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LA NUOVA POESIA – Antologia di poesia – Commenti e Ermeneutiche: Zbigniew Herbert, Boris Pasternak, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Alejandra Pizarnik, Francesca Lo Bue, Mauro Pierno, Mariella Colonna

 

Gif Treno

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.
Sale il fumo fino alla lampada.

Una poesia inedita di Mario Gabriele

Da registro di bordo

L’afa offrì una tregua.
Il professore Ernest non ha mai fatto jogging

dopo la fibromialgia.
Per sistemare il primo piano

la famiglia Oliver ha messo nel giardino
il cartello:
                                        House for sale,

anche se l’abitazione sembra un quadro di Monet
e c’è una tomba vuota, a due passi dall’autostrada,

con le statue come sull’isola di Pasqua.
I bluesmen cantano:Happy Days,

ed è un ritorno ai fantasmi del passato
in un amarissimo amarcord di tempi sincopati.

Jessica crede nello Zen.
Padre Olmer ha lasciato il testamentum.

Nel primo capitolo del Canto di Corvin,
ci sono passaggi che ricordano il Deutoronomio.

-Non sono abbastanza sicura di andare in Lituania,
ma se non fosse possibile- disse Kalina,

-passerò il tempo a seguire
The Order of the Burial of the Dead-.

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.

Sale il fumo fino alla lampada.
Andrea rinnova aria fresca.

E’ così invecchiata Masina che non ricorda
neppure la contemplazione primaverile

con i primi raggi di marzo.
Il ritorno di Gesualdo

non ha portato i canti della Salvezza
e della Solitudine come passepartout.

Una poesia inedita di Francesca Lo Bue

Le cose

Stanno lì, livide e stizzose,
sparse in geometrie disordinate,
sono l’acre residuo dell’uomo piegato,
il sudore del fallimento canuto,
fiori immobili di pietra.
Ci sono voci che descrivano lo stupore delle albe?
Le promesse della luce?
Si rammentano, si rimordono nel silenzio le cose?

Sono voci spente,
fatalità trapassate…

Lampada che rubi le sue stelle alla notte,
veglia l’aurora delle mie parole.

Las cosas

Están por ahí, lívidas, rencorosas,
desparramadas en geometría desordenada.
Son el residuo acre del hombre vencido,
el sudor de la cana frustración.
Espesas páginas desvaídas.
¿Hay voces que describan la maravilla de las albas,
las promesas de la luz?
¿Se acuerdan… se remuerden de silencio las cosas?
Son voces apagadas,
fatalidades traspasadas…

Gif finestrino treno pioggia

Il ‘900 ha sancito la fine del primato della pittura tra le arti visive

Lucio Mayoor Tosi
27 ottobre 2017

Il ‘900 ha sancito la fine del primato della pittura tra le arti visive. Forse anche della pittura stessa. Parole che vanno da “maestria” alla semplice “qualità e spessore del pigmento”, oggi non hanno senso: chi mai si sognerebbe di pronunciarle entrando nel merito di un prodotto industriale? Pare conti l’idea, quella fulminante dell’artista, il quale potrebbe anche limitarsi a fare una telefonata per vedere realizzata la sua immaginazione. Io lo trovo divertente: tutta gente che campa avendo leader da scopiazzare… Tracce di un secolo duro a morire; ma è sempre stato così. Lasciamo la critica intesa come cronaca degli eventi al giornalismo, e raccomandare i carpentieri dell’esegesi a qualche prestigiosa école de Cuisine. Soluzioni se ne trovano sempre.

La critica di Giorgio Linguaglossa non può che essere quella acuta di un poeta, dal momento che poeta lo è. Possiamo quindi parlare di immaginazione critica, qualcosa che si possa fare solo in divenire; una critica che parta e veda dal nulla in cui ci troviamo. Il nulla offre un’ampia visione: riduce l’enormità del contingente, ridimensiona il tempo, offre vie d’uscita ovunque si guardi. Le parole della critica saranno molto simili a quelle del poeta: vere; solo che appartengono alla normalità di un altro universo – con cui prima o poi bisognerà pur fare i conti. Le questioni, o meglio i parametri di giudizio sono stati delineati: tempo, stile, rapporto con l’esistenzialità. Sono ammessi anche sfottò e ghirigori. Tanto si tratta di restauri, lavori in corso per rianimare con poesia, tra le altre, anche le parole appena venute al mondo. Alcune inaccettabili, però con riserva. Non cambia nulla, sono le fatiche di sempre. Io mi sto preparando per Hollywood.
Non ho letto molto di Kjell Espmark, abbastanza per sentirlo molto vicino alla ricerca in corso della NOE. Per questa ragione forse più interessante dello stesso Tranströmer, il quale, mi sembra abbia attraversato il cielo come una cometa, alla velocità della luce; quindi l’esito o gli esiti potrebbero anche essere diversi da quanto dimostrato dal Nobel svedese.
La poesia giace sul lettino, non per sottoporsi a un’operazione di chirurgia estetica, ma per poter riprendere a respirare, in ciascun poeta, separatamente.

*

Il Signor Cogito è l’uomo dell’Occidente. Colui che pensa dunque è. Herbert in questa poesia lo invita ad agire, perché il pensiero guida l’azione e, quest’ultima è un atto insieme etico, politico e, soprattutto, estetico. Il libro è nato come un tentativo di risposta sul tema del Signor Cogito.

(Giorgio Linguaglossa)

Zbigniew Herbert

Il sermone del signor Cogito

Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta
cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio

va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati
tra spalle voltate e nella polvere abbattute

non per vivere ti sei salvato
hai poco tempo devi testimoniare

abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio
in fin dei conti questo solo è importante

e la tua Rabbia impotente sia come il mare
ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati

non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno
per le spie i boia e i vili – essi vinceranno
sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla
e il tarlo descriverà la tua vita allineata
e non perdonare invero non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli traditi all’alba

ma guardati dall’inutile orgoglio
osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio
ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore

fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro il fulgore del cielo

ad essi non serve il tuo caldo respiro
son solo per dirti: nessuno ti consolerà

bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’
finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella

ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende
raggiungerai così quel bene che non raggiungerai

ripeti solenni parole ripetile con tenacia
come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia

e ti premieranno per questo come altrimenti non possono
con la sferza della beffa con la morte nel letamaio

va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi
nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando
che difendono un regno sconfinato e città di ceneri
sii fedele va’

(traduzione dal polacco di Paolo Statuti)

Gif Piove

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta, un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché Egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene. Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi. (Giorgio Linguaglossa)

Giorgio Linguaglossa
27 ottobre 2017

Il luogo del linguaggio poetico

Il linguaggio poetico non può mai attingere la pienezza ontologica. Essere e linguaggio obbediscono a leggi diverse: si dà un ordine del senso, a livello ontologico, un altro senso si dà a livello proposizionale nella misura in cui la sfera dell’essere resta incisa e recisa nel e dal linguaggio, evirata della sua mitica pienezza. L’unità mitica dell’essere è, appunto, un mito, anzi, un mitologema. In questa unità prelinguistica e presimbolica il linguaggio appare come l’Altro, come ciò che introduce il segno come traccia, iscrizione, gioco di presenza-assenza che il significante dischiude.

La parola poetica diventa così il luogo in cui il soggetto evanesce. Con la parola il soggetto incontra la propria nientificazione, il proprio essere-per-la-morte, l’inaugurale sottrazione che scinde la presenza ripetitiva del godimento, del piano della pienezza dell’essere dalla rappresentazione di cui il significante, come luogo in cui il soggetto diventa evanescente, è marca.
Alienazione e separazione sono la ripercussione di questa scissione, quella che Lacan chiama «la divisione del soggetto». La dimensione della soggettività si configura in questa perdita, in questa lesione della pienezza della sfera dell’essere, mitica, da cui balza fuori, letteralmente, il «soggetto parlante».

Si può adesso comprendere come in Lacan il «soggetto parlante», ovvero il soggetto tout court, sia tale solo in quanto soggetto dell’inconscio, perché qualcosa come l’inconscio freudiano ha fatto la sua irruzione nella cultura moderna.
L’inconscio, secondo la celebre intuizione di Lacan, è «strutturato come un linguaggio», si manifesta secondo le modalità retoriche della metafora e della metonimia, individuate attraverso Freud nelle operazioni della «condensazione» e dello «spostamento». L’inconscio individua in noi quanto il linguaggio dischiude come Altro. La fenomenologia dell’inconscio è basata sulle leggi del linguaggio. Con l’intervento del linguaggio si verifica uno spostamento, e di qui la catena sinonimica che introduce il significante. L’inconscio è quel luogo strutturato dalla parola come luogo dell’Altro, il risultato dell’azione del significante.

L’inconscio pertanto non va interpretato come fonte, luogo in cui sarebbero ricondotti unicamente quei desideri e quelle pulsioni che non hanno avuto accesso alla coscienza; è strutturato come un linguaggio simbolico di cui però non possediamo le chiavi di accesso, è una istanza che parla attraverso i suoi simbolismi. Ciò che Freud ha scoperto e ha chiamato inconscio è quella dimensione «proteggente avvolgente», dice Heidegger, che esiste perché c’è linguaggio, che la parola non è mero strumento di comunicazione, ma la dimensione che apre nella vita un divario tra detto e dire, tra enunciato ed enunciazione, che sloggia il soggetto dall’alveo della certezza della coscienza dell’io penso, che lo strappa alla sua chiusura autoreferenziale.

Una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa

Nox Aeterna

Un aquilone danzava in cielo con i corvi
i benigni amici dei cadaveri.

Dalla finestra aperta entra il vento del nord.
Rimbalza sugli stipiti delle porte spalancate

e si posa sulle mani di madreperla di mia madre
che suona il pianoforte.

Mio padre le ha spedito una lettera dal fronte
che non arriverà.
[…].
Un sarcofago. Amorini svolazzanti in rilievo.
Un putto immerge la mano nel sarcofago.

Il bambino mette la mano nel primo cassetto a destra del tiretto.
Ruba qualcosa, dei cioccolatini….

Il grammofono suona un quartetto di Mozart…
[…]
Il profilo di Enceladon dal cavalletto davanti alla finestra
osserva gli astanti.

Raffaello ha interrotto la pittura, la «Dama con l’ermellino».
Il cammeo sul collo di mia madre sembra oscillare.

Scrivo una lettera a mia madre:
«Le legioni di Roma si preparano ad una nuova campagna.

Marco Flaminio Rufo è morto».
[…]
Il pittore fiammingo dipinge il volto di Enceladon.
Ritrae il mio volto di profilo, in basso, nella bandella di destra,

sulla figura di un committente.
Scrivo una seconda lettera a mia madre:

«Dobbiamo partire. Per il Sud. Presto sarà inverno.
Passeremo i mesi invernali nei quartieri d’inverno».

Scrivo una lettera ad Enceladon:
«Mia cara, Sarmizegetusa è presa»,

ma dimentico di imbucarla
o un postino sbadato ha dimenticato di recapitarla.
[…]
Nina Berberova scrive un racconto:
«Il lacché e la puttana».

Io esco dalla vita ed entro nel racconto.
Sono il lacché. Le chiedo: «Maestà, perché sono qui?»,

ma la romanziera ha fretta, deve fare le valigie,
deve traslocare negli Stati Uniti,

non può rispondermi, il suo compagno Chodasevič
è stanco e malato.

Kafka va a spasso con Madame Hanska
per le vie di Praga.

Il Signor Cogito sbatte la porta ed esce di scena.
Sale sul treno blindato zeppo di soldati.

In corridoio, il filosofo tiene un discorso sulla Bellezza.
Il romanzo diventa una coppa di champagne.

