Su Babelia inserto culturale de “El Pais” è uscita il 5 dicembre scorso questa intervista di Javier Rodrìguez Marcos alla grande poetessa polacca Wislawa Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996. Traduzione di Linnio Accorroni.
Wislawa Szymborska è a casa sua, ma ci domanda ugualmente il permesso di fumare. “ Una volta-racconta- ho ricevuto una lettera molto lunga nella quale una donna mi implorava di smettere di fumare. Mi sarebbe piaciuto risponderle: sono stata a tanti funerali di gente che mai aveva fumato e che era molto più giovane di me… Mi limitai comunque a dirle che la ringraziavo per essersi tanto preoccupata per me”. La Szymborska è nata 86 anni fa in Kornik, vicino a Poznan, nella parte occidentale della Polonia. Adesso vive in un appartamento dimesso senza ascensore alla periferia di Cracovia, città dalla quale non si è più mossa da quando la sua famiglia vi emigrò quando lei aveva appena 8 anni, nel 1931.
Il tema della memoria, in effetti, è molto presente nel suo ultimo libro di poesia, “Qui” pubblicato in Polonia proprio questo anno. La sua pubblicazione in Spagna coincide con la prima traduzione delle sue prose intitolate “Letture facoltative”, una selezione di vivaci ‘recensioni’ pubblicate, durante gli anni, sui quotidiani in una apposita sezione. Lì, in un paio di pagine, la Szymborska commentava Jung e Montaigne, ma anche testi sul giardinaggio, sull’ornitologia e sulle decorazioni. Il risultato è incanto allo stato puro. Per esempio, a proposito del “Poema del Cid” scrive: “ Fu scritto da un Balzac medievale. La guerra è per lui, prima di tutto, una impresa finanziaria. Dato che la guerra è costosa, deve essere anche redditizia. La testa del cavaliere, anche se qualcuno la tagliava, era sempre piena di calcoli”. Recensendo un manuale di ideogrammi cinesi invece annota : “ C’è un segno, è naturale, per Sposa e un altro per Amante. Sposa è donna più scopa; Amante donna più flauto. Non so se esiste un segno per esprimere l’ideale che ci inculcano tutte le riviste femminili europee: una sintesi di scopa e di flauto.”
Quando la Szymborska vinse il Premio Nobel nel 1996, c’era appena un piccolo gruppo di sue poesie tradotte dallo spagnolo e presenti in una antologia collettiva. Oggi la sua opera poetica è stata tradotta integralmente.
Sono le 11 della mattina e su un tavolo ci sono caffé, biscotti e cioccolatini. Lei aggiunge una bottiglia di cognac che apre per l’occasione. Prima di versarsene un bicchiere, lo serve agli altri: Abel Murcia,
traduttore dei suoi libri dallo spagnolo, direttore dell’Istituto Cervantes di Cracovia e interprete durante la chiacchierata, il fotografo, venuto da Varsavia ed il giornalista. Mentre prendiamo il primo caffé c’è anche Michal Rusinek, segretario della Szymborska e traduttore: “Sarà proprio lui Michal, con tutto quello che scrive e con quel vulcano di idee che ha in testa, ad aver bisogno tra poco di una segretaria. Forse potrebbe contattarmi” scherza la scrittrice. Lui risponde aggrottando le ciglia:“ Non so se mi conviene”.
Rusinek è anche quello che combatte con le mille noie che tormentano la poetessa dal giorno del Nobel “ Se il Nobel mi ha cambiato la vita? Sì, tanto. Nel bene e nel male. Nel bene, perché è moltiplicato il numero delle lettere che mi inviano, dei pacchi con libri, degli inviti, delle proposte e delle domande alle quali debbo rispondere nelle interviste”. E, sorniona, aggiunge: “Nel male, perché è moltiplicato il numero delle lettere che mi inviano, dei pacchi con libri, degli inviti, delle proposte e delle domande alle quali debbo rispondere nelle interviste. Agli inviti a viaggiare negli altri paesi rispondo sempre nello stesso modo: quando sarò più giovane”.
