La gentificazione dei pianeti disseminati nel Cosmo, Scambio di Missive telepatiche tra vari pianeti dispersi nel cosmo tra gli Avatar Gneo Gaius Fabius, Scintilla, Tizyfardwell, Tallia e Germanico (Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Tiziana Antonilli, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa), di Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio, acrilico, 70×70, 2024

Lucio Mayoor Tosi Paesaggio Mirò 70x70 2024

(Lucio Mayoor Tosi, paesaggio, acrilico, 70×70, 2024)

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La gentificazione dei pianeti disseminati nel Cosmo

È avvenuta una deflagrazione sul pianeta Terra, i superstiti sono trasmigrati su vari pianeti o esopianeti del cosmo che parlano tramite degli Avatar. Con il termine Avatar si designa una persona virtuale che rappresenta (in sostituzione di) una persona reale. Ad esempio, se giochi su internet hai bisogno di creare un avatar che ti rappresenti. In particolare, potresti dover disegnare un avatar usando le funzioni del gioco decidendo gli abiti, il colore dei capelli, il colore degli occhi, i vestiti etc. dandogli un nome (che viene detto “nickname”), un’età, specificando alcuni lati del carattere o, ancora, delle abilità specifiche nel gioco. Un altro esempio di avatar è quello usato nei forum e nei luoghi di discussione online per cui non devi dichiarare la tua identità ma in cui hai comunque l’obbligo di registrarti: in questo caso il tuo avatar sarà l’unione dell’immagine personale che sceglierai per rappresentarti e del tuo nickname, oltre che a tutte le informazioni che vorrai specificare come data di nascita, sesso, indirizzo di posta elettronica e altro. Nel nostro caso, ciascuno dei poeti kitchen ha scelto un avatar senza riguardo al modo di essere, di parlare, di vestirsi, e di comportarsi corrispondenti a monte con le identità degli autori. In questo modo, abbiamo delle persone parallele (sostitutive degli originali) che parlano, si comportano, agiscono in modo completamente libero da quello degli autori i quali non sono più i proprietari degli avatar prescelti, ma degli Estranei. In realtà, gli Avatar così messi al mondo sono degli Estranei, ma anche dei Fratelli che condividono, in qualche modo, con gli Autori a monte il loro destino prossimo venturo, o attuale non sappiamo, per via della complessità della realtà che non è più fungibile (eligibile) in esclusiva da un singolo Autore. I poeti che seguono hanno scelto ciascuno per rappresentare se stessi un Avatar. Improvvisamente, questi Avatar si scoprono liberi dalla prigionia dell’io.

(n.d.r.)

Francesco Paolo Intini

Qui diventa sempre più faticoso rifare tali e quali le cose prima di rimetterle in circolo.

Metti che la terra intera diventi un pollo arrosto a beneficio di una stella di neutroni, chi mai potrebbe opporsi? Forse che antiprotoni e positroni interverrebbero in favore del Carbonio che tutto s’intestò?

Metti la corrosione degli ulivi. Gli alveoli nelle foglie, un tempo inossidabili, furono abbandonati in fretta e furia. Convenne sostituirli con cineserie per assicurare olio extravergine tutto l’anno e a costo zero.

Ottimo l’affare si disse ma ora mancano i pezzi di ricambio e il Darmastadio come il Fermio e il Mendelevio bisogna andarli a cercare nella materia oscura.

Come accordarsi con i suoi principi? Un Borgia che aspiri al dominio del principio di non contraddizione deve ancora nascere. I buchi neri di quella parte dell’universo ci stanno pensando da tempo ma la gravità non è mai sufficiente a coprire le spese.

Nell’attesa il Valentino fa il verbo Essere.

Lasciare che il resto del linguaggio si imbarcasse verso il grande Blob, abbandonando le foreste vergini a fiere dissennate è stato un grave errore.

Si sono aperti contenziosi tra logica e certezza in ogni angolo del mondo, con guerre senza via d’uscita.  A vantaggio di chi? Dell’appetito di pochi re di Komodo.

Gli eserciti non mancano e i Colleoni si interessano ai piatti di primizie: spaghetti che si attorcigliano da soli e s’infilano tra i denti come cobra in un nido di fringuelli per giungere al pensiero.

D’altra parte, come opporsi alle barbarie dell’entropia con questa fissazione di eventi irreversibili.

Dico che ben si sente l’aria molesta di gas mefitici, fosgene per indicare quello del ciliegio.

Ah, lavorare a Sud della Terra di Maud non è una benedizione!

Pompare ossigeno nei fiori sul lungomare, scartando iprite, è questione che mi appassiona ma, secondo te, posso spendere la maggior parte del tempo a trovar peschi tra piante carnivore?

E dove trovo sufficienti arcobaleni per rimettere qualche raggio di luce bianca nei lampioni e sbarazzarmi dei raggi gamma?

Il tuo amico forse saprebbe rispondermi?

Un caro saluto

Caro Germanico

(Gneo Gaius Fabius)

Lucio Tosi 2 senza titolo, acrilico 70x70 2024

(Lucio Mayoor Tosi, Senza titolo, acrilico, 70×70, 2024)

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Giorgio Linguaglossa

caro Gneo Gaius Fabius,

una stella di neuroni ha più possibilità di esistenza di una stella di neutroni, e che dire se esce del fumo dalla mia moka sul fornello ne arguirò che il caffè è pronto sia che mi trovo su Plutone sia che mi trasferisca su Mephisto nella galassia di Orione, ma lì, in un ologramma parallelo c’erano berretti verdi, gialli e rossi che fumavano il kalumeth

Purtroppo, in quanto terrestri, siamo nati sotto una stella di idrogeno e di elio, non ci resta che accettare la nostra condizione stellare, non credi?

Il mio amico, il mago Woland, non può risponderti, neanche se lo volesse perché egli è, contemporaneamente, in due universi, vive nella materia oscura, ma può anche fare comparsate nella materia del nostro universo, comprendi?, tutto ciò per via dei black hole che collegano i due universi nel medesimo istante

Così, se lui lo volesse, potrebbe far scontrare Giulio Cesare con Putoler e farne carne in scatola Simmenthal, potrebbe fare di tutto e di più, o di meno; così, il maggiordomo Camembert di Marie Laure Colasson potrebbe orinare sulla testa di Maria Antonietta prima di andare alla ghigliottina, per poi metterla in salvo in un universo parallelo dove vivono e prosperano le nostre aspirazioni segrete
Chissà, tutto è possibile in questo pluriverso di folli

Lo scienziato matto tuo amico, Francesco Paolo Intini, forse saprebbe rispondermi?
L’Elephante nascosto nel comodino può rispondermi?
(Germanico)

Marie Laure Colasson

Adesso basta,
mettiamo da parte i berretti verdi, gialli e rossi, indossiamo solo cappelli neri con la veletta, dei porte jarrtelles e guêpières e a tutti i maschi maschilisti che fanno la guerra, dichiariamo guerra, imbracciamo kalashnikov che spara confetti al cioccolato e li mandiamo a combattere su Mephisto, lì non c’è nessun Elephante seduto nel cassetto della mia toeletta…

E poi tu, caro Lucio, mi devi spiegare perché ce l’hai con le Marquis De Sade e con il Signor Francis Bacon, io avrei preferito che te la prendessi con il General De Gaulle e la Signora Tatcher.

Adesso ho i capelli disperati e un diavolo per capello e non ti consiglierei di incontrarmi per strada… a proposito, vorrei assicurare Germanico che ho recuperato il portafogli dalla tasca interna della sua giacca e che può ritirarlo qui alla circonvallazione Clodia 21, peccato che ho già dilapidato tutte le banconote virtuali, tanto su Mephisto le cryptovalute sono fuori corso, lì le usano come sostituti della carta igienica non profumata; qui Cicerone dipinge l’acrilico di Raffaele Ciccarone titolato “Corde” del 2024, c’è stata una collisione di ologrammi a cagione di turbata libertà degli incanti ed emissione di fatture per operazioni inesistenti

Ora però vi lascio perché devo andare dal parrucchiere, sapete come sono le donne…
à bientôt

(Scintilla)

Lucio Mayoor Tosi Non-stop, acrilico

(Lucio Mayoor Tosi, Senza titolo, acrilico, 70×70, 2024)Lucio Mayoor Tosi Uomo sotto la neve
(Lucio Mayoor Tosi, box, uomo in bicicletta sotto la neve, 2024)

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Tiziana Antonilli

Cari Germanico e Gneus Gaius Fabius,

se la domanda è tornare o no su Mephisto insieme a Marie Laure Colasson , posso solo dire che Don deLillo aveva previsto lo zero assoluto e aveva ibernato tutti in modalità Zero k in attesa.
Ma di cosa? Se l’alternativa è essere invasi dai berretti gialli e verdi preferisco scappare dal campo largo anche perché le elezioni per il Parlamento delle Galassie sono imminenti. Sul mio pianeta si è già deciso: meglio un san Giorgio combattivo che il drago di turno o un Ursula pro-Pfizer.
Proprio perché l’orbita della Terra oscilla e le api scarseggiano io per ora resto sul mio pianeta, ma non escludo di andare su Mephisto, se non c’è parentela con le scarpe. In quel caso preferisco infradito antiscivolo.

(Tizyfardwell)

Giuseppe Talia

POESIA

Dov’è la poesia? Dove s’è nascosta? O meglio, dove l’avete nascosta? Non la trovo. La cerco da ore. Ho aperti tutti i cassetti. Rovistato nell’armadio bulimico. Nel frigorifero anoressico. Nelle tasche d’ogni giacca o pantalone. L’avevo lasciata tra le pagine della Gerusalemme Liberata. Si divertiva tanto nel ricordare Elicona e le sue amiche Muse, a Parnaso, con cui andava spesso a cavallo. “Tutta colpa di Goffredo”, diceva.

Non la trovo. Ne ho bisogno, devo uscire. Di solito m’accompagna.

Aveva messo il broncio scoprendo che stavo cercando di mettere a confronto una poesia della Szymborska con una della Bishop. “Sbagli!” Mi diceva. “le conosco bene entrambe, sono così distanti. Una è metafisica e cerca la porta per penetrare una pietra, l’altra, carnale, parla di suicidi a colazione. Ad una le ho messo accanto una Musa alluvionata, all’altra la Litote. Wislawa nasce da un incessante “non so”, Elizabeth appena nata l’ho marchiata con “Io l’ho visto”. Cosa vuoi che abbiano in comune?”

Eppure queste due poesie, insistevo, mi sembrano speculari. Un punto d’incontro di due opposti. Entrambe hanno perso qualcosa e nel cercare ciò che hanno perso hanno ritrovato qualcos’altro. Bishop in “One Art” ha perso le chiavi, luoghi e nomi, case e città, ha perso persino la voce e il gesto amato. Szymborska, d’altro canto, ha perso dee e dei, qualche stella, una intera isola, i fratelli, un ombrello, come denuncia all’ufficio oggetti smarriti.

E d’altronde tu non vivi sugli opposti?
“Che semplificazioni le tue!” Era adirata. “Non sono un lusso, sono il nome stesso delle cose perdute. Sono speranza e sogno.”

E dispensi scranni.

“Sciocco, solo per qualche esempio a te vicino per conoscenza, Bellezza lo scranno l’ha bruciato nella stufa per riscaldarsi, alla Spaziani gliel’hanno tolto da sotto il sedere quando pensava di averlo ben fissato sulla pedana, a Luzi gliel’hanno soffiato sotto il naso, messo nel sacco dalla politica. Chi rimane, oggi? C’è il vuoto, solo posti in pedi e qualche muro radente. E’ la Nemesi. La disumanizzazione. Le associazioni mafiose di stampo poetico venute su ovunque come funghi dopo un temporale d’ottobre.”

“In passato mi fidavo degli umani e dimoravo spesso presso di loro. Poi hanno iniziato a chiamarmi, invocarmi, anche per le quisquilie e pinzillacchere: “Questo tramonto è una poesia,” sentivo dire, ed io pronta mescolavo il rosa con l’arancione, dispiegavo nuvole d’oro, riflettevo la luce sulle facciate dei palazzi. Che ingenua! Infine hanno trovato il modo di fare soldi con il mio nome. Ma io sono Una e dimoro sulla luna, le monete, invece sono bifronti. Così, adesso, appena sento il mio nome invocato invano, addenso nuvole nere all’improvviso e scrosci d’acqua imponenti, chiamo a raccolta tutti i venti, scrollo le foglie dagli alberi come lance che trafiggono il terreno. Gli alberi al mio comando fioriscono in gennaio e in marzo sono fossili sulle piante secche.”

E’ fuggita via, sbattendo la porta e da allora non l’ho più vista. Dove sarà? Ne ho bisogno, devo uscire. Di solito m’accompagna.

P.S. “Ti lascio la Musa dell’ultimo minuto. Non mi cercare. Trova prima te stesso.”

(Tallia)

Giorgio Linguaglossa

cari amici,

la terra è piatta, anche la luna è piatta asseriscono i terrapiattisti, infatti Galileo ne scrisse in un libello che venne dato alle fiamme dall’Inquisizione; è stata la Cia a uccidere J.f. Kennedy!, L’allunaggio è stato una montatura girata in un set cinematografico! Il Titanic rimase nel porto di Southampton e ad affondare fu la sua nave gemella segreta “Olympic”; Hitler non si è suicidato ma è fuggito in Australia a preparare il nuovo conflitto mondiale in combutta con Bessarionovic Stalin; il coronavirus è stato liberato da un laboratorio di Yuan agli ordini di Xi, l’onnipresente Xi al quale è da addebitare anche la Xilella, vedi il prefisso Xi, che ha infestato milioni di alberi di ulivo in Puglia; la Schlein è stata inviata dal Maligno per distruggere il partito democratico e papa Francesco è stato eletto per annichilire la Chiesa romana, è lui l’Anti Cristo! Antonio Sagredo non è Antonio Sagredo ma il suo sosia venuto al mondo per incenerire la poesia romana del XXI secolo coadiuvato dal poeta matto Francesco Paolo Intini; la bianca geisha non è Marie Laure Colasson ma un missile sparato verso il Donbass; l’Ombra delle Parole ha istituito una Unità di Crisi per monitorare in via permanente i livelli massimi di CO2 presenti sullo Stivale, infatti il poeta kitchen Vincenzo Petronelli si è ribaltato con la sua automobile in una curva sulla statale che va da Como a Busto Arsizio perché aveva inveito contro il “Decamerone” del Boccaccio, e Lucio Tosi, detto il Mayoor, non è Lucio Tosi ma un avatar creato dal Pentagono per seminare zizzania nella redazione dell’Ombra delle Parole…
Questo è quanto Vi dovevo in questa sessione, cari amici, alle prossime puntate il prosieguo

(Germanico)

le biobibliografie degli autori sono rintracciabili cliccando su “Chi siamo”

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Una Unità di crisi per seguire e monitorare tutta la notte quello che sta accadendo nella poesia italiana, Il modello ludolinguistico, il modello neorealistico, seppur corretto con iniezioni di reportage, flusso di coscienza o altro, come ogni altro modello del novecento, va ribasato all-interno di un «Nuovo Paradigma», Dialogo tra due Avatar, Gneo Gaius Fabius e Germanico, Francesco Paolo Intini e Giorgio Linguaglossa, Corde di Raffaele Ciccarone, acrilico, 2024, Lucio Mayoor Tosi, senza titolo, acrilico, 60×60, 2024

Raffaele Ciccarone acrilico corde di colori 2024

Raffaele Ciccarone, corde, acrilico, 60×60, 2024

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L’Ombra delle Parole ha attivato da tempo una Unità di crisi per seguire e monitorare tutta la notte quello che sta accadendo nella poesia italiana. Mi auguro che la normologia maggioritaria non si imbarchi in una ulteriore escalation verso la vacuità e l’evasione, ma nessuno di noi si illude che possa mai verificarsi alcuna correzione di rotta della poesia attuale di fatto già inesistente, come risulta dalla cartografia della accademia.

“Dobbiamo abituarci all’idea: ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica.”
(Ernest Hemingway)

Non pensare all’Elephante è il miglior modo per cadere sotto l’Elephante. È l’epiciclo utopico dell’apocalittica, lo «sguardo impossibile» di quei potenziali di resistenza che sopravvivono «in qualità di spettri storici» (p. 133), «versioni alternative del passato che persistono in forma spettrale e che costituiscono l’apertura ontologica del processo storico» (p. 134). È la «formula del ‘E se?’» (p. 136) di Žižek (Vivere alla fine dei tempi) . E se il Re non ci fosse?, se fossimo noi stessi il re che ha abbattuto il Re?, se fosse il Grande Vuoto che ha abdicato al «vuoto»?, e se tutto ciò non fossero altro che Spettri che si affollano nel Vuoto e nel vuoto?, e se tutto ciò non fosse altro che la nostra falsa coscienza che abita il Grande Vuoto?, e se il posto del reale non fosse più nel posto del Reale?

«Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato», afferma Lacan.

Il modello ludolinguistico, il modello orfico, il modello neorealistico, seppur corretti con iniezioni di reportage, flusso di coscienza o altro, come ogni altro modello del novecento, vanno ribasati, destrutturati e riterritorializzati all’interno di un «Nuovo Paradigma».

Francesco Paolo Intini Copertina

Francesco Paolo Intini

SUL CIGOLARE DEL GALLO IN MEZZO AI VENTI

Ci vorrebbe Bukowski per cavalcare questa tormenta di avvocati e querelanti ma rimane Dante, stordito dal mercanteggiare. Impossibile viaggiare oltre, qui si arriva e qui si rimane. Tirato su da pinze di gaglioffi, tenta di assalire lo schermo di Flegias.

L’entrata di Dante nella metafora è stata a gamba tesa, da rompersi la clavicola e chiedere di essere medicato nella farmacia di Dite.

-Si, ma devi dirci cos’ è più buono del profumo dei porcini.

Figurine nell’hip pop, tagliere e cipolle si sfidano a duello.Di mezzo la rovina di una scodella. Burro di Stato si scioglie nel soffritto. Salsa di pomodoro incandescente che piove dalle mura del Parlamento.

-Perché e come la ruggine si forma?

Risponda alla questio. Ne va di mezzo il cingolo offeso dall’Effe-16 per un bacio perugino.

Il fiorentino rischia la pena di morte. Si vede già appeso alla gru.

Soppressata o pipistrello, perde consistenza e s’indurisce.

Dalla gabbia del bisogno cola il grasso della libertà.

Lo disturba il gocciolio, la tisana della scimmia che gli è accanto.

Togliere ossigeno dall’anodo non è stata una buona idea. Piuttosto che rinforzare le mura ferrose bisognava dare fiato alla classe operaia. Non s’è mai visto un catodo più inerte, una teoria indurirsi e diventare refrattaria come questo catodo alla brace.

E dunque perché cigola tra i denti il gallo?

F.P. Intini

Giorgio Linguaglossa

caro Gneo Gaius Fabius,

come noto, ho fatto appena in tempo ad avvisare Marie Laure Colasson ad abbandonare il pianeta Mephisto. Ho messo tutti i suoi bigodini, i rossetti, gli eyeliners, le scarpe con i tacchi a spillo, i maglioni a collo alto e la biancheria indispensabie in un trolley, i libri della sua biblioteca elettronica in una valigetta 24 ore, i documenti in una penna e via!

L’astronave Crypto è atterrata su un altro pianeta del sistema solare Orione, Morpheus, pare che lì si possa ancora vivere in pace, in mezzo a delle giraffe che dormono il giorno e scorrazzano la notte, pipistrelli ghiotti di caramelle e pesci volanti, lì c’è un mare abitato da meduse carnivore e spiaggette deliziose con sabbie dorate dove puoi prendere un sole pallido, ma bisogna stare attenti alle locuste che viaggiano a nuvole e non ti consiglierei di incontrarle…

È accaduto su Mephisto che unità d’avanguardia dei berretti verdi si siano scontrate con i berretti gialli e unità della Wagner per la conquista delle polveri ricche di isotopi di Elio3, di trizio, di deuterio e di clodio. Pare che i berretti verdi abbiano avuto la meglio per via che si sono installati nei “punti ciechi” dove i satelliti dei gialli non potevano individuarli e di lì i Marines hanno avuto buon gioco a neutralizzare i gialli e i rossi con i laser e i droni invisibili

Per il momento i visi pallidi hanno ripreso il controllo del pianeta Mephisto, ma la situazione appare incerta, la Colasson ha ribadito la sua volontà di tornare su Mephisto ma io temo che presto i berretti gialli e i rossi torneranno in forze e ci sarà un nuovo parapiglia

Tu che mi consigli caro Gneo Gaius Fabius?, tornare o non tornare su Mephisto?

(Germanico)

Lucio Tosi 2 senza titolo, acrilico 70x70 2024

 Lucio Mayoor Tosi, senza titolo, acrilico, 60×60, 2024

Francesco Paolo Intini
15 aprile 2024 alle 12:21
Caro Germanico

Tu mi parli di un possibile ritorno su Mephisto dove la situazione si è fatta incerta. E in realtà tutto ciò è frutto di certe oscillazioni dei pianeti da un’orbita all’altra.

Scopo dei miei viaggi è anche quello di capirne la natura, poiché esse sembrano avere a che fare con dei cambiamenti nelle direzioni degli impulsi elettrici negli umani.

In altri termini le funzioni affidate alla materia cerebrale vorrebbero trasferirsi negli alluci.

Un aspetto non secondario sembra anche l’autoreferenzialità delle mani che reclamano una considerevole parte nel comando dei potenziali d’azione.

Chi vorrebbe una mano destra tesa sul braccio, chi vorrebbe sostituirla con un pugno stretto da sbattere sulla miseria, ma intanto gli eventi precipitano.

La terra è investita da un’ondata di energia sufficiente a portarla nell’orbita che un tempo occupava Marte, ma nessuno sembra occuparsene.

Il caporeparto in questa parte del sistema solare non s’è fatto attendere.

Le lezioni di un emerito nato e vissuto su un pianeta abbrustolito dovrebbero essere di monito a quanti, a costo di trasformarsi in insetti, mirano al dominio della galassia.

Poi c’è Mephisto e la sua orbita a zig-zag tra quella di Venere e Mercurio fa davvero paura e al momento sembra inspiegabile ma dagli studi più recenti sembra che questo agevoli il rifornimento di Elio direttamente dal Sole.

Non c’è da meravigliarsi dunque se arrivano frotte di berretti verdi e gialli per appropriarsene quanto più possibile. Portarlo allo stato solido, scendere sotto lo zero assoluto sembrano i requisiti fondamentali nella tecnologia del futuro.

Grandi cose possono accadere, ma niente che non sia già nella teoria.

Unghie pensanti e nervi che si alimentano di freddo extra-siderale sono presenti nelle discussioni di grandi scienziati e già si riportano i primi modelli nelle pubblicazioni.

Che faranno i cervelli di fronte a masse di calli al comando degli stati?

È il grande interrogativo. Caro amico, personalmente temo il peggio perché già se ne sente il fiato dentro eserciti di logica bloccati sulle Himalaya da partigiani delle antinomie.

Come se non bastasse il contributo umano, ci inquietano questi sfiati di protoni e antiprotoni che scorrazzano nelle vaste pianure in cerca di neuroni.

Ad attrarli sono fiori coperti di spine lunghe come camini che emanano quark umani.

Dove sono le api? Le ultime si sono viste all’assalto della propria regina, a devastarle trono e ricchezze accumulate in milioni di anni.

G. G. Fabius

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Giorgio Linguaglossa
16 aprile 2024 alle 8:43
Caro Gneo Gaius Fabius,

«la Coop sei tu», mi dice il pappagallo Proust. Adesso ingurgito le compresse di Mibumal, «uso orale», c’è scritto nel bugiardino, e dove potrei metterle queste pillole rivestite di film?. Leggo che su Mephisto hanno inventato una carta igienica profumata, che è andata a ruba. Come dice Totò, «ho detto tutto». Quanto ai berretti verdi, gialli e rossi, io mi sono munito di un berretto bianco da porre sulla mia testa, ho preso l’ascensore elettromagnetico che unisce la Luna alla Terra e sono ritornato alla mia città d’adozione, Roma, c’era il generale Stilicone che organizzava la difesa contro i goti, ma ero in bicicletta, cosa che ha attratto le curiosità dei romani. Io ho risposto loro che nel 3034 si va in bicicletta tra un’orbita all’altra del sistema solare, e ho mostrato loro il revolver di Marie Laure Colasson, calibro 7,65 con tamburo a rullo che spara sei colpi, beh, non puoi credere lo stupore e le rimostranze dei romani i quali hanno preso l’oggetto come un talismano, un giocattolo. «Ma non è un giocattolo!», ho esclamato invano.

Tra tutti questi frangenti, mi sono rifugiato nel passato che sta qui su un universo parallelo, qui si può vivere in qualche modo, tra un campo di fononi e uno di quasi particelle diventiamo anche noi un campo di quasi particelle, liberi dal bosonificio del bosone di Higgs e siamo liberi, liberi anche di liberarci dalle particelle che abitano la gravita, il tempo, lo spazio, dalle parole e, in una parola, anche dalla storia, ti consiglierei di fare il salto quantico e di rifugiarti anche tu nel passato tra questi campi di quasi particelle e di fononi, però però… c’è che c’è un certo margine di errore, magari tu vuoi scendere nel 2024 dell’era secolare e ti ritrovi nel 2024 prima di Cristo, sai con questi ologrammi non si sa mai, allora ho fatto una correzione di rotta e mi sono ritrovato nel 2024, cadevano droni e missili dappertutto, i berretti rossi e gialli avevano preso il sopravvento e sventolavano il libretto rosso di Mao, così mi hanno sequestrato la bicicletta a motore solare e mi hanno rinchiuso in cella con l’accusa di essere un pericoloso sovversivo liberal-democratico… al che ho capito come stavano le cose, ho chiamato al telefono telepatico intergalattico la Colasson, «non dimenticare di prendere il portafoglio con le cryoptovalute dalla tasca interna della giacca appesa all-appendiabiti!» le ho gridato, poi le ho detto anche di cambiare modulo, ehm, ologramma e di scegliere un’altra data qui sul pianeta Terra, così mi sono involato dal carcere di Regina Coeli e sono atterrato sul pianeta Mephisto, non potevo andare più oltre per via di un guasto al motore a carburante solare, ma, a causa del mio berretto bianco sono stato arrestato e inquisito come agente straniero patogeno e messo agli arresti domiciliari dove posso bere solo birra Peroni e deglutire solo cibo italiano Made in Italy

È così che sono ritornato al punto di partenza caro Gneo Gaius Fabius, tu che mi consigli di fare?

(Germanico)

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I meccanismi  ludolinguistici di Stefano Taccone come demistificazione del reale. Poesie da “Sciogliete le rime”, campanotto editore, 2023, Lettura di Letizia Leone, video di Gianni Godi, Per favore chiamatemi Higgs

“per favore chiamatemi Higgs”
video di Gianni Godi.

Stefano-Taccone-1

Ho avuto modo in passato di soffermarmi sulla scrittura di Stefano Taccone, (storico dell’arte, critico d’arte, poeta e scrittore) approfondendo il senso di una poetica posta sotto il segno dell’onirismo, del surrealismo giocoso e della dis-automatizzazione delle convenzioni narrative. È utile ricordare qui solo alcuni libri di racconti come Sogniloqui, Morfeologie, oppure il romanzo Sertuccio, o le raccolte poetiche Alienità e Terrestri d’adozione, dato che leggendo quest’ultima prova poetica Sciogliete le rime (Campanotto, 2023) è stato inevitabile riscontrarne la continuità di ricerca ed ispirazione.

L’allusività dell’imperativo militaresco del titolo, Sciogliete le rime, affonda nell’intento parodistico di voler mettere l’atto creativo sotto il segno di una libertà ricreativa, ludica ma anche polemica. Taccone si prende gioco della comunicazione stereotipata dell’informazione mediatica ma anche di certa poeticità legando sempre i suoi versi al reale e al contingente.

Dopo la presa d’atto definitiva del tramonto di qualsiasi aura poetica, Stefano Taccone con un linguaggio leggero, parodistico, burlesco ci restituisce tutta la confusa mediocrità del modus vivendi contemporaneo. I testi mostrano un’aderenza alle problematiche più urgenti dell’attualità, siano i temi ecologici, le pandemie o i fallimenti interattivi con la nuova alfabetizzazione digitale: Ottieni una username / e scegli una password / per il tuo profilo spam / «io sono Sam»

Sappiamo che storicamente la formazione di una coscienza critica del sociale è passata anche attraverso la sfida ironica e il discorso comico, sebbene si tratti di un filone poco frequentato dalla poesia italiana. Una linea che parte da Cecco Angiolieri, transita per il toscano Francesco Berni o il Ruzante, e annovera nel moderno figure di rilievo come Vito Riviello o Leopoldo Attolico, recentemente scomparso, per non dimenticare la satira di costume di Ennio Flaiano.

Non a caso, Freud nel suo saggio Il motto di spirito del 1905 constatò che certi tratti formali come tecniche di spostamento o condensazione sono comuni sia al motto, alla facezia che alla dimensione onirica.  Il sogno opera una traslazione dal linguaggio alle immagini, e parallelamente, il motto di spirito passa dal linguaggio logico a quello del gioco.

L’autore stesso in una intervista chiarisce i termini ludici del suo fare poietico: «ma si dà il caso che il mio non sia affatto un gioco. O meglio: è la poesia stessa ad essere per me un gioco, per quanto serissimo, come tutti i giochi cui valga la pena di giocare. E forse al fondo della mia inquietudine vi è proprio questo: il fastidio per il fatto che la poesia, in quanto gioco, non possa che risiedere su di un piano parallelo alla realtà in senso stretto. In altre parole ricorro alla poesia come “risarcimento” per la durezza della vita “seria”, ma, in quanto tale, la poesia diviene, appunto, altrettanto seria, benché solo nella misura in cui mi permette di sopportare la realtà, mentre sembra ulteriormente divaricarsi la frattura tra quest’ultima e la poesia.»

Un gioco serissimo dunque che volge alla manipolazione della parola, non da intendere come puro divertissement ma come efficace dinamica di distorsione ottica e confronto critico. In un certo senso si vorrebbe arrivare all’infanzia delle parole, ultimo approdo formale intuito anche dal poeta Manoel De Barros: «la parola poetica deve arrivare al grado di giocattolo per essere seria».

Basterebbe fare un elenco dei titoli delle varie sezioni o dei testi, ad illustrare l’elaborazione alla quale l’autore sottopone la lingua, la modificazione morfologica e semantica di una parola attraverso il cambio e la sostituzione di una o più lettere, la realizzazione di neologismi, parodie, evocazioni e allusività.

Bisticci e meccanismi ludolinguistici: Malarie e malacque; Parlo peso; Canti di accanimento; Affetti collaterali; Scuolamento; Ineffafferrabile; Bestiumanari vari; Polveri felici…ecc.

Mallarmé ha definito il poeta un incantatore di lettere, e bisogna anche ricordare quanto il manierismo secentesco abbia giocato in acutezza e artifici con le parole  tanto che Emanuele Tesauro nel suo Cannocchiale aristotelico stilò delle regole per una estetica delle lettere, un manuale fonetico di virtuosismi. Ciò che è più notevole qui sottolineare con G.R. Hocke è che «Il mezzo di comunicazione, la lingua, la lettera, la parola, la metafora, la frase, il periodo, il concetto, diventano autonomi. Si rinuncia alla loro funzione originaria…. Addirittura per Novalis «vengono momenti che gli abbecedari…ci sembrano poetici.»

Una corrente dell’irregolare attraversa la cultura poetica e artistica europea e tocca i suoi apici con il dadaismo. In Stefano Taccone gli artifici combinatori non sconfinano mai nel puro significante, ma l’intenzione è opposta: quella di voler potenziare la lingua nei suoi significati e scrostarla dalla routine della prassi comunicativa.

Il verso si concentra sulle combinazioni linguistiche con la riabilitazione delle figure retoriche. Ad esempio, l’uso massiccio della paronomasia nell’accostamento di parole foneticamente simili. Ma anche rime, assonanze, iterazioni e anafore… Un procedimento che rientra pienamente nella funzione poetica del linguaggio elaborata da Jakobson: «l’inclinazione a desumere, dalla somiglianza dei suoni, una connessione dei sensi, è un tratto caratteristico della funzione poetica del linguaggio».

Parallelismi ed equivalenze.

Molti sono i meccanismi messi in atto, bastino alcuni esempi: la modificazione, Parlo peso (derivato da perdo peso), il Bravo decente (derivato da il bravo docente); la formazione di parole miste: ineffaferrabile, sintesi di ineffabile e inafferrabile, e dunque neologismi: Scuolamento, Lotti asintopatici, Covislessico, …; allusioni e nuove invenzioni concettuali, mutazioni e associazioni, distorsioni che vogliono cambiare il punto di vista. Scherzi combinatori dove si fa mostra di una fantasia inesauribile, che pare costituzionale della personalità poetica di Taccone, il quale pare attingere direttamente dalla propria sterminata riserva onirica tutto questo materiale diurno di pura creatività e invenzione.

Stefano Taccone cover

Stefano Taccone è nato a Napoli nel 1981. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica all’Università di Salerno. Attualmente è docente di Storia dell’arte nella Scuola secondaria di secondo grado. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, 2010), La contestazione dell’arte (Phoebus Edizioni, 2013), La radicalità dell’avanguardia (Ombre Corte, 2017), La cooperazione dell’arte (Iod Edizioni, 2020), La critica istituzionale. Il nome e la cosa (Ombre Corte, 2022); le raccolte di racconti Sogniloqui (Iod Edizioni, 2018) e Morfeologie (Iod Edizioni, 2019), il romanzo Sertuccio (Iod Edizioni, 2020) e raccolte di poesie Alienità (Edizioni Divinafollia, 2019), Terrestri d’adozione (Edizioni Progetto Cultura, 2021) e Sciogliete le rime (Campanotto Editore, 2023). Ha curato le raccolte di saggi Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, 2014) e Religione/arte/rivoluzione, anche (Massari Editore, 2020). Collabora stabilmente con le riviste “Frequenze Poetiche”, “Segno” ed “OperaViva Magazine”.

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TESTI

STORIA DI UN TASTINERO

Tastiera
tasti
che testano
attraverso test
le teste bianche
e le teste nere
i tasti veri
e i tasti virtuali
le testine oscillanti
e le testate nucleari
che radono al suolo
dalla testa in giù

tasti di un bankomat
tasti di un pos

tasti di numeri
e tasti di lettere
tasti che preparano
fasti a caratteri speciali
testi laterali
allineamenti orizzontali
tasti di un pianoforte
cui spuntano le ali
e non hai più pretesti
per testoni molesti Continua a leggere

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Lorenzo Pompeo, La fondazione della città di Gomerosol, ensemble, Roma, 2024, pp. 68 € 13. Lettura di Marie Laure Colasson, il Reale è raffigurato in modo traslato e intersemico, in una struttura auto sufficiente e auto immune, in una una struttura difensiva e ostensiva della parola poetica come perfettamente in grado di rendersi indifferente ed estranea alla prassi

object misterieux dans le noir 20x20, 2024

(Marie Laure Colasson, object mystérieux, 20×20 cm acrilico, 2024)

Il Reale la poesia di Lorenzo Pompeo lo raffigura in modo traslato e intersemico, lo convoca in una struttura auto sufficiente e auto immune, erige, come dire, la struttura difensiva e ostensiva della parola poetica come perfettamente in grado di rendersi indifferente ed estranea alla prassi, perché la felicità non è nella prassi del poetico che, tra l’altro, non salva nessuno, ma al di là della prassi, di ogni prassi e al di là della storia, sembra volerci dire l’autore. Di conseguenza, la poesia del poeta romano approda ad un discorso poetico di matrice modernistica caratterizzata da una struttura diversificata del verso, un apparato nominale del discorso poetico che si dà in un luogo privo di prassi e privo di storia, come «coacervo di congetture», «lungo il filo teso/ tra la maschera e il volto». Allora, la sola felicità compossibile è quella che è contenuta nella prassi di una poiesis intesa alla stregua di una città inesistente, una «Città di Gomerosol» come atto di negazione e di rinegoziazione dell’utopia, entrambe rese obsolete dal corso degli eventi della storia mondiale di questa ultima decade, che vanno dalla occupazione della Crimea da parte della Russia alla invasione dell’Ucraina.

…Gomerosol
unica parola gradita al patriarca
al pari del pane e del vino
è un coacervo di congetture
disseminato di dubbi,
le coordinate
delle sue fondamenta
sospese nell’aria
fluttuano sulle dune di sabbia
nei semi delle colline celesti

Nella poiesis di oggi la forza gravitazionale della negatività è visibile nel rigore del suo statuto negativo perché la poiesis percepisce la prassi ermeneutica come intimidatoria e insidiosa, perché vuole respingere ogni domanda ermeneutica sospettata di essere invasiva e intrusiva, perché dichiara la poiesis sola e solitaria messa alle strette in una terra di Nessuno (Gomerosol); infatti la poiesis più matura e avvertita dei giorni nostri sa di non rappresentare nulla di che e ritiene il concetto di rappresentazione inadeguato oltre che inefficace, in quanto la felicità è sempre aldilà della storia, irraggiungibile perché sempre un po’ più in là del luogo ontologico che occupiamo nel mondo della storia. Come Scrive Adorno nella Teoria estetica (1970): «La forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità».

