamo riportare storie al limite dell’assurdo quali ad esempio l’aneddoto di Nens, il think tank vicino a Bersani e Letta, che commissionò alcuni anni fa uno studio per capire come estrarre valore dal gruppo della difesa italiano. La conclusione fu che la dimensione era sotto quella critica in molti settori di attività per cui si consigliava di alienarne delle parti. Fin qui va bene ma attenzione ai dettagli: la consulenza fu data a tale Lisa Jeanne, ricercatrice francese di Science Po, ossia la scuola di geopolitica e dei servizi segreti francesi. Per intenderci la stessa università dove è andato ad insegnare Enrico Letta, da sempre beniamino dei galli in Italia. Ma la cosa veramente incredibile è che le conclusioni della Jeanne di fatto andavano nella direzione di vendere o fondersi proprio con aziende francesi….

    Avete capito la solfa? Negli scorsi anni non sono riusciti a soffiarcele, con Monti e Letta. Oggi il riottoso Renzi che non le concede è diventato scomodo, seguite i soldi per capire i motivi dei fatti apparentemente inspiegabili, non si sbaglia quasi mai. Renzi infatti ha capito che la forza sua e di conserva dell’Italia dipende dall’avere leve economiche. E le leve economiche della politica non sono nulla in assenza delle leve dell’economia reale in grado di rendere materiali i progetti e fin anche gli interessi (…). Dunque il primo ministro, scaltro, prima ha piazzato le sue persone a capo del sistema delle partecipazioni statali con un dettaglio ed una pervasività manichee, poi – ora – le ha dovute difendere dagli stranieri non tanto per interessa nazionale ma per suo diretto tornaconto (anche) politico, che poi la cosa andasse anche a difesa del Paese, beh, lo reputo un dettaglio.

    titoli 3

    Sta di fatto che oggi Finmeccanica ed ENEL sono sotto attacco e dobbiamo difenderle. Bene sarebbe dichiarare che tali aziende sono strategiche e non possono essere alienate al momento, possibilmente facendo entrare anche CDP in misura ridotta nell’azionariato con acquisti a mercato aperto. Ossia facendo quello che probabilmente mani interessate stanno facendo ora, approfittando del ribasso a parere di molti ingiustificato.

    I paesi europei che vorrebbero comandare l’Europa sono paesi che hanno sempre cercato di vivere – e per molto tenpo han vissuto – alla spalle degli altri, prima erano le colonie, poi i paesi conquistati nelle guerre. Oggi non possono più attingere alle colonie, in molti casi è diventato troppo complicato anche in forza del basso peso specifico europeo nella politica estera globale. E dunque si rivalgono su propri cd. “Partners” europei, da spogliare. Dunque attaccano – comprandosi le aziende e gli attivi – di Grecia , Spagna, Italia. Della serie, più indifeso e più ricco sei e più gli sforzi rischiano di essere ripagati, non ho mai visto dichiarare la guerra ad un paese povero che non ti attacca….

    il governo e la società civile italiana devo reagire, ne va del nostro benessere e della nostra esistenza come paese libero e democratico sebbene a sovranità limitata, quel che ne resta…

    Mitt Dolcino

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    IL 13 FEBBRAIO A ROMA in PIAZZA CAMPO DE’ FIORI ALLE ORE 17,00 SI SVOLGERÀ L’AZIONE POETICA MITOMODERNISTA “2016 EROICI FURORI” in MEMORIA all’EROISMO di GIORDANO BRUNO Con la poesia di Czeslaw Milosz “Campo de’ Fiori” tradotta da Paolo Statuti

    giordano bruno 17 febbraio 1600

    statua di giordano bruno Roma Campo de’ Fiori

    IL 13 FEBBRAIO A ROMA in PIAZZA CAMPO DE’ FIORI ALLE ORE 17,00 SI SVOLGERÀ L’AZIONE POETICA MITOMODERNISTA “2016 EROICI FURORI” in MEMORIA all’EROISMO di GIORDANO BRUNO.
    I POETI CHE PARTECIPERANNO ALL’AZIONE AVRANNO IN MANO UN LIBRO DEL FILOSOFO E SONO INVITATI A INDOSSARE PREFERIBILMENTE UNA TUNICA BIANCA
    L’AZIONE SI SVOLGERÀ ATTRAVERSO LA LETTURA DI TESTI SUL TEMA DELL’EROICO E DELLA FEDELTÀ AI PROPRI IDEALI IN UN’EPOCA DI TRASFORMISMO GENERALIZZATO E DI DECADENZA MORALE.
    CHI DESIDERA PARTECIPARE ALL’AZIONE È PREGATO DI INVIARE UNA EMAIL A grandtourpoetico@gmail.com
    NON È GRADITA LA PARTECIPAZIONE DI MAESTRI DELL’ADULAZIONE, CULTORI DELLA PIAGGERIA E VIGLIACCHI E/O VENDUTI A BASSO PREZZO.

    Su un’idea di
    Tomaso Kemeny, Paola Pennecchi, Angelo Tonelli, Pietro Berra, Flaminia Cruciani, Gianpaolo Mastropasqua.

    giordano bruno e Galileo vittime della conoscenzaIl Direttivo del Grand Tour Poetico

    Il 13 febbraio del 2016, alle ore 17, in Campo De’ Fiori a Roma, il movimento mitomodernista e i suoi alleati del Grand Tour Poetico celebreranno Giordano Bruno quale eroe della libertà di pensiero.
    Sono ancora accesi i roghi del settarismo dogmatico e del fanatismo istituzionalizzato, roghi su cui si fonda l’Impero del Brutto, un Impero che favorisce la sinistra certezza nel cuore e nella mente delle masse di non essere più in grado di costruire un avvenire. Esiliando la speranza dalle menti, l’Impero del Brutto le avvolge nelle tenebre portando i singoli a sottomettersi, costi quel che costi, all’utile immediato, utile che avvia la società e la stessa terra, giorno dopo giorno, alla rovina. La poesia e le arti possono sfuggire all’uso strumentale del lavoro e avversare la gran parte degli intellettuali che si sforzano di parodiare ogni proposta nella prospettiva della libertà creativa, finendo per azzerare gli effetti di ogni gesto disinteressato e costruttivo.
    I mitomodernisti e i loro alleati si rifiutano di accettare il mondo così com’è ed intendono compiere, il 13 febbraio, un’azione simbolica e pacifica con la finalità di rovesciare “Roma” in “Amor” per sollecitare lo spegnimento dei roghi che devastano la natura e le menti, per, invece, esaltare quella bellezza insurrezionale che apra alla gioia di vivere, di lottare, che apra a quella giustizia profonda e cosmica che sola può rappresentare un’alternativa radicale all’Impero del Brutto.
    giordano bruno film (scena a Venezia)

    giordano bruno film (scena a Venezia)

    Primavera Mitomodernista in Campo De’ Fiori a Roma (ore 17), 2016
    Azione dedicata al coraggio e al libero pensiero di Giordano Bruno
    Per l’occasione 9 pensieri come contributo alla nascita di una Bellezza insurrezionale.

    1. La poesia, al suo meglio, è energia di ricominciamento che permane verginale, non avvizzisce al tramontare delle epoche.
    2. La bellezza non è solo oggetto di nostalgia delle perdute armonie (di quelle classiche, rinascimentali, barocche, romantiche ecc. ecc.), ma è svelamento sconvolgente in grado di spalancare le porte del tempo allo splendore di un futuro possibile.
    3. Il movimento mitomodernista sfida gli “allegri becchini” impegnati ad evocare l’agonia della nostra civiltà, pronti a ridicolizzare ogni generoso tentativo di rigenerazione.
    4. Basta con la poesia dell’infelicità storica, intellettuale e personale. Basta con l’incapacità di amare senza nulla chiedere in cambio.
    5. Nel mondo taroccato di borse, nasi, seni e opere d’arte il cui unico valore consiste nel prezzo, la poesia sprigioni quell’energia metafisica, quella tensione simbolica che è all’origine di ogni civiltà e di ogni esistenza autentica.
    6. In un mondo dove domina la libertà di iniziativa e di speculazione, libertà intesa come successo sociale acquisito col denaro, ricordiamo come Dante ritenesse la libertà come il massimo dono di Dio alla natura umana e additiamo le parole di Catone (Purgatorio, 1, vv.71 -72) “libertà va cercando, ch’è si cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta”, per invitare a lottare con e per una libertà di pensiero alimentata dalla bellezza terrestre e cosmica.
    7. Se il pensiero etnocentrico ci radica nella terra dei padri, il pensiero mitico, circolare, unisce la varie etnie a origini comuni, riportandoci a una primigenia fratellanza.
    8. Contro le miserie della mediocrità e del risparmio quotidiano, ricordiamo Gorgia, il sofista, quando fa dire a Callicle che la bellezza dell’esistenza consiste nel “versare il più possibile”.
    9. Un pensiero è valido se diventa azione.
    Giordano_Bruno fotogramma del film 1

    Giordano_Bruno fotogramma del film

    Di statura bassa, di colorito scuro (almeno così veniva descritto), facile ad accendersi nelle discussioni e dispute filosofiche, il Domenicano osava sfidare la cultura ufficiale, sostenendo una teoria cosmologica, quella Copernicana, che lo stesso astronomo non aveva osato che presentare timidamente, come una pura ipotesi matematica, ben conscio a quali reazioni si sarebbe esposto, se avesse sostenuto fino in fondo la rivoluzionaria forza ideale intrinseca nella sua concezione Cosmologica.

    .

    Ecco la poesia di Czeslaw Milosz “Campo de’ Fiori” tradotta da Paolo Statuti:

    .

    “Campo de fiori”
    .

