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APPUNTI PER UNA FONDAZIONE  DEI CONCETTI di RAPPRESENTAZIONE e di PUNTO DI VISTA – Commento di Giorgio Linguaglossa su Las Meninas di Velazquez – Il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa – L’absentia per Foucault, costituisce il punto centrale di ogni representatio. Il Soggetto battezza il Moderno. E viceversa. Entrambi si giustificano a vicenda. Il Moderno viene legittimato dal nuovo Soggetto.  Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente, E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano, L’espressione è il volto codificato del dolore

Riflessione di Giorgio Linguaglossa

“Las Meninas” di Velazquez – “Il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa”

Come è noto, la lettura di Foucault del quadro Las Meninas (1656) di Vélazquez si incentra sulla tesi della rappresentazione dello stesso atto della rappresentazione: «pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano: da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione».1 Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, soggetto e oggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non equivale ad una mancanza, quanto una figura che nessuna teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.

[In primo piano e in posizione centrale troviamo una giovanissima principessa: si tratta dell’Infanta Margherita Maria Teresa d’Asburgo, figlia del re Filippo IV il Grande e della sua seconda moglie Marianna d’Austria].

La principessa [Nonostante il centro fisico della scena sia occupato dal volto della bambina, che si trova sulla mediana verticale a un terzo dell’altezza del quadro, il vero fuoco del quadro non è nel quadro, ma fuori di esso]  è attorniata da figure di corte: due dame di compagnia, una delle quali nell’atto di porgerle un vasetto su un vassoio, da due nani e un cane; dietro di loro sulla destra un uomo e una donna in abito da monaca, nel ruolo di paggio e dama di corte. Tre delle figure in primo piano sembrano guardare verso di noi, spettatori di fronte alla tela e non sono le sole perché spostando lo sguardo a sinistra troviamo altri due occhi puntati nella nostra direzione. Sono quelli di Diego Velázquez medesimo che si è autoritratto nell’atto stesso di dipingere. Impugna un pennello e la tavolozza ma non ci è dato vedere cosa stia dipingendo, poiché della alta tela che gli sta davanti è curiosamente rappresentato in nostro favore non il fronte ma il retro. Sullo sfondo notiamo una porta aperta con un personaggio in piedi sulle scale: si tratta del ritratto di un personaggio che porta lo stesso cognome del pittore.

Quest’ultimo è José Nieto Velázquez,ciambellano di corte. Alla sua sinistra colpisce l’attenzione  un riquadro abbastanza luminoso da poter essere considerato uno specchio, il quale ospita il riflesso di due figure. Si tratta dei reali di Spagna, anch’essi con lo sguardo puntato verso noi spettatori. La luce entra da destra, presumibilmente da una finestra che non è stata ritratta; illumina la fascia centrale della scena e si arresta sull’alto rettangolo di legno.

Cosa sta dipingendo Velázquez? Tutto sembra suggerire che il modello del quadro debba essere ciò verso cui il suo sguardo, insieme agli sguardi di quasi tutti gli altri personaggi, è puntato e che si troverebbe nel prolungamento ideale dello spazio della scena. Il fatto che lo specchio rifletta il re e la regina, e che la sua posizione sembrerebbe frontale alla posizione del modello del quadro, lascia ragionevolmente credere che sebbene la coppia reale non sia rappresentata nello spazio pittorico,essa debba essere postulata come implicitamente presente. Alla coppia reale di Spagna non rimarrebbe altro posto che il nostro, precisamente quello che occupiamo in quanto spettatori.

L’intera scena sembrerebbe avere il suo centro fuori di sé, in uno spazio che non è stato dipinto ma che ordina a sé tutto ciò che compare in raffigurazione: spostando «il fuoco […] da ciò che il quadro effettivamente mostra a ciò che guardano i personaggi […] è come se la scena dipinta fosse una dépendance, colta in relazione al suo centro spostato» n.d.r.]

Ecco quanto ne scrive Gianfranco Bertagni: «Questa lacuna è dovuta all’assenza del re – assenza che è un artificio del pittore. Ma questo artificio cela e indica un vuoto che è invece immediato: quello del pittore e dello spettatore nell’atto di guardare o comporre il quadro. Ciò accade forse perché in questo quadro, come in ogni rappresentazione di cui, per così dire, esso costituisce l’essenza espressa, l’invisibilità profonda di ciò che è veduto partecipa dell’invisibilità di colui che vede – nonostante gli specchi, i riflessi, le imitazioni, i ritratti.

“Tutt’attorno alla scena sono disposti i segni e le forme successive della rappresentazione; ma il duplice rapporto che lega la rappresentazione al suo modello e al suo sovrano, al suo autore non meno che a colui cui ne viene fatta offerta, tale rapporto è necessariamente interrotto.

È questa lacuna, questo vuoto, oggetto di sguardi, ciò intorno a cui la rappresentazione sorge. Nel quadro si ha un principio di dispersione, in modo che per chi osserva sia innestato in un gioco di rimandi continuo, sfiancante, entro cui si dà la scena del quadro: lo sguardo del pittore sull’oggetto della rappresentazione, la piccola principessa colta nel momento in cui sembra stornare gli occhi dalla coppia reale, la governante che riserva invece tutta la sua attenzione alla piccola principessa, e dietro le due figure di un uomo e di una donna, l’uno con sguardo”1   compiaciuto ma quasi cancellato, l’altra che sembra in atto di rivolgerli parola distraendosi da quel che  accade.

 

Più avanti una coppia di nani, anche in questo caso, come nota Foucault, uno dei due guarda la coppia regale mentre l’altro svia lo sguardo affaccendato in altro. Sulla sinistra invece, ecco parte della scena che il pittore va dipingendo, al confine fra la tela, di cui vediamo il telaio, e il presunto oggetto della rappresentazione, ci sono i due regali. Nello specchio s’incornicia l’immagine riflessa dell’assenza, di quanto resta invisibile allo spettatore e di cui, in verità, non si può dedurre la natura di riflesso: se sia cioè immagine del dipinto o immagine diretta della coppia regale che giace in posa dietro la tela. E infine sul fondale, dietro una porta, appare una figura vestita di nero, che sembra di passaggio, ferma sulla soglia, come se fosse emersa da altrove. Resta lì, immobile, assumendo la posa di uno sguardo che si dispiega su tutta la scena a mo’ di osservatore distratto ma incuriosito. È lì, forse, che si raccoglie, magari non nelle intenzioni del pittore, la dimensione visiva della rappresentazione, quanto insomma oltre a dare profondità al dipinto sembra alludere a una sorta di mise en abîme.

In questo ordito di sguardi, in questa trama di ottiche, nella visibilità della vista entro cui si

descrive la traiettoria di ciò che Foucault definirà come la nascita della rappresentazione nell’epoca

classica, resta impresso il marchio di un’assenza».2

Las Meninas si configura, in tal modo, come una scena ingegnosamente architettata per indicare la centralità di una mancanza. L’absentia segnala dunque, in Foucault, il punto centrale di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo cerchio il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore non può osservare se stesso ma soltanto il suo simulacro o la sua immagine riflessa nello specchio che in Las Meninas sostituisce il fuoco della composizione. Il Soggetto adesso può assurgere a momento centrale della rappresentazione soltanto uscendo dalla rappresentazione stessa e ponendosi al di fuori di essa. Il Soggetto battezza il Moderno. E viceversa. Entrambi si giustificano a vicenda. La legittimità del Moderno viene legittimata dal nuovo Soggetto riflettente.

L’«ente» si qualifica come prospettivistico, dotato di una molteplicità di punti di vista di cui soltanto uno è quello che può fornire la legittimazione all’ente. «Nell’affermare il “carattere prospettivistico dell’ente” Nietzsche non farebbe, per Heidegger, altro che portare alla luce il “tratto fondamentale” che, da Leibniz in poi, è latente nella metafisica. Vale a dire quella “costituzione prospettivistica dell’ente che trae origine dalla perceptio e dall’appetitus, dall’impulso a “rappresentare” (vorstellen) l’intera realtà a partire da un point de vue: quella stessa pulsione che sta, nietzscheanamente, alla base della creazione del Valore come condizione di “mantenimento e accrescimento della potenza”».3

Con Cartesio la tradizionale domanda metafisica «Che cos’è l’ente?» viene sostituita dalla questione del «metodo», cioè del percorso che conduce l’uomo alla certezza al fundamentum absolutum inconcussum veritatis. Per Heidegger siamo alla svolta copernicana del pensiero filosofico dell’Occidente, facendo dell’Io, dell’Egoità (Ichheit) o Ipseità, il solo autentico subjectum, Descartes pone il mattone decisivo per l’età seguente che diventa una nuova età (Neuzeit), cioè l’età moderna.

Con il dispiegarsi del Moderno inoltrato, nel mezzo della crisi del pensiero tra le due guerre mondiali, si pone la definitiva scissione e frammentazione dell’Io, la cui caduta segna la fine della legittimazione dell’Egoità, e la sua definitiva deriva psicologistica. Fine del fondamento del pensiero filosofico. Fine del pensiero. E ripresa del Pensiero dalla disarmante presa d’atto della scomparsa dell’Io. Il pensiero moderno prende forza appunto da questa sua intima debolezza; da qui ha origine il relativismo e il pensiero debole da taluni vituperato e diffamato come debolezza del pensiero.

Così, la Rappresentazione odierna  segnala non solo una assenza del fuoco, delle linee di forza della visione prospettivistica, ma anche una assenza dell’Io, come dissoluzione e dis-locazione del punto di vista unico (o privilegiato) da cui ha inizio la representatio. Fine del Moderno ed inizio del Post-moderno. Fine della rappresentazione unica e privilegiata. Declassamento di tutti i punti di vista e di tutte le Rappresentazioni ad una multilateralità della visione. Il punto di vista è, aristotelicamente, una «immagine mobile dell’eternità»,  Aion auto dislocantesi, privo di legittimazione e privo di legittimità. Esso è, appunto, un punto nella dispersione implosione di tutti i punti di vista.

Il Presente è la sede dell’Esperienza. Si ha esperienza soltanto nel presente, non si può avere esperienza del Passato se non come ricordo, rammemorazione; e, si sa che il ricordo implica già una falsificazione di esso medesimo, implica una ricostruzione assiale e geodetica di esso medesimo. Quindi, si può affermare che tra Esperienza e Rappresentazione c’è sempre un campo di interazione, di conflitto, di tensione. Ed è proprio questo campo di tensione, di conflitto che l’arte e la poesia indagano. Esperienza e Rappresentazione sono i due corni dilemmatici entro i quali vive un’opera d’arte. E tra esperienza e presente c’è un nesso irresolubile, non si dà l’uno senza l’altro. Ma allora il piano di indagine si sposta: si dà presente soltanto nello spazio, in un luogo preciso dello spazio. A rigore, quando c’è il presente, l’esperienza è già nel passato, è corsa via, inghiottita nel buco nero del passato.

L’esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici”.4 Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.5

Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

L’espressione è il volto codificato del dolore.   Continua a leggere

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Il filosofo Vincenzo Vitiello sull’etica dello spazio; Il nesso dello spazio con il tempo; Quando sorge un nuovo linguaggio poetico?; Lo spazio, il tempo e la memoria; Noi, chi siamo?Una poesia di Donatella Giancaspero

Gif volto bianco con macchia rossa

noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo

Vincenzo Vitiello scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).

Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?

Vincenzo Vitiello: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.

[ Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente? ]

Vincenzo Vitiello: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.

Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.

Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.

Gif Treno

Quando sorge un nuovo linguaggio poetico?

[ Quando sorge un nuovo linguaggio poetico? Ecco due versi del poeta Tomas Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

In questa immagine a solenoide del poeta svedese abbiamo la rappresentazione a-prospettica di UNA temporalità, una temporalità che, per paradosso, ha bisogno di riferimenti spaziali e simbolici per poter essere avvertita e rappresentata. Anzi, il simbolo è il nesso (concretamente linguistico) che unifica la dimensione temporale e quella spaziale. E qui si cela il paradosso del tempo. Il tempo, nella cognizione ontologica che l’uomo ne ha nella sua vita quotidiana, non è portato da una dimensione temporale ma da una Esperienza che ha abitato la dimensione temporale. Il paradosso è tutto qui: noi percepiamo lo scorrere del tempo e la distanza temporale non mediante la dimensione temporale che, di per sé, è vuota, ma attraverso le esperienze che hanno abitato la dimensione temporale. Nella dimensione del linguaggio poetico di Tranströmer, ad esempio, il simbolo si dà in una o più immagini concatenate che, tutte insieme, concorrono a modellizzare linguisticamente il tempo. Ed il tempo diventa «interno», si internalizza, prende ad abitare le immagini. Nella poesia sottostante di Donatella Giancaspero abbiamo uno «stato di cose» (Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde) che è nel tempo e nello spazio ma, paradossalmente, fuoriesce sia dal tempo che dallo spazio. Che cos’è uno «stato di cose»? Dove abita? Nel tempo? Nello spazio?, o fuori dal tempo e fuori dello spazio?

Una poesia di 

Donatella Giancaspero

Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde:
a colpo d’occhio, una scodella di corti steli marroni
piantati nel brodo di polvere.
Accanto al posacenere, l’ora di Armonia,
in attesa di salire col fumo al mentolo.

Alla fine dell’estate, un nido di vespe nel lampadario.
Un enigma al telefono.
Il problema logistico che sposta l’inizio delle lezioni.

La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano.

Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.

Vincenzo Vitiello: il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

 Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero. L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.

