Archivi del mese: marzo 2014

CINQUE  POETI SVEDESI CONTEMPORANEI –  Tomas Tranströmer (1931) Goran Sonnevi (1939) Goran Tunstrom (1937-2000) Ulf Eriksson (1958) Claes Andersson (1937)

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astratto, esopianeta di Giuseppe Pedota

Sweden Nobel Literature

da “Antologia della poesia svedese contemporanea” a cura di Helena Sanson e Edoardo Zuccato (Crocetti, 1996)

L’impressione che la poesia svedese lascia ad un lettore italiano è qualcosa che sta tra il mistico e l’esotico, una poesia che sta molto più in avanti rispetto a quella italiana, e molto più indietro; ma è forse una impressione errata. In realtà, la poesia svedese abita il contemporaneo, ha una sua incomparabile vitalità e intensità. È una poesia verticale, che pensa la verticalità, si esprime in verticale (al contrario di quella italiana da Satura (1971) in poi che si esprime in orizzontale). Anche la direzionalità delle sue metafore è orientata in verticale. È una poesia fatta con i mattoni delle immagini, nutrita di immagini concatenate, concavo-convesse, interne-esterne, addita, mediante una circospezione prospezione metaforica dell’oggetto, al piano metafisico delle «cose», al lato oscuro, all’ombra delle «cose», come se nell’ombra vi fosse una maggiore vitalità e una maggiore visibilità che non nella luce. Ogni autore si differenzia dall’altro per via della longitudine e della latitudine, ma ogni poesia è imparentata all’altra da segreti cunicoli, come di vasi comunicanti. Può accadere che, quando, all’improvviso, si offrono condizioni vantaggiose la poesia si ritrovi inaspettatamente ad abitare il contemporaneo.  Per esempio, anche (e soprattutto grazie) quando la poesia sconfina nell’astrazione della metafora, come in Tranströmer, essa ci dice un di più intorno all’oggetto, ci fa scoprire quell’oggetto che non conoscevamo, ci fa entrare dentro un’altra morfologia, una diversa fisiologia dell’oggetto. 

(Giorgio Linguaglossa)

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Tomas Tranströmer (1931)

LE PIETRE

Sento cadere le pietre che abbiamo gettato,
cristalline negli anni. Nella valle
volano le azioni confuse dell’attimo
gridando da cima a cima degli alberi, tacciono
nell’aria più leggera del presente, planano
come rondini da cima
a cima dei monti finché
raggiungono l’altopiano più remoto
lungo la frontiera con l’aldilà.
Là cadono
le nostre azioni cristalline
su nessun fondo,
tranne noi stessi.

 

SULLA STORIA (PARTE V)

Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato
giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti.
Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia,
sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo.
Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.

 

MOTIVO MEDIEVALE

Sotto le nostre espressioni stupefatte
c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre
il sole lento ruota nel cielo.
La partita a scacchi prosegue.

Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
Il sole ruota lento nel cielo.
La partita a scacchi si interrompe sul pari.
Nel silenzio di un arcobaleno. Continua a leggere

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Lidia Sella “Eros il dio lontano” (2012), nota di lettura di Vincenzo Guarracino

lidia sella eros-il-dio-lontano Non è una raccolta di liriche Eros, il dio lontano. Visioni sull’Amore in Occidente (La vita Felice,  2012, ora alla quarta edizione) di Lidia Sella: è qualcosa di più e di meglio. È un poema che alcuni titoli giustapposti, esattamente 17, suddividono in capitoli, stavo per dire in libri. Titoli come Cosmo innamorato, Processo a Eros, Un’etica di gruppo, Nostalgia di Eros, Afrodite alla deriva, Nella gabbia del femminismo, Il filo di Arianna, Ostaggi della Notte e il conclusivo L’almanacco dei sogni, danno già a un dipresso l’idea del contenuto complessivo e tradiscono l’ambizione di comprendere e tredescrivere fenomeni fisici e spirituali su fondali non solo mitici e astratti.

unoUn poema cosmogonico, antropologico, sociologico e psicologico dunque, intorno a un’Entità divina che governa – nel bene e nel male, in presenza o in assenza – la storia umana, a livello sia collettivo che individuale. Un poema svolto in un flusso di coscienza, attraverso un labirinto di immagini animate da un’intima forza e coerenza fantastica: si può circoscriverne così contenuto e forma, con modelli e ascendenti lontani, quali i poeti-filosofi presocratici o il latino Lucrezio, ma filtrati attraverso la passione molto moderna di una che, per dirla con Mallarmé, ha letto tutti i libri e sente la tristezza della carne.

dueSe qui dalla mitologia si parte, non è per immettersi in un mero scenario  culturale, all’interno cioè della “rinascita della mitologia” che, a fasi alterne, dall’800 ai nostri giorni, ha interessato la cultura occidentale, quanto piuttosto per veder agire a livello di percezione, e di esperienza, un’immagine, un motivo “divino”, archetipico, incistato nelle coscienze, quale è Eros, il dio sì della tradizione mitica dei Greci e delle cosmogonie orfiche, che fa nascere l’amore non soltanto negli umani, ma al tempo stesso la grande Entità, il “propellente spirituale”, che protende la sua influenza sotto varie forme e nomi, con esiti non sempre correttamente accettati.  È a lui, “demone” dai mille volti, che la poetessa soprattutto si rivolge, con il lettore quale testimone e complice della sua allocuzione: è con lui che intesse un fitto dialogo (tra vagheggiamento, invocazione, accusa, deplorazione, giustificazione), che si dipana lungo l’intero libro, come punto di approdo di una propria lunga peripezia di pensiero, di una personale meditazione e interrogazione poetica, che segue un percorso fantastico fissandosi in immagini ora tenere e appassionate, ora dure, spesso memorabili, dietro cui si avvertono pulsioni per nulla occasionali e superficiali, come appare anche da una sezione del libro precedente, La figlia di AR (La Vita Felice, Milano 2011), dedicata sempre al tema dell’amore. Continua a leggere

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LA POESIA di Helle Busacca – “I quanti del suicidio” (1972) “II Vedo i torturatori” Commento critico impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il Mangiaparole rivista n. 1

copertina Helle BusaccaCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

Helle Busacca I quanti del suicidio Elliot, Roma, 2013, pp.330 € 18.70

Helle Busacca (1915-1996) nasce in una famiglia agiata di San Piero Patti, in provincia di Messina, dopo aver trascorso parte della sua giovinezza nel paese natale, Helle si trasferisce a Bergamo e successivamente a Milano insieme ai genitori. Laureata in Lettere Classiche presso la Regia Università meneghina negli anni seguenti è insegnante di lettere in diversi licei spostandosi negli anni di città in città: Varese, Pavia, Milano, Napoli, Siena e, infine, Firenze, dove muore il 15 gennaio 1996. Le sue carte (che contengono corrispondenza, bozze e prime stesure di opere pubblicate, nonché numerosi manoscritti inediti) sono conservate in un Fondo speciale presso l’Archivio di Stato di Firenze.

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opera di Giuseppe Pedota

 Mi è stato chiesto di spiegare in modo più semplice perché Helle Busacca sia una poetessa così importante per la storia della poesia del tardo Novecento italiano. Qual  è la peculiarità della sua poesia, quel disco di polivinile della sua poesia rispetto alla poesia degli anni Settanta. Tenterò di rispondere. Ciò che salta agli occhi a distanza di più di quaranta anni dalla pubblicazione de I quanti del suicidio (1972) è la completa estraneità del suo linguaggio poetico rispetto ai linguaggi che erano moneta corrente in quegli anni. Partirò  dalla constatazione più semplice e immediata: il «parlato» della poesia di Helle Busacca. La Busacca inventa un parlato, diciamo così, telefonico, sembra che stia davanti al telefono o al registratore,  parla in modo semplice e immediato, vuole farsi capire da tutti, parla un linguaggio che ho definito «pre-tecnologico», cioè posteriore e anteriore ai linguaggi «tecnologici» che venivano usati dalla poesia dei suoi anni.

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opera di Giuseppe Pedota

 

 La poesia della Busacca si dichiara subito estranea al linguaggio della riforma montaliana inaugurata da Satura (1971), non è poesia delle occasioni desultorie del quotidiano ma di una unica occasione: la morte del fratello «aldo» uno scienziato disoccupato morto suicida. È da questo punto che lei prende l’avvio. Tutta la poesia de “I quanti del suicidio” è un interminabile e fittissimo atto d’accusa contro la codardia del suo paese che ha permesso questo suicidio, contro il «sistema Italia». Prende le distanze dai linguaggi poetici delle istituzioni letterarie, li mette semplicemente da parte, li scarta, sono roba da non poter più essere utilizzati in un linguaggio poetico che voglia andare al nodo e al centro delle questioni.  Il suo è un soliloquio telefonico con un interlocutore che non è posto più nel suo tempo ma in un altro tempo, in un’altra Italia dei tempi futuri. Da per scontato che non c’è più alcun ponte linguistico che unisca la sua poesia a quella che si faceva nel suo tempo: non ha nulla da spartire con la cultura dello sperimentalismo, non ha nulla da spartire con la poesia degli oggetti (ne “I quanti” c’è un solo oggetto: la morte per suicidio del fratello «aldo»), non ha nulla da spartire con la poesia dello scetticismo, del disimpegno e del disagio di fronte agli oggetti che si faceva a Roma  (due nomi per tutti: Patrizia Cavalli e Valentino Zeichen che proprio di li a pochi anni esordiscono con i loro libri). La poesia di Helle Busacca è sola e disarmata, e vuole gridare allo scandalo, punta l’indice accusatorio contro tutti e tutto, contro il «sistema Italia». Sta qui la sua grandezza, inventa il «parlato». E non mi sembra poco. Del resto la comunità letteraria ha fatto di tutto per metterla nel dimenticatoio. La comunità letteraria ha risposto con un riflesso condizionato: rimuovendo la sua presenza ingombrante e imbarazzante.

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opera di Giuseppe Pedota

 

 Perché è bene leggere con attenzione e lentezza la poesia de “I quanti del suicidio”. Si tratta di una lunga Sinfonia del «Lutto». È la «parola luttuosa» che fa ingresso, per la prima volta, nella poesia italiana dl Novecento (se si fa eccezione per i Canti orfici di Dino Campana del 1914). La parola luttuosa non è solo quella che nasce da un «lutto» (la morte del fratello «aldo», scritto con la minuscola) ma anche e soprattutto quella che nasce dalla impossibilità di adoperare in poesia la parola dei viventi, degli zombi viventi. Di qui nasce la straordinaria invenzione del «parlato» di Helle Busacca.

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opera di Giuseppe Pedota

 

 È il parlato che parlano i morti, i «sonnambuli spermatici», le «ombre», avrebbe detto Albert Caraco. Questa scoperta, intendo quella della «parola luttuosa» è, a mio modesto avviso, centrale per comprendere lo snodo fondamentale della poesia del tardo Novecento. Da una parte la lingua dei «vivi» (o di coloro i quali credono di essere vivi) con l’ideologia del Progresso e della adeguazione del discorso poetico alla «cosa» (la società moderna), con tutte le varianti ideologiche e stilistiche, dall’altra il discorso poetico di chi rifiuta l’ideologia della «adeguazione» del discorso poetico alla «cosa» (leggi il «reale» nelle sue svariate manifestazioni fenomeniche). Questa ideologia viene spazzata via dalla poesia di Helle Busacca con un colpo micidiale. Ecco spiegata la solitudine della sua poesia. E non poteva essere diversamente. Il colpo inferto da Helle Busacca alle poetiche del Progresso e della «adeguazione alla cosa da rappresentare» è troppo forte per essere accettato. Di qui la repulsione e la rimozione della sua poesia da parte della comunità letteraria italiana. “I quanti” sono una lunghissima, tetra, infernale  interrogazione di un punto: ha senso il suicidio del fratello  «aldo»? Tutto il poema non è altro che la dimostrazione che il suicidio è privo di senso perché «tutti sono colpevoli di tutto», come scrisse Dostojevski, tutti vivono sotto un sortilegio, il «totum è il totem» (Adorno), non che non vi siano colpevoli, siamo tutti colpevoli della morte del fratello  «aldo».

  

 

II

Vedo i torturatori

i cunei le bragi le catene
ma vedo anche la morte.

Vedo gli assassini con la faccia
d’uom giusto che ti pugnalano nella schiena
in un angolo della stessa casa dove nascesti

le orrende matrigne che non sono
ahimè, soltanto nei versi
antichi di virgilio e nella leggenda
di helle e di suo fratello
vedo i fastigi delle loro case
al mare alzate sullo sfacelo
delle tue ossa e dei tuoi nervi
e cementate pietra su pietra
col sangue dei tuoi poveri reni
trafitti da aghi roventi
la febbre l’esilio il digiuno
che ti fa verde come quando
ti hanno trovato con la canna
del gas serrata fra i denti

ma vedo anche la morte.

Vedo la vampa degli alti forni
ultima a essiccare quel poco sangue
che ti rimane quando già
dice silvio eri pallido come un morto
e dice rossana che si leggeva
nei tuoi occhi che avevi tanto sofferto
e che eri già lontana e senza ritorno
anche mentre le offrivi le ciliegie
vedo la danza ubriaca
delle serpi che s’intorcigliano sopra il tuo petto
d’uomo, sui tuoi occhi che giovanna
dice meravigliosi, sul tuo sorriso
che alfredo duce magico, sulla tua fronte
splendida di tutti i numeri dell’universo

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 Dicevi, tu, mi ricordo,
«quando ho veduto le piramidi
in egitto e i templi
di atene, mi sono chiesto:
ma dove sono coloro
che pure eressero tutto questo…
Ed è che li hanno assassinati
erano troppo grandi per la canea
erano un troppo colossale scorno
per ciò che grufola e vermina…»

Vedo i briganti del commercio
avvezzi a scorticare un pidocchio
per farne una pelle, che ti licenziano
in tronco e contro la legge
quando domandi un congedo
di due mesi per curarti in clinica la tua nevrosi
le femmine racimolate dalle stamberghe
in cui vendevano, di giorno,
maglieria al minuto, recando in dote
niente vestaglie e due sottovesti,
paludate in pelliccia di diamant-visone
e lontra persiano-perla, che con un gesto
spagnolo alla figlia di primo letto
regalano un soprabito di castoro,
dono al padre di quel «furfante» di mio fratello,
«e per quando vai al mercato a fare la spesa»

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opera di Giuseppe Pedota

e che a piene mani profondano
biglietti da diecimila per il caro gatto
siamese che sta crepando, «affettuosa e inerme
creatura che non sa parlare né può difendersi
dottore, non può far altro?»
le lacrime

orride sul ghigno orrido della bestia

ma vedo anche la morte.

Vedo anche la morte. E se uno
le va incontro come tu hai fatto,
come era ed è diverso,
o tu che ho nel cuore bambino,
fratello, quando giocavi
col cerchio, nel giardino, sotto gli alti pioppi,
i riccioli d’oro e gli occhi
già troppo interroganti e fiduciosi
mentre io già cercavo sulle ardue pagine
quello che ora mi segni a dito,
fatto tanto più grande,
tu, che eri dei nostri, di noi.

Pedota acrilico su tela anni Sessanta

opera di Giuseppe Pedota

Noi, gli esseri umani.

C’è anche
la morte.
Non la feroce
che ci strappa quelli che amiamo
ci nega questo inutile sole
ma quella che offre un asilo
dagli assassini, dai mostri
lei sola come era nostra madre
di cui mi dicesti fra i singhiozzi
in uno dei tuoi ultimi giorni:
«CREDI CHE SE CI FOSSE
NOSTRA MADRE, SAREI
RIDOTTO COSI’
ed ha sentito,
la madre, la morte, ed è accorsa.

Vieni, aldo, vieni, aldo. E che le carogne
imputridiscano con le carogne,
che hai a fare con esse?
E alla voce
tu hai aperto le braccia, in un volo.

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Lidia Are Caverni da “REFOLI DI VENTO” (Poesie inedite, 2014)

 cinese paesaggioLidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3/11/41, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. È insegnante elementare in pensione. Ha pubblicato tredici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi. Racconti: Il giorno di primavera1992; La fucina degli dei 2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia: “Clotilde e la bicicletta” 2000; Il pesce verdino 2009. Romanzi:  I giorni dell’attesa col mio libro di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio.

 lidia are caverni l'anno del lupo

 

 

 

 

 

 

 

da Refoli di vento

(gennaio-febbraio 2014)

 

Afferra se puoi il refolo di vento
che sul tetto si muove a tormentare
i gatti assetati d’amore voleranno
gli aquiloni là sulla laguna che guarda
Venezia ne approfitteranno i voli
alti di uccelli i cigni che placidi
planano non li degnano neppure
il cormorano che nell’acqua si tuffa
a catturare pesci o la garzetta quieta
solo gabbiani e la tua anima stanca.

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François Rastier:  Non c’è nessun affaire Martin Heidegger (1889-1976)

Pubblicato il 2 marzo 2014  in AlfaDomenica

 heidegger3Il carattere nazista della filosofia heideggeriana è stato oggetto di numerose analisi, nelle quali si è voluto vedere altrettanti affaires speciosi e diffamatori. Con la pubblicazione dei Quaderni Neri (Schwartzen Hefte), quelle analisi cominciano a ricevere dallo stesso Maestro conferme postume ma irrefutabili, che hanno messo in grande agitazione i suoi discepoli (cfr. GA, tomi 93 e 94, che vedranno la luce nel marzo 2014).

Non c’è dubbio che Heidegger, dopo la guerra, avesse riscritto i suoi testi meno equivoci ammantandosi in un peculiare ermetismo. La sua famiglia e i suoi editori, per di più, hanno proibito sino ad oggi di accedere ai suoi archivi. Heidegger stesso, tuttavia, aveva pianificato già prima di morire la pubblicazione delle sue opere complete predisponendone l’uscita secondo un processo di radicalizzazione progressiva: così se nel 2001 fu pubblicato un testo nel quale si esortava a portare a compimento lo «sterminio totale» del nemico interno oggi si annuncia, per completare quel ciclo, la pubblicazione di nuovi volumi che riuniscono i Quaderni Neri. Gli estratti resi pubblici dal dicembre 2013, riprendono negli stessi termini le identiche tesi di Hitler e Rosenberg riguaheideggerrdo al «dominio mondiale giudaico».

heidegger4Stranamente il curatore dei Quaderni Neri – Peter Trawny, direttore dell’Istituto Martin Heidegger – sembra prendere le distanze, scrivendo che questo dominio è «per metà immaginario» (Le Monde, 20 gennaio 2014): ma il suo è un modo sottile per affermare che è almeno per metà vero. Senza dubbio i brani citati sono antisemiti; scegliendoli, però, Trawny sembra fare inevitabili concessioni all’antisemitismo (che in apparenza considera come alcunché di banale e veniale) per evitare di affrontare la questione del nazismo. Chiediamoci allora: davvero l’albero antisemita può nascondere la foresta nazista?

Paradossalmente Heidegger supera a destra l’hitlerismo, ricorrendo a una radicalizzazione metafisica dell’antisemitismo. L’immagine drammatizzata del mondo contemporaneo e della modernità scientifica e tecnica che ci presenta è infatti legata essenzialmente alla sua concezione degli ebrei e del loro dominio mondiale (Weltjudentum): se persino Trawny, nella sua curiosa apologia, ricorre al confronto fra l’intento heideggeriano e i Protocolli dei savi di Sion allora questo dominio cessa di esser nascosto nell’oscurità di un complotto, manifestandosi alla luce del sole proprio nello sviluppo tecnico-scientifico.

Martin HeideggerNelle sue denunce, allora – come quella nei confronti delle dighe che sfigurano il bacino tedesco del Reno – era possibile cogliere una banale continuazione del Kulturpessimismus del periodo bismarkiano, ma l’innovazione di Heidegger consiste nel considerare lo stato del mondo moderno come il risultato del dominio ebraico. In questo modo generalizza la teoria dell’essere-assieme – teoria legata al mondo degli affari, al commercium (cfr. Sein und Zeit, § 13). Il mondo ebraicizzato resta nell’oblio dell’Essere non soltanto perché gli ebrei, privi di patria e cosmopoliti, sono anche privi di un Dasein (letteralmente di un Esserci) – gli ebrei, infatti, non risiedono in alcun luogo specifico dunque continuano ad essere privi di mondo (Weltlos) – ma perché la modernità è dominata dalla «facoltà di calcolo e dal mercanteggiare», dal «dono esasperato per la contabilità», dalla «tenace abilità a contare» e dal «calcolo vuoto». Continua a leggere

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Maria Rosaria Madonna Una poesia, Adversos Ipazia (inedito) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 Il Mangiaparole rivista n. 1Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1943 Roma, 2002) ha pubblicato nel 1992 Stige con prefazione di Amelia Rosselli. Ha collaborato con il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”. La sua opera completa, in gran parte inedita, attende la pubblicazione per le edizioni EdiLet di Roma.

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* 415 dopo Cristo. La filosofa Ipazia cammina per le vie di Alessandria d’Egitto tra due ali di folla festante che rende onore alla scienziata. È avvolta in una tunica bianchissima che le avvolge il bellissimo corpo. Dietro l’angolo, in un vicolo, il vescovo Cirillo aizza all’assassinio della filosofa una torma di parabolani, i fanatici aguzzini della nuova fede che la uccideranno smembrandole il corpo.

roma Ipazia

roma Ipazia agora

 

 

 

 

 

 

 

 

Requisitoria del vescovo di Alessandria Cirillo «adversos Ipazia» *

Parla Ipazia dell’ordine delle stelle!?
(Dell’ordine delle stelle!?)
Ci dica Ipazia: per chi brilla la stella del vespero!?
E quella del mattino!?
Per chi brilla la stella del mattino!?
Per me? Per voi? Per noi tutti?
(Per noi tutti!?)
O forse per nessuno!?

Come può la pagana Ipazia parlarci delle stelle fisse!?
Tiene forse Ipazia l’inventario delle stelle!?
Cammina forse Ipazia con una stella sulla sua testa!?
Come può la sua bocca parlare con le stelle!?
Osa la sua bocca parlare con le stelle!?
Con le stelle!?
Afferma Ipazia che l’algida luna è nient’altro
che polvere di stelle!?
Che la luna è un ammasso di polvere!?
Che brilla di luce riflessa!?
Che essa è vera e non vera!?
Che essa è fatta di polvere e di acqua
Come il nostro mondo sublunare!?
Che non c’è resurrezione della carne!?
Che un mortale non può diventare immortale!?
Davvero, Ipazia afferma questo!?
Che un immortale non può indossare panni mortali!?
Davvero, Ipazia afferma questo!?

dal film Ipazia. I famigerati parabolani catturano Ipazia

dal film Agorà. I famigerati parabolani catturano Ipazia

roma Ipazia parabolani

 

 

 

 

 

 

Che cosa ci dice la sua matematica?

E sul movimento degli astri?
Che gli astri si muovono intorno al sole?
Di grazia, parla Ipazia con le sfere celesti?
Osa asserire questo Ipazia?

Come può la sua bocca parlare?
Come può la sua bocca bestemmiare?
Si ricreda (Ipazia!), resti nel gineceo o prenda marito
E abbracci la fede di Cristo!
Rinneghi Ipazia la sua matematica!
Si ricreda Ipazia!
Prima che sia
Troppo
Tardi

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Valentino Campo LA QUARTA GUERRA SANNITICA (poemetto) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Valentino Campo è nato e vive a Campobasso. Ha pubblicato L’arte di scavare pozzi, LietoColle, 2010. Ha fondato e diretto insieme a Luigi Fabio Mastropietro la rivista “AltroVerso”. Di prossima pubblicazione il poemetto “Chronicon”, il cui primo libro è stato pubblicato nell’antologia “Il rumore delle parole (Poeti del Sud)”  EdiLet di Roma, 2015 a cura di Giorgio Linguaglossa.

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Valentino Campo è nato e vive a Campobasso. Ha pubblicato L’arte di scavare pozzi LietoColle, 2010. Di prossima pubblicazione il poemetto  Chronicon, che sarà pubblicato nell’antologia dei Poesia del Sud che uscirà per i tipi di EdiLet di Roma a cura di Giorgio Linguaglossa.

Commento di Giorgio Linguaglossa

La «generazione degli anni Dieci», quegli autori che hanno pubblicato i libri significativi in questo scorcio del nuovo millennio, è una generazione particolarmente sfortunata. Direi per due ordini di motivi: 1) perché costretta a vivere in una zona di «invisibilità» (determinata dalla assenza di qualsiasi filtro critico e di confronto intellettuale); 2) dal «solipsismo stilistico», una sorta di solitudine stilistica (dove ciascuno mette in campo quello che può: una «ricerca privata» dello stile). È accaduto che nel corso degli anni Novanta del secolo scorso abbiamo assistito al verificarsi di due eventi: l’esaurimento della cultura dello sperimentalismo e la globalizzazione delle merci linguistiche, fenomeno quest’ultimo legato alla massiccia invasione dei linguaggi artistici da parte dei linguaggi mediatici. Senza tenere di conto questo quadro storico e concettuale, ogni tentativo di fare una critica della poesia contemporanea rischierebbe di diventare un atto gratuito, un atto meramente privatistico, insomma, un atto di delibazione privo di cognizione storico-critica. Accade così che la nuova generazione si trova ad essere in una posizione, ad un tempo, trasversale e scentrata, derubricata (rispetto alla tradizione novecentesca), minoritaria (rispetto alla invasione dei linguaggi mediatici), con un linguaggio poetico ereditato inutilizzabile (rispetto agli istituti stilistici novecenteschi). In questa nuova situazione operativa, anche un poeta di acuta intelligenza come il molisano Valentino Campo è costretto ad accusare il colpo. Accade così che le colpe dei padri e dei nonni ricadano non sui figli ma sui nipoti. Accade che oggi, ai poeti della «generazione degli anni Dieci», è praticamente impossibile ritagliarsi (o riallacciarsi a) una «linea centrale» del novecento, per la semplice ragione che non c’è più una «linea centrale» del novecento (se mai c’è stata): non quella che fa capo a Saba-Sbarbaro-il-crepuscolarismo, non quella che fa capo a un Palazzeschi con la marionettizzazione della iconologia borghese (ridotta ad una sub-specie: la linea ironico-ludica); non un anticrepuscolarismo fondato sul «quotidiano» de-poeticizzato e de-quotidianizzato, come avviene nelle esperienze epigoniche dello sperimentalismo; non un «quotidiano» disartizzato ed emulsionato, come avviene negli esponenti epigonici degli esistenzialisti milanesi; non un «quotidiano» ridotto a mausoleo-ipermercato del mondo mediatico, come avviene per i minimalisti di area romana; non un nuovo orfismo, ormai depauperato e saccheggiato dai tardivi seguaci della religione della «Bellezza», non tardive  e acritiche riesumazioni delle poetiche mitopoietiche.

roma lupa capitolinaDi colpo, si scopre che quello che resta di tutto questo cumulo di macerie fumanti è che siamo entrati, senza rendercene conto, nell’epoca della post-poesia. Di qui parte una poesia lirica dopo l’età della lirica (si apre il problema della modernizzazione del discorso poetico). Una situazione oggettivamente antinomica e paradossale. Così, la nuova «generazione degli anni Dieci» taglia via dal proprio albero gentilizio lo sperimentalismo novecentesco, l’orfismo, il post-sperimentalismo, il post-ermetismo, la «poesia degli oggetti», la poesia del «quotidiano», la poesia mitopoietica per riprendere dal punto in cui la poesia italiana del secondo novecento si era incagliata e arenata: dalla crisi della lirica degli anni ottanta-novanta, che aveva visto lo sviluppo abnorme di linguaggi idiomatici: il «parlato», il «quasi-parlato» che mimava il linguaggio piccolo-borghese, insomma, una koiné media e mediatizzata che imitava gli stilemi del linguaggio della piccola borghesia in fase di lenta e progressiva ascesa sociale in un quadro politico-partitico conservatore. Durante gli ultimi due decenni del novecento era diventato prioritario, man mano che si profilava e si faceva incombente un periodo di lunga stagnazione economica, dal punto di vista della piccola borghesia e dei suoi rappresentanti stilistici, indirizzare tutti gli sforzi verso la conservazione ad oltranza degli istituti stilistici tardo novecenteschi. Senonché quel «traliccio poetico» sul quale gli istituti stilistici egemoni degli ultimi decenni del novecento avevano fondato la propria legittimità e centralità, appare, nel nuovo contesto degli anni Dieci, colpito nella propria centralità strategica e nelle proprie capacità di autoconservazione. È la crisi stilistica e di egemonia degli istituti stilistici pregressi che si delinea con una autoevidenza assoluta.