Vivaldi è tornato a Venezia, abita con la sua sgualdrina
in un appartamento ammobiliato al fondaco del Ponte di Rialto.
[…]
Scrivo una lettera a mia madre:
«Presto lasceremo i quartieri d’inverno».

Quando ritornerò, penso, ritroverò il quadro
di Enceladon con l’ermellino, sul cavalletto, che mi aspetta,

sarà finito da tempo.
E i corvi saranno ancora là in alto

insieme agli aquiloni.

Mauro Pierno
28 aprile 2018 alle 18.56

dal mio Ramon:

D’improvviso l’estate
l’unica asola dell’anima;
un piccolissimo ombelico di felicità,
un fiore senza petali,
calvizie prematura
d’un uomo.

Gif waiting_for_the_train

– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –

Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni, mai sapute, vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio. Continua a leggere

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Gino Rago, Una Poesia, Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska, Lars Gustafsson (1936-2016), Una Poesia, Ibn Batutta – Commenti di Alfredo de Palchi, Laura Canciani, Anna Ventura, Rossana Levati, Mario M. Gabriele, Giuseppe Gallo, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa – La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto

Gif otto volti dolore

Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert

Gino Rago
31 marzo 2018 alle 11:59

Ecco un intreccio poetico [Lipska-Linguaglossa-Rago] a tre, con Giorgio Linguaglossa che tenta di dare scacco matto al tedio di Dio…

Gino Rago

Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
[come Roland Barthes fece con sua madre].
La sua morte l’ho appresa dalla mia amica di Vienna.
La città oggi è nella tristezza dell’autunno
[la mia amica dice che piove da tre giorni].
Entro al «Blumenstrasse» [ il Buffet caro alla Signora Schubert].
I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano.
Mi dicono il menù da lei desiderato.
La sperlunga «Octoberfest» di patate in tecia e crauti.
Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

il mio amico-poeta di Roma ha dato scacco matto al tedio di Dio.
Ha scritto in un suo verso.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Forse per questo al Buffet della Signora Schubert
l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile»
dice ancora alle mie spalle qualche verso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße»
il perché di quel nome:
«Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti.
Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle.
Gli anziani col monocolo diventavano ballerini.
Il clown macrocefalo smetteva di far ridere.
li zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude.
I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

andrò con la mia amica di Vienna
a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero
[sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].

Laura Canciani:

La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro…

Strilli GabrieleStrilli Gabriele2
Mario M. Gabriele
30 marzo 2018 alle 11:15 

Caro Giorgio,
grazie per aver concesso altri giorni di dialogo sul tema della Critica e della Nuova Poesia. Meglio così,perché in questo modo si accede ad una dialettica di più ampia sfaccettatura. Mi fermo sul primo punto: quello della Critica, senza fare una retrospettiva storica, la qual cosa sarebbe noiosa e fuori tempo, ma chiamando in causa quella di mezzo secolo,più libera e autonoma, anche se poi via via, si sarebbe asservita al potere delle grandi case editrici. Intorno agli anni Sessanta la rivista Strumenti Critici aprì un ampio dibattito, portando in primo piano l’azione dello Strutturalismo, facendo riferimento ad alcuni Autori che meritavano tale studio. Ma poi, sia il tempo che la dispersione della critica verso altri mediocri orizzonti, portarono come scrisse Mario Lavagetto alla Eutanasia della Critica, intendendo dire con questo titolo del suo volume, la fine operativa di una disciplina. Ci fu un vero tracollo della critica militante e accademica, che sembrava non interessare a nessuno, dal momento che l’Editoria maggiore si autogestiva criticamente sulle opere prodotte. Se la critica muta le proprie direzioni si rimane come tuareg nel deserto. Va bene che spetta al lettore captare il bello di un verso, ma quanto alla sua decodificazione, credo che spetti al critico svelarne il senso. Non esiste libro che non abbia bisogno del critico. Se addiveniamo a questo concetto si recuperano valori e senso dello scrivere.

Oggi, per fortuna, si assiste ad un proliferare di riviste on line, di vendite e-book, con proposizioni linguistiche, e qui cito la «Nuova Ontologia Estetica», non per mero narcisismo, ma per effettiva documentazione estetica. Non vedo nel Gruppo 63 i killer della poesia. Anzi, fu una parentesi necessaria al pascolismo e al bertoluccianesimo imperanti in quegli anni. Ci fu tutto un susseguirsi di variazioni stilistiche e di affratellamento con gli esiti linguistici europei e degli angry ypung man, con festival di poesia e di importanti presenze di poeti di diverse nazioni. Attori leggevano poesie di Montale, di Caproni, ma soprattutto delle nuove leve come Saady Yussef, Ghassan Zaqta, Tadeus Rozewicz, accompagnati dai bassisti Deep Purple, Glen Hughes, ecc. Allora i poeti avevano molte ragioni per apparire, salire sui palchi, fare happening. Ma oggi? Era sì spettacolo, allora, ma anche performance della poesia, come a San Francisco con Ferlinghetti, e a Castelporziano con William Burroughs. Insomma, veramente la poesia degli anni 60 e 80 non fu mai così popolare e palcoscenica. Si proclamò la morte della lirica a tutto vantaggio di un grande spazio di libertà semantica.

Tutti ne parlavano e tutti ne discutevano. Poi si affermò la popolazione poetica a dir poco preistorica, che tornava al linguaggio autonomo dell’IO e della riconciliazione con la Tradizione. Un bell’oscuramento della poesia e del suo cammino. Nacquero le metanarrazioni, la cultura degli aedi, l’ascensione al cielo per istituzionalizzare la Metafisica.Caddero l’immaginario evolutivo, e ogni idea di riformismo verbale. Finì il successo plateale, ma anche la diffusione della poesia che stando ad un rapporto editoriale, su 2000 copie, se ne vendevano appena 500, rispetto ad una popolazione di 60 milioni di abitanti. Si può dire che la poesia è finita? In un certo senso si, con addio al piacere del testo e ad ogni proposito di rinnovamento.

Ci troviamo, come dice Zygmunt Bauman, in una sorta di vita liquida, e di relazione antisociale perché non trasmette agglutinazione del senso della cultura. Eppure in queste acque stagnanti qualcosa si muove. È l’antagonismo che come diceva Adorno è diventato ”conflitto inevitabile”. Su questa trincea e opposizione ad una guerra di Cent’anni, Giorgio Linguaglossa sembra veramente essere un Cavaliere Esistente, per rifondare la critica e la poesia. È una nuova lezione volta a ripristinare il giusto equilibrio tra Forma e Senso del suo esistere. La parola cultura ha diverse fascinazioni, ma non può essere insabbiata sulle rive dell’Assenteismo linguistico. Torno ancora a citare Adorno quando scrive che “la cultura risente danno, se abbandonata a se stessa rischiando di perdere non solo la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza. Continua a leggere

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Franco Di Carlo, Poesia inedita, Il pensiero poetante, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – La verità è diventata precaria

 

Foto uomo verde sulla strada

Tutto è in ordine nella casa.

 Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria(1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) 

Foto uomo collage

il morto/ pensa e vive direzioni senza via

Il pensiero poetante

Tutto è in ordine nella casa. Gli umani
si avvicinano ai divini e al cielo, visitati
dalle cose. Insieme al mondo vengono
chiamati, si fanno vicini, si compongono
nella differenza, compiendo l’unità
nella divisione del dolore che riunisce.
Pura luce dorata acquieta e raduna,
raccoglie gli eventi al suono della quiete.
Indica il luogo del cammino del pensare
e del dire, l’osserva sorgere l’essenza
occulta. L’anima solitaria scende
al tramonto, nel fiume azzurro, tra verdi
rami intrecciati. Procede pallido il passo
del morto, oscuro e silenzioso, imbruna
il bosco, distrutto nell’ora crepuscolare.
Declina lieve il giorno e l’anno appare,
saldo ricordo del processo nella notte d’argento.
Scivola via il celeste oblìo nella sera autunnale.
Tenero riluce il suono chiaro e azzurro del fascio
sacro di fiori e di fiere, rigidi volti nella
muta potenza della pietra del dolore,
sfrenatezza dei sensi bestiali e dei sessi,
genere umano duale e abbrutito che cerca
in una mite duplicità, la giusta via,
della semplice unità. Nuova umanità
nasce perciò inseguendo l’Altro, quello
che è sparito via, in alto è partito.
Perduto nell’azzurro crepuscolo, scomparso
nella dolce sera vespertina tra pareti
lacerate, infuocate mura, putride querce.
Perviene a una parola nuova il volto nascosto
su cui meditano i filosofi e cambia senso
e forma su cui cantano i poeti, il loro
parlare conduce all’inizio il declino
della sera, dove tutto confluisce, è salvato
custodito preparato al nuovo giorno,
quando la parola dice il canto della partenza,
lo sguardo medita nel suo destino.
Folli sentieri in altri luoghi, il morto
pensa e vive direzioni senza via, segue
il mite fanciullino alla ricerca della quiete,
ora è dipartito nel mattino d’inverno
che raccoglie il placato e mite animale
che pensa, non ancora espresso pienamente
né ancora giunto al suo luogo d’origine.
Stirpe inquieta e disfatta, caduta antica,
bestia che si trasforma tra fredde oscure
selve metalliche, notturni boschi brucianti
smarriti tormenti, nella perduta via sporge
una figura umana? Di selvaggia natura
fatta di spine aggrovigliate, anima senza
cammino e senza vento nel nero sentiero
che il morto percorre nel buio velame.
Quando silenziosi, i dolci violini nel lago
stellato, tacciono i loro lamenti, s’ode
soltanto la fresca voce della luna e
il tenue dileguarsi dell’anima invernale
dell’anno spirituale, attinge la terra
e la sua linfa pura, umanità maledetta
e sfatta nella sua decomposizione, colpita
dal conflitto tra fratello e sorella.
Separati dagli altri, i viandanti seguono
il Diverso, discordia dirompente, cieca
donando calma e riposo all’arsura
e alla devastazione dell’invecchiato genere
umano, quando prende vita l’oscura forma
e la voce dorata dell’altro. Oltre il cimitero
silvestre ha attraversato il petroso ponte
purgatoriale sanguinante, lontani Miti
ormai dimenticati che raccontano strane leggende
di boschi fiumi laghi celesti e ninfe.
E’ passato al di là, senza morire, ma nella
vita del nulla lucente, un folle volo verso
l’inizio dell’essere ancora non nato
che conserva sereno la quiete della puerizia
spirituale, promettendo il risveglio in letizia
della stirpe impreparata e in disfacimento.
L’impronta azzurra di un bianco congedo straniero
tra gli umani, solo e pensoso, mite il suo
distacco navigando dolcemente, nulla detraendo
al vero, sulla barca dorata un unico
sentiero che porta alla giustizia. Un tempo
unico, singolare, i cui giorni tutti conducono
alla partenza senza svolgimento né durata
o successione. Un avvenimento primordiale
di ciò che è andato e raccoglie il presente
e lo nasconde nel lago di stelle mattutine,
pazienti sorelle della notte e del suo silenzio.
Pallido ricordare di venti leggeri e dormienti
che alimentano la Fiamma che arde e dà
luce, tormenta, incenerisce e risplende,
indica il cammino verso il linguaggio.
Una vita nuova. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA – LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Poesie e Commenti di Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Tadeusz Rozewicz, Alfonso Cataldi, Serenella Menichetti, Adeodato Piazza Nicolai

Foto Bauhaus 1

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità»

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:10

Dice bene Luigi Celi quando scrive che Eliot, Pound, Mandel’stam (ma io ci aggiungerei anche Pessoa, i polacchi: Milosz, Herbert, Krinicki, Rozewicz, Szymborska… i cechi Petr Kral, Ajvaz, Topol, Reznicek… gli svedesi Tranströmer, Frostenson, Aspenstrom… il finnico Rolf Jacobsen, la bulgara Josifova, la rumena Crasnaru, gli italiani Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino, le italiane Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna etc.) sono i basamenti sui quali è fondata la nuova ontologia estetica. Il basamento degli autori modernisti è quello che ha fatto la grande poesia europea del primo e secondo novecento, questo è indubbio. Penso che è da qui che bisogna ripartire. Tracciare le coordinate della migliore poesia europea è utile, anzi, indispensabile; fare critica del presente e del passato è il miglior veicolo per allestire la poesia del presente e del futuro.