Prendiamo la prima parte dell’enunciato: noi abitiamo lo spazio. Non però nel senso in cui diciamo che abitiamo in una casa, in una città. Casa e città già ci sono perché noi si possa abitare in esse. Lo spazio, invece, è per l’abitare. È per l’abitare che c’è spazio. E se “abitare” dice: prendersi cura delle cose, allora è per il prendersi cura che lo spazio è. Stiamo qui capovolgendo l’argomento kantiano dell’“apriorità” dello spazio, per il quale in tanto possono esserci sopra e sotto, vicino e lontano, destra e sinistra – e cioè relazioni spaziali – in quanto c’è, c’è già, la forma pura dello spazio. Vero è che Kant muove dalla concezione dello spazio (e del tempo) elaborata dalla scienza moderna: la concezione dello spazio come contenitore universale di tutti i fenomeni esterni. È lo stare in esso che determina la spazialità degli enti, i rapporti cioè di vicinanza e lontananza, tra “su” e “giù”, “davanti” e “dietro”… Non si tratta, chiaramente, di un contenitore “inerte”, al contrario, lo spazio è forma attiva, forma formante: esso spazializza tutto quanto accoglie in sé. Sin dall’inizio Kant antepone la “forma” al “contenuto”, la relazione ai suoi termini, l’attività alla passività. Questo ci permette di dire che Kant non pone il problema del “costituirsi” di questa forma formante, del sorgere dell’esperienza dello spazio. Lo spazio c’è, c’è già, da sempre – si dice. E sia pure. Ma come accade a noi di fare esperienza dello spazio?

La domanda è ineludibile. Kant stesso inizia chiamando in causa “chi” può fare esperienza dello spazio. Soltanto un ente sensibile – risponde –, ossia un ente ricettivo e quindi “finito”, in quanto rinvia ad “altro”, a ciò da cui “riceve”. La “finitezza” dell’ente, la sua ricettività, il suo riferimento ad altro, implica la sua spazialità a priori, il suo essere già – già da sempre – nello spazio (qual forza spazializzante passiva e attiva insieme). Del tutto evidente che è dalla determinazione dello spazio che viene ricavata la determinazione dell’ente che ne fa esperienza, il “noi”, e non viceversa. Né vale replicare che l’esperienza dello spazio – e cioè la conoscenza che l’ente sensibile finito ha della sua spazialità a priori – è una ri-flessione, un ripiegamento dell’ente finito sulla propria apriorica costituzione spaziale. Non vale, perché la replica conferma l’obiezione, e cioè l’asserita presupposizione della spazialità dell’ente sensibile finito. Ma: è sufficiente la “ricettività” a definire l’ente che fa esperienza dello spazio?

Gif finestre

il linguaggio è pieno di metafore, di trasposizioni. E non è necessario evocare il linguaggio della poesia, basta avere una qualche confidenza col linguaggio popolare o dialettale. Il passaggio dallo spazio al tempo comporta altro “salto” nella continuità dell’esperienza.

Giorgio Linguaglossa: Lo spazio, il tempo e la memoria, la memoria che apre all’uomo l’esperienza della quadri dimensionalità. Scrive in proposito Giacomo Marramao: Continua a leggere

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Il Nichilismo. Dialogo Ernst Jünger Martin Heidegger – Una riflessione sul Nichilismo di Giacomo Marramao e un commento di Giorgio Linguaglossa – Letizia Leone, Due poesie sul tema del Nichilismo

 

Foto sopraelevata con treno

la «svalutazione dei valori» è diventata una «condizione normale» «Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso»

Ernst Jünger in Oltre la linea (1955) sviluppa una comprensione del nichilismo come espressione di una «svalutazione dei valori», diventata una «condizione normale», onniavvolgente e onnipresente. Per Jünger ogni contatto con l’assoluto è diventato impossibile o problematico. Lo scrittore tedesco distingue un nichilismo attivo e uno passivo, forte e debole, ma resta fedele ad una concezione del nichilismo che consente un contro movimento salvifico; Jünger pensa che sia possibile, in qualche modo, uscire fuori del nichilismo, andare «oltre» la «linea». Insomma, Jünger ha una visione ancora ottimistica del nichilismo, pensa ancora in termini di «superamento» e di «contro movimento» a partire dalla diagnosi di Nietzsche e di Dostoevskij. Jünger pensa sì, in conformità con Nietzsche, che ciò che sta per cadere deve essere lasciato cadere, anzi, aiutato a cadere, ma vede al termine di questa caduta, l’orizzonte di un cominciamento, di un «contro movimento», vede possibile l’attraversamento del nichilismo, che, insomma, la meta ultima si avvicina. Attraversare la «linea» significa giungere in una dimensione dove il nichilismo diventa una condizione normale e un aspetto normale della realtà. Dove tutto è in gioco, scrive, non si tratta di gettare ponticelli sopra l’abisso, non sono sufficienti le strategie di contenimento… Jünger raccomanda una sorta di «resistenza» che consenta, nel mezzo del nichilismo dispiegato, di trovare delle «oasi» di sopravvivenza, di libertà (la morte, l’amicizia, l’arte, l’eros) nelle quali coltivare territori di verginità della interiorità nelle quali l’individuo riesca a contenere l’avanzare del «deserto» del nichilismo. Ecco come Franco Volpi sintetizza la posizione di Jünger :

 “Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni sistematiche delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale del nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della «viaticità» del pensiero, del suo essere continuamente «in cammino» per sentieri «interrotti», del suo orientarsi su semplici «segnavia»”.

Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente
e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca

Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano,
che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere
a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano
sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti,
antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa
allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte. 1]

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.

La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa.

(Ernst Jünger)

heidegger nel bosco

Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.

 A Jünger risponde Heidegger nel 1960 correggendo il tiro e la gittata della sua riflessione sul nichilismo. Ma Heidegger pensa invece in modo più radicale il fenomeno del nichilismo che non può essere confinato in una sorta di «malattia» da cui se ne può uscire, in qualche modo, guariti dopo aver apprestato delle cure. Il filosofo tedesco pensa semplicemente che dal nichilismo non se ne esca affatto e che tutto sta nel prenderne atto. Sostare e camminare nel nichilismo, soltanto questo possiamo fare, e «soltanto un dio ci può salvare.

 Il tentativo di attraversare la linea resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza).

 In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato al di là della «linea» critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del Dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo? Se le cose stessero così, l’attraversamento della linea non dovrebbe necessariamente implicare una trasformazione del dire, e richiedere un mutato rapporto con l’essenza del linguaggio? E ancora, il suo riferimento al linguaggio non è tale da richiedere anche da parte sua un’altra caratterizzazione del linguaggio concettuale delle scienze? Se spesso ci si rappresenta questo linguaggio come nominalismo, è perché ancora si rimane irretiti nella concezione logico-grammaticale dell’essenza del linguaggio. Continua a leggere

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Questionario a cura di Giancarlo Stoccoro Otto Domande da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi edizioni, 2017 pp. 320 € 18 – con una Risposta alle Domande di Giorgio Linguaglossa con Due poesie di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017) – Una poesia di Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco Rathgeb

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Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile»

Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia   Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica,  si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha  pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Ha frequentato intorno ai vent’anni il circolo letterario comasco Acarya e sue poesie sono presenti nell’antologia Voci e immagini poetiche 3. Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge di poesie Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo. Nel 2015 esce Benché non si sappia entrambi che vivere. Nel 2015 il saggio I registi della mente (Falsopiano), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.

 

Gif scale e donna

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

Otto Domande

1| Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’ “analista selvaggio”, la cui celebre frase «non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti» ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava: «noi non scriviamo, siamo scritti»; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): «si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere»; Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: «ho scritto un solo libro ed era già scritto».

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

2| Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità «si spalanca un abisso che può travolgere» (Andrea Zanzotto).

Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan? Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?

3| «Nei sogni siamo veri poeti» (Ralph Waldo Emerson) ovvero «il poeta lavora» quando dorme (Saint-Pol-Roux). Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza), per il regista russo Andrej Tarkovskij la poesia è «una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà». Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?

4| Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in Un regno di matite, ha scritto: «Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena» e ha ammonito: «Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono».

Lei è d’accordo o ritiene che l’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca “Umdichtung” (che significa una poesia elaborata a partire da un’altra)?

5| Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile». «Un tempo ogni parola era una poesia», «un simbolo felice» (Emerson). «Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo» (Paul Valéry).

Oppure: «Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente» (John Keats).

Come nasce la sua poesia e come si sviluppa?

Quali condizioni la favoriscono?

6| «Ogni pensiero inizia con una poesia» dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa.

La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli «eterni figli» (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: La mente orientale) è più legata alla presenza di pensieri-madre, «strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino» con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione.

Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?

7| Il momento della scrittura o “l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: L’invenzione della poesia), «la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo». E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?

8| C’è un altro aspetto del rapporto tra scrittura e Es che vorrebbe affrontare?

Hanno risposto alle domande: Franco Loi, Milo De Angelis, Maria Grazia Calandrone, Donatella Bisutti, Franca Mancinelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Umberto Piersanti, Laura Liberale, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio, Alessandro Defilippi.

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Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile

Risposta a tutte le Domande di Giorgio Linguaglossa

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione.

Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso. Citando Lacan possiamo affermare che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Appunto, si ricade sempre di nuovo nel problema del linguaggio. Ma, per rispondere alla domanda di Giancarlo Stoccoro, dirò che il rapporto che lega l’essere al linguaggio è il medesimo che collega l’inconscio (che comprende anche l’Es) al linguaggio.* L’inconscio è l’indeterminato, il «campo incontraddittorio» dove tutti i relitti e i residui dei linguaggi accumulati e sedimentati oscillano e vibrano in uno stato di permanente agitazione molecolare. Non ci può essere contraddizione in quel «campo incontraddittorio» se non come collisione di molecole, di atomi, di spezzoni, di frammenti, di rappresentazioni cieche. La «nuova ontologia estetica» attribuisce grandissima importanza a quel «campo incontraddittorio» che è l’inconscio (una sorta di campo gravitazionale biologico), perché lì si trovano, nel profondo, quelle cose che Tranströmer chiama, con una splendida metafora,  «le posate d’argento»:

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

(Tomas Tranströmer)

Ad esempio, nel libro di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (Roma Progetto Cultura, 2017), è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio» (non è più il «soggetto» che è in viaggio), in una traslocazione locomozione senza tregua… È il linguaggio che si sottrae a se stesso in una traslocazione continua… Il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere in costante e continuo rinvio… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, meccanismo che crea e decrea il senso per via della stessa logica differenziale che vede nel meccanismo del rinvio la sua ragion d’essere, si serializza in una molteplicità di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… E il sogno che cos’è se non una fantasmagoria di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… Qui è il linguaggio dell’Es o dell’inconscio che parla.

[Ora i miei morti sono quelli che non ricordo (Mario Gabriele)]

giorgio linguaglossa

19 novembre 2017 alle 10:00

Lucio Mayoor Tosi mi chiama in causa, che devo dire? Dire della mia ammirazione e sorpresa per la poesia di Mario Gabriele? Lui ha fatto propria l’affermazione di Adorno secondo il quale «già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione». La poesia di Mario parte tutta da lì. E poi dalla constatazione che la poesia è altamente tossica e nociva. Direi che è il poeta italiano che sta tutto intero dalla parte della rappresentazione della «falsa coscienza» della società mediatica nella quale siamo immersi a bagnomaria ogni giorno. La sua è una poesia immersa totalmente nella «ontologia della falsa coscienza». Continua a leggere

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Adam Vaccaro, Note a margine del fare poesia e Poesie edite e inedite sul tema della autenticità – Due Domande ad Adam Vaccaro e Risposte 

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Teatro dei pupi di Acireale

Cercherò qui di riprendere alcuni dei punti per me fondanti, enucleati lungo il mio (ahimè) non breve percorso di ricerca intorno al fare poesia, oggi e non solo.
Il primo riguarda l’indefinibilità e l’interminabilità della poesia, come diceva Giuliano Gramigna. O, in versi memorabili, Roberto Sanesi: “Perché portare a termine/ quando nessuno, in giardino,/ ha mai visto il mio glicine concluso”. La bellezza, anche in poesia, oscilla dunque per me su una tensione di apertura e di interminabilità, che comporta la sospensione del senso, tanto da titolare un mio libro “La casa sospesa”. Conclusione che però rimane aperta a serie di domande, oltre che sui sensi e significati specifici di un testo, sul perché e per cosa fare poesia, oggi in particolare – se l’intento non è quello di essere moderni, postmoderni, all’avanguardia, minimalisti, arrabbiati o altro, ma semplicemente presenti. Dando cioè un contributo di conoscenza e di senso delle mille contraddizioni dell’esistente, personale e collettivo.

Domanda quest’ultima necessaria, ancor più davanti alle mille forme, più che dell’albero, della foresta della poesia contemporanea. Domanda, alla quale chi pretende di farla, credo debba dare qualche risposta.
Un glicine e ogni albero, come ogni altro singolo essere vivente, ha inscritto in sé il destino della propria morte, necessaria co-autrice della vita più ampia della specie o della foresta di cui fa parte (un mio verso di anni fa diceva: “la morte non esiste, assiste”, dando a tale termine senso non passivo, ma attivo del mondo contadino di chi assiste il fuoco).
E la foresta, come ogni altro universo, è anche intreccio di lotte tra e dentro le specie, in cui le più forti e vincenti non è detto siano le migliori o le più auspicabili. Come insegna Darwin, il risultato migliore non è sempre garantito.

Anche nella foresta della poesia, si affermano oggi malanni deleteri di supponenze, interessi familistici e di gruppi con contrapposizioni inappellabili e logiche monoteistiche di una deità che nulla deve dire o giustificare del proprio fare. La molteplicità si articola in somma di chiusure di un mondo a parte, i cui sensi e significati tendono a rimanere sospesi indefinitamente nell’alto dei cieli. Che pare rozzo e patetico interrogare da parte del Resto.