La poesia di Pompeo ci offre la rappresentazione di oggetti che non ci sono, il che potrebbe apparire antinomico o paradossale quando invece è perfettamente in linea con il pensiero filosofico e poetico odierno più aggiornato che preferisce alla descrizione di tutto ciò che accade, il sostare negli spazi intersemici, tra “Appunti e contrappunti”, tra il detto e il non detto, come recita la sezione finale del libro, che è anche un segnacolo anche del migliore investimento estetico di questa poesia. L’essenziale non rappresentabile è contenuto nel titolo emblematico: La fondazione della città di Gomerosol, che vuole alludere alla «fondazione» del discorso poetico come atto illusorio e irrealistico in quanto il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi soltanto nei termini di un eccesso residuale, mediante un magico atto di evocazione e/o di rievocazione e/o di negazione e/o di rimozione.

Poesia che adotta l’aforisma quale centro propulsore dello stile tragicomico («Senza intenzione, a metà strada/ tra lo specchio e il riflesso»). È la condizione della poesia moderna a cui manca il lieto fine. L’io che si scopre laterale evoca associazioni verbali, eventi, iconismi, grotteschi, soliloqui, filastrocche (leggasi “Filastrocca nel bicchiere”, “L’enigma della sfinge”) dove il comico vive di innesti onirici e surreali, rime vissute come alterchi improvvisi, come designazioni aritmiche.

 Tuttavia, il discorso poetico di Lorenzo Pompeo, negazionista delle virtù balsamiche della storia, si situa ancora all’interno del concetto modernistico di «fondazione». Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel «fuori» così intimo che è al contempo una dentrificazione. Fuori dal significato, fuori dal senso e fuori della storia il reale si dà alla poesia di Lorenzo Pompeo in tutta l’ambiguità del suo statuto ontologico, come «enigma» della sfinge, in un linguaggio che resta pur sempre modernistico erede della lezione dei poeti polacchi Tarnavskij ed Herbert da lui mirabilmente tradotti e studiati. Ed ecco la poesia dall’omonimo titolo “L’enigma della sfinge”:

(Marie Laure Colasson)

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Lorenzo Pompeo è nato a Roma nel 1968, è Dottore di ricerca in Slavistica, traduttore letterario, ha tradotto con diverse case editrici romanzi dal polacco e dall’ucraino. È autore della raccolta di racconti Auto-pseudo-bio-grafo-mania e il romanzo In arte Johnny. Vita, morte e miracoli di Giovan Battista Cianusaglia. Nel 2018 ha pubblicato Cemento armato di Santa Pazienza (Progetto Cultura, Roma), la sua prima raccolta di poesia. È ideatore e autore del blog di poesia “Ilvascellofantasma” che ha ospitato interviste con poeti come Filippo Strumia, Gilda Policastro e Guido Mazzoni. Collabora con i blog di poesia “Nazione indiana”, “Poetarumsilva” e il trimestrale “Il Mangiaparole”.

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Lorenzo Pompeo Cemento armato di santa pazienza

da La fondazione della città di Gomerosol

L’enigma della sfinge

Lungo il filo teso
tra la maschera e il volto
sfila il sorriso della luna,
equilibrista e maestra
del doppio gioco,
al suo passaggio,
le code dei pavoni si aprono
nella grande sala degli specchi,
vestita di nebbia
snocciola fumose litanie,
il suo passo leggero
carezza il pavimento,
attraversa il firmamento
con l’incedere imperioso
della carta stampata

Col volto consumato,
orfana del nome,
rimesta nel paiolo
parole favolose
svende il silenzio,
amplifica gigantesche solitudini
e chiude sempre lo spettacolo
con l’inchino del guitto.

Colpo di fulmine

Senza intenzione,
a metà strada
tra lo specchio e il riflesso
una singolare mancanza
arriva al suo traguardo,
le misure del labirinto
si sono estese
lungo la muraglia del visibile
il centro è nella cavità
di un incontro accidentale,
un bacio è come una ferita
che non vuole guarire.

Cammino in un febbrile coacervo,
attraverso campi magnetici
abbagliati da un sole intermittente.

Filastrocca nel bicchiere

Nel bicchiere impressionista
confluiscono papaveri viola,

nel bicchiere dell’illusionista
si addensano nuvole e pioggia,

nel bicchiere surrealista
piovono ombrelli neri,

nel bicchiere dell’alcolista
versano un distillato di tramonti,

in quello del musicista
si sedimenta un concerto di circostanze,

in quello del poeta
passano bastimenti allucinati

il bicchiere del pittore
è un’insegna colorata
che si accende e si spegne,
quello del medico
è prescritto dall’impegnativa,

in quello del prigioniero
fiorisce un sogno in cattività,

nel bicchiere del pastore
le pecorelle si smarriscono,
in quello dell’ambasciatore
si ritrovano passaporti smarriti,

nel bicchiere delle divinità
si accendono ombre d’oro,

in quello del pellegrino
si spengono sentieri accesi,

nel bicchiere del terrorista
esplodono i pensieri,

e sotto il mare c’è un bicchiere
che non si può vedere.

Diario di viaggio

Baldassarre
attraversa deserti d’inquietudine
disseminati
di mute testimonianze.

Melchiorre
insegue un riflesso dorato
tra le onde nere della steppa.

Gaspare
spegne le sere della città,
solleva strade e palazzine,
segna sentieri col gesso.

Baldassarre
attraversa gialle distese
con il fuoco sulla pelle.

Melchiorre mastica litanie,
si inginocchia
davanti alle immagini sacre.

Gaspare
sfida le automobili
nell’arena
in mondovisione

Baldassarre
semina passi nel vento
e scruta minacciose moltitudini
di attenuanti
con diffidenza e sospetto.

Melchiorre
dona la lingua e le parole
alle divinità locali,
invoca stelle e spiriti
nascosti nei fini d’erba.

Gaspare
scaglia scolorite invettive
contro indovini e sacerdoti.

Baldassarre
getta il cuore
contro le leggi
della termodinamica.

Melchiorre
si prostra alla luna
schiacciato dal peccato,
vuole diventare urina.

Gaspare
attende la telefonata
di un regista
e si trastulla con suo smartphone.

Baldassarre
si strappa dal petto d’angoscia
ma quella, incurante, ricresce.

Melchiorre
lega di dolore e pianto,
bestemmia e invoca.

Gaspare
si scatta un selfie
per la sua campagna elettorale.

Ma ora, ditemi,
cosa ci fanno tutti e tre
davanti a quella grotta?

Il ballo della mummia

dal lungo, lento squamarsi
dei dettagli che affiorano
dagli oceani delle circostanze
discendono brandelli di dialogo:

«mi passi il sole?»
«neanche per sogno!»
«tutto a monte e niente a valle?!»
«a gonfie mele!»

Il microfono di frate cronista,
voce narrante della catastrofe
guida la liturgia:
il santo pappagallo
spezza le sillabe
le mette in bocca
al gregge dei fedeli.

Scimmie erudite
compongono frammenti
di sacre scritture,
l’archeologo quelli del sarcofago,
alla radio tutto il giorno
passano il ballo della mummia.

Gli amanti

Una goccia scivola
giù da una nuvola
lungo i solchi
del mesto giorno
scavati dalle fatiche
del sostentamento

La sua traiettoria incontra
quella di un’altra goccia:
le due, spaventate,
si guardano con diffidenza,
si avvicinano, si sfiorano.
Vorrebbero già ritrarsi,
ma la forza di gravità
ha già deciso per loro.

Anche senza volerlo
si compenetrano,
diventano una cosa sola,
una scintilla perduta
nel manto oscuro
del sipario notturno,

un minuscolo oceano luminoso
racchiuso nel diamante
di un solo istante.

Foto Specchio Lorenzo Pompeo

(Foto di Lorenzo Pompeo)

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Franco Falasca, malinconie smargiasse, poesie 2011-2022, fabio d’ambrosio editore, 2023 pp. 180 € 15. Lettura di Marie Laure Colasson, i lettori sono evaporati, adesso preferiscono attività redditizie come passeggiare nei giardinetti pubblici, fare shopping o guardare lo smartphone o dedicarsi allo sci a Bardonecchia con la neve artificiale sulle montagne calve

Franco Falasca

Franco Falasca, poeta romano, ha fondato nel 1973 l’“Ufficio per l’Immaginazione preventiva” e, dal 1973 al 1979 l’Ufficio realizza pubblicazioni tentando di ampliare o indefinire la nozione di arte e letteratura: S.p.A., Roma; Imprinting, 1975-79, Roma, rivista di sperimentazione e linguaggio. Falasca giunge da lontano al nessun luogo di oggi; si è interrogato, ha fondato riviste, pardon, “Uffici”, ha sperimentato linguaggi, ha messo in discussione la nozione di arte e di letteratura, e tanto altro ancora e di più per approdare oggi, a cinquanta anni di distanza, ad una poesia sibillina, disillusa e perplessa che oscilla tra la conversazione ordinaria e un aforismario culto. Falasca nel 2008 fa propria la triplice parola d’ordine del gruppo de  “I Catamoderni”, secondo i quali “la modernità è andata a fondo/ si intende andare al fondo della modernità/ essere moderni “fino in fondo”.

nel fodero della giacca

E certo che Falasca reca cucito nel fodero della giacca della sua memoria storica gli eventi della storia d’Italia e della storia della poesia italiana di questo cinquantennio, ha soppesato, problematicamente, tutte le sue onorevoli sconfitte e anche quelle disonorevoli, non si è mai posizionato tra i vincenti, ma ha scelto deliberatamente e consapevolmente di optare per una poesia che prendesse le distanze da ogni posizionamento centrista e/o opportunista, che non facesse sponda al cliché della poesia del cliché maggioritario. Il fatto è che la sua poesia vive bene quando sta nel paradosso, come quella di un suo illustre compagno di strada, Mario Lunetta (1936-2017), anche lui romano, che abitava in via dell’Accademia platonica, poeta materialista, paradossale, fustigatore dei costumi della poesia e del mondo letterario e politico dell’ancien régime e contro corrente tout court; ma il corto circuito non finisce qui, la verità è che un poeta scomodo come Franco Falasca, così poco emotivo e così impoetico, che non ama gli emozionalismi, i patetismi e il poetico, e per giunta ateo che fa una poesia priva di codice, in specie il codice dei sentimenti, come acutamente annota Francesco Muzzioli nella post-fazione (essendo la poesia di Falasca un gioco retorico e per giunta ossimorico e antinomico che si posiziona agli antipodi della facile digeribilità o riconoscibilità, essendo Falasca un poeta affatto emotivo e niente affatto fideistico), non può trovare certo sollievo nelle belle di notte e nelle margherite, nelle anime belle e straziate di dolore che oggi abbondano nelle sillogi maschili e femminili. In questa raccolta di testi che svariano dal 2011 al 2022 si può notare il girovagare testamentario e calvo dei testi alla ricerca di se stessi, come attori alla ricerca del proprio personaggio, come se ogni volta la pagina vergata si rivelasse insufficiente a trovare una collocazione stabile sul foglio di carta. Falasca è di là, in cucina, a preparare una lasagna, mentre il testo è in corridoio, bussa a tutte le porte alla ricerca di un lettore ermeneuta che lo dichiari quale testo poetico, ma non lo trova perché non lo riconosce. È un mero luogo comune quello che vuole che un testo poetico trovi il suo lettore nell’orizzonte di attesa, meglio non trovarlo che sopportarlo-supportarlo in cattiva coscienza direbbe Franco Falasca. Damnatio della poesia moderna rimasta senza lettore (e senza autore) e che continua a vivere come nel mare le alghe che vivono il loro letargo.

«Con questo mio io… non voglio complicità/ né comunione alcuna»

Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione ma semmai di latenza), semmai conosce tempi di stasi e di ammutinamento. In tempi di stagnazione linguistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie?

Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande all’ordine del giorno. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del gioco, analogamente, ogni crisi politico-stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia mediatica piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento (come ha affermato di recente Giorgio Linguaglossa) «ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è stato in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione?». Io direi che la stagnazione stilistica è da tempo ben visibile in Italia e si è manifestata con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Nel frattempo i lettori sono evaporati, adesso preferiscono attività redditizie come passeggiare nei giardinetti pubblici, fare shopping o guardare lo smartphone o dedicarsi allo sci a Bardonecchia con la neve artificiale sulle montagne calve.

Fatto sta che la poesia di Falasca, dopo un lunghissimo andirivieni durato mezzo secolo è giunta alle porte di una poesia a suo modo limitrofa a quella kitchen, nei toni e nei semi toni e in certo aforisteggiare nichilisteggiante come nella poesia “tu che non esisti” che adotta una grammatica emotiva priva di costrutto, con una imagerie extra large, ultronea e quasi, direi, in modalità kitchen, oltre che in certe deflagrazioni semantiche sardoniche, autoironiche e auto derisorie che apparentano questi testi alla migliore poesia modernissima. Eccone alcuni esempi:

(Marie Laure Colasson)

franco_falasca 1

Poesie di Franco Falasca da malinconie smargiasse

Le astronavi del conscio

Un colpo di vento
fece volare le etichette
che definivano le cose
e di netto si piombò nel caso.
Un ippopotamo fu un tachimetro,
una incudine fu una allitterazione
il rame divenne un carro
l’anatomia divenne un calice
e la terra divenne una carrucola.
E irriverente
tra l’incudine e l’allitterazione
irriverente
la rosa scriveva di suo pugno
un sonetto
accatastando ossimori di cuoio
nella mente contratta
dell’indios.
Brivido di Dio
si apparenta con le mosche
e l’incudine ascolta una pietra
recitare un canto tenue
sul tavolo ricoperto
di tartarughe.
Occhio alla birra
al sonetto ed al secchio.
Rilegature navigano nell’oro dei cortili
e brividi trebbiati
si spezzettano nei cassetti
della curia.
Occhio ai brividi
e alle gioie bagnate
sotto gli ombrelli allitterati
gioiosi come le teste di bronzo
sulle astronavi del conscio. Continua a leggere

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Sono Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra, il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle. Poesie inedite di Dino Villatico con una Lettera di Giorgio Linguaglossa: “L’io non è padrone in casa propria” Freud, Marie Laure Colasson, absence, 70×70, acrilico, 2024

Absence 70x70 acrilico 2024

(Marie Laure Colasson, Absence 70×70 cm acrilico, 2024)

Sono  Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra: il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle, e per anni sono vissuto con il terrore del rombo dei motori di un aereo. Dagli 8 ai 15 anni ho frequentato le scuole argentine (elementari e Colegio Nacional, il nostro liceo) a Bahía Blanca, Provincia di Buenos Aires, forse il periodo più felice della mia vita. L’apprendimento di un’altra lingua, lo spagnolo, mi aprì la mente all’esperienza di pensare in molte lingue. Devo a questa iniziazione l’attuale familiarità, più o meno stretta, con lo spagnolo, il francese, l’inglese, il tedesco, il greco, antico e moderno, il latino.  Tornata in Italia la mia famiglia, ho frequentato il liceo classico e poi l’Università, iscrivendomi in un primo tempo a Medicina, con l’intento di diventare psichiatra, ma traslocando ben presto a Lettere. L’Università di Roma, allora, era una fucina di idee e di sperimentalismo. Conobbi Federico Chabod, Nino Perrotta, Natalino Sapegno, Nino Borsellino, Aurelio Roncaglia, Bruno Migliorini, Ettore Paratore, Ugo Spirito, Gustavo Vinay (indimenticabile il suo corso su Abelardo ed Eloisa), Alberto Asor Rosa. Mi laureai con Sapegno redigendo una tesi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, ma relatore fu Nino Borsellino, che restò poi un caro amico, e correlatore fu Asor Rosa. Perfezionavo intanto i miei studi di pianoforte con Vera Gobbi-Belcredi e di composizione da autodidatta, ma, appena laureato, posto al bivio tra musica e letteratura, vinse la seconda. Non ho ancora raccolto in volume né i miei saggi letterari e musicali né i miei racconti (alcuni su riviste) né la maggior parte delle mie poesie, alcune uscite su Nuovi Argomenti e una raccolta dal titolo Ecografia di un Congedo presso Ladolfi, 2021, e un’altra, Paesaggio, nell’Edizione del Mediterraneo, 2020. Saggi musicologici in atti di convegni e riviste musicali. Affido talora scritti e riflessioni sul mio blog: Dionysos41 blog di Dino Villatico. Attualmente sono in pensione, e vivevo, fino al 2013, nel Parco di Veio, alle porte di Roma, in un sobborgo della cittadina di Sacrofano, Monte Caminetto. Mi sono poi trasferito a Fiano Romano, in una villetta in cima a una collina, in mezzo agli olivi, vista a ovest del Monte Soratte, a Est scorre tra verdi brughiere il fiume Tevere. Ma continuo a scrivere critica musicale e altri scritti di vario genere. Latino e greco non sono per me lingue morte, ma le lingue vive dei miei padri. Chiudo, perciò, questo breve promemoria con una citazione oraziana: Immortalia ne speres, monet annus et almum/   quae rapit hora diem.

me alla presentazione di un libro

Poesie inedite di Dino Villatico

Versi dettati da un sogno

Il tuo grido che lacera la gola
e non sai dirlo, questo è la poesia.
Il tuo pianto che soffoca il respiro,
e per dirlo ti manca la parola,
ma questo, ascolta, questo è la poesia.
La vita che ameresti raccontare,
e a cantarla non trovi la canzone:
questo, però, ti dice la tua Musa,
questo e non altro, questo è la poesia.

(Fiano Romano, 31 marzo 2024, Pasqua)

Discanto di un indecifrabile domani

1.

Sul treno Roma – Torino, 22 dicembre 2023

Una valanga dal riflesso vivo
del sole contro i vetri mi sommerge
mentre il treno declina la sua corsa:
so dove vado, ma non so da dove
sto tornando. Un ammasso d’incompiuti
progetti mi sopprime il pensiero,
per qualche brama che mi sopravvive
lo leggo sulle floreali facce
del mio passato di vagabondaggi
tra queste case, e sono silenziati
con le parole tutti i sentimenti.
La intravidi a vent’anni salvatrice
– non so da chi, né da che cosa – stinto
patriota di una patria immaginaria,
la mia storia, le mie montagne, il mio
evadere da casa, se Torino
mi apparve tutto questo, e anche dell’altro,
dopo il pellegrinaggio solitario
che m’apriva più mondi ma nessuno
davvero sconosciuto, e tutti estinti.
C’ero tornato con mio padre, che ora
mi vedevo dormire accanto, e il fiato
del suo respiro lo sentivo in aria
occupare la stanza, e udivo fosco
come russava, che toglieva il sonno,
figurandomi ormai tutta la notte
con gli occhi aperti a guardare il soffitto.
Aperti, anche, da nebbie di ricordi,
sempre gli stessi, d’incompiute larve,
di desideri che non hanno sbocco:
mi sgridava, mi sgrida sempre ancora
inesplicata la paura e l’ansia
dei ritorni. Non sembra una mia storia
ciò che mi accade, ma potrebbe forse
insinuarsi nel ristretto spazio
di un’immagine la sorpresa o il vizio
di una individuale coesistenza
di atti nefandi e di piacevolezze,
invece che la semplice e banale
inesistenza di un io che si vanta
singolare. Di quanti tu, di quanti
noi si coniuga il verbo dei contatti,
se nel cupo rimescolio di sguardi
uno solo non vedi, ed è il tuo occhio
che ostenti a testimone, anche di qualche
celata perversione. Riconduci
adesso la materia dei pensieri
all’unica materia che risalta:
il disegno pre-scritto dei discorsi,
l’appartenenza provvisoria e sciatta
delle parole. Fu Torino quella
che ti scrostò la patina d’infanzia,
gl’incontri, anche se transitori, fanno
meno chiasso di quanto supponevi,
ma non fu tuttavia da nessun’altra
patina che sentivi sovrapporsi
spogliato il cuore, e tanto meno il corpo.
Nemmeno in Via Cernaia, dove casto
restò il contatto, ma non il pensiero.
Se cedo all’elegia, è perché credo
che non sia elegia lo sforzo – vano,
certo, ma come potrei evitarlo? –
di scansare la commiserazione;
non è lamento la constatazione
d’inesistenza quando sei succhiato
dalle allettanti fauci del passato:
un tempo ch’è finito, non è tempo
che nel superbo e fatuo labirinto
del tuo cervello. Ma per tale niente
diventa un niente l’oggi, una memoria
perfino il fatto che lo stai vivendo.

2.

Torino, Caffè Lavazza, 24 dicembre 2023

L’emporio di parole si è svuotato:
nessuna voce, o sillaba, o sussurro,
racconta il mondo: che va per la strada
nascosta del non detto, e quando l’occhio
distingue la distanza tra lo sgorbio
ammutolito e il passo inascoltato
del tempo, il silenzioso insinuarsi
dell’insignificante, l’aspro morso
dell’accaduto, è troppo tardi ormai
per ammutire l’urlo di dolore,
per silenziare il graffio dell’artiglio
con cui l’inaspettato irrompe e toglie
il fiato alla Ragione; senza lingua,
e senza un quadro di riferimento,
la parola smarrisce la funzione
di parlare, declina il segno a muto
inefficiente rudere di un uomo,
di un bipede animale che ha distrutto
la differenza che lo distingueva
dalle altre specie, muto ormai per sempre,
ma capace di demolire il mondo,
per la spropositata, inane voglia
di dominarlo. Chi sa come, o quando,
vedremo sulla terra un animale
di questo più insipiente e più dannoso.

3.

Superga, 25 dicembre 2023

Guardo dalle terrazze di Superga,
nel giorno di Natale, la catena
poco innevata, in questo desolato
anno di guerre, e scarsità di piogge,
delle Alpi all’orizzonte; sotto un cielo
azzurro, qualche nuvola vagante,
fiocco di ovatta, sulla verde piana,
e guardo di fronte a me il Monviso,
e sotto, nella valle, tra le case,
serpeggiare a Torino il lungo nastro
del Po, l’acqua che nasce dal pendio
delle sue falde, il corso della Dora
Riparia e, più lontano, dello Stura;
immoto al sole, ai piedi della grande
basilica, contemplo la foschia
densa nella pianura, e guardo dopo
limpido il cielo sopra la mia testa.
Ma come sono giunto a questo istante,
e che tempo nel tempo inavvertito
delle montagne, i platani spogliati,
gli abeti verdi, i rami rinsecchiti
degli aceri e gli arbusti a primavera
colorati? Dall’ombra permanente
di questi mesi nasce numinoso
il muoversi del tempo, si presenta
una vita per chi l’aspetta. Morte
soltanto, per chi resta e sopravvive,
decide la misura di durata.

4.

Museo Egizio, 26 dicembre 2023

L’Olimpo è un desiderio inadempiuto
di cancellare dalla vita umana
ogni domani, farne un permanente
oggi, l’inafferrabile momento
che non ha inizio e che non si conclude.
Fosse il tempo dell’atomo, la parte
introvabile della percezione
di ciò che di una cosa fa una cosa

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Giorgio Linguaglossa, 2017

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caro Dino Villatico,

la nuova ontologia estetica con le sue ultime propaggini della poetry kitchen è una poesia epifenomenica che viene dopo il diluvio storico del novecento. La dichiarata intenzione dei suoi autori è progettare, attuare una poesia da cui emerga, tra i propri caratteri distintivi, quello esplicito ed evidente, della «non-letteratura dell’io», del «mestiere del poeta isolato nella propria stanza», quanto una «pratica» che si acquisisce collettivamente in una “officina”, in una “bottega”, in un “ufficio” dove non si segue alcuno dei modelli letterari «correnti e consunti» del lontano novecento.. Vi sono in essa frammenti diaristici e autobiografici, sì, il viaggio, il quotidiano, la cronaca, l’attualità etc. ma conglomerato con il vettore fantasizzante, l’ultroneo, l’abnorme. tutto quello che ci era stato somministrato nel secondo novecento e in questi ultimi anni lo abbiamo lasciato alle ortiche, nel kitchen vi si trova, dicevo, l’ultroneo, l’abnorme, l’Estraneo, i sosia, gli avatar. Nella poetry kitchen salta agli occhi la portata innovativa, la forte impronta metapoetica e metalinguistica in cui vengono esibiti il «lavoro», la «professione» dell’artigiano, i temi politici ed «eretici» ma come visti da un altro pianeta, un ultra-post-surrealismo se vuoi, l’avversione per ogni nostalgia del Passato, la consapevolezza di un «nuovo paradigma» per una poesia senza speranza, senza futuro e senza disperazione, quasi che una vivace goliardia sia la estrema risorsa che possa essere data oggi agli uomini dell’Occidente.

Una poesia in cui tutto quello che è al di fuori del soggetto pensante e del soggetto poetante viene ccettato, una poesia che sembra nascere incompleta, in qualche modo neutra, neutrale e che sa di nascere in ogni modo già neutralizzata; una poesia non auto referenziale, non specchio di Narciso, non personalistica, non autobiografica, una poetica del No. Nella poetry kitchen le citazioni interne tra gli autori sono numerosissime, come anche gli scambi di lettere come tra conoscenti, scambi di persona e di autorialità.

Una poesia che non è neanche anti-poesia (come quella del novecento), in quanto priva di ogni speranza e priva di disperazione, priva di passato e di futuro, e priva anche di utopia e/o di sogno idealistico o idealizzante e che, nonostante tutto ciò, considera il fare poesia un’azione, una pratica, un fare, un’etica che incide sul reale, organizzandolo in termini di parole dis/proprie e dis/propriate. Così, la poesia non è più qualcosa di mistico-ineffabile o personalistico, ma punta tutto sul dire, sul detto, e sul fare concreto dell’atto linguistico, una poesia activa, pragmatica e fantasizzante, una speech-poetry con una sua propria (auto) organizzazione, un proprio Progetto, un proprio Modello, un proprio Paradigma, e anche, lo si conceda, un suo proprio Enigma, una connotazione oscura e anfibologica. Infatti, l’Enigma che essa contiene non può essere sciolto ma solo attraversato e dispropriato. Cito Freud:

«l’Io non è padrone in casa propria»
(Freud, 1917)

A distanza di più di cento anni dalle parole di Freud penso sia il caso di prenderne atto. La poetry kitchen è una pratica discorsiva che non prevede più l’Io quale protagonista plenipotenziario, ma, al massimo lo designa come un ospite, una maschera, un sosia, un avatar, un Altro,  un Estraneo…

(Giorgio Linguaglossa)

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La serendipità del linguaggio corrisponde alla serendipità del funzionamento della nostra mente. La poetry kitchen non può fare a meno della prassi serendipica che conferisce una novità straordinaria e dà straordinarie libertà a questo genere di scrittura, Poesie di Marie Laure Colasson, Francesco De Girolamo, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

Macchia bianca 20x20 acrilico 2024

Marie Laure Colasson, macchia nera, 60×60, acrilico, 2024

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Marie Laure Colasson

«Riflettendo su queste ultime composizioni kitchen in formato-dialogo mi sono accorto che quello che noi stiamo facendo è semplicemente un ampliamento del campo extrasemantico della semantica o, per dirla con altre parole, di andare con le parole oltre di esse usando i significati per creare una realtà che va oltre i significati. Semplice, no?» (Giorgio Linguaglossa)».

La serendipità del linguaggio corrisponde alla serendipità del funzionamento della nostra mente. La poetry kitchen non può fare a meno della prassi serendipica che conferisce una novità straordinaria e dà straordinarie libertà a questo genere di scrittura. Eccone un esempio.

caro Germanico,

Un berlingot* géant dit à la blanche geisha
“Écoute cette mélopée guerrière écoute
Tagada boum boum…”

“Eh bien oui c’est crever le plein
et le vider comme un cochon bio-orthogonal
assis sur un fauteuil Louis Philippe”
répond-elle allongée sur un tapis volant

“Ou bien” ajoute Eredia
“Un tuyau d’aspiration muni de 48 dents
et 3 ventricules!”

“Cela semble vraiment une source de nourriture
pour un yaourt rempli de poils de pubis”
tranche sévèrement Madame Green

L’homme du vide muet

*

Un berlingot* gigante dice alla bianca geisha
“Ascolta questa melopea guerriera ascolta
Tagada bum bum”

“E bene sì questo è scavare il pieno
e svuotarlo come un maiale bio-ortogonale

assiso su una poltrona Luigi Filippo!”
risponde la bianca geisha allungata su un tappeto volante

“Oppure” aggiunge Eredia
“Un tubo d’aspirazione munito di 48 denti
e 3 ventricoli!”

“Questo sembra veramente una sorgente di nutrimento
per uno yogurt colmo di peli di pube”
trancia severamente Madame Green

L’uomo del vuoto muto

*caramella di Carpentras, città del sud della Francia

(inedito)

Francesco De Girolamo
27 marzo 2024 alle 0:39
(L’io nel)

LABIRINTO

Che cosa ci rimane da aspettare?
Un po’ d’aria la sera, la spiaggia la domenica.
E questa noia che non è più dolce
da dividere insieme, come era un tempo.
Manca poco al momento di vederti
e non avverto la minima impazienza
dell’attimo in cui ti scorgerò spuntare
dal muro bianco di ogni giorno.
Scorrono i volti estranei della folla:
tutti i ricordi che il tuo può evocare
non valgono il mistero di uno solo di essi.
In quelle voci sfuggenti che passano
ascolto gli echi di una vita diversa,
un’altra vita che non vivrò mai.
Non approderò più a nient’altro
che a questa soffocante, sterile quiete,
che come una goccia ossessiva continua
a cadere nel vuoto. E ti odio, quasi,
dacché sei diventata un’abitudine;
ma ho il rimorso di odiarti, perché sono io
che mi ti sono cucita addosso,
come un vestito troppo stretto,
una seconda pelle. Ed ogni giorno prendo
la mia dose di te; e ne ho la nausea,
anche se ne ho bisogno, come un calmante
dal sapore agrodolce, di cui non so fare a meno.
Vorrei gridarti qualcosa che riuscisse a ferirti,
delle ingiurie terribili, al tuo sopraggiungere,
se ne avessi il coraggio; ma ti vedo sorridere
come ogni giorno, così angelicamente ignara
di questo sconfinato labirinto cha da te mi allontana;
e con un nodo alla gola, sorridendo a mia volta,
non riesco a dirti altro che: “Oh, finalmente, Amore!”

Francesco De Girolamo, Piccolo libro da guanciale (Dalia Edizioni, 1990)

Macchia bianca 60x60, acrilico 2024

Marie Laure Colasson, macchia bianca, 60×60, acrilico, 2024

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Giorgio Linguaglossa
27 marzo 2024 alle 11:38
Cara Tizyfardwell,

fraudolentemente un team di scienziati della NASA è riuscito ad innescare un’esplosione nucleare di megagalattiche proporzioni all’interno del mio Mega-Computer

Ha lanciato raggi X e raggi Gamma attraverso l’intero universo e oltre e ha ridotto in cenere alcuni sistemi solari della galassia di Orione a cinquecentomila anni luce dalla Via Lattea

Puoi ben dire e almanaccare pensieri, ormai siamo assoluti dipendenti dei mitocondri di questi scienziati folli che, come il Minotauro della leggenda, reclamano sempre nuove vergini da adibire ai loro piaceri

Ho assistito personalmente alla morte spettacolare di una stella supermassiccia che si è conclusa con la mega esplosione di una supernova. Ciò che è rimasto è una stellina di neutroni con un nucleo collassato largo appena venti metri con una massa milioni di volte di quella del nostro sole che gira attorno al proprio asse alla velocità di trentamila rotazioni al secondo

Ho riferito tutto ciò a Marie Laure Colasson che nel frattempo si è trasferita sul pianeta Mephisto, dicendole del pericolo e di fuggire con la prima astronave a portata di mano prima che quegli scienziati folli risolvano in cenere il suo pianeta. Ma che vuoi, lei non ne vuole sapere di trasferire tutti i suoi quadri e l’atelier in un nuovo pianeta, ha detto che aveva da fare con il rossetto e il rimmel e non so che altro

Chiama, ti prego, anche Gneo Gaius Fabius, Memmio, Alf. Galacticus e quanti altri puoi raggiungere del pericolo che incombe su di loro, io intanto vado a prendere la Colasson per i capelli e la trascinerò sulla prima astronave disponibile, che dio ce la mandi buona, il pericolo incombe!

Se non dovessi più ricevere miei messaggi, ecco il mio nuovo nome di Avatar, Wallet-Glossa, e il mio numero di codice: 248@Giorni

Amen

Giorgio Linguaglossa
27 marzo 2024 alle 12:28

dimenticavo, il tutto è stato orchestrato da due scienziati orbaniani, Péter Magyar e Judit Varga, in realtà sono amanti e condividono il disegno di annichilire tutti i pianeti dove si trovano rifugiati politici della madre-Terra, sono dei terroristi pericolosissimi, ho avvertito la Cia e il Pentagono delle loro identità.

A metà febbraio Magyar ha rinunciato a tutti i suoi incarichi e contestualmente ha lanciato un j’accuse contro la Unione Europea, in particolare sul «Richelieu di Orbán» – come lui lo chiama – ovvero Antal Rogán, potentissimo ministro che controlla anche i servizi segreti. Questo Magyar si è impadronito del Mega Computer e adesso può minacciare il sistema solare!

Con un’intervista video di due ore che ha attratto milioni di visualizzazioni (un ungherese su quattro l’ha vista) la nuova “gola profonda” ha fatto «una radiografia pubblica del funzionamento del sistema orbaniano», come dice lo storico Stefan Zweig.

La motivazione ufficiale fornita da Magyar? «Non voglio far parte di un sistema nel quale i veri capi si nascondono sotto le gonne delle donne»

Si salvi chi può!

(inediti)

Francesco De Girolamo
27 marzo 2024 alle 13:01

Quindi il progresso della scienza ha fallito?

“L’ovvio è difficile da provare. Molti
preferiscono l’oscuro.”
Charles Simic
(da “La stanza bianca”)

FUOCO E GELO

Vedere è l’arte silenziosa
dello sguardo che la luce non cattura
ma procede sulla strada scoscesa
e ignota dei sensi alleati.
Quante lune scorreranno prima che la mente
abbia dominio sulle ombre?
Prima che un chiarore prenda impulso dal sangue
e il dito sfiori il tasto di uno schermo
rivolto all’ultimo zenith, all’orizzonte
estremo, al nord di tutti i nord?
L’ago del chimico è già nella fiala,
il fisico ha stilato il suo prospetto,
la cavia tende il petto al sacrificio:
s’avvicina il mattino in cui il custode
di fuoco e gelo porrà la sua mano
sul nostro capo smarrito nei cerchi
inestricati di una storia sospesa.
Noi, agnelli e demoni, balbetteremo pretesti?
Ma gli occhi del volto più amato
impressi al fondo dell’alveo sommerso
della coscienza, ci condurranno lievi
al ritorno nel non qui mai svelato.
E finalmente avrà inizio l’inizio.

Francesco De Girolamo (La radice e l’ala – Edizioni del Leone, 2000)

Giuseppe Talia 

Caro Germanico,

Ho ritrovato una traccia che credevo perduta nella prosodia.
Una traccia audio di sovrapposizioni e interruzioni dialogiche.

Una speculazione arbitraria. Una disfluenza. Una violazione.
Qualcosa o qualcuno si è introdotto. Ho chiamato il 118.

Gli esiti contradditori e la loro durata temporale preoccupano.
Non sto bene. Non sta bene. Non si sta bene. La violazione

Degli spazi interlocutori, anomalie tecniche, interruzioni,
Rare presenze regolamentari, conversazioni polifunzionali.

Pre-occupano le hit estive problematiche/non problematiche
Tra intoppi e perturbazioni, lapsus linguae e calami stratiformi.

Una meteora pre-termine. Audioregistrazioni sub-corpus.
La pragmatica descrittiva di Geoffrey Leech che attribuisce enunciati.

Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza intenzionale.

Durata breve e violenta: i muscoli involontari, all’unisono,
Supportano il parlare corrente e le variazioni di tono e di volume.