    A Roma in Campo de Fiori
    Ceste di olive e limoni,
    Selciato con spruzzi di vino
    E con schegge di fiori.
    Frutti rosati di mare
    Ammassati sui banchi,
    Bracciate d’uva nera
    Sulle pesche vellutate.
    Proprio su questa piazza
    Fu arso Giordano Bruno,
    Il boia accese il rogo
    Fra il popolino curioso.
    E appena il fuoco si spense,
    La folla tornò a bere,
    Ceste di olive e limoni
    Sulle teste dei venditori.
    Rammentai Campo de Fiori
    A Varsavia presso la giostra,
    Una chiara sera d’aprile,
    Al suono d’una gaia orchestra.
    La musica soffocava
    Gli spari dal ghetto,
    Volavano le coppie
    Alte nel cielo terso.
    A tratti il vento alle fiamme
    Strappava neri aquiloni,
    E la gente ridendo
    La fuliggine afferrava.
    Gonfiava le gonne alle ragazze
    Quel vento dalle case in fiamme,
    Scherzavano liete le folle
    Nella domenica festosa.
    Si dirà che la morale
    E’ che a Varsavia o a Roma
    La gente si diverte, ama
    Incurante dei martiri sul rogo.
    Oppure si vedrà la morale
    Nella fugacità delle cose
    Umane, nell’oblio che nasce
    Prima ancora che il fuoco cessi.
    Io invece pensavo allora
    A quelli che muoiono soli,
    Pensavo che quando Giordano
    Salì su quel patibolo,
    Non trovò nella lingua umana
    Nemmeno una parola
    Per dire addio all’umanità,
    L’umanità che restava.
    Già correvano a ubriacarsi,
    A smerciare bianche asterie,
    Ceste di olive e limoni
    Recavan nel gaio brusìo.
    E lui era già distante,
    quasi fossero secoli,
    La sua scomparsa nel fuoco
    Essi attesero appena.
    Di questi morenti, soli,
    Già obliati dal mondo,
    Anche la lingua ci è estranea,
    Come lingua d’antico pianeta.
    Finché tutto sarà leggenda
    E allora dopo tanti anni
    Nel nuovo Campo de Fiori
    Un poeta accenderà la rivolta.
    (1943, Varsavia)
    GB 1 Alchemico
    Dalla Storia della filosofia di Guido Ruggero Edizione Laterza

    .

    “Copernico per smorzare i contrasti scientifici e religiosi (previsti per la pubblicazione postuma di un suo libro) ne attenuava la novità, facendo della tesi eliocentrica una mera ipotesi al servizio del calcolo matematico. La teoria infatti ha avuto nei primi tempi una voga molto limitata, nella cerchia di pochi seguaci. Il suo più profondo significato anti aristotelico e la novità della intuizione del mondo naturale che vi era racchiusa non sono stati intesi che molto più tardi ad opera del Bruno e del Galilei.”
    Questo il motivo per cui, trascorso breve tempo dal suo arrivo, subito per il povero Bruno si rendeva necessaria un’altra improvvisa partenza.
    Se questa repulsione della cultura ufficiale nei suoi confronti, l’incomprensione dei dotti, chiamati con disprezzo “pedanti” da Giordano Bruno, saranno state, per il filosofo, fonte d’amarezza, servirono certamente a rinsaldare la sua fermezza nel difendere le proprie idee e a dare al suo pensiero quel carattere cosmopolita ed universale, che si rintraccia nelle sue opere.
    Questa particolare specie di “commesso viaggiatore della cultura” ebbe così l’opportunità di attingere personalmente alle principali fonti di conoscenza della sua epoca. Ragionò di filosofia e scienza con uomini sapienti che ebbe il piacere di conoscere personalmente.
    La sua formazione mentale ebbe l’intera apertura  del compasso, strumento che prediligeva fra tutti gli altri, come è dimostrato dai dialoghi che in numero di quattro scrisse su di esso.
    Da “Giordano Bruno e la tradizione ermetica” di Frances A Yates
    giordano-bruno fotogramma del film

    giordano-bruno fotogramma del film

    Edizioni Laterza anno 1980 – pag. 477

    .

    “Di giordano Bruno, per il quale una delle quattro guide dell’anima era la mathesis; (conoscenza-universale) che scorgeva significati ermetici nel diagramma copernicano; per il quale il compasso non era un compasso, ma un geroglifico.”
    Non meno importante, specialmente per noi Massoni, è l’idea che Giordano Bruno aveva della tolleranza:
    Marzo 1588 – Bruno lascia Wittemberg, dove ha preso il sopravvento l’intolleranza calvinista, per Praga. Formula in questo periodo il suo concetto di tolleranza. “La mia religione, scrive, di fatto è la religione della pacifica convivenza delle religioni, fondata sull’unica regola del mutuo intendimento e della libertà di discussione reciproca”.
    Uno spirito libero e pertanto disposto alla tolleranza e al rispetto alle idee altrui, ma pur sempre combattivo, pronto a difendere i suoi ideali contro l’ignoranza, l’oppressione, il potere costituito.
    Compresi dalla lettura delle sue opere che era un personaggio che nel linguaggio comune si usa indicare come: “scomodo”.
    Di questo dovevo prenderne atto; sosteneva le sue idee con tutta la foga di cui era capace, con tutto il lume della sua scienza oratoria. Non cercava di nascondere la natura del suo pensiero, di ispirazione ermetica ed egiziana, che le autorità religiose ritenevano libertino ed eretico, oscuro e demoniaco, contrario alle sacre scritture, condannato e perseguitato dalla “Santa Inquisizione”.
    Bruno agiva e pensava in contraddizione con una società,un mondo condizionato da effimere certezze,dove l’uomo e la natura erano murati, spenti e prigionieri della filosofia aristotelica e della astronomia tolemaica, che respingeva e paventava ogni anelito di liberazione.
    Non solo nascondeva questa potenzialità dirompente insista nelle sue idee, ma propugnava, auspicava, un cambiamento radicale delle coscienze come inevitabile e necessario per il bene dell’umanità e per il suo progresso.
    Bruno era l’araldo di una nuova mathesis del mondo, fondata sulla rielaborazione delle dottrine platoniche ed ermetiche, sulla rivalutazione della natura illuminata da una visione panteistica, magica e vitale.
    Le università, i circoli letterari e filosofici che lo ospitarono risuonavano della sua voce che portava la nuova novella. Un universo infinto, con innumerevoli mondi e soli e pianeti; contrapposto alla teoria geocentrica di Tolomeo che poneva la terra al cento e il sistema delle stelle fisse chiuso in un universo finito e limitato. Bruno aveva financo superato l’eliocentrismo copernicano, perché questo ultimo postulando la centralità del sole, aveva accettato il sistema tolemaico delle stelle fisse e quindi l’esistenza di un universo bloccato, finito e limitato.
    GB 5 egiziano
    Da De la causa principio et uno – di Giordano Bruno

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    “…se il punto non differisce dal corpo, il centro dalla circonferenza, il finito dall’infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo infirmare che l’universo è tutto centro; o che il centro dell’universo e per tutto e che la circonferenza non è in parte alcuna, per quanto è differente dal centro; o pur la circonferenza e per tutto, ma il centro non si trova in quanto è differente da quella.”
    Un’altra caratteristica peculiare del filosofo Giordano Bruno è l’estrema coerenza tra comportamento e ideali.
    Non vi erano fratture tra il suo modo di pensare e quello di agire. Un uomo che non si lascia facilmente inscrivere totalmente in questa o quella corrente filosofica, poiché aveva ideato dei mezzi propri di ricerca: liberatosi della coscienza ordinaria, tuffandosi a capofitto nell’inconscio e usando l’intuizione aveva raggiunto la luce di una coscienza sapienziale e magica. Uno spirito originale e libero che non scadeva mai nella declamazione retorica e nella pedanteria tanto contraria al suo spirito ed alle sue opere.
    Giordano Bruno aveva in uggia i pedanti fino alla nausea e nel suo “Calendaio” li espone all’ironia ed al  ridicolo.
    Così come irride alle forme allora in voga della magia superstiziosa e fattucchiera. Ma nella stessa commedia “Il Calendaio” traspare il suo estremo amore per l’umanità ed il popolo. Un amore profondo che nelle sue opere filosofiche si ritrova nei confronti della natura riscoperta e riabilitata.
    giordano bruno Magia è moltiplicare il dominio sul mondo

    giordano bruno Magia è moltiplicare il dominio sul mondo

    Da De la causa principio et uno – di Giordano Bruno

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    “TEO: se dunque il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose e secondo certi gradi empie tutta la materia: viene certamente ad essere il vero atto,  e la vera forma di tute le cose. L’anima dunque del mondo è il principio formale constitutivo dell’universo, e di ciò che in quello si contine. Dico che la vita si trova in tutte le cose, l’anima viene ad essere forma di tutte le cose: quella per tutto è presidente alla materia, e signoreggia nei composti, effettua la composizione e consistentia del le parti”
    Possiamo tranquillamente affermare: che contro la separazione della materia dallo spirito, operata dalla concezione scolastica, il nostro Bruno riafferma l’unità del creato, riabilitando la materia in cui si cela l’energia.
    Riaffiora qui la concezione gnostica e la filosofia delle antiche civiltà orientali: il concetto di energia che impregna l’intero universo e tutte le cose. Per Bruno tutta la materia è animata nel senso che in ogni cosa vi è il principio di energia e che quindi l’energia è creatrice di tutte le cose per trasmutazione.
    Riallacciandosi alla filosofia greca di Democrito afferma che gli atomi compongono la materia. Una visione che accanto all’idea panteistica della vita, pone le premesse per gli sviluppi della scienza futura.