Avviene così che una tranche della «generazione degli anni Dieci» tenta la rifondazione del discorso lirico puntando sulla oralità del monologo da teatro, eminentemente orale, oppure un discorso sulla soglia subliminale della coscienza, etc. evitando in questo modo di pagare alcun dazio alla riforma gradualistica del linguaggio poetico iniziata da Sereni con Gli strumenti umani (1965) e da Giovanni Giudici con La vita in versi (1965). Di fatto, nella «generazione degli anni Dieci» si assiste ad una presa di distanza, ad una estraneità nei confronti di una riforma che intendeva  introdurre surrettiziamente un genere di «scrittura» poetica paradigmatica. Quello che viene abbandonato e disconosciuto è il concetto feticizzato del «quotidiano» e l’adozione del linguaggio piccolo-borghese.

Capita così che in un autore significativo della nuova generazione come Valentino Campo si rinvenga il contrario di un linguaggio piccolo-borghese, un quotidiano de-quotidianizzato e de-poeticizzato, un contesto ambientale straniato e irriconoscibile, un «quadro» vulnerato e incidentato, con una versificazione che slitta a sintagmi e a spezzoni, sulla misura del frammento o del microframmento, come se la zattera significazionista fosse stata crivellata dai colpi delle scritture desultorie appoggiate su ciò che nel novecento veniva indicato come significante di un significato sfuggente ed elusivo. Da una parte, la normativizzazione delle poetiche del «quotidiano», dall’altra, la defondamentalizzazione delle post-avanguardie tardo novecentesche, hanno lasciato in eredità alla «generazione degli anni Dieci» un territorio linguistico contaminato ed inquinato, isotopi ed ipnotopi, idioletti «privati» e idioletti distopici, prodotti anch’essi della alluvione dei linguaggi mediatici della globalizzazione economica e della normativizzazione ideologica. Così, a Valentino Campo non resta altro che ripartire dalla «Quarta guerra sannitica» (quella che non è stata mai combattuta, la strenua resistenza opposta dai sanniti alla omologazione culturale ed ideologica dei «romani»); oppure dalle «Epifanie private», (quelle epifanie che si aprono come lacerazioni nel tessuto del «quotidiano» decontestualizzandolo); attraverso una severa scrittura  che procede per straniamento e dis-locamento del discorso poetico in una procedura che obbliga il poeta a transitare in un sentiero altamente problematico e stilisticamente «instabile». Un cammino olistico e un solipsismo stilistico tipico della globalizzazione e della sopraggiunta stagnazione, quasi che nell’epoca del digitale terrestre, degli aviogetti invisibili e dei treni superveloci non fosse possibile, per i poeti, che procedere con le stampelle e i lapsus di un linguaggio deturpato e denaturato, conservato in frigorifero, e sbrinato improvvisamente per una interruzione di energia elettrica.

sanniti 10

La quarta guerra sannitica

Vi scrivo da una zattera di pietra.
Ho inciso ogni tronco con la testa
del giavellotto,
unto di sterco il mio volto.
Cosa ci faccio
in questa selva di vetro?
I romani dove sono?
Non li vedo.
Non so la rotta
la mia e di questo scoglio,
non cerco indizi in alto, tra le foglie.
Affilo punte di selce
preparo il rancio,
passo in rassegna ombre
poi scavo,
ancora,
dove la terra cede
per farsi malta scura,
sprofondo fino al mento
e già le sento, le voci,
le loro,
chiedere perdono,
franare in questo fosso.

Roma_legionari in marcia

……………………………..
……………………………..
Sono giunti alla mia tana
anche stanotte i cani,
una dozzina,
ho perso il conto,
ho tagliato il fiume a nuoto,
arato il greto di sterpaglie,
una ninfa delle acque dormiva
l’altra cenava dai romani.
Il Biferno non è un fiume
e i romani lo sanno bene,
vogliono braccarmi da vicino,
murare l’antro del mio inferno,
gli hanno staccato la spina,
tolto il respiratore,
dicono che nel giro d’un anno
il nemico sarà curato,
la guerra non esiste
per chi ignora quando si muore.

Sanniti_soldiers

…………………………………..
………………………………….
Le ho impresse a fuoco
tutte le guerre,
a ritroso,
da questa che è la quarta
fino al taglio della cima.
Sciamano i volti,
i tamburi, il maglio,
l’eco è divenuta il mio riparo,
il sebo che mi sfama.
Si fanno avanti con le spade,
li sento ancora come da principio,
nulla è mutato,
la selva tace,
il merlo fa la ronda,
incide sopra un sasso
l’orlo delle ombre,
poi sono io che rendo i nomi
all’iride del tasso.
……………………………………
……………………………………
Così come è stato.
Il padre di mio padre,
il padre, vigilia
di mia madre, scroto.
Sia figlio di mio figlio, il padre
ed io semenza di mio figlio, fiato.

Io sono il bue,
mi dicono sacro
agli dei degli inferi, a questa lama,
alla fenditura
del cielo che s’assottiglia e che dirada.
Il bue inghiotte fili, impregna l’aria
di là dal campo dove i romani
con croci e spini celano gli altari.
La selva cuce cielo e strame,
il bue si ferma, segna
la strada ai piedi di un cerro
dove la terra s’apre.
I romani mi hanno già pesato,
un asse a chilo, carne da macello,
non getteranno nulla,
la lingua sarà lessata
il sangue bevuto a grumi.
Il bue richiama a gorghi d’aria
ogni lichene,
ridesta il fiume, le larve sul fondale.
A fuoco lento giungono i romani,
la strada è questa,
m’ inghiotte il ventre della madre,
nel magma torno seme e filamento.

Io ero il bue
in un altro tempo o in altro luogo,
agli dei degli inferi rendevo
il sangue dei romani.
La sento la bestia,
a squilli, mi veste d’armi,
“il sangue va lavato col sangue
sul capo dei tuoi figli.”
Sa ancora come chiamarmi,
il nome, l’accento che mi desta
e mi fa cieco a questi rami
al loro ventre che la notte fecondo.
Spargo la placenta nel cavo riarso,
raccolgo erbe, recido code,
attendo l’alba.
Alla prima luce giunge Ovio, il druido,
gli uomini si vestono, prendono le spade,
i romani dicono che sono ombre,
e riempiono di piscio l’aria.
Ovio li raduna
appena tremano di luce,
incide ogni tronco con la selce
getta erbe nella linfa scura.
A quell’ora i romani dormono,
sento il respiro che scheggia la selva,
i corvi non hanno più ali,
il sangue sa di terra.

La notte smeriglia il fiato dei morti,
ci hanno dispersi,
faccio l’appello nel quadrato della tana
rimesto i volti.

I romani hanno caricato i muli
stanno per partire,
dicono che torneranno a primavera
quando la mia carne sarà pronta.
Io sconto l’esilio nella mia cella,
preparo la guerra
con la mia morte.

Valentino Campo

Valentino Campo

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LA GRANDE BELLEZZA DI ROMA – SUL TEMA DI ZBIGNIEW HERBERT: IL RITORNO DEL PROCONSOLE. Zbigniev Herbert, Giorgio Linguaglossa, Sandra Evangelisti, Francesco Tarantino

Il Mangiaparole rivista n. 1 

Zbigniew Herbert

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

(traduzione di Paolo Statuti)

Roma_legionari in marciaGiorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Il generale Germanico scrive al suo comandante di Coorte Giulio Decimo

…mio amato Giulio Decimo, tu dici
che «non son sicuro di voler tornare
ma tornerò alla corte di Cesare,
domani o anche dopodomani».

Cosa vuoi che ti dica?, un tempo
sei stato un valoroso soldato,
il tuo generale era fiero di te,
vessillifero della centuria, ti ho visto in
cento battaglie sempre davanti ai manipoli,
forse sei stato inviso agli dèi ctonii
se mille frecce non ti hanno colpito
e cento spade si sono spezzate sul tuo scudo…

Tu mi dici che adesso pianti gli alberi
di ulivo sui declivi dei colli di Miromagnum
e insegni ai bambini le poesie di Ennio
e dei neoteroi di Roma, e che sei
contento così, che il tuo animo
ha trovato la quiete che cercavi…
Lascia che io ti dica come tutto ciò è fallace amico mio

Cesare si pasce della nostra quiete,
lui è munifico e beffardo, sordido
e astuto, distribuisce frumento
alla plebe, sesterzi ai fedeli pretoriani
e spettacoli con i tori, i leoni e con curiosi
cavalli dal lungo collo che vengono dall’Africa,
le arene sono rosse per il sangue
dei gladiatori, i prezzi della Suburra
sono alla portata di tutte le tasche
e il regime è democratico, temperato;
ci danno ad intendere che il Principato
sia lo sbocco naturale del peripato…
Cinquanta inverni ci pesano sul volto
attraversato da spighe di grano maturo.

Ti chiedo: per quanto tempo ancora dovremo
Roma1 tollerare questo Cesare di argilla?
Per quanto tempo ancora dovremo fingere
assenso alle sue magagne e inneggiarlo
con iperboli sottili e lambiccate?
Per quanto tempo, Giulio Decimo?
Già, dicono le folle che Cesare è magnanimo,
che alla corte di Cesare c’è posto,
che c’è sempre un posto al sole
per chi accetta di stare all’ombra.
«Appunto – dico io – per chi accetta di stare all’ombra». Continua a leggere

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Adriano Accattino da “Poesia dell’impoetico” e un inedito, con una nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Adriano Accattino 

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wassily kandinsky yellow red blue 1925

Adriano Accattino Poesia dell’impoetico Mimesis, Milano, 2012 pp. 130 € 14

Questo libro di Adriano Accattino, un mix di componimenti riflessivi sull’essenza del «poetico» e di considerazioni sull’«impoetico», è una singolare riflessione sulla riconoscibilità del «poetico» nel suo rapporto fenomenologico con l’«impoetico». È una riflessione sull’essenza ontologica della poesia come di un ente che si situa all’interno e all’esterno di un altro ente che l’autore chiama l’«impoetico». Che cos’è l’«impoetico»? Accattino lo rivela subito: il «poetico» è «l’impoetico non ancora rivelato». E così continua la sua interrogazione, si chiede: che cos’è il «poetico»?, «è agevole individuare una composizione poetica: ci soccorrono la letteratura, la scuola, l’orecchio; ma di fronte all’impoetico ci troviamo del tutto impreparati. Esso… è un poetico altro, lontano ancora dal diventare universalmente noto e accolto. Non è un valore affermato, ma qualcosa che si deve andare a cercare e si deve imparare a riconoscere… L’impoetico è dunque una questione di scoperta precoce… Per scovare l’impoetico e cioè il poetico non ancora rivelato, il cercatore s’indirizza a un segnale, a un richiamo che l’impoetico stesso alza: l’affermazione… della sua poeticità, mentre tutti sono convinti del contrario. (…) Il problema sta dunque nel riuscire a captare l’impoetico nel momento in cui appare…». (p. 114)

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Dunque, tra il «poetico» e l’«impoetico» si instaura una sorta di nemicizia, di estraneità e di oppositività. Il discorso di Accattino è dunque una riflessione sulla riconoscibilità di un demanio (il poetico) che esclude sempre l’altro (l’impoetico); una oppositività non dialettica né dialogica ma che definirei ontologica e topologica. Ciascuno dei due demani occupa un luogo, ma si tratta di un luogo post-dialettico, instabile, «liquido» per dirla con un aggettivo alla Bauman, che io invece tradurrei con «soffice», dove interno ed esterno si scambiano di posto, e così l’alto e il basso sono delle cose non più misurabili o perimetrabili. Tra il poetico e l’impoetico si stabilisce una relazione come di vasi comunicanti, di traslazione-versamento di un liquido da un contenitore all’altro.
C’è il rischio, ovviamente, che con questa impostazione del discorso non resti spazio alcuno alla interpretazione del testo intesa come attività critica in quanto essa resterebbe sempre dipendente dal concetto di poeticità prevalente o maggioritaria. Ciò che oggi sta in un contenitore domani starà nell’altro. L’attività critica si ridurrebbe ad essere una mera attività di contro spionaggio.

magritte-2Una sorta di bocciatura in toto del pensiero critico che proviene dalla stessa percezione dicotomica entro la quale Accattino vede la questione della poesia. Il risultato di questa impostazione concettuale è la convinzione secondo cui il poetico apparterrebbe alla sfera del «miracolo»: «la miracolosa transustanziazione dell’impoetico nel poetico»; «ma quale senso può mediarsi da ciò che è immediato o non è? (…) La poesia non tollera intermediari né intromissioni; resta inspiegabile e non sopporta spiegazioni, che in effetti la impoveriscono. È una lingua speciale che non può essere interrotta dai nostri grugniti di commento» (p. 87).
Dove è evidente che dichiarare «l’inspiegabile» della poesia equivale a dichiarare la bancarotta del pensiero critico.

«La poesia… tende a trasformarsi nel proprio opposto, l’impoesia, mentre questa, a sua volta tende alla poesia» (p. 118) «la poesia si nutre del suo contrario e verso il luogo del contrario si muove e si sviluppa (…) Continuamente insoddisfatta di sé, si spinge verso qualcosa che le sta fuori e oltre: dilaga verso l’esterno (…) mentre la poesia si allarga a coprire e incorporare nuovi spazi, insieme si ritira dai vecchi ambiti ed espelle le vecchie sostanze» (p. 121).

Molto brillanti e acute sono alcune riflessioni e aforismi sparsi nel testo, ad esempio: «spiegare il senso della poesia è come alitare su uno specchio e disegnare col dito ciò che si vede dal riflesso»;.(p. 87) Al di là di ciò, altrettanto indubbio è che l’adozione di un impianto concettuale dicotomico preclude all’autore l’approfondimento della questione, questa sì ontologica, della esistenza della poesia nel nostro tempo, della sua giustificazione ontologica, della sua funzione conoscitiva, del suo essere una funzione antropologica dell’uomo nel corso storico della sua civilizzazione, del suo rapporto con l’attuale fase di civilizzazione. (Giorgio Linguaglossa)

 

anish-kapoor-art-7[1]

anish-kapoor-art-7

da “Poesia dell’impoetico”

Molti corrono lungo la superficie
dell’esterno, altri al suo interno:
pochi all’interno dell’interno
e pochissimi si buttano fuori
dall’interno nel cavo sfondato.

Ma veramente speciali sono quelli
che spaziano su tutto e dall’esterno
dell’interno, e poi risalgono
nello spessore fra le due facce.

*

Se sloghi
le sue giunture
se smonti quella scatola
evi pratichi aperture,
puoi trovarti fra le mani
un resto lucido e bello
o anche uno sterco
ributtante: cento volte
questo e una quello.

Sarebbe facile
consegnarti la ricetta;
ma esiste solo
quando riesce; la seconda
volta che la applichi
non funziona più.
Ogni volta ti tocca
cambiare: questo rende
la faccenda divertente.

*

Orfeo Giorgio De Chirico

Orfeo Giorgio De Chirico

Una parola non resta
la stessa: ogni volta che è profferita
si differenzia dalle mille
apparentemente uguali
pronunciate prima.

Per un granello di diversità
modifica la muraglia
del linguaggio:
toglie qualcosa e aggiunge
qualcos’altro.

Così il linguaggio risulta
un corpo variabile,
in continua avanzata su un lato
e in continua ritirata su un altro;
in tal modo si sposta.

*

Poesia è quanto mai lontana
da ogni stabile fondamento;
ciò che viene fermato per forza
di parola è perduto alla poesia.
La mobile parola, invece, non lotta contro
il travolgimento ma lo seconda;
non fissa il limite all’illimitato,
non riduce a misura lo smisurato,
non impone blocchi all’agitato.

La parola poetica consiste
in altre condizioni: così
essa resta all’aperto e nomina.
Se non possiede la facoltà
diretta di dare nome ed esistenza,
di donare senza mediazioni, non serve;
tra mondo e parola è riuscito
a infilarsi quel solito terzo incomodo
che fa da padrone nella storia.

*

Poesia è un colloquio impossibile.
Non costituisce certo
il fondamento su cui
ci troviamo uniti. Assolutamente
non fa nulla per sorreggerci.

Non facilita gli incontri
che presuppongono l’appartenenza
a uno stesso piano: qui
le lingue sono quanto mai distanti.

Ci si può ridurre in comune a prezzo
d’altezza; ci si mette
a comunicare diminuendo
la velocità. Ma qui altezza
e velocità sono sempre al massimo.
Sole con cerchi

Inedito: ARIE CONTRARIE

A

È dunque tutto cavo
e solo la vacuità esiste?

Ecco cos’è quest’illusione
che stenta e si trascina!

A

È dunque tutto colmo
e solo la pienezza esiste?

Ecco cos’è questa certezza
mai spenta che va baldanzosa!

B

O parola che manca!
Che cosa capire del senso
se oscuro è il fondo?

Che cosa comunicare
se resta indecifrabile
il nesso?

Si procede dall’interno
verso l’esterno, dal fondo
verso la superficie,

ma ciò che preme è andare
da quell’interno verso
l’altro interno, da quel fondo
verso il fondo sottostante.

B

La consapevolezza avere,
che non sia supponenza
ma chiaroveggenza;

la cognizione lasciare in fondo
quando a galla si forma
quella schiuma vaporosa.

La consapevolezza segreta
che non mostra neanche un osso
e si stempera nell’incolpevole.

Abbia un senso smarrire il senso.

C

Beato il poeta che sa stringere
le sue scritture in poche pagine.

Beatissimo quello che le riassume
in poche parole. Angelico colui

che di queste parole ne ha
così tante da riempire cento libri.

C

Di mille parole reperire
quell’una che le riassuma

e come questa
trovarne poi altre mille.

D

Luogo dove si consuma
l’essere. Dove la parola

s’addossa al biancume
e lo scrivere si estenua
cadendo a gocce rade.

Luogo che mostra
lembi di ferita.

D

Luogo dove si smorza
lo scrivere, nel pari tempo
presente
e assente in una specie di ondulante interregno marino.

E

Perviene il vincitore,
diverso in quasi niente
dal perdente.

Ogni vittoria s’impone
per il peso di una piuma.

E

Supera il colmo, vincente
per un pelo,

il velo d’acqua sborda
come se riempisse il cielo

non trabocca più di un filo
ma quel filo lega il mondo.

F

L’inizio risulta d’improvviso
sorpassato,

l’opera incominciata
irrimediabilmente tardiva.

Esercizio di mente, questo
lavoro è fatto per niente.

F
Si evidenzia uno spessore
dove viene a mancare;
un’ombra quando
si entra in luce;
un avvallamento
dove la costa si rileva.

Si conosce una forma
dal bordo che la contiene,
oppure da ciò che dall’esterno
delimita il suo contorno?

G

Sulla piatta dimensione
della pagina segni
raggelati nell’istante
in cui stavano cercandosi.

Questa gabbia
ha preso il posto di altre
cento che si sarebbero
potute combinare.

 

G

Una forma si assesta
su cento soppresse;
una forma si stabilizza
su perdite irrimediabili.

Vale infinitamente meno
la forma che si è fissata
di quelle che sono trascorse
senza potersi impaginare

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Carlo Sini SULL’IDEOGRAMMA E LA POESIA CINESE ANTICA – Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo

cinese DipintoDiCapodanno1

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 Sin dall’età classica vige in Occidente la tradizionale distinzione che oppone le arti dinamiche del tempo alle arti plastiche dello spazio, parola contro figura, poesia contro pittura, si potrebbe dire. La contrapposizione occasionò, come si sa, innumerevoli contese e reiterati interventi volti a stabilire la superiorità estetica ed espressiva delle prime arti sulle seconde o viceversa: una contesa, invero, oggi piuttosto datata. Ma se ci spostiamo in Estremo Oriente, per esempio in Cina, le cose, in particolare la distinzione tra figura e parola, assumono un altro senso. In base a tale senso, non vi sono dubbi nell’assegnare alla pittura la palma della vittoria su tutte le arti. Ma qual è il significato profondo di tale preminenza? Per avvicinarci a una risposta, ci riferiamo anzitutto a ciò che Shitao chiama “tratto”.
cinese drago colorato

.

Shitao è il più famoso dei nomi d’arte di Zhu Ruoji, la cui data di nascita si colloca tra il 1641 e il 1642. Di famiglia imperiale, patì lo sterminio totale dei suoi parenti nel corso della guerra civile e del crollo della dinastia Ming, alla quale si sostituì la dinastia Quing tra il 1644 e il 1645. Nascosto da un servo fedele presso i monaci del monte Xiang, il bambino crebbe e si istruì in questo monastero buddista dedicandosi alla pittura. Con gli pseudonimi di Onda di pietra (Shitao) e di Cucurbita amara viaggiò poi per la Cina divenendo famoso, Negli ultimi anni (la sua morte si colloca tra il 1703 e il 1710) si avvicinò alla pratica e al pensiero del taoismo. Oltre alla sua opera pittorica, che è tra le più alte della intera tradizione cinese, egli scrisse anche un trattato “Sulla pittura”, ed è qui che troviamo le sue riflessioni sul “tratto”:

cinese donna con ventaglio

.

 “Il tratto [del pennello] è l’origine di tutti gli esseri, è la radice delle diecimila forme. La pittura non sarebbe dunque arte suprema soltanto, ma addirittura l’origine di tutte le cose? Senza pittura non vi sarebbe dunque “realtà”? Un’ipotesi che suona di certo singolare, per non dire: stravagante. Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni? Dobbiamo leggere qui delle semplici metafore? Ma metafore, “trasferimenti”, in che senso? In ogni caso il senso resta ambiguo e per aprirci la via alla sua comprensione adeguata ci riferiremo ora a un testo classico: “L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica”.

Ne è autore Ernest Fenollosa (Salem, Massachusetts, 1853-Londra 1908), poeta, orientalista e primo teorico dell’arte asiatica. Fondatore della Tokio Art Academy e autore della prima importante storia dell’arte Orientale, composta nel 1906 e apparsa postuma nel 1912 con il titolo “Epoche dell’arte cinese e giapponese”, Fenollosa donò al museo dì Boston una straordinaria raccolta di pitture cinesi e giapponesi. Nel poemetto “East and West” (1893) egli auspicò l’unione delle arti e delle culture d’Oriente e d’Occidente come preludio a una futura civiltà globale. La sua opera ebbe notevole influenza su W.B. Yeats e sull’”imagismo” e “vorticismo” di Pound, il quale si diede alla ricerca di una lingua poetica condensata, essenziale e visionaria, a imitazione dell’ideogramma inteso come stenografia pittorica, ovvero come concentrazione metaforica di richiami visivi.

caballo cinese tangLeggiamo l’esordio del saggio di Fenollosa: «Il secolo ventesimo non solo apre una pagina nuova sulla storia del mondo, ma schiude anche un sorprendente capitolo. Orizzonti di strani futuri si aprono all’uomo; culture che abbracciano il mondo intero, svezzate quasi dall’Europa; per nazioni e razze responsabilità mai sognate. Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo». Dopo queste rapide notazioni, che sembrano dei nostri giorni,Fenollosa elenca molti pregiudizi occidentali nei confronti della cultura orientale. L’idea per esempio che i cinesi siano un popolo di materialisti, i giapponesi di “plagiari”; il vezzo di fare dei costumi di quei popoli materiale esotico da operetta e così via. Anziché demolire i loro porti e le loro fortezze con le nostre navi da guerra (come allora accadeva, anziché limitarsi a sfruttare i loro mercati, le nazioni occidentali, dice Fenollosa, dovrebbero impegnarsi a comprendere una civiltà la cui antichità è doppia rispetto alla nostra e il cui livello è pari a quello degli antichi popoli mediterranei, «Abbiamo bisogno dei loro migliori ideali per alimentare i nostri ideali incastonati nella loro arte, nella loro letteratura, nella tragedia della loro vita».

donna cinese antica L’arte poetica è dunque il punto di riferimento del saggio, per la quale arte è però subito necessaria una precisazione. Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo: non qualcosa di accidentale, né di astrattamente metaforico. Fenollosa esemplifica la sua tesi con un riferimento concreto a un verso poetico che, tradotto in italiano, suonerebbe “Il sole sorge all’orizzonte”. Noi ascoltiamo i significati verbali o li leggiamo attraverso la scrittura alfabetica ma non osserviamo la scrittura alfabetica. Non avrebbe alcun senso per noi descriverla e analizzarla cosi: lineetta verticale con puntino, lineetta verticale più lunga, segno a serpentina e così via. Nel caso invece del verso cinese proprio questo si deve fare: si deve osservare attentamente la figura degli ideogrammi per comprenderne il senso.

dignitario cineseCosa vedremmo allora leggendo? Vedremmo l’ideogramma del sole che occupa la parte sinistra del foglio (una specie di piccolo quadrato), A destra l’ideogramma dell’est, cioè ancora il sole che traspare però tra i rami di un albero stilizzato. Nell’ideogramma centrale che traduciamo col verbo “sorgere”, osserviamo sempre l’ideogramma del sole, posto un po’ più in alto rispetto al precedente, e sotto di esso una linea verticale che figura il venir fuori dalla terra di quello stesso tronco d’albero che vediamo raffigurato nel terzo ideogramma, Di fatto vediamo il sole sorgere sull’orizzonte. «Con l’occhio si vedono e si leggono in silenzio i caratteri, uno dopo l’altro», dice Fenollosa. Ed è così che la scrittura cinese ingloba un antico tratto pittografico. La pittura cinese, dice ancora Fenollosa, è qualcosa di più che simboli arbitrari; essa ha il vantaggio di combinare il tempo della parola parlata con lo spazio della figura. Essa «parla simultaneamente con la vivacità della pittura e con la mobilità dei suoni. In un certo senso è più oggettiva, più drammatica di ciascuna delle due separatamente. Leggendo il cinese non stiamo ad agitare bussolotti mentali, ma osserviamo cose evolvere il loro fato».