Ascoltate (mi)

(inedito)

Lucio Tosi 2 senza titolo, acrilico 70x70 2024
Lucio Mayoor Tosi, senza titolo, 60×60, acrilico, 2024

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Francesco De Girolamo è nato a Taranto, ma vive a Roma; oltre che di poesia, si occupa di teatro, come autore e regista. Ha pubblicato le raccolte poetiche: “Piccolo libro da guanciale” (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; “La lingua degli angeli” (Edizioni del Leone, 1997); “Nel nome dell’ombra” (Ibiskos Editrice, 1998) con una nota critica di Gino Scartaghiande; “La radice e l’ala” (Edizioni del Leone, 2000) con prefazione di Elio Pecora; “Fruscio d’assenza” – Haiku della quinta stagione – (Gazebo Libri, 2009); e “Paradigma” (LietoColle, 2010) con introduzione di Giorgio Linguaglossa. È presente nelle antologie: “Poesia dell’esilio” (Arlem Edizioni, 1998), “Poesia degli anni ‘90” (Scettro del Re, 2000), “Haiku negli anni” (Empiria, 2005), e “Calpestare l’oblio” (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana, 2010).
Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: “Poesia”, “Folium”, “Poiesis”. “LaRecherche.it” e “Atelier”. E-mail: degirolamo2@yahoo.it

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Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re, Roma), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce, Roma). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore delle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023 nonché dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), del saggio L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista on line lombradelleparole.wordpress.com  con la quale insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchenpoesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito letterario del Collasso del Simbolico, di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo di oggi.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze. È presente nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023,  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Dario Bellezza, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 2015, pp. 826 € 20 Lo stanco spettacolo annunciato nel risvolto di Morte segreta (1976), quello dell’uomo che mette in scena «un esorcismo (…) fingendo di essere un grande poeta»

Dario Bellezza 1971 Foto di Massimo Consoli

Dario Bellezza 1971 Foto di Massimo Consoli

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Dario Bellezza, un poeta esemplificativo del privatismo narcisistico delle società moderne ad alto tasso di teatralizzazione dell’egotismo

di Giorgio Linguaglossa

Dario Bellezza (nato e morto a Roma: 1944-1996), è stato un poeta esemplificativo di quella ideologia del privato che ha invaso la poesia italiana dagli anni settanta ad oggi, poeta minore ma significativo di quella deriva e svolta culturale che ha contrassegnato la poesia italiana degli anni settanta più per le sue pecche che per le sue poche preziosità; poeta molto vicino a Pasolini, Moravia, Sandro Penna ed Elsa Morante, segna tuttavia da quei poeti un distacco e una deriva culturale. Tra le sue opere: L’innocenza (1970), Invettive e licenze (1971), Lettere da Sodoma (1972), Morte segreta (1976), Morte di Pasolini (1981), Io (1983), Serpenta (1987), Libro di poesia (1990), Testamento di sangue (1992), Proclama sul fascino (1996). A rileggerlo oggi a distanza di tanti anni il poeta romano ci appare con tutte le sue rughe, tutti i suoi eccessi, le sue simulazioni, le sue dissimulazioni, con il suo dolore smaccatamente riversato sulla pagina, quel dolore visivamente esternato da cui non riuscirà mai a liberarsene, ammesso e non concesso che abbia mai pensato a liberarsene. Religiosità atea del cascame e dell’oblio messi in vetrina. Bellezza esordisce nel ’71 con Invettive e licenze. La raccolta è sponsorizzata da Pasolini, che nel risvolto definisce quel ragazzo «il miglior poeta della sua generazione». Si trattava di un eccesso di generosità pronunciata con un velo di malinconia, ma Pasolini non è elusivo quando indica quel giovanissimo poeta, ancora prigioniero dei «cascami letterari passati a un livello inferiore o al parlare comune dei privilegiati, dal dizionario piccolo borghese professionale», come un autore stretto tra impulso libertario piccolo-borghese che si autodefiniva un «Himmler un po’ pretesco di se stesso» e l’intento testimoniale di fare di se stesso un monumento. Pasolini legge il linguaggio poetico di Bellezza come «inviluppato nella sua vita privata come in un vestito sporco, chiuso nel suo caso come in uno stambugio dall’aria irrespirabile (…) Da dove viene Dario Bellezza? Da un mondo vecchio che egli, accecato dal suo dolore e dalla sua mancanza di libertà, non ha potuto o voluto o osato riconoscere come vecchio». C’è in Bellezza l’aspirazione piccolo-borghese a épater les bourgeois, a mettere in scena il suo personale e privato teatro dell’omosessuale respinto da una società bigotta e ottusa, ma si trattava di una posizione di retroguardia nella quale lo scandalo della diversità sessuale non fa più scandalo, anzi viene utilizzata dai programmi televisivi come un feticcio da mostrare al pubblico voyeuristico affamato di scandalo a buon mercato:

Non sono né invincibile ne Dio;
ma mortale assaporo i sapori più forti della vita
e vomito, considerandomi fallito
agli occhi di Dio

Bellezza conosceva bene i retrobottega della visibilità e ci si immolava con fervore quando con una nota di autoincensamento dichiarava che la sua diversità era «avversaria impotente della mia banalità». In realtà Bellezza ci sta bene in quella Roma letteraria che volge al tramonto e alla indifferenza del pubblico, la sua oratoria compiaciuta e masochisteggiante è in realtà una abile strategia per épater les bourgeois e i piccoli borghesi che lo irridono. Sospeso tra il neosperimentalismo di Amelia Rosselli e l’esotismo della Morante de Il mondo salvato dai ragazzini (1968), il poeta romano accede ad un linguaggio poetico autocentrato, ombelicale, egolatrico e giornalistico:

«Niente si offre per l’ultima volta,
perché tutto dopo il sonno ricomincia.

Si riforma il seme dei ragazzi. Le
polluzioni sono infinite. Compagni,

ragazzi morituri, orfani matricidi
spegnete la sete che è in me d’amore
deluso in questi versi rattrappiti».

Tra una capriola stilistica e un conservatorismo linguistico si consuma il percorso poetico di Dario Bellezza incapace, come del resto tutti i suoi coetanei, di instaurare un rapporto con la Storia e con i linguaggi del nuovo capitalismo; si consuma così il divorzio dalla Storia e dai linguaggi del mondo moderno di cui non riesce a coglierne la complessità e la problematicità. Istrionismo, vitalismo, esasperazione, insurrezionalismo, esibizionismo, emozionalismo rimangono le cifre del suo linguaggio poetico, traccia speculare del suo istrionismo esistenziale: «Il mare di soggettività sto perlustrando / immemore di ogni altra dimensione». Bellezza ormai si dipinge con foja sul fondale di una Roma decaduta e matrigna; come un mediocre attore di avanspettacolo Bellezza continua a tenere in piedi il suo teatrino di maledettismi narcisi e artificiosi che riversa sulle pagine con meticolosa e capillare auto indulgenza; è il personaggio che offre lo stantìo spettacolo annunciato nel risvolto di Morte segreta (1976), quello dell’uomo che mette in scena «un esorcismo (…) fingendo di essere un grande poeta». In realtà soltanto un piccolo poeta può autodesignarsi come «un grande poeta».

(Giorgio Linguaglossa)

Lucio mayoor Tosi cover Def

Da Invettive e licenze, 1971

Il mare di soggettività sto perlustrando

Il mare di soggettività sto perlustrando
immemore di ogni altra dimensione.

Quello che il critico vuole non so dare. Solo
oralità invettiva infedeltà

codarda petulanza. Eppure oltre il mio io
sbudellato alquanto c’è già la resa incostante
alla quotidianità. Soffrire umanamente

la retorica di tutti i normali giorni delle
normali persone. Partire per un viaggio

consacrato a tutte le civili suggestioni:
pensione per il poeta maledetto dalle sue
oscure maledizioni.

Dio mi moriva sul mare

Dio mi moriva sul mare
azzurro, sul suo pattino dove
mi aveva invitato ad andare.

Ma fu la gelosia, la normalità
dei ragazzi a spingermi a rifiutare,
ad alzare le spalle alle battute
salaci.

L’odore del mare riempiva
le navi e tu cantavi negli occhi
ridarella di vittoria.

A Elsa Morante

I ragazzo drogati, guardie del corpo
dell’Assoluto, vanno per il mondo
mattutino fino alla sera della loro
sopravvivenza: come passerotti
mangiano distrattamente
tutti presi dai loro sogni d’avventura.

E la sciagura che li coglie per strada
e li fulmina pienamente stecchiti
li lascia preda delle iene umane
che scrivono i loro necrologi sui giornali.

Le loro dita sono piene di anelli,
la loro grazia bugiarda di mentire
sa che io non ho bisogno di droghe.

E mi guardano come un povero reietto,
un infelice, ma troppo non m’offendo.
So che vanno per le vie del mondo
con in bocca il sapore della polvere
e del tossico:
strepito vano è il loro baloccarsi
bambino, orgoglio luciferino
di chi si consuma, strugge come cera,
ma anche così la mia voce smorta
li vorrà sempre al mio capezzale.

A Pier Paolo Pasolini

M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio
la mia anima mezza vuota e peccatrice
e la derelitta crocifissione mia sola
sa chi sono: spia e ricattatore
che odia i suoi simili. E non trovo
pace in questa sordida lotta
contro la mia rovina, il suo sfacelo.

Dio! Non attendo che la morte.
Ignoro il corso della storia. So solo
la bestia che è in me e latra.

Da Morte segreta, 1976

Ho paura. Lo ripeto a me stesso

Ho paura. Lo ripeto a me stesso
invano. Questa non è poesia né testamento.
Ho paura di morire. Di fronte a questo
che vale cercare le parole per dirlo
meglio. La paura resta, lo stesso.

Ho paura. Paura di Morire. Paura
di non scriverlo perché dopo, il dopo
è più orrendo e instabile del resto.
Dover prendere atto di questo:
che si è corpo e si muore.

Fuori di me

Alla follia, non badate, datemi retta!
Pensate piuttosto ai nuovi ritmi in cui
immergere la vostra vita perduta dietro
l’apparenza delle cose. Cercate l’immortalità,
l’eterna questione del mare splendente
dentro il sole di giugno che diventa nero
a notte e scompare nelle tenebre. Io
dimenticato relitto di una civiltà
passata sono il solo che piango i defunti
miraggi di un’età morta e ancora
coprendomi di ridicolo scrivo lettere
d’amore a traditi amori di un’epoca trascorsa,
la giovinezza, e ricordo lo studente
che piegava la sua retta immagine
a misurare l’angolo della sua carnale diversità,
a versare nel seno asciutto di una madre
occasionale la solitudine futura dei suoi
giorni tutti uguali. Lasciatevi andare
verso il mare della vita! Assaporatene
la musica sbiadita, e trionfatore sarà
solo il Tempo e il suo nero oltraggio, la Morte!
Mentre io ancora scriverò che il poeta
chiude in stremate parole il suo cervello
mirando il muro in alto della sua stanza
e le poesie scivoleranno via, senza pietà,
e nessun Dio le registra, incarnandosi
per un attimo.
Il ritmo non sa di mirtillo acerbo
e piegarsi sulla bianca pagina di un diario
il meglio dell’ispirazione fa in un fiato
dileguare.
Chiamatemi così: pazzo, deserto testimone
di un deserto da percorrere in una torrida
estate, senza acqua raccolta nella gobba
di un domestico dromedario, e la mia poesia
definitela con crudeltà e livore come lubrica,
oscena, interessata e manigolda consigliera
di sventura o furto di anime giovanili
in cerca di nuove reincarnazioni.
Sappiate però che brucio di gioia, di allegria
feroce dentro la mia casa buia, prigioniero
di calamitose idee, slabbrando la mia merda
in privata visione senza lo scempio
di immagini e talenti altrui. Sono un genio
geniale che la vita spassa da un dolore all’altro,
teatrale, senza ferite apparenti che non siano
d’amore, piaghe purulente lasciate da una donna
fatale che nessuno conosce. Slabbro la mia
merda in privata visione: ghirigori
collettivi e birbanti. Muratemi
in una galera con la bibbia e i santi.

Morte segreta

Ora alla fine della tregua
tutto s’è adempiuto; vecchiaia
chiama morte e so che gioventù
è un lontano ricordo. Così
senza speranza di sapere mai
cosa stato sarei più che poeta
se non m’avesse tanta morte
dentro occluso e divorato, da me
prendo infernale commiato.

Da Libro d’Amore, (1968-1981)

Delinquente mio delinquente
non lasciando Roma azzardo
contro i maschi stazionari una offesa
e falsa virilità.

Vecchi discorsi, logori, remoti
che tu con i tuoi denti adolescenti
mi spegnevi in una bocca piena di saliva.

Il tempo era ancora
un carnefice che non dava paura.

Ora esisti. So che eri lì, dal mio
rivale. Mangi ogni tanto caviale
e molte volte salti il pranzo.

Io non tramonto lentamente
ma t’assicuro di essere già morto!

Sterminate primavere d’ebbrezza
quando la carne era senza freni
e la diversità sapeva le lusinghe
più traboccanti d’incanto e di piacere
vi assista ormai l’angoscia immensa
dei ragazzi sordi che parlano con le mani
e non sanno le parole torturate per ricordarvi!

E costellate bellezze dell’inverno precoce
se alla luce dei fanali salpavano le notti
verso le albe della chiarità vanagloriosa
che allagava la stanza profonda
dei rimorsi e dei sogni del sonno.

Ora che io mio destino si rischiara
non posso fare a meno di pensare a te
lacrima eterna del mio pianto.

Intenso o soffocato il tuo amore
è l’unico suono dal tempo inviolato
che m’incanta.

L’immagine cara che non tradisce
rimane intatta; sei vicino a me, ti tocco,
ti bacio la bocca, gli occhi allegri o mesti,
tutta tutta la tua svaporata essenza
mi risveglia, accorre verso il punto
che s’estingue nel lagno delle stagioni
che richiamo alla carezza.

Le trombe squilleranno
l’incubo sordo
allora forse ti rivedrò
non più di carne
con un altro al lato
orgoglioso passerò senza saluti
nessuno più ci presenterà
il vituperio assordante
silenzioso impazzirà
i nostri detriti cervelli
dissepolti per l’ultima colta
in un’apocalisse irrisolta.

Da Angelo, 1979

Non sono né invincibile ne Dio;
ma mortale assaporo i sapori più forti della vita
e vomito, considerandomi fallito
agli occhi di Dio.
E tu, donna, vienimi incontro.
Portami in salvo. Brucia le resistenze.
Satana mi vuole perduto e peccatore.
Io devo smettere l’orgoglio
di sapermi diverso, irreale
amante dei diversi.

Ho deciso di non più frequentare la tua perfidia
Immonda di terrestre consumato dall’invidia
Delle mie celesti opere che nel mondo illuminando
La verità del destino, il fato aguzzino dei soavi
Ragazzini incatturabili dai mostri osceni e turpi
Come te, lasciano l’irrealtà, per sprofondare
Nella mia straordinaria coscienza. Dilato
Il mio giudizio su di te, corruttore di bambini
E straripante lemure che la ristorante mi afferri
E con le tue stregate pargolette di scostumato
Poeta di periferia, m’infilzi, bivaccando
Presso i barbari drogati dell’Assoluto Relativo.
Non sei niente, ma vorrei assistere al tuo funerale.
Vederti mentre mi vedi
Venire al tuo funerale senza poter obiettare
A questa assente presenza che sarei io, a lutto
Vestita, in attesa di parlare di te
Al ristorante con i miei cortigiani.

Da Io, 1975-1982

C’è un pianto dentro di me: la vita
Urlando non lascia tracce verosimili,
sfigurata allaccia amore e morte,
nella notte ingrata al sonno.

Allora si pensa ai trascorsi inganni:
so sogna. Tutto quello che in pace
importa di più va combattuto,
respinto…Che ci sto a fare? A prendere congedo
Da stanche proposte di Re Musoni
Promettitori dei vani insulti al Dio,
o calamitosi al perché di vita
ignobile e incerta? Io piango
le tetre scalee di gioventù
ove il sorpasso della mente
ai giorni, all’ore estreme
era sembiante vivo
del nostro destinato incrociarsi
in terra seminata di freschi
virgulti, tenere silee
di speranza
inquieta nel suo sfarsi.

Da Testamento di sangue, 1992 (poema drammatico)

Scena quinta

POETA

Insonnia che rapida vieni, spiega
all’illustre discepolo del niente
la vera verità dell’attimo fuggente!
Spiega che morendo s’insinua dentro
il corpo il verme distruttore
e l’anima impigrita non vuole
al Creatore, ma insana s’insabbia
ancora più giù, come un serpe
immondo che le nere visceri
non vorrebbero ospitare.
Niente resta dunque tranne il dolore,
e la fantasticheria simultanea
di una diversa fine che, principio
possibile di ogni mistero,
chiede una preghiera per trasformarsi
in niente.

Da L’avversario, 1994

L’avversario

Non furono immagini, raggianti e regali
immagini del reale salutare il mio forte:
il forte di ogni ora rimescolata, nella
siesta o controra della brame assolute.
E trascorsi i secoli in ghingheri
trasecolammo con scheletri tardivi di Musa
antiquata lungo le cime dei monti Tiburtini
invano cercati da mani infantili.
Non cercammo i cuori lacerati e indecisi
né il lieto sapore dei muscoli d’Acciaio.

Si, immagini, rumori: mai il mio forte,
il vero forte, o panforte della poesia.
Truccata idea dai sensi inquieti
o calpestati singhiozzi nel letto
ospite e ospitale, orinale mentre tendo
l’orecchio alla salita delle scale,
le mani collegiali chiuse e derise
dentro la palma umida, liquida,
vivendo al capestro le sensazioni virginali.
Stanze illuminate, poi. Garbate
ingiurie del vino, ma il giorno è
passato ormai, orfano innamorato
agitandomi in piedi, in ansia: apro
la finestra nel freddo lunare
spio la mortalità terrestre e serale:
tombale silenzio, e noia, noia
calamità naturale del poco amarsi
nel riaccendere la luce
perché svaniscano gli incerti fantasmi
della notte.

Raffaele_Ciccarone_cover

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Poesie inedite di Antonio Sagredo, L’anacronismo e l’alterità marcano un punto di enorme vantaggio della poesia sagrediana rispetto a quella dei poeti che scrivono alla maniera della poesia valetudinaria di oggi, Lucio Mayoor Tosi, acrilico, 70×70, 2024 – a proposito de Linea innica e Linea elegiaca di Gianfranco Contini di Giorgio Linguaglossa

Lucio Tosi 2 senza titolo, acrilico 70x70 2024

(Lucio Mayoor Tosi, senza titolo, acrilico, 70×70, 2024)

Poesie inedite di Antonio Sagredo

Non ho mai incrociato una fede umana o divina con un pianto di legno nella Casa,
Sul pianerottolo una marionetta gioca con la testa di Maria Stuarda.
Ha di gelatina gli occhi e non lacrime vomita, ma trucioli e colla di coniglio!
Il lutto non s’addice ai Cesari e alle stelle… Gesti, gesti a me! Soccorrete le mie mani!

Ma io che faccio qui o altrove se il boia non ha un nobile rancore sulla lingua
e mescolare non sa con l’accetta dell’attesa e dell’accidia un colore di Turner.
Il Nulla azzera i giudizi sui patiboli, e il resto di un delirio è nello specchio.
E dov’era vissuto il mio corpo quando offriva sangue alla sua ombra?

Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!
E come posso rifiutare un destino che ad ogni sua domanda mi risveglia?
Io sono esente per grazia umana, e nella mia parola non c’è risposta!
E non ho l’acrimonia del vivere, solo voglio esserci quando accadrà.

Svegliatemi dopo la mia immortalità! La pantomima è piena
di vento nelle apocalissi, negli incendi e nelle distruzioni! – i tre profeti
farfugliano : Scusi – lei – sente – molto – la – nostra – differenza?
La confessione è un’arma terrificante…

*

Si domandava spesso il bardo nel giardino accademico come decifrare in numeri i gemiti del Caos e quali fandonie scansare per sbrogliare l’intrico della materia oscura immaginaria. Vi era dell’acqua accidiosa nella fontana come un groviglio di nodi per svelare la fissione atomica.

E quale volto avesse la diceria del Caos e dove fosse il suo occhio basedowico nessuno lo sapeva. Simulava segnali per suggerire un vuoto
e incarnare l’infinito. Svelare il fittizio intreccio di quel viluppo di confini irreali, quel parlare seriamente di universi per tradurre in ciarla il reale.

Le menzogne dell’Ordine babelico nei finti cardini di una teoria stramba scivolavano via come la morena di un ghiacciaio sfatto e putrido
non cancellavano le formule eleganti di eiπ = −1 \ di eiπ+1=0
ma clamoroso era il retaggio antico di misteriose ragionamenti.

la settima senile

Scendevo come Osiris per i gradini di una realtà effimera,
risorto ero dalle sabbie aurifere e l’occhio sbilercio dei tramonti.
Nelle acque il volto e le mani verdastri, e il cammino crespo
al canto dei giunchi, e nelle maschere i trucchi e le finzioni.

*

Con la corona bianca sul trono le letanie dei riti e dei linguaggi
erano il sangue delle destinazioni. Nelle mani cantavano i presagi.
Non erano il cuore e gli intestini i testimoni di una vita trascorsa,
ma un pretesto per ghermire nelle coppe l’immortalità della carne.

*

Nei calici i morti si specchiano per vanità e per farsi belli
devoti alla resurrezione col belletto iniziano le danze.
Le candele brillano di ombre, le ceneri lustrano le misericordie.
Il corteo è unto d’ametista, di celestina tremolante e untuosa.

*

Il banchetto delle divinazioni che annunciano predizioni e oracoli
ed io non so la differenza e la serena intesa per pregare.
Devo risalire i gradini, mi aspettano gli altari e le concrete realtà, le invocazioni, le suppliche per completare** l’opera. *

Antonio Sagredo
(Roma, 24\25 febbriaio 2024) Continua a leggere

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Vincenzo Petronelli: dalla poesia del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen, Due poesie esemplificative di Giorgio Linguaglossa e Francesco De Girolamo, La reificazione dell’archetipo edipico, Le nuove tavole di Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio e Ucraina, acrilici, 80×80 cm, 2024 –

Lucio Mayoor Tosi Paesaggio

Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio, 80×80, acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi Ukraïna! acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi, Ucraina, 80×80, acrilico, 2024

Su una campitura coloristica di radiosa luminosità Lucio Tosi stende i colori quasi senza l’intervento dell’io, del braccio che esegue i comandi della mente, quasi fosse un veggente che disegni un ostentato mare della tranquillità, quasi che un automatismo abbia ordinato qui le macchie, lì le campiture piatte del colore, quasi che tutte queste nuove opere fossero nate già ponderate alla Matisse, nate senza indugio, per partenogenesi, quasi che non conoscessero la reificazione delle parole e dei colori, quasi fossero nate nel mondo di Adamo ed Eva, liberi dal giogo della storia e dal peccato originale. (g.l.)

Vincenzo Petronelli

dalla poesia della fine del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per aver imperniato quest’articolo su di un mio intervento, il che mi onora e mi stimola dunque a recuperare la “sincronia” nei miei interventi sugli articoli dell’Ombra giacché, in questi giorni mi stavo invece soffermando su articoli apparsi nelle settimane precedenti; d’altronde è nella mia indole di antropologo la tendenza a rimanere attardato sulla riva del mare fuori stagione ad osservare da lontano le scie e raccoglierne le suggestioni.
Trovo decisamente interessante e pertinente l’ampliamento di raggio operato da quest’intervento rispetto al mio articolo di partenza, che mi spinge a riflettere su un ulteriore articolazione antropologica.
La lettura del disfacimento del rapporto fra società ed istituzioni nel nostro mondo in chiave psicanalitica e la riconduzione, da tale assunto di base, alla nascita ed alla diffusione nefasta dei populismi e della generale decadenza culturale e politica che affliggono la nostra epoca, è senz’altro stimolante ed è nota la reificazione sociale dell’archetipo edipico, culminante con la pulsione per l’uccisione del padre, che si traduce nei vari momenti distruttivi della storia della nostra civiltà.
Tale assunto, mi conduce ad allargare a mia volta lo spettro ricognitivo, nella direzione di uno dei temi di maggior fascino e profondità sviscerati dagli studi antropologici e cioè quello sulle società matriarcali, riflesso e modello opposto a quello dominante storicamente nella nostra società, da cui deriva la dinamica evidenziata nell’articolo.

Bisogna subito precisare che il dibattito sulle società matriarcali è risultato diversificato nel corso del tempo, poiché l’esistenza storica di comunità basate su di una gestione del potere affidato alle interamente alle donne in ambito europeo – e dunque per estensione in quella che si suole definire civiltà occidentale – non è mai stata realmente comprovata, nonostante fosse stata teorizzata già nel XIX sec. dall’importante opera di Bachofen, “Il matriarcato” del 1861, nella quale viene teorizzato il concetto di ginecocrazia, vale a dire, appunto un modello di gestione della società fondato sulla componente femminile della comunità.

Tale ipotesi si basava sulle testimonianze, provenienti dalla storia delle religioni, dell’esistenza di divinità femminili (le Dee Madri) i cui culti erano diffusi specialmente nel Mar Mediterraneo centro-orientale, simbolicamente identificate con la terra che porta frutti; ipotesi sviluppata anche da altri studiosi, tra i quali una figura chiave nella storia degli studi antropologici, quale James George Frazer, nel suo monumentale “Il ramo d’oro”.

L’età del matriarcato veniva collocata durante la Preistoria, nella fase delle società di cacciatori-raccoglitori in cui le donne sarebbero state investite del ruolo di capi-famiglia, mentre all’uomo sarebbero state demandate le funzioni pratiche di sussistenza: a questo modello comunitario si ispirò Friedrich Engels, teorizzando il comunismo delle origini nel celebre volume “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.

Al di là del dibattito sul matriarcato dei popoli cacciatori-raccoglitori, l’origine del patriarcato viene fatta risalire dagli antropologi al neolitico, momento in cui gli umani smisero di procacciarsi da vivere mediante la raccolta dei frutti della terra e la caccia, sviluppando l’agricoltura e successivamente l’allevamento
Dagli studi di linguistica, si è appurato che l’attività di semina e coltivazione delle piante, sia stato il passaggio culturale che abbia permesso al genere umano di rendersi conto del collegamento causale fra il rapporto sessuale e la gravidanza, determinando la nascita del concetto di genitorialità e la volontà da parte del padre, per assicurarsi il controllo della propria discendenza, di porre la donna sotto il proprio dominio: da qui nasce anche l’istituto del matrimonio.

Al tempo stesso, dagli studi di archeologia, sappiamo essere stata questa l’epoca dell’arrivo dei popoli indoeuropei (fenomeno a sua volta collegato alla nascita dell’agricoltura) ed in particolare l’attività della grande ricercatrice lituana Marija Gimbutas, è stata in grado di mostrare come i popoli pre-indoeuropei fossero caratterizzati da una divisione egualitaria del lavoro sociale, come attestato dal fatto che le tombe in cui venivano seppelliti i componenti di quelle comunità fossero singole, a testimoniare l’assoluta parità dei ruoli all’interno del clan, senza distinzioni gerarchiche fra uomini e donne.

A partire dal XX sec. gli antropologi e gli storici, in relazione alle società europee storiche, hanno preferito parlare non di matriarcato (nel senso che abbiamo visto di ginecocrazia), ma piuttosto di società matrilineari e matrilocali, dove cioè determinati diritti vengono trasmessi tramite le donne e i nuovi sposi si stabiliscono presso i genitori della sposa, ma in cui il potere di gestione rimane nelle mani degli uomini.
Tale slittamento semantico è conseguenza del fatto che l’idea dell’esistenza reale di società matriarcali nella preistoria europea è stata messa fortemente in discussione – rimanendo tuttavia dibattuta – confinandola alla sfera della narrazione mitologica; d’altro canto, le numerose spedizioni etnologiche che in varie aree del mondo (dai Tuareg nord africani, ai Kerala indiani) hanno testimoniato l’esistenza di società organizzate su base ginecocratica, lasciano supporre che effettivamente anche le società occidentali possano aver conosciuto anticamente realtà analoghe.

Indipendentemente da ciò, è assodato che nelle società di cacciatori-raccoglitori (come confermato anche dalle ricerche condotte sul campo presso le popolazioni di questo tipo ancora presenti – in misura sempre più esigua – nel mondo contemporaneo, oltre che dalle ricostruzioni archeologiche), vigesse e viga un pronunciato egualitarismo, tanto rispetto alla suddivisione sessuale del lavoro, quanto dal punto di vista sociale. L’assenza di conflitti interni, si abbina alla mancanza di una cultura bellica, come accertato dall’assenza di armi nelle tombe dei defunti e dalla mancanza di tracce di fortificazioni nelle piante dei villaggi.

Altro elemento caratterizzante tali culture, è la cosiddetta “economia del dono”, cioè una cultura della condivisione, che consente ai propri componenti di non avvertire mai la precarietà e di lavorare meno rispetto ai modelli di società successive che – già a partire da quelle agricole – fondano la propria economia su di un’idea intensiva del lavoro; una visione della conduzione dell’economia divenuta un esempio per gli antropologi economici, a cominciare da Jared Diamond, che teorizzano una diversa e più armoniosa distribuzione delle risorse.

Dunque, indipendentemente dalla matriarcalità siamo senz’altro di fronte a culture dal forte senso estetico, apollinee, in cui il senso del femminile ha un’incidenza evidente in contrapposizione al profilo dionisiaco, guerresco, delle società agricole, che in quanto stanziali, sono condizionate dall’idea del territorio e del suo ampliamento; una cultura dell’accumulazione di potere e di ricchezza che ha poi informato la storia del mondo occidentale ininterrottamente fino ad oggi, costituendo un archetipo che pone tra parentesi il senso dell’estetica e che condiziona tutto, compresa l’arte, per snaturarne il senso eversivo della rappresentazione mimetica.

Così la cultura dell’accumulazione di potere, tramutato in forma di presenzialismo salottiero o di scranno digitale, si impadronisce anche della poesia, svilendola di senso e riducendola ad una rappresentazione autotelica; va da sé che forme di autodifesa del valore di metafora sacra dell’arte hanno sempre continuato ad esistere ed a perpetuarsi, per fortuna, ma nei momenti storici di crisi delle libertà, anche l’arte rischia di essere soffocata e quella che stiamo vivendo è proprio una fase di regime, sospesa tra rigurgiti autoritari ed il suo alter ego travestito da antitesi, il populismo.

Sono proprio questi i momenti in cui la riappropriazione del senso estetico diventa fondamentale in quanto atto rivoluzionario e quindi è improrogabile che la poesia si rimpossessi del suo ruolo critico ed insieme catartico, esattamente come storicamente, nelle parabole decadenti della storia occidentale, è decisiva la capacità di ricreazione del mondo che solo la donna, nel suo ruolo cosmico di donatrice di vita è in grado di esprimere; evidentemente, le due cose sono strettamente collegate poiché il simbolo della poesia è femminile e perciò può esercitare una funzione rigeneratrice insostituibile.
La Poetry Kitchen è appunto l’espressione di tale liberazione, di tale affrancamento dall’impaludamento nel linguaggio del potere ed è pertanto un progetto, una visione di rinascita.

Mi è capitato di rileggere ultimamente una poesia di Giorgio Linguaglossa di qualche anno fa, in una fase ancora embrionale rispetto alla definizione di Poetry Kitchen, ma già emblematica del progetto Nuova Ontologia Estetica e tanto più significativa perché in nuce contiene già i contorni della Poetry Kitchen e la rivela:

Onto Giorgio Linguaglossa.blu

Giorgio Linguaglossa

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del Tramonto, LietoColle, 2006)

Trovo che in questo componimento, sia racchiuso il percorso che dalla fase destrutturante Noe, conduce alla fase palingenetica della Poetry kitchen; da lì in poi, tutta la poesia dello stesso Giorgio, di Franco Intini, di Lucio Tosi, di Mimmo Pugliese e di tutti gli amici del nostro collettivo, sembrano affermare perentoriamente il grido di rivendicazione della poesia: “il corpo (della scrittura) è mio e lo gestisco io!”, premessa indispensabile per liberare la poesia e permetterle di tornare ad incarnare appieno la sua carica libertaria.

giorgio linguaglossa
(25 febbraio 2024 alle 8:09)

Il lavapiatti del Cremlino

Il lavapiatti del Cremlino adesso fa il barbiere
taglia i capelli dei bastardi, applica della brillantina sui loro capelli

Aggiusta le frange e i riccioli dei soldati
Così, è stato promosso al rango di ragioniere

Tiene i conti della banda in ordine, finanzia i progetti per la produzione di carrarmati e di velivoli senza pilota

Asserisce che vuole denazificare l’Europa e altre quisquilie
Così il ragioniere è stato promosso a generale

Adesso comanda un corpo d’armata nel Donbass
Rapisce i bambini con gli occhi azzurri, bombarda le città

e gli elettrodomestici, distribuisce sigarette avvolte nei dollari arrotolati, dichiara che le stelle sono a portata di kalasnikov

E altre quisquilie, che le pallottole sono le caramelle che preferisce e che getterà i gonzi in fondo al mare

Il generale adesso ha altre mire, ma non le dice, attende le mosse del Cremlino, studia la scacchiera, muove qui la Torre,

Qui la Regina, qui il Cavallo…

(24/ 02/2024)

foto francesco de girolamo

Francesco De Girolamo

Ai fuochi azzurri

Sotto il trepido sole degli addii
lo sguardo era il germoglio di una spina,
era una macchia d’ombra porporina
che il vento vorticava in dondolii.
Un che di noi, perduto nella luce,
rimpiangeva il languore della luna
che indora all’alba i fiumi della brace
non spenta dei bivacchi di fortuna.
Erano troppo presto divampati
i fuochi azzurri dell’appartenenza,
confusi nell’azzurrità più intensa
d’altri cieli remoti, non svelati.

(Francesco De Girolamo – da La radice e l’ala, 2000)

Bisbiglio ed eco

Cerco il nodo che acquieta, grazie al poco
che non ho più, per cuore troppo aperto.
Ciò che vorrei, dunque, lo credo detto,
seppure non intenderlo sia un gioco;

a pronunciarlo pare un suono fioco
e più obliquo il suo senso che diretto.
Pertanto spererei che più protetto
fosse il suo segno ed il suo canto, roco

per menti che ad intendere il suo sfogo
potessero servirsene a dispetto.
Che sia perciò il suo transito più stretto,

di bocca, in vento, in vela, in punto, in luogo,
che un palpito racchiuso dentro il petto;
e il suo venire in luce, duri poco. Continua a leggere

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Poesie di Francesco de Girolamo, Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo Quel «declino dell’ontologia», quel declino, per dirla in termini più comprensibili, delle oggettualità, di cui ha parlato Vattimo, sembrerebbe condurci alla soglia del declinare e del deragliare di tutte le arti «deboli» e «povere» (in primo luogo la «poesia»), sicché non avremmo più nulla di cui narrare, Marie Laure Colasson, Struttura nel vuoto,

Struttura_dissipativa_acrilico 50x28, 2023

(Marie Laure Colasson, Struttura nel vuoto, acriico, 70×30, 2021)

.

Francesco de Girolamo
23 febbraio 2024 alle 10:33

Giorgio Linguaglossa, già 13 anni fa, scriveva:

“Quel «declino dell’ontologia», quel declino, per dirla in termini più comprensibili, delle oggettualità, di cui ha parlato Vattimo, sembrerebbe condurci alla soglia del declinare e del deragliare di tutte le arti «deboli» e «povere» (in primo luogo la «poesia»), sicché non avremmo più nulla di cui narrare. E invece la poesia di un Toma, di un Pedota, di un Farina o di un Francesco De Girolamo prende forza proprio da questa intima infermità del discorso poetico del «Dopo il Moderno» che non può fondarsi su alcun «fondamento», prende forza dalla «leggerezza» che ha investito sia il «soggetto» che l’«oggetto».
Una poesia sensibile a tale problematica è quella di Francesco De Girolamo, il quale riutilizza i rottami e lacerti «eleganti» del crepuscolarismo più astuto per recapitare alcune felicissime sortite nei retaggi della rima invisibile, che serpeggia come un marchio di luttuosa «eleganza» in questa poesia intimamente ultronea e ultranea.
La specificità del discorso poetico di Francesco De Girolamo riposa, dicevamo, sulla radicalità di questo assunto, sulla radicalità della sua interrogazione, sulla eccentricità di ciò che è privo di un centro e del quale bisogna cercare il senso. Una problematicità aporetica che ruota attorno a un «dio» e ad un «io» assenti. Da «Paradigma Antologia personale e altre poesie 1997-2009» (2010):

Quello che vedo non è quello che penso;
quello che dico non è quello che sento;
i miei amici sono i miei nemici;
l’io che non sono ha ucciso l’io che ero.*
[…]”

ULTIMO AVVISO

Non fidarti di me, non lasciarti ingannare
dall’apparente candore che dal mio sguardo mansueto
vagamente traspare.
Potrebbero esserci minacce imprevedibili
nascoste in quella quiete sfuggente
ed imperscrutabili mire di un soggiogamento perpetuo,
silenzioso, incruento, che porterebbero pian piano il tuo orgoglio
a una resa incondizionata e quasi inconsapevole.
Dietro quei modi teneri, infantili, un io nascosto ha un dominio
segreto, un io feroce, bieco, senza freni: una belva affamata
di continue concessioni, di conferme, di dedizioni,
spesso persino di sottomissioni.

Non fidarti di me, il fuoco arde sotto la cenere,
e la lunaticità è quasi come la licantropia
e a volte trasforma d’un tratto la noia
in un gioco crudele. Ed è allora
che potresti dover soffrire, solo per dimostrarmi
che sono importante;
e se non soffrissi abbastanza, se il sale delle mie accuse
non bruciasse nelle tue ferite, vorrebbe dire
che non mi meriti; ed amen.

Non fidarti di me: troppo sconfinato è il mio orgoglio,
troppo tenace la mia vanità e l’improvvisa perfidia
che ti coglierà di sorpresa, nel sonno,
quando meno te lo aspetti, mentre sorridi,
svestita ogni corazza, con le armi ai piedi del letto,
porgendo il tuo piccolo cuore nudo
ai mille artigli del mio affetto vile.

Giorgio Linguaglossa
19 febbraio 2024 alle 12:22

Apprezzo di questa poesia di Francesco De Girolamo il suo essere dalla parte del non-io, dell’ombra dell’io, che invita a non fidarsi dell’io e delle sue apparenze. Tematica questa che ricordo Francesco ha sempre coltivato fin dalla sua primissima poesia dei primi anni novanta. E ben coglieva De Girolamo il lato debole delle tematiche dell’io, era sufficiente guardare nel risvolto dell’io per scoprire che lì c’era del marcio, che l’edificazione di una società dell’individualismo era ed è una società dell’illusione, che una poesia fondata a scoprire chissà quali penetralia dell’io è una poesia della mistificazione. Una poesia anti Totem, ormai il capitale «liquido» non ha più bisogno di un Totem, di un Padre da onorare quanto di un suo sostituto.

*Giorgio Linguaglossa, DALLA LIRICA AL DISCORSO POETICO. Storia della poesia italiana (1945 – 2010), Edilet – Edilazio letteraria, 2010 (capitolo “la nuova poesia modernista”)

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Antonio Sagredo
23 febbraio 2024 alle 10:08

La maschera autunnale era avvilita come una tragedia in atto
Quando le poltrone incanutite tradivano il copione già inattuale.
La viola piangeva sui misfatti del do diesis minore,
il controfagotto per sentirmi doppio nell’unità delle note.