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    Da De la causa principio et uno – di Giordano Bruno

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    “Cossì mutando questa forma sedie, e vicissitudine, è impossibile che si annulle: perchè non è meno subsistente la sustanza spirituale che la materiale. Dunque le forme esteriora sole si cangiano, e si annullano ancora, perché non sono cose, ma de le cose: non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze.
    Certo se de le sustanze s’annullasse qualche cosa, verrebbe ad evacuarse il mondo”.
    Questa affermazione preannuncia la legge di conservazione della massa, il fatidico “nulla si crea e nulla si distrugge” che nell’anno 1774  verrà comunicata dal chimico Lavoisier alla Accademia di Francia.
    E’ il principio di entropia applicato all’universo dall’astronomia moderna.
    Fratelli debbo confessarvi che in quel momento, sbalordito, mi chiesi: come aveva potuto, Bruno, senza disporre di validi strumenti per l’osservazione astronomica, senza la disponibilità di apparecchiature tecniche e scientifiche, precorrere nel 1500 la nostra conoscenza della fisica e della astronomia di cui siamo fieri? Come aveva potuto raggiungere dei risultati così avanzati per quei tempi?
    Da queste domande nacque una ricerca, i cui risultati mi gettarono nel più completo stupore.
    A me uomo moderno, innamorato della tecnologia, radicato mentalmente nel metodo e nel mito scientifico mancò, si fa per dire, la terra sotto i piedi.
    Bruno era pervenuto a queste rilevanti conclusioni senza l’ausilio di metodi  scientifici, ma esclusivamente usando un’antica scienza, praticando un’arte introspettiva che ben poco ha in comune con la scienza tecnologica odierna.
    Si trattava della scienza esoterica e simbolica dell’ermetismo, della quale anche noi massoni ci occupiamo, da cui dovremmo essere particolarmente attratti, che dovremmo usare negli architettonici lavori, per il nostro perfezionamento interiore.
    GB 4 cosmo
    I
    Giordano Bruno questo essere animato da un’insaziabile sete di conoscere che lo sospinge ad esplorare i confini misteriosi di un’antica sapienza. Un uomo teso, proiettato verso il futuro, ma che però affonda le radici del proprio essere nell’humus vitale di un lontano passato.
    Archeologo di una sacra scienza tradizionale, che illumina e risveglia con il linguaggio misterico dei simboli, con l’armonia cosmica risonante nelle cattedrali. Musica silenziosa di pietra e sangue, che seduce e trascolora chi l’ascolta.
    Ricordate Fratelli il Tempio? Questo luogo sacro su cui si aprono i cieli? Pensate per un momento all’iniziazione al grado di compagno. Ricordate a settentrione si legge su un quadro la scritta: MOSE’ – PLATONE – ERMETE TRSIMMEGISTO – PITAGORA – PARACELSO.
    Questo il filo conduttore della maestria, questi i veri e soli Maestri che uniscono Bruno e noi alle epoche d’oro della conoscenza. Un sapere universale che sembra non possa essere imprigionato in confini geografici, ne risente dello spazio temporale. A questa fonte hanno attinto uomini diversi, per tempi, nazionalità e cultura. Un fiume luminoso che nei millenni, dai lontani giorni di costruzione delle piramidi discende fino a noi e lambisce le porte di questo Tempio.
    II
    Ma nelle opere di Giordano Bruno, nel suo metodo di ricerca vi è, Fratelli, un motivo l’avvicina, l’accumuna a noi. Raggiunse la conoscenza, l’illuminazione questo mago rinascimentale, attraverso il simbolismo trasposto nell’arte della memoria.
    Che cosa è l’arte della memoria? Un sistema usato dai Greci per pronunciare lunghe, complicate, declamazioni. L’oratore, memorizzava le varie parti del discorso in diverse stanze di un simbolico edificio e, ricordando progressivamente e con una precisa sequenza ogni stanza, contenente la propria parte  di discorso, esponeva l’intero argomento in un perfetto ordine e senza dimenticare nulla. Dalla Grecia il sistema passò a Roma ed anche nel Medioevo fu molto usato.
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    Da Giordano Bruno e la tradizione Ermetica di Frances A Yates pag. 296 – Edizione Laterza 1981

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    “La cosa più importante nella concezione di Bruno, era di trovare immagini, segni, “voci”, sigilli viventi che potessero risanare la frattura prodotta dai pedanti nei mezzi di comunicazione con la natura divina, e, una volta trovati questi mezzi viventi di comunicazione (o dopo averli impressi nella coscienza durante esperienze estatiche) unificare tramite essi l’universo quale si riflette nella psiche, acquisire conseguentemente i poteri magici e vivere la vita di un sacerdote egiziano in comunione magica con la natura. Nel contesto di questa concezione incredibilmente strana, un procedimento come quello descritto nel “de umbris idearum” la fissazione nella memoria dei domini decani – risulta -, se non proprio chiaramente intellegibile, quanto meno coerente con la logica del sistema”.

    .

    Da Giordano Bruno e la tradizione Ermetica di Frances A Yates pag. 221 – Edizione Laterza 1981

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    “Imprimendo nella memoria le immagini celesti, le immagini archetipe del cielo che sono ombre vicino alle idee del mens divina dalle quali dipendono tutte le cose inferiori, Bruno spera, così almeno mi sembra, di conseguire questa esperienza “egiziana” di divenire, in senso veramente gnostico, l’Aion che racchiude in sé i poteri divini. Imprimendo nella fantasia le figure zodiacali, si può ottenere il possesso di un’arte figurativa che assisterà meravigliosamente non solo la memoria, ma tutti i poteri dell’anima, “quando ci si conforma alle forme celesti” si arriva dalla confusa pluralità delle cose, all’unità che esse sottintendono. Poiché, se le parti delle specie universali non vengono considerate separatamente, ma in rapporto all’ordine implicito che le collega, quali cose mai non riusciremo a comprendere, a memorizzare e a fare?
    Il sistema magico bruniano della memoria è perciò rappresentativo della memoria di un mago, di uno che conosce la realtà oltre la molteplicità delle apparenze, avendo conformato la propria immaginazione alle immagini archetipe, e che grazie alla sua penetrazione della realtà, ha conseguito anche poteri operativi.
    Bruno non usò l’arte della memoria nella sua funzione solamente mnemotecnica, ma elaborò attraverso essa un sistema per potenziare la mente, attraverso l’uso del simbolismo insito nello zodiaco, cercò di scatenare le forze dell’inconscio per arrivare alla conoscenza”.
    Il Tempio Fratelli può essere visto ed usato proprio come un teatro della memoria. In esso vi sono inscritti i segni zodiacali, i simboli, i passi, le parole, le latenze, le pause o profondo silenzio, cose tutte che percepite nel profondo del nostro essere diverranno parte integranti di noi stessi, del nostro sangue e della nostra carne, del nostro spirito. E allora può anche accadere il miracolo che questo teatro che sembra immoto, si animi e diventi vivo e parlante.
    E’ la rubedo degli alchimisti, l’illuminazione dello yoga. Il compimento tanto agognato dell’opera. La piccola scheggia di materia che noi siamo, la stella fiammeggiante, improvvisamente si accende del lume della conoscenza e la riverbera.
    GB 8 Rosacroce
    Da: L’Arte della Memoria di Frances A Yates pag. 281 – Edizione Einaudi 1972

    .

    “Cosa dobbiamo concludere sulla straordinaria sequenza delle opere di Giordano Bruno sulla memoria? Esse si legano tutte strettamente l’una all’altra. Si intrecciano fra loro. Ombre e Circe in Francia, Sigilli in Inghilterra, Figurazioni nel corso della sua seconda visita in Francia, Statue in Germania, Immagini, l’ultima opera pubblicata prima del suo fatale ritorno in Italia: sono tutte tracce del passaggio attraverso l’Europa del profeta di una nuova religione, che trasmette messaggi in codice, il codice della memoria? Tutta l’intricata didattica della memoria, tutti i vari sistemi sarebbero delle barriere erette a confondere i non iniziati, ma in grado di indicare agli iniziati che, dietro a tutto questo, c’era un Sigillo dei Sigilli, una setta ermetica, forse persino una organizzazione politico religiosa”.
    “Nell’altro mio libro su Bruno ho attirato l’attenzione su certe voci secondo cui avrebbe fondato in Germania una setta, detta dei Giordanisti, formulando l’ipotesi che essa possa avere avuto qualcosa a che fare con i  Rosacroce, la misteriosa confraternita della Croce Rosa, annunciata dai manifesti n Germania agli inizi del secolo XVII, attorno alla quale si sa tanto poco che alcuni studiosi concludono che non sia mai esistita.
    E’ un problema ancora irrisolto. Ci sia stato qualche legame o no con questi Rosacroce, di cui si vocifera siano stati le origini della Massoneria, di cui si sente parlare come Istituzione in Inghilterra, per la prima volta, nel 1646, quando venne fatto massone Elias Ashmole.”.
    “Bruno comunque diffuse le sue idee sia in Inghilterra, sia in Germania, sicché i suoi movimenti potrebbero essere considerati una fonte comune al Rosacrucianismo ed alla Massoneria.
    Le origini della Massoneria sono avvolte nel mistero, sebbene le si voglia far derivare da corporazioni medioevali di muratori operanti cioè costruttori effettivi. Nessuno è riuscito a spiegare come queste corporazioni “operanti” si siano trasformate nella Massoneria speculativa, e l’uso simbolico delle immagini architettoniche nel Rituale Massonico.
    Questi argomenti sono stati il fertile terreno di caccia di scrittori dall’immaginazione sbrigliata, con scarso freno critico. E’ tempo che siano esaminati con metodi adeguati di critica storica e ci sono indizi che questo tempo si stia avvicinando”.
    “Nella prefazione ad un libro sulle origini della Massoneria si afferma che la sua storia non dovrebbe essere considerata come una cosa a parte, ma come una banca di storia sociale, lo studio di una particolare istituzione e delle idee che le stanno alla base “che deve essere studiata e descritta esattamente secondo il metodo della storia delle altre istituzioni”.
    “Dove mai si ritrova una simile sintesi di tolleranza religiosa, di solidarietà psicologica col passato medievale, di esaltazione delle buone opere, di adesioni entusiastica alla religione ed al simbolismo degli Egiziani?
    L’unica risposta a questa domanda che mi venga in mente è: nella Massoneria, con il suo mitico collegamento con i muratori medievali, con la sua tolleranza, la sua filantropia, il suo simbolismo egiziano.
    La Massoneria come istituzione ben caratterizzata, non appare in Inghilterra che agli inizi del XVII secolo, ma certamente essa ebbe precedenti che risalgono molto indietro nel tempo, sebbene sia questa una materia estremamente oscura. A questo proposito brancoliamo nel buio, fra strani misteri, ma non possiamo fare a meno di domandarci se non sia stato proprio fra gli Inglesi spiritualmente insoddisfatti i quali trovarono nel messaggio “egiziano” di Bruno qualche motivo di sollievo, che i temi del Flauto Magico risuonarono per la prima volta nell’aria”.