Un altro esempio è riferito a un verso che potremmo tradurre così: “L’uomo vede il cavallo”. Anche qui non simboli arbitrari, ma «la vivida pittura stenografica delle azioni naturali». Dapprima osserviamo la figura stilizzata dell’uomo sulle sue due gambe. Poi il suo occhio che percorre lo spazio: una figura audace di gambe che corrono sotto un occhio che si protende innanzi. Un disegno bizzarro e insieme straordinario: indimenticabile una volta visto. Infine il cavallo, saldo sulle sue quattro zampe stilizzate e la sua coda fluente. Ecco come la poesia cinese descrive le cose.

Caballo-China-Sig57716Più che cose in realtà vediamo azioni, «pitture stenografiche di azioni o progressioni». Ecco altri esempi.
L‘ideogramma dì “parlare” è una bocca da cui escono parole e una fiamma […], l’ideogramma di “commensale” è un uomo e un fuoco. Non esiste in natura un vero nome, una cosa isolata. Le cose non sono che punti terminali, o meglio, i punti d’incontro delle azioni, sezioni intersecanti le azioni, istantanee. Né è possibile in natura un verbo puro, un moto astratto. L’occhio del lettore vede nome e verbo come un tutt’uno: cose in moto, moto nelle cose, è così che la concezione cinese tende a presentarli. Il sole sotto le piante in germoglio è “primavera” […], il campo di riso più la fatica uguale “maschio”, barca più acqua uguale “scia”, “increspatura”, ecc.
Uno dei fatti più interessanti della lingua cinese è che vi vediamo non solo le forme delle frasi, ma come le parti del discorso crescono, sviluppandosi l’una dall’altra. Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate. La lingua cinese naturalmente non conosce la grammatica.

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Nazario Pardini AUTOANTOLOGIA – POESIE (2002 – 2014)

copertina nazario pardini lettura testi Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, copertina nazario pardini paesi da semprePagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, copertina nazario pardini scampoli2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

 

copertina nazario pardini le voci della sera Il volo di Icaro

Attratto dai richiami del meriggio
volò alto,
alto volò toccando cime immense,
azzardi che gli umani
cercano con l’anima e la mente;
ma ci si può bruciare
se il volo è troppo arduo,
si annullano in abissi senza fine
le nostre identità;
sperderci oltre la siepe,
o in cieli fra le stelle
copertina nazario pardini le simulazioni dell'azzurroè un naufragio per la nostra essenza.
E tu Icaro,
privo di remeggi, a braccia nude,
senza appigli,
brancolasti in vertigini d’azzurro
quando l’astro di vita e di morte
ti rammollì la cera.
Cadevi impaurito,
risucchiato:
“padre, tu che mi hai dato il volo,
aiuta questo figlio, dagli l’ali,
che il cielo non mi regge
ed io sprofondo incauto negli abissi.
????????????????????????????????????????????????????Padre, io sono qui,
corrimi incontro, arresta il mio naufragio,
tu puoi, con il tuo amore
e il tuo superbo ingegno”.
“Icaro, Icaro dove sei?
dove giace mio figlio eterni dèi?
Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno
ove cercare; carne della mia,
figlio imprudente, dove il volo tuo
lontano dai miei occhi. Cosa fare?
che cosa potrà fare questo padre?”
Ma d’Icaro la bocca
fu chiusa dalle onde di quei pelaghi.
E quando il genitore
scorse le vane piume
sparse sull’acque a sfiorare gli scogli,
non poté che ergere un sepolcro
in terra d’Icaria.
Maledì la sua arte ed il destino,
gli azzardi degli umani, le imprese folli,
la violenza del cielo, il regno del sole,
maledì quella natura umana,
il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare
il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa
scintilla degli dèi, impronta del divino
bocci di libertà

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L’uomo senza qualità diventa scrittore: “La coscienza di Zeno” letto da Marco Onofrio

svevo_filateliaCon La coscienza di Zenosvevo_cartolina (1923), di Italo Svevo, la letteratura italiana assimila il respiro del grande romanzo europeo novecentesco (Kafka, Proust, Joyce, con substrato filosofico di Freud, Bergson, Nietzsche). Si dissolvono le strutture narrative tradizionali. Il personaggio è sottoposto a una destrutturazione atomistica: non è sentito più come monade unitaria, ma come aperta e imprevedibile “disponibilità” psicologica, nelle sue continue e contraddittorie oscillazioni tra conscio e subconscio, tra parola e pensiero, tra dialogo esterno e soliloquio mentale (monologo interiore), tra intenzione e azione; esposto dunque alle insidie dell’irrazionalismo e del relativismo, che segnano il tracollo di ogni certezza deterministica (su cui si fondava il romanzo naturalistico): la realtà non è più frutto di rapporti causa-effetto, ma “onda di probabilità” che sfugge ad ogni schema predittivo (Giacomo Debenedetti).

SVEVO_copertina_2Ecco il “personaggio-Novecento”, privo ormai di margini strutturati e, per lo più, inetto dinanzi a una realtà ormai inafferrabile. La realtà borghese, invece, si vuole ancora afferrabile e dominabile, costruttivamente utilizzabile a scopi di profitto. Zeno Cosini è un inetto alla vita pratica, un “teorista” portato per natura a riflettere su se stesso e sulle cose, ad analizzare più che ad agire, a lasciarsi vivere più che a vivere. Introspezione e analisi conducono inevitabilmente a uno stato di malattia. Zeno è l’antieroe borghese: è l’uomosvevo_copertina dai nervi stanchi, malato di troppa intelligenza. Il borghese non pensa, agisce: è convinto, sicuro e felice di ciò che fa, si identifica perfettamente col mondo che si è costruito intorno. Il borghese è dotato dunque di salute e impassibilità, di infallibile senso pratico.

Zeno è un acrobata del vuoto. Il suo sguardo sulle cose è intriso di leggerezza, disincanto, ironia, autoironia, pessimismo umoristico. La vita è una risibile farsa, svevo_3un enigma insolubile, un caos dove tutto può accadere. Lui stesso ottiene dalla vita doni e rivincite quasi suo malgrado, al di là dei meriti effettivi. La coscienza di Zeno è una commedia intrisa di tragedia. La tragedia, infatti, deve essere raccontata come se fosse una commedia, perché ormai è impossibile come tale: la tragedia pretende “verità” e “grandezza”, due valori che si sono sfaldati nella deriva di un mondo sempre più ridicolo. L’umorismo è la coscienza dell’assurdo della vita e dei giochi complicati e puerili con cui ci si illude di dominarla.  Zeno trasforma in materia comica tutto ciò che è fondante per suo padre: il lavoro, la religione, il matrimonio, la famiglia: i sacri valori della borghesia. Anche in casa Malfenti, a cominciare dal suocero Giovanni, si prende maledettamente sul serio la vita, ovvero gli ideali praticissimi della borghesia. Zeno, lui, proprio non ce la fa. Cioè: aderisce esternamente, ma si mantiene distaccato internamente. La sconnessione tra interno ed esterno, anzi, aumenta nella misura in cui Zeno cerca di agganciarsi alla realtà, di risolvere il problema della propria esistenza.

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A PROPOSITO DEL “REALISMO NEGATIVO ” DI UMBERTO ECO. Commento di Steven Grieco e un appunto di Giorgio Linguaglossa

Il Mangiaparole rivista n. 1Steven Grieco

Il pensiero di Eco è sempre geniale, ricchissimo, una meravigliosa fortezza con tantissime porte per chi entra e chi esce.
Rimane però che ci sono domande che non hanno risposta. E’ questo a cui dobbiamo abituarci, volenti o nolenti, finita da tempo la stagione delle Grandi Certezze, ma anche la stagione della Grande Negazione delle certezze. Sarà pur vero che ci troviamo nella fase postmoderna, dubbiosa, della riflessione filosofica, ma ho l’impressione che il vecchio, ferreo pensiero binario sia ancora in ottima salute.
Forse sarebbe meglio che ci rendessimo conto umilmente, che, ahimè, ciò che sembra vero oggi, forse non lo sarà domani, ma potrebbe esserlo di nuovo dopodomani. Altre grandissime civiltà l’hanno sempre saputo: guai a cercare di legare ciò che è sovranamente libero, di cercare di immobilizzare il resto irriducibile delle cose. Questa semplicissima verità (sì, uso questa parola, “verità”) vale ancora oggi e ovunque nel mondo per l’artista (e forse anche per l’astrofisico) nel momento in cui inizia in lui un certo processo immaginativo e, subito dopo, quando egli tenta in qualche modo di dare espressione a quel processo. La fase creativa del pensiero, insomma. In cui egli deve dimenticarsi di tutto.
Anna Ventura copertina tu quoqueInfatti, in arte, ogni costruzione può, anzi deve, essere distrutta.
Nel mondo della teoria, della riflessione critica, invece, la costruzione logica è certamente importante, essenziale, imprescindibile. Ma comunque persiste, lo ripeto, la brutta abitudine che hanno le idee di slegarsi l’attimo dopo che qualcuno ha deciso di annodarle.
Malgrado ciò, e contraddicendo quello che ho appena detto, dico che il Realismo Negativo di Eco rimane il miglior modo di pensare la realtà del nostro mondo contemporaneo. In questo senso, egli ha lasciato che la domanda rimanesse domanda, e non posso che essere pienamente d’accordo. Se poi tutto ciò ha il sapore del classico bicchiere mezzo vuoto, ebbene, in questo tempo viviamo, e di questo ci dobbiamo accontentare.
Anche perché – non ce lo scordiamo! – il nostro mondo acefalo, così amaro e irriducibile, è anche strapieno di folgoranti sorprese (che non arrivano quasi mai con preavviso).

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La Grande Bellezza di Roma – Poesie di Salvatore Martino, Annalisa Comes, Chiara Moimas, Gian Piero Stefanoni, Leopoldo Attolico, Loris Maria Marchetti, Franco Fresi, Giuliana Lucchini

Il Mangiaparole rivista n. 1 

Salvatore Martino

Elegia romana

da Commemorazione dei vivi (1979)
La giovane russa fu sconvolta

Aveva la bocca di cenere
un paradiso feroce tra le cosce

un’azzurra cadenza nello sguardo
e un elegante sistema di volute
coronava la testa

Se ti chiedessi di cominciare una storia
o soltanto ferirla nel ricordo?

Tremavano i gesti e le parole
il sesso gonfiava sotto i pantaloni
camminando di notte l’argine fluviale
che penetra come un fallo la città
domestica dal tramonto all’alba
straniera prima che calino le ombre

Confusi da eventi che sorprendono
raggelati da voci che mai ci chiamano

per nome contro occhi di luce minacciosi
e bozze fasciate da intestini che
assumono parvenze d’uomo
traffichiamo la notte
vendendola al prezzo stabilito
sotto glaciali stelle che raccontano
inverosimili storie di fanciulli
e di donne sgozzate
di agonie premature
casuali assassini nelle piazze
spietati suicidi di bambini

Galleggiano tra conati di merda
capelli e braccia gambe spolpate
ingorgano l’ultima pista a Fiumicino
attraccano gli sputi nell’isola sacra alle Vestali

Mia dolce tenera massacrata città!

Barcolli tra obelischi e rottami
in un quotidiano martirio
il pozzo dove anneghi la tua luna
è quello soffocante delle fogne

Ti saluta al mattino l’avvilente metafora
del piatto mostri inquieti s’aggirano tra
oleandri e rovine all’ombra delle cupole
e di torri sotto le pensiline nei bar nelle stazioni
all’angolo di equestri monumenti emergono
tra cespugli e latrine dagli antichi portoni
dai rispettati androni dei partiti

Gli angeli incorrotti ti salutano

Scendi Regina
Che sia dura la notte

Per coloro i cui passi risuonano
troppo nella veglia
viaggiatori del limbo

Che bisogna dormire!
Conformemente uniti nella lotta

Un’altra specie di individui ombra
assesta il culo sopra la poltrona
distrattamente ingrana le leve del comando
fatalmente coincise con la frode
e affiorano carogne di tigri dal letame
macilenti avvoltoi divorano le porte
Sebastiano e Metronia Paolo e Pinciana

Hanno fagocitato tutto il sangue
che mai ti percorreva le arterie
città trasognata
da un sogno irripetibile di gelo

Cominciato al crepuscolo il viaggio non ha fine

Vegliano in armi questa notte gli antichi
Imperatori hanno preso in affitto il lungotevere
dal ponte Palatino a ponte Milvio
e dai carri al galoppo ci guardano passare
in una interminabile sequenza di vittime soltanto
che ormai non c’è bisogno di carnefici

Irreale città
magicamente costruita da bizzarri architetti
distendi le tue case sopra il niente
Quando ti succhieranno le formiche
uscite inesorabili dai loro nascondigli
rompendo argini e finestre in una
tumultuosa metamorfosi di nuclei e di geni?
Lo stadio che le annunzia
è questa vischiosa marmellata?

Si è frantumata la paura l’alfabeto
è un mosaico sfibrato senza incastri
che vomita parole un blocco solo impasta
l’anima il piombo la speranza

pittura parietale romana

pittura parietale romana

La giovane russa fu sconvolta

Aveva tra le mani una guida eterna
e mappe e segni carte strategie itinerari
impossibili una lunga sequenza di divieti

Chiuso per restauro!

Voleva dire per sempre

 

 

 

 

annalisa comes

annalisa comes

 

 

 

 

 

Annalisa Comes

Breve storia di una guarigione per un ospite del Fatebenefratelli

 

Dopo aver osservato le stelle,
posò il bicchiere sul tavolo.

– Domani sarà una bella giornata –
dichiarò soddisfatto
passandosi la lingua sulle labbra.

Tutte le sere guardava dalla finestra,
tirava fuori il muso
dalla cornice bianca
giù,
lungo
le rive,
alla grande prua di marmo,
poi verso i rami contorti dei platani,
e di nuovo ai bastioni, alla piazza S. Bartolomeo –
gli occhiali sulla punta del naso.
Voleva prendere il largo – e navigare.

– La luna non ha alone – il vento è propizio -.
Pensava che avrebbe steso le vele
sul ponte, per prima cosa.

 

Roma_pittura parietale_ impero romano

pittura parietale stile pompeiano

Chiara Moimas

Roma
Ad imperitura memoria
scanalature smussate dai diluvi
e dalle brezze si ergono monche.
Secoli discordi si accalcano
sopra intonaci sgretolati dall’oblio.
Alloro con mirto Ignavia ha intrecciato
e discinta sullo scranno più alto
s’è assisa. Tu quoque
a perpetrare il tradimento sei giunto
da introvabili valli e da esposte riviere
avvinghiato alle ali di metallici sparvieri.
Ombreggia lo sguardo di barbarica
innocenza ma le mani ad immergere
ti appresti nel torbido dei forzieri.
Opaco l’oro e scalfita la corniola.
Eterno a sedurre rimane l’acceso tramonto.

 

Gian Piero Stefanoni

Ponte Cestio

“Non punirti più, non punirti più..”-
ti dici Roma tra l’odore del piscio
e una bellezza che non può più bastare.

Ma risalgono e avanzano, senza più ostacoli
gli animali fiutando la carne.

Nel nostro dare o non dare, il lamento degli stupri,
le voci lasciate a casa, prestate al sangue.

Anime vili, anime prave, ogni tanto qualcuno
non ce la fa e cede: gambe, braccia,
denti consegnate ai giornali.

Come giocare tra le mine e improvvisamente saltare.

 

 

leopoldo attolico

Leopoldo Attolico

Disamore? ( Roma docet )
La mia città indisponente
si difende così bene
che è un piacere attaccarla :
con un ghigno non cattivo
-cattivista
si può provare ad appenderla
-per gioco , al fatidico chiodo
come i guantoni di gran boxeur
grondanti inerzia esplosiva
ed onusta grandeur

Si noterà
-dentro una luce lasca
e un poco impertinente ,
che la nuova emozione
altro non è che la rappresentazione al bacio
di una specie di galateo d’antan rovesciato
dove tutto risplende per l’ultima volta

( e rieccoti ancora l’amore )
(da La realtà sofferta del comico , Aìsara 2009)

 

 

Loris Maria Marchetti_1

Loris Maria Marchetti

Caput mundi
Davvero qualche nume
indigete o acquisito
molto ti deve avere cara, Roma,
se pure tra lo scempio e l’immondizia
in cui ora marcisci
riesci a conservare quasi intatti
il tuo clima stupendo
e l’azzurro del cielo.

(da Le ire inferme, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1989)

minotauro

La sera ci bruciavano i piedi...

La sera ci bruciavano i piedi
per le piaghe – quel San Pietro e Paolo
quasi deserto e allucinato
di sole – tanto vagammo per Roma
tutta nostra (e di pochi turisti
fradici di sudore): fu quello il giorno
che l’amammo per la prima volta.

(da Il laccio, il nodo, lo strale, Achille e la Tartaruga, Torino 2012)

Franco Fresi

A Roma

Per troppo amore alla mia terra
ritorno alle tue strade.
Avevamo piedi piccoli e suole pesanti
scomode sui sampietrini.
Delle mie vecchie orme mi farai riappropriare
anche se a lungo il tempo
il marmoreo profilo vulnera e tutto
di te dissimula.

Dovrebbe essere un obbligo venirci
da prìncipi o da mendicanti
da santi o da peccatori
in viaggio di superamento, abitarci
almeno per un poco, protési
i sensi al battito delle tue cento vite,
al canto dell’ape regina.
Quando nasce e quando muore
tra genuflesse operaie
sibilo impercettibile è il canto
di saluto alla vita o l’addio.
Resta in fondo al perfetto
esagono del cenotafio di cera
quel canto o sospiro, dicono,
fino alla terza delle quattro pasque.

Anche il tuo canto è flebile, Roma, accordo
di canute acque in piano alveo
eco d’antica voce
di nume condannato a non morire.

Giuliana lucchini

 

 

 

 

 

 

Giuliana Lucchini

Dall’oltre venire

alla mia bella nipote Marta

Il lutto non è mai finito fiore :
l’ira scolpita a caratteri di fuoco

sulle mura della città
ma in alto sul monumento

dove si posano fra la folla
imperturbati gli uccelli bianchi

in quattro si pettinano tutte insieme
caldamente ridendo accanto al pozzo

(capelli lunghi di vari colori
inclini fluttuano su baci d’aria –

la quadriglia alata se ne va con loro,
tace il terrazzo ai prodromi della sera):

le ragazze che hanno sorvolato l’oceano
per incrociare con ali di sole

l’eterna bellezza di Roma

(inedito)

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Vincenzo Mascolo – AUTOANTOLOGIA Poesie (2004 – 2013) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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  Vincenzo Mascolo, nato a Salerno nel 1959, vive e lavora a Roma. Nel 2004 ha pubblicato la raccolta Il pensiero originale che ho commesso, Edizioni Angolo Manzoni. Con la casa editrice LietoColle ha pubblicato nel 2009 Scovando l’uovo (appunti di bioetica). Nel 2010 un estratto del libro inedito Bile è stato pubblicato nell’antologia Lietocolle Orchestra – poeti all’opera (numero tre), curata da Guido Oldani. Per LietoColle ha anche curato le antologie Stagioni, insieme a Stefania Crema e Anna Toscano, La poesia è un bambino e, con Giampiero Neri, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi. E’ il curatore di Ritratti di poesia, manifestazione annuale di poesia italiana e internazionale promossa dalla Fondazione Roma.

vincenzo mascolo 2

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).

Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011.

In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

La ricerca poetica di Vincenzo Mascolo si situa nell’orizzonte di una poesia con i battenti aperti, una forma-poesia larga e capiente che faccia entrare il mondo con tutte le sue contraddizioni, l’eteronomia del mondo mediante un linguaggio che non è più koiné, non è più un linguaggio di linguaggi o un meta linguaggio ma un linguaggio di provenienza prosastico, inglobato nella forma-poesia. Uno spazio espressivo integrale, dunque.

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L’ATTESA

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Scena:
Un uomo solo seduto al tavolino di un bar.
Altre persone nella sala. Una musica in sottofondo.
Riascoltando questa vecchia canzone di Edith Piaf,
che arriva soffusa e lontana come i miei ricordi,
mi viene da pensare che anche io non mi pento di niente,
anzi, che non ho niente di cui voglia pentirmi.
Perché se lo volessi dovrei farlo proprio adesso,
intendo in questo istante,
tra un bicchiere e l’altro di prosecco
che mi vengono serviti al tavolino,
davanti a coloro che, come me,
sono seduti in questa sala
in solitaria attesa che si compia qualcosa
che non sappiamo nemmeno cosa sia.
Reciterò però con devozione i vostri miserere
da sgranare uno a uno quando viene sera
per non aver paura
ma non chiedetemi atti di dolore
perché è già dolore
questo mio essere diviso
tra la terra e il cielo,
il vero senso che non colgo,
la mia postura.

vincenzo_mascolo.

A MARGINE DI UN PENSIERO FILOSOFICO
(Leggendo Jean Paul Sartre)

Ci sarà poi qualcosa tra il nostro essere e il nulla,
una virgola, un punto, quantomeno un trattino
che separi dal nulla ciò che invece noi siamo,
perché forse altrimenti si dovrebbe pensare
che sia essere nulla il nostro vero destino
e che vivere in fondo per ognuno sia vano
perché pure esistendo noi comunque non siamo.

da Scovando l’uovo appunti di bioetica, LietoColle, 2009

È necessario l’esplicito consenso
perché sia un atto conforme alla morale
oppure è sufficiente il silenzioso assenso
per prelevare gli organi al maiale?

E smettiamola di chiamare “terminale”
chi non può rinviare la data del suo viaggio
perché il rispetto profondo del suo male
è anche compassione nell’uso del linguaggio.

Nuove frontiere sono ormai alle porte:
gli interventi sulle cellule dell’Io
la scoperta e la cura del gene della morte
e, per finire, la clonazione della pietà di Dio.

Un’antenna protesa verso il cielo
è l’anima che il poeta tende al firmamento:
ne capta ogni segnale e dal suo mondo parallelo
emette nuove onde, che non danno inquinamento.

È frutto di un equivoco il mondo in cui ho creduto:
né laico né cattolico è il senso della vita
e come un continente che adesso si è perduto
dell’etica si narra soltanto che è sparita.

vincenzo mascolo 3.

IL CIELO DI LISBONA
(il dolore invisibile di Fernando Pessoa)

Qualcuno di tanto in tanto viene ancora a trovarmi
specialmente nelle sere profumate di maggio
quando il cielo che avvolge Lisbona
ha molte più stelle di quante io ne riesca a contare.
Ritornano allora tra noi i discorsi di sempre
insieme alle nostre poesie, che in quelle sere
pronunciamo ad alta voce per ore
come fossero veramente preghiere
e non gli inutili versi che sono
come se, in quel frastuono di voci che è a me così caro,
a poco a poco ogni cosa potesse di nuovo diventare reale
anche il cielo al di sopra di noi
e tutte le stelle che non riesco a contare
anche la vita che fingiamo di avere
e il dolore, infinito, di noi
che nelle sere profumate di maggio
al suono delle nostre parole
dal cielo continuiamo a invocare.

vincenzo mascolo1.

IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)

III

Ha piccole stanze la mia casa
e un lungo corridoio da attraversare.
Ma la sera, quando siedo a scrivere i miei versi,
dalla finestra che affaccia sulla strada
mi sembra vedo in lontananza, il mare

(palazzi di Buenos Aires)

IL CIELO DI BUENOS AIRES

.

(la neve invisibile di Jorge Luis Borges)
Ricordo nevicava quel giorno a Buenos Aires
cadeva giù la neve che il cielo la mandava
così sottile lieve bianca pura
che si riusciva solo a immaginarla
e io nel buio che dalla mia stanza
si distendeva fino all’orizzonte
attraversando il cielo e l’avenida io
quel giorno io la immaginavo
venire giù dal cielo come manna
e come manna stenebrare il buio
nei miei pensieri incolti e nella carne
dell’anima smagrita
quasi esangue.

Fu un momento
un rapido bagliore come un lampo
ma in quell’istante vidi nuovamente
le mura circolari di Babele
e la parola che si era perduta
risorgere alla luce
farsi eterna
come questa infinita nevicata
che adesso imbianca ancora l’orizzonte
il cielo i tetti i vetri
la mia stanza.

O carne della mia carne inaridita
l’essenza memorabile del tempo
è polvere sui libri che leggevo
sulla città svanita,
lontananza.

(Pitture di Mario Gabriele)

.

IL CIELO DI NIZZA
(il fuoco invisibile di Bruce Chatwin)

ti prego dimmi che ci faccio qui e in ogni luogo dimmi cosa ci sto a fare a
cosa serve trascinare il tempo fingendosi di vita sempre uguale a cosa
servono il dolore e il canto le vie che ho attraversato ogni ritorno a
cosa serve questa nostra attesa la notte che accompagna il mio
silenzio la mia preghiera di rivedere il giorno meglio
sarebbe consumarsi in fretta nell’aria rarefatta di
un mattino bruciare in pochi istanti come
legna nell’erba e uniti al suo profumo
restituire cenere alla terra
per risalire lievi.

farsi
fumo

696B6172.

IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)

IV

Bambini su di corsa, venite nel mio letto
guardiamo il temporale dai vetri della stanza
terremo insieme i fulmini a debita distanza
e il male che ho di vivere rinchiuso nel mio petto.

M Malerba Roma.

IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)

VI

Sai, non è la morte che mi fa paura
ma il cielo scuro dell’inverno,
la lama affilata della notte
che scava dentro il mio dolore,
la ricerca continua di parole
nel ripetersi monotono dei giorni.
Mi atterrisce
la vanità di questa mia poesia
e l’orrore della vita
che sento scardinare le finestre
ogni mattina.

magritte-1.

IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)

X

L’aria è di marmo, venata
di ghiaccio la luna.
Pesa più di sempre la notte
ora che una nebbia improvvisa
ne infittisce la trama.

E’ questo silenzio il nulla,
l’attimo che schiude una poesia,
il ritrarsi dei petali
nella strenua difesa della rosa.

magritte-golconda.

IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)

XII

Amo il rarefarsi della notte
e il risvegliarsi muto degli eventi,
amo il suono impercettibile del cosmo,
il separarsi occulto delle cose
in atomi e molecole, frammenti
della materia che si ricompone,
sostanza indivisibile del tempo.

Così,
di particelle infinitesime d’inchiostro
amo il turbinare che trasforma
la dura concrezione del silenzio
in altro spazio, in una nuova
forma, pulviscolo di corpi luminosi
che passano attraversano i sentieri
delle città, i reticoli del tempo,
chiarore ineludibile del giorno,
sostanza incorruttibile,
poesia.