Certo, all’interno di questo ampio ventaglio della poesia europea ci può stare chi, come Antonio Sagredo, privilegia un autore piuttosto che un altro, o che voglia spostare il baricentro della NOE un po’ più ad est… questo è ammissibile, e anzi anche auspicabile, ciascuno può e deve forzare l’elastico della NOE dove e quando e nella misura che ritiene più opportuno…

Sul problema dell’Essere e del Nulla, io ho la mia posizione, ma ciò non significa nulla di costrittivo, ciascuno può nutrire le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Presento qui alcuni miei «appunti» sulle questioni più propriamente filosofiche toccate dal saggio di Luigi Celi.

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.

Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Strilli Rago1Sul Frammento

Il frammento reca incisa in sé la traccia dell’essere-per-la-morte,apre un varco dal quale si può sbirciare nella dimensione dell’iscrizione della mancanza, nel vuoto che si apre nella mitica pienezza ontologica dell’essere.

Ma c’è mai stato un’epoca della mitica pienezza dell’essere? O è un nostro abbaglio? Un miserabile infortunio del pensiero?

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Sta tra il dado e la clessidra.

Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento». L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Si può anche dire così: il frammento è la dimora stabile dell’Estraneo.

Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.

Strilli LeoneSul Nichilismo

L’atto originario è un venire in presenza, ma può venire in presenza solo in quanto esso è un atto a partire dalla indistinzione e indifferenza del nulla che l’origina. Così, l’atto originario che viene in presenza è lo stesso atto originario che si auto annulla e recede nella indistinzione e nell’indifferenza del nulla. L’atto originario, proprio in quanto crea il tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio in quanto si-fa-presenza si fa anche assenza, ossia abolizione di essere e di presenza.

Il nichilismo è un immenso campo di possibilità, significa che il nulla è prolifico. Il nichilismo è il luogo della possibilizzazione di infinite possibilità espressive, indica che tutte le questioni sono aperte, che tutte le questioni sono possibilizzazioni del pensare, tutte le questioni sono possibili. In questa ottica si ha una grande estensione delle possibilità estetiche come forse mai si è avuto nel passato.

Presso i minimalisti inconsapevoli di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia e dell’arte alla moda di oggi.

Tra l’altro, agli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc. sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Král A tratti un libro ripostoGiorgio Linguaglossa

10 novembre 2017 alle 10:32

Ricevo e pubblico due poesie di Adeodato Piazza Nicolai alla maniera della nuova ontologia estetica:

Adeodato Piazza Nicolai

Alice nel paese del post-reale

Senza alcuna meraviglia. Manca soltanto un minuto
allo scoccare del vero
che non c’è. Poiché semplicemente non esiste…
[…]
scoccano le sei del pomeriggio serale. Ancora non nasce
la prima-vera. Il matto cappellaio non sa confezionare
il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie.
S’è appisolata sulla sponda dell’invisibile naviglio
dove il mago cinese sembra alquanto impaziente: ha quasi
perso la sua memoria e la regina lo incalza con inclemenza.
[…]
Quel mago fuori di testa è l’assassino che vuole far fuori
Il cappellaio nascosto dietro il pollaio
dove sospetta la differenza fra uovo e gallina.
O Alice, povera fanciulla caduta nel buco che non esiste.
Da lì fuoriesce l’amico coniglietto incapace di darle alcun consiglio.
Scappa, Alice, fuggi velocemente. Attenta al terrificante riflesso
dell’incantevole specchio dorato ma frntumato alla base …
[…]
Accipicchia a quel maledetto riflesso che illude ogni cosa
e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro
per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà.
[…]
Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza
per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.
Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.
La fuga per sempre sarà fugata/frugata e mai consumata dal fuoco
che non può bruciare e neanche bucare…
Bussa alla porta del Mad Hatter e/o Capellaio Matto
però nella casa non c’è più nessuno.
Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza
finale.
Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca
di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.
Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello
che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.
L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance
scivolano lacrime di gioia…
Postscriptum: domani verrà la nuova puntata quando
la Rossa Regina, nascosta in cantina, ordinerà le guardie
regali d’imprigionare il Mago cinese. Good-bye fino
alla prossima cinepresa…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 8 novembre, ore 21:45

I venetoi trasumananti
[—]
Un fosco mattino come pochi a Venezia. Un timido Ashenbach
chiuderà gli occhi per sempre sulle sabbie del Lido.
Pallido, certamente ammalato era sceso da qualche cittadina
austro-ungarica per l’ultima vacanza sulle strade immorali…
Passeggia sulle rive dell’Adriatico, una rosa nell’occhiello,
in cerca dell’ultimo bordello.
[…]
Cavalcati dai Venetoi, splendidi cavalli corrono sui colli.
… Arrivano i romani imperiali a soggiogarli;
dopo il millenio e alcuni centenni, anche
2 guerre mondiali attraverseranno il loro fertile territorio
e nel dopoguerra (anni 50-60-70) tanti di loro scopriranno
il dolce boom statunitense …
tutto cambierà: contadini-impresari, nobili e certi operai
faranno enormi fortune alle spese della Madre Gea — sono
esportatori di vini in tutto il mondo, di scarpe eleganti, di macchinari
e pure armamenti, tecnologie avanzate, ecc. ecc.
ingrasseranno le pance di banche e ricchi padri-padroni.
[…]
Più tardi spunterà la Lega nordista colma di sogni-promesse-
fandonie
per mandibolare i poveri superstiti nelle venete pianure
insieme alle montagne… Il loro slogan: “Far-Fuori-Roma-Ladrona”.
Alla fine anche loro diventeranno ladri e truffatori,
rispettabilmente marci ciarlatani.
[…]
Mediocri città, piccoli paesi e magre cittadine del Veneto,
insieme ai villaggi delle Dolomiti, si spappoleranno:
emigranti in ogni angolo del mondo in cerca di lavoro
e la tragedia cresce tuttora!
Appena concluso il referendum per ottenere poteri speciali
Ploden/Sappada diventerà terra friulana, abbandonando
(per agevolazioni economico-politiche?)
la Provincia di Belluno e passando al Friuli.
Quanti altri paesi confinanti seguiranno l’esempio?
Forse Cortina, Regina delle Dolomiti, sarà la prossima.
[…]
Due giorni fa un cadorino ventunenne
morì drogato …
con vari amici al funerale; fu sepolto in questo modo
un altro membro
del clan post-moderno venetoiano e non vetruviano …

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 9 novembre, ore 6:22

LD07

«la metafisica trapassa in micrologia» (Adorno)

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:51

‎Serenella Menichetti‎ da La scialuppa di Pegaso (FB)

MOLTI MA MOLTI SECOLI FA
C’ERA UN PAPA

C’era una volta un papa.
-Quale papa?-
-Un papa tutto d’oro
che spesso mangiava.-
-Che mangiava?-
-La pappa al pomodoro.
E poi si addormentava.-
-Dove si addormentava?-
-Sopra un trono.
Un trono tutto d’oro
e poi si risvegliava.-
-E che faceva?-
-Faceva colazione
mangiava un bel calzone,
con dentro un gran ripieno.-
-Che ripieno?
Addirittura un treno.-
-Un treno?-
-Si, un treno.
Un treno di prosciutto
se lo pappava tutto.-
-E poi?-
– Faceva un gran bel ratto-
-Ratto?-
-No, un gran bel retto-
-Retto?-
-No, un gran bel ritto-
-Ritto?-
-No, un gran bel rotto-
-Rotto?-
-Si, lui rompeva tutto.-
-Perchè tutto?-
-A causa di quel rutto-
Serenella Menichetti
“Filastroccare Fantasia in rete”

Strilli Tranströmer 1Gino Rago

10 novembre 2017 alle 10:58

Nel poema “LORO”, da me letto, riletto, metabolizzato e perfino AMATO, per il carico di novità di linguaggio non già specificatamente per i motivi e/o i temi che l’autrice affronta, Edith Dzieduszycka che atteggiamento assume verso il tempo? Che rapporto instaura con lo spazio? In quale conto tiene il ‘nominalismo’ (non necessariamente lirico): più precisamente, Edith Dzieduszycka parla di ‘alberi’, ‘animali’, ‘piante’ ,in generale, o gli alberi diventano pioppi, platani, cilieigi… E le piante vengono nominate come robinie, tigli, glicini… E lo stesso per gli animali e gli ‘uccelli’?

Nel caso di “LORO” Edith Dzieduszycka quale ruolo affida all’IO? Che uso fa l’autrice della punteggiatura? Il poema di Edith Dzieduszycka è o no riconducibile e interpretabile all’interno del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale (formidabile strumento ermeneutico concepito e adottato per la prima volta da Giorgio Linguaglossa)?

Edith Dzieduszycka in “LORO” è nello spirito premoderno, moderno, tardomoderno, postmoderno o addirittura si muove nella dimensione del transumanesimo…? E altro e altro ancora…

Credo che oggi l’esercizio d’un tentativo non dico di ‘critica’ ma più semplicemente di ‘tentativo d’interpretazione’ di un testo poetico non possa più sottrarsi agl’interrogativi prima rivelati e/o sommessamente elencati, per evitare che non soltanto in poesia ma anche nella critica letteraria la desertificazione si spinga anche nell’Amazzonia.

Ciò detto, ammiro la vastità di dottrina di Luigi Celi. Ma da quando Giorgio Linguaglossa mi ha accostato allo Spazio Espressivo Integrale, come strumento d’interpretazione dell’altrui poesia, non me ne distacco quando cerco d’analizzare l’altrui poesia verso per verso, così come ho tentato di fare con LORO di Edith Dzieduszycka, con Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa, con l’ALLEGORIA recente di Mary Colonna, con ‘il gondoliere turbato‘ di Francesca Dono di appena ieri.

Strilli GriecoGiorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 12:14

Un esempio di interrogazione poetica del nichilismo.

Donatella Costantina Giancaspero

Ripieghiamo in direzione del bar


Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,

in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.

Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…

Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)

traduzione in francese di Edith Dzieduszycka

Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.

D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous jusqu’à le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.

Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…

Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. 
Tout au fond, reste le doute.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoCommento di Giorgio Linguaglossa

La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».

I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.

Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario: adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento, un completamento musicale della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.

La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…

«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. La nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]

1] M. Heidegger Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976 p. 370

Strilli Gabriele2Alfonso Cataldi

10 novembre 2017 alle 13:42

Per mia sensibilità (per mio gusto?) la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quella che sento più attinente alle richieste della NOE nel momento in cui si appresta a rappresentare “il buco nero entro il quale tutto precipita”. Nei suoi versi non si esplicitano case senza tetti, alberi senza radici, automobili senza motori. Non nomina mai “senza”, “vuoto”, “mancanza”, sono le immagini potenti a restituirci la sua idea di nichilismo.

 Anna Ventura

10 novembre 2017 alle 17:02

Mi piace,molto, la poesia di Donatella Giancaspero,capace di evocare tutti i fantasmi che si nascondono dietro un’espressione banale (“Quanto zucchero?”).Forse, anche, per un mio ricordo personale. Perchè le storie si assomigliano tutte,e solo la pialla del tempo può restituirci la serenità dell’indifferenza; il che,purtroppo, non è una grande conquista. Ma,col tempo, impareremo ad amare i nostri fantasmi:quando saranno (cito ancora Didimo Chierico)”come calore di fiamma lontana”.