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    GABRIELA FANTATO – SETTE POESIE INEDITE da  “Interstizi”  e SEI POESIE da “L’estinzione del lupo” (Empiria, 2012) con uno stralcio della Prefazione di Elio Pecora

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    Gabriela Fantato. Poetessa, critica e saggista, tradotta in inglese, francese, arabo e spagnolo. Suoi testi sono compresi nell’antologia: Nuovi poeti italiani 6 (Einaud, 2012) e in “Almanacco dello Specchio”(Mondadori, 2009), con il poemetto A distanze minime. Raccolte poetiche: L’estinzione del lupo ( Empiriua, 2012); The  form of life,  bilingue, traduzione E. Di Pasquale (Chelsea Edition, New York, 2012).Codice terrestre, (La Vita Felice,2008); il tempo dovuto, poe­sie 1996-2005 (editoria&spettacolo,2005); Moltitudine (Marcos y Marcos,2001); Northern Geography,traduzione E.Di Pasquale (Gradiva Publications, University of New  York, 2002); Fugando (Book editore, 1996). Per molti anni ha diretto la rivista “La Mosca di Milano”, codirige: Almanacco di Poesia PUNTO e la collana  poetica SGUARDI (La Vita Felice). Ha scritto testi in versi per la musica, andati in scena nei maggiori teatri italiani (Piccolo Teatro di Milano, Arena di Verona, Teatro Comunale  di Trento, Teatro  Giacosa di Novara, Filarmonica di Roma, Donizetti di Bergamo).

    Gabriela Fantato

    da  Interstizi (raccolta inedita)

    Perdersi

    Indietro – hanno lasciato alle spalle
    la dedizione, la cura meticolosa
    dell’umano.
    L’antico gusto di specchiarsi,
    del mai dimenticarsi
    – centro nel cerchio di onde attorno.
    Sono solo ora pronti a sciogliersi,
    disfarsi di cellule in altre cellule,
    come lo zucchero si perde per trovare
    un’esistenza nuova, un suo destino
    dentro – l’acqua.

    In avanti

    Dissennati, avevano corso in avanti
    sino al punto in cui
    voltarsi era – partita persa, inutile lo sforzo.
    Restava solo procede oltre,
    stanza dopo stanza,
    ficcarsi a imbuto nella casa,
    fissarsi precisi
    nella vita.
    Attraversare la corrente senza appigli,
    si trattava di esplorare il vuoto,
    in bilico con un piede qui e
    uno là, più oltre… avanti.
    Sospesi nel passo a venire,
    enorme o solo piccolo,
    quasi solo un saltello a lato.
    Avanzavano incerti della meta.

    Il compito

    Alcune specie animali si riproducono
    per frantumazione – di uno, due.
    Altri duplicano
    la parte terminale del loro corpo
    e danno così seguito alla vita.
    Solo nei millenni gli esseri
    mutano davvero, dice la genetica.
    Gli umani non sanno che
    ogni loro nascita è
    – un taglio, fine della volontà di potenza.
    Sparizione.

    Figli

    I figli vanno dove nessuno sa,
    vengono da un incontro
    di cellule, dal caso o da un destino .
    Il compito resta ancora
    sfuggire le trappole
    – dissodare il terreno
    con la testarda determinazione
    di chi semina fagioli,
    ogni anno a marzo.

    Lineare

    Disegnare un cerchio senza saperne
    il diametro esatto, senza
    lo spazio da occupare nella vita,
    – sarebbe possibile,
    come fare arcate, finestre e
    grandi porte alzate
    in verticale tra muri e muri
    del perimetro che resta.
    Seguiamo la punta dell’indice,
    la direzione, nonostante il limite,
    e … tutto il resto.

    La vita

    Si sa che la vita cresce
    solo se il terreno è ricco d’acqua,
    dove vengono il sole e il vento
    a portare tramontana, poi le cicale
    e le formiche rosse.
    La vita cresce se restano
    qui e là segnali per il dopo.

    Duplicazione

    Dicono che mossi
    dai corpuscoli di Krauser
    maschi e femmine si cerchino
    con foga, sorridono
    – si promettono l’eterno.
    Celata è la legge elementare
    di farsi vita in altri, un sogno nuovo
    da tenere e dare
    al prossimo che avanza.

    pittura Balthus la chambre (1954)

    Balthus la chambre (1954)

    da “L’estinzione del lupo” (Empiria, 2012)

    dalla Prefazione di Elio Pecora

     Gli anni sono quelli «dei sogni, degli errori e di molte sconfitte» della generazione del ’76. La città è la Milano delle case delle ringhiere, case ottocentesche «con la muffa ovunque / e il cesso fuori al piano, dietro una porta». La voce che racconta scende dentro se stessa, raggiunge la sua grana, si ascolta partecipe e accoglie tante altre voci in una pacatezza trovata dopo l’inquietudine. La parola pulita, densa, aderisce al suo significare. Non v’è nostalgia, è negato ogni ritorno. Tutto si mostra come dietro un velario, di chi guarda lontano in una luce tenue.

    Gli adolescenti di quegli anni leggono Foucault, Lukács, Marcuse, si preparano «uniti e nudi» al «nuovo», si promettono «la fine dell’ingiustizia». Chi di loro vede la città che si trasforma, «le fabbriche attorno all’ombelico, / alte come guglie del duomo, / sparse dentro i campi come figli / in cerca di fortuna»? Chi ascolta il silenzio che cumula paure in quella «giovinezza intatta»? Il tono potrebbe tingersi di elegia se, di fondo, non vi fosse un istinto innegabile a guardare oltre il vuoto e dietro la luce. L’esito è dello svelamento onestamente cercato, di quell’onesta che Saba chiedeva alla poesia: «Noi avevamo in bocca tante voci / e nelle mani doni pronti per il dopo, / quei sogni che non tornano / mai esatti», e ancora: «È stato veloce perdere tutto / uno slittare via di lato / di un’intera generazione. / Farsi togliere tutto è stato facile / come nessuno sa, / come neppure è scritto nelle fiabe».

    Nella seconda sezione, La città sparita, pure nella grazia del ricordo, nella tenerezza del ritorno ai luoghi amati, il sentimento del tempo chiude quel che è stato in una malinconia che comprende la «gioia grande del dimenticare». Ed è il presente, con le sue pene e i suoi errori, a prevalere fino a dire: «Prendo la vita / a morsi piccoli ogni volta, / ho un coltello dentro questa nebbia / e non si vede / lo nascondo nella voce», fino a mutare in viatico le parole “anteriori”, le stesse necessarie alle «evidenze». Queste, che danno il titolo alla terza sezione, si riducono alle fatiche e agli «eroismi» della giornata, e insieme promuovono una diversa sapienza: «Conosco il passo cadenzato, / la marcia, la fuga / – il ritmo dell’uomo che vive / sulla terra. / So l’assenza e la presenza, / l’ostinazione del nome / e il debito mai saldato». Perché, dopo la delusione e la perdita, è una conquista ridare nome agli oggetti e alle persone, per un nuovo alfabeto. Così che: «ll conto ti prende all’improvviso, / come una colpa. / Esistere davvero».

    gabriela fantato 2010

    gabriela fantato 2010

    I
    Nel muro di casa, nelle parole
    nell’eco che le apre e le scompiglia
    cercavamo salvezza e punizione,
    nel pungere – esatta la vita
    e amarla sino alle ginocchia,
    dove si fa veloce la corsa
    sapevamo la gioia di un abbraccio.
    Come stranieri abitavamo il paese che
    ci eravamo presi in sorte
    il doppio dentro le lenzuola,
    la casa degli specchi nel destino da rifare.
    Senza porte, senza soldi, senza più
    cognomi, solo un pronome
    noi, ma preso in prestito
    lì per lì.

    II.
    Il salto imparato almeno una volta
    oltre la voce dei padri
    e il tenere stretto di una madre,
    oltre il buio negli occhi
    nelle vie a incastro dentro
    il labirinto di Milano
    piccolo tesoro da salvare agli anni.
    Era quella l’uva, quello il sole che la prende
    nel palato e la voce dei ragazzi
    in un’estate del settantanove
    dentro la storia, dentro questa città
    e si faceva piano piano
    – notte.

    III.
    Eravamo stretti al fianco,
    in meno di venti, eravamo
    molto più di un esercito di sogni
    – la casa occupata, scale da salire,
    tutti i destini chiusi nel cassetto
    e i gatti da tenere a bada.
    Un gran discutere,
    un fare a gara e alzare le colline
    dentro il cemento
    un paese solo di cortili,
    case di ringhiera con il capolavoro di chi
    ci vive dentro
    (fuori le sei meno venti e ancora
    non dicevamo chi
    era stato scelto per parlare in assemblea).

    IV.
    Al primo piano da una finestra
    incastrata tra le altre
    la signora Anna vedeva il nostro
    sciogliere le reti,
    intrecciare logica e spavento
    nella furia delle stanze,
    dentro le pagine bianche
    in cui tenevo stretta la mia fuga
    come un’estate venuta troppo presto.
    Mi dicevi inventiamo il mondo
    nella lirica del pane, nel rosso del sangue
    facciamolo ora,
    come se fosse tutto vero, come se

    V.
    Era così facile il racconto,
    facile entrare nelle trattorie,
    bersi il novello o un amaro
    tra Ticinese e corso Garibaldi
    dove c’era un palazzo per noi.
    Chi era stato dentro quelle stanze
    prima del sogno dentro i libri,
    la cicatrice nella mano…
    Era solo nostro l’abitare
    senza cesso, senza le spalle alte di mio padre
    e la casa in smottamento,
    dentro l’imponenza di nobiltà lombarda
    la muffa vien giù dal tetto.

    VI.
    Qualcuno nuovo entrava nel palazzo,
    c’era chi veniva via dopo poco,
    uno si fermava lì
    – non partirà mai più,
    lo sapevo, come chi ha fretta
    dentro i giorni senza fiato.
    Si restava lì – uniti e nudi,
    senza saperlo,
    come me che tenevo gli angeli
    dipinti sopra il letto
    e davanti solo un cassettone
    di fatica.
    Poi molti sono finiti male,
    una fine che a volte prende
    all’improvviso.