Alcuni giorni prima dell’appuntamento, Wislawa Szymborska aveva richiesto l’elenco degli argomenti sui quali avremmo dovuto parlare a Cracovia. Una volta giunti lì, mi spiega perché: “Anche se poi finiremo per parlare di qualsiasi cosa, così almeno posso riflettere e dirle qualcosa di coerente e sensato. Non credo di essere particolarmente brillante. Ci sono domande per le quali non ho risposta.”. Non le piacciono le foto, così cerca di distrarre il fotografo il più possibile: “ Se fosse venuto trent’anni fa… Con questa macchina fotografica mi cancellerà tutte le rughe, vero? Non potrebbe ritoccarle un po’, come fanno con Sharon Stone?” Dopo pochi minuti torna all’attacco: “ Ma lei è così alto perché non fuma? Ha fatto il servizio militare? Si rilassi un attimo, la prego, posi la macchina fotografica e si prenda un altro cognac”.
Caffè, cognac, cioccolatini. Sembra un buon momento per parlare della morte. Sulla morte senza esagerare, come dice una delle sue poesie più celebri, scritta giustapponendo emozione ad ironia, una poesia priva di ogni retorica da manuale, che sorprese il mondo quando la sua opera venne portata alla luce dall’Accademia svedese. In “Qui”, la Szymborska dice che ci sono argomenti sopra i quali deve scrivere senza dilungarsi molto “ perché il tempo stringe”.
Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska
Wisława Szymborska
Nello scrivere questo libro pensava alla morte?
Per me la vita è un’avventura con la data di scadenza. Quando andavo a scuola morì una maestra ed ebbi coscienza della morte come qualcosa di naturale. Ad 86 anni la penso allo stesso modo di quando ne avevo 8 .
E questo influisce sulla sua scrittura?
Io non scrivo sulla morte. È un argomento molto semplice da trattare scrivendo poesie. E non è vero che essa abbia un potere illimitato. Non ottiene tutto quello che vuole e quando lo vuole. È anche vero peraltro che ci sono poesie interessantissime sulla morte, ma in generale è facile scriverle perchè stuzzica sentimenti ed emozioni facili, la tenerezza e tutto il resto.
E anche l’amore è un argomento altrettanto banale?
Ah, questo ormai non è più tanto facile. E più difficile ancora è l’erotismo, che in realtà è stato toccato raramente nella poesia. Non ho mai letto una poesia che sia capace di spiegare ciò che succede fra due persone. Parlo di erotismo puro, non dell’amore come sentimento che è più facile da esprimere.
C’è più letteratura negli amori difficili.
A volte, ma ho avuto anche la grande fortuna di vivere alcuni amori ed i miei ricordi sono molto felici. Però non parliamo di me, perché tutto sta già nelle poesie.
Ci sono parola che evita, soprattutto quando scrive?
Quelle arcaiche e quelle magniloquenti. Ma ci sono anche parole che utilizzo raramente e con tanti dubbi. Quando cerco di definire qualcosa come ‘bello’, per esempio. La bellezza è un’idea relativa che dipende dalla tradizione e dalle consuetudini e, soprattutto, dai gusti personali che il lettore può anche non condividere. Per me le cattedrali romaniche sono più belle delle gotiche, le ceramiche più belle delle porcellane più raffinate e la bambola di pezza con la quale nella mia infanzia potevo parlare di qualsiasi cosa è mille volte più bella dell’orribile Barbie. Perché, a ben pensarci, di che cosa si può parlare con una Barbie? Nel migliore dei casi, di vestiti e di smalto per le unghie.
Wisława Szymborska
Wisława Szymborska
Le sue poesie parlano di grandi questioni, però sembrano fuggire dalle astrazioni.
Ogni buona poesia si trasforma sempre in qualcosa di astratto. Però ha sempre a che fare con la realtà, con la vita del poeta o degli altri. Le cose belle hanno ugualmente qualcosa di metafisico. Ma non la vedo molto convinto.
Mi riferivo a quando nella poesia ‘Metafisica’ lei parla di pasta con pancetta.
Il fatto è che tutto finisce per essere metafisico. Ma più che per le grandi questioni, la poesia si salva grazie ai piccoli dettagli. Ci sono vecchie poesie che sono sopravvissute solo grazie ad un misero dettaglio. Però ho paura di generalizzare …a proposito di dettagli ( ride)
Si serve dell’humour per poter scrivere senza paura su questioni assai serie?