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LETTURE A CONFRONTO: UNA POESIA DI GIOVANNI GIUDICI (1984). Alfonso Berardinelli e Giorgio Linguaglossa

  Giovanni Giùdici (Le Grazie, La Spezia, 1924 – La Spezia 2011); di formazione cattolica ha lavorato nell’industria, di qui lo spettro della sua poesia caratterizzata dall’impegno impegno civile e dalla attenzione alla vita quotidiana degli uomini. All’oscillazione tra il comico e il tragico delle prime raccolte importanti (La vita in versi, 1965; Autobiologia, 1969; O beatrice, 1972) è succeduta l’individuazione di un tono dal più ampio spettro, irrispettoso delle convenzioni e prossimo a un monostilismo (Il male dei creditori, 1977; Il ristorante dei morti, 1981; Lume dei tuoi misteri, 1984; Salutz. 1984-1986, 1986; Fortezza, 1990). Collaboratore di giornali e riviste, Giudici è autore di alcune raccolte di saggi (La letteratura verso Hiroshima, 1976; La dama non cercata, 1985), e di molte traduzioni (da E. Pound, Robert Frost, J. C. Ransom, S. Plath, A. Puškin, ecc.) che rappresentano un momento centrale nel suo stesso esercizio poetico; una scelta è apparsa nel volume Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980) (1982). Dopo la raccolta complessiva Poesie (1953-1990) (2 voll., 1991), ha pubblicato un originale libretto di riflessioni sulla poesia dal titolo Andare in Cina a piedi (1992). L’interrogazione metafisica si è fatta più acuta nella trilogia: Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresia della sera (1999). Le sue poesie complete sono edite in I versi della vita(2000), ai quali sono da aggiungere Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002(2004).

Giovanni Giudici

Tombola

Oh fossi così  tu sempre
Come quando e raramente
Fuori dai sensi inavvertita
Sospiri – sei te sei te
Il cielo della mia vita
E ride il lume del tuo viso
Quale raccontano che è
Il popolo del paradiso

O quando trepida e riversa
Barca del mare semimmersa
Rendi alla mia la tua mentale
E corporale nudità
Divaricata vegetale
Luna e compiuta trasparenza
E mi dicessero – ma va’
Non serve colpa e sofferenza

Fiume d’affanno e di rancore
Per un rigagnolo d’amore –
M’insinuassero un sospetto
Di via segreta a chi sei tu
E dove all’identico effetto
Di mamma che in due ci dondola
Bastasse – e anche più
Giocare a dama, a tombola.

(da Lume dei tuoi misteri, 1984)

alfonso berardinelliLettura di Alfonso Berardinelli
(Panorama, 24 dicembre 1989)

La vita in versi, il libro con cui Giovanni Giudici si impose nel 1965, come uno dei poeti più originali di quegli anni, era arrivato relativamente tardi. La maturazione, per questo autore già quarantenne, era stata lenta, ma il risultato appariva sorprendente. Il linguaggio dei suoi versi faceva a meno senza sforzo dell’armamentario lirico. E, soprattutto, il poeta non si sentiva in dovere di recitare la parte del poeta (o ne inventava una del tutto nuova). In mezzo al diffuso estremismo avanguardistico e ideologico di allora, la poesia di Giudici rivelava una attitudine insolita alla moderazione della prosa e alla continuità del romanzo in versi. Il suo programma e il suo metodo erano semplici: «mettere la vita in versi» avrebbe significato reinventare la lingua della poesia, lessico, sintassi, metrica. Ma soprattutto il tono era nuovo: privo di tensioni e contrazioni artificiose, fondate su una colloquialità diaristica in cui Saba si incontrava con i deplorevoli drammi quotidiani della nuova classe media nata dal «miracolo economico» italiano.

alfonso_berardinelli  Nei suoi numerosi libri successivi, però, Giudici ha dimostrato di non essere solo questo (un maestro, un virtuoso della musica comico-realistica). Soprattutto nelle raccolte più recenti, il tono basso si alza, lo sconsolato dolore dell’animale sociale braccato prende una vibrazione più intensa in mezzo alle macchiette e agli sketch, alla tragicommedia quotidiana. La nostalgia di un’altra vita, fatta con le promesse non mantenute di questa, prende gradualmente più spazio. Nasce così una musica cullante (e straziante) in cui la realtà trapassa in sogno. Come in questa poesia: dove lo sfinimento dei corpi atterriti dal proprio ingombro diventa sospiro, sogno di unioni più felici, perché più disincarnate.

Tre ottave di ottonari e di novenari rimati secondo uno schema regolare (solo nei primi due versi troviamo l’assonanza «sempre» – «raramente» al posto della rima). Tre strofe attraversate da un’unica onda sintattica, frantumata e variata in creste minori («Come quando… O quando…», e che si sostiene su una ricorrenza di congiuntivi ottativi, che esprimono una possibilità desiderata e sognata («Oh fossi… E mi dicessero… M’insinuassero… Bastasse…»). L’aspirazione è trasformare l’amore che è congiungimento fisico in una percezione di intensità quasi ultrasensoriale, paradisiaca (come nella prima strofa). O far regredire l’amore adulto in amore infantile, presessuale: un giocare «a dama, a tombola», un essere cullati «in due», come due infanti gemelli, dalle braccia d una mamma comune. È il desiderio di una diversa strada «a chi sei tu», di una «vita segreta» che sappia fare a meno del sesso per raggiungere quell’«identico effetto», di dondolante fusione «mentale» e «corporale».

È questa una lirica di realismo erotico (in alcuni versi centrali, da «trepida e riversa» fino a «rigagnolo d’amore») che si intreccia con una lirica del sogno erotico: altra dimensione sempre presente come un fantasma di felicità mai raggiunta. L’effetto d’insieme è quello di una tessitura di ritmi e di figure in sospensione, in metamorfosi, con inserti di parlato ora in elevazione («sei te sei te – Il cielo della mia vita»), ora di tono discendente e lirico-realistico («ma va’ – Non serve colpa e sofferenza – Fiume d’affanno e di rancore – Per un rigagnolo d’amore»). La perizia tecnica, soprattutto metrica, è ammirevole. Il linguaggio della nuda presenza reale (la nudità dei due amanti) è attraversato e arieggiato da una serie di inaspettati echi ed effetti di lontananza (le immagini del paradiso e dell’infanzia, la luna, la barca, e una musica strofica da poesia provenzale).

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Lettura di Giorgio Linguaglossa

Sono trascorsi circa trenta anni dalla lettura di questa poesia che ne ha dato Berardinelli. Ovviamente, l’intervallo del tempo trascorso entra attivamente nella lettura della poesia in generale, di qualsiasi poesia, e di questa poesia di Giudici in particolare, perché muta la sensibilità del lettore nel mentre che muta anche il testo. Dirò subito che quell’elemento musicale da ballatetta e da rondò che affascinava Berardinelli  a me appare piuttosto scontato, quell’alternanza di ottonari e di novenari rimati, pur rivelando una grande maestria tecnica, non suscita in me lettore di oggi particolare esultanza, anzi, la trovo alquanto, come dire, telefonata, facile. Quello che poteva apparire nel 1984 un elemento di novità, si è mutato, oggi, ai miei occhi, a distanza di quasi trenta anni, in un elemento di conservazione con la tradizione di sabiana memoria pur ristrutturata mediante la inserzione di sintagmi del parlato lirico-realistico e di stilemi stilistici di tipo «basso».  Anche l’impiego di certe rime («lume del tuo viso» con «paradiso») mi appare come un  repertorio retorico che non denota particolare originalità. Il testo mostra le tracce del tempo.

Giorgio Linguaglossa e SocrateL’onda ritmico-sonora di cui parlava Berardinelli, mi sembra che di per sé non abbia garantito un risultato estetico duraturo, anzi, proprio quell’onda ritmico-sonora ha oggi il sapore di un artificioso tecnicismo. Si dirà che non era forse questo l’intento del poeta, dico quello di apparire originale, che quel modo trasandato (e manierato) di correlare i versi in una struttura rimico-ritmica faceva parte integrante della poetica del poeta milanese. Sì, lo ammetto, è vero, pur con tutte queste attenuanti però il risultato estetico, oggi, a distanza di quasi trenta anni, mi sembra che mostri tutti i  propri limiti, concettuali, di visione dell’oggetto poesia e di utilizzazione dell’apparato retorico. Fuori di dubbio è quella che Berardinelli chiama «la perizia tecnica, soprattutto metrica», ma essa da sola non basta, è un propellente non sufficiente, non consente alla poesia di sostenere l’urto del tempo trascorso, la fa apparire sorpassata, invecchiata, ed anche manierata. Per paradosso, direi che è proprio la quantità di perizia tecnica che carica all’eccesso questa poesia, che ce la fa apparire, appunto,  datata.

Quella riforma di poetica di mettere «la vita in versi» datata 1965 di Giovanni Giudici rivela di essere arrivata al capolinea, intendo capolinea della propria interna capacità di sviluppo e di ampliamento. Certo, lo so, questo lo si può dire di qualunque poesia (anche di buon livello) che non riesce a reggere l’urto del tempo trascorso. Appunto.

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I PRIMI 5 SONETTI di WILLIAM SHAKESPEARE – TRADUZIONI A CONFRONTO di Giuliana Lucchini e Raffaello Utzeri

Shakespeare 31

From fairest creatures we desire increase,
That thereby beauty’s Rose might never die,
But as the riper should by time decease,
His tender heir might bear his memory;
But thou, contracted to thine own bright eyes,
Feed’st thy light’s flame with self-substantial fuel,
Making a famine where abundance lies,
Thyself thy foe, to thy sweet self too cruel.
Thou that art now the world’s fresh ornament
And only herald to the gaudy spring,
Within thine own bud buriest thy content,
And, tender churl, mak’st waste in niggarding.
Pity the world, or else this glutton be,
To eat the world’s due, by the grave and thee.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAVersione di Raffaello Utzeri

I
Prole auguriamo alle creature belle,
la rosa di bellezza mai ne muoia;
ma quando il tempo la matura, e cade,
giovani eredi eternino il ricordo.
Tu, fidanzato ai tuoi stessi occhi splendidi,
bruci te stesso, esca della tua fiamma,
fai carestia nell’abbondanza, in danno
del tuo dolce te stesso assai crudele.
Sei il più gaio ornamento che ora ha il mondo,
l’unico araldo delle primavere;
però se fai morire in boccio il germe,
mio dolce avaro, il tuo risparmio è sperpero.
Pensa anche al mondo, o sarà tanto ingordo
da inghiottir ciò che è suo, con la tua fossa.

Giuliana Lucchini

Giuliana Lucchini

versione di Giuliana Lucchini

1
Da belle creature aneliamo discendenza,
Ché rosa di bellezza così mai non muoia,
Ma se col tempo si matura a decadenza,
Possa un tenero erede portarne memoria.
E tu votato agli occhi tuoi d’ogni beltà,
Luce ne nutri, di te fiamma sostanziale,
Recando penuria dove abbondanza sta,
Tu stesso tuo nemico, al dolce te esiziale.
Tu che ora sei del mondo il suo fresco ornamento,
E il solo araldo di primavera primizia,
Ancora nel boccio tumuli il tuo contento
E tenero avaro ti sprechi d’avarizia.
Pietà del mondo, altrimenti ingordigia è
Mangiarsi il dovuto, dalla tomba e da te.

*

shakespeare-image2

When forty winters shall besiege thy brow,
And dig deep trenches in thy beauty’s field,
Thy youth’s proud livery, so gaz’d on now,
Will be a totter’d weed of small worth held.
Then being ask’d, where all thy beauty lies,
Where all the treasure of thy lusty days;
To say within thine own deep-sunken eyes,
Were an all-eating shame, and thriftless praise.
How much more praise deserv’d thy beauty’s use
If thou could’st answer “This fair child of mine
Shall sum my count, and make my old excuse”,
Proving his beauty by succession thine.
This were to be new made when thou art old,
And see thy blood warm when thou feel’st it cold.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

II
Quando quaranta inverni alla tua fronte
faranno assedio e scaveranno a fondo
trincee nel campo della tua bellezza,
questa altera livrea di gioventù
ora tanto invidiata, avrà la stima
di una logora stoffa a basso prezzo.
Chiesto allora dov’è che si nasconde
tutto il tesoro dei tuoi giorni ardenti,
rispondere “nei miei occhi infossati”
che vergogna sarebbe, assurda lode!
Ma come se ne approverebbe l’uso
se tu potessi dire: “il mio bel figlio
salda il mio conto e la vecchiaia scusa”,
essendo erede della tua bellezza!
Sarebbe un tuo rinascere da vecchio,
scaldarti il sangue al sentirtelo freddo.

giuliana lucchini con chitarraversione di Giuliana Lucchini

2
Quando quaranta inverni alla fronte assediata
In campo di beltà scavino solchi a fondo,
La bella livrea di gioventù così ammirata
Sarà logora, veste di ben poco conto.
Richiesto dove sia tutta la tua beltà,
Dove tutto il tesoro del tuo tempo aitante,
Dire ‘negli occhi’ segnati in profondità
Sarebbe vanto inutile, onta divorante.
Quanto più vanto merita beltà che s’usa,
Potendo replicare ‘questo figlio bello
Mi salda il conto e che sia vecchio chiede scusa’,
Mostrando tua la sua beltà, retaggio in quello.
Sarà rifarsi nuovo se vecchio sarai,
Vederti in sangue caldo se freddo l’avrai.

*

shakespeare_23

Look in thy glass, and tell the face thou viewest
Now is the time that face should form another,
Whose fresh repair if now thou not renewest
Thou dost beguile the world, unbless some mother.
For where is she so fair whose uneared womb
Disdains the tillage of thy husbandry?
Or who is he so fond will be the tomb
Of his self-love to stop posterity?
Thou art thy mother’s glass, and she in thee
Calls back the lovely April of her prime;
So thou through windows of thine age shalt see,
Despite of wrinkles, this thy golden time.
But if thou live remembered not to be,
Die single, and thine image dies with thee.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

III
Guarda lo specchio e di’ al viso che vedi:
“ormai è tempo di formarne un altro”;
se non innesti adesso il tuo bel fiore,
rubi al mondo e sacrifichi una madre.
Chi mai, bella che sia, non si darebbe
vergine a questa tua virilità?
Sopporteresti di essere la tomba
del tuo amor proprio, per negarti ai posteri?
Tu sei lo specchio di tua madre, in te
lei rivive i bei tempi del suo aprile:
a spregio delle rughe anche tu avresti
giorni d’oro a finestra dell’età.
Ma se vivi per non lasciar memoria,
scapolo morirai con la tua immagine.

Giuliana lucchiniversione di Giuliana Lucchini

3
Guardati allo specchio e dì al viso che vi vedi
Ch’è tempo ora per quel viso di farne un altro,
Al cui fresco rinnovo se ora non provvedi,
Defraudi il mondo, sconsacri madre peraltro.
Dov’è una sì bella, il cui ventre non solcato
Disdegni il vomere di tua virilità?
O chi dell’amore di sé è così infatuato
Da farsi tomba, arrestare posterità?
Tu sei lo specchio di tua madre ed ella in te
Richiama il suo dolce aprile di prima data,
Così dai vetri degli anni vedrai in te,
Malgrado le rughe, questa tua età dorata.
Ma se vivi per non essere ricordato,
Muori celibe, al sembiante morire è dato.

*

shakespeare b4

Unthrifty loveliness, why dost thou spend
Upon thy self thy beauty’s legacy?
Nature’s bequest gives nothing, but doth lend,
And being frank she lends to those are free:
Then, beauteous niggard, why dost thou abuse
The bounteous largess given thee to give!
Profitless usurer, why dost thou use
So great a sum of sums, yet canst not live?
For having traffic with thy self alone,
Thou of thy self thy sweet self dost deceive:
Then how when nature calls thee to begone,
What acceptable audit canst thou leave?
Thy unused beauty must be tombed with thee,
Which, used, lives th’ executor to be.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

IV

Bellezza prodiga, perché mai spendi
il tuo bel patrimonio entro te stesso?
I doni di natura sono prestiti
che lei fa, generosa, ai generosi;
bell’avaro, perché dunque tu abusi
del beneficio avuto per donare?
Usuraio sbancato, perché accumuli
tante somme, se poi non hai da vivere?
Se, trafficando solo con te stesso,
privi te stesso del tuo dolce io,
quando ti scaccerà dal mondo la natura
che consuntivo esibirai per buono?
La tua bellezza, senza impiego, deve
seppellirsi con te. Bene investita,
vivrebbe per curarti il testamento.

Giuliana Lucchini

Giuliana Lucchini

versione di Giuliana Lucchini

4
Prodiga leggiadria, davvero perché spendere
Su te stesso il tuo patrimonio di beltà?
Natura non dà a lascito, ma presta a rendere,
È franca e presta a chi commercia in libertà.
Allora mio bell’avaro, perché tu abusi
Dei munifici doni dati a te per dare;
Usuraio senza profitti, perché tu usi
Gran somma di somme, incapace di sfamare?
Perché negoziando con te stesso soltanto
Ti privi da te stesso del tuo dolce te,
Se Natura ti chiama a dipartita intanto,
Qual resoconto accetto lascerai di te?
Non usata Bellezza in tomba con te andrà,
Che se usata tuo testamentario sarà.

*

shakespeare5

Those hours, that with gentle work did frame
The lovely gaze where every eye doth dwell,
Will play the tyrants to the very same
And that unfair which fairly doth excel;
For never-resting time leads summer on
To hideous winter, and confounds him there;
Sap checked with frost, and lusty leaves quite gone,
Beauty o’er-snowed and bareness every where:
Then were not summer’s distillation left,
A liquid prisoner pent in walls of glass,
Beauty’s effect with beauty were bereft,
Nor it, nor no remembrance what it was:
But flowers distill’d, though they with winter meet,
Leese but their show; their substance still lives
sweet.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

V
Le ore, che gentili ricamarono
quel bell’aspetto in cui ogni occhio indugia,
contro lui stesso fattesi tiranne
guasteranno ciò che ora eccelle in bello;
perché il tempo senza riposo spinge
l’estate in mischia con l’odioso inverno,
linfe in brina, turgide foglie andate,
bellezza congelata e nudo ovunque.
Se non restasse poi l’essenza estiva,
liquida prigioniera chiusa in vetro,
la bellezza sarebbe col suo effetto
persa, e il ricordo di ciò che essa fu.
Ma i fiori distillati, anche in inverno,
perso il colore, in dolci essenze vivono.

Giuliana lucchiniversione di Giuliana Lucchini

5
Le ore che formarono con gentil lavoro
La bella immagine dove ogni occhio dimora
Tiranne saranno verso la stessa, loro,
Togliendo bellezza a chi bellamente infiora.
Il Tempo che mai posa induce avanti estate
Verso l’inverno orrendo e la confonde là,
Linfa morsa dal gelo e foglie fresche, andate;
Bellezza sotto neve e ovunque aridità.
Se l’essenza d’estate non fosse lasciata
Liquida prigioniera in pareti di vetro,
Di sua beltà bellezza sarebbe privata,
Né lei né il suo ricordo resterebbe dietro.
Fiore distillato cede a inverno apparenza,
La sua sostanza vive dolce in una essenza.

 

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I SONETTI di WILLIAM SHAKESPEARE – PRESENTAZIONE di Giuliana Lucchini

1609, pubblicati a Londra la prima volta presso Thorpe in formato ‘in-quarto’, sono rimaste 13 copie dell’originale, conservate in Biblioteche di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Poesia d’amore fine secolo XVI. Spontaneità e artificio. La naturalezza lirica del sentimento d’amore viene a inserirsi perfettamente entro lo schema pre-costituito del ‘sonetto’ di moda. Petrarca nella mente, i poeti vi si esibiscono intorno alla corte di Elisabetta I. L’amore per la persona, vera o presunta, si concentra in amore per l’arte poetica, ne diventa un solo obiettivo, con tutto il trasporto che l’emozione comporta, sia il sentimento autentico o d’invenzione, messo al tornio dell’arte retorica e dell’immaginazione letteraria a vari livelli di bravura, secondo la forza del poeta coinvolto.
Perché Shakespeare eccelle sugli altri poeti suoi contemporanei? Perché il suo grado di eccellenza si manifesta non solo in un’opera lirica, ma anche in quella drammatica, in cui il suo talento non è più paragonabile, in quanto sovrasta tutti gli altri del suo tempo. Il suo genio creativo è di qualità unica, non ripetibile.

 Shakespeare non  si limita a proseguire la traccia petrarchesca. Shakespeare inventa. Così la rigida forma del sonetto prenderà nome da lui (sonetto shakespeariano/sonetto inglese), per lo scarto inventivo sul sistema rimato con chiusura in distico finale, a soluzione dei 14 versi del testo fissati in pentapodia giambica : ABAB CDCD EFEF GG.
Amore sacro e amore profano: amore spirituale e, per la prima volta in un testo lirico, amore carnale. Il puro afflato celebrativo dello spirito desiderante muove pulsioni scrittorie contaminato da contingenze di realtà quotidiane.
L’opera, composta di 154 ‘sonetti’, si articola per segmenti e gruppi, di argomento e tono diversi. Indirizzata alla persona amata – per la prima volta in letteratura da uomo a uomo – vi si muovono, non per voce propria ma condotti a mano dell’autore, ‘personae’, personaggi reali, almeno tre in rappresentazione : l’amato, oggetto del verso sublime; un poeta rivale che dedica poesie alla stessa persona amata, suscitando gelosie; una misteriosa e sensuale ‘dark lady’ enigmatica traditrice, in virtù della quale si consacra il triangolo amoroso, con effetto di novità per il verso canonico ancora una volta in gestazione anticonvenzionale.

Ad essi si aggiungono i personaggi astratti, quasi tangibili, del Tempo, e della classica Musa, la Poesia. Natura e Morte non mancano, secondo l’immaginativa comune. Il non detto affiora. C’è tutto l’occorrente per una storia d’intrighi. Tale da rendere questo Canzoniere, lirico per natura, pronto ad affrontare anche le luci della ribalta del secolo XXI per un confronto drammatico. Secondo la profezia del sonetto 81, v. 11 : “And tongues to be, your being shall rehearse”.
Gli ultimi due sonetti (153-154) sono invece convenzionali e indipendenti dal contesto (sebbene vi si trovino passaggi ironici che lo connettono a chiusura del ciclo della ‘dark lady’). Vere esercitazioni di composizione poetica secondo canoni classici, le due variazioni, stile poetico-narrativo, possono essere state scritte in qualunque momento della vita del Poeta, a partire da sollecitazioni imitative di unepigramma greco del V secolo, ascritto a Marianus Scholasticus poeta bizantino, inserito nell’Antologia Palatina (in traduzione latina 1603, ma probabilmente tradotto prima in inglese da Ben Jonson – come sostengono gli studiosi).

shakespeare teatroSezione I.

La sequenza si presenta in struttura omogenea per stile e tema. Comprende il ciclo dei sonetti 1-17, d’argomento ‘matrimoniale’: il poeta in pratica esorta il giovinetto a sposarsi, perché la Bellezza eterna che in lui si raffigura possa, in contrasto con il Tempo distruggitore, rinnovarsi e vivere nella sua progenie. Tutto questo, impreziosito di riflessioni su natura e arte, verità e artefatto. Si celebra un mondo spirituale che esalta l’amore platonico del bello e benedice il santo riprodursi della creazione. Sebbene ossequioso, il sentimento d’amore è altruistico e fraterno fra uomini legati da rispetto e amicizia reciproca, con le dovute distanze di ceto, di censo, e d’età – il giovane appartenendo alla più alta nobiltà, bellissimo allo sguardo contemplativo del poeta: distanze sottolineate, nei più alti esiti, dall’uso letterario e aristocratico della seconda persona singolare, thou/thee (e conseguenti thy/thine) – eccezione fatta per il metaforico sonetto 5, che coinvolge il Tempo in modo diretto; e per i sonetti 13, 15, 16, 17, quando già affiora un più disinvolto coinvolgimento di relazione amichevole che permette al poeta di rivolgersi al nobile giovane con il più quotidiano, seppure reverente, uso del you (your/yours).

shakespeareCon la seconda più larga sezione dei sonetti, 18-126, inizia un rapporto interpersonale tra amato e amante, quasi metafisico, sviluppato in atteggiamento d’adorazione da parte dell’amante verso la Bellezza unica e totale – maschile/femminile (Master-Mistress) – che l’amato impersona (reso immortale nel sonetto 20 “A woman’s face, with Nature’s own hand painted”, v.1).
Il poeta prosegue nel tono deferente, con la dovuta devozione, mentre i termini del thou/you si interscambiano in testi susseguenti, a seconda dell’umore. È chiara una maggiore intimità fra poeta e destinatario. La bellezza, di cui l’occhio-pittore diventa lo specchio (son.24), è ancora il miraggio della contemplazione; mentre lo specchio come oggetto, di moda fra i nobili, presentato nel son. 3, si ripropone al son. 22 “My glass will not persuade me that I am old”, v.1, e al son. 77 “Thy glass will show you how the beauties wear”, v.1.
Un nutrito gruppo di sonetti coinvolge il tema della lontananza, in specie per un viaggio, che induce il poeta a riflettere su contrasti di carne e pensiero, conflitti fra occhio e cuore, ombra e sostanza, verità/illusione (son.43,44,46,47, 48, 50, 51, 52,53,54,56). (L’argomento sarà ripreso nei son. 98,113).

Shakespeare s_First_Folio_1623La pulsione emotiva del processo scrittorio porta il pensiero d’amore, platonico e altruistico per il bene dell’altro nella prima sezione, a trasformarsi gradualmente in sentimento ossessivo, al punto da fare vedere al poeta rappresentati in questo amore tutti i suoi altri amori (son.31“Thy bosom is endearèd with all hearts”, v.1), cui rinuncia offrendoli in somma all’amato, (son. 40 “Take all my loves, my love, yea, take them all”, v.1) in uno slancio che supera ogni gelosia. A una sola condizione però, che si escluda l’inganno (idem : “But yet be blamed, if thou thyself eceivest/ By wilful taste of what thyself refusest/ I do forgive thy robbery, gentle thief”, vv. 7-9), portando a concludere “.. yet we must not be foes” (idem : v.14). Problemi di fedeltà/infedeltà sono sviluppati nei son. 41-42. L’amore innocente, devoto alla Bellezza, si trasforma in possessività. L’infedeltà dell’amato, graziosamente accennata al son. 41 (“Those pretty wrongs that liberty commits”, v.1), è chiaramente annunciata come tradimento al son. 42 (“ That thou hast her it is not all my grief ”, v.1. Sospetto, gelosia, sottomissione appaiono ancora nei son. 57-58.

shakespeare b(Tale séguito di testi, ma specialmente il son.42, anticipando per argomento i sonetti della ‘dark lady’, sembra posizionato impropriamente nell’intera sequenza). Non mancano sonetti in cui una certa artificiosità di linguaggio denuncia un raffreddamento di rapporti, un distacco del coinvolgimento emotivo. Il poeta infine si autoaccusa, nei son. 110, 111, 112. Entro questo contesto si situano i sonetti più celebri : il son. 18 “Shall I compare thee to a summer’s day?”, v.1, inno alla bellezza del giovane – per la prima volta il Poeta vi ostenta il valore eternante della sua Poesia; il son. 33 “Full many a glorious morning have I seen”, v. 1 (tradotto anche da Ungaretti e Montale), descrittivo del sorgere del sole, metafora dell’amato (proseguirà nei son. 34 e 35); il son. 49 “Against that time, if ever that time come” v.1, in cui il poeta si fa piccolo di fronte all’amore; il son. 55 “Not marble not the gilded monuments”, v.1, orgogliosa affermazione della superiorità della Poesia sul Tempo; ripetuta nel son. 65 “Sine brass, nor stone, nor earth, nor boundless sea”, v.1; il son. 66 “Tired with all these, for restful death I cry”, v.1, quando il poeta dispera del bene terreno a causa della corruzione dei tempi; il son.116 “Let me not to the marriage of true minds”, v.1, inno all’Amore signore del Tempo, al passo di scoperte e invenzioni.