Strilli RagoMariella Colonna

10 novembre 2017 alle 18:31

Donatella Costantina,

hai fatto qualcosa di assolutamente inedito, non soltanto (inedito) da parte tua, ma dei poeti in genere: hai acceso un cristallo di luce autunnale sulla banalità del quotidiano. Non voglio rovinale la persuasa linearità delle parole

disegnate o meglio scolpite nella grigia presenza della stagione che avanza, preferisco citarti:

«…Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?…».

Forte l’idea dei passanti che aiutano il crepuscolo a spegnersi nell’inverno avaro di sole, compagni di un breve viaggio… che poi vanno scomparendo e noi ” li lasciamo andare” .come assecondando un’onda che va a morire sulla sabbia. Che la domanda senza risposta sia proprio la più facile…è un notevole invenzione poetica. In fondo è proprio vero, è alle domande più semplici che non sappiamo dare risposta!

Poesia Nuova, intensa.

 Gino Rago

 10 novembre 2017 alle 19:25

Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…

” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”

Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…

In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è

mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…

Foto Emma Watson minimalist

«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano» (E. D.)

Strilli TosiMariella Colonna

11 novembre 2017 alle 0:42

Carissimo Adeodato,

la tua favola di Alice è ASSOLUTAMENTE STRAORDINARIA. secondo me il segreto si nasconde nel doppio livello di realtà-favola su cui fai scorrere i tuoi versi, doppio livello in cui favola e realtà si intrecciano si confrontano, si negano, e infine si abbracciano drammaticamente, senza mai rivelare dove dobbiamo orientarci per assaporarne il messaggio:

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.

Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello

che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.

L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance

scivolano lacrime di gioia…”

“…Il cappello / che tu volevi ferito a morte per troppo dolore…” è il testimone concreto dei fatti: ma non sappiamo quali fatti e perché proprio un cappello faccia da testimone

“…L’aurora lo vede sbiadire: forse è un sogno di Alice, CHE VOLEVA QUEL DELIZIOSO CAPPELLO TUTTO PER SE’, o forse è un incubo di Alice, che lo VEDE SVANIRE CON LACRME DI GIOIA. O forse è tutt’e due le cose…un SOGNO che diventa un INCUBO.

Per capire è necessario risalire indietro.

“…scoccano le sei del pomeriggio serale…”

“… il matto cappellaio non sa confezionare / il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie…” qui il riferimento molto realistico dovrebbe essere alla realtà. Luigina ha l’influenza ma non vuole stare a letto ed è… dispersa in quello strano Paese dove, “nascosto dietro il pollaio, un mago assassino “fuori di testa” vuol uccidere il cappellaio… perché (soggetto è il mago) sospetta che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina… oppure che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina (in tal caso il soggetto, colui che sospetta è il cappellaio); certo il dubbio sulla primogenitura tra uovo e gallina è storico e forse qui ha come effetto uno sconcertamento del lettore che certo non pensa più a Luigina che non vuole stare a letto con l’influenza, ma all’ipotesi della Creazione del mondo a cui si contrappone ormai da un paio di secoli e più la teoria dell’Universo in evoluzione che nessuno (il signor Nemo?)avrebbe creato dal nulla, tantomeno Dio in Persona. OGNUNA DELLE DUE TESI è COMUNQUE INDIMOSTRABILE, ma sembra che comunque la Scienza contemporanea abbia preso una strada diversa con la teoria dei Quanti e il Principio di Indeterminazione di Eisenberg.

Ad Alice, adesso, conviene fuggire via, troppi misteri e pericoli la minacciano. C’è anche quel maledetto riflesso dello specchio dorato che va in frantumi alla base e , quindi, riflette male nella parte bassa, proprio quella dove potrebbe specchiarsi Alice! Adeodato la esorta a stare attenta “Al terrificante riflesso… che illude ogni cosa e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà…”.

[…] l’allusione alla mancanza del Padre di Alice introduce discretamente un motivo familiare intimo che fa ruotare di nuovo il cerchio magico in una direzione diversa, con Adeodato al posto di Lewis Carroll.

“…Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza

per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.

Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.”

Si ritorna al mistero del cappello, sottolineato però dal mistero più estraniante e coinvolgente ad un tempo:

“…Nella casa non c’è più nessuno…”

“…Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza

finale…” Il poeta allora chiede aiuto e salvezza alla favola poetica…e riapre il cerchio magico

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare…”

Caro Adeodato, questa è una gran bella poesia e Alice-Luigina sarà fiera di te! Hai fatto un bel regalo anche alla NOE! GRAZIE!

Strilli Dono Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 8:43

Sono d’accordo con Alfonso Cataldi: “Ripieghiamo in direzione del bar” è una poesia NOE, per le ragioni che ha detto e perché vi è accadimento – tutto cinematografico, con pochi dialoghi, silenzi e rumore di passi –. A ogni verso corrisponde un istante, e come passa il tempo così fanno i versi. Cessati gli uragani delle fantasie di questi giorni, fa piacere potersi rifugiare nel bar di una poesia. Tutto è visivo, anche il fondo della tazzina del caffè:

“Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone. 

E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.

Nel fondo, resta il dubbio”.

Il verso “Nel fondo, resta il dubbio” pare un’espressione del viso.

Complimenti a Donatella Giancaspero.

Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 9:35

Io non amo tanto le poesie di Eliot. L’arrivo degli americani ha sempre creato in Europa degli scompensi. E poi allora andava molto il giornalismo; che in poesia significa fluenza discorsiva, ritmo e musicalità: tutte cose che con le poesie che si fanno qui, c’entrano davvero poco.

Sulla poesia “Loro” di Edith Dzieduszycka, mi pare dissi a suo tempo che è un testo catartico, che sembra uscito da qualche incontro di psicoterapia. Mi è piaciuto ma non capisco perché se ne parli tanto. Però Edith sembra avere un forte temperamento o, quanto meno, la forza sembra essere tra i suoi obiettivi. Ma ho letto quasi niente di suo.

Antonio Sagredo: con la poesia NOE c’entra poco o nulla, perché è poeta a modo suo; se ha qualche similare bisogna guardare a Carlo Livia. Però ultimamente ho letto cose di Sagredo che ho trovato più vicine allo stile NOE; ho il sospetto che ci stia lavorando, come pure sta facendo Calo Livia.

Non sono tanto d’accordo con questa affermazione di Giorgio Linguaglossa: “Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia”, più che altro non vorrei passasse l’dea, del tutto irreale, che il pensiero possa essere chiassoso e che si voglia portare il lettore sulle montagne russe; piuttosto, sì, su qualche cima innevata… Sono invece pienamente d’accordo con Luigi Celi quando annota che ” Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano”. Del risveglio, non del sogno !

Foto profil Marilyn bianco e nero

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile. (E.D.)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 12:19

Edith Dzieduszycka Tre poesie inedite da Grovigli

«Le previsioni del tempo sono buone».

Il respiro di prima si trasformò in sospiro.
E allora diventava quello lì.
«Una settimana.
A volte di meno, a volte di più».

Dipendeva dalla densità della nuvola.
«È solo un tentativo – dissi – vediamo cosa succede».

Lui aveva insistito, incomprensibilmente.
Ma intuiva la finta.

«Sarebbe solo tempo perso – ribadii – corriamo
sul filo del rasoio. Aspettiamo un po’
e forse sapremo qualcosa di più».

L’appartamento era polveroso, grigio,
per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre.

«Io avrei scelto il mare insieme a due coppie di amici
che a lei, chi sa perché, non piacciono affatto».
*
Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano.
Un sentore un po’ acido alla gola, appena passato l’uscio.
L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè.

Provava un disagio indefinibile.
Forse per l’autunno in arrivo?
In quell’incertezza stava ogni volta il lato antipatico della faccenda.
Come cambiano i punti di vista secondo l’umore!
Ogni casa ha la sua impronta, la sua emanazione specifica.
Far capire. Non dire.
Questo era il suo vizio.

«Perché non potrebbe andare sempre così?»
Dovrò fare la spesa domani.

Il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi.
Cosa avrebbero dovuto dirsi?, domandarsi?, confessarsi?
Ma, ripartire?
– Che parola vuota, per andare dove? –
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
«Il tempo che si calmino gli animi».
Però aveva insistito, incomprensibilmente.
Anche se non era nelle sue abitudini.

Ma questa volta era diverso.
Ormai non avrebbe saputo più niente.
Doveva farsene una ragione.

*

Due settimane fa, esattamente.
Aveva tutte le ragioni del mondo per essere scocciato.
Ma che ci faccio qui?
Sto diventando masochista?
Il dentista consigliava un antibiotico.
quella città nella stagione incerta,
un po’ malinconica, avvolta nelle prime nebbie leggere dell’autunno.
Solo per agitare un po’ le acque.
Per una volta potrebbe fare questo sforzo.

– Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette –

Cinque anni dopo si era ripresentato lo stesso problema.
Una persona gentile, discreta, un po’ eterea e distratta.

La loro vita era diventata più complicata.
Non se ne capacitava.

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile.

Mario Gabriele In viaggio con Godot Cover gialla

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

«Le previsioni del tempo sono buone»

«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

«Due settimane fa, esattamente»

Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

Strilli Busacca Vedo la vampaDonatella Costantina  Giancaspero

11 novembre 2017 alle 14:05

Cari amici,

Edith Dzieduszycka, Alfonso Cataldi, Anna Ventura, Mariella Colonna, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, vi sono grata per l’interesse che ha suscitato in voi questa mia poesia. L’ho conclusa proprio pochi giorni fa e non pensavo che Giorgio me l’avrebbe pubblicata sulla rivista. È stata un’autentica sorpresa! Anche il suo commento lo è stato e la traduzione di Edith, che ringrazio doppiamente. Ormai, quando scrivo, mi sento sempre più convintamente attratta dalla nuova prospettiva poetica indicata dalla NOE. Ho compreso che questo orientamento mi si addice alla perfezione. Probabilmente, lo cercavo da sempre, ma senza saperlo e soprattutto senza che nessuno me ne potesse dare indicazione precisa. Perciò, non potrò mai ringraziare abbastanza Giorgio Linguaglossa, mia imprescindibile bussola, per aver corretto la mia navigazione poetica, che se ne andava un po’ a naso, diciamo, seguendo l’intuito… Con l’ago puntato sulla NOE, invece, sento di poter raggiungere nuovi (e non effimeri) territori espressivi.

Ecco, cari amici, questo mi sento di dire in risposta ai vostri commenti tanto positivi.

Anche il poemetto di Edith Dzieduszycka, “Loro”, si inserisce nella ricerca operata dalla e nella Nuova poesia; e questo già prima che si parlasse di NOE. Un dato significativo del fatto che certi esiti espressivi si affermano necessariamente, perché imposti dalle direttive del Tempo storico.

L’originalità del poema “Loro”, a mio avviso, sta nell’insieme compatto di forma e contenuto: l’una necessaria all’altro, in quanto la crisi profonda dell’Io (“il suo scacco ontologico”, come ebbe a dire Giorgio, in un precedente commento), la crisi esistenziale, emergente da questi versi, non può altro che avvalersi di frasi brevi, chiuse in se stesse dalla punteggiatura. E di un tono perentorio, che trova nel parlato la sua manifestazione più forte. Molto è stato detto riguardo a questo poemetto e tutto davvero illuminante rispetto al suo significato. In ultimo, il saggio di Luigi Celi mi pare esemplare.