È il mio modo di essere. Da bambina ho avuto sempre la tendenza a mettere sottosopra le storie per scoprirne la parte comica. Ci sono però cose che non mi suscitano interesse, né me lo hanno mai suscitato, né me lo susciteranno: l’odio, la violenza, la stupidità aggressiva.
Da bambina leggeva poesie?
No. A casa mia, c’erano solo dei libri di poesie del secolo XIX. E nessuno le leggeva. Volevo sempre scrivere romanzi lunghi. Un tempo credevo che se qualcuno aspirava a diventare scrittore doveva essere autore di romanzi di svariati tomi e di centinaia di pagine. Un giorno ho scritto una poesia, orribile, e la passai a persone che lavoravano con me nel giornale. Mi domandarono: ma tu che leggi? Era evidente che non conoscevo la poesia contemporanea. Avevo letto molta narrativa, Thomas Mann, Proust, Dostoewskij, ma sulla poesia nessuna idea. Mi dovevo senz’altro formare.
Ha appreso qualcosa scrivendo le sue “Letture facoltative”?
Le mie “Letture facoltative” non sono in realtà delle prose serie. Sono qualcosa che assomiglia a degli articoli, a volte seri, a volte divertenti, in alcune casi anche simili alla mia poesia. Sebbene, come le ho detto, ho incominciato scrivendo storie. Però questo è stato proprio dopo la guerra.
Come ricorda la guerra?
La cosa migliore è stata il fatto che sono sopravvissuta. Ricordo la fame, il freddo. Dovevo lavorare costruendo fossati nella strada. Mio padre fu perspicace: molta gente fuggì da Cracovia e se ne andò a Lvov, nell’attuale Ucraina, entrando a far parte della zona occupata dai sovietici. Sopravvissi, certo. Però ci fu anche gente che morì. Mio cugino morì nell’insurrezione di Varsavia.
Che funzione ha la poesia davanti alla crudeltà del mondo?
Il mondo è crudele, però merita anche altri aggettivi qualificativi più pietosi. Se fosse solamente crudele, la gente da molto tempo non esisterebbe più. Qui e là ci saranno macerie, cresceranno piante. Piante anonime, perché non ci sarà nessuno che darà loro un nome.
Che cosa pensa della frase di Adorno secondo la quale non si può scrivere poesia dopo Auschwitz? Suppongo che per una scrittrice polacca che vive a 70 chilometri da questo campo di concentramento la frase abbia un significato speciale.
Adorno non aveva ragione e questo lo potrei confermare io stessa perché visse più di venti anni dopo la fine della guerra. In questo lasso di tempo ci furono poeti non trascurabili che scrissero poesie non trascurabili. Se quelle opere fossero state prive di senso, a che cosa sarebbero servite?
Può un poeta scrivere a proposito della storia?
Sebbene il suo desiderio di non occuparsi di storia sia molto grande, è impossibile evitarla. Ci sono poeti per i quali la storia è una fonte diretta di ispirazione. Per me da questo punto di vista, i migliori sono Kavafis e Zbigniew Herbert. Ma anche la poesia che manca di qualsiasi riferimento storica appartiene sempre alla storia, dato che utilizza un linguaggio che ricava la sua forma esatta sia dallo spazio che dal tempo in cui nasce. La poesia al di là di ogni connotazione temporale è una illusione idiota.
La politica sta massacrando il linguaggio?
Lo ha fatto sempre. Il linguaggio dei politici serve solitamente per nascondere e non per esprimere pensieri. Però non vale la pena tentare di convincere alcuni politici ad essere sinceri: può darsi che non abbiano niente da nascondere.
Ricorda il giorno in cui è caduto il muro di Berlino?
Ero a Cracovia e fu un momento meraviglioso. Quelli furono tempi indimenticabili. La gente di Solidarnosc era straordinaria. Poco dopo, però, tutto cambiò e cominciarono fatti sgradevoli, ma allora erano giovani e belli. Eravamo tutti euforici.…Bene, ma adesso le domande le faccio io? È sposato? Ha figli? Di che parte della Spagna è ?
È vero che ha studiato spagnolo?