Il ‘poeta rivale’ fa la sua apparizione nel gruppo dei son. 78/86. Il nostro poeta ne parla mosso di gelosia, ma ostenta la superiorità dei versi propri (son. 81).
Shakespeare_1Il Tempo quale personaggio reale, signore della rovina, è falsariga di tutto il canzoniere, moltiplicazione rinascimentale barocca della Morte. Dopo la prima serie dei sonetti ‘matrimoniali’, in cui risalta nei son. 15-16, torna in scena nel gruppo dei son. 19, 22, 63-64, 123-124, 126. Per contro, il personaggio della Musa ispiratrice è accennato nei son. 21,32,38,78,82,85,100-101,103. La Poesia eternante si identifica nei versi stessi del Poeta mentre innalza il suo monumento alla Parola (son. 15-16/18-19, 54-55, 60, 63, 74,79, 81,107).

La sequenza dedicata alla ‘darl lady’, 127-152, è quasi omogenea nel suo svolgersi, come la prima sezione, uniformemente condotta nell’uso letterario del thou artificioso e nobilitante – e per ciò in contrasto espressivo quando la materia è trattata con ironia e ambiguità di livello basso (sonetti del ‘Will’, 135-136). Fanno eccezione i son. 127,130,138,144,145 (indiretti o con uso della terza persona singolare). Dopo la rivelazione del poeta di avere ‘due amori’ (son.144), esplode nei versi la passione carnale, argomento sempre escluso dalla pratica poetica. Dapprima a passo cauto, con ironia e gentilezza (vedasi il son. 127, e il son. 128, gentile quadretto in cui la ‘dark lady’ suona il virginale); poi gradualmente con violenza, sarcasmo, doppi sensi (osceni). Il poeta libera il suo linguaggio, quasi in una sceneggiatura teatrale. È in gioco la donna a formare il triangolo d’amore, un po’ amata, un po’ detestata, a causa di tresca con il ‘lovely boy’.
Shakespeare 3L’amore definitivamente non è più ‘cortese’. La fisicità prende il posto dell’astrazione platonica.
Nella medesima sequenza si inseriscono due intervalli di meditazione e ripiegamento, dibattiti fra Anima e Corpo (son. 129 “Th’expense of spirit in a waste of shame”, v.1; e 146 “Poor soul, the centre of my sinful earth”, v.1 ). Il mondo dei sensi e il mondo dello spirito sono messi a contrasto. Alcuni sonetti escono dal consueto. Il son. 99 “The forward violet thus did I chide”, v.1, stranamente composto di 15 versi, rientra in una formalità espressiva, comune fra i ‘sonneteers’, di esaurimento dei modelli d’imitazione petrarchesca. Interessante da considerare dal punto di vista metrico il son. 145 “Those lips that Love’s own hands did make”, v.1, lavorato in tetrapodia giambica, l’unico di tale metro in tutto il canzoniere. E il caso del son. 126 “O thou my lovely boy who in thy power”, v.1, in distici a rima baciata, mancante del distico finale (tuttavia ne conserva lo spazio bianco in parentesi), con il quale si è conclusa la sequenza del ‘lovely boy’.

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Sandra Evangelisti. «La schiava». Risposta a “Il ritorno del proconsole” di Zbigniew Herbert

 

Sandra Evangelisti è nata nel 1964 a Forlì, città in cui vive e lavora. Dopo gli studi classici, si è laureata in Giurisprudenza. Ha pubblicato cinque raccolte di poesie: Lascio al mio uomo, 2008, L’ora di mezzo, dicembre 2008, Intanto tutto procede, 2010, Diario minimo,2011 e Cuore contrappunto, 2012. È collaboratrice del portale di arte e letteratura internazionale “Lankelot”. Ha una pagina a lei dedicata sul sito “Italian Poetry”.

Sandra Evangelisti

La schiava

Non tornerò alla corte di Cesare, non ora.
Sono la concubina che succhiava miele e ambrosia
distesa, che preparava le carni e i capelli fluenti
al suo tocco. La schiava.
Qui in Provincia è tutto più spoglio.
Non ci sono obelischi e folle in tumulto

volto romano di donnanon ci sono leoni macchiati di sangue
o gazzelle offerte alla resa,
ma panni di lino grezzo e mani impastate di terra,
e il sudore di carne e di calli.
Il proconsole mi ha reso libera in terra succube.
Sono serva e lavoro per vivere.
Non so se lui tornerà da Cesare.
Forse si metteranno d’accordo, lo so.
Qui governo la casa, pulisco e cucino,
al mercato compero pesce e verdura
faccio il pane nel forno ogni giorno.
volto donna romana 1
Ma non posso tornare da Cesare: sarei preda.
Obbediente al folle gioco di un desiderio
perderei vita e rispetto.
Ho la pelle bruciata dal sole e i capelli intrecciati
e più ruvidi.
La mia anima vola nel sole.
E lo sguardo è alto nel cielo
sulle nubi e l’azzurro più fondo.

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Luigi Manzi – UN INIMITABILE ITINERARIO POETICO (1981 – 2014) con uno scritto di Gezim Hajdari e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

Presentazione di Gezim Hajdari

La voce alta e drammatica, quasi oracolare, che si esprime nei suoi versi sovrasta le rovine di un mondo arcaico e rurale, divenuto memoria di se stesso. Un mondo che sta scomparendo per lasciare posto all’inesorabile avanzata dell’alienazione

Helene_Paris_J.L. David.

urbana, specchio opaco di una globalizzazione disumanizzante. Il disagio e il male di vivere che vengono generati dal conflitto perenne fra queste due realtà e modi di essere segnano una profonda, terribile lacerazione del tempo vissuto; come pure la sensazione che la parola poetica sia incapace di rimarginare le ferite. Fuorivia, scritto in uno stato di elevata percezione, è in fondo un esilio dentro gli inferi dell’io centrale del poeta, laddove i conflitti risorgono in forme e figure inquietanti. Il libro è insieme testimonianza e presagio. Tanto da fare di Manzi l’unica voce, nel panorama della poesia contemporanea italiana, capace di rinnovare la tradizione visionaria.
Da sempre al di fuori delle gerarchie ufficiali, Manzi appartiene all’ultima generazione dei classici italiani che fanno grande la poesia di questo Paese, ormai costretto dagli spasmi di una grave crisi sociale e morale a ripensare i limiti e l’orizzonte della modernità.
(Gëzim Hajdari)

 

Dario Bellezza scriveva nella prefazione a La luna suburbana (1981) che “la tradizione in cui si ascrive Luigi Manzi è difficile da individuare; il visionarismo panico non non è mai stato proprio della poesia italiana, se si eccettua forse certo d’Annunzio e Campana; la tradizione ermetica, quella neorealistica fino al trionfo metalinguistico della neovanguardia hanno minato la possibilità del poeta italiano di procedere per illuminazioni invece che per ragionamenti e glosse illeggibili; così Manzi è in una via di mezzo: da una parte vorrebbe tener testa alla sua capacità di visione, dall’altra vorrebbe addormentarla in nome di uno sperimentalismo che è proprio della stagione piena di fermenti che va a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Può, Manzi, non scegliere per virtù di poeta ricco e sanguigno che le mode non possono guastare; pure non si può negare che, figlio del suo tempo, il poeta abbia subito il fascino non solo della poesia classica, ma anche dell’esistenzialismo ideologico di quegli anni”. Se c’è un poeta che che contraddice l’impostazione binomiale (sperimentalismo e linea lombarda) della poesia del tardo Novecento, è proprio Luigi Manzi. L’occasione per una rilettura della poesia di Manzi ci è fornita dalle due recenti antologie: Il muschio e la pietra – Guri dhe myshku (trad. in albanese di Gezim Hajdari, Nardò, Besa, 2004) e Rosa corrosa (2003), che includono una vasta selezione di testi che vanno da La luna suburbana 1967 – 1981 (1981), Cuore di lepre (1987), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), oltre un gruppo di poesie inedite.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Commento di Giorgio Linguaglossa

La prima riflessione che viene in mente è la straordinaria coerenza del percorso poetico del poeta romano, che ha attraversato e bucato la rivoluzione mediatica degli anni Sessanta in giù. Un lessico spoglio, inattuale, tutto concentrato e rastremato ed un fraseggio prosodicamente attrezzato sul pedale basso della desublimazione e podisticamente calibrato sul verso libero. Se confrontiamo l’incipit dei una delle poesie degli anni Sessanta (“Che si può dire in generale di questi uccelli veloci / che al fioco rumore della lanterna dei miei passi / volano via a grappoli dal cespuglio di fichi”), con una delle ultime poesie inedite, troviamo lo stesso lessico basso e spoglio, stringato, lo stesso timbro, il medesimo cromatismo delle immagini antimodernistiche (” Brilla il falcetto del cantoniere / che, alto sopra la parete, / si tiene a un mazzo / di capelvenere “). Poesia fatta a sbalzo, con lo scalpello su di un marmo poroso e grezzo, figuralità premoderna, di ciò che è scomparso ( il cantoniere, la lanterna, il pescatore ); gli “uccelli” sono spesso designati nella sostantivazione astratta, ipostasi metafisiche che rimandano e riecheggiano la poesia di matrice simbolistica, oppure sono merli, cucù, c’è il tordo; il tempo è sempre un tempo di confine, di transizione, di latenza, preferibilmente l’autunno; i paesaggi sono sempre tutti rigorosamente appartenenti alla figuralità della civiltà preindustriale. C’è qualcosa di scabroso ove balugina, qua e là, un dualismo antinomico personificato dalla “lepre” e dalla “volpe”, trapela una atmosfera di “violenza e lussuria”. Il repertorio tematico e iconografico del simbolismo viene sottoposto ad severo processo di revisone critica: la superficie compatta di questa poesia indica come la figuralità arcaica depone a favore di un messaggio poetico ostile alla ratio della comunicazione mediatica.

Stilisticamente convivono un classicismo post-liberty e post-decorativo che si riallacciano all’unico grande poeta metafisico del primo Novecento: Dino Campana. Nella poesia di Manzi i segni dello “sfacelo” sono sottintesi ed intesi oggettivamente quale repertorio figurale. Con le parole di Adorno: ” i segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale”. Poesia che si rivela disperatamente “moderna” nella misura in cui allontana da sé ogni repertorio della modernità, resistenza spasmodica condotta con tutti i mezzi e con tutta la combustione di cui questa poesia è capace avverso la forma di merce dell’arte e i simulacri della “bellezza”:

*

Me ne vado per le fiere
a cantare, bere, bere.
Quanti bimbi scarmigliati. Quanti uccelli nella luce.
Io ho invece la mia croce. Porto vino per le fiere.
Lo distillo dal furore.
Poi lo spillo,
bere, bere.
Com’è scuro, scuro, scuro.
Come schiocca nelle vene
nere, nere.
Vien dal succo del penare,
vien da piaghe di catene.
Cola cupo
nel boccale .

* da La nuova poesia modernista italiana, Giorgio Linguaglossa, Edilet, Roma, marzo 2010

*

 

L’eco

Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste
e s’arrovella.
Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei tuoi passi sul selciato
rimandati dall’andito.
Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.

da Fuorivia, Ensemble, Roma, aprile 2013

Luigi Manzi e Edoardo Sanguineti

Luigi Manzi e Edoardo Sanguineti

Se potessi vedervi

Se potessi vedervi, giorni a venire,
oppure scoprire i tornanti della vita,
conoscere le spine al riparo delle foglie;
forse ora, su questo balcone dirimpettaio
alla fanciulla che si snuda,
mentre si guarda allo specchio e pare una mela primina,
e s’accarezza la treccia
nel bagno d’oro della luce;
ah! se fossi certo della bruma, allora,
che mi pieghi a balestra
la passione che resta, e in una volta sola
scocchi la freccia d’amore, fino alla sua bocca
rimasta come una ferita maliziosa
fra le imposte socchiuse.

(da Capo d’Inverno, 1997)

Luigi Manzi beveA ritroso

Corre nella pianura
il cavaliere obliquo in sella
al morello ombroso.
Dov’è la luna? chiede
e mostra il volto vuoto.
Il giorno e la notte
sono l’uno nell’altra –
risponde la bimba che salta la corda
con la treccia in mano –
il tempo qui non esiste,
c’è solo eternità;
cammini a ritroso
nel tuo tempo che passa
e il destriero è il nulla
dell’immutabilità.
Io sono te stesso: amami
solo per il piacere,
senza felicità.

( da Mele rosse, 2006)

*

Fra tutte

Fra tutte le rose tu, rosa essenziale,
mia alba serena venuta alla foce, mia
luna traslucida impigliata al fogliame,
mia lama;
fra tutte le rose tu, rosa sovrana,
mia riva pescosa arabescata dal mare, mia
isola chiara levigata dal fiume,
mia cruna;
o mio tormento, mia malattia;
rosa dispersa per ogni piega, dentro ogni vena,
mia schiava minuta, mia assoluta regina;
tu, mia follia, mia gola assetata,
screziata forma
desiderata.

(da Aloe, 1993)

*

Sesterzio

Sesterzio

Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette
un gomitolo.

*

In seno

Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.

In seno a te riposo,
mio sobborgo disossato; mi ristoro
dai viali occlusi, dalle trombe altisonanti
sulle guglie.

In te riaffioro sgombro d’ogni assalto
o contumelia.

E quando ritorno qui, fra gli alti
spigoli di roccia,
provo il volo con la mente,
quasi fossi
di nuovo ritto
in cima al picco, felice quanto
un avvoltoio.

*

sesterzio_1

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

 

Presagio

Il geco, la vipera, il falco sul combusto
altopiano. Il tabacco giace arricciato
sopra i teli di canapa. Ti parlo, anche se tu non ascolti
mentre ti muovi in silenzio sui colli
abrasi, senz’uve.
– L’afa occlude la bocca,
come un sasso. Nella radura il traliccio girevole
dell’acquedotto
pende sulla vasca in frantumi – Ma già il ramo fulvo
che sporge dal petto dell’acero, è il presagio
del tempo futuro. Così io mi rivedo nell’arbusto costretto
nell’interstizio del muro: ultimo rifugio
dove l’arida radica
si nutre di tufo.

Jean Cocteau Il testamento di OrfeoNeppure

Neppure l’indizio breve d’un messaggio.
Nel perimetro deserto
tutti sono altrove. Nessuno ha lasciato
orma né traccia.
Eppure ciascuno è al suo posto,
dentro il proprio profilo. Possibile
che il bimbo
che trascina l’oca al guinzaglio sia scomparso persino
laddove è rimasto?

Afa

Tentenna il geranio. Nel bosco
la rana schiocca. Manca il respiro
nel deserto di zolfo.
Resto inerte – nell’afa –
a presidio del corpo. Non mi muovo.
Nell’incendio dell’aria,
la poiana ascende, colore di selce,
turbina nell’assalto.
Ha catturato se stessa,
e ora s’ingozza.

Ohlalà

Ohlalà, nella bocca rotonda
la bimba schiocca la lingua.
L’allampanato signore che suona il violino
si leva nell’andito buio: ha smesso
il brano della romanza.
Il marmoraro ha rifatto il filo al bulino. Il lattaio
ha ripreso il cammino.
La bimba,
fra le mani chiuse a conchiglia,
mostra un corvo.

Orfeo suona la lira

Orfeo suona la lira

L’ospite

Scrivi d’insonnie, di sonorità perdute.
Tu puoi ascoltare l’ortica e il caprifoglio
mentre crescono lungo i fossi; seguire di soppiatto
la lepre timida che salta nel cespuglio
o fissare la vipera prima dello scatto.
Eppure non ti è permesso entrare in città, se non
girovagare presso le mura;
essere l’ospite che mostra di sbieco
il suo lasciapassare.
Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi.
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.

Tornanti

Chiuse le imposte e salutato il firmamento, il custode
abbandona la soglia per risalire il sentiero
che in larghi tornanti
lo conduce alle serpi che dormono
nel cavo dei dirupi.
Lungo il viaggio notturno – puntigliosamente –
ha divelto gli aculei alle siepi,
accarezzato gli stecchi, fino a quando
è apparsa la capra fra le prime nebbie, a dargli cenno
con lo sguardo raggelato.
Intanto in cima alla roccia il cavallante osserva l’Orsa
nel cielo antelucano.
La sorveglia coi sospiri.

*

Torno dove un tempo ero già stato.

Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.

(da Fuorivia, 2013)

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JOZEF RADI POESIE SCELTE a cura di Gëzim Hajdari

magritte-golconda(Tratto dal saggio Gjëmë. Genocidi i poezisë shqipe/Epicedio albanese di Gëzim Hajdari. Shtëpia botuese Mësonjëtorja, Tirana 2010

Ho visto con i miei occhi il poeta Lazër Radi (1916-1998) messo alla berlina nel Campo di internamento di Savër, a Lushnje, nella mia città, dove si trovavano 11 dei 19 Campi di tutta l’Albania. È accaduto il 20 ottobre 1982, al Palazzo della Cultura, in presenza di 600 persone al seguito del Segretario di Partito Petraq Nushi. L’hanno insultato, gli hanno sputato addosso e tirato dei sassi. Ma lui, fermo come una statua, non ha mosso ciglio, sfidando le pietre con la sua parola. Tra le mani stringevo la mia pietra colma di rabbia. Si è alzato un collaboratore della dittatura, Rustem Bega, gridando: «Lazër Radi, vogliamo sapere perché continui a parlare male del comunismo? Che male ti ha fatto il potere del proletariato?» Fiero e coraggioso Lazër, uno dei più grandi intellettuali della nazione albanese, ha risposto ironicamente: «Mi ha condannato a 16 anni di carcere e a 30 di internamento nei Campi; questo per voi non è un male che mi ha fatto il potere del proletariato?!

Lazër Radi nasce a Prizren, in Kosovo. A causa delle violenze subite da parte dei serbi e dei montenegrini la sua famiglia abbandona il Kosovo nel ‘29 e parte in esilio in Albania. Termina la scuola media a Tirana e vive tra la capitale e la città di Shkodër. Insieme ai compagni partecipa alla fondazione della società culturale «Besa Shqiptare». Durante il liceo fa l’attore di teatro. In quegli anni in Albania nascono i primi gruppi d’ispirazione comunista e Lazër Radi entra in contatto con le nuove idee. Si distacca dagli ideali della rivoluzione bolscevica nel momento in cui i serbi e i montenegrini incominciano a commettere violenze nei confronti dei cittadini inermi del Kosovo.

magritte-1L’incontro con il celebre poeta Migjeni (1911-1937), nell’estate del ’36, lascia un segno profondo nella vita di Lazër. A quel periodo appartengono anche i suoi primi articoli sulla stampa dell’epoca. Nel ‘38 termina le scuole superiori a Shkodër e si iscrive a “La Sapienza” di Roma. Nella città eterna inizia per lui una nuova vita. Nell’aprile del ‘39 viene espulso temporaneamente dall’Italia a sèguito dell’invasione dell’Albania da parte di Mussolini. Si laurea comunque nel ‘42 in Giurisprudenza con il massimo dei voti. Il Prof. Vito Cesarini Sforza lo vuole come suo assistente all’università, ma il giovane kosovaro preferisce tornare in Albania per servire la causa del proprio popolo. Il rientro in patria segna il suo calvario e quello della sua famiglia.

Lazër, arrestato per la prima volta nel ’44, nel ’45 viene condannato a 30 anni di carcere, accusato di esser stato “un anticomunista reazionario al servizio degli italiani”. Viene liberato dopo aver scontato 10 anni di lavori forzati. Una volta libero viene mandato immediatamente in un Campo di internamento, dove rimane fino al 1974. Mentre si trova in prigione il Sigurimi (la polizia segreta del regime comunista) arresta e condanna a diversi anni di carcere anche la moglie Viktoria. Dopo averla torturata, il Sigurimi, per poterla condannare, l’accusa di essere un agente al servizio di Tito. Così il poeta e la sua famiglia trascorrono la loro vita lavorando nelle paludi dei villaggi Savër, Shtyllas e Radostinë. A Kuç, Çermë e di nuovo a Savër affrontano lavori faticosi nei campi melmosi e infestati dalla malaria. In quegli anni Lazër non potè rientrare a Tirana. Lo farà solo nel 1991. Continua a leggere

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SUL TEMA DI ZBIGNIEW HERBERT: IL RITORNO DEL PROCONSOLE. Zbigniew Herbert, Giorgio Linguaglossa, Francesco Tarantino

 

Zbigniew Herbert

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

(traduzione di Paolo Statuti)

 

Giorgio Linguaglossa

Un giorno o l’altro tornerò alla corte di Cesare

Un giorno o l’altro tornerò alla corte di Cesare.
Non posso stare qui in eterno in questa villa di campagna
all’ombra del sicomoro e al canto degli uccelli
nell’aria vetrosa del mio esilio
ad attendere un cenno che non verrà.
Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare.
Mi chiederà Cesare le ragioni della mia insolvenza?
Userà clemenza o pretenderà la mia resa
dinanzi al Senato? Userà il bastone o la carota?
Mi imporrà una resa senza condizioni?
O mi lascerà parlare, spiegare le mie ragioni?
Sia come sia, ho deciso, mi devo preparare,
in fin dei conti l’imperatore ha bisogno di soldati
e non va tanto per il sottile, bada al sodo
e al solidus. Mi riabiliterà?, o mi darà in pasto
alle murene della sua piscina? Non lo so
e non lo voglio neanche sapere ma ciò che so
è che non posso stare qui in eterno
all’ombra del sicomoro e al canto degli uccelli.

A un battito di mani accorrono le schiave.
«Portatemi la praetesta con la danda bianca,
i calzari di cuoio e la tunica lussuosa».

Adesso sono pronto. Ho già fatto testamento.
In ogni caso mi preparo al peggio.
Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare,
gli dirò che amo la vita di campagna
stare in compagnia di villici e di bifolchi,
in qualche modo mi giustificherò,
lui capirà, capirà che faccio ammenda
dei miei trascorsi, mi riabiliterà,
sorriderà di certo, non so se di scherno
o altro, vedremo…

 

francesco tarantino 0

Francesco Tarantino

Eppur mi tocca ritornare

Com’è dura recalcitrare!
Eppur mi tocca ritornare,
a quale corte non oso decidere
che sia Cesare o qualunque altro porco
non sarà la calma della provincia
né l’ondeggiar di foglie ai sicomori:
lascerò ogni dolcezza e sentimento
per inchinarmi ai cortigiani
di un potere malato e nepotista.
Non ho meriti e non li cerco,
le mani sono pronte ad applaudire
quel che resta di un discorso profano
interrotto allorquando
mi allontanai per viver tra la gente.
Porto un fardello che non mi appartiene,
intriso di catene e di memorie,
di passi ridondanti nella mente
serrati da cancelli senza scorie.
Sarà per domani o dopodomani
che abbandonerò le vigne, le case
e tutto quanto non ha più radici;
lascerò le nubi intorno al deserto
e non aspetterò che il cielo
venga a domandarmi con che coraggio
riporterò il mio piede e gli occhi
e il mio sdegno al capitano
delle guardie e degli incantatori.
– No, statene certi, non berrò con lui! –
No, non mi fido del suo vino
dolce, al miele ma pieno di veleno!
Ad occhi chiusi fingerò di bere
e affilerò i denti restando muto
fino all’ultimo colpo di martello
col plauso di Cesare e degli dei
tra i pretoriani e le baccanti.
In fondo sono un uomo come gli altri
e ne ho abbastanza di giocare a scacchi
stando attento a Druso o a Tacito,
a quelli di sinistra
che vanno in giardino e tornano,
dopo aver seppellito il corpo
e lavano nell’acqua le lor colpe.
Non son sicuro di voler tornare
ma tornerò alla corte di Cesare,
domani o anche dopodomani,
sperando che c’intenderemo.*
* Risposte ad una poesia di Zbigniev Herbert

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Wislawa Szymborska, UNA INTERVISTA (uscita su “El Pais”)

wislawa-szymborska_6 Su Babelia inserto culturale de “El Pais” è uscita il 5 dicembre scorso questa intervista di Javier Rodrìguez Marcos alla grande poetessa polacca Wislawa Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996. Traduzione di Linnio Accorroni.

Wislawa Szymborska è a casa sua, ma ci domanda ugualmente il permesso di fumare. “ Una volta-racconta- ho ricevuto una lettera molto lunga nella quale una donna mi implorava di smettere di fumare. Mi sarebbe piaciuto risponderle: sono stata a tanti funerali di gente che mai aveva fumato e che era molto più giovane di me… Mi limitai comunque a dirle che la ringraziavo per essersi tanto preoccupata per me”. La Szymborska è nata 86 anni fa in Kornik, vicino a Poznan, nella parte occidentale della Polonia. Adesso vive in un appartamento dimesso senza ascensore alla periferia di Cracovia, città dalla quale non si è più mossa da quando la sua famiglia vi emigrò quando lei aveva appena 8 anni, nel 1931.
Il tema della memoria, in effetti, è molto presente nel suo ultimo libro di poesia, “Qui” pubblicato in Polonia proprio questo anno. La sua pubblicazione in Spagna coincide con la prima traduzione delle sue prose intitolate “Letture facoltative”, una selezione di vivaci ‘recensioni’ pubblicate, durante gli anni, sui quotidiani in una apposita sezione. Lì, in un paio di pagine, la Szymborska commentava Jung e Montaigne, ma anche testi sul giardinaggio, sull’ornitologia e sulle decorazioni. Il risultato è incanto allo stato puro. Per esempio, a proposito del “Poema del Cid” scrive: “ Fu scritto da un Balzac medievale. La guerra è per lui, prima di tutto, una impresa finanziaria. Dato che la guerra è costosa, deve essere anche redditizia. La testa del cavaliere, anche se qualcuno la tagliava, era sempre piena di calcoli”. Recensendo un manuale di ideogrammi cinesi invece annota : “ C’è un segno, è naturale, per Sposa e un altro per Amante. Sposa è donna più scopa; Amante donna più flauto. Non so se esiste un segno per esprimere l’ideale che ci inculcano tutte le riviste femminili europee: una sintesi di scopa e di flauto.”

wislawa Szymborska_1Quando la Szymborska vinse il Premio Nobel nel 1996, c’era appena un piccolo gruppo di sue poesie tradotte dallo spagnolo e presenti in una antologia collettiva. Oggi la sua opera poetica è stata tradotta integralmente.
Sono le 11 della mattina e su un tavolo ci sono caffé, biscotti e cioccolatini. Lei aggiunge una bottiglia di cognac che apre per l’occasione. Prima di versarsene un bicchiere, lo serve agli altri: Abel Murcia,
traduttore dei suoi libri dallo spagnolo, direttore dell’Istituto Cervantes di Cracovia e interprete durante la chiacchierata, il fotografo, venuto da Varsavia ed il giornalista. Mentre prendiamo il primo caffé c’è anche Michal Rusinek, segretario della Szymborska e traduttore: “Sarà proprio lui Michal, con tutto quello che scrive e con quel vulcano di idee che ha in testa, ad aver bisogno tra poco di una segretaria. Forse potrebbe contattarmi” scherza la scrittrice. Lui risponde aggrottando le ciglia:“ Non so se mi conviene”.

cop wislawaRusinek è anche quello che combatte con le mille noie che tormentano la poetessa dal giorno del Nobel “ Se il Nobel mi ha cambiato la vita? Sì, tanto. Nel bene e nel male. Nel bene, perché è moltiplicato il numero delle lettere che mi inviano, dei pacchi con libri, degli inviti, delle proposte e delle domande alle quali debbo rispondere nelle interviste”. E, sorniona, aggiunge: “Nel male, perché è moltiplicato il numero delle lettere che mi inviano, dei pacchi con libri, degli inviti, delle proposte e delle domande alle quali debbo rispondere nelle interviste. Agli inviti a viaggiare negli altri paesi rispondo sempre nello stesso modo: quando sarò più giovane”.
Alcuni giorni prima dell’appuntamento, Wislawa Szymborska aveva richiesto l’elenco degli argomenti sui quali avremmo dovuto parlare a Cracovia. Una volta giunti lì, mi spiega perché: “Anche se poi finiremo per parlare di qualsiasi cosa, così almeno posso riflettere e dirle qualcosa di coerente e sensato. Non credo di essere particolarmente brillante. Ci sono domande per le quali non ho risposta.”. Non le piacciono le foto, così cerca di distrarre il fotografo il più possibile: “ Se fosse venuto trent’anni fa… Con questa macchina fotografica mi cancellerà tutte le rughe, vero? Non potrebbe ritoccarle un po’, come fanno con Sharon Stone?” Dopo pochi minuti torna all’attacco: “ Ma lei è così alto perché non fuma? Ha fatto il servizio militare? Si rilassi un attimo, la prego, posi la macchina fotografica e si prenda un altro cognac”.
Caffè, cognac, cioccolatini. Sembra un buon momento per parlare della morte. Sulla morte senza esagerare, come dice una delle sue poesie più celebri, scritta giustapponendo emozione ad ironia, una poesia priva di ogni retorica da manuale, che sorprese il mondo quando la sua opera venne portata alla luce dall’Accademia svedese. In “Qui”, la Szymborska dice che ci sono argomenti sopra i quali deve scrivere senza dilungarsi molto “ perché il tempo stringe”.