Concludo così, rinnovando il mio grazie, unito all’augurio… Buona poesia a tutti voi!

Foto New York traffic

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta». (Marcuse)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 16:29

Per tornare al caro amico e interlocutore Luigi Celi,

sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla nuova ontologia estetica, dopo la valanga di commenti, poesie, rilievi che sono piovuti in coda al suo articolo. Ormai questo nuovo modo di intendere il testo poetico è una realtà, la poesia italiana si è rimessa in moto (con quali risultati lo vedremo, ma già alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti).

La Nuova Poesia della nuova ontologia estetica è già di per sé un fatto nuovo, direi travolgente, travolgente (lasciatemelo dire) per la stagnante poesia italiana di questi ultimi decenni. Un fatto epocale, storico, in fin dei conti. Come scritto da molti poeti qui intervenuti, già da tanti anni i singoli poeti cercavano nuove vie, nuovi mezzi di espressione, certe novità erano nell’aria da molti anni, basti pensare a poeti diversissimi che non si conoscevano tra di loro prima di incontrarsi qui su questa piattaforma: Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Talia, Anna Ventura, Alfonso Cataldi, Carlo Livia, Mariella Colonna, Chiara Catapano, Vincenzo Petronelli, Adeodato Piazza Nicolai, Luigina Bigon, Mauro Pierno, Laura Canciani… più altri autori che si situano nelle vicinanze di questo nuovo Grande Progetto e che ci seguono da tempo con interesse…

Io dico sempre che il nostro punto di riferimento deve essere l’Acmeismo degli anni dieci del novecento, il movimento che ha cambiato il volto della poesia del novecento (non solo russo)…

ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata», e che di conseguenza, si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari, che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece, in realtà, nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa, non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una cosa nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, raccolta di rottami dalle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms… non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di frammenti.

Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi che quel grande circuito che è il CERN di Ginevra identifica un giorno sì e un altro pure, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando.

La poesia si è prosaicizzata, prosasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

 Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 18:09

con le parole di Marcuse:

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

*

Nel 2010 così rispondevo ad una domanda postami da Luciano Troisio:

Domanda: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Risposta: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta.

Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di

una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti: Mario M. Gabriele, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Costantina Donatella Giancaspero; né bisogna dimenticare la riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein: i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche », o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto

di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

 

foto Le biglie

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno (A. Sagredo)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:20

Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica» – Spostare? – Se mai rovesciarla perché sia più efficace e incisiva e capace di conservare in un museo la vecchia poesia del ‘900 – poi a proposito di T. S. Eliot (così amato da Luigi Celi, e lo capisco) l’ho così rivoltato come un guanto di vecchio ermellino che non si riconosce più il suo specchio e la sua finzione in BISTROT:

*
Bistrot

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate ,
l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti
ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora,
ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche,
s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria,
è volata dal tetto decollando d’un tratto,
e mirando una tempestosa sera primaverile
ha sciolto i suoi anelli e s’è destata.

E davvero non ci sarà da aspettare
per l’aria pura che risale dai vicoli,
che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti;
e davvero non ci sarà da aspettare
per improvvisare una maschera, non incrociare i volti.
E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere,
e per oziare e per le notti dei piedi ……….
che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia.
Non c’è tempo per noi due,
e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe
e per mille realtà e reazioni
dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

E davvero non ci sarà più tempo
di rispondersi: sarò vile e non sarò vile?
Andare avanti diritto e salire sulle scalinate
con la chierica ben in vista…
e saranno muti per la folta capigliatura.
Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero
e intorno nemmeno una fibbia allentata,
e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia!
Non avrò timore di armonizzare gli universi?
Nell’eternità non c’è tempo
per indecisioni e reazioni che riempirà.

Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate.
Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi,
Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio,
ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti
sopra la musica che se ne va da un domestico spazio.
Così, come stare al sicuro?

E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati,
gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa
e quando non enunciato mi blocco su un pianoro,
quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete,
come potrei allora finire
a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini?
Perché non dovrei tutelarmi?

E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati,
questi piedi senza armille, imbrunite e coperte,
ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!.
È l’afrore che s’allontana da un vestito
che mi fa annoiare così?
Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa.
E che dovrei tutelarmi, allora?
E come finire?

Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali?
E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe
di tanti uomini in camicia insieme sui balconi?

Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati
inchiodati sulle onde di mari tempestosi.

E il premeriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così!
Irruvidito da corte dita,
sveglio… attivo… o sanissimo realmente,
in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me.
Non dovrei, dopo le leccornie,
aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità?
Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo,
malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta
mancante su un vassoio…
io sono un profeta – e questo mi interessa.
Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi.
Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver contegno,
e alla lunga, ne ero confortato.

E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio,
prima delle porcellane e delle leccornie,
fra maioliche bianche e qualche mutismo
tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio
di rinascere con un pianto,
di dilatare l’universo all’infinito
e di fissarlo in una risposta liberatoria,
di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò!
Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
non vi dirò nulla!”.
Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo,
rispondesse: “È quello che intendevo.
Si, è così”.

Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto,
ci sarebbe stato un vantaggio,
prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze;
prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta.
E non è quello, o poco di più?
È possibile non dire esattamente quello che non intendo!
Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete:
ci sarebbe stato un vantaggio
se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo
ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse
“Si, è così.
Non è questo ciò che intendevo”.

Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole;
non sono uno del suo seguito, uno che non servirà
a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno,
dissuadere il principe, incerto indocile strumento
irriverente, infelice d’essere inutile.
Non politico, imprudente e disordinato,
privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente;
quasi austero,
o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso.

Divento giovane, divento giovane.
Indosserò calzoni srotolati per intero.

Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca?
Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli.
Traducevano le sirene il silenzio una all’altra.
Non credo che erano mute per me.

Se ne venivano verso la riva per la sessa,
scompigliando la nera peluria di onde avvilite
quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.

Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato
accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte.

Fino a quando suoni disumani ci assopiscono,
e ci leviamo – su, dalle acque!

(antonio sagredo, Roma, 21/22 maggio 2015)

Foto uomo tigre

gli uomini ribelli/ gli angeli dannati/ cadevano a testa in giù/ l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione (T. Rozewicz)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:25

Per Edith i miei personali apprezzamenti che si ripetono identici a quel che scrissi a proposito dei suoi versi: asciuttezza e profondità coincidono… che è qualità rara.

Mario M. Gabriele

11 novembre 2017 alle 18:09

Basta questa poesia, Sagredo, per stare un po’ in allegria compagnia, come sarebbe bastato, per esempio a Leopardi aver scritto soltanto l’Infinito. Ma per un vecchio enologo come me che custodisce il vino delle migliori poesie, trovo questi tuoi versi, a parte le risonanze eliotiane e il timbro ironico, un vero colpo d’ala a cielo aperto.

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 18:00

E aggiungerei – anzi aggiungo e dichiaro – che è ormai maturo, se non già marcio (“La terra desolata” come titolo è errato, la traduzione precisa è “La terra marcia”! ) il tempo di ri-iniziare un NUOVO TEMPO per la Poesia, così come sempre è stato all’inizio di un nuovo secolo… la NOE sta dando un piccolo contributo, che è gigantesco vista la piattezza assoluta dello stato in cui versa la POESIA Italiana e non solo… i tempi sono già maturi (mi ripeto) poiché saremo fra un tempo non molto lontano davanti a sconvolgimenti che dire epocali è un eufemismo banale e spicciolo.

Avevo già dato un esempio con i versi delle mie 10 “LEGIONI” nel 1989… inascoltati poiché pioneristici : e questo è cosa ovvia per chi non ha orecchie. Sarebbe il caso che mi si desse l’opportunità di postarli…uno alla volta e per l’ultima volta… lo stile è quanto ci sia stato di meglio negli ultimi 60 anni: presunzione? No, consapevolezza.

Giorgio Linguaglossa

novembre 2017 alle 19:25

Scriveva il poeta polacco Tadeusz Rozewicz nel 1963:

[…]
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

————————————————————————
mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
————————————————
dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

82 commenti

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Jacopo Ricciardi POESIE SCELTE da Sonetti reali (Rubbettino, Iride, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto ipermoderno Il ponte di Brooklyn a New York Louis Vuitton

ipermoderno Il ponte di Brooklyn a New York Louis Vuitton

Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn.

Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il Melangolo, 2015).

Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste Poesia, L’immaginazione, Soglie, Resine, Levania e altre.

Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Come pittore ha tenuto mostre in tutta Italia.

giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-roma Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Si ha la sensazione, leggendo questi «sonetti reali» di Jacopo Ricciardi, che il modernismo della prima metà del Novecento abbia definitivamente voltato pagina. Forse, chissà, si sono esaurite le potenzialità di crescita del modernismo europeo, almeno qui in Italia, e varrebbe la pena di investigarne le ragioni. Forse, l’ipermoderno del Dopo il Moderno ha finito per rivalutare le «forme» pregresse. Il ripristino della forma del sonetto da parte dell’autore forse ha questo significato: che la riproposizione di una forma pregressa può conferire al dettato poetico un valore aggiuntivo, un di più rispetto alle forme odierne che ripudiano la «forme» della tradizione, che adottano il verso spezzato o libero (come si diceva una volta), che molto spesso collima con il verso arbitrario, ciò significa che Ricciardi preferisce affidarsi ad una «guida» autorevole e collaudata da secoli di tradizione metrica e formale come è il sonetto. Il lessico è tenuto su un piano basso, colloquiale, nel quale Ricciardi si trova a suo agio, con spiccate modalità narrative, le rime si alternano ai richiami fonici,  le tematiche sono quelle esistenziali dei nostri giorni con il corredo di panni poveri e dimessi come nel mirabile sonetto «Ma in fondo niente è mio e di nessuno». Infine, una nota: il libro non contiene prefazione o commento alcuno, cosa davvero rara in questi tempi di presentazionismo (mi si perdoni il neologismo). Inoltre, le poesie sono come campiture messe su pagina, indicano un tema e lo raffigurano nella forma del sonetto, non hanno semi toni prefettizi o tratti sopra segmentali, la dizione è ironica e colloquiale.

Ut pictura poesis, dicevano gli antichi pagani. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Questo semplice assunto ci porta dentro la problematica di che cosa debba raffigurare oggi una poesia. Ecco il punto. Ed è molto semplice la risposta. La poesia deve adottare il punto di vista della pittura, deve raffigurare l’oggetto come se esso fosse un oggetto da dipingere linguisticamente, con le risorse della lingua. Per alcune ragioni storiche che non sto qui a sintetizzare, la poesia moderna ha perduto questo concetto, diciamo mimetico, rimanendo impaniata nello pseudo concetto di una poesia che dovrebbe comportarsi come meta-poesia, di poesia toponomastica, poesia confessione, una poesia invasiva con l’io che deborda spesso in tutte le varianti. Di fatto, per tutto il secondo Novecento la poesia si è amputata le possibilità espressive per ridursi ad un discorso di secondo grado, e poi di terzo grado e così via… ma era (ed è), ritengo, una strada che conduce ad una poesia genericista alla Edoardo Cacciatore, oppure, alla poesia che fa il commento di un altro avvenimento, perdendo in tal modo l’orizzonte di senso dell’oggetto.

Questo libro di Jacopo Ricciardi ci aiuta a capire, in qualche modo e per sottrazione, quello che è avvenuto. Oggi assistiamo ad una contaminazione tra i generi artistici.  Milosz nella prefazione alle poesie di Eliot scriveva: «Certe scene dei film di Fellini e di Antonioni sembrano la traduzione di una poesia, spesso di una poesia di Eliot: basti citare la stanza dell’intellettuale ne “La Dolce Vita” di Fellini, che sembra tratta dal “Canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (In the room the women come and go / Talking of Michelangelo); e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema…». Tutto vero, tutto condivisibile.