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    INTERVISTA a ELIO PECORA (1936) a cura di Giorgio Linguaglossa – “La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo?”,   “la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia”, “Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza” “La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii  beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento“, “la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato” – con un Commento impolitico  dell’intervistatore e una scelta delle poesie dell’autore da “Simmetrie” (2007)

    foto donna sale le scale

    Commento impolitico  di Giorgio Linguaglossa

    Il percorso poetico di Elio Pecora ha inizio nel 1970 quando pubblica la raccolta d’esordio La chiave di vetro. Degno di nota il semantema simbolistico di quel titolo che ammiccava a una civiltà che non c’era più, che aveva riposto nel deposito bagagli smarriti ogni riferimento simbolistico. E non è casuale che Elio Pecora peschi proprio nel bagaglio simbolistico per il titolo della sua prima raccolta. I titoli sono importanti, sono sempre significativi di un percorso e di un progetto; e in quella specificazione di «vetro» c’era già tutta quanta la fragilità di quella «chiave» che mondi avrebbe dovuto aprire. Se non che quel mondo simbolistico era scomparso da un pezzo, spazzato via dalla contestazione del ’68 e dalla iperattività della neoavanguardia letteraria che occupava quasi tutto lo spettro di «nuovo».   Nel frattempo il boom economico si è arrestato, l’Italia  subisce l’invasione delle fiat Cinquecento, delle lavatrici, dei frigoriferi per tutti, inizia la balneazione di una popolazione  che si è trasformata in piccola borghesia rapace e rampante; si va tutti in villeggiatura al mare  mentre la classe operaia va in paradiso e il partito comunista sta all’angolo con le sua parole d’ordine diventate inutili. Nel frattempo, sia il romanzo che la poesia rinunciano alla rappresentazione di una società in rapido e tumultuoso cambiamento. Con Trasumanar e organizzar (1968) Pasolini abbandona la poesia al suo destino e si dedica al cinema, al giornalismo; Montale nel 1971 pubblica Satura, opera di svolta della sua poesia e della poesia italiana ed adotterà un linguaggio para giornalistico; scende dal podio simbolistico e si ritira nel suo olimpico scetticismo domestico. Questo è il quadro macro storico. Nel piccolo microcosmo della poesia italiana avviene una mutazione genetica, una mutazione che va di pari passo con la mutazione antropologica di cui parlava Pasolini. E la poesia si appresta a diventare una pratica di massa.

    Quelle del giovane Elio Pecora sono poesie che abitano il registro colloquiale, il piano basso, il bisbigliato, una versificazione che appare antica per quel suo passo ritmico e cadenzato, fatta di suoni di quantità in delicato equilibrio, con cadenze interconnesse e ritmi apparentemente stabili ma che in realtà stanno appena al di sopra dei sommovimenti equorei  profondi della poesia di quegli anni. Una poesia dove il silenziatore ha una funzione dominante. Una poesia senza stacchi, acuti, o suoni sopra le righe del pentagramma, ma ritrosa e intima, che sembra non conoscere modellizzazione privatistica e invece è sapientemente elaborata in vista di una voce bisbigliata e sommessa. Ecco, possiamo dire che a questo registro minimo la poesia di Elio Pecora è poi rimasta fedele in tutto l’arco della sua produzione fino ai giorni nostri. Una poesia che si è mossa, come una invariante, fin dall’inizio, nel solco della continuità, ma senza essere conservativa, nel solco di una modernità che non equivaleva a modernizzazione, tantomeno forzata e sopra le righe come era in auge in quegli anni che ben presto divennero di «piombo». Una continuità che filtrava la poesia di Saba e Penna mediante il Pianissimo di Sbarbaro. Insomma, Pecora si ritagliava un suo Novecento e ripartiva da lì, da dove la poesia italiana si era interrotta e incagliata, ripartiva da una zona non ancora esplorata. E forse questo è stato ed è il merito della poesia di Elio Pecora: l’aver intravisto con chiarezza la direzione da intraprendere sin da subito, sin dal 1970. Un discorso poetico ricco di piccolissime cose, minuzie, amnesie, ricco di ombre e in chiaroscuro «come cartoline di saluti, come telefonate frettolose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe» (da Simmetrie, 2007).

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    Elio Pecora

    Intervista a Elio Pecora di Giorgio Linguaglossa

    Domanda: Il tuo primo libro è La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo? In quel volume c’è in nuce una voce nuova di un poeta che prende le distanze dalla poesia dell’opposizione, dalla poesia d’impegno, ideologica e sperimentale di quegli anni. Possiamo dire che il tempo ha dato ragione alla tua poesia; la poesia che allora era in voga è stata dimenticata mentre  la tua poesia all’apparenza così esile e fragile oggi torna ad essere apprezzata.

    Risposta: quel mio primo libro, che veniva da anni di letture, dai miei diari di ventenne, e da personalissime macerazioni, avevo dato un titolo che tuttora ritengo il più esatto ” Narciso in pensiero”: perché quell’io,  nell’attenzione alle proprie storie e al mondo che lo accoglieva e imprigionava,  poneva insieme consapevolezza e smarrimento. Ma l’editore Cappelli, che mi contentò nelle cure particolari del volumetto, chiese insistentemente un titolo diverso da quello che gli suonava “intellettualistico”. Seppi  tempo dopo che “La chiave di vetro” era anche il titolo di un famoso romanzo poliziesco di Hammet. Invece lo inventai guardando i dipinti di Magritte e decisi per quella chiave  trasparente, perché credevo, e credo, che l’uomo possa rispondere alle domande che lo inquietano e lo accompagnano solo se  mette in conto i limiti di ogni possibile risposta; e pure seguita a cercare la verità adoperando i suoi strumenti tutti assai fragili. Ho derivato questo modo di essere e di vedere,  prima di ogni scrittura, dai miei amati presocratici, in seguito ripensati  nelle analisi abbaglianti di Giorgio Colli,  e da Nietzsche che intravede nuove misure dell’esistere, più tardi da Bertrand Russell, dai diari di Max Frisch,  dalle percezioni affilate di Virginia Wolf, ma anzitutto  dal Leopardi che, nella mia prima adolescenza, mi si è presentato come il più alto e intimo riferimento.  Peraltro, nel tempo del mio primo libro,  mentre ero molto preso dagli scritti  di Freud  avevo stretto una forte amicizia con uno  psicoanalista tedesco, venuto a Roma per scrivere un romanzo, e di cui fui, per alcuni mesi, ospite in Baviera, in un paese di nevi,  dove  scrissi “Narciso in pensiero”  assiduamente riflettendo sul narcisismo e discutendone animatamente con il mio ospite.

    Domanda: Alcuni critici affermano che nel secondo Novecento, dopo Laborintus (1956) di Sanguineti  e La Beltà (1968) di Zanzotto la poesia lirica ha esaurito la sua spinta propulsiva e che oggi si scrive una poesia non più lirica, una sorta di esperanto narrativo con degli a-capo. Qual è la tua opinione?

    Risposta: Non ho esitazioni nell’affermare che la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia, malattia che sta fra la pavidità e la cecità. Ed è condizione ben grave se  porta a riparare in sentenze scheletrite e ad arroccarsi in un passato di comodo,  già  tutto codificato,  dunque impossibile (per inerzia e pavidità) da ricollocare fuori di codici scontati e di facili nostalgie.  Rifugge insomma dal  rischiare nel presente più attentamente guardando e vagliando. (Non è casuale che il poco della migliore poesia delle generazioni più giovani propende all’elegismo.) Mi chiedo se  in un paese sfiduciato e depresso, proprio la poesia,  musa appartata e  fuori dell’utile, possa  essere data ancora per viva?  (A un osservatore attento non può sfuggire che gli stessi esegeti delle fini e degli esaurimenti, si contraddicono ogni volta in cui  dispensano  riconoscimenti anche eccessivi e rilasciano indubbi certificati di esistenza a singoli poetificanti. Quanto poi all”’esperanto narrativo con gli a capo”, di sicuro è fenomeno dovuto al “vogliamo tutto”, da cui “possiamo tutto”,  innescato  da   contestazioni affrettate e insensate in decenni ormai lontani.

    elio pecora SimmetrieDomanda: Alcuni critici affermano che dopo il ’68 la poesia si è democratizzata, è diventato più facile scrivere poesia, tutti scrivono poesia che sembra  una pratica di massa, una scrittura facile, alla portata di tutti,basta andare a capo ogni tanto. Non ci sono più regole, non c’è più un Canone, sembrano scomparsi i modelli narrativi e poetici, e la valutazione critica sembra un atto casuale o, al più, arbitrario. Qual è la tua opinione?

    Risposta: La storia non insegna, ma fornisce esempi ragguardevoli. Vi sono epoche in cui il nuovo consiste quasi solo nel respingere  il passato e non solo per quel che è obsoleto, ma anche per  quel che renda possibile la qualità nella prosecuzione.  S’abbuia la memoria, s’annientano i confronti. Si ritiene che solo da una “completa” libertà, intesa come spoliazione,  possa scaturire il meglio e il necessario. Basti ricordare  che, nei decenni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale, è emersa una massa informe che ha chiesto quanto prima gli veniva negato: a una tale massa è stata riconosciuta non più di una confusa apparenza. Nella confusione è passato e passa di tutto e la stessa autorità crtitica è venuta meno: così ciascuno gioca  a suo modo. A questo punto il critico, sfiduciato e scontento, si concilia con se stesso inserrandosi in un recinto di negazioni e rischiando l’asfissia.

    Domanda: Nel 1987 esce il tuo libro Interludio con l’editore Empiria di Roma. Ricordo che all’epoca, quando lo lessi,  fui colpito dalla nudità del tuo modo di parlare in poesia, come di un colloquio che si svolge in un territorio non più sacro ma ridotto allo stato laicale, come indica il titolo, tra due ludi, due festività del gioco, un parlare sommesso con una voce esile che si compie in un terreno sconsacrato. Quel parlare che tu hai continuato a coltivare come essenza della poesia: un dialogo, un colloquio, o meglio, un soliloquio in una stanza. È questo, credo, il timbro riconoscibile della tua poesia. Da quella data la tua poesia trae le conseguenze della propria imperturbabilità pur nel caos degli avvenimenti della cronaca e della storia. È una lettura corretta della tua poesia  o ho preso un abbaglio?