Certo. Ero in classe con un insegnante che mi dava l’impressione di imparare a memoria quello che ci spiegava perché non ne sapeva poi molto. Appena cominciai a capire qualcosa, mi misi a leggere Cervantes con l’aiuto del dizionario. Ormai ricordo solo alcune frasi: hasta la vista. Mi sembra comunque una lingua molto bella. Un latino splendidamente corrotto.
Adesso cosa legge?
Ho letto sempre poca poesia. Non sono mai stata capace di leggere un libro di poesia da cima a fondo. E parlo di quelli buoni. Ciò che faccio è leggere una poesia e poi lasciarlo. Poi riprendo in mano il libro e così via. Come può immaginare, a volte divento insopportabile per le persone che mi hanno mandato i propri libri perché ci posso mettere anche un anno prima di comunicargli la mia opinione, ma questa è la mia maniera di leggere.
E cosa scrive?
Poiché non ho molto talento, ho bisogno di un silenzio di vari giorni: senza chiamate, senza visite. Conosco pittori che possono lavorare mentre fanno conversazione. In poesia questo è assolutamente impossibile. Pensavo che dopo aver preso il Nobel, queste abitudini si potessero modificare, ma invece non è stato così.
E i suoi collages?
Mi sono inventata queste cartoline illustrate proprio perché tutti potessero ricevere qualcosa di personale senza che io dovessi scrivere. Abbiamo terminato?
Credo proprio di sì.
Però non se ne vada senza aver finito di bere. Certamente, non mi ha domandato niente a proposito di femminismo. Invece mi chiedono sempre se sono femminista o no.
Lei è femminista?
Non voglio aver nessuna etichetta, ma in Polonia le femministe hanno moltissime ragioni e molte cose per le quali lottare: per i soldi, per i diritti che debbono avere sul proprio corpo, perché ci sono rigurgiti reazionari nella Chiesa…Sogno il momento in cui le femministe non saranno più necessarie.
È cambiata la Polonia con l’ingresso nell’Unione europea?
È passato così poco tempo che è troppo presto per dirlo. Ci sono problemi, è chiaro, perché esistono anche nei paesi più sviluppati del nostro. Qui abbiamo problemi con la Chiesa che non tiene il passo con lo sviluppo della scienza e della democrazia nella società. Ero felice il giorno in cui la Polonia è entrata nell’Unione europea. Ero sola in casa e non c’era nessuno con cui brindare al futuro. Per questo mi preparai un bicchiere di cognac e passai davanti a tutte le fotografie delle persone amate che ho in casa e che non sono giunte a vedere questo giorno.
LA POESIA di Helle Busacca – “I quanti del suicidio” (1972) “II Vedo i torturatori” Commento critico impolitico di Giorgio Linguaglossa
Helle Busacca I quanti del suicidio Elliot, Roma, 2013, pp.330 € 18.70
Helle Busacca (1915-1996) nasce in una famiglia agiata di San Piero Patti, in provincia di Messina, dopo aver trascorso parte della sua giovinezza nel paese natale, Helle si trasferisce a Bergamo e successivamente a Milano insieme ai genitori. Laureata in Lettere Classiche presso la Regia Università meneghina negli anni seguenti è insegnante di lettere in diversi licei spostandosi negli anni di città in città: Varese, Pavia, Milano, Napoli, Siena e, infine, Firenze, dove muore il 15 gennaio 1996. Le sue carte (che contengono corrispondenza, bozze e prime stesure di opere pubblicate, nonché numerosi manoscritti inediti) sono conservate in un Fondo speciale presso l’Archivio di Stato di Firenze.
opera di Giuseppe Pedota
Mi è stato chiesto di spiegare in modo più semplice perché Helle Busacca sia una poetessa così importante per la storia della poesia del tardo Novecento italiano. Qual è la peculiarità della sua poesia, quel disco di polivinile della sua poesia rispetto alla poesia degli anni Settanta. Tenterò di rispondere. Ciò che salta agli occhi a distanza di più di quaranta anni dalla pubblicazione de I quanti del suicidio (1972) è la completa estraneità del suo linguaggio poetico rispetto ai linguaggi che erano moneta corrente in quegli anni. Partirò dalla constatazione più semplice e immediata: il «parlato» della poesia di Helle Busacca. La Busacca inventa un parlato, diciamo così, telefonico, sembra che stia davanti al telefono o al registratore, parla in modo semplice e immediato, vuole farsi capire da tutti, parla un linguaggio che ho definito «pre-tecnologico», cioè posteriore e anteriore ai linguaggi «tecnologici» che venivano usati dalla poesia dei suoi anni.