Nello scrivere questo libro pensava alla morte?

Per me la vita è un’avventura con la data di scadenza. Quando andavo a scuola morì una maestra ed ebbi coscienza della morte come qualcosa di naturale. Ad 86 anni la penso allo stesso modo di quando ne avevo 8 .

E questo influisce sulla sua scrittura?

Io non scrivo sulla morte. È un argomento molto semplice da trattare scrivendo poesie. E non è vero che essa abbia un potere illimitato. Non ottiene tutto quello che vuole e quando lo vuole. È anche vero peraltro che ci sono poesie interessantissime sulla morte, ma in generale è facile scriverle perchè stuzzica sentimenti ed emozioni facili, la tenerezza e tutto il resto.

E anche l’amore è un argomento altrettanto banale?

Ah, questo ormai non è più tanto facile. E più difficile ancora è l’erotismo, che in realtà è stato toccato raramente nella poesia. Non ho mai letto una poesia che sia capace di spiegare ciò che succede fra due persone. Parlo di erotismo puro, non dell’amore come sentimento che è più facile da esprimere.

Wislawa Zsymborska in pubblicoC’è più letteratura negli amori difficili.

A volte, ma ho avuto anche la grande fortuna di vivere alcuni amori ed i miei ricordi sono molto felici. Però non parliamo di me, perché tutto sta già nelle poesie.

Ci sono parola che evita, soprattutto quando scrive?

Quelle arcaiche e quelle magniloquenti. Ma ci sono anche parole che utilizzo raramente e con tanti dubbi. Quando cerco di definire qualcosa come ‘bello’, per esempio. La bellezza è un’idea relativa che dipende dalla tradizione e dalle consuetudini e, soprattutto, dai gusti personali che il lettore può anche non condividere. Per me le cattedrali romaniche sono più belle delle gotiche, le ceramiche più belle delle porcellane più raffinate e la bambola di pezza con la quale nella mia infanzia potevo parlare di qualsiasi cosa è mille volte più bella dell’orribile Barbie. Perché, a ben pensarci, di che cosa si può parlare con una Barbie? Nel migliore dei casi, di vestiti e di smalto per le unghie.

Le sue poesie parlano di grandi questioni, però sembrano fuggire dalle astrazioni.

Ogni buona poesia si trasforma sempre in qualcosa di astratto. Però ha sempre a che fare con la realtà, con la vita del poeta o degli altri. Le cose belle hanno ugualmente qualcosa di metafisico. Ma non la vedo molto convinto.

Mi riferivo a quando nella poesia ‘Metafisica’ lei parla di pasta con pancetta.

Il fatto è che tutto finisce per essere metafisico. Ma più che per le grandi questioni, la poesia si salva grazie ai piccoli dettagli. Ci sono vecchie poesie che sono sopravvissute solo grazie ad un misero dettaglio. Però ho paura di generalizzare …a proposito di dettagli ( ride)

Si serve dell’humour per poter scrivere senza paura su questioni assai serie?

È il mio modo di essere. Da bambina ho avuto sempre la tendenza a mettere sottosopra le storie per scoprirne la parte comica. Ci sono però cose che non mi suscitano interesse, né me lo hanno mai suscitato, né me lo susciteranno: l’odio, la violenza, la stupidità aggressiva.

Da bambina leggeva poesie?

No. A casa mia, c’erano solo dei libri di poesie del secolo XIX. E nessuno le leggeva. Volevo sempre scrivere romanzi lunghi. Un tempo credevo che se qualcuno aspirava a diventare scrittore doveva essere autore di romanzi di svariati tomi e di centinaia di pagine. Un giorno ho scritto una poesia, orribile, e la passai a persone che lavoravano con me nel giornale. Mi domandarono: ma tu che leggi? Era evidente che non conoscevo la poesia contemporanea. Avevo letto molta narrativa, Thomas Mann, Proust, Dostoewskij, ma sulla poesia nessuna idea. Mi dovevo senz’altro formare.

Ha appreso qualcosa scrivendo le sue “Letture facoltative”?

Le mie “Letture facoltative” non sono in realtà delle prose serie. Sono qualcosa che assomiglia a degli articoli, a volte seri, a volte divertenti, in alcune casi anche simili alla mia poesia. Sebbene, come le ho detto, ho incominciato scrivendo storie. Però questo è stato proprio dopo la guerra.

wislawa szymborska_4Come ricorda la guerra?

La cosa migliore è stata il fatto che sono sopravvissuta. Ricordo la fame, il freddo. Dovevo lavorare costruendo fossati nella strada. Mio padre fu perspicace: molta gente fuggì da Cracovia e se ne andò a Lvov, nell’attuale Ucraina, entrando a far parte della zona occupata dai sovietici. Sopravvissi, certo. Però ci fu anche gente che morì. Mio cugino morì nell’insurrezione di Varsavia.

Che funzione ha la poesia davanti alla crudeltà del mondo?

Il mondo è crudele, però merita anche altri aggettivi qualificativi più pietosi. Se fosse solamente crudele, la gente da molto tempo non esisterebbe più. Qui e là ci saranno macerie, cresceranno piante. Piante anonime, perché non ci sarà nessuno che darà loro un nome.

wislawa-szymborska-1923-2012Che cosa pensa della frase di Adorno secondo la quale non si può scrivere poesia dopo Auschwitz? Suppongo che per una scrittrice polacca che vive a 70 chilometri da questo campo di concentramento la frase abbia un significato speciale.

Adorno non aveva ragione e questo lo potrei confermare io stessa perché visse più di venti anni dopo la fine della guerra. In questo lasso di tempo ci furono poeti non trascurabili che scrissero poesie non trascurabili. Se quelle opere fossero state prive di senso, a che cosa sarebbero servite?

Può un poeta scrivere a proposito della storia?

Sebbene il suo desiderio di non occuparsi di storia sia molto grande, è impossibile evitarla. Ci sono poeti per i quali la storia è una fonte diretta di ispirazione. Per me da questo punto di vista, i migliori sono Kavafis e Zbigniew Herbert. Ma anche la poesia che manca di qualsiasi riferimento storica appartiene sempre alla storia, dato che utilizza un linguaggio che ricava la sua forma esatta sia dallo spazio che dal tempo in cui nasce. La poesia al di là di ogni connotazione temporale è una illusione idiota.

La politica sta massacrando il linguaggio?

Lo ha fatto sempre. Il linguaggio dei politici serve solitamente per nascondere e non per esprimere pensieri. Però non vale la pena tentare di convincere alcuni politici ad essere sinceri: può darsi che non abbiano niente da nascondere.

Ricorda il giorno in cui è caduto il muro di Berlino?

Ero a Cracovia e fu un momento meraviglioso. Quelli furono tempi indimenticabili. La gente di Solidarnosc era straordinaria. Poco dopo, però, tutto cambiò e cominciarono fatti sgradevoli, ma allora erano giovani e belli. Eravamo tutti euforici.…Bene, ma adesso le domande le faccio io? È sposato? Ha figli? Di che parte della Spagna è ?

È vero che ha studiato spagnolo?

Certo. Ero in classe con un insegnante che mi dava l’impressione di imparare a memoria quello che ci spiegava perché non ne sapeva poi molto. Appena cominciai a capire qualcosa, mi misi a leggere Cervantes con l’aiuto del dizionario. Ormai ricordo solo alcune frasi: hasta la vista. Mi sembra comunque una lingua molto bella. Un latino splendidamente corrotto.

Wislawa Szymborska wislawa_szymborskaAdesso cosa legge?

Ho letto sempre poca poesia. Non sono mai stata capace di leggere un libro di poesia da cima a fondo. E parlo di quelli buoni. Ciò che faccio è leggere una poesia e poi lasciarlo. Poi riprendo in mano il libro e così via. Come può immaginare, a volte divento insopportabile per le persone che mi hanno mandato i propri libri perché ci posso mettere anche un anno prima di comunicargli la mia opinione, ma questa è la mia maniera di leggere.

E cosa scrive?

Poiché non ho molto talento, ho bisogno di un silenzio di vari giorni: senza chiamate, senza visite. Conosco pittori che possono lavorare mentre fanno conversazione. In poesia questo è assolutamente impossibile. Pensavo che dopo aver preso il Nobel, queste abitudini si potessero modificare, ma invece non è stato così.

E i suoi collages?

Mi sono inventata queste cartoline illustrate proprio perché tutti potessero ricevere qualcosa di personale senza che io dovessi scrivere. Abbiamo terminato?

Credo proprio di sì.
Però non se ne vada senza aver finito di bere. Certamente, non mi ha domandato niente a proposito di femminismo. Invece mi chiedono sempre se sono femminista o no.

Lei è femminista?

Non voglio aver nessuna etichetta, ma in Polonia le femministe hanno moltissime ragioni e molte cose per le quali lottare: per i soldi, per i diritti che debbono avere sul proprio corpo, perché ci sono rigurgiti reazionari nella Chiesa…Sogno il momento in cui le femministe non saranno più necessarie.

È cambiata la Polonia con l’ingresso nell’Unione europea?

È passato così poco tempo che è troppo presto per dirlo. Ci sono problemi, è chiaro, perché esistono anche nei paesi più sviluppati del nostro. Qui abbiamo problemi con la Chiesa che non tiene il passo con lo sviluppo della scienza e della democrazia nella società. Ero felice il giorno in cui la Polonia è entrata nell’Unione europea. Ero sola in casa e non c’era nessuno con cui brindare al futuro. Per questo mi preparai un bicchiere di cognac e passai davanti a tutte le fotografie delle persone amate che ho in casa e che non sono giunte a vedere questo giorno.

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Francesca Diano – Congedi. Viatico in undici stazioni

Francesca Diano è nata a Roma ma vive a Padova. Laureata in Storia dell’Arte, ha vissuto vari anni a Londra e a Cork, in Irlanda, dove ha insegnato all’università. Traduttrice letteraria e consulente editoriale di narrativa, saggistica e poesia dai primi anni Ottanta, sia dall’inglese che dal tedesco, per Cappelli, Fratelli Fabbri, Neri Pozza, Guanda, Crocetti, ha tradotto molti grandi scrittori e poeti americani, irlandesi, angloindiani, alcuni dei quali ha fatto conoscere per la prima volta in Italia. In particolare, nel 1998 ha curato per Neri Pozza, l’edizione italiana delle Fairy Legends (1825) di Thomas Crofton Croker, il pioniere del folklore irlandese, di cui si occupa da molti anni ed è la traduttrice italiana delle opere della scrittrice indiana Anita Nair. 
Come scrittrice, nel 2012 ha vinto il 42° Premio Teramo per un racconto inedito. L’unico premio cui abbia mai partecipato. Ha pubblicato la raccolta di racconti Fiabe d’amor crudele,  (Padova, Edizioni La Gru, 2013) e un suo racconto è incluso nella raccolta Io sono il Nordest, (Adria, 2016). Nel 2016 ha pubblicato il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese (Carteggi Letterari Le Edizioni)

cop francesca diano1.

Congedi. Viatico in undici stazioni

VII
LA LEGGE

Tra il borgo e il bosco, solamente una striscia
Di terra spoglia, e di erba giallastra.
In questa terra erano venuti
I nostri padri traversando il mare
Su vascelli di legno e le case del borgo
Son fatte del fasciame delle navi
A ricordare che un mare ci separa
Dal passato – che in una terra nuova
Il nostro cuore sarebbe salpato
Solcando nuove rotte – nuove vite.
Ma non intero il cuore e l’anima divisa
Tra passato e futuro. Tra borgo e selva
Inesplorata – dove potente sussurra
Un richiamo che io sola intendevo.
Ed eccovi schierati – come tanti birilli
Come un muro di cinta da cui tenermi fuori.
Autorevoli, onesti cittadini
Le vesti nere, il cappello e le scarpe
Con le fibbie d’argento bene ornato.
Tutti in fila – con lo sguardo severo
Ed io la peccatrice – giudicata da voi.
Le vesti lacere – i capelli selvaggi.
Ma era per la fame. Avevo fame
E nulla da mangiare.
francesca dianoTu mi guardavi, dall’alto del tuo rango
Di borgomastro ed io, la tua serva
Giovane e bella – mi dicevi allora.
Ma la bellezza non mi dava cibo.
Anche tu avevi fame. Un’altra fame.
Segreta, inconfessabile, ossessiva
Che attirava i tuoi sguardi
Su di me. Ma tua moglie,
La signora, padrona della casa,
Degnamente il tuo rango rispecchiava
Nella sua veste nera e con la cuffia bianca
Ornata di merletti, i gioielli preziosi.
Ma lei non ti sfamava.
Il corpo inaridito dalla dura virtù
Di donna onesta. Lo sguardo austero
E le labbra tirate – una fessura amara.
Come potevi sperare che il segreto
Non ti esplodesse in mano
Devastando quell’ordine e la legge
Dietro cui nascondevi i tuoi terrori
Le tue incertezze di senzapatria?
Avevo fame e il mio sguardo di selvaggia
Che ti accendeva dentro
No, non era per te – ma per il pane
Che poi mi avresti dato.
Io provavo ribrezzo del tuo corpo
Delle tue mani bianche – senza segni.
Non avevi vergogna di accoppiarti
Quando la tua di fame t’accecava.
Mai vidi compassione nei tuoi occhi
Ma avida follia. E quando un giorno
Il tuo peccato gridò la sua presenza
Perché non c’era legge che valesse
A tacere il crescendo della fame
Che ti mordeva l’anima
Io sola fui accusata. Io t’avevo stregato –
Dicesti. T’avevo preso l’anima
Con malefici e inganni – e mi scacciaste.
Votata a morte certa in quella selva
Vasta come l’oceano. Ma non avevo nave
Su cui salpare. O un porto.
Tu – il borgomastro – tu eri la legge.
Tutti mi giudicaste. Per non vedere
La trave che accecava i vostri occhi.
Con il dito puntato mi scacciaste.
Tu – nel vedermi andare –
Piegata in due per la disperazione
Provasti del sollievo.
Se ne andava a morire
Con me la tua vergogna.
Io la selva – voi il borgo
Io la strega e voi tutti la legge.

cop francesca diano3.

VIII
IL NULLA

La gola trema delle parole che s’avvitano
Come convolvoli alla tua fronte lunata.
Con te – dico – con te oltre le vette.
Niente più conta. Di tutto il resto
– e ti porsi la mano.
E quando uscii dalla mia casa che guarda il mare
Tacendo la tempesta del segreto – il cuore un lago inquieto –
Era per sempre. Non sarei mai tornata.
– Sali sulla mia nave – questo dici
Con un sorriso irrequieto a cui fui cieca.
Ed io salii. Per volare oltre me stessa
Per adattare il mondo alla tua sorte
Che diviene la mia contro la morte.
La morte t’è sbocciata tra le mani
Pervasa dal languore dell’assenzio
Che fu l’assenza dell’una parola mai détta.
Dètta dentro il tuo spazio limitato
Da cortei virginali di promesse
La legge degli opposti – la sinergia
Di feroci dolcezze che lambiscono il corpo
Con lingua di predone. Come radici malate
Fitte nelle midolla.
Umidore e rossore – rivoli come serpi
Sanguigne sulla pelle a fiotti da voragini
Slabbrate urlanti erompono in sorgenti.
Via se ne fugge la vita verso cui son fuggita
Resta sulle tue mani ormai svuotate
L’odore del mio sangue.

IX
LA PROFEZIA

Non mi voleste credere
Quando con il rigore della logica
Vi annunciavo il pericolo
La fine che incombeva su noi tutti.
Non ero un sacerdote né un veggente
Ma la mia mente seguiva i meandri
Della realtà che cela il suo disegno
Finale in ingannevoli apparenze.
La gente ch’era giunta da oltremare
Era contaminata. La purezza
Del cuore non era in loro e germinava
Soltanto il seme della distruzione.
Non mi voleste credere
Quando – leggendo i segni delle azioni –
Vi indicavo la falsità – l’opportunismo
Degli stranieri dalle lunghe barbe.
Sapevo calcolare riflettere e dedurre
Pur nel terrore di quello che vedevo
Quel che svelavano le relazioni
Dei messaggeri inviati alla scoperta.
Vi supplicavo invano di ascoltarmi

Di capire con me che il salvatore
Annunciato da tempi immemorabili
Che quel Santo che il mare avrebbe reso
Non era giunto. Non era lì tra loro
Il Dio Serpente – lì tra quella gente
Che si fingeva amica e ci avrebbe annientati.
Erano umani – come tutti noi
Ma avidi e bugiardi. Abili nella guerra
E nell’inganno. Voi non voleste credermi.
Avrebbero travolto e devastato
Distrutto e cancellato millenni di sapere.
E fui un vigliacco. Non seppi sostenere
L’orrore preannunciato – la morte d’ogni cosa.
Non la seppi affrontare con voi la fine.
Ero un aristocratico e il mio mondo
Era fatto di studio e di bellezza.
Ma la mia logica – la mia conoscenza
Non furono sorgenti di coraggio.
Quando salii sulla scogliera alta
Guardai le rocce aguzze e il mare ribollente.
Nel mio ultimo volo – a braccia aperte
Come un uccello dalle ali d’oro
Scorsi la libertà dalla paura.
Non percepii la fine. Non la morte.
Solo il mio corpo – disteso sulle rocce
Vidi dall’alto. Libero
Libero ormai – compresi.
Il mio posto era lì – con la mia gente.
Tolsi a me stesso e a voi la mia presenza.
Non mi voleste credere
Perché a me stesso io pure non credetti.

*

Una parte consistente dei miei interessi si concentra sullo studio del folklore  e della tradizione orale irlandese, iniziati alla fine degli anni 70 grazie alle Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland, di Thomas Crofton Croker (Londra, 1825) il primo testo di leggende orali mai pubblicato sulle isole britanniche, tradotto in tedesco dai Fratelli Grimm,  famosissimo in tutto il mondo ma da noi sconosciuto, di cui possiedo copia della prima edizione originale. Una prima edizione a mia cura fu pubblicata da Corbo&Fiore nel 1994 e nel 1997 da Neri Pozza con enorme successo col titolo Leggende di Fate e tradizioni irlandesi, pubblicazione che ha avuto molte ristampe e molte edizioni. Nel 1998, durante il mio soggiorno in Irlanda, ne ho curato anche l’edizione anastatica per l’editore Collins per celebrare il bicentenario della nascita di Croker e in quell’occasione l’Irish  Times pubblicò in seconda pagina una mia intervista. Il volume in italiano è stato poi presentato all’Ambasciata d’Irlanda a Roma su invito personale dell’Ambasciatore.Ho organizzato mostre, convegni, eventi culturali e concerti , tra cui l’allestimento dell’Harlekin di K.H. Stockhausen con maschere di Donato Sartori all’auditorium del Conservatorio di Padova per mimo e clarinetto e un evento sulla letteratura indiana per “Terrazza sull’India” al Festival dei Due Mondi di Spoleto, in cui sono stata anche relatrice.Ho pubblicato saggi e articoli su libri,  riviste e quotidiani, ho svolto e svolgo un’intensa attività di conferenziera. Collaboro col blog Scrittori in Causa (Sui diritti degli scrittori e delle scrittrici)  e col  blog Moltinpoesia.Dai primi anni 80 sono traduttrice letteraria di narrativa, saggistica e poesia. Tra i miei autori, Thomas Crofton Croker, Kushwant Singh, Themina Durrani, Pico Iyer, Susan Vreeland, Sudhir Kakar e molti altri e sono la traduttrice italiana di Anita Nair. Ho tradotto testi di poetesse angloindiane e di poeti irlandesi. Nel 2010 ho pubblicato il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese. Miei testi sono stati pubblicati su vari blog letterari tra cui  MOLTINPOESIA  CARTESENSIBILI e FERNIROSSO

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Umberto Eco IL REALISMO MINIMO. IL DIBATTITO SULLA FINE DEL POSTMODERNO: NON TUTTO È INTERPRETAZIONE

da: La Repubblica  11 marzo 2012

Il testo di Umberto Eco che qui riproduciamo integralmente è stato scritto in occasione di un convegno a New York che si è tenuto a novembre 2011 sul tema “postmoderno e neorealismo” organizzato da Maurizio Ferraris a cui hanno partecipato filosofi e studiosi internazionali con posizioni diverse sul tema. Il testo è ora pubblicato sul numero di marzo di Alfabeta2 che da molti mesi ospita interventi su questo tema. Il testo di Eco spiega la posizione del “realismo negativo” che si può riassumere nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata.

Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985.

So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d’Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità.

umberto eco4In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell’uno o dell’altro polo di questa dialettica, dall’idealismo magico al relativismo (benché quest’ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei ad espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, l’eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall’Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero.

Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo.

Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell’ambito delle teorie dell’architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale).

umberto eco5L’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto Continua a leggere

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I Quattro Periodi della Poesia Tang. LU LUN, CH’UAN TE-YU, LIU TSUNG-YUAN, LI SHANG-YIN, CH’EN T’AO, CHANG HANG CHIU-LING, TS’UI T’U

La dinastia Tang fu molto importante nella storia cinese, spiccando per la  prosperità dell’ economia e la stabilità sociale, mentre anche la cultura e l’arte registrarono splendidi successi. In particolare la poesia classica visse il suo periodo di massima fioritura. In epoca Tang la composizione poetica diventò uno dei contenuti principali delle attività culturali e sociali, mentre per quanto riguarda il sistema degli esami imperiali per la selezione dei funzionari, si passò dalla compilazione di tesi a quella di poesie. Il classico letterario “Tutte le poesie Tang” contiene circa 50.000 poesie scritte da oltre 2300 poeti.Lo sviluppo della poesia Tang si può suddividere in quattro fasi, ossia il primo periodo, il periodo di massimo splendore, ed i periodi medio e tardo.

 
cinese DipintoDiCapodanno1 Nel primo periodo (618-712), i cosiddetti “quattro geni” Wang Bo, Yang Jiong, Lu Zhaoling e Luo Binwang conclusero il processo della resa in rima delle poesie, ponendo le basi della forma poetica “lushi” e originando l’aspetto tipico della poesia Tang. Grazie ai loro sforzi, il tema delle poesie lasciò lo sfarzo dei palazzi imperiali per la vita ordinaria della gente comune, mentre lo stile passò dalla delicatezza e debolezza alla velocità e freschezza. Il miglior poeta del tempo Chen Zi’ang propose la ripresa della tradizione della poesia riflesso della vita concreta. Le sue poesie, forti e semplici, aprirono la strada allo sviluppo della poesia Tang.
 
Gli anni dal 712 al 762, il secondo periodo, sono chiamati periodo di massimo splendore, in cui la poesia Tang vide la massima fioritura, con una gran ricchezza di contenuti e stili e canti alla natura, alle zone di frontiera, all’eroismo ed anche sospiri di delusione. Molti poeti furono ispirati dall’atmosfera romantica del tempo, creando il quadro di splendore che scosse a fondo le successive generazioni.
I poeti più famosi dell’epoca furono Li Bai, Du Fu, Wang Wei, Meng Haoran, Gao Shi, Cen Shen e così via. Cen Shen eccelleva nelle poesie sulle frontiere, mentre Gao Shi rifletteva le sofferenze del popolo. Tuttavia i veri rappresentanti sono “l’immortale della poesia” Li Bai e il “saggio della poesia” Du Fu, le cui opere influenzarono profondamente la creazione poetica posteriore.
 
cinese drago coloratoI poeti più riusciti del medio periodo Tang (762-827) furono Bai Juyi, Li He, Yuan Chen e così via. Bai Juyi eccelleva nella poesia satirica, ironizzando sulle pesanti tasse e corvee, opponendosi alle guerre, attaccando i nobili e sforzandosi anche di rendere più popolare e scorrevole il linguaggio poetico, da cui l’ampio apprezzamento dei lettori.
Il poeta Li He visse una vita breve, arrivando solo a poco più di vent’ anni.  Povero e provato sulla strada politica, la sua poesia si presenta però fantasiosa, originale, splendida nel linguaggio, romantica, malinconica e con marcate tendenze estetiche.
 
1-li-poNel tardo periodo Tang, tra l’ 827 e l’ 859, brillarono per grandezza Li Shangyin e Du Mu. Le poesie di Du Mu integrano freschezza e gravità, il che è molto adatto all’espressione delle sue aspirazioni e passioni politiche. Li Shangyin, invece, con una struttura delicata, un linguaggio superbo e uno stile malinconico, esprime le sue frustrazioni sulla strada politica, con un fondo di profonda tristezza. I critici poetici stanno ancora discutendo se le sue famose poesie “Senza titolo” siano opere d’amore o nascondano contenuti politici.
 
 
da I Millenni Einaudi, Torino, 1961 a cura di Martin Benedikter.

adesso in Mondadori, Milano, 1972 (edizione su licenza di Giulio Einaudi Editore, © 1961).