    Risposta: Hai letto come meglio non posso augurarmi. Dici del tono nudo e sommesso. L’ho già più sopra accennato. Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza. La poesia non è mai gridata e quando lo è suona di enfasi, di atteggiata. Vale anche per quella che definiamo epica. Gigalmesch,  Ulisse, Macbeth, Faust ci chiamano dalla loro parte soprattutto quando trovano gli accenti della verità, e questa non può essere esclamata, ma  solo accennata così come Eraclito dice della  Sibilla, che accenna non dice.  Non  convince l’eccesso del tono, la manifestazione recitata del vigore. Ho sempre sentito, fin dall’infanzia, che le parole durevoli sono quelle pronunciate con voce ferma, pacata;  perfino la bestemmia e l’insulto, detti sottovoce, fanno  maggior  male. Finanche il dolore si rivela profondo e immedicabile solo quanto svela e rivela con parole nude e chiare, anche solo mormorate.  Come per la  musica, quel che fa straordinaria una voce  è, così come annotava Roland Barthes,   la sua “ grana”  fatta di testa e di  ventre, di ragione e di sentimento, e tutto questo non può raggiungere la giusta espressione se non nella dovuta misura. La poesia, vado ripetendolo in diverse scuole, non è spontaneità e immediata emozione, non è  facile cronaca,  ma ricreazione di  queste  in un altrove che, al di fuori di quel che chiamiamo realtà, pure della realtà consiste e la significa. Da ciò la mia “ imperturbabilità”.  

    elio pecora POESIE 1975 - 1995Domanda: Recentemente tu hai scritto: «Verso che stiamo andando? E sarebbe da rispondere:  da che veniamo?», mettendo in un certo modo il punto sulla questione della nostra contemporaneità. Il mondo che è rimasto orfano delle «Grandi narrazioni» sembra condannato, scriveva Montale, alla «balbuzie» a quel «mezzo parlare» che il poeta ligure aveva intravisto già all’inizio degli anni Settanta. Oggi veramente non si chiede più nulla al poeta e alla poesia? Qual è la tua opinione in proposito?

    Risposta: La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii  beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento,  corpuscolo fragile e infinitesimo in un fluttuare di universi infiniti. Conclusi gli ardori romantici, traversate guerre spaventose  e rovine tremende, l’uomo ha da accettare una nuova misura di sé, sapersi fragile e breve,  e in tale misura bastarsi e riconoscersi. Ma questo  lo antivedeva, già nel primo Ottocento,  il Copernico leopardiano. Può questo uomo ancora dare e dire molto , proprio  dopo  una  trasformazione travagliata e pure aperta a nuove crescite, in special modo della psiche. Hilman ha scritto che gli dèi camminano ancora fra noi e certo i sentimenti che li significano e gli umori che li contraddistinguono tuttora ci nutrono e ci spingono, Poeti come Brodskij e come Walcott non hanno dubitato e non dubitano della presenza della  poesia. ( Scendendo nelle giornate di tutti va ricordato che, mai  come in questi anni e in Italia, è cresciuto a dismisura il numero di coloro che scrivono versi e versicoli, oltre a prose più e meno sgangherate, svendendole per poesia. Se una tale proluvie di libri e libretti denuncia il poco e il niente che li produce, questa stessa proluvie dimostra quanto tuttora valga l’illusione e la speranza di affidarsi, in un universo di chiacchiere, a parole durevoli. E questo prova quanto sia viva e più che mai vincente, in tanto inutile rumore, l’idea di poesia.)  Vale ricordare che la poesia è un raro uccello? A pochi è dato,  per talento e per qualità di strumenti,  accostarla e  raggiungerla. Gli altri, i tanti, vanno piuttosto avvertiti, istruiti. La mia generazione imparava fin dalle elementari molte poesie a memoria, poesie degli autori maggiori, e questo bastava a portarsi dentro un patrimonio che stabiliva raffronti e misure. Forse il bisogno di consegnarsi agli altri con  parole durevoli potrebbe essere al meglio soddisfatto ripetendo le parole assolte e risolte che  la poesia,  raro uccello, ci ha lasciato e ci lascia  affidandocele. E’ una questione di ignoranza da combattere.

    l

    Domanda: L’ultimo tuo libro di poesia ha un titolo significativo: Simmetrie (2007) pubblicato ne Lo Specchio Mondadori. Perché quel titolo? – Il libro, insieme al  volume Poesie 1975-1995 (Empiria, 1997), ci consegna il percorso di una poesia di sapiente compostezza metrica, che rimanda alla linea che va da Sbarbaro e  Saba,  e arriva a Penna e Bertolucci attraverso il progenitore della poesia italiana del Novecento: Pascoli. C’è il tema del viaggio e del congedo, un viaggio che si dirama  “lungo la strada del cuore” attraverso il “corpo”:

    È una stanza il corpo
    nido-cella-recinto.
    Abito in cui bastarsi,
    da non potersi assentare un istante.
    Gabbia d’ossa e di arterie,
    di dove assistere al mondo.

    *

    Un albero, per appoggiarvi la schiena.
    Stare là, senza pensieri, senza possessi.
    Il mondo davanti dietro interno.
    Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
    la tegola rotta, la stanza stretta?
    Restare fino a che è dato,
    senza orologio e senza calendario.
    Chi ha deciso questa inquietudine?

    Risposta: IL titolo “Simmetrie” riassume e significa quella mescolanza di opposti che per me muove  l’intera esistenza e l’essere in sé. Ho trovato e  trovo questa verità, ossimorica, in ogni istante della mia giornata. L’ho riconosciuta nella gioia-dolore che da Schopenhauer passa in Leopardi e che, nel Novecento Italiano, nutre e dà luce soprattutto in Saba e in Penna, a mio parere i poeti più  dentro il nuovo millennio: la ”serena disperazione” dell’uno, la “strana gioia di vivere” dell’altro. M’è toccato nell’infanzia: erano gli anni della guerra, mio padre era lontano sulle navi della marina militare, tutto era faticoso e doloroso da accettare, ma c’erano le poesie e le canzoni, gli orti che inverdivano a marzo,  le allegrie di mia madre dopo le oscure malinconie, le felicità improvvise, brevi, continuamente attese, instancabilmente cercate. Non ho mai smesso di vedere, di sentire, in tutto quanto mi tocca, in tutto quanto  affronto o rifiuto, nel mio stesso corpo che è insieme un peso e un dono, negli sconcerti e sconforti degli eventi pubblici, in un tempo di cambiamenti e di rumori,  la grazia di un affetto, la luce della bellezza, la voglia testarda di vivere e di continuare  che in ognuno resiste e alberga. Ho scritto molti anni fa un verso che in diversi ricordano: «Io compio l’avventura di restare.»  Ho scelto, molto tempo fa, prima dell’adolescenza, di stare nella vita  fuori della menzogna, ma anche fuori della tristezza come rifugio e medicamento. So che l’esilità e la fragilità non mi corrispondono se in ogni istante mi adopero per  vedere chiaro, per capire meglio.  Questa  è la sostanza che nutre le mie forme. 

    Domanda: Molta poesia che si pubblica oggi, anche di autori di rilievo, sembra indirizzata al Ceto Medio Mediatico colto, quel pubblico di “poeti” che poi deve dare il plauso alla nuova poesia. Si realizza così un corto circuito tra le generazioni, una pratica molto diffusa tra i giovani oggi al di sotto dei quaranta anni che scrivono tutti allo stesso modo scimmiottando i modi della poesia maggioritaria. Qual è la tua opinione in proposito?

    Risposta: Ho fin dalle mie prime poesie saputo che scrivevo  per il testimone attento e severo che mi porto dentro e subito dopo per gli altri, per  tutti gli altri. Sono stato per mia natura, o limitatezza, estraneo a scuole e   ideologie. Quanto alle scimmiottature e alle omologazioni, non ho dubbi: il poeta è fedele a se stesso, non può venire meno a questa fedeltà, pena il suo spegnimento. E  in conclusione: niente più della poesia denuncia il suo autore, le sue qualità e le sue mancanze. Sono sufficienti poche frasi, a volte un solo verso, per scorgere il vuoto e la bugia.

    Domanda: Vorrei finire l’intervista con la domanda che faccio sempre ai poeti intervistati: pensi che ci sarà posto per la poesia nel mondo del futuro?

    Risposta:  Mai come oggi l’uomo e il poeta hanno tante domande a cui rispondere, emozioni e sensazioni e umori da raccontare, rilevare, percepire. Chi annuncia la morte della poesia, a mio parere accerta solo la morte che si porta dentro e la cupa volontà di giustificarla come condizione comune. Lo ribadisco: la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato. La modernità ha reso più incerto e scontento l’umano, più esteso e oscuro il suo desiderio, più folte e complesse le sue domande. La poesia, questo lo credo fermamente e vado da anni ripetendolo, è “educazione ai (e dei) sentimenti”.

    elio pecora 2

    Elio Pecora

    Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1936,  da decenni vive a Roma.
    Ha pubblicato romanzi, saggi critici, una biografica di Sandro Penna
    (Frassinelli, ultima edizione 2006) e curato antologie di poesia
    contemporanea. Ha collaborato con articoli letterari a quotidiani,
    settimanali, riviste e a numerosi programmi culturali della RAI. Dirige
    la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

     

    In poesia ha pubblicato:

      – 2012     Dodici poesie d’amore  (Napoli,  Frullini Edizioni)
      – 2011     In margine  (Salerno/Milano, Oédipus )
      -2010     Tutto da ridere (Roma, Empiria)
      – 2007   Simmetrie (Milano, Mondadori)
    – 2007   L’albergo delle fiabe e altri versi (Roma, Orecchio acerbo)
    – 2006   Insettario/Insectionary (Roma, Almenodue)
    – 2004   Nulla in questo restare (Trieste, Il Ramo d’Oro)
    – 2004   Favole dal giardino (Roma, Empiria)
    – 2002   Per altre misure (Genova, San Marco dei Giustiniani)
    – 1997   Poesie 1975-1995 (Roma, Empiria; ristampato nel 1998)
    – 1995   L’occhio corto (Il Girasole)
    – 1990   Dediche e bagatelle (Roma, Rossi & Spera)
    – 1987   Interludio (Roma, Empiria; ristampato nel 1990)
    – 1985   L’occhio mai sazio (Roma, Studio S.)
    – 1978   Motivetto (Roma, Spada)
    – 1970   La chiave di vetro (Bologna, Cappelli)