L’insieme tende a enucleare (ricordando tesi integrate nella mia ricerca di fondo dell’Adiacenza, di qualche decennio fa) due rive, una che estremizza la sua inutilità mercantile, fino a declinarla in termini assoluti e antropologici. È la riva che chiamo dell’iperdeterminazione del significante, appagata di sé o, se vogliamo, autoreferenziale e deresponsabilizzata nei confronti del lettore/fruitore. Il quale non stia a porsi domande o a porre quella domanda all’Autore. Legga, ascolti i suoni inanellati e ne tragga, se è capace, piacere e sensi. È la riva che pone l’accento sui giochi di parole o del mito moderno/lacaniano dell’Altro della lingua che parla e crea il mondo, la lingua ante rem, che precede le cose e non il contrario, che accentua una componente pur costitutiva e imprescindibile della poesia quale è la fascinazione o l’effetto di meraviglia sonora. La riva su cui siede il creator dal nulla, che come carne di Dio è, e non deve spiegare alcunché. Il senso e i significati siano perciò diafani e impalpabili, se non indecifrabili. E non meraviglia se poi molti possibili fruitori non vengano attratti dai libri e dalle letture pubbliche di poesia.
All’opposto, sull’altra riva, si apparecchia l’iperdeterminazione del significato, ornando al più di divertissements verbali la banalità o l’illusione di dire tutto, offrendo una pietanza cui nulla si può aggiungere. E che non può soddisfare la fame più acuta di cui oggi soffriamo. Della mancanza di speranza e della perdita del senso, di cui cercheremo di toccare qui qualche chiodo.

Tra le due rive, non saprei dire oggi quale prevalga. Da parte mia ricerco quella che ho denominato, con immagine utopica e paradossale, Terza riva, che tenda a coniugare complessità e transitività, adiacente alla totalità del Soggetto Scrivente e del mondo, ricca di sensi e domande sospese ma anche di risposte e aperture rispetto al contesto chiuso e senza speranza che i poteri in atto ci offrono. Contesto che si rafforza quanto più i comportamenti e il dire non mettono in comune, non creano comunità e condivisione ma solo somma fàtica di io io, in ridicola paranoica competizione – acido succo della libertà declinabile qui e ora.
È un contesto dominato dall’ideologia neoliberista e infarcito di giochi di parole (ben più micidiali di quelli di tanti aspiranti poeti) nel mare di menzogne ammannite con parole-mantra – riforme, cambiamento, crescita, civiltà, democrazia – col fine gattopardesco ed eterno del potere, della conservazione dell’esistente e di cambiare tutto per non cambiare nulla. Una costante azione lobotomica e di inebetimento politico e tecnologico, di cui sono immagine adeguata i felici imbecilli esposti dalla pubblicità.

Anche sul piano del contesto, non meraviglia se poi i più fuggono da ogni ritualità democratica, nauseati dal suo livello di falsità e corruzione. Si è parlato di catastrofe antropologica e basta vedere l’immonda tragicommedia cui stiamo assistendo rispetto agli immigrati, tra critiche xenofobe e cialtronismi buonisti che spesso (in Italia) si intrecciano con organizzazioni criminali.
Credo che la poesia non debba fuggire in un suo alveo neoparnassiano, ma ricercare energie per fare un ben altro verso, innervato in una visione libera e critica, arduo ossimoro capace di riaprire orizzonti diversi di un’utopia umana che pare irrimediabilmente uccisa dalla realtà attuale. Per questo credo in vitali segni di canto incisi tra le rughe della barbarie in atto.
E per farlo, ho auspicato anni fa l’immagine di una sua oscillazione tra stanza e strada, modalità che trovo sia nei poeti italiani che più mi interessano, sia in alcuni poeti residenti in America, che da decenni svolgono anche funzioni di promozione della poesia italiana contemporanea (vedi De Palchi, Fontanella, Valesio).

Concludendo queste brevi note, concordo con chi – come Antonio Porta – afferma(va) che la poesia è, come ogni altra attività umana, parte del mondo e non mondo a parte, che quindi è solo qui che può cercare modi e forme per essere presente, riuscendo a transitare e a muovere (come dice Alfredo De Palchi) i sensi del fruitore. Che non scappa se trova parole che, a partire dall’esperienza di chi scrive, sappiano dire e misurarsi con gli abissi comuni, con il bisogno di condivisione e di amore, di bellezza e canto, corpi (come diceva Gramigna) della fame acuta che oggi (e sempre) sentiamo, di parole capaci di fare speranza.

Settembre-ottobre 2015
Adam Vaccaro

Avevo posto tempo fa ad Adam Vaccaro due questioni sotto forma di Domande. Le ripropongo perché credo che siano in qualche modo in contatto con la problematica della «Adiacenza» tra la scrittura e la realtà propugnata da Adam:

Domanda: “Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici. Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.1]

foto-citta-macchine

.

RispostaSe il soggetto è una sorta di contenitore-adrone, l’identità è una forma di quark, e la sua carica energetica è il cuore interattivo. L’identità ha caratteri virtuali, che rischiano di condurre su un piano metafisico, nel senso che è (sempre) temporanea e provvisoria (auto)composizione delle componenti intrasoggettive, in perenne ricerca di una impossibile stabilità (intesa come identico a) e unicità. Per questo a mio avviso la metafora che forse meglio la rappresenta corrisponde a un impossibile incrocio tra casa e cosa: la prima come evidenza che resiste, la seconda come imprendibilità e ricerca inesauribile.
Per questo il testo (poetico in particolare) è ciò che può materializzare meglio questa duplicità e complessità. Per le stesse ragioni parlo di identità come dimora o casa del tempo: essa è infatti categoria che tende a collegare accumuli di esperienze coinvolgenti memoria, azioni e progetti: passato, presente e futuro. Quindi, casa come immagine di spazio e paradigma necessari all’incessante interrogazione della cosa – interrogata e interrogante – costituita dall’inafferrabile esperienza psichica del tempo.
Come nella domanda precedente, condivido dunque le varie premesse che fai, compresa quella relativa a spazio e tempo, quali nomi diversi di una stessa cosa, da cui ho sviluppato il mio percorso di ricerca, che cerco qui di sintetizzare per una minima sua intellegibilità.

La nostra mente è il software di tutto il corpo e non solo del cervello. Essa non va concepita solo come funzione dei nostri piani alti, ma come funzione di quello che la Montalcini chiama “cervello bagnato”, che implica anche tutti i fasci nervosi, conduttori dei sensi e dei loro linguaggi che la sua funzione complessa elabora in modi diversi, producendo mondi diversi nel nostro universo mentale.
È un caleidoscopio di realtà che fa la vita umana, in cui tutto è separato da una barra, ma anche congiunto attraverso scambi incessanti di lingue ed esperienze specifiche che tendono a costruire le tessere del mosaico di spaziotempo della esperienza complessiva della nostra soggettività e vita.
Nel mio tentativo di albero metodologico chiamato Adiacenza, (vedi, tra le altre, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano, 2001, o Corpi d’Amore, in La poesia e la Carne, La Vita Felice, Milano, 2009) ho ipotizzato tre modalità, diverse e interagenti, della nostra operatività mentale, rispetto alle lingue del corpo e alle corrispondenti esperienze. Ho utilizzato (senza finalità psicologiche) le categorie freudiane, ipotizzando che ogni sistema di segni venga operato da tre fondamentali modalità chiamate Mod-Io, Mod-Es e Mod-Superìo, corrispondenti rispettivamente a tre aree mentali:

area analitica, con utilizzo metaforico, astratto, strumentale e descrittivo;
area affettivo-corporale, con utilizzo totalizzante, metonimico, materialistico;
area etica, con utilizzo volto a un fine, qualunque esso sia, dato dalla visione di idee e dal sistema di valori/disvalori scelto.
.
Tali aree tendono rispettivamente a produrre un alone ideologico, della Verità, del Testo, o del Valore. Dando a ideologia l’accezione di falsa coscienza o totalizzazione di una parte rispetto al resto (cfr, K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca Opere complete, V, Roma 1972).
Un esempio delle operatività diverse del nostro universo mentale è dato proprio dalla categoria tempo. L’Io opera nel presente e la percepisce come astratta e lineare, il Superìo la proietta nel futuro, e per l’Es è un tempofermo o circolare, sempre presente e sempre passato. Anche tra queste aree ci sono barre che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la loro (e la nostra) distruzione. È il senso del limite e del mito di Orfeo. Ma sono altrettanto necessari all’ecologia della mente, attimi di interruzione delle separatezze consuete. Ho chiamato tali attimi di tempo mentale, in cui tempo lineare e tempo fermo-circolare si combinano e si superano facendo pensare a una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA.
La ragione profonda della poesia sta nella necessità vitale di offrire attimi di tempo mentale. Per la stessa ragione, la critica di ogni totalizzazione ideologica è necessaria, non solo e non tanto per una speculazione concettuale, quanto per recuperare vita e salute.

Il corpo vivente si esprime nelle dinamiche fenomenologiche tra totalità e molteplicità in una condizione normale che fa dire a Paul Klee: “La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana… L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. E che fa dire a Umberto Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, “in quel patire (páthos) che si fa parola (loghia)” di chi prova ad abitare “la profondità dell’abisso (Ab-grund)”, “la dimensione frantumata dell’essere”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione alta e forte di questa lacerazione”.

(U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano, 2005)?

Se tutto ciò è vero e, come dice “Jaspers: La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità”, credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme: il piacere della prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità ha qui un senso fenomenologico, “significa che in esso riusciamo a vivere”. Verità, dunque, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Adiacenza, quindi, quale nome di tali momenti necessari alla continuità della vita – entro un processo fenomenologico, in cui ad esempio Antonio Porta distingueva con Luciano Anceschi tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza…che però non è definitivo come la verità”, quale spesso intesa dall’Io.

Abbiamo perso l’ingenuità, ma di questo dobbiamo farne momento di vita e di forza, non di resa alla perdita di senso. Le barre e le barriere tra le diversità e le separatezze sono dati delle realtà intra e intersoggettive, ma l’arte e la poesia più grandi ci aiutano a vivere momenti – precari e fragili come gli orgasmi d’amore – in cui la gioia esplode perché quelle paratie sono state rotte e l’Io non è più solo nei suoi deliri di onnipotenza, ma condivide con l’Altro (interno ed esterno) attimi di infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella che Platone nel Timeo chiama “immagine mobile dell’eternità”.
È l’utopia concreta donata, qui e ora, da ogni processo creativo o d’amore. Innervato in un percorso accidentato, quale è ogni percorso di comunicazione. Cioè capace di mettere in comune, e che, come diceva ancora A. Porta, “non è un piroscafo di linea”.
.

Domanda: Oggi siamo tutti gettati nella “Perdita”. Il mondo globale ha questa ricchezza, questa possibilità: che noi stiamo in mezzo ad un mondo irriconoscibile, vario, dispari, incredibilmente ricco e complesso. Un mondo senza Dio, è stato detto. E per fortuna, aggiungo io, perché ci si è dispiegato un mondo che non immaginavamo. Nuove sfide sono davanti all’umanità, nuove possibilità si aprono. Heidegger ha chiamato questa condizione «l’Oblio dell’essere», che significa questo allontanamento di noi da noi stessi. E questo allontanamento è il nostro stesso Progetto, un Progetto, la «Tecnica», che contiene al suo centro una Perdita. Allora, Perdita dell’Origine (Ursprung) e Spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

Voglio dire che oggi abbiamo bisogno di un’arte che ci dia la rappresentazione di questa frammentazione («fragmentation», secondo la dizione di Salman Rushdie); abbiamo bisogno di un’arte che ci consegni e ci riconcili con questa diversità-disparità. Che incontri l’Estraneo. Chi è l’Estraneo? L’Estraneo è la Maschera con cui ci si presenta il Diverso, il dispari, ciò che non comprendiamo e che non ci aspettavamo. «Aspettare», significa porsi nella dimensione dell’accettare, dell’accogliere ciò che ci si presenta come Estraneo. E questo compito è un compito precipuo dell’arte. L’arte, la poesia devono porsi nella posizione dell’accoglimento della diversità e dell’Estraneo. La «maschera» è il modo con il quale si presenta a noi l’Estraneo.

1] Giacomo Marramao Minima temporalia luca sossella editore 2005, p.

Poesie di Adam Vaccaro

SIGNOREMIE

Oh quante volte fare per altre vie la stessa strada
cercando nel passato una strada
dal presente al futuro
                                            Ti ricordi miasignora
che gare di baci carsi
scintille arse e perse nel vento
le cosce tenute come portafogli ricolmi
intenti a non lapidare quel capitale
di sogni e miracoloso nel ventre

Ti ricordi               miasignora
il cammino fatto per cercare quel punto
fatto sempre di punti dell’intento
di ricominciare daccapo

e che fatica disperazione e premio
                                    prima e dopo quel punto

                 Che signora era allora Milano
                 calda e coicapelli nel vento
                 una barca alla ricerca del largo
                schiaffeggiata dall’acque e baciucchiata dal sole
                dopo i massacri recenti della guerra più oscena
                tra buchi nel ventre topi sommersi volti riemersi

                                                   Entrare in un bar – allora – era come
                                                   cucciarsi in un angolo curvo dell’arca
                                                   ruotando gli occhi e quel bicchiere
                                                   s’una voce giurando riflessa

Stavo con te scorrevamo nel sogno
    i sogni belli del dormiveglia in
      quell’alba rosata del dopoguerra
          ch’aiutava certo a danzare sul mare
              cupo di fame e di attese gonfiate
                  così poveri e ricchi così poveri e ricchi
come noi su questo letto

Sett. ’97
(Da La casa sospesa, Joker, Novi L. 2003 e da La piuma e l’artiglio, Editoria & Spettacolo, Roma 2006)

IM/POTENZE

c’è una tempesta che non cessa
e nei bar girano relitti
la faccia del male è
in un ragazzo di ventanni
che ha già visto tutto il vuoto
nel passato e nel futuro
                                           sapessi che male dice
                                           dammi mille lire
di cosa mi occupo         di arte
                                           della sopravvivenza

Febbr. ‘98

(In La casa sospesa, Joker Ed., Novi L., 2003; poi in La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006)

Adam Vaccaro 2013

Adam Vaccaro 2013 Firenze

(Quintocortile

Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente

per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre

fumavano salsicce e bandiere rosse
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa

Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri

Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo

2004
(In Seeds, Chelsea Ed., New York 2014)

.