Ho visto tempo fa il film di Martone sul “Giovane favoloso” Giacomo Leopardi. Bene ha fatto il regista a tradurre ogni poesia di Leopardi in immagini filmiche. Non poteva fare diversamente. Ma è vero anche il contrario, si può tradurre una immagine flimica o fotografica in poesia, basta essere consapevoli della operazione che si sta facendo.

Ecco, io ritengo che la poesia di oggi possa ricominciare appunto dalle immagini, perché ha perso il bandolo del senso di come raffigurare l’oggetto, il «che cosa fare e dire» in poesia e mediante la poesia, che è cosa diversa dal «che cosa fare e dire» nella prosa narrativa.
E questo è probabilmente il modo migliore, per chi ne è capace, per riallacciarsi alla più alta tradizione della poesia europea de primi tre decenni del Novecento.

pittura Bauhaus

Jacopo Ricciardi 

Da Sonetti Reali edito da Rubbettino, Iride, 2016

 

Attualità

Questo mostro ha quattordici miliardi
Di gambe, ma si muove
Come un lento pesante pachiderma.
Un immenso cervello li raccoglie
Tutti, ma, cosa vuole
O cerca, è impossibile sapere.
Eppure, i suoi muscoli ci tirano;
Ma il suo dove, il suo quando,
La sua creazione, non possiamo né
Riconoscere, né mai inventare:
E ognuno è parte, sì,
Del tutto, ma il tutto resta diviso.
Le onde del mostro tornano su sé
Chiudendo la sfera del mondo più
Volte. Uniti nella
Trappola, noi, indaghiamo l’estremo
Confine, la certezza di qualsiasi
Invenzione, creazione, nella misura
Trovata, del mostro, lì,
Chiuso, che si nutre della sua coda.

*

In meditazione

Sono stato nel nero d’universo
Con la coscienza mia in meditazione
Ed era continuo e denso, un mare terso,
Cadendo all’improvviso in sospensione.

Ero sul punto lì d’essermi perso
Nell’incommensurabile fusione
Di una vastità senza più alcun verso
Senza confine alla mia osservazione.

Tra lì e qui è lo stesso reale,
Ma non è, Marti, la stessa realtà:
Io ero me, come ora, non vale
Per la materia, l’oggettualità
Sua non c’era, ma sono qui uguale:
Da lì viene la mia ritualità.

*

Il presente

Non ora; fu. Però ancora il muro
Di tasselli quadrati dall’erba alta
Nel caldo d’estate ghermente, duro,
Vicino a me ridava questa balta

Che azzera, illumina, resetta il mondo,
Da qui seguendo ancora quelle mura.
E come è strano: meglio esiste il mondo
Senza tempo; è come una cura

Per me, che voglio tornarvi, nel mondo,
Senza tempi, seguendo il mio respiro,
Guardando quello che più non mi lascia,

Trovando intatto, chiaro, il mio respiro,
Che è qui nel luogo che più non mi lascia,
E che principia per me tutto un mondo.

*

Loro

Sul tetto dei mari tutta la gente
Va, mentre il sole nei giorni alto splende,
Sull’enorme pietra dura vivente,
Camminando ormai magri senza tende,

Nella pianura che a loro mai mente,
Verso la notte che nel mentre scende
Quando ancora là nulla si sente.
In un lager di luce si rapprende

L’umanità di oggi, lunga fuga
Di morti. Resto accanto alla città
Irrequieta, con nel piatto la lattuga,

Alla finestra la mia serietà,
Il vessillo rosso che al vento ruga
Il vuoto cittadino dell’Età.

*

jacopo-ricciardi-cop

Guerra e amore

Guerra vergine, guerra nascitura,
Ma prima, guerra sfuggita alla vita;
Da te chi resta avrà gloria futura
Ma perdona se non ti invoco inclìta;

Incredulo pensando, la paura
Genera amore che subito è vita
Poi morte sospesa in semplice abiura,
E temo dei due gemelli le dita.

Le iridi marroni mie nel caos
Volgo ai due amanti giganti e schivi
Nella penombra della stanza, i naos

Perduti, e quando una finestra aprivi,
Per sdraiarsi nel palmo oro del Laos,
Fu già l’acropoli morta dei vivi.

*

Non c’è mai musica da queste parti

Non c’è mai musica da queste parti
E la poesïa stenta ad attecchire.
Internamente vogliono scuoiarti
Quando nel tempo l’aria senti aprire

Ed è la vita a cercarti e ad amarti
Quando il pensiero va fedele al dire
E tutto quasi ritorna al pensarti.
Ma non sa oggi di dover vanire

La scuola del mondo difronte a psiche
Vendicativa, che dagli occhi vitrei
E fondi, montando parole in un eco

Animale, rëale in certi mitrei
Delle intenzioni, sporche, nevrotiche,
Andrà nel cuore come un falso geco?

*

Oggi più non importa la natura

Oggi più non importa la natura.
Che preesista all’uomo o meno, comunque
Sempre distante anche da chi ne ha cura
Scrivendo, amandola o odiandola, dunque

Abitandola con vivo amore, scura
Voce d’ombre un sussurro da ovunque
Persecutorio giunge a questa tura
Che l’uomo inscena per sé e per chiunque.

Ed è Lei a guardare alla finestra
La persona che crede Lei guardare;
La smonta da lì dietro una ginestra

In quarks ed antiquarks da adronizzare
Aprendo in stormi l’essere che addestra
Un nuovo Vento che non può annullare.

*

jacopo-ricciardi

jacopo-ricciardi

Verranno a scalpellare i nostri volti

Verranno a scalpellare i nostri volti,
Popoli lontani che sanno poco
Di noi, la voce e la lingua di molti,
Poi i corpi dall’ammasso spartifuoco

Dell’aria che resiste tra gli accolti.
Già ora il mondo perduto rinfoco
Come se fossimo tutti sepolti.
Solo di questo paese mi importa,

Della beltà sua costruita rara –
Colonna d’edera lunga e attorta.
Ma ora è vero il volto nella bara

Non più dipinto sai da mano accorta;
È una caldera a cui manca la gara.
Scendo, ma non sarà un’attesa corta.

*

Il vuoto

Vera è la forma e il tempo che la cambia;
Ma il moto di materia finge il tempo:
Solo esiste quel moto che la scambia;
Esso agisce dal vuoto di ognitempo.

Dilato la realtà se penso pensi;
E la mente è nel vuoto di una maglia
Della rete che ho intorno ai cinque sensi.
La verità sta oltre quella faglia.

In una verità che mai incastoni
Vado a trenta chilometri al secondo
Per novecento quaranta milioni
Di chilometri in un anno, giocondo.

Il cuore mio che batte è un antitempo.
Non posso avere il moto senza tempo.

*

Impasse

I

Materia e idea hanno stessa sostanza,
Sono archeologia passata e futura,
Resti avuti o inventati per quest’ora
Di frammenti senza tempo o mattanza.

Angelica questione senza sesso
È questa ricerca di annullamento
Temporale che fa un tempo dipinto
Ora ma da nuovi frammenti rescisso,

Per gli abitanti futuri del mondo
Dove ognuno da ogni altro morto è oriundo.

E quale sciocca allegoria tra i vivi,
Che si fa specchio negli occhi che anneri
D’universo Dio anche tu se bevi
Dalla coppa di un mondo a cui aspiri.

II

O invece il mondo è un ordinato cuore
Nel quale splendono superbi cieli
Elevati sulle spalle degli arieli,
E sotto stanno i cervi in quell’umore

In un abbraccio di pietra che geli,
Bianco, fronte al vuoto e terso attrattore
Della valle; ma pulsa un odore
Nelle narici convulse e tra i peli

Irti di quell’animale lì travolto,
E guardo la colonna magra farsi
Protiro, poï chiesa a cui è tolto

Il nartece, e di nuovo è un agitarsi
Di ferule nell’aria, ed è molto
Il miele bevuto fino ad istoriarsi.

*

oi

Non ti bastava la lingua dei vivi?
Vuoi, forse, dei retrivi
Morti, il linguaggio, perché lì soggiace
Più vivo dei vivi? Fervente e audace,
Tu scacci questa pace
Di amorucoli circensi e passivi.
Stanco di baccanali sciocchi e estivi –
Stolti origami privi
Di sofisticazione –, nella procace
Vecchia maniera che oggi frana e tace,
Non vuoi mimar le acacie,
O perderti per teatri lascivi.
Da troppo tempo umano, tu vuoi renderti
D’ora in poi, senza dubbio, inumano.
Ti pretendi inumano
Capace di vivere, senza perderti,
La morte e di portarla sulla verde
Terra, come una luce all’ombra e piano
Sovrapporla con mano
Attenta, per lo scontro delle vicende.

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Venerdì 13 novembre 2015 alle ore 19.00, presso l’Ambasciata della Repubblica di Serbia in Roma via dei Monti Parioli, 20 Presentazione della Antologia di Duška Vrhovac Quanto non sta nel fiato. Farà gli onori di casa l’ambasciatore S.E. Sig.ra Ana Hrustanovic. Saranno presenti Duška Vrhovac, Ennio Cavalli, Giorgio Linguaglossa, Plinio Perilli, il curatore del volume Ugo Magnanti. Prevista la partecipazione di Dejana Peruničić, addetto culturale dell’Ambasciata INTERVISTA ALLA POETESSA SERBA DUŠKA VRHOVAC “ALLARGANDO I CONFINI LA SOCIETA’ MODERNA RESTRINGE LE PROSPETTIVE” a cura di Giorgio Linguaglossa con alcune Poesie di Duška Vrhovac, Traduzione dal serbo: Cvijeta Jakšić

Venerdì 13 novembre 2015 alle ore 19.00, presso l’Ambasciata della Repubblica di Serbia in Roma via dei Monti Parioli, 20 Presentazione della Antologia di Duška Vrhovac Quanto non sta nel fiato. Farà gli onori di casa l’ambasciatore S.E. Sig.ra Ana Hrustanovic. Saranno presenti Duška Vrhovac, Ennio Cavalli, Giorgio Linguaglossa, Plinio Perilli, il curatore del volume Ugo Magnanti. Prevista la partecipazione di Dejana Peruničić, addetto culturale dell’Ambasciata INTERVISTA ALLA POETESSA SERBA DUŠKA VRHOVAC “ALLARGANDO I CONFINI LA SOCIETA’ MODERNA RESTRINGE LE PROSPETTIVE” a cura di Giorgio Linguaglossa con alcune Poesie di Duška Vrhovac, Traduzione dal serbo: Isabella Meloncelli e Cvijeta Jakšić

Duska Vrhovac Typewriters

Duska Vrhovac Typewriters

Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).

Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.