    POESIE DI ELIO PECORA
    da Simmetrie (2007)

     

    L’OCCHIO CORTO

    Eventi da poco. Notizie prossime, come cartoline di saluti, come telefonate fretto
    lose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe.
    A volte, in pochi righi, appare l’allegria, passa velata la morte. Una folla, in
    cammino  verso il giorno o la notte, verso il ricordo o la dimenticanza,
    sosta dentro il presente.
    Che vale di queste storie mentre il pianeta ruzzola e ruota, avanzano ghiacciai,
    si consumano stelle, il tempo cambia di numero, si perpetrano orrori,
    si assolvono speranze?
    Vengono certo da umori segreti, da attenzioni a minimi segni: passi brevi,
    desideri inseguiti, attese bestemmiate, rabberciate bellezze. Lacerti di 
    un  mondo spiato, intravisto da un occhio corto.
    *
    Vanno: mani, piedi, volti
    – sterminata moltitudine di attese,
    di speranze, di uguali
    per fame, per morte,
    l’uno l’altro cercando
    che rassicuri, impedisca,
    tutti compiendo destini
    variamente intricati,
    mai cessando dietro le arterie,
    fin dentro il riso o il grido,
    la paura di essere cacciati
    da un recinto indifeso.
    *
    Felice. Ma è possibile che questa felicità,
    così colma, comprenda
    anche tutti i disagi, tutti gli assilli?
    Il sole alto sulla piazza, la folla svagata, i cani,
    la violinista con l’orchestra nel registratore,
    la vecchia dei fiori puzzolente di orina. Tutto visto, sentito,
    e il pensiero dell’amore assente
    e il pensiero di essere vivo e breve.
    Felicità e disperazione.
    *
    Traversare il dolore
    come una stanza scura,
    contando i passi, i fiati.
    Cercare nel chiuso
    un buco, una crepa,
    perché non sia memoria
    ma presenza
    in quell’assenza di luce.
    All’uscita sapere
    che toccherà tornare.
    E l’allegrezza ancora
    aspettando l’assalto.
    *
    Esistere
    senza disperare della brevità,
    conoscendola come spazio e confine.
    Ma vale ogni giorno.
    Dentro la contentezza sapere che finirà.
    *
    In ogni spigolo o lembo,
    dietro le viscere e il cuore,
    s’aprono spazi imprevisti
    e ancora abissi e cunicoli.

    (DOPPIO MOVIMENTO)

    Un albero, per appoggiarvi la schiena.
    Stare là, senza pensieri, senza possessi.
    Il mondo davanti, dietro, intorno.
    Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
    la tegola rotta, la stanza stretta?
    Restare fino a che è dato,
    senza orologio e senza calendario.
    Chi ha deciso questa inquietudine?
    Partire, tornare, tenere, trattenere,
    quando basta appoggiarsi a un albero.
    Invece, nella sazietà
    temere la fame, sospirare nella contentezza. Così, da per tutto.
    Non un attimo di sosta. Sempre una guerra,
    un contrasto. Profumi che divengono fetori,
    polpe che infradiciano,
    parole come baccelli svuotati.
    Una barca fragile su un mare senza fondo,
    l’ansimo nella corsa dell’atleta,
    l’urlo dopo il traguardo.
    Non sapeva e gli è toccato imparare.
    A che è valso?
    Continua, come se non fosse avvertito.
    Si sveglia da sogni confusi,
    si dice che oggi capirà.
    Un istante e tutto si ripresenta,
    uguale a ieri e a ieri l’altro,
    lo stesso disagio, la medesima angoscia.
    Quando è cominciato tutto questo?
    (…)

    Elio Pecora, Simmetrie (Mondadori, Lo Specchio, 2007, pp. 115, € 12)

    15 commenti

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    Cinema Azzurro Scipioni (Roma, via degli Scipioni, 82 martedì, 9 febbraio 2016 h. 18.30, seguirà cocktail) – Presentazione della Antologia bilingue, testo italiano a fronte, “POEMS” di Antonio Sagredo,  Chelsea Editions, New York, traduzione di Sean Mark; intervengono: l’Autore, Donato Di Stasi, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone – Lettura dei testi: Michelangelo Firinu – Accompagnamento musicale: Andrea De Martino. Per informazioni: (0039) 3393446073 – – – Antonio Sagredo DUE POESIE “La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico” e “La soglia del duende” con Commento di Giorgio Linguaglossa e Autocommento dell’autore – “LEstraneo (Unheimlich)”, “La poesia di Sagredo, atto «incipitario» e «atto fondativo»”, “Frantumare il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante”, “Nelle poesie di Sagredo noi sediamo in platea mentre sulla scena ha luogo una recita”

    Cinema Azzurro Scipioni (Roma, via degli Scipioni, 82 martedì, 9 febbraio 2016 h. 18.30, seguirà cocktail) – Presentazione della Antologia bilingue, testo italiano a fronte, “POEMS” di ANTONIO SAGREDO,  Chelsea Editions, New York (2015), traduzione di Sean Mark; intervengono: l’Autore, Donato Di Stasi, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone – Lettura dei testi: Michelangelo Firinu – Accompagnamento musicale: Andrea De Martino. Per informazioni: (0039) 3393446073
    antonio sagredo teatro abaco1971 skomorochi (4)

    antonio sagredo teatro abaco1971 skomorochi con A.M. Ripellino

    Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

    La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

    Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche.

    Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. Alberto Di Paola e K. Zoufalová. Nel 2015 pubblica  Poems Chelsea Editions di New York, antologia bilingue con testo a fronte in italiano.

    Antonio sagredo teatro politecnico-1974

    Antonio Sagredo teatro politecnico-1974

    Commento di Giorgio Linguaglossa

    La poesia di Antonio Sagredo è un evento irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per eventualizzarsi deve pescare nelle profondità dell’Estraneo (Unheimlich) in quanto, come scrive l’autore, «le maschere si somigliano». La sua è una poesia che sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità del discorso poetico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura, non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.

    Scrive Octavio Paz ne “L’arco e la lira”: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».

    Il discorso poetico di Sagredo è fondatore di un evento: un mondo surrazionale e incipitario. Vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellizzarla secondo una nuova logica illogica, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’evento fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso.

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    C’è un insieme ballerino e convergente:
    sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
    curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
    Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!

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    Solitudine della logica: punto del non-ritorno.
    Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
    Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
    dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.

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    Solitudine del punto.
    Solitudine del ritorno.
    Solitudine della linea.
    Solitudine dell’insieme.

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    L’inizio non ha fine all’inizio della fine!

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    È un atto poetico che vuole situarsi all’inizio della costruzione della Lingua, in una solitudine assoluta ed eroica. È un atto maniacale e spasmodico, incipitale e magmatico.

    Ogni atto «incipitario» è un «atto fondativo». La poesia di Sagredo va letta in quest’ottica: come ogni fondazione di città, traccia il decumano e il cardo e le innumerevoli vie trasversali che li attraversano. Anche nella poesia sagrediana si pone il medesimo problema di disseminare i sensi e le direzioni di senso ai fini dell’orientamento nella Città del Verbo. Sagredo sa bene che in ogni atto fondativo di parola si cela il Teatro della Rappresentazione, un rito, un altare (divelto), un logos (rimosso), un messaggio (tradito) ove il parlante è contraddetto e contraddistinto dalla parola parlata. La parola sagrediana assume la forma di una erotecnica, è sospinta da un desiderio di parola che vuole rimettere la parola al centro della scena della rimozione e del tradimento (di qui l’abbondanza nella sua poesia di armi bianche, di scene di tradimento, di sanguinamenti, di oltraggi etc.). La poesia sagrediana è una rappresentazione teatrale di un teatro finto, posticcio, bislacco, è una parola di cartapesta e di ceralacca; una parola consunta e infingarda che guarda con orrore e dispetto al discorso poetico che crede ingenuamente di risolvere il conflitto tra il conscio e il rimosso, tra il tradimento e la fedeltà, tra il soprasuolo e il sottosuolo con il semplice ricorso ad una parola referenziale che tradisce un concetto federativo tra discorso poetico e reale (visto come una serie di oggetti che stanno di fronte al parlante e che il parlante deve rispecchiare).