(Clitennestra

In cerca di semi piccoli e testardi
si muove intenta e cauta Clitennestra: io
che ho dato la vita e poi la morte
sono qui tra questi mucchi di rifiuti
                                                                   travolta
dall’odio che ribolliva prima
di uccidere Agamennone e
quali semi di vita troverò qui
per altri solo un’isola di morte?
                                                                   Qui
ai bordi della città che ancora dorme
oltre questa discarica di orme e silenzi
fino a quando scoppierà il frastuono
di centomila cavalli di lamiera.
                                                                    Io
che per malfusso caso presi il nome
di un’assassina ho ucciso un’ora fa
chi ha fatto di me una regina
di questo viale quasi vallo o
                                                                  fessura
che accostella inviti e luci di latte verso
il ventre-città. Io regina tradotta dalle
montagne aspre d’Albania e poi ridotta
a discarica di misere colline di piacere.
                                                                   Lui
che altro Agamennone si disse ed erede
quando con un inchino apprese il mio
che sorridendo disse vedi che sono
sarò sempre il tuo re.
                                                                   Lui
che scivolando con me da quelle
montagne di fame a questi sommersi
viali di pizze stracci fumi e giarrettiere
non poteva sapere l’odio feroce
                                                                 l’odio
che divampava in me come le fiamme di quel
lanciafiamme visto al cinema mentre
lui con una mano nella cosa tra le cosce
mi sussurrava all’orecchio
                                                                sai
regginadicazzi che quel figlio di nessuno
te l’ho venduto…e uno sghignazzo senza
sorrisi e inchini gli squarciava il petto
che a me sbranava la gola che ora
in mezzo a questo pattume respira

2001
(In La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006 e in Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014)

.
Poesia di pietra

Milano è poco più di niente, pensa
il distratto che corre con le cuffie
sulla sua capacità di sentire. Poi
senza più fiato si accascia
in questo slargo di sassi
con la montagna di guglie bianche
che lo guarda. E qualcosa si accende
s’illumina anche in lui l’immagine
di una poesia di pietra
lanciata a meraviglia del cielo
alla sua così oscena e plateale
indifferenza
febbraio 2015

(Inedita)

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Werner Aspenström (1918-1997) SEI POESIE. VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Traduzione di Enrico Tiozzo da Antologia di poeti svedesi contemporanei Edizioni Bi.Bo., 1992, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»?  E come si fa ad entrare dentro la «cosa»? Le «cose» ci si presentano nella loro nuda «cosalità»

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foto di gunnar-smoliansky-1976 [Le lampade hanno la stessa forma dei caschi.
Illuminano crudelmente i tavolini]

[Werner Aspenström è nato nel 1918, un piccolo villaggio della Svezia del Nord ed è morto nel 1997. Dopo studi irregolari e lavori saltuari, fra cui quello del boscaiolo, Aspenström ottiene la licenza liceale come privatista a Stoccolma nel 1940 e, nello stesso tempo, entra in contatto con l’ambiente letterario della capitale svedese e stringe amicizia con poeti come Karl Vennberg ed Erik Lindegren e con loro fonda la rivista “40-tal” (Anni Quaranta) caratterizzata da un vigile pessimismo e da un crescente senso di angoscia per i futuri destini dell’umanità. Nel 1943 esce Preparazione,  nel 1946 Il grido e il silenzio e nel 1949 Leggenda innevata di tono simbolista ed ermetico, che suscitarono qualche discussione nell’ambiente letterario svedese per l’oscurità enigmatica di certi passaggi. Nelle raccolte successive degli anni Cinquanta e Sessanta Aspenström ha continuato a muoversi fra i poli opposti di un senso disperato di impotenza e paura, tipico delle prime liriche, e di una tendenza all’idillio rasserenatore, percepibile soprattutto nella descrizione di momenti magici a contatto della natura. Negli anni Ottanta pubblica Presto una mattina (1976-1989) e Sussurro nel 1983.]

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il «tempo interno» in Poesia; Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»?  E come si fa ad entrare dentro la «cosa»?

Proviamo ad avvicinarci ad una idea inconsueta, alla idea di far diventare gli «oggetti», «cose». Forse siamo troppo adulti, troppo abituati a considerare le «cose» gli equivalenti degli «oggetti» che non sappiamo più la differenza tra gli «oggetti», e le «cose». Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»?  E come si fa ad entrare all’interno della «cosa»? Come si fa ad adoperare una «cosa»? Ma, una «cosa» si può adoperare? Quando è che una «cosa» diventa un evento esteticamente tracciabile? Che rapporto c’è tra un «evento» e una «cosa»? – Ecco, io direi che la poesia italiana ha trascurato da sempre questo piccolo problema: quando gli oggetti cessano di essere «oggetti» e diventano «cose». È soltanto a quel punto che può sorgere una tracciabilità per la poesia. Io la metterei così: la «cosa» è un oggetto simbolico che ha iniziato ad irradiare segnali significativi. Ad un certo punto avviene che un «oggetto» è muto per il linguaggio ordinario ma non per il linguaggio simbolico per eccellenza quale è il linguaggio poetico, e comincia a «parlare». E questo suo «parlare» è il discorso poetico. Un «oggetto» diventa «cosa» quando viene dotato di temporalità. Voglio dire che, fino ad un certo punto, gli oggetti di tutti i giorni non hanno ancora acquisito una propria temporalità ma convivono con noi e in mezzo a noi nella confusione della dimensione della confusione, dell’inautenticità, nella temporalità del presente; ad un certo punto della loro condizione di esistenza gli «oggetti» restano muti, non emettono segnali simbolici significativi, almeno fino a quando vengono, per una ragione o per l’altra, dismessi. E allora diventano oggetti simbolici, dotati di una propria temporalità significativa. Soltanto a questo punto possono fare ingresso nel linguaggio poetico. Leggiamo tre versi di Aspenström:

Il frutto che cade si ferma a metà strada
tra ramo e erba e chiede:
Dove sono?

L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante, fatto di quel solido nulla che è il soggetto degli oggetti.

C’è una bella differenza: le «cose» sono fatte di «tempo» mentre gli «oggetti» sono fatti di tempo di lavoro. Ad esempio: C’è una differenza abissale tra una poesia fatta di «oggetti» e una poesia fatta di «cose». Capisco di riuscire un po’ metafisico e misterioso, ma qui si cela una evidenza importante che vorrei esplicitare. Per farla breve, dirò che una poesia fatta di oggetti la si dimentica nel giro di qualche anno o di qualche generazione, la poesia fatta di cose invece resiste al tempo, non si cancella. Come mai avviene questo? La risposta la dobbiamo cercare nell’ingresso del Fattore tempo all’interno della «cosa», e quando io dico «tempo» intendo qualcosa di difficilmente definibile, qualcosa che riguarda tutto ciò che c’è nel creato e in noi. Come diceva Agostino se nessuno me lo chiede so benissimo che cos’è il tempo, ma se qualcuno me lo chiede, allora non lo so più. Appunto, il paradosso del tempo è questo; che noi pensiamo intuitivamente, dando credito al senso comune, di sapere che cos’è il tempo, ma in realtà non sappiamo nulla di esso, siamo ancora al livello dei trogloditi.

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foto di gunnar-smoliansky-1976 [Per me qualche volta il tempo esiste, qualche volta no]

Per semplificare, dirò una evidenza: che la Lingua e la Parola sono entità fatte di Tempo. Non soltanto il Tempo le penetra dall’esterno, ma direi che le penetra anche dall’interno, ma anche e soprattutto che il Tempo è la cosa stessa, che non c’è cosa nel nostro universo che non sia «tempo» irrelato. Ma, dicendo questo mi rendo conto che ho proferito una tesi estrema, che dovrebbe avere il supporto della scienza e del pensiero filosofico, ma tant’è, lo scrivo egualmente, in modo ingenuo, nella speranza che qualcuno che ne sa più di me voglia tentare di spiegare questa «evenienza»… Da questo punto di vista, l’idea anceschiana di una «poesia degli oggetti» è destituita di fondamento filosofico. In realtà, nella migliore poesia moderna sono le «cose» che si palesano nella loro «cosalità»; una «poesia degli oggetti» è un non senso filosofico, è una sciocchezza filosofica. La poesia abita le «cose», non conosce gli «oggetti». La «metafora tridimensionale» di Mandel’štam tratta di «cose», non di «oggetti», e così la poesia di Aspenström. Il «laboratorio di impagliatura» degli oggetti dei simbolisti viene da Mandel’štam sostituito con le «cose» vere, con le «suppellettili» con cui ha a che fare l’uomo nella sua vita quotidiana di tutti i giorni. Gli «oggetti» sono quelle entità di cui sono piene le nostre vite quotidiane, ma la poesia rigetta gli «oggetti», è loro estranea; o meglio, li ricrea e li sostituisce con le «cose». Soltanto le «cose» possono abitare il discorso poetico. La poesia è irrimediabilmente nemica della civiltà degli oggetti del capitalismo inoltrato.

Ma che cos’è questo «secondo tempo», non più parametro (come nella meccanica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica che Prigogine chiama «tempo interno»? È singolare che per spiegare questo concetto scientifico così singolare Prigogine ricorra a una vera e propria riabilitazione ontologica della percezione immediata quando afferma che «è essa a renderci consapevoli dell’esistenza nella nostra stessa vita, di una freccia del tempo […] La giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha finora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio».1

Quando gli «oggetti» sono saturi di tempo, allora vuol dire che sono diventati delle «cose».

Per caso oggi ho aperto una antologia di Poeti svedesi contemporanei nella traduzione di Enrico Tiozzo del 1992. Guardate il modo con cui il poeta svedese tratta gli «oggetti», qui non c’è alcuna topologia utilitaristica. Ecco come gli «oggetti» non più utilizzati ridiventano «cose» misteriose. Un semplicissimo «momento in pizzeria», una esperienza quotidiana e irrisoria, diventa epifania di una diversa collocazione delle «cose» nel mondo e nel «tempo». Attenzione, qui non si tratta di epifania estatica alla maniera dei primi simbolisti europei, di Ungaretti, per intenderci, che sta in posizione estatica in attesa dell’epifania, qui si tratta di una nuova e diversa collocazione del nostro essere nell’universo e nel tempo. Le «cose» ci si presentano nella loro nuda «cosalità». Le «cose» sono frammenti del mondo e del «tempo» e la cosalità è quell’alone che avvolge le cose come la carta stagnola avvolge i regali delle persone care.

Ecco un modo di fare poesia veramente moderna con le «cose» e il «tempo».

1 Marramao Giacomo, Minima temporalia, luca sossella editore, 2005, p. 20 Continua a leggere

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POESIE PER LA MEMORIA – Perché la Memoria? Perché la Poesia? Perché l’Olocausto?  I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini – La poesia è memoria dell’umanità – Con un Appunto di Giacomo Marramao – Poesie di  Katarina Frostenson, Guido Galdini, Joyce Lussu, Francesca Dono,  Mariella Colonna, Giuseppina Di Leo (Parte terza)

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(Parte terza)

Cita il vocabolario Treccani:

Olocausto. Forma di sacrificio praticata nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui la vittima veniva interamente bruciata. Presso gli Ebrei l’ōlāh, istituito, secondo la tradizione, da Mosè, rappresentava la più completa espressione del culto offerto a Dio e consisteva nel bruciare interamente la vittima sull’altare dopo l’immolazione (perciò il termine ebraico fu tradotto nella Settanta con ὁλοκαύτωσις o e nella Vulgata con holocaustum), senza riservarne alcune parti per usi rituali, e dopo averne versato il sangue attorno all’altare stesso. La vittima poteva essere il toro o il vitello, l’agnello o il montone, il capretto o il capro, sempre di sesso maschile, e tra gli uccelli, la tortora e il colombo, e doveva restare sull’altare tutta la notte, fino alla mattina.

Nell’antica religione greca l’O. si distingue nettamente dal tipo comune del sacrificio offerto agli dei, fondandosi sulla norma particolare che escludeva la partecipazione del sacrificante alla consumazione della vittima, per preservarlo dal contatto con il destinatario del sacrificio.

Con il termine Olocausto, si indica la persecuzione e lo sterminio totale degli Ebrei da parte del regime nazista (➔ shoah).

Sacrificio. Atto rituale attraverso il quale si dedica un oggetto o un animale o un essere umano a un’entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana, come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio. 1. Generalità Il sacrificio è di centrale importanza nella maggior parte delle religioni; … culto. In generale, la manifestazione del sentimento con cui l’uomo, riconoscendo l’eccellenza di un altro essere, lo onora. Si distingue in culto profano e culto religioso. Quest’ultimo è il più comune e include le nozioni di manifestazione esterna del sentimento religioso, adorazione del divino e relazione…

Mosè (ebr. Mōsheh) Nella Bibbia, liberatore del popolo d’Israele dall’Egitto e suo legislatore nel deserto. Secondo il racconto dell’Esodo, nacque dalla stirpe di Levi, mentre gli Ebrei in Egitto erano perseguitati. Sua madre, invece di farlo gettare nel fiume secondo i decreti della persecuzione, lo … Shoah Termine ebraico («tempesta devastante», dalla Bibbia, per es. Isaia 47, 11) col quale si suole indicare lo sterminio del popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale; è vocabolo preferito a olocausto in quanto non richiama, come quest’ultimo, l’idea di un sacrificio inevitabile.  