È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia. Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:

Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia;
Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia;
Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia;
Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986)
S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987)
Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988)
Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990)
I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991)
S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996)
Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996)
Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997)
Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002)
Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006)
Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007)
Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008)
Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009)
Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010)
Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011)
Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013)
Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)

Duska Vrhovac Allen Ginsberg Belgrado

Duska Vrhovac Allen Ginsberg Belgrado

1) Domanda: Cara Duška Vrhovac, riprendiamo il filo del discorso. Ti porrò alcune domande sulla tua poesia e, in generale, sulla poesia che si fa in Europa; credo che per un lettore italiano sia interessante il pensiero di una poetessa serba che ha vissuto a lungo in Italia. Qual è stata, a tuo avviso, l’influenza della rivoluzione mediatica sulla tua poesia? Intendo dire che nell’ultimo decennio del Novecento si è avvertita, almeno qui in Italia, una certa stanchezza di idee e di proposte, la poesia europea sembrerebbe essersi stabilizzata al livello della poesia del privato, del quotidiano, del corpo, della cronaca, della protesta, del ritorno all’elegia, insomma, sulla misura della Crisi della Ragione Poetica. Però, paradossalmente, proprio questa Crisi ha provocato in questi ultimi anni il risveglio della poesia e una nuova fioritura di poesia. In tal senso, sarei propenso ad inquadrare anche la tua Antologia “Quanto non sta nel fiato” edito in Italia da Fusibilialibri nel 2015. Che poi è lo stesso discorso che tu porti avanti con la tua poesia quando scrivi:

Gli esegeti dei movimenti d’arte odierni,
di quelli poetici in particolare,
hanno già detto che la poesia è tutto,
performance, gioco per gioco,
e multimedialità da gradire molto.
La poesia è di per sé già tentativo
che l’uomo, di cui tutto è stato detto,
abbia lui stesso a dire qualcosa,
di sé naturalmente.
Non è forse questo il tempo ideale per la poesia?

Duska Vrhovac Sobe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)

Duska Vrhovac Sobe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)

Risposta: ALLARGANDO I CONFINI LA SOCIETA’ MODERNA RESTRINGE LE PROSPETTIVE

Il mondo è globalizzato ed il diavolo ha già fatto la maggior parte del suo lavoro, questo è sicuro. Ma è anche sicuro che da quando il mondo è mondo il bene sopprime il male e dopo la pioggia comunque viene il sole. Per quanto sembri out, è quello che, malgrado tutti gli evidenti motivi di pessimismo, continua a spronare l’ottimismo insito, benché ce ne siano pochi di motivi. La cosa peggiore sta sicuramente nel fatto che la nostra società moderna purtroppo restringe le prospettive mentre sta allargando i confini. Paradossale, ma è proprio così.

La comunicazione oggi, in qualsiasi settore si svolga, per essere visibile ed efficiente richiede la provocazione. Vuol dire che sono passati i tempi del lento e quieto rialzare della coscienza e che per qualsiasi tipo di successo ci vuole un’azione veloce ed efficace i cui effetti saranno immediati. È però difficilissimo evitarne le conseguenze negative nella cultura, nell’arte, nella letteratura ed in particolare nella poesia, a proposito della quale si parla degli stessi problemi nelle varie parti del mondo. Sta morendo oppure si trova sul punto zero e cerca un nuovo inizio? È sprofondata indecentemente in basso invece di salire sempre più in alto? Come liberare la poesia (da che cosa)?

In sostanza, tutte le risposte si potrebbero ridurre in poche frasi. Come sempre, la poesia anche oggi nasce in date circostanze, nella realtà politica, ideologica, sociale e culturale del proprio tempo ed è soggetta a tutte le sue malattie. Perciò, possiamo dire che la crisi della scrittura non esiste da nessuna parte e che il problema è piuttosto l’iperproduzione e la mancanza di criteri di valore, che già da un bel po’ vengono stabiliti dai più idonei (politicamente) e dai più abili (nel senso del commercio e marketing). Inoltre, la possibilità di pubblicare è molto grande, il che favorisce l’iperproduzione e la selezione negativa, ammesso che una selezione che non sia negativa esista.

Non è neanche vero che oggi la poesia non sia letta, anche se è vero che i libri di poesia si vendono molto meno di quelli di narrativa e degli opuscoli che spiegano come diventare ricco, come essere felice, come scegliere quello/a giusto/a, come curarsi in modo veloce ed economico da malattie incurabili, e così via. Ma anche qui tutto è abbastanza chiaro, una pubblicità imponente ed un buon marketing riescono a vendere un cattivo libro di qualsiasi genere. Perché allora non vendere anche un libro di poesia? Si trascura che, comunque, un testo poetico richiede un maggiore impegno di tutti i partecipanti: scrittori, curatori, editori, marketing e, infine, l’utente. E questi sono i tempi della velocità (fast food, viaggi veloci, relazioni sbrigative, arricchimenti veloci, consumi veloci, e persino veloci arrivi ad un vuoto che poi viene riempito dalle stesse cose che l’hanno causato, dalla “merce” priva di spirito). Allora, come “imporre” la poesia? Unicamente istituendo criteri di valore, facendo una pubblicità buona ed imponente, essendo disponibili e – inevitabilmente – investendo. Il solo problema è che gli investimenti in spiritualità, e la buona poesia è necessariamente spiritualità, oggi più che mai comportano il grande rischio di non vedere mai un ritorno. Ed è un rischio che nessuno più vuole. Arriviamo così alla questione dell’atteggiamento della società e dello stato verso la cultura e verso l’arte in genere, quindi anche verso la poesia, la vera regina di tute le arti, per quanto sembri patetico dirlo. Quale Paese oggi ha una strategia culturale? I Paesi che ci tengono alla cultura ed all’arte tengono conto del futuro culturale della propria nazione, della lingua, della società in genere, hanno una strategia culturale.

Io vengo dallo spazio “buio” dell’Europa dove ad ogni generazione è garantita almeno una guerra ogni 20-40 anni; tutto il resto è incerto. E quindi la cultura è agli estremi margini. Per questa ragione anche il rapporto con la cultura era migliore in quello stato marcio e ormai distrutto, inadeguato e chiamato “comunista”, di quanto non lo sia in questo stato democratico che si sta arrampicando sugli specchi per raggiungere gli standard europei che l’Europa ha già superato, distruggendo se stessa nel senso culturale e culturologico.

Duska Vrhovac Alaetin Tahir, Fazıl Hüsnü Dağlarca Struga, Macedonia 1986

Duska Vrhovac Alaetin Tahir, Fazıl Hüsnü Dağlarca Struga, Macedonia 1986

2) Domanda: Quale è stato, a tuo avviso, il ruolo che il modernismo europeo (da Mandel’stam ed Eliot passando per Auden, Milosz, Rozewicz, Herbert, Vasko Popa, Kikuo Takano fino ai giorni nostri) ha avuto sulla tua poesia?

3) Domanda: Qual è la tua opinione sulle poetiche dello sperimentalismo che dagli anni Sessanta e Settanta ha invaso la poesia europea? Voglio dire: è stata una esperienza utile quella dello sperimentalismo europeo per la tua poesia?

4) Domanda: Piccolo popolo quello serbo, poesia grande?

Duska Vrhovac I Wear My Shadow Inside Me, Forest Books, Londra, 1991.Risposta: POPOLI PICCOLI E POESIA GRANDE

Isidora Sekulić (1877-1958), una delle donne più sagge nella storia della letteratura serba, romanziera, saggista, traduttrice, poliglotta, per educazione professoressa di matematica, scriveva delle sorti dei popoli piccoli e delle lingue piccole. Nel 1932 ha scritto anche quanto segue:

“Nei popoli piccoli, dal regnante al pastore – cantante, su ogni punto trema e si spezza qualcosa che sta tra due equilibri, uno che si perde e l’altro che si viene a creare. Nei piccoli popoli è in atto quello che la storia dell’arte chiama Rinascimento e che invece le scienze naturali chiamano molto meglio: elementi degli eventi. I popoli piccoli, infatti, sono materiale più cosmico che europeo, il quale per volontà divina può entrare in un attimo in nuovi eventi, diventare nuovo mondo; ovviamente, per volontà divina può anche essere sospinto più in profondità tra gli elementi. È un gioco sul filo di lama, è un risplendere e spegnersi in una goccia di rugiada. È la poesia del popolo piccolo, dappertutto e quindi anche nella pittura.” (Isidora Sekulić, Balkan, Plavi jahač, Beograd, 2003).

Forse tutti quelli che in qualsiasi modo si occupano dei Balcani, ed  in particolare quelli che studiano la poesia di questi territori, dovrebbero prima leggere questo saggio di Isidora. Voglio credere che leggerlo faciliterebbe la comprensione di alcune cose e renderebbe possibile cognizioni più profonde. Una di queste cognizioni probabilmente sarebbe che spesso nell’intimo di questi artisti, nel loro carattere, c’è qualcosa che tende al surreale, all’incredibile, nonché qualcosa di profondamente atavistico. Per questo motivo molti di loro credono che niente succeda per caso ma che oltre al visibile ed al comprensibile ci sono sempre significati e sequenze di eventi più profondi. Neanch’io sono un’eccezione. Quindi espongo qui un dato apparentemente poco importante sul mio popolo piccolo (che una volta era più grande ed aveva una cultura maggiore, cosa che oggi si può intuire e provare nella lingua e nella scrittura, più ricchi e più perfetti di quanto non lo sia la nostra odierna cultura). I serbi sono un popolo molto talentuoso. Rispetto al numero degli abitanti hanno dato un gran numero di artisti riconosciuti nel mondo, scrittori, pittori, poeti e scienziati. Uno di questi grandi poeti è Vasko Popa.

Duska Vrhovac, photo by Lisa Bernardini

Duska Vrhovac, photo by Lisa Bernardini

5) Domanda: Oggi tutto è ecologia. Forse anche la poesia dell’Occidente di oggi sembrerebbe rientrare nel concetto di ecologia. Qual è il tuo pensiero?

 Risposta: NON BASTA L’ALIMENTAZIONE SANA PER UNA VITA SANA

Oggi tutto è ecologia. Forse il maggior simbolismo che potrebbe riferirsi alla poesia, sebbene riguardi la sopravvivenza, sta proprio nel tentativo di coltivare alimenti sani sul suolo che ha generato Nikola Tesla, Mihajlo Pupin, il premio Nobel Ivo Andrić e tanti altri personaggi importanti, sul suolo chiamato Europa dell’est oppure Balcani occidentali, su questo suolo permanentemente inquinato da materiali tossici provenienti dalla demolizione di grandi complessi industriali e chimici e l’uso di armi con uranio impoverito durante i bombardamenti della NATO della Jugoslavia nel 1999! E noi coltiviamo questi alimenti sani. E li compriamo. E li vendiamo ai paesi che hanno preso parte ai bombardamenti, perché niente può sostituire la vita. E niente può sostituire la poesia che quindi sopravvive in tutti i tempi e sopravvivrà finché l’uomo possiede i sentimenti, finché non passa in uno stadio successivo che inevitabilmente cambierà tutto. I sentimenti precedono tuttora la ragione. La poesia sopravvivrà anche perché per la vita non è sufficiente la sola alimentazione sana.

Duska Vrhovac Chantal - Duska, ritratto di poetessa, Parigi 84

Duska Vrhovac Chantal – Duska, ritratto di poetessa, Parigi 84

6) Domanda: Un autore modernista di alto livello come Vasko Popa risulta poco tradotto in Italia. Ti chiedo: come mai?

 Risposta: A PROPOSITO DI VASKO POPA Commento di Duška Vrhovac. Traduzione dal serbo: Cvijeta Jakšić

Mentre nella mia vita ero collegata all’Italia da un’amicizia giovanile che mi ha regalato un’altra famiglia incrementando il mio amore per la cultura, l’arte ed il popolo italiano, nella mia casa di Belgrado ci sono due cose che da qualche tempo mi ricordano Roma: il libro delle mie poesie scelte in italiano, Quanto non sta nel fiato e serigrafia ritoccata a mano, del maestro Ezio Farinelli, sulla parete del mio soggiorno. Perché parlo del mio libro? Perché la nascita di quel libro mi ha arrecato molta gioia, ma anche un attimo di disagio. Fu all’Isola dei poeti Tiberina, quando mentre ne tenevo in mano commossa la seconda edizione mostrandola al pubblico, ho saputo che a Vasko Popa, il poeta sul quale avevo scritto la mia tesi agli esami di maturità, uno dei maggiori poeti serbi del Novecento, non è mai stato pubblicato un libro in italiano. Poco dopo ho letto un articolo di  Giorgio Linguaglossa che diceva che avrebbe volentieri visto la poesia di Vasco Popa edita da qualche grande casa editrice italiana. La raccomandazione mi ha fatto sentire riconoscente perché l’unico modo di conoscere un poeta è che sia tradotto e pubblicato, quindi accessibile.