    Antonio Sagredo copPrimo intento di Sagredo è quindi frantumare il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante, il tacere al parlare, il parlare al tacere visti come soluzioni non accettabili ed insufficienti; secondo intento è rimescolare l’ordine e il disordine delle parole, considerate quali frattaglie algebriche della impossibilità di attingere un senso o una direzione di senso nella Città del Verbo. Lo scompaginamento, lo scassinamento e il caos verbale che ne conseguono sono il diretto risultato di un atteggiamento quasi donchisciottesco del poeta che si rivela impagliatore di frasari, fustigatore di parole, allibratore di scommesse perduteOltraggiatore di quisquilie, posteggiatore di improperi, fustigatore di imperatori. È l’irruzione nel Discorso della Ragione Poetica, dell’Estraneo, dell’Alterità, del Simbolico, dell’Immaginario direbbe Lacan, della barra in-significante, della traccia perduta e dimenticata. Forse, Antonio Sagredo è più prossimo ad Amleto di quanto si immagini, discetta sulla orditura del cosmo nel mentre che prepara il suo delitto di cartapesta. Forse, l’Utopia di Sagredo è un sogno, il sogno della uccisione del totem del Padre, sopprimere l’Estraneo…

    Leggiamo una breve poesia di Antonio Sagredo:

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    La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
    e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
    devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
    Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
    Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
    e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

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    La poesia parla di una «gorgiera»? (elemento di una vestizione seicentesca che appariva immediatamente sotto il collo maschile, simbolo di nobiltà e di elevato censo sociale); ma la «gorgiera» è un attante di specificazione di un’altra parola chiave del testo: «di un delirio». Qui, subito all’inizio, troviamo una sineddoche, si nomina una parte del tutto per indicare il tutto; è quindi «il delirio» il centro del motore simbolico della poesia, ma appena leggiamo le parole seguenti del primo verso, ci accorgiamo che «la gorgiera» è diventata il soggetto che mostra che «la Via del Calvario Antico», qui si tratta di un accenno semantico alla crocifissione di Gesù, ma è appena un accenno, perché subito dopo si parla di «un crocicchio» dove «la calura» fa una cosa strana, Sagredo usa il verbo neologismo «atterò» (che non sappiamo che cosa possa significare ma che richiama alla mente una serie di accezioni semantiche secondarie). Dunque, siamo arrivati alla metà del secondo verso e già le cose si presentano maledettamente complicate. Ma che cos’è che «attera» (forse nel senso di atterrare, azzerare, sopprimere) «i miei pensieri»?. E qui di nuovo riemerge l’io spodestato dalla «gorgiera» del primo verso la cui presenza viene sottintesa nella declinazione alla prima persona dell’io poetante: «i miei pensieri». A questo punto veniamo informati che «che dall’Oriente […] «fu accecato» «il faro d’Alessandria». Il «faro d’Alessandria» si capisce subito dopo che è «Kavafis»…

    Insomma, la poesia procede a zig zag, mediante espedienti del senso che straniano in continuazione il senso del testo, lo straniano appunto introducendo delle deviazioni continue. Il testo si presenta come una serie continua di deviazioni da una immagine, da una simbolica all’altra. La procedura sagrediana è questa: un infinito adeguarsi del senso. Sagredo fa con la mano sinistra quello che con la mano destra disfa; fa e disfa la tela di Penelope. È un falsario, un imbonitore e un rivoluzionario al tempo stesso, procede per tradimenti del senso e dell’orizzonte di attesa del lettore. Una instancabile ricerca di una traccia in direzione di una archi-traccia. Che non verrà mai trovata. Che non può mai essere trovata. Un Salvator Dalì della poesia italiana.

    Nelle poesie di Sagredo noi sediamo in platea mentre sulla scena ha luogo una recita (non dimentichiamoci che Sagredo è stato attore ed è stato un ammiratore della poesia attoriale di Ripellino); nella recita Sagredo recita a soggetto. Ha in mente soltanto un canovaccio, sa a memoria soltanto alcune battute ma, al momento dell’entrata in scena, il canovaccio viene tradito, consegnato al pubblico e tradito. Sul palco del teatro si annuncia una messinscena, si allestisce uno spettacolo, si allestisce un parricidio simbolico che si risolve in un ossessivo, maniacale, spostamento degli oggetti e della suppellettile della casa paterna. Sagredo fa nella sua poesia ciò che Shakespeare ha fatto nell’Amleto, crea, e mentre che crea sente il bisogno di distruggere ciò che crea. È un cerchio simbolico che qui ha luogo. Un assassinio del Totem, sempre ripetuto e sempre rinviato. La poesia sagrediana diventa così un atto liturgico, regredisce a rito apotropaico. Sagredo decostruisce il testo nel momento in cui lo mette in scena o, almeno, nel momento in cui tenta di metterlo in scena.

    antonio sagredo Politecnico Teatro 1974-skomorochi (2)

    antonio sagredo Politecnico Teatro 1974-skomorochi

    Antonio Sagredo La soglia del duende

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     Mi giunsero notizie come varianti mostruose da ogni luogo terrestre: l’orrore
    non era più una novità per me, gli eventi sugli occhi battevano i ritmi delle visioni
    recidive: catastrofi, apocalissi il nostro pane quotidiano… i tasti del duende scellerati:
    Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!

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    Voi forse credete le croci meno mostruose delle scimitarre? I candelabri meno
    mostruosi di quelle? Caroselli, giostre, morgue, obitori, mattatoi ad uso comune…
    tutto o nulla fluisce dalla pianta dei piedi al midollo… meno cantavo più la canzone
    mi era sonoramente insensata: fuoco del sangue! sangue del fuoco!

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    Ho spremuto la Morte come un limone di primavera quel giorno romano che il silenzio
    oscillava al canto del gallo come una banderuola gitana. Eloisa, meretrice di Siviglia,
    batteva i quattro boulevards dell’arena, lei che era gobba come una prefica medievale
    cantava Santa Teresa barocca dal volto più affilato di una falce!

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    Sugli altari delle lagrime scrisse con dita di cera un epitaffio muliebre con gli stiletti
    delle sue unghie arcuate … era famosa come la bambina dei pettini e gareggiava
    con le ballerine di Cadice, e danzava al canto di Silverio l’emorragia dei gesti dai balconi
    giudei dei fiori di sale… mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
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    La soglia e la ferita mi contesero il poeta sulle scale delle lagrime: era la squillante
    voce piombata degli zoccoli sul nero suono muschiato…un’aria con odore di saliva
    di bimbo, di erba pestata e velo di medusa sotto nuovi portali di scoperta.
    Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!

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    Roma, 10 ottobre 2015
    antonio sagredo-1971

    antonio sagredo-1971

    Autocommento di Antonio Sagredo

     Caro Giorgio,

    cerco di spiegarmi: Intanto dovresti sapere cosa è il duende. Se non lo sai dovresti leggere il testo di Federico Lorca del 1930: El duende teoria y juego. Il poeta assegna alla ispanità 4 linee come strade o boulevards, e sono: gitano, barocco, ebraico, romano.

    la prima strofa:

    a tutti giungono notizie da tutto il mondo e sono notizie tragiche colme di orrori di vario genere, si presentano, come visioni recidive (nulla al mondo è cambiato in meglio e tutto gli orrori si ripetono fin dalle nostre origini tant’è che è pane quotidiano!), al contrario del duende che non si ripete mai.

    Il duende questa forza di cui si sa e non si sa la natura ci suona il cervello (midollo) dai nostri primordi e suona scelleratamente: il quarto verso mio è tratto dalla poesia “Me ne fotto” del 2011. “Rose nere” coincidono (non lo sapevo prima) con quanto ci riporta Lorca nel suo scritto su menzionato, citando una frase di un personaggio spagnolo, dice Lorca:” Manuel Torres pronunciò questa splendida frase <tutto ciò che ha suoni neri ha duende>“.

    seconda strofa:

    croci sta per cristianesimo; scimitarre sta per islamismo; candelabri sta per ebraismo . sono le tre religioni monoteiste e tutte e tre responsabili delle catastrofi e tragedie dell’umanità! Esse sono: caroselli morgue, ecc. alla portata di tutti, cioè tutti sono in grado di realizzare apocalissi! E il duende fluisce  in noi dalla pianta dei piedi fino al midollo (dal testo di Lorca), vuole significare che questa forza-nonforza penetra in noi e ci cambia e con la stessa tendenza se ne esce da noi! –(il duende non sta nella gola (Lorca) ciò significa che il poeta canta invano! e meno il poeta canta più il suono (nero) della canzone diviene insensato da non comprendere più dove sta il nostro fuoco e il nostro sangue: vuol significare che il duende (questa energia) è così padrona di noi che noi stessi non sappiamo più chi siamo.

    terza strofa:

    la terza strofa richiede obbligatoriamente la conoscenza del testo di Lorca. Giorno romano  (una delle quattro grandi strade della tradizione spagnola – Lorca)… banderuola gitana…; Eloisa, la meretrice personaggio reale di Siviglia… gobba come una prefica… che (mia versione) canta Santa Teresa, barocca, induendata (sovrassatura di duende!) al massimo grado! – Lorca nel testo ci dice che la Musa e l’Angelo non hanno alcuna importanza per il duende, che sta altrove e che è di altra natura!

    E ci dice qualcosa di fondamentale importanza che riguarda il Poeta: il duende ama la lotta, anzi il duende è la lotta stessa!… “e questa lotta per l’espressione e per la comunicazione dell’espressione a volte acquisisce, in poesia, caratteri mortali”.(Lorca) – (frase che definisce i miei versi!).

    quarta strofa:

    “sugli altari delle lacrime…” chi scrisse con mano di cera? Fu la Musa vinta, dice Lorca. E Santa Teresa? (carne viva!), e  il Duende? E il Poeta? E la Meretrice? = la bambina dei pettini che gareggia (mia versione) con le ballerine di Cadice, elogiate da Marziale (Lorca)… al canto di Silverio (gran personaggio spagnolo reale, artista e compositore di musiche…)… balconi giudei… – “mirando del mio corpo il non agire… e poi non più”: (mio verso tratto dalla poesia del 2004 Ponte del suono)… e ho scoperto di aver detto qualcosa di stupefacente sul duende che non sapevo e cioè che il non agire – (scrive Lorca: ”Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare”).

    quinta strofa:

    Il duende sta ai bordi (soglia) , sta  alla ferita, e esso stesso bordo e ferita. Scrive Lorca :” Angelo e Musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito, l’inventato dell’pera umana”.

    Il verso: … si contesero il poeta sulle scale delle lacrime (lacrime come ferite aperte, carne viva, voce del poeta che è errato che resti nella gola quando il duende è invece l’energia che dalla pianta dei piedi sale fino al midollo!)… si, ma giunge con suoni neri di zoccoli piombati? Suono del piombo! E infine del testo Lorca scrive :”Ma dov’è il duende? [è in] un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create”.

     Il mio verso finale:

    Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!

    Che significa? È una uscita soltanto teatrale come di solito uso fare? Oppure no?

    Scrive Lorca.”il duende è il sangue che  respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili… Che il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue”.

    È tutto una serietà apparente, oppure no?

    Di contro tutte le geometrie (“per cercare il duende non v’è mappa, né esercizio”, scrive Lorca) qui, del pianto (ma possono essere altre geometrie) io oppongo il trucco con gesso di Ruidera

    (Ruidera, località lacustre nella arida regione di Castilla-La Mancha). Il trucco, per me, scompagina ogni classificazione geometrica della vita, per questo è una altra via che segna l’entrata trionfale del duende… sulla SOGLIA appare e tutto si inizia!

     

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