Olocàusto s. m. e agg. [dal lat. tardo holocaustum (holocaustus come agg.), gr. tardo  λόκαυστον  (sinon. del più com. ὁλοκαύτωμα), neutro sostantivato dell’agg. ὁλόκαυστος «bruciato interamente», comp. di ὅλος «tutto, intero» e καίω «bruciare»].

Giacomo Marramao

«Non credo vi sia contraddizione, ma al contrario produttiva ambiguità, nel corpo di queste Tesi, tra l’enfasi sulla Jetzeit [ n.d.r. di W. Benjamin Tesi di filosofia della storia, 1940]- sull'”adesso” o “tempo-ora” come rottura del continuum entropico del Progresso, della “meretrice ‘C’era una volta’ nel bordello dello storicismo” -e la “rappresentazione (Darstellung)  del passato”. Occorre allora intendersi una volta per tutte sul significato benjaminiano di rappresentazione. Essa non ha più valore metodologico, e neppure meramente teorico, ma soprattutto etico-pratico nel “tempo della miseria”, che riceve il suo contrassegno non già dalla coppia (cara a tante palesi od occulte, “filosofie della vita”) Erlebnis-Form ma dall’endiadi Erfahrung-Armut, la Darstellung allude al punto – punto infinitesimale, margine pericolosamente minimo – in cui soltanto può darsi la sutura tra riappropriazione del passato e immagine dell’umanità redenta.

“Il passato”, si legge nella seconda tesi [ di Benjamin Tesi di filosofia della storia, 1940] reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione”. Sta qui racchiuso anche il significato della “debole forza messianica” (schwache messianischeKraft) trasmessaci in dote, di cui si parla subito dopo. Essa si spiega precisamente con il fatto che il margine di convertibilità reciproca tra “diritto” del passato e “redenzione” è inesorabilmente esiguo: anzi – ancora una volta – pericolosamente minimo. Ritengo sia fortemente presente a Benjamin (a onta delle critiche tese, come quella per esempio di Jurgen Habermas, a liquidare la sua riflessione come “gesto” estetizzante la consapevolezza che la tendenza infuturante del tempo storico progressivo, la cui prospettiva volge al futuro la fronte ( e non le spalle, come l’angelo di Klee, il cui viso è invece rivolto al passato) e trasforma la catastrofe della storia in una trionfale “catena di eventi”, rappresenti il fattore che ha espropriato gli uomini non solo del passato (ridotto a “immagine eterna”, neutralizzato in “patrimonio culturale”) ma della stessa dimensione del futuro. Benjamin avrebbe probabilmente sottoscritto la proposizione con cui Raymond Queneau apre Une historie modèle:

I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini“.

Con la differenza che per lui la via di accesso alla comprensione di questa infelicità non può essere data né da una mitopoiesi narrativa… né da un ritorno all’immagine ciclica dell’apocatastasis… bensì da una rappresentazione ipermoderna la cui chiave concettuale si trova depositata proprio nell’ultima tesi”: il fatto che la Torah vietasse agli ebrei di investigare il futuro, istruendoli invece alla memoria, non vuol dire affatto che il futuro diventasse per loro una homogene und leere Zeit, un “tempo omogeneo e vuoto”. Al contrario, ciò costituiva la sola condizione per rappresentarsi il futuro come un tempo all’interno del quale “ogni secondo era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia”».1

 1 Giacomo Marramao Minima temporalia lucasossellaeditore, 2005 pp. 85,6

Katarina Frostenson

da Tre vie (Aracne, 2015, trad. Enrico Tiozzo)

[…]
Guardo verso le gabbie dei balconi che sporgono dai palazzi, somigliano a nidi. Una testa grigia spunta fuori come una testa di tartaruga dal suo carapace. Si ritira rapidamente, scompare dentro, viene come risucchiata dentro la stanza là dietro.
Le stanze dietro i muri scanalati.
L e s t a n z e.
Volumi. Soffitti bianchi. Pareti pallide. Tracce di dita sulla carta da parati,
vaghe righe di sporco.
Stanza — che cosa dà la parola? Penso la parola come un silenzio fumante.
Stanze come il silenzio stesso. Non ne esce mai.
Il silenzio.
L’immagine della sala da pranzo è la prima. Un tavolo rotondo con una tovaglia a quadretti bianchi e marroni. Apparecchiata con piatti orlati di blu, un piatto con pezzi di carne o un pesce intero da cui spuntano spine gialle, forse gambi di verdure. Latte in bicchieri di vetro infrangibile. Duralex — significa che il bicchiere non si rompe quando cade sul pavimento, dovevamo imparare, e si vide che era spesso così.
È giorno festivo e c’è silenzio. Accade che la radio sia accesa, che arrivi un salmo. “Sollevati mia lingua”. Qualche volta mio padre invita a un canto o una preghiera in un’improvvisa passione religiosa: “a lodare”. Noi continuiamo a bassa voce: “l’eroe che sulla croce”. Ripetiamo i versi finché il canto prende il comando della stanza e delle teste.

Più alto!
Solle
vati, mia lingua,
a lodare
l’eroe che sulla croce
per noi sanguinò

 

Guido Galdini B-N

Guido Galdini

Guido Galdini

il maggior punto d’incomprensione
lo si raggiunge di fronte alla crudeltà
men che gratuita, dannosa
per chi l’ha comandata o commessa:
gli encomenderos che per passatempo
nelle ore d’ozio sterminavano i propri schiavi,
ritrovandosi privi
di sufficiente forza lavoro;
la precedenza che per decreto era data
ai convogli dei deportati
rispetto a quelli dei militari feriti
di ritorno dal fronte

come più consona appare
la cura di Gengis Khan
nell’innalzare torri di teste umane,
ad assedio concluso,
per incoraggiare alla resa
gli abitanti delle città successive,
oppure il massacro preventivo
di Cortés a Cholula
che insinuò nei superstiti
la convinzione di trovarsi di fronte
a chi leggeva senza impedimenti
nel nascondiglio dei loro pensieri

tuttavia è un modo pavido, il presente,
di affrontare l’oceano dell’orrore,
nel tentativo di stabilire
una gradazione alla profondità delle tenebre:
come se avendo
davanti a noi la vastità della foce
continuassimo a preoccuparci soltanto
di misurare la frenesia dei torrenti.

.
Note
Cholula – Località del Messico centrale. Cortés, che vi risiedeva prima dell’ultimo attacco all’impero azteco, informato preventivamente del progetto di una rivolta, ne massacrò immediatamente quasi l’intera popolazione.
Encomenderos – Cittadini spagnoli a cui veniva affidato il governo di un territorio nel Nuovo Mondo, comprensivo della popolazione locale, in un’istituzione assai simile al feudalesimo.

.

Joyce Lussu

UN PAIO DI SCARPETTE ROSSE

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
‘Schulze Monaco’.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

Francesca Dono

-là più di qualcuno-

____là più di qualcuno.
Con la matita ritaglio un cappotto.
Quasi lo scatto.
La foto sfocata
in questo grumo di anagrammi.
Celan legge sopra l’asse della terza
baracca. Grigio scuro la sacca di tela
che copre mia sorella.
Dietro la finestra sonnecchio.
Dal 23 Novembre il nostro amore
è uno spruzzo d’infarto ormai spolpato.
Radio Londra.
-Le journal sur la face des les coquins.-
Fuggiamo. Le macchine ci vengono addosso.
I faggeti neri. Le fattezze ombrose.
Nessuna luce- sirena nella notte.
Una bottiglia di retsina in via del cratere spento.
Il palloncino-mandarino. Beatrice viene maritata.
Un suono gutturale. Il mio sepolcro con Lazzaro-scorpione a Dachau.
____________—– Fluttuante un fiore al buio.

.
Shoah

l’inferno riesumato.
Le pieghe azzannate verso
una montagna di scarpe.
In città c’erano i barbari con le stellette.
Nel quadratOsceno il granonero spiava i
gemiti del vento.
Tutto dentro l’acquario gassato.
-Una madre disse: brucerete anche i nostri bambini?-
Sette angeli ci abbeveravano
dai teschi ferrosi. Abgail non riusciva a trovare
il posto per la macchina.
Un fiore gracile sopra la neve.
Capelli ossigenati e pelliccia di carne
per le padrone del bordello.
-La mamma mi prese per mano-.
Ringhiavano randagi i cani lungo lo sterrato-cenere.
Un colpo di fucile.
La minestra di legno.
Tu cadi e rialzi il fango recidivo fino all’inguine.
-Ho fame_ dico al carceriere.-
L’inverno scolpito sotto il sole-madreperla.
Si numeravano le ombre fino alle nuvole
della notte.
Dormo la morte .
Alla parete il forno del Borgomastro.
L’aria congelata.
_______Il pendio in Lagerstrasse

 

pittura-chagall-resistenza

Chagall Resistenza, Resurrezione, Liberazione 1952

Mariella Colonna

Memoria presente, oggi, Chagall

Una strada sostiene la tua croce.
Dal cielo alla terra, Gesù di Nazareth,
Dio Figlio dell’uomo, nato da una donna ebrea, Maria.
Il grande sognatore anch’egli ebreo, Chagall,
angelo del colore, ha messo ali invisibili ai personaggi,
crocifisso il Figlio dell’uomo, il suo popolo affranto.

Chagall “vede” il popolo ebreo nel bianco paesaggio
sconvolto. Prospettive sconvolte. Intorno, case in fiamme
rovesciate, le fondamenta verso un cielo atterrito,
cose abbandonate sulla neve: una sedia, un libro
il Rotolo della Legge; a sinistra, soldati, due bandiere rosse,
quasi tutti sollevati da terra; fantasmi o anime di ebrei
si muovono smarriti tra corrusche nuvole.
Persone coperte di miseri panni, sguardi ciechi
in primo piano fuggono o avanzano verso di noi
stringendo tra le braccia neonati avvolti in coperte.

Molti uomini su un barcone di legno alzano le braccia
Forse per chiedere aiuto o significare che esistono
Siamo nel 1938 ma c’è un tempo dell’essere,
in cui domina la memoria di ciò che dovrà accadere
e che si ripete in noi, in un futuro più futuro. Oggi.
E oggi ricordiamo che circa due millenni prima
un ebreo di nome Gesù è stato ingiustamente crocifisso.

L’ebreo Chagall dipinge il Crocifisso, in bianco, in giallo
e, nell’opera intitolata “Resistenza,”in rosso fiammeggiante:
il Cristo in croce e il cielo, la terra e le case in blu.
Figlio dell’uomo, i sacerdoti del tuo Dio ti hanno giudicato
indegno e blasfemo.. ma Chagall dice che hai fatto il bene
perché hai avuto pietà dell’uomo,
che sei “l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi”.

Adesso, il tuo popolo soffre persecuzioni e condanne.
Sei tornato, non nella gloria, ma in croce, come gli uomini
sofferenti che Chagall ha dipinto e che tu ami
di un incomprensibile amore.
Eri presente anche ad Auschwitz, crocifisso,
come ti ha dipinto Chagall? O forse lì sei sceso dalla croce
e ti sei unito ai martiri della Shoah? Io lo so, eri lì tra di loro,
nelle camere a gas, qui e dovunque. Adesso.

giuseppina di leo1

giuseppina di leo

Giuseppina Di Leo

Il muro invisibile

Le parole di Enea non furono capite
sulla linea di confine abbarbicate.
Si sono cercate le ragioni
aperte finestre sui vuoti d’aria
sperimentati tentativi di corsa nelle strade
se non fosse guerra
quelle che vediamo sarebbero maschere del carnevale
se non fosse che sono vere; i proiettili dal terrazzo
salirebbero al cielo esplodendo in scintille
darebbero spettacolo di colori; la seconda immagine
sarebbe una scena idilliaca: la bimba esce correndo
dalla sua casa per abbracciare il vecchio padre.

Se non fosse disprezzo per l’uomo
di un uomo vedresti farsi dolce il viso
la mano aperta nasconderebbe una barca di carta da regalare
la violenza avrebbe un’anima di cartone, una calza di maglia fina
conterrebbe la mela acerba della conoscenza, il seme
di Adamo da non disperdere nel sangue.

Per tutto questo vorrei dirti: abbracciami, fratello
parla le parole che non conosco
vesti i colori della tua terra
in una casa alzata contro il vento della mia ignoranza.

Porta il mio messaggio al vecchio Pink
presso la Funny Farm, come rimando a capo
come una sgrammaticatura coperta con il bianchetto
demolendo con l’urto dell’urlo il muro tra noi invisibile.

(marzo 2012)

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Il maestro

Di contro, nuovamente,
il valore della parola
sottilmente evidenziava,
poi tutto ritornava
fragile e incerto.
Un sospetto scomposto
s’insinuava nella storia
volgendo i molteplici momenti
inappellabili
senza alcuna voce.
Pagine intere
bianco su bianco
al vento condannate:
storie lontane di infelici amanti.