Dal loggione le parole giungevano invertite per il trionfo
del grottesco, per la metafora che lacrimava a dirotto sul palco.
Ma le dame, come due secoli fa, smaniavano per l’attesa di un gesto
e per un applauso disatteso come una condanna recidiva.

Per una serpe nel cieco brusio del salice rosso si era immolata.
Come un attore di provincia non aveva altro da dire che cantare
così Il bardo stenografo imitava il poeta nel singhiozzo straniato.
Non Desdemona, ma Eleusina elogiava il mistero del digiuno erogeno.

(Roma, 22 febbraio 2024)

Alfonso Cataldi
23 febbraio 2024 alle 11:31

Venerdì 16/02/2024, ho partecipato alla presentazione di un libro di poesia, al caffè letterario di Roma “il Mangiaparole”. Non voglio qui parlare delle poesie, non conoscendo l’autore. Mi interessa invece fare una riflessione sulla necessità di scrivere ancora poesia nel 2024, argomento affrontato nel corso della serata. Cosa può aggiungere una poesia scritta oggi a quanto è stato già scritto nei secoli scorsi?
L’autore ha affermato che una poesia è da ritenersi necessaria se muove da un’urgenza reale che porta a riscrivere in modo “nuovo” un’esperienza già descritta. A tal proposito e in relazione ad alcuni testi in cui i protagonisti erano i figli appena nati, è stata nominata la poesia “sincera” di Saba . Il prefatore ha aggiunto che la cultura e la conoscenza approfondita della poesia da parte dell’autore della pubblicazione, lo hanno messo al riparo dallo scrivere poesia ingenua, poesia già scritta e quindi non necessaria.
Io non sono convinto di questo approccio. È un metro che non può che portare, se si è davvero onesti, se non si fa un discorso retorico tra amici di vecchia data che se la raccontano, a considerare tutta la poesia scritta oggi, del tutto inutile. Oltretutto, la cultura è da considerarsi un’aggravante. Lo dico avendo pubblicato nel 2017 la raccolta “Ci vuole un occhio lucido” con la sezione “in prospettiva di Sofia” quasi interamente dedicata a mia figlia. Ho scritto quei testi con la consapevolezza piena di una riscrittura, di un tema affrontato fino allo sfinimento. Quei sentimenti, seppur trascesi e messi in poesia attraverso la mia estetica di allora, appartengono a tutti gli umani, a tutti i poeti che diventano genitori. Cosa ha spinto allora l’autore di venerdì sera a ritenere la sua paternità diversa e quei testi degni di essere pubblicati e letti, degni di suscitare interesse rinnovato a un pubblico conoscitore della poesia? La parola chiave, l’aggettivo usato dall’autore è “nuovo”. Se vogliamo affrontare seriamente la questione, dobbiamo partire da quanto scrive Giorgio Linguaglossa:

“Un nuovo linguaggio e un nuovo stile nasce quando una nuova «autenticità politica» ha derubricato e sostituito la vecchia. Un nuovo linguaggio emerge quando il vecchio è andato in pensione.” Nessuna urgenza può costruire una poesia necessaria se viene riportata in un libro con uno «stile derivato», uno stile che “sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica”. Continua a leggere

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Dalla disinformacija del mondo globale nasce la nuova sensibilità poetica, Poesie di Miroslav Krleža, Sergej Stratanovskij, Hans Magnus Enzensberger, Giorgio Linguaglossa, A cura di Vincenzo Petronelli

Foto manichino con vestiti su stampelle

Vincenzo Petronelli.

Il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, tra la pandemia e il riaffacciarsi di conflitti bellici in Europa, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo, consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, affermatosi a partire dall’edonismo degli anni ’80 del secolo scorso. Quest’interrogazione ci pone di fronte, in particolate, ad una riflessione cruciale per le sorti della poesia e segnatamente della poesia italiana, investita in modo pronunciato da questa stagnazione, finendo per essere relegata in buona parte, nelle sue forme dominati, ad arte da salotto o da festival, per quanto ciò non tolga, ovviamente, che anche in periodi di magra come questi ultimi anni, compaiano voci che tentino di fare poesia seria, ma è indubbio che l’orientamento prevalente sia andato in un’altra direzione.
Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non abbiano ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare nella poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, proprio questo è da considerare come uno degli aspetti maggiormente deleteri che la cosiddetta «poesia del quotidiano» ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto «velo» poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica, proprietà immanente alla lingua poetica, in quanto soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) in quanto più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino nei confronti della lingua tutta.

Il risultato di fatto, invece, è stato che anche la poesia ha abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di normalizzazione politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà anni’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
Sono stato condotto a questa riflessione dalla bellissima allocuzione del poeta russo Ilya Jashin – riportata nell’articolo dell’Ombra delle Parole del 9 dicembre dello scorso anno – reo di aver pubblicamente citato la parola “guerra” invece del travestimento buffonesco di «operazione militare speciale» – che trovo ci proietti direttamente al nocciolo del discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie.
L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla «macchina politica» che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.

A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep. Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad altre di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e deleteri come la storia ci ha del resto già insegnato.
La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.Antologia_poetry_kitchen_2023 Azzurra_web

È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche (in musica) più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare nel proprio limbo apparentemente indolore (riproducendo all’interno del proprio dominio i meccanismi dell’egoismo dominante) ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbatterglisi addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protagonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimonia, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza, di fronte alla cui scena, affida il suo disappunto ad uno slogan laconico: “Mangè mangè nu séi chi ve mangià” (“Mangiate, mangiate, non sapete chi vi mangerà”).

Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico–culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’“uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che hanno di fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia (poiché i modelli propinatici rappresenterebbero non solo una regressione democratica, ma un vero e proprio trionfo del più bieco autoritarismo, con il suo storicamente consueto, falso paternalismo bonario) ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea sottesa a tale concetto, rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo il messaggio – insieme ingannevole e pernicioso – per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali o alle varie frustrazioni sociali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi codici comunicativi, improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.

Cover Gino Rago Gallina NaninAppare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza, mettendole in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di contrastare libertà sociali ormai consolidate per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae uno dei suoi serbatoi di maggiore propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.

E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa, nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla loro tirannie.
Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa con uno straordinario anticipo temporale in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.

Agenda 2023 cover DEF

Miroslav Krleža

Notturno di San Silvestro millenovecentodiciassette
(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)
Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle strisce di tutti i meridiani.

Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terrore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro.

Oltre all’ambientazione, che per la situazione di guerra potrebbe farla apparire una poesia composta oggi (e fa riflettere il fatto che siano trascorsi più di cento anni dai fatti descritti), trovo che alcuni passaggi, come: «Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/ e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione»;
o come:
«L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte/e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice./La luna è sanguigna/e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte /con coltello piombo e gas/e unghie, e calcio del fucile, e pugno/la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok/pure questa è notte di San Silvestro.”
evidenzino mirabilmente lo straniamento che si impossessa dell’intellettuale realmente calato nell’osservazione e nel tentativo di decifrare la realtà di un tempo così desolante come quello dell’epoca cui si riferisce il brano, che richiama in modo impressionante la nostra.
Il compito della poesia e dell’arte in genere in tale contesto, dovrebbe essere da un lato appunto, lo scrutamento e la denuncia e dall’altro l’approfondimento e la ricerca dei “moti profondi”, delle connessioni sotterranee che sottendono la crosta di superficie, per comprendere a fondo le logiche ontologiche, destrutturandole e proponendo un nuovo possibile paradigma.
Proprio la poesia russa – ed è quindi un incrocio emblematico rispetto all’attualità – ci offre degli esempi straordinari della capacità della poesia e dell’arte in generale di trovare – nelle varie epoche storiche, attraverso le sensibilità più spiccate ed in grado di sottrarsi ai condizionamenti delle correnti dominanti che riflettono, tramite le lobbies che controllano la produzione intellettuale, le impostazioni dei poteri costituiti – la capacità di proporre una visione poetica ed un indirizzo per la storia dell’umanità soteriologici, catartici.
Un poeta significativo in tal senso (ma è uno dei tanti) oltretutto di straordinaria attualità, è Sergej Stratanovskij, attivo nell’ambiente dei Samizdat, fenomeno sociale, politico e culturale sviluppatosi in Unione Sovietica e con varie modalità anche nel resto del blocco socialista, consistente nella diffusione clandestina di scritti considerati illegali, in quanto avversi al regime e propugnatori di idee libertarie. La tecnica consisteva nell’uso di riprodurre in proprio i testi e di diffonderli (da cui il nome che tradotto dal russo si potrebbe rendere in autopubblicare), divenendo uno dei vettori fondamentali di diffusione delle idee di opposizione al regime.
La poesia di Stratanovskij è un esempio mirabile di come anche una poesia realmente impegnata nel senso della proposta di un rinnovamento sociale e politico, non possa prescindere da un modello di scomposizione del lessico, della semiologia e della semantica poetiche, per ricomporle in una visione cosmologica alternativa.

Poetry kitchen cover

Sergej Stratanovskij

In morte di utopia
Chi è mai Utopia?
È l’annegata, l’inghiottita
Dall’acqua torbida, sporca,
dal gorgo dell’oggigiorno
Ed eccola deposta in una cassa
Rozza, di quercia.
Divinavergine, ma, forse, Libro
Tondo-purpureo,
in veste ferroviva.

Si affretta la guardia:
di notte, come fanno i ladri, di soppiatto
Verrà portato via il suo corpo
E inumato tra scorie di fabbriche
Gioia dei popoli.

Sia pure, beh, non piangerò, basta
Senza di lei in fondo non si soffre
Si sta benino, anzi
E i guardiani hanno abiti passabili

Riscossosi, dirà qualcuno:
ma Ella dov’è mai finita?
Domina discesa a noi dal cielo
L’abbiamo sepolta, scordata
E sì che l’amavamo un tempo
Senza di lei come facciamo
ad affinare la tecnica del vivere? Continua a leggere

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Poesie di Mimmo Pugliese, Lucio Mayoor Tosi, Le composizioni di Lucio Tosi sono assemblaggi di proposizioni minime che, prese ciascuna per sé, sono entità minime dotate di significato (purché residuale), che però accostate le une accanto alle altre si tolgono il significato a vicenda per sottrazione, procedono per sottrazione, così ciò che resta sono ciò che resta di tutte le sottrazioni, un minimo residuale del tutto trascurabile – Se leggiamo la poesia di Mimmo Pugliese ci rendiamo conto che la politica estera la fa la pubblicità, ovvero, che l’extimità è stata dentrificata e che l’interno è stato elettrificato ed è diventato un esterno esteso, un corpo esteso, cioè una dimensione analoga a quella dell’inconscio esteso di lacaniana memoria, La macchia di Marie Laure Colasson

la macchia rossa 31x36 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 31×36, 2023

La «macchia» è il sintomo che affiora sul corpo, il suo modo peculiare di abitare il linguaggio, negandolo, il suo modo di stare al mondo; la Colasson fa qualcosa del suo sintomo senza cercare di spiegarlo né di interpretarlo; lascia  il sintomo per quel che è: un evento di corpo, legato al fatto che lo si ha, lo si ha dall’aria, lo si appropria, è pesante, ingombrante, appare in piena vista, non lo si può nascondere.  Trasformare il sintomo in «evento di corpo» significa fare del linguaggio una contro-scrittura, una cosa, o, il che è lo stesso, farne una «traccia», cioè un elemento non linguistico. Un corpo del genere può accedere ad un godimento che non ha niente a che fare con l’Altro, con il desiderio, con il bisogno di riconoscimento. La «macchia» sta lì, immobile, non può spostarsi, che altrimenti tutto crollerebbe. È il modo della Colasson di marchiare il linguaggio, di abitare la mancanza implicita nel linguaggio pittorico. La cosa in realtà è fatta delle nostre proiezioni, dei nostri pensieri, dei nostri desideri, dei nostri discorsi: è questa astrazione, al di là di ogni paradosso, la realtà più concreta dell’oggetto. La cosa appare là fuori, oggettiva e indipendente. In realtà, la cosa è fatta di e da noi. Siamo noi.

Se ci ricordiamo la terribile definizione di Lacan, secondo cui «un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante», la pittrice francese decide di interrompere questa deriva, perché la macchia  non è più un significante, è scrittura senza senso, protoscrittura priva di significato, è finalmente una cosa. Il godimento di conseguenza non ha più nulla a che fare con il linguaggio e con il desiderio; è un godimento legato all’«evento di corpo», quindi un godimento proprio del sintomo. Godimento opaco perché esclude il senso e il significato; anzi, che converte il sintomo in significato del corpo. E questo può appunto succedere solo perché «la scrittura è nel reale l’erosione dilavante del significato»1 ci dice Lacan, cioè appunto del senso. La scrittura infatti lascia restare il significante, ma non come entità semantica, bensì come mera cosa, Das Ding.

La Colasson svuota dall’interno la presunzione umanistica di chi pretende che la poiesis abbia  un senso da imporre al mondo. In questa accezione la Colasson è un pittrice del reale, anche se di un reale cosificato, ottenuto portando alle estreme conseguenze il mondo degli oggetti/segni, il mondo artificioso e artificiale della svolta semiotica avvenuta nel secondo novecento, che è ancora il nostro mondo della tecnica e della cura del sé individuale; «il valore referenziale» di una cosa «è annullato un vantaggio del solo valore strutturale del valore». La trasformazione del mondo delle cose in segni ha un doppio effetto correlato; da una parte il segno è diventato onnipotente, dall’altra la cosa diventa sempre meno importante: «emancipazione del segno: svincolato da quell’esigenza arcaica che aveva di designare qualcosa, esso diventa infine libero per un gioco strutturale, o combinatorio, secondo una indifferenza e unaindeterminazione totale».Il segno non ha più bisogno di riferirsi ad una cosa per avere senso, dal momento che esso è un valore di scambio, ogni segno vale per i rapporti che intrattiene con gli altri segni, in un gioco chiuso dimentico del mondo: «il reale è morto sotto il colpo di questa autonomizzazione fantastica del valore».3

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1 J. Lacan, Altri scritti [2001], Torino 2013, p. 17.
2 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte [1976], Milano 2009, pp. 17-18.
3 Ivi, p. 18.

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Mimmo Pugliese cover

Mimmo Pugliese

Quasi alla fine delle feste comandate

Un albero di corvi deposita ferraglia
sacchi di sale presi in prestito risolvono sciarade

La teiera dissolve la schiena del lanciatore di coltelli
dalla marmellata sono nati un paio di sci

Il cognome del deserto è una salita
una stella pelle e ossa insegue un ragno

Violini occupano il centro del dentifricio
nelle crepe della steppa ciliegi abboccano al favonio

Una famiglia di termosifoni protesta
il bravo presentatore è scappato con la frutta candita

Stecche di biliardo prevedono il futuro
la glicemia innervosisce l’ibisco

Tracce di azoto arridono agli itinerari turistici
Omero blocca l’account dell’idraulico

La dea Calypso passeggia in Piazza Duomo
il governatore Vronskiy è indagato per peculato

Bomba!
la montagna senza veli vola

Bomba!
il mare rovescia la culla

Bomba!
il cielo scende dal ring

La saggina assapora la luna nuova di Natale
il becco dell’aquila stordisce il transatlantico

Commento di Giorgio Linguaglossa

Se leggiamo questa poesia di Mimmo Pugliese ci rendiamo conto che la politica estera la fa la pubblicità, ovvero, che l’extimità è stata dentrificata e che l’interno è stato elettrificato ed è diventato un esterno esteso, un corpo esteso, cioè una dimensione analoga a quella dell’inconscio esteso di lacaniana memoria (che non si sa più dove sta, né di qua né di là). E forse non è neanche più il desiderio a guidare le performance delle parole che si esibiscono come soubrette sul palcoscenico in tutù e crinoline in disordine sparso. Non c’è più il regista!, grida con il salvagente il poliziotto della buoncostume (ovvero, della tradizione), non rendendosi conto che si comporta come la polizia della buoncostume dell’Iran che manganella a morte se la ciocca delle parole, come la ciocca dei capelli, va fuori posto ad una signorina.

Tracce di azoto arridono agli itinerari turistici
Omero blocca l’account dell’idraulico

La dea Calypso passeggia in Piazza Duomo
il governatore Vronskiy è indagato per peculato

Il fatto del linguaggio che il novecento ha scoperto come problema numero uno è che non c’è più un linguaggio regolatore, ma tantissimi linguaggi, ciascuno valevole nel proprio ambito, e così tutti i linguaggi sono analoghi e omologhi, ciascuno padrone in casa propria. Tutti i linguaggi sono devalorizzati. La filosofia ha sempre saputo che fra noi e il mondo si frappone il linguaggio, una pellicola traslucida di cui molto spesso ci dimentichiamo, ma quella pellicola siamo noi umani parlanti e gesticolanti… in fin dei conti, cosa c’è di straordinario nel dichiarare che «La dea Calypso passeggia in Piazza Duomo»?, davvero, i letterati sono gli esseri umani più bigotti se si inalberano per così poco, neanche se Mimmo Pugliese avesse detto che la dea Calypso passeggia sul mare della tranquillità!, in fin dei conti qui c’è ancora un residuo, pur se piccolissimo, di significazione che resta imprigionato tra le parole…
Leggiamo un distico di Mimmo Pugliese:

La teiera dissolve la schiena del lanciatore di coltelli
dalla marmellata sono nati un paio di sci

Se esistesse un umano al di qua del linguaggio, che so, un corvo, una rana o un coccodrillo, esso non sarebbe gravato dal desiderio, perché v’è desiderio in quanto c’è il significante, ovvero il linguaggio. Privo del desiderio-linguaggio quell’essere sub-umano non avrebbe bisogno di un linguaggio, tantomeno del desiderio. Il desiderio entra nel corpo umano nel momento in cui esso diventa un corpo parlante, vi entra con il significante. L’homo sapiens desidera perché parla, parla perché desidera. Il sub-umano non parla perché non desidera, non parla perché non ha bisogno di un linguaggio.
Se leggiamo il distico di Mimmo Pugliese, non possiamo che dichiarare che ci sono sì dei significanti in collegamento con altri significanti, ma è il collegamento che è stato tagliato e sostituito con un altro collegamento che non risponde più del significato né del significante. Le proposizioni lineari di Mimmo Pugliese staccano la spina del collegamento, e così facendo fanno cozzare i significanti gli uni con gli altri in una ridda infinita.

Mimmo Pugliese

SOTTO I VESTITI NIENTE

La nave di dicembre punge la luna
gli aquiloni hanno occhiali da sole

Per non ferire le onde hai le scarpe di tuo padre
strade strette infilano tenaglie nella sacher-torte

Foglie lobate accolgono bambini
gli abbaini macinano circuiti elettrici

Angoli acuti mordono tuorli d’uovo
la coda della rana si arrende all’aceto

Una voce fuori campo fa sparire il Colosseo
il portachiavi è innamorato del microfono

Il succo di pomodoro dimentica di aprire l’ombrellone
narcisi in parapendio bruciano gli stinchi di Sansone

Hanno rubato la stola alla pubblicità
la grammatica dei bottoni plana sui detersivi

Canarini giocano a bowling
rebus sequestrano cinghie di trasmissione

La bocca delle pentole è un campo minato
i robot hanno pensieri d’inchiostro

“Mi piace”

La poesia dello «sguardo sincipitale» di Mimmo Pugliese

La poesia di Mimmo Pugliese con il trascorrere del tempo è diventata sempre più infantile, si è infantilizzata, l’occhio che la scrive, prima guarda gli oggetti e poi li appunta sul foglio di carta, come raccomandava Osip Mandel’štam quando scriveva e teorizzava le sue «poesie per bambini» de “Il fornello a petrolio”, negli anni Dieci del Novecento (pubblicate su lombradelleparole.wordpress.com). Nei bambini c’è lo «sguardo sincipitale» di cui parlava Mandel’štam , ma c’è anche la «metafora tridimensionale» di cui sempre Mandel’štam raccomandava l’impiego ai poeti del suo tempo. Sono passati ormai più di cento anni da quelle raccomandazioni del poeta russo, e soltanto ora possiamo capire la novità rivoluzionaria della sua impostazione di poetica che andava ben oltre l’acmeismo del suo tempo. Così, in modo analogo, Mimmo Pugliese scopre, denuda la parola degli dèi, dove sono gli dèi a giocare con le parole e le metafore di cui gli umani hanno in spavento, ma è che gli dèi diventati bambini sono gli unici che possono giocare con la palla della poiesis che, notoriamente, va di qua e di là senza che alcun padrone la possa assoggettare. Gli oggetti, come «la pentola» hanno «la bocca»; «i robot hanno pensieri»; qualcuno ha «rubato la stola alla pubblicità»; «una voce (fa) sparire il Colosseo), etc. C’è tutto un universo infantile, animistico, cangiante, che non conosce ancora la logica ordinatrice della sintassi, i fantasmi sono numerosissimi e abitano negli oggetti della natura e della società tecnologica, una naiveté dello sguardo ha preso posto in questa poesia e non vuole arrendersi alla cosificazione delle cose della civiltà tecnologica. È questo il succo della poesia kitchen di Mimmo Pugliese. Non la bellezza ma il «gioco» riscatterà il mondo, è questo il pensiero del poeta calabrese, il quale si diverte a palleggiare la sua poesia come un pallone che obbedisce ad una sola deità: la Musa.

Scrive Agamben che i poeti:

«devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili, straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni volta estraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato».1

1 G. Agamben, L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza 2014, p. 122.

Lucio mayoor Tosi cover Def

Lucio Mayoor Tosi

Cronache di guerra. Perché non ti lascio sola.
L’uomo di guardia. Il parere del critico.

Libri stellati, pieni di misericordia.
Gesti metafisici. Architetture.

Come complicarsi la vita su più fronti
e Dove mettere il diavoletto.

Oggi Bravo più. Horror, smalto per unghie.
Si ricercano svizzeri.

*

– Annunci.

Pace. Nuovo asfalto e fiori da comprare
in Ucraina.

Poesie per la mente e il dopo cena.
Versi leggeri, en passant.

Abbracci. Latte di soia e internet.

Le composizioni di Lucio Tosi, invece, sono propriamente assemblaggi di proposizioni minime che, prese ciascuna per sé, sono entità minime dotate di significato (purché residuale), che però accostate le une accanto alle altre si tolgono il significato a vicenda per sottrazione, procedono per sottrazione, così ciò che resta sono ciò che resta di tutte le sottrazioni e di tutti i collegamenti tagliati, un minimo residuale del tutto trascurabile.
Anche la temporalità è un effetto di linguaggio, della sua caratteristica fondamentale secondo cui niente è rappresentato se non per, se non come rinvio. Infatti le temporalità delle composizioni di Mimmo Pugliese e di Lucio Tosi, sono diversissime, e così anche l’esperienza soggettiva del tempo. Che cos’è, in fondo, l’esperienza soggettiva del tempo se non la possibilità di proiettarsi in avanti e indietro rispetto al qui ed ora del corpo? Desiderio, desiderio di passato e desiderio di futuro sono manifestazioni diverse di un unico apparato, quello del linguaggio. I desideri, presi tutti insieme, scavano un buco sempre più profondo nel pieno del mondo, nel pieno del corpo dell’animale che parla. L’ essere umano parlante è per Lacan e per Zizek, appunto, questo buco.
«Letteratura come patafrittura. Non c’è altro di che. Ogni argomento serioso è specioso, ozioso. Oltre che indecente. Una poesia fatta per l’occhio, che deve essere guardata, questo solo ci resta», scrive Marie Laure Colasson. E io aggiungerei: «e subito dimenticata». Continua a leggere

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Le epoche della felicità sono i suoi fogli bianchi, poesia di Giorgio Linguaglossa con un Commento di Marie Laure Colasson, La com-posizione è costruita interamente dal parlato, dal dialogo tra i vari personaggi come fosse un copione di teatro. Il mondo è diventato obsoleto e pur si muove, sopravvive, Ecco una poesia che è andata a lezione da Eliot

Foto Selfie uomo

Poesia di Giorgio Linguaglossa

Le epoche della felicità sono i suoi fogli bianchi

«L’immagine nello specchio con la cornice dorata, parla»
– esclamò la clairvoyante –
«di cose che voi non potreste neanche immaginare!»

«But she was a pseudo-mulier,
all’epoca fu eletta Miss Università, finì su tutti i giornali
fu un gran colpo, ne dissero
di tutti i colori…», disse Marlene.
C’erano scritte delle parole e le iniziali sul retro della cartolina del Tempio di Luxor

Dopo il fatto Lil pianse, promise «un nuovo inizio», disse proprio così,
io non mi capacitavo
«Di cosa mi dovrei rammaricare? – chiesi – non capisco»
“Ti dovresti vergognare sembri una puttana”,
mormorai nel pensiero mentre osservavo la sua borsetta,
lo smalto delle unghie…

«Marlene suonerà alla porta, prima o poi, ne sono convinta,
con i suoi bagagli smarriti (smarriva sempre i bagagli) e l’ombrellino rosso.
Chiederà il permesso di entrare»,
chiosò Madame Sosostris dall’antichambre.

“Entrare dove?, non c’è nessun ingresso qui”
– pensavo tra me –
“perché ti sei voluta sposare se non volevi bambini, perché?”
Sbirciavo nel frattempo l’ombrellino rosso, la borsetta di coccodrillo, dono di quel tanghero che poi la piantò in asso.

«Sai Alberto con la vincita alle corse poi comprai…
una fuoriserie»
«Allora, non è vero quello che si dice in giro?»
«Che facevo la vita?»
«No, non è vero Alberto, come puoi crederlo?»
«Gerusalemme o Babilonia?, è questo il problema»
«Preferisco Sodoma… sai, quando intervenne la pioggia di fuoco»
«It’s very fun»
«Doveva essere aprile»
«April is the cruellest month»
poi qualcuno chiamò la polizia
«Ma Lil è felice così, da quando ha cambiato sesso,
adesso è felice»
«Chiuso per lutto», disse Madame Sosostris,
«Cosa chiedere ad una cravatta? – insinuò il Signor Posterius –
dopo il bowling, il chewing gum, le crisps, il Campari sui tavolini, il più è fatto»
«Resta il meno dopo il più»
«La luna è positiva»
«Alberto non verrà dopo il rugby»
«Buonanotte, è tardi – disse un ospite – noi ce ne andiamo»
«Abracadabra», replicò Avenaius.

«Io invece prendo Paroxetina, una pillola, la sera,
e Trental da 600 mg., è per il sangue, e ormoni femminili…», disse Lil
«Anche lei vorrebbe?»
«Cosa?»
«Cosa dovrei volere?»
«Non so, ricominciare tutto daccapo»
«Buonanotte Lil»
«Quella cartolina da Luxor, il Tempio di Karnak, l’ho conservata, sai?»
«L’ho messa come segnalibro
in un libro»
«Poi l’ho dimenticata, e il libro si è perso nella biblioteca. Ed ora eccola qui, che salta fuori, come un cadavere!»

«Polizei, bitte!, venite, c’è un cadavere qui»,
disse un ospite al telefono.
«Va sempre a finire così, con la polvere sotto il tappeto
e le sfingi egiziane»

«Buonanotte»
«Buonanotte a tutti»
«Buonanotte, Lil»

«Ma non c’è nessun cadavere, è solo nella mia memoria»
– ho risposto al commissario di polizia –
«Quel giorno ero sulle montagne russe, insieme a Lil, vero, Lil?, vero?, ero con te, Lil, sulle montagne russe…»

«Metti a posto il violino, lì, nella custodia di mogano»,
– disse una voce alle mie spalle –
Il Signor Posterius gettò un’occhiata alla statuetta egiziana
«Ci sarà tempo per interrogarla, non credi?»
«Sì, ci sarà tempo»

Un treno Espresso attraversò la stanza all’Hotel Excelsior
Un uccello bianco col becco dorato prese ad interrogarmi.

«… l’ombrellino rosso, la borsetta, la cartolina con il Tempio di Karnak…
puoi sempre disdire le vacanze»,
– apostrofò Madame Sosostris da dietro il ventaglio -.
«Preparo le valigie, l’archetto, il violino è sul comò»
– replicai dal tramezzo –
«C’è sempre tempo per le vacanze e il biliardo»

«Il passato non farà più ritorno
se non come incubo»,
mi dice un quadro vuoto appeso alla parete.
“Che pensiero assurdo, il passato può ritornare,
ritornerà…
magari come un incubo, un otto di spade,
un interludio”.
Pensai questo pensiero come un intruso che bussi alla porta

«Marlene ritornerà, a quest’ora avrà messo su famiglia, magari sta preparando la cena per i marmocchi»,
opinò Avenarius.
«Ma Lil, tu queste cose non le puoi capire»
«Vuoi dire che non sono come te?, vuoi dire questo?»
«No, non voglio dire questo… è che tu sei diversa,
hai un aspetto così femminile, seducente…»
«Ma il libro è già stato scritto…»,
replico con un’altra voce, da un lampadario spento

[dei turisti giapponesi siedono ai bordi del letto nella mia stanza all’Hotel Intercontinental, litigano, fotografano tutto: la scena del delitto, il comò con la stilo Dupont, il revolver con il manico di madreperla, la statuetta del gobbo di Notre Dame…]

“Che pensiero assurdo questo dell’eterno ritorno, come se le cose…
le cose
potessero ritornare…”
pensai con la voce interna, e mi voltai a guardare il violino, l’archetto, il porta sigarette d’argento, la camicia stirata, la stilografica Dupont, l’ombrellino rosso,
la sedia vuota… Continua a leggere

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Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (The Love Song of J. Alfred Prufrock) di Eliot con una riflessione di Andrea Margiotta e una noterella di Giorgio Linguaglossa

Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (The Love Song of J. Alfred Prufrock)
.
Perché T. S. Eliot, dopo The Waste Land (1922), si convertì al cattolicesimo e scrisse Ash Wednesday, The Rock, Murder in the Cathedral e i bellissimi Four Quartets?
Be’, perché aveva capito che, a differenza degli antichi, i suoi contemporanei vivevano in un mondo ormai ridotto a «un mucchio di frante immagini, dove batte il sole». Questo caos del mondo trovava un parallelo nel disordine sapiente e calcolato del metodo artistico, che però aveva il difetto di essere un equilibrio apparente, perché solo estetico (per certi aspetti, una salvezza percepita e confinata solo in una dimensione estetica era anche il limite di un eccellente saggista e critico quale fu G. Steiner). Qui è il suo fallimento, come diceva Raffaele La Capria: «Un fallimento che, come notò D. S. Mirsky in un suo articolo (“Echanges”, 1942), segna la fine della poesia borghese. Le sue conclusioni, che a molti sono sembrate alquanto arbitrarie, a noi sembra invece che potrebbero egualmente applicarsi a tutta la poesia contemporanea. Tutte le considerazioni fatte ci aiutano a capire come Eliot, alla
ricerca di un “ordine” che non fosse soltanto estetico, abbandonasse la Terra Deserta – deserta di uomini, di fede, di speranze – per rivolgersi alla religione. Ash Wednesday (Il Mercoledì delle Ceneri) è il segno della sua conversione al cattolicesimo. Nella stessa direzione, seguirono poi – cito solo le tappe più importanti – i drammi in versi The Rock (La Rocca) e Murder in the Cathedral (Assassinio nella cattedrale) ed infine, in questi ultimissimi anni, i Four Quartets (Quattro Quartetti) in cui il misticismo simbolico di Ash Wednesday si scioglie in toni più aperti. Quest’ultima fase della poesia di Eliot è tutta pervasa da una calma piena di speranza e soprattutto da un’infinita pace […]».
Si parva licet, è un problema che ho sentito anche io, e ciò potrebbe essere una buona chiave ermeneutica per i miei due libri,1 segna un ulteriore distacco da un ordine e un equilibrio concepiti solo esteticamente). Ma c’è dell’altro… «Nel 1935, tre anni prima di morire, Edmund Husserl tenne, a Vienna e a Praga, alcune famose conferenze sulla crisi dell’umanità europea […] Le radici della crisi erano per lui situabili all’inizio dei Tempi moderni, in Galileo e in Descartes, nel carattere unilaterale delle scienze europee, che avevano ridotto il mondo a un semplice oggetto di esplorazione tecnica e matematica e avevano escluso dal loro orizzonte il mondo concreto della vita, 𝘥𝘪𝘦 𝘓𝘦𝘣𝘦𝘯𝘴𝘸𝘦𝘭𝘵, come egli diceva», M. Kundera, 𝘓’𝘢𝘳𝘵𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘳𝘰𝘮𝘢𝘯𝘻𝘰, Adelphi, Milano 1988 (2023), p. 15. Ecco: nelle mie poesie ho cercato di esprimere quella 𝘓𝘦𝘣𝘦𝘯𝘴𝘸𝘦𝘭𝘵, ossia ‘mondo della vita’.
(Andrea Margiotta)

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Una noterella

Mi vorrei soffermere sulla peculiarità della forma-poesia introdotta da Eliot nella poesia occidentale la cui principale topologia è data dalle citazioni e dalle allusioni. Per la prima volta nella poesia europea del novecento appaiono in un poemetto una pluralità di voci, le «different voices» di Dickens che caratterizzano il poemetto. Voci di diversi personaggi si alternano in The Waste Land che parlano lingue plurali.  La pluralità di voci che appartiene a vari personaggi: Marie, la nobildonna lituana che parla per prima nel poemetto, la coppia di sposi nella seconda sezione; appaiono inoltre citazioni tratte dalle più disparate opere letterarie e artistiche in generale (nel poemetto si trovano versi di Dante, Baudelaire, Ovidio e numerosi altri poeti, ma anche brani del Tristano e Isotta di Richard Wagner). Tra le voci si distingue quella di Tiresia, personaggio ripreso dall’Eneide virgiliana che funge da punto di vista esterno al poemetto. Numerosissime sono le allusioni, come ad esempio quelle al Vecchio testamento, alle guerre puniche, alla Belladonna, un veleno; la figura di Stetson è tratta dal cappello che portava alla testa solitamente il suo amico Pound; Madame Sosostris il cui nome richiama alla mente qualche bizzarra deità pagana o qualche maitresse; numerose sono anche le allusioni alla City di Londra con gli impiegati ripresi con uno zoom paesaggistico: uomini in giacca e cravatta che entrano ed escono dai bar; la dama delle rocce allude alla “Monna Lisa” di Leonardo; Mr Eugenides, il mercante di Smirne, mal rasato, con una tasca piena d’uva passa con un occhio solo allude alla categoria dei borghesi-mercanti che infestano la City; lo squallore e l’alienazione della vita metropolitana nell’età moderna è contrapposta ironicamente al mito e ai grandi classici della letteratura antica. Elemento centrale di tutto il poemetto è la simultaneità di tutti gli eventi e di tutti i personaggi, che rende attuale il contrasto tra cultura classica del passato e la sterilità del mondo moderno. Eliot fa larghissimo e magistrale uso del metodo  della decontestualizzazione che induce nel lettore un senso di spaesamento e di shock. L’epigrafe che apre il poemetto doveva essere “The horror! The horror!” (citazione da Cuore di tenebra di Joseph Conrad), ma su consiglio di Ezra Pound, la citazione fu tolta, e il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon. La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per i suoi oracoli enigmatici la cui aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire; il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita, ci narra Petronio, divenne un’agonia di noia e la vecchia profetessa rinsecchita e chiusa in un’ampolla, sopravviveva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. Il testo di Petronio è formato da frasi in latino e in greco, che alludono alla mescolanza di lingue, le «different voices» di Dickens che punteggiano il poemetto.  Quello che emerge è dunque un grande e modernissimo polittico di voci e di lingue che si incrociano emblematicamente ad alludere alla incomprensibilità dei mille idiomi parlati nel mondo del moderno e che infestano una memoria devastata ed esangue. Con Eliot si può dire che nasce il modernismo, ma forse era un peso troppo grande da tollerare, e la poesia europea e americana preferì abbandonare quel modello eccessivamente ingombrante. E il modello petrarchista ebbe subito la meglio.

(Giorgio Linguaglossa)

*

S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse.

Ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.

Allora andiamo, tu ed io,
Quando la sera si stende contro il cielo
Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;
Andiamo, per certe strade semideserte,
Mormoranti ricoveri
Di notti senza riposo in alberghi di passo a poco prezzo
E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche;
Strade che si succedono come un tedioso argomento
Con l’insidioso proposito
Di condurti a domande che opprimono…
Oh, non chiedere «Cosa?»
Andiamo a fare la nostra visita.

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri,
Il fumo giallo che strofina il suo muso contro i vetri
Lambì con la sua lingua gli angoli della sera,
Indugiò sulle pozze stagnanti negli scoli,
Lasciò che gli cadesse sulla schiena la fuliggine che cade dai camini,
Scivolò sul terrazzo, spiccò un balzo improvviso,
E vedendo che era una soffice sera d’ottobre
S’arricciolò attorno alla casa, e si assopì.