Si tratta di un’antologia “popolare”, della poesia T’ang (età d’oro della lirica cinese, dinastia lunga tre secoli, dal 618 al 907) raccolta nella metà del XVII secolo – la raccolta completa è di 900 volumi – da un certo Heng T’ang t’ui shih, L’Eremita dello Stagno di Loto.

Wang Wei, Li Po, Po Chu-i, Tu Fu, i più grandi poeti della poesia T’ang

cinese dona con ventaglio.

LU  LUN

Canti di frontiera

.
S’è oscurata la luna, le oche selvatiche volano in alto,
il capo degli Unni nella notte cerca la fuga,
e noi l’inseguiamo presto, leggeri d’armi sopra i cavalli.
Alta è la neve. Riempie gli archi, le spade.

CH’UAN TE-YU

Alla maniera della torre di giada


Ieri notte la cintura della veste s’è scivolata da sola,

stamane un rosso ragnetto ho visto volare,
a cipria e belletto non riesco a resistere…
non è che il mio “randello” sta per tornare?

cinese paesaggio.

LIU  TSUNG-YUAN

Neve sul fiume

Su mille cime si dilegua degli uccelli il volo.
Su diecimila vie degli uomini muore la traccia.
In solitaria barca, un vecchio, manto di giunco e tesa di bambù,
solo, pesca nel fiume neve e gelo.

cinese L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai.

LI  SHANG-YIN

Salendo l’altipiano di Lo-yu

.
Quando viene la sera il mio cuore si turba.
Spingo i cavalli del carro sul vecchio altipiano.
Senza fine è bello l’ultimo sole.
Ma sono vicine, le tenebre brune.

 

CH’EN T’AO

Disappunto di primavera

.
Ho battuto le mani, ho scacciato il rigogolo.
Non voglio che canti sul ramo!
Cantando ha spaurito il mio sogno.
Non m’è riuscito di giungere sino a Liao-hsi.

Caballo-china-Sig11186.

CHANG HANG CHIU-LING  

Guardo la luna e penso all’amico lontano

.
Sale dal mare la chiara luna,
sopra gli orizzonti ci unisce nell’ora.
Ma il sentimento nostro non ama il vuoto della notte,
la lunga sera ravviva la nostalgia, il ricordo.

A lume spento amo la piena del chiarore,
addosso sento la veste molle di rugiada.
Nulla posso donarti a piene mani:
torno nella stanza, sogno le ore felici.


Caballo-China-Sig57716.

TS’UI T’U  

l’oca selvatica solitaria

File e file ritornano, si perdono oltre confine.
Ma tu dove vai, tutta sola?
Nella pioggia di sera chiami le altre, perdute,
sulla diga deserta incerta discendi.

Sull’isola avvolta di nebbia passi nel fondo del buio,
la luna di frontiera fredda t’insegue.
Non è che devi incontrare l’arco disteso,
volare da sola al tuo pericolo non basta.

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Antologia L’amore ai tempi della collera a cura di Roberto Raieli letto da Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Antologia L’amore ai tempi della collera a cura di Roberto Raieli Lietocolle, pp. 239 € 15

Ha scritto Salvatore Martino in un recentissimo commento nel blog lombradelleparole.wordpress.com a proposito di una Antologia della poesia contemporanea proposta dal blog : “Dai libri che ricevo molto spesso, dalle infinite presentazioni, dal fiume che naviga su internet sono arrivato alla conclusione quasi imbarazzante e forse pericolosa che il discorso poetico sia diventato un prodotto di massa. Chissà! In un tempo quasi per me archeologico pensavo che la poesia fosse una rara avis, un gioiello posseduto da una elite, tanto difficile, impervio, angoscioso mi pareva il percorso per arrivare ad un risultato di livello frutto del talento innato e della techné, della lettura, dello studio, della bottega dove frequentare uno o più maestri. Arrivato ad una età dove chiamarsi vecchio è obbligatorio mi avverto spiazzato, incapace di comprendere questa nuova realtà. Una cosa so di certo: rarissimamente leggo poesie fatte di immagini, in qualche modo emozionanti, di musica e di pensiero. Molta approssimazione e il più delle volte un andare a capo fatto solo per dissimulare una scadente prosa. Ma allora perché questo prodotto fluviale di massa non diventa anche una fruizione di massa”.

OLYMPUS DIGITAL CAMERASempre sul blog,  ho replicato: “Rispetto la posizione di Salvatore Martino, che coglie alcuni aspetti emblematici come quello dell’a capo… ma non mi sento di condividerla… oggi la poesia contemporanea sembra aver smarrito qualsiasi regola certa dell’a capo, è vero, ma questo, secondo me, invece di essere un difetto, rischia di diventare un elemento positivo; voglio dire che la poesia contemporanea sembra essersi liberata di questo problema, voglio dire che il problema sembra essersi dissolto come neve al sole… Per la verità anche ai tempi di Leopardi e nel Settecento in piena arcadia si contavano migliaia e decine di migliaia di poetanti, e così anche ai tempi di Catullo, certo oggi il fenomeno si è diffuso, è diventato un fenomeno di massa, ma non può certo dirsi che poeti di lunghissima esperienza e cultura come Renato Minore o Laura Canciani (tanto per fare due nomi a caso) non sappiano come e quando andare a capo… il fatto è che presso altri più giovani autori è mutato il concetto di poesia, Ivan Pozzoni dichiara di fare anti-poesia, di voler mettere della dinamite nella poesia, quindi rimproverargli di non avere una regola aurea per la sua versificazione è un rimprovero che non centra il bersaglio, perché quel bersaglio Pozzoni non lo vuole proprio colpire, lui cerca un altro bersaglio: quello della poesia che fa finta di dire qualcosa, che si affida alle aure, alle atmosfere sentimentali, alle dorature, alle stuccature pseudo sperimentali di tanta altra poesia. E poi, se si legge con attenzione e senza pregiudizi, mi sembra che gli autori di questa puntata dell’Antologia abbiano delle qualità.
Contrariamente al mio pessimismo degli ultimi anni, forse mai come oggi la poesia contemporanea è viva, vitale, effervescente… forse manca il Leopardi, ma, in fin dei conti, chi lo può dire con matematica certezza?”. Continua a leggere

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Fabrizio Dall’Aglio AUTOANTOLOGIA – POESIE (1975-2006)

Fabrizio dall'aglio (1) Fabrizio Dall’Aglio è nato nel 1955 a Reggio Emilia. Vive tra Reggio Emilia e Firenze, impegnato in attività di carattere editoriale e librario. Ha pubblicato: Quaderno per Caterina. Poesie e brevi prose 1975-1980 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1984); Versi del fronte immaginario, 1982-1983 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1987); Hic et nunc. Poesie 1985-1998 (Firenze, Passigli, 1999); La strage e altre poesie. Resti di cronaca, 1975-1982 (Valverde, Il Girasole, 2004); L’altra luna. Poesie 2000-2006 (Firenze, Passigli, 2006).

fabrizio dall'aglio cop.

da LA STRAGE E ALTRE POESIE (1975-1982)
(Valverde, Il Girasole, 2004)

Millenovecentoquarantacinque

Ieri. La città addormentata
si è scossa. Un uomo
ha parlato di fede
e una macchia rossa
si è allargata sul petto.
«Ho saputo dimenticare,
soldato, ti ho scordato»,
ha detto la sua donna.

Fabrizio dall'aglio BBOggi, all’appello dei vinti
mancano in tanti.
Giovani e anziani, eroi,
cani, santi
senza stinchi.
Gli altri si sono già visti
e contati.
Tristi, come canzoni stonate.
Biechi, anche un po’ storti.
Son morti nati,
prestati al caso,
non hanno nome.
Continuano
a dirigere le sorti,
a risparmiare,
a reggere il moccolo di Dio
fino alla méta.

Coraggio, amici
che prima di annegare
ci si disseta.

*

Epilogo

Bambini, guitti quasi, tutti e tre
con un rotondo cappellino calcato sulla fronte,
due dalle braccia spalancate all’aria
e reggono un bastone,
il terzo tutto intento ad accoccolarsi,
guitti quasi,
cavalcando uno steccato.

Donne, molte donne,
i cesti della spesa di vimini, forse
donne dalle teste inchiodate al tronco,
quasi senza collo,
vecchie carcasse usate ed abusate,
donne anche recenti,
madri.

Uomini, ma storpi, questo sì
nel corpo e nel cervello,
incoscienti, giocherelloni
che si rincorrono
che si strascinano,
saltellanti anche.

E bestie – tante
cani, gatti, maiali, vacche,
galline zoppe,
conigli, asini, capre…

Basta. Il gesto è chiuso.
Nessuno ha più diritto di nessuno.
Niente più niente.

Fabrizio dall'aglio la otra luna

da HIC ET NUNC. (1985-1998)
(Firenze, Passigli Editori, 1999)

Come sono giovane,
fanciulle antiche!
Cercate
fra le vostre ferite
ricordi,
il mio nome.
Io non ero, allora
neanche una parola
in testa al cielo.
Che soddisfazione.
Voi
attaccate al bastone
di un impiegato pigro,
osannavate la vita.
Io non ero nemmeno
l’acquazzone del piacere.
Le sere si scioglievano
lente, veloci
tristi, felici.
Io nemmeno
alle radici dei testicoli.
Voi
nei vicoli bui
a succhiare il tempo
con le gonne alzate.
Io non sentivo
latrati, preghiere.
Il mondo
sprofondava da solo
nel suo lenzuolo funebre,
sprizzando salute.

*

fabrizio dagll'aglio hic-et-nuncL’idolo sorridente
ha quattro mani
e un geloso vivaio di noia.
Partito
per mondi lontani
ripete la gioia del niente
senza fine,
il rito
ormai scheletrico
dell’esistenza.
E intanto concima lo spirito
perché ama il concime.
A lungo ha riflettuto
sopra il magico sputo
da cui è nato,
e il codice genetico
e i filamenti del DNA
che immagina
come zucchero filato
con appese le sorti
dell’umanità.
Scienziato oramai senza eredi
ha scelto per l’uomo l’oblio:
dovrà andarsene
in punta di piedi
come già aveva fatto il suo dio.

*

fabrizio dall'aglio con il caneAvevo cambiato pianeta.
Continuavo la mia vita
sulla terra,
ma avevo cambiato pianeta.
Succedevo a una morte
-la mia stessa-
accaduta altre volte
altre volte ripresa.
Illesa a me la vita proseguiva
rinfrancava le forze, aderente
alla mia duttile materia
di impasto fertile,
intermittente.
Così cestinavo le mie vite
vivendone una,
come per una meta stabilita;
dal mio nuovo pianeta mi osservavo
ed ero io a camminare
sopra il vecchio pianeta,
io in tutto uguale
alla mia vita prima della morte.
Fremeva la mia anima animale
appesa
al cappio inseparabile del tempo;
la guardavo distratto
nel piacere dolore
di un esperimento
che non mi riguardava.

*

fabrizio dall'aglio (2)La musica inespressa delle cose
vibrava nel mio corpo ingigantito
per l’esplosione, sorda, ammutolita
l’estatico finale della stirpe.

Giacevo nel mio letto di dolore
seguendo le mie linee sulla mano
era la vita, il solco nella pelle
come una lunga scia della memoria:

persone – già sgombrate in ritirata
affrante, trascinate alla deriva
amate, quanto amate, e senza fondo
era il mio corpo che le consumava

e cose – accantonate, senza spazio
immobili e consunte nell’attesa
il Dante di metallo, la conchiglia
la forbice firmata, la specchiera

persone – le vedevo tutte in fila
come il plotone della mia condanna
il mio dolore nelle vite loro
tornate a reclamare la mia fine

e cose – ripetevano il mio nome
quel nome sconosciuto che inseguivo
nel margine di vita dileguata
che finalmente mi sopravviveva.

Eran le cose la mia vita eterna
quella stessa che ora mi sfuggiva,
che sentivo nel sangue prosciugarsi
per un trionfo che mi rinnegava.

Fabrizio dall'aglio l'altra luna.

da L’ALTRA LUNA. (2000-2006)
(Firenze, Passigli Editori, 1999)

La stagione prolissa dell’infanzia
si è barricata nella mia memoria
lascia filtrare qualche resto opaco
che mi compone e si compone forma

Al passo del suo tempo ho costruito
l’anello che mi lega alla scrittura
pura insostanza immagine figura
che mi compone e si compone forma

Il battito del sangue è nella pagina
ma nel bianco che riga le parole
il bianco che le sfugge e che le anima
e le compone e mi compone forma

*

C’era un suono, e mi sembrava
il vuoto di una casa, porte aperte,
tutto aperto, cassetti, ante, finestre,
un suono che passava, i quadri
che battevano nei muri, le tende
gonfie d’aria, avviluppate,
e fogli, fogli pieni di parole
un castello di carte senza senso,
pizzi, bottiglie, piatti, tovaglioli
tutto disperso, tutto senza posto
un suono scritto come voce, e inchiostro,
inchiostro sopra il pavimento.

*

Conobbi la mia morte e la adorai
come l’ultimo frutto, il più proibito
nel corpo che ostentava le sue piaghe
di attesa di parentesi o raggiro.

Quel gioco simulava la mia vita
ancora abbarbicata e già sospesa
che sminuzzavo e intanto rilanciavo
come ultima mano da giocare

offerta come un dono, un sacrificio
da prendere o lasciare, l’occasione
per fingere in extremis la mia storia
l’uscita per l’applauso terminale.

*

Fabrizio dall'aglio (1).

Nostro bisogno di consolazione

a Stig Dagerman

Eppure ho amato questa storia distorta
che aveva il fascino di una curvatura
del tempo, un moto obliquo, ciclico
di smarrimento universale. Da qui
da questa estate morta nel gelo
da questo essere plurale che mi avvolge
e svolge mi ritrovo
come nell’uovo inanimato e esangue
che mi ha partorito.
Io solo e nudo
ingigantito nel dormiveglia.
Io gli altri, fisso nei loro cuori
sudori amori di questo solo cielo
di questa sola specie arroventata.
Io dio, là, nell’esplosione
onniassente, immacolato
e sbriciolato
nella nube cosmica.
Io noi. La connessione
che riannoda il filo
per il nuovo avvento.
L’immagine sfinita chiede tempo
si sgrana su se stessa, si depone.
Poi ricompone la sua nebulosa
in un anfratto di stelle più vicine
là dove al confine
del cosmo delle cose
gli esseri si toccano, uguali, tutti.
Nostro principio d’indeterminazione
nostra incertezza patente e plateale
nostro universo unico e plurale
che dispone le azioni in un’attesa,
come un sigillo di rieducazione.
Nostro bisogno di consolazione.

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Una poesia di Wislawa Szymborska e una Intervista di Federica Clementi

Wislawa Szymborska

Sono io, Cassandra

E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,

e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.

Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

cassandra-evelyn-de-morgan

Evelyn de Morgan, Cassandra

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di

È andata come dicevo io.
Però non  ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.

*
W.S.: Sa, nella traduzione a volte bisogna trovare una ritmica diversa. Purché suoni naturale quel che si sta leggendo in traduzione.

wislawa-szymborska_6

.

F.C.: Ho notato come anche nelle Lektury Nadobowiazkowe, Lei non lasci mai sfuggire neanche un’osservazione, un commento sulla traduzione del testo preso in esame. Quanto è importante per Lei come vengono tradotti i testi e cosa è per Lei l’interpretazione? Che significato ha questo termine, si può interpretare la poesia, ad esempio?

W.S.: Se prendiamo qualcuno che legge un verso, ad alta voce, e magari in pubblico, questa è già interpretazione: un tipo di interpretazione. Io amo quando un attore, un declamatore, legge i miei versi come se pensasse a voce alta. Vorrei fosse interpretata così la mia poesia. Nulla di più. La cosa peggiore è la nadinterpretacja (metainterpretazione): il voler aggiungere un qualcosa in più, qualcosa di troppo, che non c’è, alla poesia. Invece, sempre riferendomi ai miei versi, mi piace quando vengono letti guardando in faccia il pubblico, come in un discorso, con nonchalance, come si stesse riflettendo ad alta voce.
Questa è l’interpretazione che trovo più adatta ai miei versi.

wislawa-szymborska_5.

F.C..: E per quel che riguarda l’altra forma di interpretazione, la traduzione. Lei desidera che la sua poesia venga tradotta mantenendo il più possibile il senso letterale o le preme di più che l’armonicità e il ritmo vengano conservati. Più letterale o più ermeneutica?

W.S.: Ad ogni autore interessa soprattutto che quella poesia tradotta in una lingua straniera, suoni come fosse stata scritta in italiano, in inglese, in tedesco… Perché non vi risulti nessuna artificiosità, falsità, che al suono o alla lettura di quelle parole possa far dire immediatamente “ah, ah! è una traduzione”. La naturalità è indispensabile. E poi bisogna saper arrivare all’anima del verso; inutile arrovellarsi intorno al senso stretto. E’ necessario scoprire e comprendere su cosa l’autore vuol mettere più forte e deciso l’accento. L’accento di valore (contenuto), mentale, va a tutti i costi rispettato. E per quel che riguarda l’aspetto più letterale, dove siano presenti rimandi, riferimenti specifici, eccetera, va tenuto presente che non ogni termine di paragone o riferimento sarà accolto e sentito nello stesso modo in una lingua straniera, e allora bisognerà fare ricorso ad uno nuovo che si adatti alla realtà nella quale la lingua della traduzione si muove.

wislawa-szymborska_4.

F.C..: Le capita mai di pensare a quale sarà la traduzione di un verso che scrive, come uno specifico riferimento o gioco di parole e rimandi possa essere risolto in una lingua straniera?

W.S.: Mai. Veramente mai. E bisogna in anticipo darsi ragione del fatto che prima di tutto si scrive per un lettore familiare, nativo del proprio Paese, che parla la nostra stessa lingua. E non è possibile stare a pensare nell’atto della scrittura “non posso usare questo o quel vocabolo perché non è traducibile in nessun’altra lingua”. Forse esistono persino poeti del genere, che si danno preliminarmente di queste dritte, ma fanno del male solo a se stessi; che ci pensino i traduttori a tradurre, che risolvano loro il problema, il cui risultato solo in seguito potrà interessarmi, ma non mentre scrivo: in quel momento non mi sfiora l’anticamera del cervello. A scrittura ultimata sarà il traduttore a doversi stancare! E potrà risultare a volte che un verso, è spesso il caso dei miei, non sia traducibile. Bene, che non lo traducano, allora. Pazienza! [ride di cuore]

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Steven Grieco. Sulla Poesia: La restaurazione della middle-class – II parte – Una poesia: IL BUON AUGURIO ovvero “Die Entzauberung der Welt”

Steven J. Grieco-Rathgeb, poeta, traduttore e ideatore di progetti letterari. Nato in Svizzera nel 1949, da padre italo-americano e madre svizzero-tedesca. Vissuto a Parigi, Roma, Zurigo, Firenze, Jaipur e in Epiro (Grecia). Parla Inglese, Italiano, Francese, Tedesco. Buona conoscenza di Greco, Russo, Hindi-Urdu. Vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). Collabora da venticinque anni con l’ufficio stampa del gruppo industriale paneuropeo KME,
leader mondiale nella produzione e commercializzazione di prodotti in rame, curando, fino al 2004, la rivista in inglese SMI Review Art & Technology. Dal 1977 al 1984 ha vissuto nella campagna toscana, dedicandosi alla produzione di vino, olio d’oliva e alla coltivazione di piante aromatiche ed officinali. Dal 1980 pubblica poesie e racconti in riviste di Bombay e Delhi.
Attualmente collabora con la rivista in lingua hindi Samas. Ha partecipato, negli anni, a diversi eventi letterari con letture di poesia, organizzati dalla Sahitya Akademi di New Delhi, l’Accademia Nazionale delle Lettere e dall’Università del Rajasthan.
Nel 2006, ha presentato, all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in collaborazione con Shree Ashok Vajpeyi, intellettuale e poeta hindi, sue traduzioni della produzione del poeta urdu Mirza Asadullah Ghalib. L’anno seguente, una selezione del lavoro è apparsa in “Pagine”, rivista letteraria romana.
Con l’appoggio dell’Indian Centre for Cultural Relations (ICCR), prosegue il progetto delle traduzioni della poesia di Mirza Asadullah Ghalib che prevede la pubblicazione in Italia di un intero volume di Ghalib nel tradizionale componimento “ghazal”; questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare, in Italia, la poesia del grande poeta urdu, in chiave non strettamente filologica e più accessibile agli amanti della cultura e della poesia.
Attualmente sta ultimando un altro progetto di traduzione in lingua inglese di poesia giapponese waka del periodo Heian, in collaborazione con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo.
Ha pubblicato Maschere d’oro (Biblioteca Cominiana, 1997), raccolta di 33 poesie in italiano. Nel 2016 esce per Mimesis Hebenon la raccolta poetica Entrò in una perla. Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016).

Steven J. Grieco-Rathgeb

 IL BUON AUGURIO  ovvero
 “Die Entzauberung der Welt”

La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera,
e questo paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“Fermi!» esclamò d’un tratto il Regista:
«avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!»

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.
Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le spente scenografie
come fantasmi, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, ignari. Continua a leggere

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L’ultima intervista a Manlio Sgalambro sulla misantropia

sgalambro3(da la Repubblica 6 marzo 2014 di Antonio Gnoli)

Della misantropia (pubblicato da Adelphi) ha la qualità e la forza di un trattato della denigrazione. Cos’è che le dà fastidio di ciò che la circonda? “Che dire? Ciò che vedo intorno stimola in me pensieri d’odio. È sempre un “odio” per la realtà che ci trascina a pensare. Mi rendo conto che pensare è costoso, per questo rivendico la mia personale ascesi mentale. Scrivo libri furiosi ma sono invaso da una calma che somiglia a una distesa di ghiaccio”.

Si immagina l’odio come un sentimento pericoloso. L’anticamera della violenza.

“L’odio del misantropo non è violento. È un odio mite, tranquillo, sereno. Quasi annoiato. Ci vuole la calma di Seneca per scrivere l’Hercules furens “. 

Il sentimento dell’amore non la sfiora?

“Mi lascia indifferente”.

sgalambromanlio sgalambro 4È mai stato innamorato?

“Sì, ho ceduto a me stesso. E penso di aver concesso troppo”.

Meglio avaro che misantropo.

“Un’avarizia un po’ spirituale non mi dispiace”.

Non è un bel sentimento.

“Nei sentimenti ci siamo fermati alle analisi di Max Scheler, al suo sguardo rivolto all’indietro. Il sentimento da solo non mi fa palpitare. Oggi le passioni sono cieche, non conducono più alla conoscenza. L’unica che mi appare ancora fornita di un tratto nobile è l’odio”.

Lei scrive: “Chi non odia la propria filosofia non merita di averne una”. Trova, a volte, insopportabili e ripugnanti i suoi pensieri?

“Pensare è la cosa più disgustosa che ci sia in un uomo. Come se avesse dei genitali mentali. In effetti, io non penso mai con gioia”.

Ci dia una definizione di filosofia.

“Un eccesso mentale che si è trasformato in spazzatura. Il filosofo è diventato un intellettuale acchiappatutto. Avrebbe dovuto restare il più lontano possibile dalla tentazione della polis. E invece c’è dentro fino al collo. Avrebbe dovuto osservare l’accadere da un luogo remoto per comprendere ma non per perdonare”. Continua a leggere

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componimento 324 delle Rime di Torquato Tasso letto da Walter Siti

Torquato Tasso4(da la Repubblica domenica 26 gennaio 2014)

Torquato Tasso (1544-1595) Autore de La Gerusalemme liberata (ultimata nel 1575) è stato uno dei più grandi poeti italiani del Cinquecento.

(1580-‘86)

Qual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle ?
E perché seminò la bianca luna
Torquato tasso_3di cristalline stille un puro nembo
al’erba fresca in grembo?
Perché nel’aria bruna
s’udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno ?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?

*

Torquato_Tasso_2Non so se questo madrigale di Tasso sia mai stato messo in musica: sembrerebbe fatto apposta e comunque non importa, perché la musica se lo porta dietro. Il madrigale cinquecentesco è un componimento breve di endecasillabi e settenari liberamente disposti, senza divisioni strofiche. Ma qui la libertà è solo apparente: i dodici versi sono in realtà divisi, dal punto di vista della rima, in tre quartine -nella prima le rime sono alternate, nella seconda sono incrociate, nella terza baciate. Come in un campionario. Nella prima quartina i due settenari precedono gli endecasillabi, nella seconda è l’inverso, come se fossero riflessi in uno specchio; nella terza endecasillabi e settenari si cedono reciprocamente il passo. La sintassi gioca a rimpiattino con la metrica, perché le frasi sono quattro e le quartine tre; l’ottavo verso è in bilico, come rima appartiene a ciò che lo precede mentre come senso appartiene a ciò che segue.

walter-siti-1Il delicato rapporto di equilibri e squilibri si manifesta anche tra il secondo e il terzo verso, dove un nesso banale come «quelle che» è spezzato dal ritmo, e un pronome senza dignità si ritrova a rimare addirittura con le stelle. Esitazioni appena accennate e canto spiegato, pause sapientissime e mai identiche, come un respiro che prima si trattiene e poi si distende – rilanciato dalle ripetizioni («qual.. .qual.. .quai», «e perché…perché», «intorno intorno»), incantato dalle allitterazioni («stelle…cristalline stille», «s’udian…dolendo», «fur segni WALTER-SITI-450x450forse»), fino al settena Continua a leggere

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POESIA CREATA DAL MIO PC. Elenco dei messaggi giunti alla e-mail di Giorgio Linguaglossa il giorno 5 marzo 2014

Husserl3Un amore a stelle e strisce
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ANTOLOGIA DI POESIA CONTEMPORANEA (VIII) – Renato Minore, Laura Canciani, Antonella Antonelli, Gino Rago, Ivan Pozzoni, Francesco De Napoli, Carla Guidi, Roberto Piperno, Luciano Troisio, Mariano Menna, Rossella Seller, Domenico Alvino, Ivano Mugnaini, Claudia Zironi, Danilo Mandolini

renato_minore 3Parnaso 1  Renato Minore

Non esistere
sarà forse impossibile.
Nel multiuniverso-patchwork,
a pochi millimetri
dal nostro presepe,
un altro lo replica
con lane di pastori,
scintillio di stagnola,
verde muschiato,
neniette a ricarica.
La luce batte e rimbalza

come in gabbia.
Mai lo vedremo,
mai sapremo
se ancora nella santa notte
le streghe alzino la selce
per fare malie
se chi nasce vince
l’esitare del vuoto.