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CINQUE POESIE INEDITE di ADAM VACCARO con un DIALOGO APERTO tra Adam Vaccaro e Giorgio Linguaglossa  sul concetto di Esperienza e di Adiacenza, “tra arte e vita non c’è nessun vaso comunicante”, “Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici“, “Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit)”, “Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di «frammento»”,  “La parola esperienza era in greco ἐμπειρία, empeirìa, composta da ἐμ πειρία (in e prova)”, “l’albero metodologico chiamato Adiacenza“, “all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano”

bello città nel traffico

città nel traffico urbano

Caro Giorgio,

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mi complimento per gli ultimi post che aprono a voci anche molto diverse del panorama contemporaneo, sia italiano che europeo e oltre. È l’azione auspicabile di una Rivista come quella che con grande impegno curi, insieme a vari collaboratori. Ma sono stato sollecitato a scriverti alcune notazioni, soprattutto dopo le due ultime interviste, a Roberto Bertoldo e a Elio Pecora. Perché entrambi, da posizioni e poetiche diverse, esprimono misure e punti di riferimento, che a mio modo ho cercato di articolare nel mio percorso di scrittura con saggi e versi.
Dalla florida foresta di ricerca teorico-critica di Roberto Bertoldo estraggo alcuni punti, anche per me fondanti. L’intervista evidenzia prima di tutto un tronco metodologico, da cui derivano rami e frutti. C’è una implicita critica al cespuglio di libertà apparenti, anarcoide, affollato e ininfluente, di scritture fluttuanti e inconsistenti quanto arroganti, nella realtà liquida del postmoderno. Oggi, in tale allegra e disperata perdita di rilievo e presenza, sembrano ridicoli i richiami alla memoria di esperienze precedenti, a canoni e a una radicalità forte di una ricerca metodologica. Di quelle idee, cioè, che qualcuno ha chiamato le idee più importanti.
E, sia chiaro, l’impostazione metodologica non fa una critica, come una dichiarazione di poetica non fa una poesia. Ma, senza di esse, si rimane in balia del vento e degli eventi, incapaci di misurarli o di darne conto in una forma che sappia trasmettere una visione critica del mondo e della realtà. Capace in tal modo di fare e aggiungere realtà. Oggi innumerevoli testi, cosiddetti poetici, sono magari sapienti articolazioni di parole, ma restano muti e incapaci di dire quale visione delle cose ci offrono per intelligere il caos apparente in cui siamo. Rimaniamo così a danzare liberi di pensare ciò che vogliamo, ma siamo liberi in sostanza di rimanere alienati entro un campo separato, ‘a parte’ e non parte del Resto, appagato dei suoi esercizi e disinteressato a mettere a fuoco, cioè a essere adiacente, e a conoscere a ciò che si dibatte fuori, tra gioie e tragedie.
Credo invece che l’arte e la poesia che resistono siano quelle umanamente necessarie a soddisfare i nostri bisogni di amore, che senza un intreccio con virtude e conoscenza declinano il miele in melassa e il fanciullino nella rimbambilandia attuale. Dopo decenni di ideologia del testo, di arte /poesia inutile, rimane il bisogno di forme capaci di essere utili, (beninteso) antropologicamente utili. Viva allora ricerche fuori dal coro che riaffermano “L’arte è ineliminabile”, insieme alla domanda altrettanto ineliminabile e necessaria, “quale arte?”, “Decorativa” o “significativa”? Evviva per questo chi come Bertoldo sente la necessità de “l’intellettuale creativo, perché oggi, dopo l’abbraccio tra filosofia e poesia avvenuto in modo finalmente accurato nell’età romantica, il poeta non può non farsi carico della complessità del mondo e dei suoi mali.”

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Eugenio Montale upupaDomanda: Caro Adam hai messo il dito nella piaga. Dici bene quando affermi che oggi si crede di fare poesia mettendo in atto una sorta di vasi comunicanti tra la «vita» e l’«arte», come se ci fosse un canale diretto, un tram che ci conduce dall’una all’altra. Si pensa che si può fare poesia registrando e interpolando (magari anche in maniera brillante) la cronaca con degli intellettualismi, con dei commenti, delle didascalie, delle glosse, degli appunti, e via di seguito. Ma io penso, forse sbagliando, che queste operazioni non facciano parte del demanio della costruzione poetica. Qui siamo nel bisticcio, nella confusione delle categorie e, di conseguenza, delle cose. È bene ribadirlo: tra arte e vita non c’è nessun vaso comunicante. Si può avere una vita poverissima di eventi, come la Dickinson e Mallarmé, e si può fare grande poesia. Chi pone quell’equazione fa della pseudo poesia, della poesia posticcia e artefatta. Ritengo che dobbiamo soffermarci di più sul concetto di Esperienza. Che cos’è l’Esperienza? (Erfharung). Che cos’è l’esperienza estetica? Qual è il legame che unisce le due Esperienze? – Ecco, qui non saprei rispondere, solo un filosofo potrebbe tentare una risposta.

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Risposta:

La parola esperienza era in greco , empeirìa, composta da ἐμπειρία (in e prova), implicava cioè la capacità del soggetto di saggiare dentro la realtà. Ma già da Empedocle, Protagora e altri veniva sottolineato il dubbio tra evidenza e apparenza, o tra verità e falsità. E Platone distingueva tra esperienze fatte solo col logos e quelle frutto di una technéCiò conduce immediatamente nella complessità della conoscenza, quale processo di acquisizione di un soggetto attraverso il contatto con una forma di realtà. Ora, questi termini sono già una esperienza di quanto essi siano problematici, polisemici e complessi. Dipende dunque da chi ne fa uso.  
Cosa vuol dire contatto? Cosa significa processo? Come si concepisce il soggetto, distinguendo necessariamente tra Soggetto Scrivente (SS) e Soggetto Storicoreale (SSR)? E infine cos’è ciò che chiamiamo realtà? Siamo in un vortice di ricerca di senso e significazione del nostro fare e stare al mondo, che non può essere semplificato. Contatto è una esperienza che può essere fatta (come è già in Platone) sia con i linguaggi dei sensi, che con una lingua algoritmica. Processo può essere concentrato in un lampo o abbracciare un tempo lunghissimo. E il soggetto, se è una molteplicità dinamica e non una monade statica, come concepiamo la sua molteplicità e dinamica?

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Se ci soffermiamo sulle particelle subatomiche, ne traiamo modelli e metafore utili anche sul piano antropologico. Tali particelle hanno libertà delimitata dalla danza o oscillazione corale coerente con altre particelle, in cui il singolo è motore che contribuisce a produrre uno stato diverso, rispetto al precedente, per numero di quark e per somma di energia del campo. Ma l’energia del singolo quark, senza interazione con le altre particelle si deprime e collassa. All’interno della mia ricerca di Adiacenza la forma-soggetto (singolo o collettivo) può essere analogicamente rapportata al contenitore di una forma di quark. Le capacità di movimento spontaneo, o di clinamen già intuiti da Epicuro, esistono entro i limiti costitutivi, di imposizioni esterne e  autodelimitazioni, senza i quali cessa di ricercare superamenti o ulteriori campi di forza in cui interagire. Sono sbocchi che tende a produrre l’ideologia liberista e il panorama di una comunità fatta da una giungla di io-io. Quanto alla realtà, ricordo il convegno con qualche decine tra filosofi, artisti, psicologi, poeti ecc, che organizzai nel 2000 per dare avvio a Milanocosa. Tale convegno (vedi gli Atti pubblicati a mia cura da Milanocosa Ed. nel 2003) aveva come titolo “Scritture / Realtà”. Titolo che scelsi, dopo ampie discussioni con il gruppo costitutivo (di cui facevano parte anche Gio Ferri, Giuliano Gramigna e Francesco Leonetti), e che sottolineava con quella barra, lo iato inevitabile tra i due campi. E che impedisce di dare al primo lo statuto di verità, salvo considerarlo voce di Dio.
 Quel convegno accolse e mostrò la molteplicità delle lingue e scritture che ci costituiscono e sono parte della Realtà, strumenti fondanti (ma non tutta) la Realtà. Come l’occhio, che nel suo spettro accoglie solo una parte del visibile. La realtà, non solo per l’essere umano, esiste solo se viene elaborata da una lingua. Ma anche lingua è termine da pluralizzare, perché quella algoritmica, totalizzata da linguisti e da tanti scriventi (versi o altro), è solo una tra tutte quelle agite dalla nostra operatività mentale. 
Intanto, se l’arte è come la vita, indefinibile e indelimitabile, e se ognuno è libero di concepirla e viverla come vuole, anche solo come “strumento ludico e di evasione”, credo che oggi, nello smarrimento e nella perdita di senso che il sistema di dominio in atto produce, il “suo statuto ontologico e fenomenognomico” o ”gnoseologico” (vedi intervista a Bertoldo), rimane poco incarnato dalle espressioni e dalle scritture (poetiche e non) prevalenti. Per questo concordo che oggi “occorre recuperare, diversamente da quanto sostiene il pensiero debole, un proprio pensiero forte, che non significa inappellabile. Perché è impossibile un dialogo costruttivo se i dialoganti non hanno una personale e profonda visione del mondo e se, soprattutto, non chiariscono, e primariamente a se stessi, la propria fondazione pregiudiziale.”

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Un tronco forte non necessariamente significa ritornare in una hybris di neopositivismo o di ogni altra visione chiusa e totalizzante, religiosa o laica che sia. La mia identità si articola dal pensiero presocratico al giardino aperto di Epicuro, dal bosco simbolico politeista agli squarci liberanti dell’illuminismo, dalle 12 categorie mentali kantiane alle innumerevoli categorie mentali individuate poi dalle nuove scienze, dal materialismo dialettico marxiano alle analisi dell’autopoiesi dei vari livelli di una identità (biologica, psicosessuale e sociolinguistica), dalle strutture (Io, Es e Superio) individuate da Freud, alla fisica quantistica alla fenomenologia ecc…

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foto no left.

Domanda: Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici. Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.1

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Risposta:

 Se il soggetto è una sorta di contenitore-adrone, l’identità è una forma di quark, e la sua carica energetica è il cuore interattivo. L’identità ha caratteri virtuali, che rischiano di condurre su un piano metafisico, nel senso che è (sempre) temporanea e provvisoria (auto)composizione delle componenti intrasoggettive, in perenne ricerca di una impossibile stabilità (intesa come identico a) e unicità. Per questo a mio avviso la metafora che forse meglio la rappresenta corrisponde a un impossibile incrocio tra casa e cosa: la prima come evidenza che resiste, la seconda come imprendibilità e ricerca inesauribile.
Per questo il testo (poetico in particolare) è ciò che può materializzare meglio questa duplicità e complessità. Per le stesse ragioni parlo di identità come dimora o casa del tempo: essa è infatti categoria che tende a collegare accumuli di esperienze coinvolgenti memoria, azioni e progetti: passato, presente e futuro. Quindi, casa come immagine di spazio e paradigma necessari all’incessante interrogazione della cosa – interrogata e interrogante – costituita dall’inafferrabile esperienza psichica del tempo. 
Come nella domanda precedente, condivido dunque le varie premesse che fai, compresa quella relativa a spazio e tempo, quali nomi diversi di una stessa cosa, da cui ho sviluppato il mio percorso di ricerca, che cerco qui di sintetizzare per una minima sua intellegibilità. 

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foto casa in disordine.
La nostra mente è il software di tutto il corpo e non solo del cervello. Essa non va concepita solo come funzione dei nostri piani alti, ma come funzione di quello che la Montalcini chiama “cervello bagnato”, che implica anche tutti i fasci nervosi, conduttori dei sensi e dei loro linguaggi che la sua funzione complessa elabora in modi diversi, producendo mondi diversi nel nostro universo mentale.
È un caleidoscopio di realtà che fa la vita umana, in cui tutto è separato da una barra, ma anche congiunto attraverso scambi incessanti di lingue ed esperienze specifiche che tendono a costruire le tessere del mosaico di spaziotempo della esperienza complessiva della nostra soggettività e vita.
Nel mio tentativo di albero metodologico chiamato Adiacenza, (vedi, tra le altre, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano,  2001, o Corpi d’Amore, in La poesia e la Carne, La Vita Felice, Milano, 2009) ho ipotizzato tre modalità, diverse e interagenti, della nostra operatività mentale, rispetto alle lingue del corpo e alle corrispondenti esperienze. Ho utilizzato (senza finalità psicologiche) le categorie freudiane, ipotizzando che ogni sistema di segni venga operato da tre fondamentali modalità chiamate Mod-Io, Mod-Es e Mod-Superìo, corrispondenti rispettivamente a tre aree mentali:

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  • area analitica, con utilizzo metaforico, astratto, strumentale e descrittivo;
  • area affettivo-corporale, con utilizzo totalizzante, metonimico, materialistico;
  • area etica, con utilizzo volto a un fine, qualunque esso sia, dato dalla visione di idee e dal sistema di valori/disvalori scelto.
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Tali aree tendono rispettivamente a produrre un alone ideologico, della Verità, del Testo, o del Valore. Dando a ideologia l’accezione di falsa coscienza o totalizzazione di una parte rispetto al resto (cfr, K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca Opere complete, V, Roma 1972). 
Un esempio delle operatività diverse del nostro universo mentale è dato proprio dalla categoria tempo. L’Io opera nel presente e la percepisce come astratta e lineare, il Superìo la proietta nel futuro, e per l’Es è un tempofermo o circolare, sempre presente e sempre passato. Anche tra queste aree ci sono barre che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la loro (e la nostra) distruzione. È il senso del limite e del mito di Orfeo. Ma sono altrettanto necessari all’ecologia della mente, attimi di interruzione delle separatezze consuete. Ho chiamato tali attimi di tempo mentale, in cui tempo lineare e tempo fermo-circolare si combinano e si superano facendo pensare a una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA.
La ragione profonda della poesia sta nella necessità vitale di offrire attimi di tempo mentale. Per la stessa ragione, la critica di ogni totalizzazione ideologica è necessaria, non solo e non tanto per una speculazione concettuale, quanto per recuperare vita e salute.