E di sicuro ci sarà tempo
Per il fumo giallo che scivola lungo la strada
Strofinando la schiena contro i vetri;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutte le opere e i giorni delle mani
Che sollevano e lasciano cadere una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un tè col pane abbrustolito

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

E di sicuro ci sarà tempo
Di chiedere, «Posso osare?» e, «Posso osare?»
Tempo di volgere il capo e scendere la scala,
Con una zona calva in mezzo ai miei capelli –
(Diranno: «Come diventano radi i suoi capelli!»)
Con il mio abito per la mattina, con il colletto solido che arriva fino al mento, Con la cravatta ricca e modesta, ma asseríta da un semplice spillo –
(Diranno: «Come gli son diventate sottili le gambe e le braccia!»)
Oserò
Turbare l’universo?
In un attimo solo c’è tempo
Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà

Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte: –
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci che muoiono con un morente declino
Sotto la musica giunta da una stanza più lontana.
Così, come potrei rischiare?
E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti –
Gli occhi che ti fissano in una frase formulata,
E quando sono formulato, appuntato a uno spillo,
Quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
Come potrei allora cominciare
A sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini? .
Come potrei rischiare?
E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte –
Le braccia ingioiellate e bianche e nude
(Ma alla luce di una lampada avvilite da una leggera peluria bruna!)
E’ il profumo che viene da un vestito
Che mi fa divagare a questo modo?
Braccia appoggiate a un tavolo, o avvolte in uno scialle.
Potrei rischiare, allora?-
Come potrei cominciare? Continua a leggere

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Ladislav Fanta: I paragrafi della memoria, Try to Remember, a cura di Antonio Parente

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Domanda: Può contestualizzare per noi la sua composizione poetica ‘Try to remember’, che qui presentiamo?

Risposta: Con l’età sento una crescente riluttanza a ogni genere di puntualizzazione generalizzante. Non esiste una formula per la comprensione della vita, che sia nel tempo o nello spazio. Vale a dire: a partire da un certo punto, è meglio lasciare che le cose fluiscano liberamente, seguendo il proprio percorso. Meglio se con lo sguardo silenzioso verso il mondo che ci circonda, in modo che si possa sviluppare un flusso stratificato di idee, impressioni e associazioni, con le quali il nostro mutevole io cerca di entrare in contatto con la storia del suo tempo. Determinare o precisare quanto l’uomo si trovi fuori chiave. In questo senso, questi avvenimenti di giorni andati e dimenticati possono essere visti come un tentativo dell’autore di far rivivere il profondo sentimento di smarrimento e dissociazione vissuto nel mezzo di una piccola città dove si trasferì nel 1990 e dove trascorse alcuni anni successivi. Forse si tratta della denominazione della “tendenziosità”, sopravvissuta in noi, e sulla quale si può ancora contare, nonostante la realtà fangosa e impersonale. Con nostalgia per ciò che va allontanandosi …

*

La rivista ha pubblicato, sempre su l’Ombra, una intervista con Ladislav Fanta a cura di Antonio Parente:

Intervista al poeta ceco Ladislav Fanta (1966) a cura di Antonio Parente, Topazi e giovinezza, Composizioni in cornice di Lucio Mayoor Tosi, “linguaggio di immagini concrete, materiali, senza alcuna censura, senza stilizzazione, artificialità di stile, laconicità e antiletterarità, l’impressione di piante secche, stantie tirate fuori da un vecchio erbario, Il tempo dei manifesti, delle raccolte di firme, di sfide e dichiarazioni aperte attraverso le quali i surrealisti si pronunciavano sui problemi del tempo, devono a mio parere registrare un cambiamento di prospettiva”

ladislav-fanta
Ladislav Fanta, Try to Remember

(In memoria di Jiří Havlíček*)

… the kind of September
Harry Belafonte ft.Tom Jones

Amico, tempora mutantur et nos in illis – i tempi cambiano in modo imperativo – e noi con loro
Quando tutti vogliono avere il proprio idolo una figura amata senza spigoli
Che spuntano direttamente da noi o da qualcuno a noi vicino
La propria pietra tombale su un nobile piedistallo pieno di profondi inchini tiepidi
sul quale crescono grandi rivelazioni di granito solidificato nella flora
come un turista sperduto
Nella paglietta di spiacenti imbarazzi sopra il nastro strappato
Di Dio solo sa quanti piani quinquennali
I feticci del vecchiume nostalgico ma dove sono finiti
Sembra che siano stati bevuti come una limonata stantia e il supervisore si copre d’ortica
Piantare nuovi declamatori e attendere con curiosità che li impolverino di cenere di interiezioni indistruttibili
È una necessità alla quale alla fine in qualche modo prima o poi arrivano tutti coloro che demolirono il Muro di Berlino facendone pezzi che inviarono come ricordo di tempi passati – con magnifiche scritte e pitture – ai loro parenti
O anche li vendettero in cambio di valuta pregiata agli stranieri portati dal vento sulla vasta pianura tedesca
Sculture fantastiche che sono ormai un pezzo di folklore già passé
Come la moda fuori dal carcere
Nel tuo caso metà totem o stenogrammi di sculture animali e nel frattempo (senza sentimento) anche un pezzo di villaggio slovacco
Non li si può separare l’uno dall’altro i tuoi falò ironici ne sono prova sufficiente
Una quantità infinita di ieri smarriti – lo spazio che continua a crollare
Quando si risvegliò in te il sangue degli antenati da tempo indurito e la scultura fu solo un ritorno istintivo ai luoghi dell’antica origine
Ceppi-radici senza doversi preoccupare di come vivere
Ma anche espressioni africane di gioia dolore e degli altri stati emotivi espressi con lo scalpello intagliati in linee morbide sfumate selvagge e che si abbattono nuovamente l’uno sull’altro e l’uno contro l’altro nella schiacciante brutalità animalesca della protocreatura
Sono io stesso un primitivo che gode per la trillante tensione dei massi erratici molto più che per l’adunata di tutti i tahitiani di Gauguin
Non affrettarti rallenta ciò che in ogni caso non può sfuggire
In questo gioco all’idea della più grande comodità e utilità di ogni secondo si gioca in effetti ininterrottamente al domani
Ecco perché il tempo scorre infallibilmente a margine
E ogni poco come se nulla fosse dal caos emergono le forme del mondo originale nuovamente crollate

*

Non resta che continuare a piedi percorrere i paragrafi prolissi fino alle ultime bozze
che stridono nel dormiveglia
Voler carpire i fremiti fittizzi nelle punte dei rimbombi onirici
E cercare di tradurli in fonemi simili al volapük
Sfregare l’accendino e squadrare il presente
Col peso refrigerante del silenzio notturno
Il mondo imbevuto di fumo cinereo di un bar mal ventilato e di esalazioni
Poco inebriante come i suoi bozzetti che in questo momento nella penombra del mattino tendono l’agguato nel cassetto della cucina
Con una scorta di algen radepur e altre delizie candidi regalini tondeggianti capaci di presunti collegamenti con l’aldilà
(ammettilo, Jenda di Kozlowski, così sei convinto o almeno credi)
Al piano di sotto
Invano frughi nei tubetti vuoti dove è rimasta soltanto la fine polverina bianca delle pasticche
La tarda estate di san martino sul viso dove passano le fugaci ragnatele della stanchezza
In assenza di cristalli insaporenti degli scaramucciatori rauchi del confine
Di chimere
Il meprobamato si apre il varco con le briciole di morfina
Dal cervello una polvere infernale
A malapena riesci a tenere aperti gli occhi dai quali in perenni rivoli densi scorrono i nervi come dalla grondaia
Sui parati cancerogeni in giallo canarino
Nel caf’ conc’ con la mano volta ancora in direzione della grafica colorata dell’Associazione per la Repubblica-Partito Repubblicano della Cecoslovacchia
Quando l’oscurità ha cominciato a lacerala.

*

Sulla tela solcata da sentieri di sabbia e profumata di morbide stradine c’è quasi silenzio
Solo occasionalmente si sente un colpo cupo
Risuona il clic del bidone dell’immondizia o l’impugnatura sonante della secchia
Honza Vaidner inforna nella stufa una sfilza di mattoni di ecrasite
I colpi assordanti del silenzio assoluto
Il meriggio a Šternberk è capace di riecheggiare cavo e vuoto
Sia in vicinanza che a tiro
Tutto ciò che è stato diverso e sarebbe potuto essere il contrario
Un’estate leggermente sbiadita al chiosco con la nebulosa di vini rossi
Dalla vela sporge solo la parte superiore del manganello alleggerito dal risciò
Dagmar Močičková-Pospíšilová Ngern Kratúnek-Cambogia
Entrambi presi in custodia dopo una festa di sette ore al ristorante bangkochiano Brehmen dalla radice di ginseng come ospiti non paganti
È un’opera musicale che si compone dei diversi suoni prodotti durante la spillatura e la mescita della birra scura
Con riferimento alla testimonianza bibliografica dei randelli di bambù
Sulla spilla da balia agganciata alle labbra truccate
Sopra il cavaletto da pittore di forma insolita ma piacevole
Somiglia alle fette di torta simili ad un dolce a più piani o alla fisarmonica dei Picasso Kryvošej Pospíšil j-a-Havlíček
Abbattere le circonvoluzioni cerebrali col rum frettolosamente spruzzato sull’antichissima regione boscosa del cortile
Lasciarsi cullare dalla serenità della domenica non ancora appensantita dall’arrivo dei cambiamenti sgraditi della tinta dei capelli
Ricordare le inondazioni di formule chimiche con le quali in età adulta abbiamo imparato a dire amore
Capire perché tutto cade a pezzi sotto le mani al calore che concilia il sonno del silenzio dei fischietti di osso
Errare con lo sguardo nervoso sulle pareti vuote passare rapidamente per la stanza buia e attendere
Predestinare alla decrepitezza fisica agguindolarsi tra le cose completamente fuori campo
Poi di nuovo a sinistra qua e là scalcinare a poco a poco i muri incollare e di nuovo staccare un paio di sguardi del tutto irrilevanti
Sentire l’alcool e qualcosa che ricorda i funerali e i cimiteri che con un delicato crepitio si scioglie lentamente nelle nostre bocche
Quelle cose che vengono alla mente di quasi tutti noi solo che nessuno vuole dirle ad alta voce
L’infrangersi di cristalli ironici tra decine di isolette traslucide
Catturare l’attimo del contatto spesso appena riconoscibile che molte volte ignoriamo con una breve occhiata che non dice nulla che si attacca ai lati di un annuncio funebre appena incollato
Quelle pungenti battute ad esempio sui morenti che sfogliano sul letto di morte il catalogo delle bare o sull’impiccato ad un albero accanto al quale un’altra persona controlla se l’orologio gli funziona ancora
Poi inutilmente essere alle prese con un manoscritto spesso illeggibile dare il benvenuto allo sbandieramento
Continuare la litania in proprio tirando il fiato in solitudine e nel vuoto
Inevitabili ed anche aneddotici
Andare sempre negli stessi bar insieme a Vlad’a Mazoch sapere che Eisestein finì come un buddista
Consumare l’alloggio dell’immaginazione fino a svuotare l’appartamento
Al piano avanzato dove gli sniffatori di toluene condirono le narici con il rapporto forse incomprensibile ma comunque esistente tra l’uomo e la sostanza volatile
Come se ora mi scricchiolassero ancora tra i denti dei minuscoli granelli di sabbia penetrata anche dalle finestre ermeticamente sigillate della stanza e che in mezz’ora ha coperto l’intero pavimento con uno strato spesso

*

Dall’apertura di una tendina di perline colorate entrano i cercatori di funghi
Risolversi per un reciproco discorso emotivo e carezzare la testa arruffata
La pioggia battente
Abbiamo bisogno del polo opposto – gli ioni positivi
Crepe crostali che attraversano la calda lieve brezza notturna le dita sul corpo
Lunghe strisce di polvere e sabbia
L’impressione di pochi minuti di confidenziale sincerità cancella la rotazione con l’interruttore elettrico
Ancora una volta guardare l’eccesso di luce scintillante d’argento
Formazioni fantastiche di macchie esplose come se venissero da una bottega di arte astratta
Una voce fumosa lentamente e con chiarezza esagerata spiega come dove si calcolano i prezzi di pasti caffè tè
I nostri cuori con la loro magia
Per noi è rimasta a lungo indecifrabile come una discarica di ossa di mammut
Già di per sé in qualche modo ci avvicinava a voi e voi ancora a noi
Un gustoso ricordo – le schegge dei fiammiferi tagliate molto sottilmente
La naivité perfidamente raffinata del maestro Vojkůvka l’articolo sicuramente voluto sul mercato interno ed estero
“I flagelli semi stagionali” dello scultore Kuba che dovrebbero piuttosto essere notati dai venditori di souvenir
“I nostri semi comuni, le fiamme dalle pigne” – sono qui di nuovo come prima
“La proteina della pesantezza che scorre nel mio sangue blu con l’idea dello sfondo di Magritte”
— certo certo
Un certo signor Šabo cala sulle ginocchia dei quadrati di cartone imbrattati legati con la morfina allucinazioni ricalcate con precisione
Uno di noi o qualcun altro che conosciamo seduto nella sala al tavolino
Ai disegnini nascenti spesso dedicano un ghigno e ai loro autori assegnano gangli atrofizzati
Non è solo tirare linee geometriche e spostare strani numeri
Ciò che è sfugge o si avvicina
Scivola sulla rètina
e infine senza lasciare traccia
languisce

*

In lontananza luccica ancora il pelo di una gatta silenziosa che fa le fusa
Qui tra la penuria e le spese impreviste da qualche parte inizia un posto desolato nell’universo
‘Lay by’ come dicono gli Inglesi
È tornato il tempo – il tempo zero
Afferrò la mano con un fiammifero bruciato e la dimezzò
Le unghie con lo smalto rosso sbrecciato
È interessante come si rievochino delle linee ondeggianti che avanzano inesorabilmente nell’acqua della teiera gorgogliante
Sono tornate le acque stagnanti
Il tempo morto alienato imbiettato sotto i coni arrotolati
di altre 24 ore su questo pianeta
Tempo zero zero nulla
Riceviamo il suo presente dai programmi televisivi
Quell’armonia incorniciata della giornata umana
Tutti i luoghi li proiettiamo nel microscopio dei ricordi
Quando come in uno stato di trance
(senza esercizi di concentrazione yoga)
premiamo le dita sulle corde dure

*

Albeggia
Negli angoli di molti luoghi scintilla ancora l’emisfero opale
delle lampade sul soffitto
E forse anche per l’ultima volta la nostra isola mitica
ricoperta dal tappeto di “cigli” d’aneto
Correr fuori per dieci minuti a comprare il giornale al chiosco
Imbucare nella cassetta postale cartoline colorate
In breve le rughe che disegnano l’estate
Prima che entri in gioco l’estremità della consunzione
Intanto tocca la liscia ringhiera lisa la cui vernice negli anni è svanita per gli innumerevoli tocchi
Risuonano i passi ma poi scende di nuovo il silenzio
Nei tubi scroscia l’acqua non potabile

*

Il giorno è iniziato
Il tempo della siesta permanente con una sensazione di fame
Fuori c’era il rifugio per il fuoco la facciata che si sfalda
La vita uguale ad oggi
Con le chiavi della porta d’ingresso e i tramonti ambrati
Abbiamo ascoltato le invocazioni dei profeti locali
grati per ogni espressione di benevolenza e comprensione
Papà dei demoni e fratelli dei rasoi elettrici
Ota Nuc circondato da un alone di stato di aggregazione solido
I quanti di esprit le materie di rum
(“Vivere l’inferno”)
Tozzo bruno la Cambogia con il volto corroso dall’acido
Con il potere e la ricchezza cresce anche il suo ego
E la paranoia
Enormi case galleggianti di mondi assenti
Giornate tristi quando ci imbeviamo di acqua che imbratta il vetro in strisce opache
Spazzatura scarabocchi sui muri
Il riverbero delle posate e dei bicchieri
non lavati
Che veleggiano verso distanze illimitate
Il kung-fu di questo recidivo ci spinge all’angolo: l’apertura di appartamenti devastati
Dove perdiamo il collegamento con noi stessi
La pompa – avvio manuale ed elevazione – un calcio o un pugno
Con la macchia di fumo di sigaretta
Quando il profumo dell’autunno si spande nella pineta
Girandola e terminale elettrico
Il flusso di molecole la fusione continua degli incastri
Ma vuoi di più
Un trattamento incerto goffo fuori dalla vita
Dove ogni anno fa ritorno
Lungo un sentiero di conifere
Dietro muri spessi incisi di ornamenti tratteggiati
E con l’intonaco imbevuto di meditazioni di molte generazioni di muffa

*

Mandala è un rimedio per la psiche e per il corpo
L’effetto alone dei riflessi insonorizzanti
dei vetri delle finestre
Quando si permette loro di diffondersi per l’intera anima
Come un’euforia pervasiva
È facile lasciare tutto e andare in lungo e in largo
Sento la tua voce dire che gli yogin a Lhasa sono in grado di distruggere e formare intere galassie
Mentre per strada corrono gli ultimi suoni senza senso
Sono quasi sul punto di andarmene quando improvvisamente dalle finestre della cucina si alza
La pelle di un flauto latteo
Da qualche recesso emerge un ricordo
Sul piano luminoso della vecchia credenza sfregiata con i calciatori della Bundesliga
incollati
Camminiamo lungo la scala e il corridoio
Senti il fruscio della carta sotto i piedi
Ma tutto è improvvisamente indifferente
Già si dovrebbe sviluppare in qualche modo
Sul lato opposto si spalanca
La porta della foresta
Rivelando che oltre non c’è nulla
Ládík, vecchio drago
La via polverosa non esiste più
Passo di là e penso chissà cosa stai facendo
I terreni di quelle case si restringono dopo la scarificazione
Vi germina l’erba sudanese
Vi passa il vapore invetriante degli sguardi con l’eyeliner pronunciato
Del mare affinché suoni come un vecchio
Com’è davvero l’attimo
In cui si passa ad altri pensieri?
L’ingiallimento del bianco degli occhi del fibroso fungo erubescente

*

Sì, era allora – allora …
Con ogni secondo che passa si ricopre in oscillazioni di angoli dentellati
E tutto ciò che è mio è vostro vicini e fratelli e tutto ciò che è vostro è mio
Si è trasferita la tomba indiana
Si è trasferito il circo della musica concreta
Una sovrapposizione ritmica di periodi sensibili
Ricordo come al servizio militare i nonni appiccicavano negli armadietti le pompe di benzina
I remi immersi in vernici di sale
La piazza d’armi dei turni del mattino
Ricordo
Sulle spalle Security
Lo chiamavamo Victor ugò in polvere
Il direttore del cimitero nel Tibet centrale tutto impettito in un metro quadro e mezzo di concentrato di morfina
Le lunghe ombre dei castani si diramavano sui lati
Le scioline spray Skare e Klister nell’impermeabile
In quel momento come se il nervosismo di qualcuno cospargesse questo luogo di impulsi elettrici
Con gli scapi cerati taglienti
delle antenne satellitari
Si è trasferito il frastuono dei bambini
Le stuoie naturali sulle sedie di plastica da giardino ingrigite del bistrò fuori sotto l’ombrellone
Dove l’aria si muove solamente in moto ondulato o deformandosi in pozzette
Proprio attraverso dei fori rinforzati per appendere gli anelli per evitare eventuali strappi delle tende
L’urto improvviso dell’angolo smussato di sbieco
Quando nei bicchieri scorreva da qualche parte il profumo di mentolo
E la presa era rilassata

*

Ci si sedeva negli angoli polverosi delle taverne
(è ancora possibile scorgerne l’acquoso contorno verde scuro)
Magari durante una piacevole domenica autunnale con le foglie ingiallite e il cielo azzurro
Nel sottoscala la corrente giocava con la porta di casa mal chiusa
Nell’arido deserto di fessure e crepe
Lentamente si zittiva il ronzio metallico
Nei raggi ultravioletti dell’energia solare ogni volta ti accoglieva l’oste Voska
anche con la corona
Di boccali spillati
Come una vibrazione appena percettibile del flusso d’aria
Gli inizi di incendio nelle pattumiere del palazzo comunale ad affitto modico
La scarica di adrenalina nel sangue
Ci si sedeva sotto un sottile e scintillante strato di polvere
Le particelle corpuscolari che spiovevano dall’abbaino ci investivano caldamente
col respiro di vecchie macchie stirate via
Il tempo dei vecchi tappi di sughero
Si trattava di fumo non ispirato
(come quando si esce sulla radura illuminata dal sole)
Nel mucchio di pietre gettate sotto la finestra
Dove i ciclisti raspano i loro cerchioni arrugginiti
Di rado parlava normalmente il più delle volte sbocconcellando come se
solo in quel momento concludesse il suo pensiero e cercasse di chiarire più a se stesso
che al suo interlocutore ciò che occupa tutto il suo tempo
Come a voler allontanare qualcosa senza senso inutile qualcosa che non c’entra
La vernice violacea sulle pareti dell’entrata
Ed era sempre così

*

Il dinner al rum di Honza V.
Toník Mangéra che leccava i sacchi da box
Fatti di sacchetti
Di sale
Mete esotiche:
Tankiš
Pálava
E con l’inizio della stagione del riscaldamento
La fine dei momenti di gioia
La vita è composta di opposti altrimenti non sarebbe
Come lo strobilo intatto delle suture craniche
Nella sala il calore del riscaldamento centralizzato col termostato
La vaccinazione antitubercolare 1 o 2 volte
I “reps” di Šternberk
Riempiti di ossigeno
Volenti o nolenti assumono la funzione simbolica del piccolo allevamento
Di votanti del partito di destra
Destinati ad una carriera in parte coperta in parte oltre
Il tetto di casa
Le bombole di nuvole di propano-butano

*

Ti vedo col ramoscello di maggio in mano che passi per la piazza superiore
Lo scorso anno vidi le tue opere nel catalogo della ditta Magnet-Camif SPA
Allora uno scoppio nella memoria
(quella un pochino consumata e coperta di terriccio)
Proprio sotto gli alberi sulle foglie cadute
Tenere sempre a disposizione una riserva di almeno due o tre soluzioni finali
In qualche momento ingarbugliato
Lavare la faccia con sverniciatori di smalti invecchiati
Tirar fuori dalla manica in compagnia di amici delle storielle e sul doppio foglio del giornale
Discutere su come eliminare la disoccupazione così come di Hegel seguire le relazioni nelle aziende apistiche determinare non so per quante volte ancora dove siamo diretti
Saper dislocare la creazione della Terra ancora più in là nel passato
Prima che il mondo si rovesci dalla curva a destra
Se si vuole col tempo abbassarsi e carezzare la sabbia lacustre finemente stratificata
nelle creme lenitive e protettive
E attraversare con lo sguardo la boscaglia bassa della rigogliosa vegetazione su entrambi i lati
delle marce tavole tarlate
Le ultime assolate ma già tristi giornate dell’estate di san martino
Che per un attimo scompare per poi subito riemergere
E perciò non resta che aspettare
Queste linee visibili come la schiuma omogenea di lunghe coperture dense di elevata stabilità
Oppure come strisce interrotte che scompaiono
veloci
Che si formano non lontano nel vapore di bicchieri con bevande calde
Il freddo inizia a irrigidirsi
La cenere si ingrigisce e si polverizza in zollette che poi si sbriciolano
Per alcune di queste cose non si può tornare indietro e io lo so bene
In principio questo bosco non aveva fine solo un santuario aperto e arioso
Su terreni di lieve calcare
Soltanto graffiare la superficie sotto la quale intendiamo penetrare
Giravamo per il nascondiglio dietro gli scuri vetri a tenuta stagna dei vuoti a rendere
Oli K. in bocca la sigaretta che dondola noncurante
Il respiro degli atleti sottoforma di pulviscolo acquoso
Si precipita lungo le calde pareti di questa preistoria
Il flusso di segnali intermittenti tra le ere glaciali ricorda ancora quelli che ci raggiungevano a nuoto
nelle rimesse abbandonate
Il twist di Popokatépetl delle conoscenze più basilari conservate nei codici genetici
Il corpo fusiforme di Tonda Ailaviù che si arrangiava nei saltuari periodi morti con i ballottini
con l’antigelo
Dietro le pareti del bianco accecante della vernice nitro
Il buio dal quale spuntano corpi variamente contorti e ritorti
Le labbra violacee che scaricano nastrini stretti di veleni azzurri
Le lunghe ore serali si trasformavano in deserti fruscianti in polvere
Míla Kučerák con i suoi indimenticabili Allora, eh?
Any evening, any day…
Lo sgorgare di bolle d’aria ad ogni passaggio degli aerei supersonici
Malakov – la torta di biscotti farciti alla crema
Allora d’estate bevemmo insieme una bottiglia di vino e la sera stessa da te esalano
descredenda di rammarico per il tuo ultimo bicchiere svuotato come nei “Cavalieri della Tavola rotonda” di Cocteau
Nel brindisi in bicchierini con scene di caccia dipinte l’hallalì
Leggermente acido sufficientemente umido diffuso orizzontalmente nella corrente gelata
Le lunghe ore serali che si trasformavano
In buchi tonchiosi
Con i loro viticci vegetativi e graticci divisori
Dei bei tempi andati dei riflessi bagnati.

*

Tutti ormai commerciano in tessuti svizzeri di seconda mano
In fusti speciali mescolati a palline di naftalina
a ritmo sostenuto fa ritorno il primo tocco del metallo freddo
Altre volte apri la portiera della macchina
Ti togli l’uniforme la getti sulla bastionata
Tutto è mimetizzato dai seni acuminati dei cespugli
Una grande crosta tutto ciò che non è possibile scansare né dimenticare
Qualcosa che comprenderai in una frazione di secondo
E il seguito continua a rimanere sconosciuto
È durato a lungo la muffa rodeva adagio la temperatura corporea
I Lebensborn manageriali nei locali di uffici di granito lucidato
Descredenda di rammarico
La vaga consapevolezza dell’infiammabilità del legno dal quale aleggia un fumo
leggermente tiepido
Piuttosto che lasciarla per principio senza risposta
Stop
Il Mahatma Gandhi lentamente si dilegua per via Sokolská
Toni – Musica – Buddha
E la gelatina per alimenti che non si rafferma altrimenti se lo facesse tutto il lavoro precedente andrebbe a farsi friggere
Fuori continua a piovere
Potrei raccontare a lungo di queste cose ma finirei solo per ripetermi
Fin dall’inizio ho la sensazione che sia un “testo – verità” o che almeno
con notevole successo cerca di farlo credere
Sì qualcosa del genere è dovuta realmente accadere
Quelli di domani difficilmente si lasceranno scappare qualcosa
Nemmeno se adesso ad un tratto si alza e dice che è tutto un nonsense che non è affatto
morto e non morirà che ha fatto soltanto uno scherzo stupido perché voleva verificare
come si parlerà di lui dopo la sua dipartita
Non possiamo mica fermarci dopo un inizio così ben riuscito, scemi
I fluidi contorni di poltrone pronte a gettare le impronte di altri sederi
Come Robert Graves nei Miti greci
Una formidabile opportunità di scorgere un’ultima volta il cielo
Ancor prima dell’importo annuale della luce solare

*

Come è strano che una decisione cambia tutto
La linea di vita: qualcuno è venuto e sei qui
Sei tu
Agente segreto Lemmy Caution alias Eddie Constantin
Che in un vecchio film di Godard insegna ai residenti dell’irreale Alphaville a spremere da se stessi la vitalità umana
Un ultimo sguardo alla brasserie e ai buffet degli agglomerati urbani
Dove nel fruscio della pioggia molto oltre la mezzanotte in qualche modo tutto cominciava a ingrigirsi
I volti di piombo ma gli sguardi del tutto normali nessuna pupilla dilatata come dopo aver ingerito oppiacei
Prendi per la maniglia ciò che solleva col gancio
La casa anche con i cavi dell’alta tensione
Un groviglio di corridoi comuni e spazi abitati per la dipendenza di molti di noi alla quotidiana
scatola di dolci sigarette cubane
Abitudini molli come frutta
Da qualche parte risuona la tipica tosse da fumatore
Il prezzo del dettaglio risiede in ciò che erige di continuo sotto gli occhi
Come rinvenimento della prova qui ci sono stato
Nelle stie separate dei cubicoli dei caffè
E dei loro grembi imbottiti

*

Ora già non più forse ma certamente
Dici tutto si è vissuto profondamente
Dal rinfrescante crepuscolo primaverile affluiva un viluppo di felci e equiseti
Come se qualcuno miracolosamente lo ravvivasse e gli infondesse una memoria prodigiosa per il viaggio di ritorno
Il tempo era più caldo brillante e speciale
Un movimento nelle crepe dei muri
Quando nella stanza si diffonde la penombra che gradualmente poi sprofonda nel buio e invano svanisce per la scala a chiocciola
I muretti serpeggianti che si estendono dal giardino verso il basso
Dove un venticello fonde la superficie dei mattoni
Come il bucato che si appende da solo sui fili
Diritto alle radici delle piante
Quando crescono tutto è cambiato

(1996, 2014)

.

* Nota dell’autore: Jiří Havlíček (30. 3. 1948 – 2. 5. 1997), creatore di encausti, decalchi, mandala … Ma anche, come si legge in un articolo su di lui: “… Ribelle e stolto in Cristo. mistico e profeta traviato”, descrizione certamente calzante. Così l’ho conosciuto io. Amico-iniziatore più anziano con un senso dell’assurdità della vita e del tempo. Curato come schizofrenico sempre trimestralmente, quando apparivano episodi di questa malattia. Sembra fosse originario di Příbram. In seguito si spostò permanentemente a Olomouc. Non si sa molto degli ultimi suoi anni di vita, a quanto pare viveva nei boschi, e scendeva tra i comuni mortali alla maniera dello Zarathustra di Nietzsche … circondato da un branco di cani randagi (“Quest’albero è solitario sul monte; esso crebbe alto sopra gli uomini e gli animali”). Morì di appendicite perforata quando, nonostante le sue gravi condizioni, chiese ai medici curanti di firmare la lettera di dimissioni…

.

Ladislav Fanta nasce a Uherské Hradiště nel 1966. Completata la scuola elettrotecnica, lavora come giornalista e operaio. Importanti per la sua formazione furono gli incontri con gli artisti Jaromír Čechura, Hynek Šnajdar, Leonidas Kryvošej e con i surrealisti Jiří Koubek, Pavel Řezníček e Milan Nápravník. A cavallo degli anni 1980 e 1990 prese parte alle attività del gruppo informale di giovani artisti e scrittori attivi nella città di Šternberk, accomunati oltre che dalle percezioni ed espressioni legate alle tendenze mondiali, anche dalla necessità di ricollegarsi agli impulsi del movimento surrealista. Questa generazione di autori nati tra il 1964 e il 1966 rifiutò di accettare in bianco la democrazia esteriore e commerciale, che iniziava allora a far sentire la sua rumorosa presenza in Cecoslovacchia. La coulisse del paesaggio di una piccola città e i banali “utensili” della vita locale, così come gli originali personaggi che la popolano, saranno per lui fonte di ispirazione anche in seguito, in testi che inventariano il passare irreversibile del tempo. Insieme allo scrittore e poeta surrealista Pavel Řezníček prese parte alla pubblicazione degli almanacchi inediti del più antico samizdat ceco, Doutník (Sigaro), presentando una stretta cerchia di autori (K. Šebek, E. Válková ed altri). Sempre con Pavel Řezníček, è anche autore di una raccolta di prosa grottesca, Miss Mléko a jiné burlesky (Miss Latte e altri burlesque), scritta utilizzando il metodo della corrispondenza.
Il suo interesse per la storia moderna e più recente, unito a quello per la psiche umana, lo capitalizza in una vasta ricerca teorica, che si tradurrà in una serie di analisi storico-sociali, in pubblicazione. È anche coautore, insieme a Jiří Koubek, del libro intervista Ne Deník: k 70. výročí založení Skupiny surrealistů v ČSR (Non Diario: per il 70° anniversario del Gruppo surrealista cecoslovacco), sulla crisi del surrealismo e sulle sue prospettive dopo il 1989. È anche curatore delle opere inedite di Milan Nápravník, raccolte, per il momento, in un primo volume intitolato Prokletá slast a jiné eseje (Piacere maledetto e altri saggi, 2019)
(Estratto del servizio pubblicato su Poesia, n. 314, 2016.)

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Si tratta, a mio avviso, di spaghetti thriller, di thriller all’italiana dove non c’è Clint Eastwood che spara ai cow boys, bensì ci sono «corvi [che] gracchiano nelle portaerei» «mentre Silicio e Litio cacciano bisonti ad Altamira», Composizione hard kitchen di Francesco Paolo Intini

foto Maschere teatrali greche antiche

Francesco Paolo Intini

L’INVERNO È UN AFFARE TRA SUPERPOTENZE DI SURGELATI

Quest’inverno ha buste pronte a rompersi.
Ci vorrebbe una penna ispirata dall’inchiostro-dice
E non corvi che gracchiano nelle portaerei.

Solo il metapoema resiste ai colpi dei pipistrelli
E nel contesto il lettore parla giapponese a Roma
un miracolo insomma al servizio di barre.

Gaza è un metodo per rimettere in moto le mani
Ci saltano sopra le scimmie di Achille
E i barattoli prendono parte al gioco.

In maggioranza si sta comodi e il vuoto è migliore
se una superpotenza aspira ad accartocciarli.

Piccoli Che avanzano nei supermercati
Yogurt in mezzo a foreste di fragole
e spigole agli ordini del Pentagono.

Un po’ di plastica eccede sempre le maschere d’oro
e sugo viene fuori dalle vene dei surgelati.

Gli scaffali inseguono mammut in vaste Siberie
e le diottrie insegnano cecità a cavallo.

La domanda d’entropia s’è fatta grandiosa
Ma si limita a recitare versi alle tombe
Mentre Silicio e Litio cacciano bisonti ad Altamira.

(14 gennaio 2023)

Penso di aver trovato finalmente la formula critica per questo formidabile “pezzo” kitchen di Francesco Paolo Intini. Si tratta, a mio avviso, di spaghetti thriller, di thriller all’italiana dove non c’è Clint Eastwood che spara ai cow boys, bensì ci sono «corvi [che] gracchiano nelle portaerei» «mentre Silicio e Litio cacciano bisonti ad Altamira», nonché «scaffali [che] inseguono mammut in vaste Siberie», «Gaza [che] vengono accartocciate dalle superpotenze» etc. etc., si tratta di una nuovissima versione del pastiche post-novecentesco ma, all’italiana. Uno spettacolo hard con tanto di Mastroianni in “8 e mezzo”, Lino Banfi nella veste del commissario Lo Gatto e Moana Pozzi nelle funzioni di signorina maschera munita di torcia elettrica, il tutto condito in salsa kitchen e pomodori pelati Cirio. Pastiche o pseudo-pastiche rovesciato e cannibalizzato dall’intervento dell’entropia post-ideologica che investe il sistema Italia quale legge regolatrice del cosmo, pseudo pastiche mineralizzato con acqua minerale purissima, levissima, altissima all’anidride carbonica con sketch dell’ex calciatore Alex Del Piero, l’uccellino kitsch e il sorriso da dentifricio Durbans, con nel finale, per chi vuol esser lieto, un bicchierino di Cynar contro il logorio della vita moderna, con l’attore Ernesto Calindri che ne deglutisce un sorso seduto al tavolino di un bar in mezzo al traffico di via Bellerio a Milàn dove campeggia la targa della sede della Lega lombarda. Così «le diottrie insegnano cecità a cavallo», etc. etc.

(Giorgio Linguaglossa)

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023, e nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite e nel volume saggistico di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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16 gennaio 1969 – Lo studente cecoslovacco Jan Palach si dà fuoco in Piazza San Venceslao a Praga, lo studente morì dopo tre giorni di agonia, il 19. La storia si ripete, la guerra in Ucraina dura dal 20 febbraio 2014, 9 anni e 330 giorni. Una relazione dei servizi segreti della Germania ipotizza da parte della Federazione Russa un attacco all’Europa (Lituania, Lettonia, Estonia) entro qualche anno nella convinzione, da parte della Russia che la NATO si tirerà indietro. L’avvertimento arriva da Fabian Hoffmann, ricercatore per l’Oslo Nuclear Project dell’Università di Oslo. L’Europa è in pericolo. Poesie per il sacrificio di Jan Palach

Jan Palach

Tiziana Antonilli

Mrs Slim

La spiga della signora Slim
si sgrana in cinque anelli
uno per ogni dito del parto.

Una volta l’anno con la polvere cosmica fa il pane
e lo offre alla siepe di Recanati.

Il lievito tradito perdona sempre la farina
per sua natura debole di palpebre.

Il post del mémoir si è aperto un varco tra i boomers
e si è sciolto nell’acqua bollente del Karkadè delle cinque.

Corridoio

Il batticuore fa ancora vibrare il corridoio
tra il primo vagito e l’esofago annodato.

Durante il casting
il sole rassicurò Iron Lady:
– Ci sono anche per te!
mentre la madre di Lia aspettava che il rubinetto
uscisse dalla pausa pranzo.

L’archivio del Comune conserva copia
della fune d’acciaio puntata
tra il sette e il cinquanta.

Era la profezia del Cirque du Soleil.

.

Mimmo Pugliese

LA GOLA DEL CAMMELLO

L a gola del cammello nasconde la scacchiera
che costeggia un pentagono di pioggia
Il soffitto corre incontro a se stesso
boschi in scatola clonano pistole
dentro un cappello starnutisce uno struzzo
fantasmi pettinano girasoli
Buio
gatti tra le case
sei tornato gemello
mescolato ad alveoli al risveglio
incisi sulle braccia dell’araba fenice
il muro di Berlino è una ciminiera
qualche volta bambini scuotono l’albero maestro
estate presa a calci
fuochi di marmo inciampano su baffi sordi
ubriaca l’aria viola

.

Francesco De Girolamo

Come ai giorni dell’oro

Un febbrile ritorno avanza piano,
stretto tra le nascoste pieghe vive
delle cose perdute, andate, prive
d’orme chiare, ma che un nuovo, lontano

sguardo riemerso sembra riuscire
a ridestare, come ai giorni dell’oro.
E sembra che le voci amiche, in coro,
ti sussurrino frasi da carpire

nel silenzio presente, sorda luce,
corolla di fermenti che si schiude
alla ferma fiducia, all’accoglienza

del tuo fertile vuoto, delle nude,
tenui trame, disperse nell’assenza,
che un filo inafferrabile ricuce.