opera di Giuseppe Pedota
La poesia della Busacca si dichiara subito estranea al linguaggio della riforma montaliana inaugurata da Satura (1971), non è poesia delle occasioni desultorie del quotidiano ma di una unica occasione: la morte del fratello «aldo» uno scienziato disoccupato morto suicida. È da questo punto che lei prende l’avvio. Tutta la poesia de “I quanti del suicidio” è un interminabile e fittissimo atto d’accusa contro la codardia del suo paese che ha permesso questo suicidio, contro il «sistema Italia». Prende le distanze dai linguaggi poetici delle istituzioni letterarie, li mette semplicemente da parte, li scarta, sono roba da non poter più essere utilizzati in un linguaggio poetico che voglia andare al nodo e al centro delle questioni. Il suo è un soliloquio telefonico con un interlocutore che non è posto più nel suo tempo ma in un altro tempo, in un’altra Italia dei tempi futuri. Da per scontato che non c’è più alcun ponte linguistico che unisca la sua poesia a quella che si faceva nel suo tempo: non ha nulla da spartire con la cultura dello sperimentalismo, non ha nulla da spartire con la poesia degli oggetti (ne “I quanti” c’è un solo oggetto: la morte per suicidio del fratello «aldo»), non ha nulla da spartire con la poesia dello scetticismo, del disimpegno e del disagio di fronte agli oggetti che si faceva a Roma (due nomi per tutti: Patrizia Cavalli e Valentino Zeichen che proprio di li a pochi anni esordiscono con i loro libri). La poesia di Helle Busacca è sola e disarmata, e vuole gridare allo scandalo, punta l’indice accusatorio contro tutti e tutto, contro il «sistema Italia». Sta qui la sua grandezza, inventa il «parlato». E non mi sembra poco. Del resto la comunità letteraria ha fatto di tutto per metterla nel dimenticatoio. La comunità letteraria ha risposto con un riflesso condizionato: rimuovendo la sua presenza ingombrante e imbarazzante.
opera di Giuseppe Pedota
Perché è bene leggere con attenzione e lentezza la poesia de “I quanti del suicidio”. Si tratta di una lunga Sinfonia del «Lutto». È la «parola luttuosa» che fa ingresso, per la prima volta, nella poesia italiana dl Novecento (se si fa eccezione per i Canti orfici di Dino Campana del 1914). La parola luttuosa non è solo quella che nasce da un «lutto» (la morte del fratello «aldo», scritto con la minuscola) ma anche e soprattutto quella che nasce dalla impossibilità di adoperare in poesia la parola dei viventi, degli zombi viventi. Di qui nasce la straordinaria invenzione del «parlato» di Helle Busacca.
opera di Giuseppe Pedota
È il parlato che parlano i morti, i «sonnambuli spermatici», le «ombre», avrebbe detto Albert Caraco. Questa scoperta, intendo quella della «parola luttuosa» è, a mio modesto avviso, centrale per comprendere lo snodo fondamentale della poesia del tardo Novecento. Da una parte la lingua dei «vivi» (o di coloro i quali credono di essere vivi) con l’ideologia del Progresso e della adeguazione del discorso poetico alla «cosa» (la società moderna), con tutte le varianti ideologiche e stilistiche, dall’altra il discorso poetico di chi rifiuta l’ideologia della «adeguazione» del discorso poetico alla «cosa» (leggi il «reale» nelle sue svariate manifestazioni fenomeniche). Questa ideologia viene spazzata via dalla poesia di Helle Busacca con un colpo micidiale. Ecco spiegata la solitudine della sua poesia. E non poteva essere diversamente. Il colpo inferto da Helle Busacca alle poetiche del Progresso e della «adeguazione alla cosa da rappresentare» è troppo forte per essere accettato. Di qui la repulsione e la rimozione della sua poesia da parte della comunità letteraria italiana. “I quanti” sono una lunghissima, tetra, infernale interrogazione di un punto: ha senso il suicidio del fratello «aldo»? Tutto il poema non è altro che la dimostrazione che il suicidio è privo di senso perché «tutti sono colpevoli di tutto», come scrisse Dostojevski, tutti vivono sotto un sortilegio, il «totum è il totem» (Adorno), non che non vi siano colpevoli, siamo tutti colpevoli della morte del fratello «aldo».
figura di Giuseppe Pedota anni Ottanta
II
Vedo i torturatori
i cunei le bragi le catene
ma vedo anche la morte.