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Il corpo vivente si esprime nelle dinamiche fenomenologiche tra totalità e molteplicità in una condizione normale che fa dire a Paul Klee: “La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana… L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. E che fa dire a Umberto Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, “in quel patire (páthos) che si fa parola (loghia)” di chi prova ad abitare “la profondità dell’abisso (Ab-grund)”, “la dimensione frantumata dell’essere”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione alta e forte di questa lacerazione” (U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano, 2005)?
Se tutto ciò è vero e, come dice “Jaspers: La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità”, credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme: il piacere della prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità ha qui un senso fenomenologico, “significa che in esso riusciamo a vivere”. Verità, dunque, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Adiacenza, quindi, quale nome di tali momenti necessari alla continuità della vita – entro un processo fenomenologico, in cui ad esempio Antonio Porta distingueva con Luciano Anceschi tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienzache però non è definitivo come la verità”, quale spesso intesa dall’Io.

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Abbiamo perso l’ingenuità, ma di questo dobbiamo farne momento di vita e di forza, non di resa alla perdita di senso. Le barre e le barriere tra le diversità e le separatezze sono dati delle realtà intra e intersoggettive, ma l’arte e la poesia più grandi ci aiutano a vivere momenti – precari e fragili come gli orgasmi d’amore – in cui la gioia esplode perché quelle paratie sono state rotte e l’Io non è più solo nei suoi deliri di onnipotenza, ma condivide con l’Altro (interno ed esterno) attimi di infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella che Platone nel Timeo chiama “immagine mobile dell’eternità”. 
È l’utopia concreta donata, qui e ora, da ogni processo creativo o d’amore. Innervato in un percorso accidentato, quale è ogni percorso di comunicazione. Cioè capace di mettere in comune, e che, come diceva ancora A. Porta, “non è un piroscafo di linea”. 

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Antologia Poesia contemporanea copDomanda: Oggi siamo tutti gettati nella “Perdita”. Il mondo globale ha questa ricchezza, questa possibilità: che noi stiamo in mezzo ad un mondo irriconoscibile, vario, dispari, incredibilmente ricco e complesso. Un mondo senza Dio, è stato detto. E per fortuna, aggiungo io, perché ci si è dispiegato un mondo che non immaginavamo. Nuove sfide sono davanti all’umanità, nuove possibilità si aprono. Heidegger ha chiamato questa condizione «l’Oblio dell’essere», che significa questo allontanamento di noi da noi stessi. E questo allontanamento è il nostro stesso Progetto, un Progetto, la «Tecnica», che contiene al suo centro una Perdita. Allora, Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano

Voglio dire che oggi abbiamo bisogno di un’arte che ci dia la rappresentazione di questa frammentazione («fragmentation», secondo la dizione di Salman Rushdie); abbiamo bisogno di un’arte che ci consegni e ci riconcilii con questa diversità-disparità. Che incontri l’Estraneo. Chi è l’Estraneo? L’Estraneo è la maschera con cui ci si presenta il Diverso, il dispari, ciò che non comprendiamo e che non ci aspettavamo. «Aspettare», significa porsi nella dimensione dell’accettare, dell’accogliere ciò che ci si presenta come Estraneo. E questo compito è un compito precipuo dell’arte. L’arte, la poesia devono porsi nella posizione dell’accoglimento della diversità e dell’Estraneo. La «maschera» è il modo con il quale si presenta a noi l’Estraneo.                                                                                                                                                                                                                            1 Giacomo Marramao Minima temporalia luca sossella editore 2005, p. 14

foto vestito nude lookRisposta:

Nella mia personale ricerca, ho cercato di riconnettere la meravigliosa ricchezza di territori creativi e di ricerca speculativa o scientifica che ridicolizzano ogni pretesa di Verità di questo o quel fondamentalismo, Non per scimmiottare titanismi sistematici, ma per igiene mentale e amore di una poesia che con la sua misura antropologica (quale sa ad esempio trasmettere la scrittura di Pecora) ridicolizza i vari fondamentalismi risorgenti contro la migliore umanità. Mi riferisco non solo alle radici giudaico-cristiane (che pretendono di rappresentare l’identità culturale dell’Occidente) o ad altre totalizzazioni religiose (sciami di islamismo e altro), ma anche al fondamentalismo ideologico del dominante pensiero neoliberista.
La poesia, come tensione alla totalità, è linguaggio onnivoro e bulimico di ogni campo e lingua, che consentiva a Vico di parlare di Fisica poetica, Chimica poetica ecc. L’atteggiamento poetico è per me ricerca di ricchezza umana e di misura tra le polarità molteplici della complessità dell’esistente, tra le profondità del singolo e dell’immenso.
Con tali tensioni e approcci, non è ovviamente più pensabile alcuna costruzione teorica sistematica chiusa, ma più che le “costruzioni instabili” di Lyotard, preferisco il sintagma costruzione aperta o interminabile, quale quella evocata da un Gramigna o un Sanesi.

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Per questo ho usato le metafore di cosa e casa, quali componenti dell’autopoiesi identitaria, operante nella scrittura e quali immagini coniuganti stabilità insieme ad apertura incessante all’oltre. Una costruzione interminabile che informa i vari livelli del testo, tra i quali si possono trovare oggetti linguistici rispondenti alle ipotesi quantistiche del “gatto di Schroedingher”, in quanto stanno contemporaneamente in luoghi diversi del nostro universo mentale.
Mi basta un esempio: “ e caddi come corpo morto cade”, una sequenza di suoni e sensi che non è collocabile in un’unica area mentale, con la sua espressione di dolore e condivisione, e insieme di giudizio etico, oltre che di una visione critica complessiva della realtà. Una rottura della separatezza tra poesia e vita. Un gatto di Schroedingher che irrompe col suo lampo di umanità in condizioni di Perdita. E per questo (ri)produce gioia e speranza.

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foto tacco a spillo su binarioDomanda: L’espressione è il volto codificato del dolore.  Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di «frammento» , che non indica il Tutto se non come un tutto frammentato e disperso. Di qui il «dolore» della poesia, (che non ha niente a che fare con il dolore del senso comune).

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Risposta:

Anche su questo punto – ricordando quanto detto nella risposta al secondo quesito – , abbiamo alcuni punti di arrivo diversi. Ma ben venga il confronto. Credo che uno dei caratteri più negativi del contesto socioletterario (non solo di oggi, ma credo oggi esasperato/omologato dall’individualismo postmoderno) siano i personalismi, le conventicole familistiche di piccoli poteri, le contrapposizioni sterili e le incapacità di un confronto tale da arricchire l’un l’altro e dare corpo a una società/civiltà letteraria, degna di tale nome. Non intesa cioè come una custode notarile di canoni, ma fonte di scambi, sollecitazioni e aperture prive di supponenze. Dipende poi certo dai singoli immaginare e dare vita a forme capaci di dare conto del dolore, del male come del bene, del mondo. La vita, la scienza, l’arte e la poesia (come del resto dimostra l’immenso patrimonio culturale accumulato nei secoli) non tollerano delimitazioni predeterminate. Come mostra il moto creativo (non solo in campo letterario) e dando beninteso per scontato che la realtà (de)scritta da un SS sia Altro da quella vissuta da un SSR. Abbiamo perduto l’ingenuità.
Ma credo che il problema e la domanda debbano essere: quanto un campo e l’altro sono capaci di scambiarsi energie, quanto sono capaci di creare condivisione e comunità, quanto sono adiacenti e non alienati l’uno rispetto all’altro. Quanto cioè nella realtà molteplice e drammatica del mondo contemporaneo, quei segni che fuoriescono dal soggetto (per il bisogno dell’Altro della Lingua, per dirla con Lacan, quale medium che dà forma e visione del mondo interno ed esterno), non rimangano poi chiusi e appagati di sé.
La liquida realtà contemporanea si lascia prendere con difficoltà, ma mostra tutti i suoi caratteri violenti e disumani entro l’involucro luccicante delle frenesie tecnologiche, finanziarie e massmediali del capitalismo globalizzato. La sua conoscenza è difficile e spesso illusoria, tanto che qualcuno parla di realismo terminale. Ma credo che questa situazione, con notevoli cambiamenti epocali, esalti e non riduca la responsabilità dell’arte e della poesia di non cadere nella hybris di essere un dio che crea sulla cima solitaria di un rinnovato Parnasse contemporain, dimentico della necessità umana di inventare e diventare linguaggio condiviso, medium di messa in comune.
Credo che questa realtà ci sfidi a non diventare frammenti entro un loculo del nulla, ma a far diventare tale nulla il piede e il grido di una risalita (im)possibile della Fenice. L’intreccio tra conoscenza e linguaggio vive tra aperture inneschi di cambiamenti, per cui può sostare in cieli privati e nuvole di sapienti giochi verbali, se poi fanno transitare e brillare – anche nel senso di es-plosioni creative – da un tu all’altro. 
Credo in una lingua e una poesia che sanno di non bastare a loro stesse, e che hanno bisogno di incorporare tutta la fragilità di un progetto ignoto che si misura con la complessità della vita e del mondo, nella coscienza che questa è co-autrice nel processo creativo. Ricerca di una lingua che sappia essere forma di conoscenza e mutamenti entro l’immensa molteplicità di forme offerta al nostro sguardo. Un processo creativo, dunque, svolto non in un immaginario ante rem, ma in una tensione a essere in re, a essere fattore e energia nell’incessante processo di metamorfosi della vita.
Di tale risultato non può essere giudice essa stessa, e non basta nemmeno il giudizio di una critica più o meno adeguata. Sarà Altro e altri dalle carte a dire se queste sono o no presenti nel corpo comune, come “voce di un numero immenso” (W. Withman) o se sono diventate lettere morte. Se sono finite su quella riva che ho definito dell’iperdeterminazione del significante, o su quella dell’iperdeterminazione del significato.
La prima disinteressata a scendere dal suo cielo e a trasmettere una visione critica, l’altra appiattita sulla cronaca e su pensieri scontati, priva di ogni lampo di lingua. Rispetto ad esse credo e cerco, invece, forme che sappiano accendere e spiccare il volo verso una utopica terza riva, capaci di coniugare complessità e transitività. Forme capaci di rigettare il lirismo edulcorante, senza buttare con esso quella che Leopardi chiamava “parola materiale e lirica”, parola come materia della totalità del corpo, che con tale parola cerca di esserci (quale inteso in particolare dal poeta Seamus Heaney, figlio di contadini e non a caso legato alla terra e al luogo) rincorre e cerca di far sentire lo zeitgeist e la musica del tempo. È un esempio di tensione alla totalità, che ci viene trasmesso e produce il coinvolgimento sia di riflessione critica, sia del piano affettivo.
Caro Giorgio, mi sembra corretto offrire ai lettori qualche esempio di miei testi poetici che cercano di rispondere all’appello di tali tensioni e ipotesi.
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Sharon-Stone

Adam Vaccaro Cinque poesie inedite e una edita

L’arte è parte della vita che sogna l’immenso. / Ma tutta la vita è arte dell’infimo che si fa infinito
 A.V.

L’ala sottile

Quell’ala sottile che ci raggiunge
e si apre come una vela sull’infinito
non è l’ultimo vento che ti aprirà le mani
ché l‘universo è pregno di mille altri universi
che tu ancora non sai

Inedita, 18 dicembre.2012

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Reti

come formiche oscillanti, affamate e disperse
nel nulla di cunicoli abbandonati, ci ritrovi
amo in questo nonluogo di una rete senza
mare né pesci, pescatori intrappolati da bi
sogni illusioni d’amore che fanno diventare
mare acceso d’estate la mancanza di un colle
e una piazza che allevavano pezzi di cuore di

versi e insieme riuniti nel disegno più grande
di un cuore ricamato tra zolle di terra, prati
e marciapiedi accarezzati strusciati come
la nostra pelle bambina che sa ancora far
diventare persino il nulla e il vuoto di un
nonluogo, un luogo pieno di colline e prati
piazze e sogni d’anima – disegni di comunità

Inedita, 3 febbraio 2015

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Il tempo stringe

il tempo oggi stringe
ma non tocca il limite
che ci soffoca ridendo

e saremo ancora qua
ad aspettare per vedere
cosa abbiamo trasmesso

se altre ilari supine idiozie
nel tumulto che continua
o gioia che cambia e cosa

Inedita, ottobre 2015

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NOP

Quel Nodo alla gola – che non sapeva
dire se più di rabbia o di sensi di colpe –
le si rapprese come una goccia di colla
secca sulla punta del naso, e rimase lì
per anni, ogni volta tentando di staccarla
rigirando muta nel nulla la punta della lingua.
Poi d’improvviso bastò il raggio di sole di
quel mattino. Come laser o dito di Dio
*
Osso era un signore duro e fragile che riteneva di
essere il perno portante di ogni massa, somma
quasi di una forma di dio. Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento
*
Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa
propria incontrò finalmente un vento così forte
che lo inebriò al punto di fargli perdere misura
e senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel
delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive
del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto
Inedita

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Ventagli d’amore e d’inganno

Dicono che il vento si fa vento
per farsi canto senza parole
sapiente che sa già tutte le loro
accese illusioni che sanno cucciarsi
e farsi anima, prima sotto pelle e poi,
piano, fino al cuore, fino a farsi liquore
che scende scende e inventa altri suoni
con odori e lampi abbracciati a ferite
dolci e feroci – incancellabili tue libertà.

Che riconoscerai anche se ti rapiranno l’anima,
per farne schiava in luoghi sconosciuti, mentre
ti racconteranno di una totale libertà ornata di altre
parole d’incanto che ti diranno, tu sei nel massimo
sogno di essere oltre e altro, finalmente il vero te,
il re che hai sempre cercato in parole ignote
il più sconosciuto e tanto in alto e fuori di te
che ti sembrerà di volare come foglia – completa
mente preda di un vento alieno che fa di te il suo canto

Inedita, aprile 2014

Quel Quid

Quel Quid immerso nel caos-cosa dell’universo
non è nascosto tra le mani del mondo né è sogno
che l’umile amore di una Rita o un Francesco può
scovare e tantomeno un frutto di risaltante risultato
da stringenti somme divisioni e altre operazioni
della folgore geniale di un folle scienziato. Quel
Quid che non torna rimarrà un esule introvabile
a consolazione dell’infimo e dell’immenso

Aprile 2014

In Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014.

adam vaccaro 4

adam vaccaro

Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001.  È stato tradotto in spagnolo e in inglese.

Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

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LE FONDAMENTA ONTOLOGICHE PER UNA POETICA DEL VUOTO – LA DOMANDA FONDAMENTALE DI LEIBNIZ: “Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. Leibniz, Martin Heidegger, Robert Nozick, Giacomo Marramao “Il Nulla nientifica se stesso”, “La teoria egualitaria” di Nozick, con un Appunto di Giorgio Linguaglossa sul “Sistema stabile del Vuoto”Appunto di Giorgio Linguaglossa: Le fondamenta ontologiche per una poetica del vuoto

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Il filosofo americano Robert Nozick nelle sue Philosophical Explanations (Cambridge, Mass. 1981, p. 122) ha riproposto da domanda di Leibniz: «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?».

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“Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. La domanda di Leibniz è una domanda estrema, essa sconfina con i margini del linguaggio metafisico. È la domanda prima. O la domanda ultima, oltre la quale non è possibile andare. Di qui la liquidazione, da più parti, come “mal formulata”, “insignificante”, “folle”. «Ma perché – ha fatto notare Robert Nozick – la rifiutano allegramente invece di osservare con disperazione che essa pone un limite a quello che possiamo sperare di capire?». È una domanda così formidabile che anche uno che di recente l’ha ripresa e l’ha chiamata ‘la domanda fondamentale della metafisica’, Heidegger, non propone risposte e non cerca nemmeno di far vedere come le si potrebbe rispondere.

L’interrogazione era stata ripresa da Heidegger in una forma sensibilmente modificata: «Perché in generale l’ente piuttosto che il nulla?» (Introduzione alla Metafisica, 1953). È la domanda fondamentale dalla quale dobbiamo partire, la domanda che, per il suo rango, merita il primo posto tra tutte le domande. La domanda per Heidegger «la più vasta, profonda e originaria», alla quale non è possibile sottrarsi.

Capovolgendo la domanda, io penso che un ipotetico abitante dell’Iperspazio a 10 dimensioni più il tempo (Secondo la tesi del famoso fisico Michio Taku), così si esprimerebbe: «Perché in generale il nulla piuttosto che l’ente?», in quanto dal punto di vista di un tale abitante l’assurdo sarebbe ipotizzare l’esistenza dell’ente, posto che il nulla sarebbe la modalità normale di esistenza del suo Super-pluriverso simmetrico e stabile.

Ma ipotizzare un “sistema simmetrico e ordinato”, uno stato naturale e privilegiato quale potrebbe essere il Vuoto, lo si può fare soltanto a partire da un universo dissimmetrico quale il nostro, affetto da instabilità, inflazione, fluttuazione e dalla freccia irreversibile del tempo. È possibile ipotizzare, come ha fatto Robert Nozick, l’esistenza di una quantità minimissima di nientità che è sfuggita alla forza di nientificazione e che ha prodotto l’universo; in questa speculazione ci conforta la fisica delle particelle sub-atomiche che, appunto, galleggiano nel nulla e, in quanto tale, esse sono (e non sono). Questa nientità è quindi inerente all’ente come facente parte della sua stessa “sostanza”.

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Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Perché esiste l’universo piuttosto che il nulla? L’esistenza  dello spazio-tempo dovrebbe essere considerata una forma di “creazione”? La risposta è: avrebbe potuto non esserci nulla piuttosto che qualche cosa. Molti scienziati sono dell’idea che l’esistenza dello schema matematico di un universo non equivale all’esistenza reale di quell’universo. Rimane dunque ciò che Drees definisce “la contingenza ontologica”. La teoria di Hartle-Hawking si accorda piuttosto bene con questo senso più astratto di “creazione”, perché è una teoria quantistica. L’essenza della fisica quantistica è l’indeterminazione: la predizione in una teoria quantistica è la predizione di probabilità più che di certezze. Il formalismo matematico di Hartle-Hawking fornisce le probabilità che un universo particolare, con una organizzazione particolare della materia, esista in ciascun momento. Nel predire che c’è una probabilità diversa da zero per un particolare universo, si afferma che c’è una possibilità ben definita che esso sarà realizzato. Siamo qui di fronte ad una “realizzazione di possibilità“.

Possiamo ipotizzare che il Vuoto è un sistema stabile e simmetrico che ospita una gigantesca forza di nientità o di vuotità. Trattasi di un sistema a-dimensionale (secondo alcuni pluridimensionale), un sistema stabile e simmetrico che non ospita il movimento. L’immobilità del Vuoto sarebbe il risultato di un sistema di forze in tensione in perenne equilibrio. Il sistema del Vuoto è un sistema abitato da una gigantesca forza di vuotità, una forza in tensione perenne e stabile che, è paradossale, per esistere, ha bisogno di produrre continuamente universi instabili e dissimmetrici abitati dalla freccia del tempo. Ora, è anche possibile ipotizzare che questi infiniti universi non sgorghino dalla sua superficie o dai suoi orli ma che abitino stabilmente in esso Vuoto. E che nel sistema del Vuoto ritorneranno quando si concluderà il viaggio dell’entropia del nostro universo. Mi sembra ovvio aggiungere, in epigrafe, che da questa ipotesi topografica non c’è alcun posto per dio. Dio, infatti, è stato fatto sloggiare dai suoi stabilimenti del nostro universo. E anche dagli altri universi; gli resta semmai soltanto un Non-luogo dove abitare: il Sistema a-dimensionale, stabile e infinito del Vuoto.

Secondo la tesi del famoso fisico Michio Taku, dio è una entità che parla matematica e che abita l’Iper-spazio a 10 dimensioni più il tempo. Solo che ancora non abbiamo una matematica in grado di leggere le frasi che dio pronuncia nella sua dimora nell’Iperspazio. Il problema dell’autenticità nella nostra epoca si pone come l’orizzonte decisivo delle  filosofie  del nuovo esistenzialismo, proprio perché dio sembra aver abbandonato il nostro piccolo universo e si è ritirato a villeggiare nella sua vasta dimora presso l’Iper-spazio. Sta a noi e solo a noi, dunque, trovare le chiavi di una esistenza giusta e dignitosa. Così oggi si torna a parlare di autenticità come si parla di Iperspazio, cioè di entità distanti quanto la luna da noi semplici enti mortali.

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Robert Nozick

Giacomo Marramao testo tratto da Minima temporalia (2005, lucasossella editore)

«La domanda per il filosofo americano presuppone “una teoria egualitaria“, nel senso che divide gli stati in due classi: «gli stati N (naturali o privilegiati) che non richiedono (né ammettono) spiegazione e quelli che viceversa la richiedono (che vanno cioè spiegati come ‘devianze’ da N imputabili casualmente all’azione di forze F). Nozick adduce al riguardo gli esempi di Aristotele e di Newton: per il primo, lo “stato naturale” che non richiede spiegazione era la quiete, e le deviazioni da questo stato si determinavano per l’azione costante esercitata da forze impresse; per il secondo era invece costituito dalla quiete e dal moto rettilineo uniforme, mentre tutti gli altri moti dovevano essere spiegati mediante “forze non controbilanciate che agiscono sui corpi”. A questi esempi potremmo affiancare dal canto nostro… proprio quella di Leibniz. Con risultati un po’ curiosi, se non addirittura paradossali: per la metafisica leibniziana nessuno stato del mondo soddisfa i requisiti di N, poiché ogni situazione del mondo, anzi il mondo nel suo complesso, necessita – in quanto contingenza e devianza – di una giustificazione. Si potrebbe azzardare allora, sempre avvalendoci della stilizzazione di Nozick, che il solo “stato N” sia rappresentato in Leibniz dalla mera potenza o virtualità… e che E sia costituito invece dall’azione impressa a questi ultimi dall’Ens existentificans. Riceverebbe così un’ulteriore conferma e chiarificazione la tesi per cui nulla esisterebbe senza il conato all’esistenza impresso ai possibili dalla forza “esistentificante” di Dio.

Robert Nozick 1Ma torniamo alla forma di domanda “perché c’è X anziché Y?”. A essa si attagliano per Nozick particolarmente le teorie egualitarie: “C’è uno stato non-N anziché uno stato N a causa delle forze F che hanno allontanato il sistema da N. E se c’è uno stato N, c’è perché nessuna forza non controbilanciata ha allontanato il sistema da N“. È in conformità a questo dispositivo che la domanda “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?” implica “una presunzione favorevole alla nientità [a presumption in favor of nothingness]”. La domanda ha, in altri termini, un senso solo se si presume che il nulla sia lo stato naturale o privilegiato che non ha bisogno di spiegazioni, mentre ogni devianza dal nulla – sia pure un aliquid impercettibile – va spiegata mediante il ricorso a fattori causali speciali. La difficoltà del problema risiederebbe però a questo punto nel fatto che “qualsiasi fattore speciale in grado di spiegare una deviazione dalla nientità diverge a sua volta dalla nientità, per cui la domanda chiede di spiegare anche quello”. La questione che Nozick deve porsi a questo stadio della sua explanation suona davvero schiettamente “leibniziana”: è possibile immaginare il nulla come uno stato naturale – ovvero una situazione simmetrica iniziale – che “contenga in sé la forza con cui produrre il qualcosa?”…. Resta tuttavia in piedi la plausibilità dell’argomentazione: assumere il Nulla come stato “naturale” potrebbe anche voler dire che esso deriva da una potentissima forza “nientificante” (tanto per intenderci: simmetrica e opposta all'”esistentificante” di Leibniz), una vacuum force, una “forza aspirante che risucchia le cose nell’inesistenza”. Diremmo allora che il Nulla “nientifica” se stesso: See how Heideggerian the seas of language run here! Quanto è heideggeriano, qui, l’oceano della lingua!” – esclama ironicamente Nozick. In base a questa idea si giungerebbe alla conclusione che c’è qualcosa anziché niente perché c’era una volta una forza di nientità che ha nientato se stessa. Producendo qualcosa. Forse, però, si è nientata solo in parte, producendo qualcosa ma lasciando ancora un po’ di forza di nientità [force for nothingness] residua” (Ibidem).

Abbiamo in tal modo l’esatto rovescio dell’Endspiel, del “finale di partita” leibniziano. Rovescio talmente perfetto da lasciarne intatti tutti i passaggi intermedi: dalla radicale contingenza del mondo all’allineamento orizzontale dei possibili. Ma un allineamento siffatto è proprio quello contemplato dalle “teorie egualitarie“, verso cui Nozick sembra nettamente propendere: “Una teorie egualitaria [egalitarian theory] coerente non considererà più naturale, o privilegiato, il non esistere o non sussistere, nemmeno per una possibilità, e metterà tutte le possibilità sullo stesso piano. Un modo per farlo è quello di dire che tutte le possibilità sono realizzate”. Conclusione – ancora – clamorosamente leibniziana, si sarebbe portati a dire. Salvo due differenze: “impercettibili”, forse, ma davvero decisive.

In primo luogo, le possibilità sono in Leibniz tutt’altro che “fittizie”, come si è visto, ma non realizzate: sono soltanto idealmente presenti pari jure “in Dio”, essendo la loro compossibilità intrinsecamente condizionata dalla universale concorrenza a esistere.

In secondo luogo: abbracciare la teoria egualitaria non implica soltanto rispetto alla domanda “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?”, una neutralizzazione del contrasto implicito nel piuttosto-che, ma un azzeramento del paradosso che proprio quella particolare forma di interrogazione – e non un’altra – tenta di indicare o di evocare.

[…]

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Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Il problema radicale dell’essere e del nulla non è una questione che si ponga “provvidenzialmente” a un determinato stadio della storia del Nichilismo, a un’«ora X» dell’«oblio» o della “manifestatività” destinale dell’Essere. È un problema che può porsi, e che è stato di fatto variamente posto, in tutte le “epoche” della riflessione filosofica. Lo specifico contributo heideggeriano alla questione sollevata da Leibniz sta – come aveva osservato a suo tempo Luigi Scaravelli in un magistrale saggio su Il problema speculativo di Martin Heidegger – nella dimostrazione che l’«unità in cui l’essere e il nulla coincidono non è l’identità, né la dialettica del sapere». Questa unità avviene piuttosto «come continuo allontanarsi in noi dell’essere di noi stessi, in quanto l’allontanarsi di quest’essere è l’agire come costruzione d’una realtà che è il mondo stesso».

[…]

In quanto Ente “esistentificante”, Dio non solo fa si che esista qualcosa piuttosto che il nulla, ma anche che omne possibile habeat conatum ad Existentiam, che “ogni possibile abbia un conato all’esistenza”, dal momento che l’universale non ammette una ragione di restrizione dei possibili. Da ciò consegue però soltanto che “ogni possibile può essere detto existiturire in quanto si fonda sull’Ente necessario esistente in atto, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per cui il possibile pervenga all’atto”; ma non che “tutti i possibili esistano”, che l’intera gamma della potenza pervenga all’atto: ciò che si darebbe esclusivamente a condizione che tutti i possibilia fossero compossibilia. Ma poiché, nella pretesa di esistere tutti, i possibili si trovano in conflitto, solo alcuni – in ragione della reciproca incompatibilità – giungono all’esistenza. Sta qui l’inestirpabile radice della divergenza delle serie“».*

Giacomo-Marramao

*Giacomo Marramao Minima temporalia. Tempo spazio esperienza lucasossella editore, 2005 pp. 32 segg.

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