(Inedit)

espressionismo Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

.

Marie Laure Colasson

La Goulue* avale une sonde robotique
au “Moulin de la Galette”
pour mettre les images en état d’arrestation

Le KGB des miettes cathodiques
enfile sa robe de bure avec capuche
en disant “le faux fait le vrai”

Des feuilles de choux fermentées
trouvent un sens au néant
à travers un miroir déformant

Des imbus du pouvoir secrètent
du venin et des balivernes montées en épingle
comme les inquisiteurs de l’élégance au chocolat noir

Des filaments de non-dits crèvent
l’aorte de l’épaisseur du vide
pour produire des effects pervers

De longs poils soporiphiques
dépiauntent des petits riens
contre la liberté d’expression

Et tout tombe à plat

*nome di una donna ritratta da Toulouse Lautrec
*
La Goulue inghiotte una sonda robotica
al “Moulin de la Galette”
per mettere le immagini in stato d’arresto

Il KGB delle briciole catodiche
infila il suo saio con cappuccio
dicendo “il falso fa il vero”

Foglie di cavolo fermentate
trovano un senso al nulla
attraverso uno specchio deformante

Degli ebbri di potere secretano
del veleno e delle scempiaggini arrampicati sugli specchi
come inquisitori dall’eleganza al cioccolato fondente

Filamenti di non-detti scavano
l’aorta dello spessore del vuoto
per produrre degli effetti perversi

Lunghi peli soporiferi
scorticano dei piccoli niente
contro la libertà d’espressione

E tutto ricade a terra Continua a leggere

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Cinque Poesie “brutte” di Jonathan Rizzo, con una Lettera al lettore ignoto – Il poeta elbano costruisce il suo discorso in segmentazione progressiva. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote», i simulacri di ciò che è stato agitato nella poesia del novecento, nella vita quotidiana, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano flashback di film visti… non ci sono  domande, ma solo constatazioni. C’è il vuoto, però.

Ritratto Ionathan Rizzo Dino Ignani

 [foto Dino Ignani], Jonathan Rizzo, radici elbane, studi storici fiorentini, formazione poetica parigina. Ha pubblicato un romanzo poetico sperimentale, una raccolta di racconti saggi e poesie  di viaggio, due raccolte poetiche ed un romanzetto giallo. È in diverse antologie poetiche e di racconti di narrativa. È stato pubblicato su diverse riviste e tradotto in francese, spagnolo ed inglese. Conduce una trasmissione radiofonica sulla poesia e sulle piattaforme web. Organizza eventi poetici in tutta Italia.

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Una lettera al lettore ignoto

 Ho sempre considerato il lettore come un nemico per il poeta. Non il solo, ma tra i più insidiosi. Subdolo punto di arrivo per quei versificatori che battono con l’ammorbidente la penna sul foglio col pensiero ansioso di arrivare a chi inciamperà nelle loro parole, sogno caldo neanche troppo segreto di fare una carezza tenera a più persone possibili. L’ho pensata così a lungo e continuo a pensarla ancora in toni di grigio. Ancora oggi m’imbarazza sentirmi dire/dare complimenti sul poetare e lo scrivere che incespico. M’imbarazzano mortalmente al di là della puerile vanità umana dello scrittore. Il tempo e le sue passeggiate  mi hanno educato ad avere una faccia da “poker” davanti al lettore e che nemici più maligni per un poeta sono i critici, gli accademici ed i giovani tirapiedi di questi ultimi. Poetini mai usciti dal parco giochi dell’Università confortevole e non ancora svezzati da madri troppo melliflue nei loro baci a figli rimatori baciati, che mai hanno visto una pistola puntatagli sotto il naso ad urlare il dolore e smarrimento dell’essere umano. Lo scontro con il buco nero della realtà poetica italiana contemporanea fuori dalla mia dolce bolla da flâneur parigino mi ha corrotto l’anima ponendo totale rifiuto alla natura d’inchiostro che mi scorreva nelle vene e spingendo questo derelitto “uomolibro” verso una salvifica oasi fatta di letture mai contemporanee, sempre dei classici moderni, come si usa dire. L’onestà intellettuale pone di ammettere che per il poeta il lettore è un nemico, ma che per il lettore il poeta è un caro amico con cui vive, cresce, cambia, matura fino alle retoriche foglie d’autunno. Praticamente amare con tutto il fiato nel petto un cretino disadattato perché specchio intimo del personale sé disadattato e cretino, cioè la parte migliore di noi, quella senza maschere. La verità è che sono più felice da lettore che da scrittore. Non nemico di me stesso, ma sintesi finalmente raggiunta tra l’infelicità esistenziale necessaria dello scrivere e lo gioia egoista della lettura.

Caro amico lettore ignoto diffida dalle parole che sembrano state scritte per te.

Jonathan Rizzo

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«In definitiva, però, bisogna sempre tenere presente che la realtà della quale possiamo parlare non è mai la realtà in sé, ma è una realtà filtrata dalla nostra conoscenza, persino, in molti casi, da noi configurata. Se a quest’ultima formulazione si obietta che dopo tutto c’è un mondo oggettivo, completamente indipendente da noi e dal nostro pensiero, che procede o può procedere senza il nostro apporto e al quale in realtà ci riferiamo con la ricerca,a quest’obiezione a prima vista così ovvia si deve opporre il fatto che già l’espressione “c’è” appartiene al linguaggio umano e non può quindi significare qualcosa che non sia in relazione alla nostra capacità conoscitiva. Per noi “c’è” appunto solo il mondo nel quale l’espressione“c’è” ha un senso».1

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L’estraneazione è l’introduzione dell’Estraneo nel discorso poetico. Lo spaesamento è l’introduzione di un Avatar nel Paese del linguaggio poetico. Il mixage di instantgrammi e di shifter, la deviazione improvvisa e a zig-zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Jonathan Rizzo. Queste sono le categorie sulle quali il poeta elbano costruisce il suo discorso in segmentazione progressiva. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote», i simulacri di ciò che è stato agitato nella poesia del novecento, nella vita quotidiana, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano flashback di film visti… non ci sono  domande, ma solo constatazioni. C’è il vuoto, però.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale l’io parla mediante un retro pensiero o un pensiero interconnesso con quello; l’io così viene ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si esaurisce nella proposizione dichiarativa ma in altre proposizioni magari sottintese che correggono quelle dichiarative. L’eloquio fintamente conviviale è in realtà spaesante.

Lo stile è quello della didascalia fredda che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle dichiarazioni di voto al Parlamento, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi mischiato alle proposizioni autoironiche e ironiche sull’io e sul contemporaneo. Jonathan Rizzo sa scrivere alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Questa severa concisione referenziale non esclude interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

Tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento; qui, nella poesia del poeta elbano risulta nuovo, anzi, nuovissimo risulta il modo con cui viene pensato il discorso poetico dei nostri giorni dove il «lettore» viene definito un «nemico».

Ci sono la leggerezza e la destrezza di Apollinaire in certe rientranze e giocolerie stilistiche di Rizzo: («la gente che gioca alla vita leggera», « Le auto attendono, le barche galleggiano, tu scrivi»); certi andanti larghi descrittivi («Uomini, donne, bambini che vi fate saltare in aria, nemici ed amici»), shakerati con sintagmi da confessione («Amo la vita e non me la toglieranno più»), certi stacchi autoironici («Sono solo. Aspetto/ la mia donna ed il suo portafortuna tra le gambe»), certi spot della pubblicità della Buitoni («La campagna toscana con abito gentile»), mottetti irriverenti («Non conosco gelaterie in Francia»), sintagmi strappalacrime («Io urlavo lacrime e poesie»), sintagmi assiomatici («Dio è il concetto con il quale misuriamo il nostro dolore»), mini proposizioni constatative («Io non fumo. Dovrei iniziare a fumare»), sintagmi aristocratici («L’unica persona viva dorme»). Il tutto compostato in uno sketch stilistico di ottima fattura autoironica. Jonathan Rizzo immagina la sua condizione come quella di quell’umano che si mette nella condizione della cosa, anzi, che si offre  allo sguardo delle cose; la sua è, propriamente, una poesia della mancanza e dello sguardo delle cose sull’io.

Qual è il significato del distacco della poesia di Jonathan Rizzo dalle fonti novecentesche? Il fatto è che quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e antielegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate, magari ben  lubrificate e lucidate. Jonathan Rizzo dà uno scossone all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi due tre decenni delle generazioni precedenti la sua, e la rimette in moto. È un risultato eccellente, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia della sua generazione.

 (Giorgio Linguaglossa)

1 Werner Heisenberg, Indeterminazione e realtà, Guida Editore, p 2002, p. 123.

Jonathan Rizzo fotoA Fabrizio

L’unica persona viva dorme
mentre i poeti,
quelli veri,
parlano di metrica con logica acida matematica.
senza guardarsi negli occhi
ché il piedistallo di plastica
non concede che li si tocchi.

Ma l’unica persona vera russa
sdraiato per terra
con la custodia della pianola
a fargli da giaciglio
dopo pranzo, dopo il vino, rosso camino.

Riposa tra i fili l’erba nell’attesa perla
di sfiorare tasti neri
per farli divenire bianchi,
accarezzare chiari
per volo e dispetto
da mutare scuri.

Gioco d’ali
di colombe e falchi
nel tiepido meriggio Giunone
di fine primavera,
amica lieve, amante breve.

La campagna toscana con abito gentile
splende in un abbraccio di luce senza fine,
nuvole sconfinate,
un poco vicine, un poco lontane.

Ma i poeti, quelli veri, non hanno tempo per godere
della bellezza che il cielo ricama
a scherno degli uomini
briciole distratte.

Lamentarsi dello schifo che circondi i loro versi
è più importante
che masticare una spiga di grano controluce,
o fermarsi sulle nuvole persi.

Ma tutto questo inferno d’animo non scuote
l’unica persona normale
che sogna note e colori
da donare
come fanno i bambini alle bambine
con i fiori.

Ed io?

Ed io sono fortunato ad essere amico tuo
ed ancora
non come loro.

BESTIARIO PARIGINO

Sgattaiola nel calpestio de li uomini,
anime in contrabbando fragile.
Io non fumo. Dovrei iniziare a fumare.
Compro da bere. Io bevo. Dovrei smettere.
Sono solo. Aspetto
la mia donna ed il suo portafortuna tra le gambe.
Arriveranno con le strade lavate di fine estate.
Scrivo così bene a Parigi, solo per me stesso.
Non c’è fretta che il tempo cambi.
Filtro assenzio e pastis coi miei oi parei.
Occhi francesi,
passaporto al tricolore.
Non conosco gelaterie in Francia.
Altro cuscino in questo square fiorellino
tra il cicalare umano del caldo agostano.
Amico mio dammi la mano.
Passeggia da professionista
senza direzione tra i pensieri
e la loro corrotta memoria di orgogliosa miseria,
carne e sangue, piaghe di poesia ed isteria.
La muette freccia.
Non conta per dove.
Vola sopra la gente che gioca alla vita leggera.
Refrigerio canino,
esempio all’umano
bestiario.
Il ponte che passa.
Le auto attendono, le barche galleggiano, tu scrivi.
I ricordi di un sorriso vengono smantellati
dall’ineluttabilità del tempo.
Un nuovo passato ogni giorno da seminare.
Nascosta dal filo spinato
la vita perduta di alcune persone,
ma non, né rimangono impigliate tra le virgole pendule il nome.
Pare sempre domenica quando piove sulle luci di Parigi.
La festa di pace non si concluderà questa notte.
Nel seccarsi dell’inchiostro tra il foglio e la punta lenta
spunta il sole dietro le nuvole serie.
Si porge lieve come carezza di profumi gentili
per le persone sole.
Amore siamo in ritardo?
In ritardo per cosa?
I morti aspetteranno!

CANTO LA VITA. ODE A PARIGI

Parigi è viva,
ed io con lei.

Non abbiate paura.

Non regalategli voi stessi.

I mostri meritano pietà,
ma non il dono prezioso della paura.

Parigi è ancora viva, respira.

Io l’ho vista con questi miei occhi di uomo.

Non abbiate paura di farlo anche voi.

La paura è lo scudo di chi si fa forte con la violenza.

Noi siamo immortali
perché sorridiamo ed amiamo la vita,
le sue figlie ed i suoi figli.

Io sono uscito a petto nudo
per le strade spezzate dal pianto,
foglie morte al mio fianco.

Ed ho sentito sulla pelle
la chiara impotenza del derubato,
pensando debole
a tutte le vite che ho perduto,
pensando fragile
possono spararmi,
ma non spaventarmi.

Amo la vita
e non me la toglieranno più.

La condivido con voi,
tutti voi.

Uomini, donne, bambini che vi fate saltare in aria, nemici ed amici.

Non temo nessuno.

Amo e sono fatto di carne.

Abbraccio ogni volto stanco,
frustrato dall’odio e dall’ignoranza.

Più sarete lontani e più la mia mano si tenderà verso di voi.

Parigi vive ed io sono suo figlio.

Non moriremo mai,
perché nel petto abbiamo forte
l’amore e la fratellanza tra gli uomini ed i popoli tutti.

Odi mondo
alto si leva ancora il nostro canto,
siamo vivi e teneri tuoi amici,
io e la sorella Parigi.

Gli odi di uomini bruciati dalla paura non ci possono ferire più.

Amiamo disperatamente anche loro,
perché nessuno lo fa.

DEDICATO A JACK KEROUAC

Eravamo al solito su un placo scalcagnato,
rimediato facendo gli occhi dolci
ad una giovane ed ingenua Dea.

Il contrabbasso spingeva fiamme i pedali
cercando la fuga sui Pirenei del Jazz.

Io urlavo lacrime e poesie
ad una sala vuota di umanità e sorrisi.

La carta del Caffè letterario universitario
si stava rivelando un flop velleitario.

A vederci non era chiaro
se fossimo stati più ipocriti noi
a porci ad un pubblico sordo che sotto sotto disprezzavamo,
o chi a vent’anni non legge se non per obbligo d’esame.

Io ingenuo come un bambino
avevo preparato la performance a puntino,
importunando le muse delle arti maggiori,
ingaggiando maestri e leggende di uomini rari,
affittando sogni scritti meglio dei miei vuoti paroloni.

Pierangelo divino come un airone
volava leggero sopra le nuvole
incurante di come stessi perdendo per k.o. tecnico
quel match di pugilato chiamato poesia e vita.

La sala vuota rendeva ancora più ridicolo
quel mio agitarmi dinoccolato,
sottolineandolo con tono crepuscolare e disperato.

Per pietà una dolce farfalla aprì il portone sulla strada
sperando che i miei fuochi d’artificio gutturali
riuscissero ad impressionare i viandanti per la rada.

Era lei che avevo sedotto di fiore in fiore
e mi aveva staccato l’ingaggio per poche lire
e molto, troppo, esageratamente da bere.

Così mi piace farmi pagare,
qualche pompino e molto vino.

Da Marte responsabile ansiosa
per il mio fallimento marchiato d’infamia
sulla sua pelle graziosa.

Ai giovani universitari non interessa la cultura.

Ai fiorentini non piace la poesia.

Secoli alle spalle ce l’hanno dimostrato plurime volte.

Mentre i fantasmi di Dante Alighieri e Dino Campana
guardandomi teneramente mi suggerivano verità inevitabili,
il mio fedele pubblico si affacciò sulla strada,
unica amica reale rimasta gentile
per chi abbia attraversato lo specchio e sia divenuto favola da ricamare.

Io e Piero ci guardammo
e finalmente sorridemmo.

Non eravamo più soli.

Ardevamo scintillanti oscurando l’eclissi.

Un uomo,
una persona vera,
un clochard
si era fermato ad ascoltarci
accarezzando ogni nostro dolore,
note e parole.

Lui capiva quello che le corde pizzicate e quelle graffiate
stessero urlando e bruciando.

Vivi al mondo eravamo solamente noi tre,
stelle danzanti.

Ho sbagliato
e non mi giustifica il fatto che fossi così rapito e sospeso dalla sua bellezza.

Avrei dovuto scendere dal palco
ed elevarmi a livello dell’uomo.

Andare da lui, fuori nella realtà.

Abbracciarlo,
anzi meglio, ciò che conta,
offrirgli da bere,
pagargli da respirare.

Rubare una bottiglia di vino,
scappare dalla commedia e scolarla assieme fino al mattino.

Il resto erano puttanate.

Ho proprio intrapreso strade sbagliate,
ma sto imparando la differenza tra bene e male.

Quella sera per aver sputato sangue e sudato sperma,
ci pagarono una miseria.

Zero applausi di plastica nelle orecchie,
ma vino defraudato tra le viscere
e qualche sogno di morbide cosce
a porsi specchio sorridente d’orgoglio
alla presa di coscienza
di come il mio pubblico sia un esercito di barboni e puttane.

Unici esseri umani reali di cui valga la pena d scrivere,
con cui abbia senso brindare
a questo inferno pazzo che è il vivere.

Almeno finché Piero suonerà il contrabbasso al mio fianco
a scherno del resto,
scimmia idiota che non fa neanche ridere.

EPITAFFIO DAL PIÙ GRANDE POETA MORENTE

Dio è il concetto con il quale misuriamo il nostro dolore.

Non credo in Jonathan Lennon, pur citandolo.

Non credo alle stelle, pur usandole per portarmi a letto le belle ragazze,
alla loro luce morta milioni di fa.

Non credo al decalogo del poeta,
pur trasudandolo dalla pelle stanca
che ricorda e conosce solo l’urlo come affermazione di sé.

Non credo a voi gente per bene
Dai buoni consigli sterili.

Non credo all’uomo italiano e mediterraneo,
fascista vecchio, post, neo, borghese, padronale, legaiolo ed a 5 stelle, di cui ho già detto di non credere.

Non c’è resurrezione né speranza alcuna più.

Non credo nei populismi dell’homo homini lupus.

Non credo ai sacri confini degli stati
da difendere ciecamente con lo spauracchio della paura del diverso.

Credo al nomadismo,
credo al viaggio come unico senso della vita,
la ricerca di sé, di un perché
ad un’esistenza da trascinare tra la bellezza della natura e le storture dell’umana miseria.

Credo negli zingari,
il vero popolo eletto.

Gli unici rimasti seri e coerenti nel “belpaese”.

Non credo alla democrazia italiana,
mercato del posto fisso
in parlamento o in televisione,
che in questo paese malato se non appari non esisti.

Credo a chi si alza all’alba per portare il pane a casa ai figli.

E lo dico io guardandovi negli occhi,
io che sono sterile per fortuna,
una casa non ce l’ho
e non mi alzo mai prima di mezzogiorno
perché mi da fastidio il rumore della gente onesta che va a lavorare,
mi mette a disagio con la mia vigliaccheria.

Non credo più nel bene e nel male,
l’uomo non è all’altezza di entrambi.

Siamo fatti della stessa pasta della mediocrità che sta nel mezzo.

Non credo in Dio,
nel vostro Dio,
in qualsiasi Dio.

Mi ha abbandonato tempo fa.

L’uomo è solo in questo scarto di universo.

Non credo nella Dea,
Lorenza non merita una goccia del mio inchiostro di carne,
figuriamoci sperma e sangue.

Mi ha ucciso tante di quelle notti
che non so più morire.

Eterno poeta dell’inutile cantilenante,
eternamente errante errante.

Non credo nell’amore,
non credo più nella poesia.

Credo nell’eroina e nel whisky.

Non credo a te, padre, maestro, professore, direttore, generale, presidente, re, imperatore e pontefice massimo
che non sai neanche che esista.

Difficile chiedere il mio voto con queste premesse.

Credo nell’Anarchia,
unico volo di libertà
che l’uomo trova in se stesso,
animale armonia.

Non credo nella legge
che punisce il debole
e si fa ammansire dal potere.

L’uomo non è la proiezione di Dio,
ne è la scorreggia,
il lascito di seme
sulle lenzuola del cosmo.

Di un Dio in cui comunque non credo.

Non credo a Napoleone.

Dovevi distruggere la perfida Albione
e liberare l’umanità dalle catene
invece di rimirarti pingue
in specchi dorati
nel tuo mantello ali di aquila.

Non credo nei miti rivoluzionari del ’48, del ’17, del ’68, del ’77.

Tutti questi antenati da album di famiglia non credono in me.

Non credo al mio padre morale Charles Bukowski.

Devo combattere la mia battaglia,
non ricamare a bassa voce quella di qualcun altro.

E questo vale per me come per chiunque di voi.

Non credo in voi che amate ed odiate e cambiate sentimenti ed opinioni con la superficialità
di chi non conosce cosa sia l’amore e l’odio, il tormento e l’estasi,
ma pretendete d’imporre la vostra truffa a chi innocente crede
o credeva ancora.

Quando domani mi tirerò il collo
resterete solo la polvere che siete,
ombre di uomini e donne.

Credo solo in me stesso.

Il sogno è finito, Dio non esiste e l’abbiamo tutti al culo.

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Forse è ora di rinunciare alla garanzia del posto fisso, alla sicurezza del linguaggio poetico comunicazionale, stereotipato, facilmente condivisibile di oggidì, Una poesia di Francesco Paolo Intini, “Comprate versi che fanno crescere il Pil”

Francesco Paolo Intini volto

Della poesia di Francesco Intini si può dire che è una forma-poesia dove all’interno ci corre una vastissima gamma di esperienze, il che può essere una differenza piccolissima o una differenza grandissima, al pari del gatto di Schrödinger che prevede entrambe le soluzioni del gatto vivo e del gatto morto, dipende solo dalla osservazione con cui consideriamo questo genere di poesia. La poesia come interfaccia?, sì, forse, ma di che cosa?, di materia oscura?, di energia oscura?, di interfaccia di interfaccia?, di una realtà-specchio?, di una realtà che sta a mezzo di due o tre o infiniti specchi?, di parole-particelle?, di parole-onda?… ma a questo punto è ancora lecito parlare di una forma-poesia?, è ancora lecito parlare di una ermeneutica della poesia?, non è più consono parlare di infinite variabili forme-poesia?, di infinite possibilità?, e di una ermeneutica liberalizzata, sciolta da ogni legame con il testo?Forse Intini, che è uno scienziato chimico, può intendere quello che vorrei dire (senza riuscirvi) perdonatemi… da Tranströmer alla poesia kitchen si può misurare il percorso che porta da una poesia in formato atomico forte tipico del diamante ad una poesia con una formula atomica debole, o anisotropica, da effetto doppler, secondo cui le parole e le frasi interagiscono tra di esse modificando la rappresentazione agli occhi di un osservatore fisso nella quale le sbavature, le imprecisioni, gli entanglement, anche numerosi, fanno parte del percorso dell’eloquio della scrittura e dell’osservazione della scrittura… in modo analogo a quanto faceva Stockausen in “Quattro archi con un elicottero”, dove c’è un elicottero che con il suo rumore ‘disturba’ il suono degli archi. La poesia di Tomas Tranströmer ha cambiato il mondo della poesia (si leggano La lugubre gondola (1996) mentre le 17 poesie sono del 1954). Ma in Italia il suo magistero è passato inosservato. Sin qui il ritardo. Nel 1995 sul trimestrale di letteratura “Poiesis” pubblicavo Il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”. Come si vede c’è una corrispondenza temporale, la distanza tra La lugubre gondola e il “Manifesto” è di appena un anno. Nel 1994 muore Franco Fortini e nel 1997 muore Zbigniew Herbert, gli ultimi due poeti (così diversi tra loro) del modernismo europeo. Il “Manifesto” quindi arrivava già in ritardo, quando in Europa quel periodo storico-stilistico chiudeva i battenti. Ci ho riflettuto molto su questo punto, con il senno di poi ho capito che il ritardo era dovuto al ritardo storico della situazione della poesia italiana di allora, ancora impantanata tra le tarde proposte del Gruppo 93, le riprese neoorfiche e il dilagante minimalismo con annessa poesia corporale, poesia auto riflessiva poesia toponomastica e poesia neoverista. Gli anni novanta sono stati anni di transizione che hanno visto due poetesse di assoluto rilievo: Maria Rosaria Madonna e Anna Ventura, entrambe decedute, la prima nel 2002, la seconda nel 2017, anno che vede la morte di un altro importante poeta di opposizione, Mario Lunetta. Dal 1997, la fine del modernismo ad oggi, ci separano 26 anni, durante i quali la poesia italiana è rimasta impantanata (spiace dirlo) in una sorta di poesia corporale, poesia egolatrica incentrate su un “io” sempre più asfittico. Un interregno con il nuovo che bussava alle porte in modo sempre più insistente. Questo è quanto mi sento di dire in così breve spazio. Come uscire fuori da questo interregno?, beh, per averne una idea leggiamo queste due poesie. Forse è ora di rinunciare alla garanzia del posto fisso, alla sicurezza del linguaggio poetico comunicazionale, stereotipato, facilmente condivisibile che va di moda oggidì.

(Giorgio Linguaglossa)

Francesco Paolo Intini Copertina

Francesco Paolo Intini

COMPRATE VERSI CHE FANNO CRESCERE IL PIL

I
L’opera si scrive da sola
e dunque se sale il PIL sa dove andare.

Fiumi di champagne seccano Marte e il tartufo sbuffa sopra IO.
La biglietteria del Sole promette una protuberanza con servizi e comfort

Manca la pubblicità e l’opinionista galleggia su poche idee del primo tempo.
La materia scura dal canto suo fa largo alle cartelle di corrente offrendo pasti caldi alla Caritas.

Cercasi personale per il primo verso. Questo invece è teatro granulato.
Protagonisti:
Francesca da Rimini: una mezza matta che sventola bambole in abito da sposa.
Un matto per davvero che si crede fuco e una serie di attenuanti forse volatili.

Spiffera dalle cartucce ma gli F-14 non sono da meno nel credersi santità.
Una scarica di rabbia nasconde una strage di pianeti e su Orione si sta sul chi vive
Perché una barca di relitti scappa da una supernova.

Mantenere le cinture allacciate all’ora di punta fa male alle ossa,
ma un giro nella gravità estrema rimette in moto i neuroni dopo morte.

II

Adottate una gazza per l’inverno:
Un tocco ai petali che si chiudono ed uno alle bare che si aprono .
L’inverno è duro da digerire ma tra schede nulle compare la gazza.

Oh l’infinita saggezza che non lascia il suo albero!
-Sapete? Se di qui passa il Sole lo uccido.

L’amore ha l’impellenza della corrente da pagare
Anche se la simmetria non c’è ed è inutile cercarla nel DNA.

Tutto questo accadde prima che Tesla nascesse
Con un cenno alla lotta di classe e alla scarsa conoscenza dell’analisi di Marx.

III

Un tempo le rivoluzioni forzavano le serrande degli occhi.
Bello e intrigante il ritiro delle maestranze nei gusci.

Crotali e avvoltoi, a noi!
A ciascuno il suo sanpietrino.

Il teatro fai da te si compra nei supermercati:
Trovi Pinochet tra le creme ossigenanti
E il ministro dei violini ti convince che migliore non c’è.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023, e nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite e nel volume saggistico di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Massimo Morasso, “Frammenti di nobili cose”, Passigli, pp. 110 14,50, 2023, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, Ritratto della condizione ontologica dell’uomo del moderno che si trova avviluppato nel deserto dei valori e delle illusioni, nel deserto di un linguaggio reificato, nel disincanto della crisi della Unione Europea e della politica italiana che è transitata dal capitalismo monopolistico al capitalismo globale che ha trasformato gli “io” in una ridda di monadi, di cellule cancerose che si riproducono in un ambiente acido, segno di un habitat totalitario e identitario

Massimo Morasso, Frammenti di nobili cose, cover

Come un neonato Kierkegaard, Massimo Morasso, poeta genovese del 1964, è consapevole di come l’Occidente sia oggi disarmato di fronte alla disumanizzazione dell’esistenza e alla de-valorizzazione di tutti i valori ridotti ad un nulla di nulla, a nihil. Come Michelstaedter, Massimo Morasso opta per la via del «privato», la mantiene in alto, sorreggendola con coraggio e fatica, chiama quella cosa «anima», ma sa che è impossibile tornare al mondo rotondo e pacifico della tradizione del capitalismo monopolistico e della guerra fredda. Rimane, in Morasso, la geometrica angoscia di Kierkegaard e di Kafka che rammenta l’urlo silenziato di Munch, ritratto della condizione ontologica dell’uomo del moderno che si trova avviluppato nel deserto dei valori e delle illusioni, nel deserto di un linguaggio reificato, nel disincanto della crisi della Unione Europea e della politica italiana che è transitata dal capitalismo monopolistico al capitalismo globale che ha trasformato gli “io” in una ridda di monadi, di cellule cancerose che si riproducono in un ambiente acido, segno di un habitat totalitario e identitario di quella cellula monadica che ci siamo abituati a chiamare per convenzione “io”.

«Per anni, in cerca di sollievo,
ho tratto dai ricordi le parole,
ma adesso il mio paesaggio si è invertito.

Ora ho levato il mondo e
vivo solo negli anfratti del reale:
sono una nostalgia celeste
ardentemente arresa al suo delirio.»

*

In principio fu la Parola
e, per sua grazia, i mondi generati:
la realtà.

Ma il tempo passa, e tutto si dimentica.
Le volpi, ormai
s’industriano a zittirla, la parola,
raspano intorno alla memoria dell’origine
per affossarla nel sonno della lingua…

Però restano piccole nei branchi,
patetiche e cialtrone, e non ci riusciranno.
Cantiamo un kyrie anche per loro, Cristo Santo,
per le tribù dei vignaioli illuminati
e poi per noi, per i poeti
che non sanno quello che fanno.

L’io di Massimo Morasso scopre così di essere un «senza-patria», un senza linguaggio, un appartenente ai «vignaioli illuminati», un addetto alla vendemmia, un reietto dell’«anima» (non a caso la parola «anima» ritorna insistentemente in tutto il libro). In Morasso l’io dialoga con l’«anima», ma è un dialogo autoriflessivo, dell’io che dialoga con se stesso. «Heimatlosigkeit» significa nella lingua di Heidegger «senza patria». È un’espressione che rimanda all’assenza di una «dimora» che si connota con la Stimmung, la tonalità di una disperazione esistenziale tardo modernista per le parole perdute, per le «nobili cose» e per quelle non più «nobili».

«Wir irren heute durch ein Haus der Welt»
«Noi erriamo oggi nella casa del mondo»

La frase è di Heidegger. Dunque, ci manca il linguaggio perché ci manca una casa. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo, sub specie di “io” plenipotenziario, va ramingo alla ricerca di una dimora da abitare e una parola da pronunciare; nella sua ricerca egli erra nel mondo simile ad un’ombra straniera finanche a se stessa. Il tempo della «mancanza del linguaggio» è il «tempo della povertà» dice Heidegger, il tempo dell’epoca storica in cui l’essere si cela e non si rivela; un’epoca contrassegnata da una barriera linguistica, ovvero, un limite verso l’«apertura» storica del Dasein al mondo.
Tuttavia, «il linguaggio è la casa dell’essere, nella sua dimora abita l’uomo», afferma Heidegger; in quanto co-esistenziale del Dasein, il linguaggio è al contempo «quanto di più lontano e quanto di più prossimo l’uomo riesca ad esperire» (parola sempre di Heidegger).
Morasso è in fondo un poeta ancora modernista, kierkegaardiano e heideggeriano, corretto con una dose di Kafka, una sorta di ircocervo in Italia, il paese di Pantalone e dei coccodrilli.
Nelle nuove condizioni ontologiche e politiche nelle quali si trova il Dasein oggi nel capitalismo cognitivo e globale italiano, il linguaggio poetico dell’io plenipotenziario si è rilevato essere un luogo estraneo, impraticabile in quanto mancante di un linguaggio, un luogo fonte di confusione e di equivoci; il senso e il significato delle parole poetiche impiegate in questi ultimi due-tre decenni dalla forma-poesia in Italia si perdono in un fondo senza fondo, nel fondo di una tradizione che non c’è più, perché non è più possibile poetare con il linguaggio post-montaliano, né con quello post-bertolucciano o post-sanguinetiano «la tentazione del poeta/ di rinchiudere la lingua/ come un disabile in famiglia», scrive Morasso. Il poeta genovese ne ha fatto dolorosa esperienza. Da questo momento in poi, ovvero, dalla fine del modernismo che abbiamo fissato, convenzionalmente, con la morte di Zbigniew Herbert, nel 1997 (e in Italia di Franco Fortini nel 1994, del quale l’ultima opera, Composita solvantur è in proposito significativa, una poesia che nasce dall’attrito tra la struttura sintattica e la struttura metrica, cioè tra organizzazione logica del discorso e la sorpresa musicale della lingua). La «dimora» linguistica del Dasein è divenuta inabitabile – ci ricorda Heidegger – nel nuovo mondo del Dopo il Moderno non sarà più possibile abitare (Wohnen) la dimora che conoscevamo… di qui il bisogno di dover ricostruire e di puntellare con dei «frammenti» la dimora del linguaggio poetico ereditato divenuta inabitabile. Di qui la poiesis dei «frammenti di nobili cose» che sono stati smobilitati, di qui l’abitazione poetica che Massimo Morasso scopre essere un alloggio ammobiliato, con mobilia e suppellettili di seconda mano, divenuti estranei, ereditati da una tradizione divenuta inappropriabile e inconffessabile. Il poeta genovese è un poeta tardo modernista giunto in ritardo alla stazione ultima di un paese divenuto straniero a se stesso, dove si parla una nuova lingua non più comprensibile, che non è più modernista e che non appartiene più al futuro-passato o al passato-futuro, una lingua che toglie le parole di torno al poeta, gettandolo nella condizione del reietto e del transfuga, di colui che è rimasto senza parole. C’è un filo rosso della riflessione che conduce da Mandel’štam a Žižek sulle parole e sulle «cose» che occorre riprendere. C’è un filo rosso che parte da 17 poesie di Tomas Transtrômer del 1954, le poesie che hanno cambiato la forma-poesia della poesia moderna. C’è una Anti-tradizione che parte dalla poesia di Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna e Mario Lunetta e giunge fino a noi. È con l’Anti-tradizione che dobbiamo fare i conti, ribaltare la posizione convenzionale per poter uscire fuori finalmente dal novecento ereditandone una poesia «altra», una poesia «critica» e «autocritica».

Per dirlo con Lacan, se «non esiste Altro dell’Altro», se niente e nessuno ci darà mai la garanzia che la poesia della catena significante possa cessare una volta per tutte la sua deriva verso infiniti rinvii, approdando a un felice senso decisivo, l’unica cosa che resta al soggetto per farsene qualcosa di questo parassita di parole qual è il significante è un saperci fare con il linguaggio, depistare il linguaggio, depistare l’io, derubricare sia il linguaggio che l’io, deterritorializzare sia il linguaggio che l’io per riterritorializzare una forma-poesia non più pensata e non più dipendente dal significante e dalle adiacenze di questo «parassita delle parole», una poesia da costruire intorno alle «cose» un tempo «nobili» che sono state devalutate e derubricate, una poesia che ci parli del «soggetto scabroso» (per dirla con Žižek) e del mondo divenuto anch’esso scabroso.

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Ermeneutica di una scrittura patafritta, o usufritta, poesie di Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa e Due poesie di Montale da Satura (1971), La pratica metaletteraria messa in atto nella modalità kitchen è davvero spinta agli estremi limiti se la paragoniamo alla pratica metaletteraria del secondo Montale di Satura (1971), dove c’è l’io che esprime ironicamente e autoironicamente la propria distanza dalla letteratura

foto diavolo

Dopo qualche lamentazione filosofica, ecco a mio avviso la parte edificante che mi trova pienamente d’accordo:
“è il linguaggio allo stato neutro o allo statu nascendi del mediatico quello che spinge gli autori kitchen alle loro retorizzazioni, questo è il vero incantesimo.” (G. Linguaglossa)
Da qui in poi è per me tutto condivisibile. Non solo, ho anche cercato di capire quale potrebbe essere “la zona neutra del linguaggio”, e a me sembra di averla trovata in wikipedia, il modo cortese, sintetico con cui vengono veicolate le informazioni.
E rendere questa “scrittura (struttura) palesemente seduttiva”.

“Il pericolo è una sospensione dello slancio vitale per usura.” Vero, e lo sto sperimentando, ma l’usura è data dalla gabbia in cui si trovano rinchiusi tutti i facili collegamenti che l’inconscio ci suggerisce. Trantrömer, che era psicanalista, aveva grande dimestichezza con questi meccanismi, per questo riuscì ad evadere dalla scrittura ad effetto dei surrealisti. Piegò il linguaggio in modo da favorire l’ingresso di parole altre. Non a caso è per i poeti kitchen un poeta di riferimento.

Col tempo e la pratica mi sono accorto di tornare sempre allo stesso luogo, come se le parole abitassero in un dato recinto. L’inconscio che ci parla nei sogni non dipende dalla nostra volontà, sembra provenire dalla voce di altri, tant’è che a volte cerchiamo di interpretarne il messaggio. Ma quando scriviamo, nella zona che pensiamo appartenga all’inconscio, ecco che troviamo parole già pronte all’uso. Bizzarre, ma sedute…
Mentre sappiamo che quelle valide, da considerare, sono quelle che ci sorprendono, che sorprendono chi le sta scrivendo; inconsce, proprio perché estranee all’azione di nostra volontà.
Io per questo aspetto, non scrivo di seguito, abbandono coscientemente pensieri e, nelle parole, i facili rimandi, le associazioni di qualsiasi genere, i luccichii delle sonorità… troppo immediati, troppo vicini, che sono del recinto.
Inoltre penso che non abbiamo possesso del linguaggio (mediatico o no) ma solo dobbiamo guardarci dall’abilità con cui facciamo il nostro esercizio di scrittura. Anche in merito alla “seduzione”. La quale, sono d’accordo, è presentissima nella poesia kitchen. Anche se raggiungere un buon grado di empatia, questo a me basterebbe.