Vasko Popa è senza dubbio un poeta di formato internazionale e la sua opera già durante la sua vita ha superato tutti i confini, geografici, nazionali, generazionali, ideologici e linguistici. Durante la sua vita, nonostante fosse stato pure contestato da alcuni autori, ha ottenuto gloria, riconoscimenti e premi. Il mondo gli ha dato anche di più: il poeta che ha pubblicato 8 collezioni (circa 400 poesie) ed è stato scelto in circa 30 antologie ha visto durante la vita la stampa di 54 libri con il suo nome in giro per il mondo, libri per i quali ha avuto elogi da alcuni dei poeti più riconosciuti, e voluminosi studi sulla sua poesia sono stati pubblicati in Inghilterra, Germania, Francia, gli USA.

È vero che Popa non è completamente sconosciuto al pubblico letterario italiano, anche se la prima presentazione è avvenuta appena 20 anni dopo la sua morte. Il merito della prima presentazione importante della poesia del Popa in Italia va alla rivista „In forma di parole”, che ha pubblicato un’ampia scelta di poesia con traduzione a fronte curata da Lorenzo Casson. La postfazione è firmata da Dan Octavian Cepraga, il quale rileva che si tratta davvero di un poeta di eccezionale rilievo. Una recensione molto ispirata del numero della rivista „In forma di parole” dedicato a Popa, intitolata “Il poeta-mago che cantò la liberazione dei Balcani”, è firmata da Rigoni Mario Andrea nelle pagine culturali del „Corriere della Sera“ (30 luglio 2011, pagina 53).

Credo di dover dire che questo non è sufficiente e che una pubblicazione delle poesie di Popa in italiano sarebbe sicuramente utile e farebbe la gioia del pubblico letterario italiano e degli amatori della buona poesia. Ecco alcuni fatti che lo confermano.

Duska Vrhovac Miami Airport 2008

Duska Vrhovac Miami Airport 2008

Con il suo primo libro di poesie, Kora (La corteccia), un libro caratterizzato da sintassi, contenuto e forma insoliti, Vasko Popa – insieme a Miodrag Pavlović (1928-2014) con il suo libro 87 poesie, ha creato un’importante svolta nella poesia serba dei primi anni cinquanta. Con la sua espressione poetica moderna, liberata da tutti i dogmi dell’epoca, la poesia di Popa rinnovava la freschezza poetica del mondo ed è diventata subito vicina alle generazioni giovani che influenzerà diventando non solo il precursore della poesia serba moderna ma anche il personaggio chiave della poesia contemporanea che ha segnato l’epoca definendo sicuramente le direzioni dell’ulteriore sviluppo della poesia.
L’espressione poetica di Popa è affine all’aforisma, al proverbio, è ellittica e concisa, la lingua è essenziale e lapidaria. Scrive in versi brevi senza rima e punteggiatura, versi molto vicini alla metrica della poesia popolare serba. La caratteristica della poesia di Popa è una “ricchezza linguistica e rigorosità sintattica”. Una relazione particolare, complessa ed essenziale con la tradizione, un patriottismo sano senza cariche ideologiche o nazionalistiche, ma con piena conoscenza della storia e della cultura, con la capacità di dimostrare l’insieme e la particolarità con un dettaglio, dimostrano una sua sublime capacità di tradurre tutte le cose, gli oggetti ed i fenomeni in motivi poetici. I contrasti ed i conflitti universali, tutto l’esistente, si incontrano nel suo campo del non-riposo rendendo la sua poesia filosofica e metafisica. Parco con le parole, Popa spalanca le porte ai pensieri ed ai significati. È un grande poeta anche perché la sua poesia rappresenta un fermo nesso tra le accezioni più larghe della tradizione e del nostro tempo. È un’opera che “per unicità di metodo e significato quasi non trova pari, un’opera che con diversi e singoli progetti, artisticamente realizzati e ritrovati nella realtà poetica … ascende verso significati universali”.

Per Vasko Popa, come ha detto lui stesso in un’intervista, “la Poesia in verità è la personificazione dell’armonia senza la quale in fin dei conti non è possibile vivere… Con la mia poesia desidero esprimere esattamente quello che ho scritto. Se sapessi esprimerlo in altro modo, probabilmente non scriverei…”

In un altro discorso, parlando di tradizione, dice: „Le nostre poesie sulla battaglia del Kosovo ed il nostro mito del Kosovo rappresentano una miniera di diamanti. Senza fine né fondo!… Io ne ho tolto solo alcuni grumi. Varrebbe la pena spendere una vita intera a portare alla luce queste preziosità…“

Quando fu pubblicata nella biblioteca eccezionale Rukom pisano (Scritto a mano – Milan Rakić, Valjevo), la sua collezione di poesie Lontano dentro di noi, scritta a mano da lui stesso, Popa scrisse nell’introduzione: „Le poesie che scrivo creano cerchi, i cerchi creano libri. Per la biblioteca. Scritto a mano dal poeta ho scelto il circolo Daleko u nama (Lontano dentro di noi).

Daleko u nama consiste di trenta poesie, il numero dei giorni di un mese. Il mese si è protratto a otto anni interi dato che le poesie sono state scritte nel periodo 1943-1951. Il ciclo di poesie Lontano dentro di noi è pubblicato nel mio primo libro La corteccia del 1953. Anche queste poesie sono dedicate a Haša…“

Haša era il primo amore di Vasko e la sua moglie fino alla fine. Si sa poco della loro vita privata.

Duska Vrhovac in the beginning is the word

Duska Vrhovac in the beginning is the word

7) Domanda: A tuo avviso, vedi un futuro per la poesia nel mondo che si sta costruendo? Quale è la linea di orientamento e di sviluppo della tua poesia?

Risposta di Duška Vrhovac

 A trovare la mia parola

Tanti poeti hanno già cantato già
come nel granello di sabbia si veda il mondo intero,
sul palmo l’infinito, nell’occhio la volta celeste
e come in un giorno ci può stare l’eternità.

Quanti hanno esaltato l’amore,
maledetto la sofferenza, la tristezza e il dolore,
descritto la morte, inferno, casa felice e paradiso,
invocato l’immortalità dell’opera e del proprio nome.

Tutto detto, visto,
intuito, tutto cantato,
nulla che non sia stato.
Allora io che ci sto a fare qui,
come la prima donna e il primo uomo,
come Dio stesso?

A dire quanto già detto?
A descrivere quanto già descritto?
A trovare la mia parola.

Cercando il titolo

Da giorni le parole mi perseguitano,
grandi, policrome e sonore,
ubique; in ciò che ho desiderato
o che non ho saputo dire,
gradevoli, aggressive,
chiare, sfuggenti,
quelle a tre facce
o del tutto comuni, ingannatrici.
Cerco di inventarmene una nuova,
per forgiarla come filo d’oro,
incandescente, ardente, tagliente, grave,
che da sola penetri memoria e senso.
inseguo e perseguo questa parola
che possa contenere tutto questo libro chiuso,
tutto questo caos e questo grido,
ma dal primo attimo,
dal primo brivido e dal primo
verso, e ancora prima.
Solo una batte in mezzo alla fronte
anzi dentro,
sporge dalle tempie,
vaga attraverso la mia insonnia,
scambia i nomi dei piatti che ordino
e delle strade che percorro,
i nomi degli amici che chiamo,
dei conoscenti che saluto mentre passo,
dei momenti preziosi di cui ho memoria,
impressi bene in mente,
dell’amante che desidero.
Ecco che lei, implacabile e brillante,
prevale su di me; si scrive da sé
e subito si accresce all’infinito,
battente come pioggia torrenziale,
come neve fatale o funerei banchi di nebbia,
fino a inondarmi tutta, a pervadermi e assorbirmi,
questa sola e unica parola, come una bandiera,
come fosse in lei tutto racchiuso: Resistenza.

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac, Steven Grieco e Rita Mellace Roma giugno 2015, Isola Tiberina

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac, Steven Grieco e Rita Mellace Roma giugno 2015, Isola Tiberina

Poeti

I poeti sono una banda
di presuntuosi vagabondi,
interpreti ingannevoli
del quotidiano e dell’eterno
ricercatori vani,
smodati amanti,
cacciatori di parole perdute
inseguitori di strade e mari.

I poeti sono giardinieri superbi
di intricati giardini regali,
precursori di deviazioni stellari,
messaggeri di navi affondate,
violatori di sentieri segreti,
magistrali riparatori
di Carri Grandi e Piccoli,
raccoglitori di polvere astrale.

I poeti sono ladri di visioni,
scopritori di utopie scartate,
ciarlatani di ogni specie,
degustatori di piatti avvelenati,
figli degeneri e di professione seduttori,
cavalieri che volontariamente
alla ghigliottina offrono la loro testa
eseguendo da se stessi la condanna.

I poeti sono custodi incoronati
dell’essenza risposta nella lingua,
amanti dei misteri insolubili
ammaliatori e provocatori,
sono i prediletti degli Dei,
assaggiatori di bevande portentose
e dissipatori vani
delle proprie vite.

I poeti sono gli ultimi germogli
della specie più sottile di esseri cosmici,
coltivatori di fiori bianchi interiori
e falsi creatori di mondi insostenibili.
I poeti sono interpreti dei segni perduti,
portatori di messaggi essenziali
e di avviso che la vita è inesauribile,
e l’universo un progetto mai finito.

I poeti sono lucciole sull’aia del cosmo,
conquistatori della grande fascia
di colori che fa l’arcobaleno
esecutori della musica sacra
da cui è nato l’universo.
I poeti sono invisibili interlocutori
nel silenzio sul senso e sul non senso
di tutto ciò che si vede e non si vede.
I poeti sono i miei soli veri fratelli.

da Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (trad. Isabella Meloncelli Viterbo, FusibiliaLibri, 2014 pp. 126 € 13)

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Archiviato in interviste, Poesia serba contemporanea

UNA POESIA INEDITA  di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin

Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015

Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946

foto dei miei genitori, Roma, 1946

La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.

La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.

His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.

È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.

È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE

Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre

i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.

Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:

«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero

che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,

non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;

una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,

inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.

Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;

fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.

Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,

sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,

la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,

il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,

lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io

che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato

gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker

parlano alla radio con eloquio forbito.

Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,

il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto

di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,

sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo

un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:

“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.

Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra

La giostra

La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann

c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra

la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:

tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario

eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:

resta il cigolio della giostra illuminata.

Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.

Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;

al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala

ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento

questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.

Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,

le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;

una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.

Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano

a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra

alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;

camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)

“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre

la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)

Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,

esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio

con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.

Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto

immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.

Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,

getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.

Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.

Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio

i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.

Una bandiera bianca prende vita dal mare.

Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano

Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi

è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,

irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,

guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.

«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.

Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo

e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,

prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,

fa lo stesso.

Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna

e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.

Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,

il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.

Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta

verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio

e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;

sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali

reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata

che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità

diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –

una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

pitigrilli Benito_Mussolini

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.

Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,

una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.

Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento

con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?

Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?

Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice

del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –

piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:

il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.

Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:

“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,

replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa

o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,

indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso

ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito

a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,

(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli

e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».

Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco

tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?

Il secolo dei lumi e della tolleranza?

Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein

ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.

Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,

si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi

e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»

(1992-2013)

THREE STILLS IN THE FRAME

The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.

A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

roma donna acconciatura 4

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.

Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.

A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.

A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

roma donna acconciatura 1

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?

A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”

(1992-2013)

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