Vedo gli assassini con la faccia
d’uom giusto che ti pugnalano nella schiena
in un angolo della stessa casa dove nascesti
le orrende matrigne che non sono
ahimè, soltanto nei versi
antichi di virgilio e nella leggenda
di helle e di suo fratello
vedo i fastigi delle loro case
al mare alzate sullo sfacelo
delle tue ossa e dei tuoi nervi
e cementate pietra su pietra
col sangue dei tuoi poveri reni
trafitti da aghi roventi
la febbre l’esilio il digiuno
che ti fa verde come quando
ti hanno trovato con la canna
del gas serrata fra i denti
ma vedo anche la morte.
Vedo la vampa degli alti forni
ultima a essiccare quel poco sangue
che ti rimane quando già
dice silvio eri pallido come un morto
e dice rossana che si leggeva
nei tuoi occhi che avevi tanto sofferto
e che eri già lontana e senza ritorno
anche mentre le offrivi le ciliegie
vedo la danza ubriaca
delle serpi che s’intorcigliano sopra il tuo petto
d’uomo, sui tuoi occhi che giovanna
dice meravigliosi, sul tuo sorriso
che alfredo duce magico, sulla tua fronte
splendida di tutti i numeri dell’universo
Dicevi, tu, mi ricordo,
«quando ho veduto le piramidi
in egitto e i templi
di atene, mi sono chiesto:
ma dove sono coloro
che pure eressero tutto questo…
Ed è che li hanno assassinati
erano troppo grandi per la canea
erano un troppo colossale scorno
per ciò che grufola e vermina…»
Vedo i briganti del commercio
avvezzi a scorticare un pidocchio
per farne una pelle, che ti licenziano
in tronco e contro la legge
quando domandi un congedo
di due mesi per curarti in clinica la tua nevrosi
le femmine racimolate dalle stamberghe
in cui vendevano, di giorno,
maglieria al minuto, recando in dote
niente vestaglie e due sottovesti,
paludate in pelliccia di diamant-visone
e lontra persiano-perla, che con un gesto
spagnolo alla figlia di primo letto
regalano un soprabito di castoro,
dono al padre di quel «furfante» di mio fratello,
«e per quando vai al mercato a fare la spesa»
opera di Giuseppe Pedota
e che a piene mani profondano
biglietti da diecimila per il caro gatto
siamese che sta crepando, «affettuosa e inerme
creatura che non sa parlare né può difendersi
dottore, non può far altro?»
le lacrime
orride sul ghigno orrido della bestia
ma vedo anche la morte.
Vedo anche la morte. E se uno
le va incontro come tu hai fatto,
come era ed è diverso,
o tu che ho nel cuore bambino,
fratello, quando giocavi
col cerchio, nel giardino, sotto gli alti pioppi,
i riccioli d’oro e gli occhi
già troppo interroganti e fiduciosi
mentre io già cercavo sulle ardue pagine
quello che ora mi segni a dito,
fatto tanto più grande,
tu, che eri dei nostri, di noi.
opera di Giuseppe Pedota
Noi, gli esseri umani.
C’è anche
la morte.
Non la feroce
che ci strappa quelli che amiamo
ci nega questo inutile sole
ma quella che offre un asilo
dagli assassini, dai mostri
lei sola come era nostra madre
di cui mi dicesti fra i singhiozzi
in uno dei tuoi ultimi giorni:
«CREDI CHE SE CI FOSSE
NOSTRA MADRE, SAREI
RIDOTTO COSI’?»
ed ha sentito,
la madre, la morte, ed è accorsa.
Vieni, aldo, vieni, aldo. E che le carogne
imputridiscano con le carogne,
che hai a fare con esse?
E alla voce
tu hai aperto le braccia, in un volo.
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