Concludo con questo stralcio, provocatorio, dal libro “Deus Irae” di Philip K. Dick:

«Gli uomini – le persone come te – hanno i cani delle praterie nel sangue; sono morbosamente curiosi. Sentite uno strano rumore e saltate immediatamente fuori dalle vostre tane per vedere che cosa succede. Non si sa mai.» Rifletté. «Una meraviglia. Ecco quello che desideri. E che desiderava il primo uomo nel Giardino. Ciò che prima della guerra veniva definito ‘spettacolare’. È la sindrome da circo.» Sorrise. «E ti dirò di più. Lo sai perché vuoi un posto in prima fila? Per poter essere uno di loro.» «Loro chi?» «Quelli famosi.»

Lucio mayoor Tosi cover Def(Lucio Mayoor Tosi)

L’immaginario costituisce un Labirinto dove ciascun poeta maturo (kitchen) deve costruirsi il proprio Immaginario. Quello che voglio dire è che non si può fare poiesis senza un proprio armamentario di figuralità, di immagini, di avatar e di voci che parlano, camminano, fanno e disfanno. L’Immaginario di un verso di Intini lo riconosci subito dall’odore che emana, e anche un verso di Ciccarone lo riconosci subito, e anche uno di Mimmo Pugliese, etc. quello che distingue la poesia kitchen dalla poesia avanguardistica del novecento è l’affollamento dell’Immaginario, l’affollamento dei luoghi e l’ingresso degli Estranei nel Labirinto. In realtà, ogni Labirinto ci è Estraneo. In realtà, questo parlare tra di noi è un «gioco» nel senso più alto della parola, un venir fuori di ciò che altrimenti non sarebbe venuto fuori, è un modo per circoscrivere l’eloquio monologante della poesia della tradizione, infatti il modus è una topologia. Voglio dire che si tratta di un nuovissimo espediente retorico per dire altre cose da quelle che avrebbe detto l’eloquio monologante della tradizione e dell’antitradizione del novecento, non si tratta semplicemente di rispondere-a ma di interloquire con una pluralità. Qui vorrei mettere l’accento con Fredric Jameson «sull’esperienza post-moderna della forma con ciò che sembrerà, spero, uno slogan paradossale: con l’affermazione, cioè, che la “differenza mette in relazione. La nostra critica recente… si è preoccupata di sottolineare l’eterogeneità e le profonde discontinuità dell’opera d’arte, non più unitaria o organica, ma potenziale bazar o rispostiglio di sottosistemi disarticolati, disparati materiali grezzi e impulsi di ogni genere. Le opere d’arte di una volta, in altre parole, ora risultano essere testi, la cui lettura procede più per differenziazione che per unificazione. Le teorie della differenza hanno però cercato di sottolineare la disarticolazione a tal punto, che i materiali del testo, incluse le parole e le frasi, tendono ad essere estromessi come elementi di passività inerti e casuali, separati gli uni dagli altri in modo puramente esterno».1

1 Fredric Jameson, Il Post-moderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti (titolo originale, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, prima edizione 1989), trad. it. 1984, p. 61.

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(Marie Laure Colasson)

Certo, la pratica metaletteraria messa in atto nella modalità kitchen è davvero spinta agli estremi limiti se la paragoniamo alla pratica metaletteraria diel secondo Montale di Satura (1971), dove c’è l’io che esprime ironicamente e autoironicamente la propria distanza dalla letteratura:

Due poesie di Eugenio Montale da Satura (1971)

I.

L’angosciante questione
se sia a freddo o a caldo l’ispirazione
non appartiene alla scienza termica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importante. Appena fuori
si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:
che sto a farci?

II.

Con orrore
la poesia rifiuta
le glosse degli scoliasti.
Ma non è certo che la troppo muta
basti a se stessa
o al trovarobe che in lei è inciampato
senza sapere di esserne
l’autore.

Marie Laure Colasson Les choses de la vie

Per me si tratta di fare inchiostri: scrittura gestuale, non calligrafica (di sola intenzione) ma con parole. Non è tipico della poesia kitchen. Ma ci sono altri aspetti di questa ricerca che mi coinvolgono: uno, il fatto che ogni verso sia concepito per essere idea; due, l’importanza che viene data alla interruzione del discorso, o agli intervalli, che nella poesia kitchen sono intenzionali, drastici e di unica misura.

(Lucio Mayoor Tosi)

Le antiche divinità si dissolsero nel mondo
che avevano creato. Giove tornò ad essere un pianeta.
Ci siamo addormentati. Prima faceva freddo.

Giocoliere. Acrobata. Se ti manca il respiro,
se piangi se ridi. Dove non c’è vento. Ciclamini.
Albini. Inchiostrini. Serravalle.

Zen d’avanguardia. Piloti senza cervello.
Black & Decker. Non fare tardi. Ci siamo sempre
amati. Con la A. Di stabile. Che invecchia.

Ermeneutica di una scrittura patafritta, o usufritta.

È profondamente errato asserire come fa Montale nella poesia sopra postata che «il vuoto non conduce». Invece il «vuoto» produce e conduce e, addirittura, può distruggere ciò che produce. Quello che Montale non riusciva a vedere, lo possiamo vedere noi oggi nitidamente. Esaminiamo i versi interrupti di Lucio Tosi:

Titoli di versi di un autore del recente passato (Le antiche divinità); titoli di canzoni di successo anni sessanta (se piangi se ridi); astruserie (Giove tornò ad essere un pianeta); controindicazioni (Zen d’avanguardia), pubblicità (Black & Decker); terminali si frasi (Che invecchia); Parole da canzonetta (Ci siamo sempre amati); rime prive si senso (Ciclamini. Albini); esortazioni del quotidiano (Non fare tardi); parole cadute dal cervello (Giocoliere. Acrobata)… il tutto frullato e messo nel congelatore. E poi tirato fuori con una spruzzata di Rum.
Un ermeneuta non ha niente da dire in proposito. E questo è propriamente il vuoto. Vuoto sottosopra. O soprasotto. Non rimane nulla di questa scrittura. La leggi e la dimentichi. È appunto questa l’intenzione dell’autore, penso. L’intenzione viene verificata e falsificata allo stesso tempo.

(Giorgio Linguaglossa)

Poesie di Antonio Sagredo

Alessandro andava a cavallo,
col piede sinistro batteva lo sperone
e cantava col ritmo del gallo,
ma attento se dal viso cadeva il cerone.

Attraversava lesto il sentiero
perché voleva sfuggire ad ogni sparo,
si sentiva un cavaliere fiero,
ma non vedeva l’ora di trovare un riparo.

Cadeva la pioggia e non aveva una voce
cercava fra i sassi una rosa senza una spina,
per cantare si turava il grosso naso.

Si riparò sotto un albero di noce
cercava nel bosco una ninfa di nome Gina
che indossava una gonna e un gilè di raso.

Addio a Praga

Non è più saturnino l’oro dei sobborghi,
ma trambusto e noia piombano il nero fiume.
Squame di suoni, balbettio di cristalli,
danze e canti sotto i fangosi ponti.

Sono spuntate le spade dei ricordi e degli odori:
io non sono più Io in questa città
struccata, non ho da spartire la sua sconfitta
e la sua artefatta maschera.

Giorgio Linguaglossa

Lucio Tosi mi scrive di una idea una collana di libri: “rosso fucsia, collana di critica kitchen, 30 pagine, formato tascabile, carta riciclatissima da allegare ai libri (libretti) di poesia. Ovviamente il critico parlerà di tutt’altro, quel che gli aggrada. Va da sé che se li pubblichi assieme, una ragione ci deve pur essere”. Idea eccellente. Di tanto in tanto, mi perdonerete se farò della critica kitchen in poetry. Così, mi è venuto in mente questo testo. Prova di irrealismo psicotico. Il volto scabroso della Cosa è quello dell’impermeabile.

Critica kitchen in versione poetica.

Più che di poesie, trattasi di pantografie del vuoto a perdere. Naturalmente l’ermeneutica è pura, anzi, purissima, e nera come liquirizia o come carbon cock e buona come un uovo alla coque. Il lettore legga bene se prima non abbia assunto del clopidogrel o dei sulfamidici.

Giorgio Linguaglossa

Prima di prendere il Fripass non vada nel Donbass.
Là ci piovono missili e droni e aviogetti.
Come va la bilirubinemia?
La prostatite?
Colon alterato?
Possibili effetti indesiderati?
Nulla quaestio.
Evitare Frigoriferi Indesit.
Ciclostilate il cilostazolo.
Se avvertite una o più ulcere attive allo stomaco,
siete in buona salute.
Il carcinoma cresce là dove l’erba è buona.
Il leone non mangia l’erba.
Conservi questo foglietto.
Non lo perda!
Potrebbe aver bisogno di leggerlo di nuovo.
Se incontrate il Signor Renzi, cambiate strada.
Se la strada è a senso unico,
siete nei guai.
Se nutre il lettore qualsiasi dubbio sulla autenticità di questa, si rivolga al Signor Linguaglossa che lo metterà sulla buona strada.
Altrimenti, se è allergico al cilostazolo,
c’è sempre il Signor Francesco Paolo Intini.
Se è a mal partito, si rivolga al medico.
Rileggere i testi dopo 50 anni dalla loro stesura.
Se avverte qualche affetto indesiderato, si rivolga al farmacista.
Se avverte uno stato di belligeranza rivolgersi al fascista.
Se sta bene prenda una tazza di tè.

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Sabino Caronia, “Tutta la vita davanti”, (anti)romanzo, Schena pp. 150 € 15, 2023 – Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, La narrativa metaletteraria di Sabino Caronia è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis-connessi, introvertita, citazionista, narrativa della crisi, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi

Sabino Caronia Tutta la vita davanti cover

Narrazione eminentemente metaletteraria questa di Sabino Caronia che assume il citazionismo e l’incastro delle citazioni quale strategia di oggettivazione del testo, un testo privo di plot e privo di «storia», con un “io” che divaga intervenendo di quando in quando quando il non-autore lo ritiene opportuno; testo che si affida alla citazione e alla auto citazione come ultimo salvagente della narrazione prima del tramonto definitivo della narrazione in tempi di post-moderno sospinto.
Come noto, il metaletterario non si accompagna mai a un genere preciso, ma usa un qualsiasi genere per i propri fini, spesso parodiandolo e truccandolo (ad esempio, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino). Tuttavia, si può sostenere, a ragion veduta, che il metaletterario oggi preferisca i generi narrativi con esclusione della poesia lirica e post-lirica nelle quali la scrittura è indirizzata all’urgenza della indagine introspettiva. Il metaletterario narrativo invece accudisce l’oggettività del testo, mira ad eleggere come sede privilegiata la narrativa di fantasia, è antirealistico e iperrealistico insieme; così avviene per paradosso che la narrativa realistica oggi sospinge la narrativa meta letteraria agli spazi limitrofi (prefazioni, postfazioni, le introduzioni originali), metà dentro e metà fuori dal testo, in ripostigli, nicchie, cantucci riservati alla «voce» diretta dell’autore e alle esigenze autoriali di dover spiegare le ragioni che lo hanno spinto ad una narrativa metaletteraria.
La probabilità di riscontrare il metaletterario nella narrativa è in rapporto direttamente proporzionale con il livello di travestimento (Einkleidung) e di seriosità del testo, ovvero, quanto più si riscontrino nel testo elementi che ne fanno un testo affetto da «secondarietà», non «originario», non «autentico», e l’autore si avverta come «postumo», «epigonico» «laterale». Il metaletterario nella narrativa si presenta così come una conseguenza diretta di una situazione storica che destina tutti gli scrittori consapevoli della crisi della autorialità alla condizione dell’epigonato.
Se la letteratura delle origini, infatti, ha necessariamente un carattere fondativo, e quindi strumentale alla fondazione di uno Stato, di un popolo (vedi i Promessi sposi), nella post-modernità la letteratura diventa sempre più smaliziata, (auto)critica, (auto)riflessiva, scettica, revulsiva, rivolge il proprio sguardo indagatore verso se stessa, pone la questione della propria legittimità, sente il dovere di dover giustificare la «mancanza» di una storia veritiera contenente un plot con dei personaggi positivi e/o negativi. Con l’eclisse del romanzo di formazione e di quello dis-formistico (vedi Il nome della rosa del 1980 di Umberto Eco), la narrativa contemporanea più avvertita pone se stessa sul tavolo autoptico, è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis/connessi, di ricordi come cicatrici, scrittura introvertita, ipoveritativa, citazionista, razionale e schizoide insieme (e forse); letteratura della crisi dunque, narrativa che oscilla tra un iper e un ipo, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi; una scrittura che ha rinunciato alle categorie tradizionali della linearità cronologica, dell’unità d’azione e del principio di causalità che erano alla base della narrativa della tradizione. Tutti elementi che si ritrovano in questo godibile anti o pseudo-romanzo di Sabino Caronia, che oscilla tra confusione e lucidità estrema, quasi che l’autore fosse stato colpito dalla sindrome otolitica* (di cui sembra essere affetta la premier Giorgia Meloni), cioè una «vertigine posizionale parossistica benigna» dicono gli otorini laringoiatri, il problema specifico degli otoliti i quali devono stare al buio e non riescono ad alzarsi dal letto. Sindrome che sembra attecchire l’homo sapiens quando dalla posizione orizzontale voglia raggiungere d’un colpo la posizione verticale. Questione di posizione verticale, dunque.

* Gli otoliti sono piccolissime concrezioni di ossalato di calcio inglobati in una matrice gelatinosa, contenuta nell’endolinfa dell’orecchio interno. Gli spostamenti degli otoliti, relativamente pesanti e che sono conseguenti a modificazioni della posizione della testa o ad accelerazioni lineari, possono provocare sensazioni statiche e di equilibrio. A volte possono staccarsi e viaggiare nei canali semicircolari, provocando una patologia vertiginosa, detta vertigine parossistica posizionale benigna, o cupololitiasi o canalolitiasi.

(Giorgio Linguaglossa)

Laboratorio 30 marzo Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa, 1918, Roma

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1

Il momento della verità. Regia di Francesco Rosi.

1965.
È una grigia giornata d’autunno.
Scorrono sullo schermo le immagini del film.
Nella Spagna di Franco, Miguel, giovane contadino andaluso, per sfuggire alla miseria, parte alla volta di Barcellona.
Lì, in un primo tempo, per mantenersi, trova lavoro come manovale, ma poi, insoddisfatto di quella vita e affascinato dalla corrida, riesce, dopo molti sforzi, a farsi notare da un famoso impresario e ad affermarsi come torero.
Il suo destino non sarà lieto.
Il momento della verità.
È stato Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio a rendere celebre quella espressione.
El momento de la verdad è il momento in cui il matador si appresta ad uccidere il toro.
Solo allora gli è concesso di guardare finalmente in
faccia il proprio destino.
C’è un punto preciso da tenere presente al momento di uccidere il toro.
Quel punto si chiama cruz.
«Cruz: la croce. Il punto in cui la linea della cima delle scapole del toro incrocia la spina dorsale. Il punto in cui la spada dovrebbe penetrare se il matador uccide alla perfezione. La cruz è anche l’incrocio del braccio che tiene la spada col braccio che regge la muleta abbassata quando il matador dà il colpo. Si dice che incrocia bene quando la sinistra manovra il panno in modo da muoverlo lentamente e bene, accentuando l’incrocio fatto con l’altro braccio e così liberandosi del toro mentre l’uomo segue la spada. Fernando Gomes, padre dei Gallos, pare sia stato il primo a notare che il torero che non incrocia in questo modo appartiene subito al diavolo. Un altro detto è quello che la prima volta che non si incrocia, significa il primo viaggio in ospedale».
Il momento della verità.
È il momento che ti passa davanti tutta la vita.
Prima o poi arriva per tutti.
Mi chiedo se forse non sia arrivato anche per me.
Gerusalemme.

Dalla terrazza dell’hotel Plaza guardo il campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione che
è posto proprio sulla cima del Monte degli Ulivi.
Poco distante è l’edicola ottagonale costruita come protezione della roccia su cui la tradizione ha creduto di riconoscere l’orma del piede destro di Gesù lasciata nel momento dell’ascesa al cielo.
Chi non ricorda il passo degli Atti degli Apostoli?
«Detto questo fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi
stavano guardando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due angeli in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo che lo avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato».
Quella cima verde di ulivi. Quella fuga verticale della collina.
Cosa ci insegna questo episodio della vita di Gesù?
Che non abbiamo qui la nostra casa. Che i luoghi e le persone di questa vita dobbiamo prepararci a lasciarli senza voltarci indietro. Che bisogna solo tendere decisi verso la vera patria.

È scritto:
«Chiunque guarda indietro mentre mette mano all’aratro è inadatto per il regno di Dio».
In Orfeo in paradiso  il protagonista, che non vuole rassegnarsi ad  accettare la morte della madre, deve
riconoscere alfine che è impossibile il recupero di quel passato dove tutto è accaduto ed è chiuso ormai
nella sua sorte già compiuta e inalterabile come in una peschiera:  «Quegli uomini 1898, in moto entro i
loro destini scontati, diventavano tranquilli oggetti di analisi: per loro tutto era fatto, e si poteva osservarli
senza tremare o sperare per loro. Solo Eva faceva eccezione: Eva, nella peschiera, era il pesce di cui gli interessava la voce».
Così scrive Luigi Santucci.
E così penso anch’io.
Gesù ascende al cielo.
Sembra di vederlo mentre naviga in quel felice silenzio, non avendo altro porto che il silenzio.

In L’infinito Giacomo Leopardi parla di «sovrumani silenzi» e di «infinito silenzio».
Padre Davide Maria Turoldo crede che per arrivare a Dio bisogna necessariamente attraversare il leopardiano deserto del negativo.
Scrive: «Di te s’infiamma questo cuore, / conchiglia ripiena della tua eco, / o infinito silenzio».
E nel suo commento ai Salmi dice chiaramente che oltre i «sovrumani silenzi» è l’«infinito silenzio» di
Dio.
Quale infinito ci salva?

Sono qui, di fronte al campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione.
Intanto scende la sera.
Ed ecco che mi decido ad andare via.
Quante volte nel tornare a casa, attraversando il giardino, mi sono fermato a sedere sulla mia solita
panchina!
Proprio come Max Brod.
Minuto, un po’ gobbo, faccia affilata, occhiali tondi, amava starsene seduto a lungo sulla sua prediletta panchina a respirare a pieni polmoni.
Nella sua casa di Tel Aviv, al numero 23 di Spinoza Street, erano conservati gli inediti di Kafka che ora
sono qui a Gerusalemme, alla Biblioteca Nazionale di Israele.
Un grandissimo piacere è stato per me poterli finalmente vedere.
Ecco le due pagine manoscritte per Il Castello.
Ecco il taccuino blu con gli esercizi di lingua ebraica che è firmato K.
In uno di quegli esercizi, affidatigli da Pua Ben Tuvim, è descritto in dettaglio, con lettere in stampatello, lo sciopero degli insegnanti di Gerusalemme nel 1922.
Dice: «Quegli insegnanti sono facili all’ira e difficili da accontentare».

Dunque scende la sera.
Prima è l’oro, l’oro che orla l’orizzonte, l’infiamma, è una striscia d’oro sempre più larga, come una corona reale posta sulla fronte della città, un vasto anello metallico, alla base, che diventa più morbido verso
l’alto, si sfuma, delicato, quasi fragile, come un merletto; poi quest’oro perde un istante il suo splendore,
diventa opaco, lancia violenti bagliori di rame e nel fondo, a poco a poco, si offusca e si spegne. Si direbbe che tutto sta per finire, come dopo una festa, ne restano solo dei residui, qualche striscia di nuvola, appena appena orlata d’oro. E invece improvvisamente tutto si riaccende e rivive. Ma ora, non è più oro che circonda l’orizzonte, e nemmeno rame: è una luce infinita che invade il cielo e anche la terra. Tutto diventa inconsistente, eterno. E questa luce resterà a lungo, la notte stessa ne sarà nutrita. Quando poi le stelle, come lanterne, verranno a prendere il loro posto nella volta del cielo, essa si fonderà con la volta del cielo negli strati insondabili e profondi.
Tutto è come nella celebre canzone di Naomi Shemer: «Gerusalemme d’oro, di rame e di luce…».

È scesa ormai la sera.
Anche la prima volta che sono giunto qui era di sera.
Shamai Street 12 c.
L’arrivo con lo sharut.
Il buio tutto intorno.
Sembrava come all’inizio de Il Castello: «Era tarda
sera quando K arrivò…».
Nel mondo di Kafka.
Se in America Kafka ha descritto l’America pur senza esserci mai stato, in Il Castello, almeno così io credo,
ha descritto Gerusalemme pur senza esserci mai stato.
Gerusalemme come Praga.
Ecco dunque: «Non era un vecchio maniero feudale, né un palazzo nuovo e sontuoso, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e molte case basse serrate l’una contro l’altra… una misera cittadina, una accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica, tranne quella di essere costruite in pietra… K. ricordò fugacemente il suo paese natale».
E ancora:

«… Vedeva davanti a sé il suo paese, e i ricordi che ne serbava gli si affollavano alla mente.
Anche là nella piazza principale c’era una chiesa, circondata in parte da un antico cimitero con un alto
muro di cinta. Pochissimi dei ragazzi del paese erano capaci di arrampicarsi su quel muro, e K non c’era
mai riuscito… Una mattina… era riuscito a salire con una facilità sorprendente… Quella vittoria gli aveva
dato l’impressione di una sicurezza che dovesse durare tutta la vita…».
La sua è un’attrazione fatale.
«Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?».
La stessa cosa è successa a me.

Quel viaggio era scritto da tempo nel mio destino.
Fin dall’infanzia avevo composto una tragedia intitolata Ponzio Pilato: «Quando le fosche tenebre /
guardie di tua persona…».
Era la ricerca del corpo di Cristo e insieme la ricerca della verità.
Considerando la questione della verità fin da allora mi interrogavo sul dialogo tra Pilato e Gesù.
Da un lato c’è Gesù che afferma «Io sono la verità».
Dall’altro c’è Pilato che chiede: «Che cos’è la verità?».
Pilato domanda.
Gesù non risponde.
Forse perché, come ha scritto sant’Agostino, la risposta era già nell’anagramma della domanda: «Est
vir qui adest».
Il cristiano, sappiamo, deve essere sempre dalla parte della verità.

Non a caso l’espressione cooperatores veritatis, tratta dalla terza lettera di san Giovanni, era il motto episcopale di Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI.
E in La moglie di Pilato di Gertrud von Le Fort al procuratore che domanda: «Un regno che non è di
questo mondo! Chi conosce un regno simile?» la moglie risponde: «Chi è dalla parte della verità».
Ponza terra d’esilio.
Il mito lega Pilato a Ponza.
Pilato e Ponza.
Quante volte a Terracina, in vista delle isole pontine, anche io, esule dalla vita, sono tornato a pormi l’eterna domanda di Pilato a Gesù!
«Che cos’è la verità?».
L’importante è credere che esiste comunque la verità.
Come Kafka che ha scritto: «Io sono molto ignorante, ma questo non significa che la verità non esista».
Del resto per lui la letteratura non era e non sarebbe stata sempre «una spedizione in cerca della verità?».
Forse Ponzio Pilato sono io.
Forse Ponzio Pilato siamo tutti noi.
E la sua è una domanda nella quale è in gioco il destino dell’intera umanità.

Giorgio Linguaglossa Aleph, Roma, 2017 Sabino Caronia

da sx: Giorgio Linguaglossa, Donatella Giancaspero, Franco Di Carlo e Sabino Caronia, 2017 Aleph, Roma

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2
Giù la testa. Regia di Sergio Leone. 1971.
La prima volta che ho visto quel film era al tempo del mio servizio militare a Siena.
Ripenso alla piazza del Campo sommersa dalla nebbia.
Ricordo l’ansia del dopo, il pensiero del prossimo matrimonio, gli interrogativi sul destino imminente. Rivedo nella memoria tutte le scene.
All’inizio c’è la citazione di Mao Tze Tung:

«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza».

Poi c’è Juan, il bandito messicano, che spiega a John, il rivoluzionario irlandese, cosa siano veramente le rivoluzioni: «Ci sono quelli che sanno leggere i libri, che vanno da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dicono: “È venuto il momento di cambiare tutto”. E la povera gente fa il cambiamento. Poi si siedono intorno a un tavolo e parlano e mangiano, parlano e mangiano. E intanto che cosa ne è stato della povera gente? Tutti morti. E lo sai cosa succede dopo? Niente. Tutto torna come prima».
Quindi c’è il gesto di John moribondo che restituisce a Juan la croce che quello si era strappata dal collo alla vista dei corpi dei figli uccisi, come a voler significare che la colpa della morte dei figli non è di Dio ma dello stesso Juan.
E infatti la colpa di Juan è di aver scelto la rivoluzione.
Lo dimostrano anche le ultime parole di John:
«Amico mio, che grossa fregatura che t’ho dato!»
È quello senza dubbio un momento memorabile.
Ma ciò che più rimane impresso è, alla conclusione della vicenda, il grido angosciato di Juan:
«E adesso io…?».

Come Juan dimostra col suo grido angosciato alla conclusione del film, ognuno di noi è alla ricerca del suo posto nel mondo.
William Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate scrive che la penna del poeta «dona all’aereo nulla un luogo e un nome».
Sembrano le parole del profeta Isaia: «Io darò loro nella mia casa e tra le mie mura, un monumento e un nome più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».
Un monumento e un nome.
Si chiama così, Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoà che è stato costruito sul versante occidentale del monte Herzl, il «Monte della Memoria» ovvero il «Monte del Ricordo».

Durante la mia visita ripensavo tra me alle parole del discorso tenuto in quel Mausoleo, l’11 maggio 16 2009, da papa Benedetto XVI: «“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”».
Questo passo, tratto dal Libro del profeta Isaia, offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato, yad -“memoriale”-, shem –“nome”-.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria di milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoà. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia sopravvissuti e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio onnipotente… Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo Memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome…
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei?».

Pensavo e osservavo il cono di fotografie che si alza verso la luce.
Eccolo davanti a me.
Le seicento foto si riflettono in un pozzo scavato in fondo alla roccia dove i volti sembrano improvvisamente dissolversi, ma questo effetto dura solo un attimo e basta alzare nuovamente lo sguardo per ritrovarli tutti, nitidi e incancellabili.
Ed ecco, con il cono di fotografie, il giardino dei Giusti. In un primo tempo c’erano gli alberi di carrubo, che fruttifica solo dopo settant’anni. Poi sono arrivati i muri con i nomi dei giusti. Tra i nomi riconosco quello del mio illustre consanguineo, il professor Giuseppe Caronia.
Ripeto le parole di Gesù:
«Tuttavia non rallegratevi perché gli spiriti vi sono soggetti; rallegratevi, piuttosto, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
La gioiosa aspettativa del genitore che attende la nascita di un figlio.
Ricordo bene la notte che mia figlia è nata.
Come potrei dimenticare l’ansia di quei momenti fatidici?
«Quale nome darò a questa figlia?» «Che ne sarà di lei?».
Ho riletto da poco Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati.
Era quello il racconto che quella notte avevo portato con me. Ho impresse ancora nella memoria le parole con cui inizia:

«È noto che il colonnello Sebastiano Procolo venne a stabilirsi in Valle di Fondo nella primavera del 1925. Lo zio Antonio Morro, morendo, gli aveva lasciato parte di una grandissima tenuta boschiva 18 a dieci chilometri dal paese. L’altra parte, molto più grande, era stata assegnata al figlio di un fratello morto dell’ufficiale: a Benvenuto Procolo, un ragazzo di dodici anni, orfano anche di madre, che viveva in un collegio privato non lontano da Fondo».

Ecco il reggimento che il colonnello Procolo, nell’imminenza della sua morte, vede sfilare nel bosco e che rimanda alla dimensione di eternità rappresentata dal susseguirsi delle generazioni:

«Egli guardava verso il fondo della valletta, donde si avanzava celermente una massa scura. Erano centinaia di uomini in ordinatissime file che marciavano a ritmo, con passi svelti e decisi, come se non procedessero sulla neve, ma sopra una bella strada fatta a regola d’arte… Il suo reggimento avanzava in meraviglioso ordine nonostante le accidentalità del terreno, la neve e la forte salita. Già egli distingueva le baionette scintillanti alla luce di luna e riconosceva, data la ferrea memoria, i soldati uno per uno… Con andamento trionfale, la magnifica schiera salì fino al colmo della valletta e s’internò senza rallentamenti tra gli abeti del Bosco Vecchio. Però i soldati continuarono a sfilare per lungo tempo.
Il Procolo stesso si meravigliò dapprima che il suo reggimento avesse assunto così formidabili proporzioni. Comunque ne trasse motivo di compiacimento. A un certo punto le baionette non scintillarono più perché era tramontata la luna.
La neve divenne livida.
I soldati apparvero neri, non si poteva più riconoscerli.
Ad oriente si poté distinguere qualcosa come una nuova debole luce.
Le stelle cominciavano a impallidire quando la sfilata cessò, e l’ultimo plotone fu inghiottito dalla foresta. La voce dei venti si spense, le bestie si ritirarono nelle tane e nei nidi, stanche morte per la notte bianca. Tutto restò silenzioso e tranquillo, aspettando che si levasse il sole».
Ecco, già prima, il dramma del tempo che scorre e della morte che avanza con lui:

«Egli sentì tutt’intorno il greve silenzio della vecchia casa, carico di enigmatiche risonanze, lasciò passare adagio il tempo, il tempo meraviglioso che s’ingrandisce d’ora in ora, inghiottendo senza pausa la vita, e accumula con pazienza gli anni, diventando sempre più immenso».

Ecco infine le parole di congedo che il vecchio vento Matteo rivolge a Benvenuto alla conclusione della vicenda:

«Tu domani sarai molto più forte, domani comincerà per te una nuova vita, ma non capirai più molte cose: non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti. Anche se io rimanessi, non potresti, di quello che dico, intendere più una parola. Udresti sì la mia voce, ma ti sembrerebbe un insignificante fruscio, rideresti anzi di queste cose. No, forse è meglio così, che ci separiamo al punto giusto».
Quanto tempo è passato da quel lontano pomeriggio di inverno a Siena in cui ho visto per la prima volta Giù la testa? Come allora mi interrogavo, così ancora mi interrogo.
«E adesso io…?».

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Questo duetto ci parla di qualche cosa che è il nulla, che è una gran cosa, e il miglior modo per dire qualcosa intorno ad esso è perorare una ermeneutica del nulla di che. Nel nulla si aprono gli spazi e gli abissi del niente, Tre componimenti di Giorgio Linguaglossa e Francesco Paolo Intini, “La notte è la tomba di dio” e “Rilevo da una stazione in orbita attorno a Urano”, La curiosity per l’abisso, gli abissi, il senso di panico, l’attrazione quasi erotica per la vertigine fine a se stessa etc. Tutto questo è ilinx

Gif Bergman Persona

gif, da un fotogramma di un film di Bergman

Giorgio Linguaglossa

La notte è la tomba di dio

“La notte è la tomba di dio e il giorno la cicatrice del dolore”.
V’erano scritte queste parole in alto, sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne:
“Benvenuto nella galleria del dolore!”
Fu così che mi decisi. Ed entrai.

Un gendarme apre quella porta.
Ci sono tre vascelli con le vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili.
Anche il mare crestato è immobile.
Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni-millimetri.

Un altro gendarme apre la seconda porta a destra.
C’è una colluttazione di ombre che entrano dentro altre ombre e ne escono.
Lottano furiosamente.

“Farsesca costipazione di ombre”, penso con tristezza.
Attraverso come a nuoto la stanza.
Apro una finestra.

C’è una statua bianca nella piazza deserta
portici risucchiati dal vuoto
pontili su un mare di basalto
città di cristallo.

A tentoni nel buio apro un’altra finestra.

C’è una torre in un cortile deserto.
Puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto.
Il lucore fosforescente di una luna gialla posata sulla toga di un imperatore triste.

Apro una terza finestra.
C’è un calendario dal quale cadono i fogli, un orologio, una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome e la mia data di nascita
Una scrittura annerita che gratto con l’unghia.
“Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra”, c’è scritto.

L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba.
Anche la rugiada profuma di tomba.
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.

(2013-2018)

Francesco Paolo Intini

Caro Germanico

Rilevo da una stazione in orbita attorno a Urano questa tua.

Non so in quale epoca sia stata scritta né quando sia giunta o chi l’abbia fatta recapitare ma i ragazzi che imparano l’alfabeto galattico già mentre succhiano il buon latte metallico ci avevano ricamato sopra alcuni graffiti del tutto immotivati e persino derisori.

Innanzitutto com’è facile intuire, per loro che non hanno mai vissuto un’alba, né assaggiato l’odore della terra fresca di rugiada non sanno la differenza tra giorno e notte.

Quel tuo titolo dunque è già senza significato.

È evidente infatti che qui Dio non è mai morto e vive invece ed è potente assai e tra Lui e il pilota dell’universo non c’è alcuna differenza.

Quale tomba infatti si può immaginare dietro al bagliore di una supernova che quando viene sorpresa in una zona remota, tutti si festeggia, per il carico di elementi fraterni che presto o tardi arriveranno come dono del suo ventre fertile?

Quali lapidi possono segnare il limite della luce che corre dentro al nulla?

Ma tu dici che queste parole erano scritte in alto sopra la prima porta a destra a indicare la via del dolore.

Nemmeno questo e quello che segue è tanto chiaro.
Da lungo tempo è scomparso dal linguaggio. Chip e meccanismi difettosi non creano alcun tipo di sofferenza poichè tutti sono facilmente e felicemente sostituibili.

Difficile far capire a un popolo di ragazzi virtuosi, felici e quasi immortali che malattie, discordie e guerre dilaniavano i loro ascendenti terrestri.

È bastato trovare l’equazione virtuosa per mettere tutti d’accordo e liberarsi di soldati e gendarmi e malfattori.

Il dettaglio dei tre velieri sospesi in un mare crestato di ambra però ha un certo valore e rende bene la fatica dei Colombo e umani nella lotta contro l’ignoto.

In quel vento spira la stesso soffio che permette di guardarci e sorridere e cooperare anche attorno al pianeta che rotola tra gli altri.

Un punto a tuo favore che ho dovuto far capire ai giovanotti con la matita virtuale all’orecchio, pronti a far di conto anche sulle galassie più estreme ma non a capire che c’è stata una storia prima di raggiungere l’equilibrio definitivo.

Cosa ne venga fuori da questa, è un retaggio dei mie cento e oltre che mi pare giusto criticare per le finestre che si aprono su tre mondi siderei, vicini al freddo estremo del silenzio.

È l’olfatto di un cane da tartufi che guida il mio istinto.
Di cosa si tratti, non so di preciso ma nella nebbia del bianco e nero mi pare di scorgere quella torre e quella statua bianca disputare se il calendario su cui è appuntato il tuo nome effettivamente sia un segnatempo.

Quale, se anche della storia vediamo le vestigia in ambra, sostituita da semplici segmenti?

Sulle stazioni orbitanti c’è chiara consapevolezza che gli elementi siano tutti uguali e dunque non si debba parlare di una molecola particolare come della più eccelsa e unica nel suo genere per aver dato origine alla vita.

Ci sono infatti metalli che fanno altrettanto, senza generare istinti sanguinari, privi completamente di idee di potenza e sentimenti ma obbedienti solamente alle leggi della cooperazione universale.

La cicatrice che tu scorgi, anch’io la vedo e ammiro lo splendore del riflesso prima di metterci piede, ma in essa pullula l’irrisolto, il mistero che condusse la molecola dell’uomo e delle forme simili alla disfatta finale e in modi indegni della più semplice operazione matematica.

I ragazzi ne cercano pazientemente la causa, rovistano tra le sue rovine e gli altri elementi che si sono infiltrati dentro o che il sesto elemento ha voluto con sé per le sue architravi fatiscenti.

Oh si grandi opere ha prodotto e noi stessi che ne siamo gli ultimi assemblaggi, sebbene in mille modi abbiamo accettato modifiche, potemmo ammirare l’immensa versatilità nel compiersi delle arti e dell’ industria, la bellezza e il trionfo sull’ignoranza e la superstizione.