2Laura Canciani

da L’aquila svolata (1982)
Canciano Canciani

Sono tanto stanco sotto questo sole
e le braccia dei dodici figli
lo adagiarono piano. Sentì il
letto odoroso oltre il bosco
oltre la stalla, sentì il cuore
scoagulare, calma dei colori
senza vento…
Intorno al suo letto di ferro battuto
– uccello intarsiato dalle piume di fuoco –
i dodici figli, anche quelli lontani
i morti i bambini, le femmine in fondo
le figlie in convento, colombe
arruffate straziate…
Disse a qualcuno: ti dono
il mio lungo patire – e pianse
abbandonato il volto ancora bello
bianco scarnificato. La notte insonne
bruciava senza vento la
fronte ghiacciata, il varco del respiro
un crescere affogato, quando
le ali intarsiate si levarono
con sfarzo sulle membra martoriate:
gli alberi il cielo la luna ghiacciata
il vuoto paiolo la madre la terra
bambino sperduto che vaga nel buio
nelle voci chiamanti – additate –
dei vivi e dei morti…
(l’alba nasceva a ustionare la vita)
giunse le mani: chiamate la mamma. Il volto
percosso da quell’unico buio
i capelli raccolti di vergine antica
la sposa avanzò, i passi accecati.
«Come sapevi tacere tu» – e – per l’ultima volta
aprì la mano:
si udì il lamento della madre
succhiata – madre impotente a succhiare la vita –
Allora si mosse la prima campana
compagna sgomenta e smarrita
disse: «vi sento ma non vi vedo più»
e giacque più abbandonato
dormiente o come fosse morto
più bianco e scarnificato.
Appeso al muro un orologio antico
batteva testardo, pareva impazzito…
Il primo dei figli – Daniele –
che lo regolava quando era bambino
«fermatelo» – disse –
il vecchio fu un’onda urlante, spiegata
«guai fermarlo!»
e si ruppe sulla roccia destinata
la giovinezza ha forse solo
questo dono della sorte

essere così lontana così
disgiunta dal pensiero della morte Continua a leggere

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“La Grande Bellezza” di Roma. Atto secondo. Due Epistole di Francesco Tarantino e Giorgio Linguaglossa

Roma3Francesco Tarantino

Replica di Lucio Decio a Germanico: Dimenticarti?

Come potrei dimenticarti
dopo aver condiviso il pane,
le donne ed il vino ed il dispiacere
per un imbroglio dell’imperatore,
lo sciagurato tempo dei fantasmi
che ancora inquietano le tristi notti
di lune incandescenti e piene,
di ululati e lamenti dall’inferno;
di quanti ne abbiamo ammazzati
Roma2e non sono stati ancora vendicati,
perché Cesare è ancora vivo
e ci rende schiavi di quel passato
ogni volta che la luna si fa piena.
Potrei vivere anch’io nella calma
sotto un sicomoro o al pascolo
tra i cani che badano al gregge
e leccano le mie ferite
che non si sono chiuse ancora.
Roma statuaTu lo sai, caro amico,
quante cicatrici mi porto addosso,
come sigilli di battaglie
e di agguati nelle notti di luna
– è la stessa luna che non mi lascia
dormire – che s’illumina d’argento
e nel suo canto algido
mi scava nel profondo e mi domanda
il conto delle mie magagne.
Roma1Anche il canto degli uccelli suona in me
come una litania di soccorso
che non m’abbandona e ancor mi sospinge
verso un’inquietudine
di giorni senza compimento.
No, non ti dimentico compagno mio;
no, non posso, non voglio, non ci riesco:
se innamorarsi è proprio così facile,
dimenticarti è davvero difficile! Continua a leggere

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Alfredo de Palchi. A proposito di antologie

alfredo_de_palchi2  alfredo de palchi Paradigm-5Da decenni escono in Italia antologie della poesia del ventesimo secolo di ogni colore, e nessuna include il mio nome. Motivo? Più di uno, però mi sono sempre difeso con gioia dicendo e annunciando ad alta voce anche per iscritto “se non ci sono, non vale niente”, intendo ciascuna antologia. Infatti, tutte, dico tutte,non valgono, non soltanto per la mia assenza, ma per la ripetitudine e piattitudine della cosìddetta poesia–minestrone. La maggioranza degli autori scrivono alla stessa maniera sullo stesso materiale manchevole di invenzione e di vita.

A questo punto ripeto il mio motto: “se non si muove, non è poesia”.

Si noti e si sfogli con curiosità The FGS Book of Twentieth Century Italian Poetry, l’antologia Americana curata da Geoffrey Brock.
La lunga recensione, abbastanza precisa e accademica, pubblicata su The Nation (April, 2012), eviscera la tonalità dei vari linguaggi in quello inglese: tedesco alfredo de palchi roberto bertoldofrancese latino italiano. Per esmplificare il suo discorso, il recensore si sofferma brevemente su autori menzionati nella introduzione: Giovanni Pascoli, Umberto Saba, Pino Masnata, Saturno Montanari . . . poeti noti e sconosciuti minori tra minori, e la grande poesia italo–anglosassone di Eugenio Montale.

A questo punto, assolutamente personale, il mio commento sulla poesia italiana in generale, ha a che vedere con la selezione di Geoffrey Brock. La mia intenzione è di suscitare scandalo, uno stravolgimento tra gli esclusi ed inclusi. Certo, ciascun escluso vivente si chiede il perché dell’esclusione quando nota che la maggioranza degli inclusi è dello stesso minestrone; mentre ciascun incluso vivente è convinto della propria ‘grandezza’. Malamente mi sorprende il liso e leso canone petrarchesco: canone della poetica stanca, sfiatata, piatta, falsa, noiosa, stonata, sentimentale, epidermica, accademica, nonostante gli autori contemporanei si definiscano avanguardia: si nota il tono biologicamente falso. Comunque, la non similpoesia italiana si trova altrove, nell’opera di rari e tuttora emarginati autori esclusi dalle antologie di stabilimento e di peggiori fraternite. Però i curatori con modestia scelgono se stessi per primi . . . Continua a leggere

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CARLO SINI su MARTIN HEIDEGGER – EDMUND HUSSERL, IL TRADIMENTO

heidegger-150x150Martin Heidegger  Tra Husserl e Heidegger la frattura che ha inciso sul Novecento” (pubblicato il 30 agosto 2013 su Repubblica)

La frattura tra Martin Heidegger e Edmund Husserl riflette una divaricazione d’interessi, o un tradimento del primo nei confronti del secondo, che ha inciso profondamente su certe crisi del pensiero nel Novecento. Autore di un’opera significativa come Essere e tempo (1927), Heidegger fu allievo di Husserl, fondatore della fenomenologia. Questo termine può suonare misterioso alle orecchie dei digiuni di filosofia. Ma non c’è nulla di criptico nella storia della rottura che separò le sorti dei due filosofi: quel tradimento ha una portata la cui vastità tocca territori tutt’altro che specialistici, poiché è giunto a segnare con estrema concretezza lo sviluppo delle prospettive riguardanti il cambiamento del rapporto dell’uomo con la natura e il husserldivorante espandersi della scienza e della tecnologia. In questa serie di articoli sui traditori e le loro vittime, il contrasto tra Heidegger e Husserl, e l’onda lunga degli effetti che ne conseguirono sul pensiero del mondo manifestato dalla civiltà occidentale, ci vengono raccontati da uno dei massimi filosofi italiani, Carlo Sini, che ha insegnato per molti anni Filosofia Teoretica all’Università di Milano e che è un esperto riconosciuto dei due pensatori.

Perché Heidegger tradì il suo maestro Husserl?

“Sembra che a rompere i rapporti sia stato Husserl, sconcertato dall’adesione di Heidegger al nazismo. Vale comunque la pena di rammentare che Heidegger dedicò a Husserl Essere e tempo e glielo consegnò a Friburgo nel giorno del suo compleanno. Husserl, al momento, non lo aprì nemmeno. Lo fece tempo dopo, quand’era cresciuta la fama del suo allievo. E commentò che si trattava del suo stesso pensiero “ma senza fondamento”. Lo considerò un tradimento della fenomenologia, che non fu mai abbandonata da Husserl “.

husserl5Può spiegare il termine “fenomenologia”?

“E’ il tentativo di tornare alle “cose stesse”, mettendo tra parentesi le teorie sulle quali abbiamo edificato i nostri saperi. Si vuole fare ritorno all’essere del mondo così come questo si manifesta, in modo genuino e primario, riesaminando, riosservando e ridescrivendo i fenomeni originali. Secondo Husserl dobbiamo aderire alle cose, non nasconderle, servendoci della lingua che ricostruisca una ragione descrittiva. Questa teoria ha plasmato diversi metodi d’approccio scientifico. Ad essa si è ispirata la fenomenologia psichiatrica, dove il paziente viene descritto così com’è, nel suo apparire, e la terapia trova il proprio motore nei dati immediati dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti “.

Qual era la posizione di Heidegger? Continua a leggere

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Maria Pia Quintavalla Poesie – Autoantologia

maria pia quintavalla5  Maria Pia Quintavalla è nata a Parma, ma vive a Milano. Il suo primo libro Cantare semplice esce nel 1984 per le edizioni Tam Tam Geiger (nota di Nadia Campana). Nel 1985 inizia a curare la rassegna biennale nazionale Donne in poesia, da cui è nata l’omonima antologia, (Comune di Milano, 1988, ristampa Campanotto 1991). In quegli anni ha ideato anche il convegno nazionale: Bambini in rima / la poesia nella scuola dell’obbligo (Ass.to Comune di Milano, 1985 – Atti su Alfabeta 1986) frutto di un’altra passione: la pedagogia della poesia. Lettere giovani è il secondo libro (introduzione di M. Cucchi), 1990, Campanotto editore; nel 1991 ristampa integralmente Il Cantare sempre con Campanotto. Nel 1996 esce Le Moradas , per i tipi di Empiria (introduzione di G. Majorino) e, nel gennaio 2000, Estranea (canzone) per Piero Manni editore, saggio di Andrea Zanzotto).

Nel 2002 è uscita la raccolta di fiabe, prose e poesie brevi Corpus solum per le edizioni Archivi del ‘900 (nota di G. Neri). Recentemente sono state pubblicate le plaquettes Canzone, Una poesia, (Pulcinoelefante, 2002 e 2005) Napoletana (Copertine di M.me Webb, 2003) Le nubi sopra Parma, Battei, 2004, Album feriale, Archinto editore 2005 (introduzione di F. Loi). Compare nella antologia Biblioteca parmigiana del Novecento, Racconti parmigiani, MUP 2003, e Coglierò per te l’ultima rosa del giardino, MUP 2005, Album feriale (Archinto 2005). Ancora, tra le recenti antologie in: La donna, gli amori a cura di G. Sobrino, Loggia de’ Lanzi editore 2001, Io sempre a te ritorno, a cura di M.G. Maioli, Crocetti editore, Poeti per Milano, a cura di A. Gaccione – Viennepierre editore 2002, Le parole esposte, a cura di N. Lorenzini, Crocetti editore 2002 e in Quaderni Rosa – Scrittrici Italiane dell’Ultimo Novecento, a cura di N. De Giovanni e G. Rech – Presidenza del Consiglio dei Ministri editore, 2003, e in Trent’anni di Novecento, a cura di Alberto Bertoni, Book editore 2005.

 

maria pia quintavalla_copertinaCompianto in terracotta, III

L’età moderna
E’ sorella rinata dalle ceneri,
bisogna che io parli di Fabiana:

rinata là, mi aspetta
nella casa dove ha vissuto il padre,
ha taciuto di lui mi ha accolta –
accucciata a terra poi, Sono qui,
vengo a prenderti, ristorati –
la tua casa e la mia sono nate
qui stesso spazio, sogno lo stesso –
sosteneva i suoi occhi,
prima di morire.

*

Le sue stanze combaciano là sopra
alle altre native
ma hanno sagome aperte più spaziate,
trapezi cerchi
verso i gradi della vita, poi:
quadri, rombi della luce che veleggiano
n e l l ’ a l t o.

*

maria pia quintavalla4La notte stanno a schiera (all’erta)
lampioni la punteggiano
sul parco e sostengono l a s e r a.

C’è tepore dove la donna ha procreato
amato e perso i suoi bambini,
una soltanto è viva, i ritratti piccoli
salutano fulgidi ogni giorno.
Lei si alza pigra, ci prepara il caffè
parliamo –
poi stiamo ore a rimirare la beltà
e la luce, in dolce sfondo
esplodono piccole nicchie ombrose
dai cespugli del San Paolo. Continua a leggere

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Su “La Grande Bellezza” di Roma, capitale dell’Impero universale. Poesie di Giorgio Linguaglossa, Francesco Tarantino, Antonella Antonelli, Antonio Coppola

Scene from film CALIGULA (1979) starring HELEN MIRREN.   FOR USE Immagini tratte dal film Io Caligola (1979) di Tinto Brasscaligola 1

Giorgio Linguaglossa

a Giulio Decimo sulla Grande Bellezza dell’Urbe

Un giorno o l’altro scriverò una lettera
a Giulio Decimo, gli dirò della Grande Bellezza dell’Urbe,
gli dirò che c’è un tempo interiore
ed un tempo esteriore,
gli dirò che è tempo di rientrare in patria,
gli dirò che gli ostracismi sono finiti,
che l’imperatore ha condonato gli eslegi
ed ha concesso l’indulto a tutti i malfattori,
gli scriverò: «ti prego Giulio Decimo
torna nella tua Roma, ritorna come sei,
come un cittadino qualunque: se sei povero
ritorna come povero, se sei ricco ritorna
in quanto ricco; le tue sostanze?, no
mio caro, non verranno confiscate,
e poi, perché dovrebbe?
Caligola_film_1979In fin dei conti Cesare è clemente, magnanimo,
preferisce tenere in vita i suoi nemici,
così può sempre ricattarli, morti non saremmo
utili alla sua causa, non credi?.
In fin dei conti, si vive bene qui nell’Urbe,
qui il tedio non è di casa, gli amores
non mancano, le matrone non sono certo caste
Caligula 3-come nella sperduta Bitinia, alle terme
non ci si annoia, e poi qui tutto è spettacolo
circense, qui tutto è frivolo e leggero,
dal Tevere spira il tiepido vento del Tirreno
e gli uccelli gorgheggiano anche d’inverno,
e l’inverno è mite quant’altri mai
e ci sarà dolce annegare in questa città».
Devo affrettarmi a scrivere a Giulio Decimo,
devo fare in fretta, gli dirò che mi sono ricreduto,
lo pregherò di tornare, che il tempo si è compiuto,
gli dèi sono fuggiti, che la città eterna
continuerà ad essere eterna, e così via…
mi devo sbrigare, sì,
scriverò a Giulio Decimo, gli dirò
di far presto, che non è mai troppo tardi,
di non frapporre il tempo al tempo,
così potremo reciderci le vene dei polsi
al tepore delle vasche delle terme,
e insieme brinderemo con il rosso vino di Falerno,
potremo vivere gli ultimi istanti della nostra vita
che ormai non ha più senso…

Giorgio Linguaglossa e Socrate

Giorgio Linguaglossa

Risposta di Giulio Decimo a Germanico

Caro generale Germanico
il tuo fidato amico Giulio Decimo è stanco
ha il ventre molle e le gambe malferme,
sono vecchio caro amico
per tornare a Roma,
e poi, come ci tornerei?, da vinto?, da servo?,
perdonami Germanico, perdona
la mia stoltezza, o la mia viltà,
chiamala come vuoi,
la nostra è stata una seconda Teutoburgo,
caligolasiamo dei vinti, amico mio, e poi
quale Roma vedrei?, la Roma di Mecenate
con il suo codazzo di poeti di corte
e di pretoriani?, no, caro amico,
risparmiami questo scacco, quest’onta,
un’altra disfatta sarebbe rovinosa,
non potrei tollerarla,
preferisco stare qui, nella mia villa
a Calcedonia, lontano dalla vile lussuria dell’Urbe
voglio stare qui all’ombra del sicomoro
e al dolce canto degli uccelli
ad occuparmi della mia insalata che coltivo
con mestizia,
Roma è un lontano ricordo
che voglio allontanare sempre di più,
sempre di più.
Voglio dimenticare Roma, le sue meretrici
e i suoi poeti di corte,
voglio dimenticare la mia vita passata,
le nostre gloriose battaglie,
le nostre ingloriose sconfitte,
adesso voglio riposare, lasciami,
amico mio riposare all’ombra del sicomoro
e al dolce canto degli uccelli.
Dimenticami.

caligola_malcolm_mcdowell_tinto_brass_012_jpg_krik

caligola

Francesco Tarantino

Al generale Germanico

dal suo devoto liberto lasciato a marcire in provincia

Io sono deluso,
amareggiato, disgustato!
¿Come potrei, e con quale coraggio,
rientrare nei ranghi
senza disseppellire le mie spade
e marciare alla testa dei soldati?
No, mio alto generale,
e non ti ringrazio di avermi chiesto
di tornare alla corte dei soloni
– che Dio li fulmini! –
francesco tarantino 0Immagino le strade ancora piene
di meretrici e mercanti d’Oriente,
angoli bui dove trama e ordito
sono un unico atto già in scena.
No, mio generale resto ove sono!
Mi ricordo bene Giulio Decimo,
fu proprio lui a suggerirti:
“lascialo a marcire in provincia
sbollirà i suoi bollori”.
E così è stato!
Ho lasciato le spade e l’arroganza
per abitare in via delle cetre,
non ho più centurie da comandare
Caligula 8e coi vecchi mangio cipolle
e mastico erbe amare.
Tu lo sai, generale,
dove inizia l’inganno: Menenio Agrippa
che indusse la plebe a ricominciare
a servire i cialtroni e le matrone.
Mio amato generale, sai
che il tuo liberto
non è un collaborazionista.
Scrivi a chi vuoi ma io resto in Bitinia
e se passerai di qui
ti offrirò del vino amabile
e una cetra da pizzicare:
sarà bella l’Urbe, ma qui la vita
tiene ancora un senso e gli uccelli
cantano e cantano davvero
tra le foglie degli alberi che ancora
svettano verso il cielo.

caligola in portantina

 Francesco Tarantino

La Grande Bellezza?

Trascino ormai le gambe
in un tempo che fu di Grande Bellezza
lungo ville e splendidi viali
con intorno lo sconcio
di un insulso ed insano blaterare
di ostinate nobiltà decadute.
E m’incammino
lungo un Tevere che esonda la storia
e annega ogni voce contraria
all’acqua che più non racconta
e raccoglie solitudini e detriti.
¿A che serve estrinsecare domande
che dall’anima salgono alla mente
se non hai di fronte un santo penitente?
Non avrai alcuna risposta
da intellettuali e cardinali
che per denaro hanno venduto l’anima:
dispensatori d’indulgenze
chiusi in una liturgia obsoleta
di giaculatorie e travisamenti.
Non basta un tiro d’eroina,
uno sballo, né un blando spino;
una futile danza in compagnia
dimenticando d’esser stato spia!
¿Dov’è finita La Grande Bellezza?
Più non la trovi e neanche la vedi;
più ti manca e più s’allontana:
forse l’hai perduta con l’innocenza!

Antonella Antonelli3

Scene from film CALIGULA (1979) starring HELEN MIRREN. FOR USEAntonella Antonelli

Ambrosia della decadenza

Il vapore sale dall’acqua
mi sento nascosta, ma la voce arriva
nevrotica, sclerotizzata dietro un suo acuto

“allora, Ambrosia, tornerà mai
il terrone Vegezio a Roma?”

“Non lo so. Dalla sua ultima mail
ho intuito…”
Sghignazza la cagna
“capito…che ama vivere a Los Angeles.
Ama la polvere.”

“Sei meno di un chicco di polvere
mia povera Ambrosia”

“non lo siamo forse tutti?”

Immergo la testa,
a naufragare in una pozza
non è complicato. Vedo il mio fiato
risalire in piccole bolle sputate
e la tua figura plastificata, denudarsi.
Mi tocchi, pensi di poterti concedere tutto
in questa nostra Roma di segreta bellezza,
deturpata dall’arroganza della decadenza.
Mi stringi in un abbraccio maschio

Antonella Antonelli in orange“lasciami!”
“Sei arrabbiata?”
“E forse… sono qualcosa?”

Avessi un lavoro
non starei a fare il giunco

“Vieni questa sera da Pompeo Magno?”

Mi chiedi rivestendoti.
E come potrei mancare?
Mi ha già versato tutti i sesterzi,
“Il patto va rispettato”
mi ha detto tenendo il suo fallo tra le mani
come fosse un gladio.

È lontana Los Angeles, la polvere del deserto
è vita, davanti a questo tirare di bighe
e facce truccate di un carnevale perenne.
Mi circondo col peplo, appunto la spilla,
vorrei infilarla nella spalla
per risentire il dolce rimpianto
del dolore.
Un gesto e tutto cadrà a terra.
Come le statue maschie del Gianicolo e
le vie maschie di questa Roma femmina,
zoccola, sdolcinata e papalina,
inquinata dalle stesse famiglie
dai geni contorti e gemelli.

“Tiriamo su i capelli mia signora”
“Mia piccola ancella, fuggi, stanotte fuggi.
E resta quella che sei,
ché niente, sarà più lo stesso.”
“State male mia signora?”
“Mai stata meglio. Non quello, passami la recta.”
“Vi vestite da sposa mia signora?
E’ una festa in maschera?”
“Tutto è in maschera oggi a Roma.
E questa storia, finirà nella storia.
Passami il velo”.
“Quale?”
“Quello rosso, non vedi?”
“Non si è mai vista una sposa così…”

caligola 1Accadono cose strane a volte, di notte.
Non ci sono più ratti né reclute, tutti nascosti.

“Chiama il taxi ora. È l’ora.”
“E le scarpe?”
“Indosserò stivali.”

L’aria profuma di pino.
Perché continuano a mettere questi
“odori chimici” nelle macchine?
Temono il fumo, lo smog, il sudore, la carne…
niente sa più di sé.

Fanno rumore gli scarponi sulla ghiaia.
Questa storia, dunque, finirà nella storia.
Il velo rosso si accosta al viso
come il sangue delle ferite ai vivi.

“Fermi!
Avete portato le vostre spade?
Allora su,
sparate!”

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Antonio Coppola

La città impazzita ( I-IV)

1
Che ci sta a fare una città
posata sulla terra ferma
(mare avvelenato per affari suoi)
le confessioni degli uomini,
i lamenti, le inedite storie.
Da una parte le medaglie
i monumenti gli alberi, le bandiere
gli inni di Dio, la paranoia dappertutto.
Dentro le orecchie delle vecchie o
dei bambini le nostre voci, questo sto
ascoltando muto, desolato nei diritti.
2
Questa città così infantile, folle,
ancora sventola bandiere.
I predatori sono ovunque
sfilano per i loro anniversari;
se un poco ti ribelli è arrivato
l’attimo ultimo; gira l’amato
paesaggio e non puoi far niente
vederlo così triste, non puoi neppure
cantargli una canzone. In questo luogo
sono nato e sento ogni notte squillare
il telefono, par che mi prelevano i gendarmi.
Cosa ho fatto di male, oh amor mio!
ANTONIO COPPOLA 19983
Terra in cui sono nato forse
non abbastanza intonato, da anni vivo
prigioniero in altro luogo, ma sempre
prigioniera la mia vita perché ero
e sono sopravvissuto, poi tornai a casa
al confino, roba da seppellire laggiù
con l’ultima bandiera che mi rimase.
Là la mia vita fu un codice
di annunci funebri, la strada a perdita
d’occhio termina su un filo di lana
e/o continua dall’altra parte.
4
Vissi le amarezze, i tornaconti
gli anni che mi visitarono;
ora sono a parlare di queste cose,
non seppi resistere alle voci del padre
che in scena fa l’ultima apparizione.
Quelle voci
l’ho nel mio cranio e vissi ascoltando
tutto questo dentro le orecchie.
Ora chiudo il respiro
in quest’aria pesante della città.
Merda, Merda, Merda.
Qui per la mia pazzia
ho vissuto abbastanza.

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I Quattro periodi della poesia Tang: WANG WEI 699-759. Quattro Poesie

donna cinese anticaLa dinastia Tang fu molto importante nella storia cinese, spiccando per la  prosperità dell’ economia e la stabilità sociale, mentre anche la cultura e l’arte registrarono splendidi successi. In particolare la poesia classica visse il suo periodo di massima fioritura. In epoca Tang la composizione poetica diventò uno dei contenuti principali delle attività culturali e sociali, mentre per quanto riguarda il sistema degli esami imperiali per la selezione dei funzionari, si passò dalla compilazione di tesi a quella di poesie. Il classico letterario “Tutte le poesie Tang” contiene circa 50.000 poesie scritte da oltre 2300 poeti.Lo sviluppo della poesia Tang si può suddividere in quattro fasi, ossia il primo periodo, il periodo di massimo splendore, ed i periodi medio e tardo.mencius

Nel primo periodo (618-712), i cosiddetti “quattro geni” Wang Bo, Yang Jiong, Lu Zhaoling e Luo Binwang conclusero il processo della resa in rima delle poesie, ponendo le basi della forma poetica “lushi” e originando l’aspetto tipico della poesia Tang. Grazie ai loro sforzi, il tema delle poesie lasciò lo sfarzo dei palazzi imperiali per la vita ordinaria della gente comune, mentre lo stile passò dalla delicatezza e debolezza alla velocità e freschezza. Il miglior poeta del tempo Chen Zi’ang propose la ripresa della tradizione della poesia riflesso della vita concreta. Le sue poesie, forti e semplici, aprirono la strada allo sviluppo della poesia Tang.

dignitario cinese

Gli anni dal 712 al 762, il secondo periodo, sono chiamati periodo di massimo splendore, in cui la poesia Tang vide la massima fioritura, con una gran ricchezza di contenuti e stili e canti alla natura, alle zone di frontiera, all’eroismo ed anche sospiri di delusione. Molti poeti furono ispirati dall’atmosfera romantica del tempo, creando il quadro di splendore che scosse a fondo le successive generazioni.

I poeti più famosi dell’epoca furono Li Bai, Du Fu, Wang Wei, Meng Haoran, Gao Shi, Cen Shen e così via. Cen Shen eccelleva nelle poesie sulle frontiere, mentre Gao Shi rifletteva le sofferenze del popolo. Tuttavia i veri rappresentanti sono “l’immortale della poesia” Li Bai e il “saggio della poesia” Du Fu, le cui opere influenzarono profondamente la creazione poetica posteriore.

I poeti più riusciti del medio periodo Tang (762-827) furono Bai Juyi, Li He, Yuan Chen e così via. Bai Juyi eccelleva nella poesia satirica, ironizzando sulle pesanti tasse e corvee, opponendosi alle guerre, attaccando i nobili e sforzandosi anche di rendere più popolare e scorrevole il linguaggio poetico, da cui l’ampio apprezzamento dei lettori.

Il poeta Li He visse una vita breve, arrivando solo a poco più di vent’ anni.  Povero e provato sulla strada politica, la sua poesia si presenta però fantasiosa, originale, splendida nel linguaggio, romantica, malinconica e con marcate tendenze estetiche.

top_ten_ceos_in_ancient_china06f5bb5d1ac7de517dccNel tardo periodo Tang, tra l’ 827 e l’ 859, brillarono per grandezza Li Shangyin e Du Mu. Le poesie di Du Mu integrano freschezza e gravità, il che è molto adatto all’espressione delle sue aspirazioni e passioni politiche. Li Shangyin, invece, con una struttura delicata, un linguaggio superbo e uno stile malinconico, esprime le sue frustrazioni sulla strada politica, con un fondo di profonda tristezza. I critici poetici stanno ancora discutendo se le sue famose poesie “Senza titolo” siano opere d’amore o nascondano contenuti politici. Continua a leggere

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