Ciò non toglie che tanta sua aggressività nei confronti dei fratelli, unita alla volontà di assoggettarne le virtù si sia trasmessa alla sua opera umana e infine risolta in una rivolta di Catilina contro la Repubblica di Roma col risultato che tu mi racconti:

La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi e l’angelo della nebbia non può che piangerci sopra, impotente ancora una volta a farla brillare tra le altre stelle.

tuo affezionato

(Gneo Gaius Fabius) Continua a leggere

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Poesie di Stefano Torre, Il cercatore d’infinito, TRRSFN VENTIVENTITRE, opere a-figurative di Lucio Mayoor Tosi: frammento con rosso, composizione in acrilico 2020, e Marie Laure Colasson, la macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023, Osserviamo attentamente il quadro. Ecco che emerge una “macchia”, sul pavimento, all’angolo tra due pareti. Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona macchiata corrisponde allo spazio del non dicibile, che non può essere detto o che non può più essere detto perché caduto sotto il giogo della rimozione

La macchia gialla su verde, 20x20, acrilico 2023

Marie Laure Colasson, la macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023

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Osserviamo attentamente il quadro. Ecco che emerge una “macchia”, sul pavimento, all’angolo tra due pareti. Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona macchiata corrisponde allo spazio del non dicibile, ad un irriducibile che non può essere detto, che non può più essere detto perché caduto sotto il giogo della rimozione o perché è sfumato via sotto guisa di abreazione. Il punto/centro geometrale cartesiano è perduto perché abbiamo scoperto il valore del punto cieco grazie al quale vediamo. Vediamo grazie al punto cieco. Quello che emerge è iluogo dell’indicibile, di una angoscia dis-topica o di una felicità dis-topica che non può essere raffigurata se non da una macchia gialla dis-topica anch’essa, appunto il colore del pericolo. Quello è il luogo dove la «nuova poesia» e la «nuova figuralità» possono pescare-incontrare il linguaggio più appropriato, o forse sarebbe più esatto dire il linguaggio meno appropriato, quello che è stato dis-propriato dalla «nuova poesia» e dalla «nuova figuralità» che operano con una metodologia espropriante ed espropriativa. Ma cosa sia «appropriato» lo può decidere soltanto l’Altro, l’interlocutore, il pubblico, il lettore che sta all’esterno del quadro, colui che osserva la macchia gialla, non certo l’autore in quanto l’autore è diventato la presenza assente che si è dileguata, che non può più pesare e pensare le parole e le forme ma le «incontra», non può più pesare e pensare i colori e le loro macchie perché li «incontra», perché sia i colori che le parole e le macchie sono dinventati invisibili, ovvero, sono usciti fuori dal circolo della visibilità.

La definizione lacaniana dell’arte come «organizzazione del vuoto» è particolarmente idonea ad intendere questi nuovissimi “lavori” di Marie Laure Colasson e ci sollecita a riconsiderare la poiesis in modo diverso da come in anni anche recenti la si intendeva come retorica dell’inconscio. Il vuoto, che è la puntualizzazione dei “lavori” della Colasson, non è deducibile esclusivamente dalla dimensione semantica del linguaggio, il «vuoto» tende a debordare in «macchia». Ovvero, l’opera di poiesis è una organizzazione testuale, dotata di una propria densità semantica, che non dipende da un’organizzazione di significanti, ma da una organizzazione preposta ad un’alterità radicale, extrasignificante. La rappresentazione figurativa e poietica non è riducibile al funzionamento dell’inconscio, non è riducibile esclusivamente alla struttura del Significante/significato, e proprio questa irriducibilità la costituisce come luogo (vuoto) di scaturigine di ogni possibile rappresentazione.
Nella tesi lacaniana dell’arte come «organizzazione del vuoto», l’opera di poiesis definisce i bordi di una nuova percettibilità della coscienza, una percettibilità che esibisce una estraneità, una chiusura e ad una saldatura del «vuoto». Così, L’opera di poiesis, per la Colasson indica una esperienza che non evita né ottura, ma costeggia e borda il vuoto centrale della «Cosa», non significante né significantizzabile.

(giorgio linguaglossa)

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Stefano Torre

Il cercatore d’infinito

TRRSFN VENTIVENTITRE

Ed egli disse loro:

«Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

(Matteo 13, 52)

IL DODICESIMO

il dodicesimo era un traditore
della peggiore fatta del demonio
senza pudore e senza tema alcuna
baciò il Cristo per darlo in pasto ai cani

finì per impiccarsi ad un albero
dal quale penzola ancora a primavera
come un pupazzo di paglia malvestito
con la testa troppo grande e senza i piedi

e pare il pendolo di un orologio
che misura un tempo fuori scala
ed è oltre la montagna ed il mare
ove abita lo spirito di Dio

E BON!

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LA BATTAGLIA

vedo levarsi oltre il colle la guerra
stendardi e bagliori e tuoni scarlatti
ed ali spennate di angelo in volo
cadere giù per fracassarsi a terra

come galline di coccio in mille pezzi
e i pipistrelli a fare giravolte
nel fuoco di torbido cielo al napalm
cavar dalla gola urla non umane

ho visto il cuore gonfiarsi e dolere
fino a spaccarsi in due per sputare
la luce che ha dentro in faccia al nemico
come acido per sfigurarne il volto

E BON!

.

LA VENDETTA

gridai con quanto avevo nei polmoni
la sete rabbiosa di vendetta
ma avevo acqua putrida nella gola
che uscì fuori fetida come vomito

e così rovinai il vestito buono
e la cravatta di seta regalo
degli amici per i miei cinquant’anni
e mille occhi mi stavano guardando

riparai poi in un bagno alla stazione
a togliermi di dosso quell’odore
che ti entra nel cuore come un veleno
per farlo nero come questa notte

E BON!

.

LA RANA DI VELLUTO

sul davanzale d’arenaria gialla
la rana verde di velluto a coste
fatta con gli stracci dei pantaloni
buoni che portava mio padre

bruciava dal di dentro e si innalzava
come una palla piena di aria calda
ed era gonfia con la faccia stolta
di chi spende tempo a pedinar morte

esplose senza far rumore in aria
nel mezzo del cortile sparpagliando
ricordi bruciacchiati in pezzettini
come ritagli di giornale e fumo

E Bon!

.

IL CERCATORE D’INFINITO

c’era una volta un cercatore d’oro
che muoveva montagne e setacciava
tutti i fiumi che scendono dalle alpi
e ne trovava tanto che era ricco

finché un dì gli parve di vedere
l’infinito riflettersi nell’acqua
e si mise a cercar soltanto quello
ché niente di più prezioso esisteva

vendette tutto quello che aveva
e s’immerse nel profondo della notte
per dare un nome ad ogni stella in cielo
e cercar quel che mai può possedere

E Bon!

.

L’ASSUNTA

dentro al foro nel terreno nel quale
scompare la cascata che viene giù
dalle cime innevate anche d’estate
gorgoglia il mistero come una stufa

che può contenere tutte le stelle
rubandole al cielo per farlo nero
e ingoia la speranza come un gatto
che lascia i segni delle unghiate sulla

schiena di una strega ch’è legata alla
catasta di legna secca e che piange
turbata dalle miserie del mondo
e dal suo ventre colmo di Dio

E Bon!

.

L’OMBRA

e l’ombra proiettata sull’asfalto
si staccò da terra e si alzò in piedi
era nera e vacua come il rimorso
d’aver ucciso i topi nel solaio

ma eran bestie vestite di stracci
razziatori di frumento affamati
con mogli e figli denutriti a casa
e il gelo che sfondava le finestre

poi l’ombra svanì come una brezza
lasciando l’aria amara da respirare
perché non c’è via verso il perdono
se non passare per un cuore affranto

E Bon!

.

L’APOCALISSE

molto tempo fa incontrai un vecchio calvo
che stava mangiando bistecche di rana
pane di farina di cavallette
e nel bicchiere aveva sangue di bue

tutti comperati con la mastercard
al supermarket di via Calciati
in fronte ad ove si fanno scommesse
sopra il giorno della propria morte

si chiamava Giovanni e diceva
l’apocalisse è vicina come
la cassa per pagare la spesa
inesorabile destino d’ogni uomo

E Bon!

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LA CHIAVE

era vestito come maggiordomo
di nero col panciotto e la cravatta
ed aveva le chiavi del palazzo
pesanti come un masso nella tasca

il padrone di casa era severo
lento all’ira e facile al perdono
come chi sa cosa vuol dire amare
e lo fa senza fronzoli perversi

al servo suo regalò il martirio
ed il sentirsi davvero innamorato
mentre percorreva la stessa via
già calpestata dal Figlio dell’uomo

E Bon!

.

LA PIENA

ho visto l’onda d’acqua della piena
quando ancora era molto lontana
e la ho aspettata senza fare nulla
stando in piedi sulla riva del fiume

come il manichino d’un vecchio postino
col berretto schiacciato sulla testa
e lo sguardo stupito del veggente
ben consapevole della mia sorte

e poi è arrivata e mi ha travolto
mi ha trascinato giù nei gorghi così
come le Moire avean stabilito
per scoprire che m’ero fatto pesce

E Bon!

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L’EPILOGO

non è scontata la vittoria dei buoni
all’epilogo di questa storia
in un tripudio di osanna dei santi
con fuochi d’artificio e bandiere al vento

il molosso è infine caduto
nelle fiamme del forno di Babele
senza togliere robustezza al Maligno
nell’orrido della sua malvagità

ma il nulla che avanza inesorabile
come un mantello sopra il Santo di Dio
par fermarsi davanti alla sua croce
mentre il cuore è prossimo all’infarto

e Bon!

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021
Lucio Mayoor Tosi, frammento con rosso, acrilico, 2021

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Stefano Torre è nato a Piacenza l’8 febbraio del 1965, poeta Realista Terminale, Astrofilo, Ex candidato Sindaco surreale, Soggetto clinicamente Distonico, in gioventù è stato campione di Subbuteo. Negli anni ’90 del secolo scorso ha introdotto in Italia l’argomento dell’inquinamento luminoso sulle pagine della rivista COELUM per la quale era redattore di una rubrica fissa. È docente di Web Design e comunicazione alla Accademia di belle arti Santa Giulia di Brescia e conduce una piccola azienda di web marketing della quale è amministratore. È membro del direttivo del Piccolo Museo della poesia di Piacenza. Nel 2023 un suo poema dal titolo: “L’ultima Preghiera” è stato insignito del premio speciale della giuria al concorso SAENAGALACTICA riservato alla letteratura fantascientifica.
Ha pubblicato le raccolte: Marinai e Poeti Sono Tutti Morti (1994), l’uovo di Lusurasco (1995) e Il Cristallino di Piombo (2020). Ha partecipato a numerose antologie e sue poesie sono state pubblicate da riviste italiane e straniere. Nel ’17 si è candidato Sindaco di Piacenza, con un programma elettorale basato sulla presa in giro della politica. Tra le sue stravaganti promesse, citiamo, fra tutte, quella del vulcano, ma anche il vinodotto per portare il vino nelle case, l’abolizione della morte con decreto sindacale e la dichiarazione di guerra alla vicina Parma, colpevole di aver rubato il formaggio piacentino ed avergli cambiato nome in parmigiano.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023 nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.Nel dicembre del 2023 pubblica il libro di poesia Mi sorrido Gratis. E altre anomalie.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Archiviato in poesia italiana, poesia italiana contemporanea

Introduzione di Magda Vigilante al volume: Arturo Onofri, Nell’Inferno, PandiLettere Edizioni, 2021 pp. 72 € 10 – Una ermeneutica attraverso la sua narrativa

Arturo Onofri
Arturo Onofri è conosciuto soprattutto come poeta1, ma nella sua breve vita (Roma 1885-1928) scrisse volumi di carattere teorico2, critico letterario3, musicologico4 e numerosi racconti e prose composti in giovane età. Alcuni racconti furono editi su giornali dell’epoca, ma molti, rimasti inediti, sono conservati nell’archivio Arturo Onofri depositato presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Purtroppo la maggior parte di questi testi non è datata e quindi è difficile collocarli con esattezza nel percorso creativo dell’autore. Tuttavia dei tre racconti scelti5 i primi due sono datati 1907, e l’ultimo 1910. Risalgono quindi a una fase molto giovanile dell’autore e presentano un impianto di tipo tradizionale, ma i toni carichi di pathos e le immagini simboliche, l’ardito analogismo, presenti soprattutto nel terzo racconto, dal significativo titolo Nell’Inferno 6, appartengono a pieno titolo ai movimenti del Decadentismo e del Simbolismo che, alla fine dell’Ottocento, si opposero al Naturalismo e al Verismo dominanti. In seguito Onofri aderirà al Frammentismo Vociano componendo brevi prose liriche7 le quali evidenziano quanto egli sostiene in un articolo edito su “Lirica”, la rivista fondata da lui stesso nel 1912, dove scrive che «tra poesia e prosa non esistono separazioni decise» 5 dal momento che «debbono la loro effettuazione alle medesime facoltà espressive e anzi, alla stessa disposizione linguistica, musicale, stilistica ecc. la quale può variare indefinitamente per sfumature innumerevoli8 ». Inoltre, la concisa essenzialità del “frammento” riproduce in modo immediato nella scrittura le sensazioni che l’autore prova di fronte alla realtà circostante.

Il 1907, anno di composizione dei primi due racconti, occupa una posizione particolare nella vita di Onofri. Nel suo Abbozzo di una autobiografia dove egli applica una scansione settenaria degli anni sulla base degli insegnamenti dell’antroposofia steineriana alla quale aveva aderito, il 1907 è inserito nel IV settennio che va dal 1906 al 1912, ed è sottolineato due volte10. Nelle didascalie sotto la tabella degli anni, accanto al simbolo della doppia sottolineatura, si legge che l’anno 1907 appartiene agli anni definiti «creativo-laboriosi». In effetti in quest’anno Onofri pubblicò la sua opera prima, la raccolta di poesie Liriche dove trovarono compiuta sistemazione le poesie composte negli anni precedenti, ma nello stesso anno, egli si dedica anche alla composizione di prose, come si rileva dal primo racconto intitolato Il pollice esercitato, un vero e proprio divertissement che manifesta una componente ironica, destinata a scomparire quasi del tutto nella successiva produzione letteraria onofriana. Le idee a cui si riferisce il racconto non appartengono affatto al mondo iperuranio di Platone, ma sono delle dispettose piccole streghe che sembrano uscite da una favola. Il tono fiabesco perdurerà in alcuni testi successivi come, a dieci anni di distanza, nella prosa lirica Silfo12 dove compaiono lo spiritello dell’aria e la sua compagna, la silfide, che compiono giocosi vagabondaggi sulla terra. Tuttavia i due genietti, al pari delle minuscole streghe, sono considerati malefici nella mitologia germanica a cui appartengono. Persino nella tarda fase della produzione onofriana, nel 1925, una delle prose13, senza titolo, ma facente parte di una eterogenea raccolta denominata dall’autore Temi e non poemi14, sembra il proseguimento di Silfo. Stavolta però le creature fantastiche non suscitano più l’antica magia. «L’arcobaleno di ieri» si è lacerato in «mille fettucce» e la leggiadra silfide non seduce più lo gnomo. Il poeta non può ricreare quel mondo perduto, anche se riporta alla luce «la piccola figlia dell’aria». Deve ormai constatare che la mitica giovinezza è per sempre perduta. Con l’arrivo della maturità, egli si dedicherà alla ricerca di un’altra realtà, non effimera, ma spirituale, che si manifesterà nel ciclo lirico della Terrestrità del sole.

Tornando all’analisi del racconto, l’autore specifica che il vocabolo «idea» è usato dagli altri, mentre egli le considera piccoli esseri capricciosi che dovrebbero presiedere alla creazione artistica. L’artista tuttavia non può modellare la materia della sua opera se non esercitandosi assiduamente. È singolare che Onofri, il quale utilizzava le parole per comporre versi e prose, prenda in prestito per indicare in generale il lavoro artistico immagini tratte dalla scultura. L’esercizio necessario per la creazione è quindi metaforicamente compiuto dalle mani, in particolare dal «pollice esercitato», e non dal pensiero astratto. La materia su cui deve agire l’artista è la «creta», non ancora sufficientemente molle per essere lavorata. Anche Il sottotitolo del racconto (Sinfonia in minore) rinvia all’uso sapiente delle mani compiuto stavolta dal musicista. L’operazione rivela anche un riferimento biblico, a quando nel libro della Genesi «Il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vento; così l’uomo divenne un essere vivente15»

Del resto anche Gesù compie alcuni miracoli utilizzando la terra come nell’episodio del cieco nato16 al quale egli applica sugli occhi del fango mescolato alla saliva e gli comanda di andarsi a lavare nella piscina di Siloe dove l’uomo riacquista la vista. Sia la creazione dell’uomo, sia il dono della vista al cieco nato presuppongono un materiale terreno: la polvere nel primo caso, il fango nel secondo. La terra quindi è l’elemento base da cui prende origine la vita umana che non sarà però solo materiale, ma anche spirituale dal momento che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ugualmente la terra manipolata da Gesù diviene la luce del dono della vista per il cieco. In entrambi i casi il soffio vitale della creazione o il risanamento procedono dalla terra alla quale viene impressa l’orma divina.

Anche l’artista dovrà allora lavorare la “materia” della sua arte per farla divenire un’opera artistica riconosciuta come tale. Questa impresa mette a dura prova le sue capacità che non possono ottenere nulla se la materia non si lascia plasmare. Le piccole streghe, che rappresentano l’ispirazione, si divertono a fornire una modesta quantità di materia all’artista, illudendolo di poterla liberamente modellare. Le forze però non gli bastano, il futuro oggetto del suo lavoro è ancora troppo vasto per essere rinchiuso nel poco materiale a disposizione. Tuttavia l’artista, preso da rabbia, imprigiona i piccoli esseri dispettosi proprio nel materiale che deve lavorare. Allora essi cominciano a lamentarsi e a piangere ammorbidendolo. Così l’artista può compiere il suo lavoro a cui dedica le sue energie e liberare le “idee”. La materia cede, ma l’ispirazione che l’aveva permeata, fugge. A questo punto, però, con lei scompare anche il senso e lo scopo di quanto viene modellato. L’artista quindi non può fare a meno dell’ispirazione che, sola, può giustificare la creazione. Senza le piccole streghe, la creta divenuta molle non si trasforma più in un’opera significativa e rivelatrice dello spirito che abita l’uomo. Egli allora per creare l’opera deve trovare un difficile equilibrio tra un costante esercizio e la capricciosa ispirazione, che tende a sparire, ma senza la quale non si raggiunge lo scopo del lavoro che si compie. 12 13 Il successivo racconto I due, è centrato sul tema del “doppio” che ricorre, sotto le sembianze del gemello, del sosia, dell’alter ego nella letteratura fin dall’antichità classica, ma nell’immaginario collettivo è associato soprattutto al romanzo Lo strano caso del dottor Jekill e del signore Hyde di R. L. Stevenson17. Il “doppio” di Onofri non ha il carattere tragico dell’opera di Stevenson dove il dissidio interiore tra due aspetti diversi della personalità, rappresentati da due personaggi distinti, conduce alla catastrofe finale. Il racconto onofriano sembra, invece, avere in comune con il romanzo Kreisleriana: dolori musicali del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler di Hoffmann18 l’insofferenza verso la banale quotidianità borghese a cui l’autore tedesco oppone la vita eccezionale dell’artista, nella fattispecie quella del bizzarro musicista Giovanni Kreisler, alter ego dello stesso Hoffmann, mentre Onofri si sofferma in particolare nella critica alle convenzioni sociali imposte all’individuo, il quale subisce la costrizione di dover rivestire un ruolo, soffocando così il proprio vero io19. Egli assai presto provò fastidio verso istituzioni e riti sociali come rivelano alcuni appunti che risalgono, come è scritto dall’autore stesso, al periodo «(1899-1906) Dai 14 ai 21 anni»:

Senso di sollievo a uscir fuori finalmente dalla caserma. Spettacolo sempre doloroso della vita irreggimentata (come collegio, prima comunione, scuola ecc.). In precedenza Onofri aveva spiegato come sorpresi dalla pioggia, durante una battuta di caccia, lui e il padre si erano riparati in una caserma di carabinieri dove erano stati accolti con molta gentilezza. Quando era uscito dalla caserma, Onofri però aveva provato la sensazione descritta20

ARTURO+ONOFRI+-+NELL'INFERNO I Due reca la data «27/8/1907», anno nel quale Onofri ancora non conosceva il futuro poeta Giorgio Vigolo21, ma per una curiosa coincidenza pure il personaggio del suo racconto si chiama Giorgio e condivide con Vigolo l’insopprimibile desiderio di non volere aderire al modello di vita borghese, che pervaderà molti anni dopo il lungo racconto vigoliano Autobiografia immaginaria22 dove il protagonista, che è anche l’io narrante, vive con intensa drammaticità il contrasto tra una vita borghese e l’esistenza libera dell’artista. Invece il racconto onofriano è breve e inizia con un incontro definito dal narratore come «uno di quei fenomeni telepatici rimasti inesplicabili». Costui ha un caro amico di nome Giorgio che trascorre la maggior parte dell’anno in campagna e quindi è molto difficile incontrarlo in città. Ma ecco che, passando il narratore «per una via angusta e buia» della città, gli compare davanti l’amico a cui stava pensando proprio in quel momento. Fin dall’inizio quindi l’incontro non è casuale e ha un significato che si scoprirà durante la narrazione.

C’è infatti qualcosa di misterioso nell’amico che, apparentemente, ha il suo solito aspetto di uomo elegante e benvestito, che ha cura di sé, eppure egli appare come diminuito e diverso: «gli occhi sono spenti», la voce è particolarmente bassa e, nell’insieme, egli sembra trasognato e non presente a se stesso. Ma una voce vibrante di misteriosa provenienza afferma in modo sibillino: «Egli è me». Allarmato, il narratore si accorge allora che, accanto al suo amico, c’è «un’ombra di uomo». Quest’ombra in modo paradossale, pur ricordandolo, ha un aspetto molto più vitale del suo proprietario, il quale rivelerà all’amico esterrefatto, che è lei il vero Giorgio.

L’altro Giorgio, quello che crede di conoscere e con il quale sta parlando, non è che il suo essere “sociale” sottomesso a tutte le regole costrittive della società che annullano la personalità, rendendola conforme alla massa obbediente. Si evidenzia inoltre il contrasto tra natura (l’amico ha scelto di vivere in campagna) e città per il quale la seconda è la sede degli uomini automi, mentre a contatto con la natura l’uomo recupera il proprio essere naturale. In un appunto risalente al 191123, a proposito della vita cittadina, Onofri confessa:

«A Fiumicino con Fracchia febbraio 1911 ricerca della solitudine e della vastità. […] Sento tutto il malessere segreto al pensiero della città moderna in travaglio: solo la musica era un aiuto a liberarsi. Barlume della libertà suprema dell’anima seguire Iddio, essere Io (individuale)».

Sono già presenti in lui l’anelito dell’anima verso l’infinito e la volontà di esperire la sua vera essenza che lo condurranno in seguito a riconoscere nella antroposofia steineriana la direzione da seguire nella sua ricerca spirituale. Ora egli si limita a fuggire con un amico dalla città rumorosa e dalla sua folla febbrile in un volontario esilio.

Ancora 10 anni più tardi, la prosa lirica Senz’alba24 descrive una scena apocalittica dove il sole non sorge più a illuminare e riscaldare un paesaggio naturale degradato e l’umanità «ridotta a formicai di nani», «nelle metropoli di cemento illuminate a giorno», è costretta «al lavoro forzato di produrre un po’ di sole ora per ora». È significativo che Onofri per rappresentare tale catastrofe ambientale e umana non ricorra a stilemi naturalistici o veristi, ma proponga una visione fantastica e simbolica dove il sole scomparso può rappresentare l’eclissi dello Spirito, in un mondo desacralizzato25.

Nel racconto il falso Giorgio appare una specie di manichino elegantissimo, ma spento e senza vita, mentre il vero Giorgio presenta nell’abbigliamento non particolarmente curato, nei capelli scomposti e nel grande fascio di fiori silvestri che stringe al petto, la libera gioia di chi vive la sua autentica essenza. Al di là della facile e quasi ingenua rappresentazione dell’uno e dell’altro Giorgio, si manifesta quindi la misera condizione degli abitanti della città che nascondono sotto un aspetto esteriore accurato, la rigida fissità di automi. Alla richiesta dell’amico se tutti gli uomini abbiano, sebbene in modo inconsapevole, un essere autentico in sé, che li segue come ombra, il vero Giorgio afferma risolutamente che solo alcuni però si accorgono di questa presenza. Alla fine del racconto, il narratore scopre anche lui di avere l’ombra in cui si identifica la sua vera essenza, e si dispone a seguirla.

È interessante notare come Onofri ribalti il significato negativo che più tardi assumerà l’ombra nella psicoanalisi junghiana dove simboleggia le parti rimosse della personalità perché non confacenti all’educazione ricevuta in famiglia e nella società. Anche nella fiaba L’ombra26 di H.C. Andersen, che di solito non figura nelle edizioni per bambini, questa è una minacciosa presenza che a poco, a poco, si sostituisce al proprietario, rendendolo suo schiavo. È l’ombra infatti che, spacciandosi per l’essere umano, conquista la fama e il successo nella società, e giunge fino a diventare lo sposo della figlia del re. Invano l’uomo vuole smascherarla e farla imprigionare dai soldati i quali, osserva beffarda l’ombra, non gli crederanno mai. Nel racconto onofriano, invece, il simbolo dell’ombra rappresenta la vera natura dell’uomo e non le parti della personalità rimosse che, qualora non siano riconosciute e integrate, possono scatenare la nevrosi.

Durante gli anni della maturità, proseguendo nella conoscenza di se stesso, Onofri scriverà nella prosa Tripartizione27, risalente al 1921, che nella sua vita si alternano senza confondersi «tre periodi ideali» che non si integrano tra loro:

In un periodo io sono tutto senso e sentimento verso il mondo esteriore (arte = italianità) poi viene un periodo in cui sono tutto pensiero e meditazione filosofica e spirituale (teosofia = germanesimo), e infine un periodo nel quale io sono tutto azione, aggressività, volontà e disciplina (automortificazione = mondo slavo28).

Per superare tale «Trialismo spirituale faticosissimo» di sentimento, pensiero e volontà, egli ritiene che sia necessario un atto sintetico compiuto dalla sua volontà spirituale cosciente. Rispetto al semplice dualismo tra io vero e falso del racconto giovanile I due, Onofri è ora consapevole della maggiore complessità degli stati d’animo che attraversa, i quali possono essere equilibrati solo rivolgendosi alla propria fonte spirituale interiore. La vita, illuminata dallo spirito, troverà una corrispondenza nella sua nuova poesia dove «figure composte di suono d’anima» abitano i suoi versi come fossero «creature terrestri di carne e ossa». Egli infatti è convinto che l’umanità ospiti dentro di sé «un giuoco di tale figure di musica» che egli s’accinge a far risuonare nella propria lirica.

 Nel 1910 Onofri scrisse il lungo racconto Nell’Inferno29 e nello stesso tempo compose il romanzo Disamore30. I due testi, pur appartenendo a strutture formali diverse, narrano entrambi una passione amorosa nefasta e ossessiva con esiti espressivi diversi. Il racconto è infatti la trascrizione di un sogno, il più angoscioso, che assilla l’autore come egli stesso scrive in una nota sotto il titolo. Alla fine del racconto un’altra nota autografa afferma31: «Al ridestarmi da questo sogno io ero malato». In effetti il sogno nella sua cupezza trova un riscontro nell’infermità del corpo che, tuttavia, è anche una malattia dell’anima. L’atmosfera del testo è quindi dichiaratamente onirica e come tale presenta toni surreali, di indubbia modernità. Il romanzo, invece, vuole essere «un saggio di prosa poetica», dove si attui «un’arte sempre meno comune e volgare, […] più lirica, moderna, intima e individuale». In realtà la modernità è molto più presente nel racconto che non in Disamore che presenta toni d’indubbia influenza dannunziana, sebbene in immagini isolate l’autore riesca a raggiungere un tipo diverso di espressione artistica che già preannuncia i brevi frammenti poetici di Orchestrine. Comunque è un romanzo «atipico32» che dilata in un centinaio di pagine la lunga notte che vive il protagonista nella casa della sua amante, la quale è descritta secondo il topos decadente della donna bellissima, ma malefica

L’incontro tra i due amanti è preceduto da una serie di concitate riflessioni del protagonista che oscillano tra i due opposti poli di un agognato riscatto spirituale e dell’inevitabile prigionia a cui lo condanna il desiderio sessuale verso la donna. Quando egli raggiunge la donna nella sua casa, l’incessante conflitto continua a tormentarlo alternandosi in stati d’animo contraddittori. L’intero romanzo è caratterizzato dalla spietata e continua analisi psicologica del protagonista, il quale ama e odia la donna e tenta disperatamente di sottrarsi al suo fascino perverso che ella continua a esercitare su di lui. È interessante confrontare i due testi nelle analogie e nelle diversità che li contraddistinguono, nonostante il medesimo argomento trattato e la stessa unità di luogo e di tempo. Anche nel racconto infatti tutto si svolge in una notte e in uno stesso luogo, una squallida stanza che l’io narrante aveva affittato da una laida coppia di anziani. Infatti Onofri nella stesura del racconto, probabilmente precedente quella del romanzo, traduce in linguaggio narrativo immagini e situazioni scaturite dal suo inconscio, ma rielaborate secondo moduli decadenti, mentre nel romanzo egli rappresenta il suo intimo dissidio tra coscienza e istinto secondo canoni prestabiliti. Le differenti modalità che presiedono alla composizione dei due testi saranno quindi esaminate attraverso alcuni passaggi significativi33.

In D il protagonista mentre si reca dall’amante si ferma a contemplare Roma dall’alto:

«Mi ritrovai in alto, su uno dei sette colli. Di sotto si stendeva la città neghittosa tra le nebbie, ove lucevano a mala pena le pallide lampade. Ma i vapori non giunge vano neppure ai miei piedi34».

 Dopo la visione della città inerte, avvolta nelle nebbie, egli sente:

«Un acuto grido di stelle in un brano d’azzurro, e tutto un gridio di crescenti musiche sul mio capo dilatarsi in un respiro sempre più vasto, finché dell’intero firmamento pullulò un coro di gioconda rinnovazione35».

Alla città ridotta a una massa indistinta e scarsamente illuminata che giace in un sonno greve, si oppone l’armonia cosmica che per un breve istante lo avvolge e gli fa intravedere un mondo diverso, puro, dove non avranno più presa su di lui il «cerchio fascinatore» e «l’efficacia mortifera delle passioni». Nulla del genere in I dove l’io narrante vegetava in una «esasperata atonia» priva di ogni slancio spirituale, anzi rincasando, egli voleva sommergere nel sonno «un malessere indefinito» che lo perseguitava. Nel suburbio dove abitava le viuzze erano colme di melma e la bocca d’una taverna spalancava in uno sbadiglio le sue mascelle di pietra illuminate, attraenti come le fauci d’un mostro. Dall’Inferno emanavano odori graveolenti e clamori, e l’aroma inasprito del vino.

L’immagine vivida e umanizzata della taverna si staglia improvvisa, immergendo subito il racconto in un’atmosfera infernale nella quale la scrittura si avvale di arditi accostamenti e crea addirittura dei neologismi. Successivamente, infatti, il protagonista intravedeva dalle porte semichiuse di miserabili case «lembi d’Inferno pieni d’incanto per me che ne nutrivo la mia volontà imparadisatrice». Il nuovo verbo svela quindi come egli renda paradiso quel mondo infernale dal quale era molto attratto e in cui viveva senza alcuna volontà di uscirne fuori, ma con un piacere perverso. Anche i due vecchi locandieri che lo ospitavano sono descritti come i custodi di un antro infernale: lui un vecchio ubriacone che accoglieva l’ospite con il suo tanfo nauseabondo e l’assordante russare, lei una povera donnetta la cui «animula» non sembrava già più appartenere al mondo terreno.

Se il protagonista di D osserva dall’alto la città di cui la nebbia nasconde i possibili orrori, quello di I era completamente calato nella realtà cittadina di tetri suburbi dove egli aveva scelto di vivere. Tuttavia il verbo al passato del racconto, mentre nel romanzo è al presente, sembra indicare un’evoluzione del personaggio che in D vuole ribellarsi, a differenza di quello di I, a una esistenza opaca e sordida come gli infimi quartieri che è costretto ad attraversare per raggiungere più rapidamente la casa dell’amante. Tuttavia anche in D compare un elemento diabolico rappresentato da «due punti gialli, fosforici» che gli appaiono dalla cima delle scale. L’efficace sineddoche si riferisce a un gatto nero che tornerà in scena nella parte finale del romanzo. Ora «gli sguardi gialli» stralunati sembrano avvertire l’incauto visitatore di non oltrepassare la soglia, pena la morte dell’anima che rievoca l’Inferno dei dannati. Ma ormai l’uomo è completamente stregato e, mettendo a tacitare la sua coscienza, sale risolutamente le scale. Lo attende la sua amante, Eliana, descritta secondo il cliché della donna fatale:

«Eliana giaceva bocconi sul vasto letto. Avviluppata in veli cangianti serrati ai fianchi da una cintura azzurra, simili alla veste illusoria in cui l’aveva avvolta il mio credulo amore, con i capelli sciolti, in disordine […]36».

L’aspetto fisico della donna è caratterizzato nel corso della narrazione, da una sostanziale ambiguità: sparsi sul suo corpo pallido i capelli rossi sembrano «rivi di sangue», le «labbra di vampiro» si protendono in «baci ingordi», «il suo profumo, aspro e soave allo stesso tempo», si sprigiona da tutta «la sua carne affettuosa e perversa». Successivamente, in un crescendo di negatività, la donna si trasformerà nell’«idoletto informe d’una smania maledetta». L’uomo infatti osserva in modo spietato tutti i difetti della sua amante per mettere fine alla relazione. Ma il difetto maggiore della donna, verso la fine del romanzo, si rivela essere la sua sterilità:

«Non posso amarla. Ella è sterile. Fredda e sterile come un diamante è il suo corpo. Non posso amarla».

 In precedenza le aveva rimproverato l’incapacità di sentire l’anelito spirituale che è presente in ogni uomo: Ma per quale maledizione tu non puoi sentire nella vita d’una creatura umana tutta la solennità augusta del dio che vige in ogni nostro pensiero.

È significativo che l’elemento decisivo per abbandonare l’amante sia la sua sterilità per la quale ella si conferma essere la parte negativa dell’archetipo femminile della donna sposa e madre vigente in quell’epoca. L’attrazione fisica e sessuale che l’autore prova verso Eliana è percepita quindi come distruttiva e del tutto opposta all’amore vero che s’incarna invece, in una donna dalle qualità angeliche, in grado di fargli superare l’intima e tormentosa dicotomia tra richiamo dei sensi e purezza di sentimenti in cui egli si dibatte.

Giorgio_Linguaglossa_cover_Dopo_Il_NovecentoDel tutto diverso è l’incontro con la donna in I che avviene in modo molto inquietante. Dopo aver sentito con tedio le frasi sconnesse del vecchio che ricordava la scomparsa della figlia bellissima e il tragico assassinio del figlio in una rissa postribolare, il protagonista saliva a tentoni «la scaletta scricchiolante che conduceva alla soffittaccia del [suo] cuore». Egli amava, infatti, lo squallido alloggio che ha trovato nel misero quartiere popolato da un’umanità derelitta e scellerata. A differenza del personaggio di D, egli non voleva uscire dall’Inferno di luoghi e persone che morbosamente lo attraeva. Dovendo trasferire il materiale onirico nelle strutture narrative, Onofri accentua i suoni e le sensazioni provate dall’uomo: un freddo intenso gli faceva battere i denti, insonne, si girava e rigirava nel letto, mentre ascoltava i lugubri rintocchi di un campanile vicino. In un attimo di tregua concesso da un breve sogno gli appariva un paesaggio idilliaco nel quale avrebbe voluto sostare per sempre. Era solo un’illusione, però, che svaniva nel risveglio angoscioso durante il quale s’udiva un rumore ossessivo, un misterioso respiro di cui non comprendeva la provenienza. Tutta la descrizione che ha preceduto i segni inequivocabili di una presenza ancora invisibile, si è svolta secondo il classico repertorio di un racconto gotico che accresce la tensione fino allo svelamento dell’immagine finale: «Oh! Una gamba ignuda, sudicia ma bella, usciva di sotto al mio lettuccio basso. Orribile bellezza».

Egli per tutta la notte, fino all’alba, non aveva il coraggio di scoprire a chi appartenesse quella gamba che tuttavia continuava a contemplare. La sineddoche qui si riferisce al corpo della donna che gli suscitava insieme terrore e un’oscura attrazione. Nel racconto questa ambiguità che lo attanaglia è vissuta interamente sul piano fisico come se volesse superarla dilungandosi a osservare gli aspetti più ripugnanti di questo corpo femminile e convincersi quindi a respingerlo.

 «Mi fissava con grandi occhi da pazza che sorridevano di tra gli abbondanti capelli d’un colore di sangue coagulato che le piovevano intorno a grovigli: due mammelle pendule e smunte traboccavano dalla camicia lurida che mal le copriva il corpo macilento.»

La donna non sembrava possedere nessuna attrattiva, era un povero essere disfatto nei cui occhi brilla la fiamma della follia. Da notare che i suoi capelli rossi non evocano un’immagine di bellezza ma di morte, come accade per Eliana, la donna fatale del romanzo, la quale tuttavia conserva ancora dei tratti affascinanti. Nella trasposizione del sogno invece la donna condivideva la miseria e l’abbrutimento dell’ambiente e dei personaggi descritti in precedenza e trascinava inevitabilmente anche l’uomo in tale abisso di abiezione. Ella gli mostrava la lunga ferita che attraversava il suo ventre per fare in modo che l’uomo la riconoscesse come la sua sorellina. Non condannava l’atto criminoso, ma al contrario, confessava che se l’avesse colpita a morte, l’avrebbe amato di più.

Questa unione di eros e thanatos affascinava il protagonista e lo sospingeva a prendere in braccio la donna e a permetterle perfino di raggomitolarsi contro il suo petto, mentre l’adagiava sul letto. Un moto di commozione sembrava pervaderlo nel comprendere il terribile destino della donna, vittima consenziente di una relazione incestuosa. Tuttavia i singhiozzi in cui prorompeva non manifestavano un sentimento di pietà per la donna, ma la pena verso se stesso dal momento che egli ormai, al pari degli altri personaggi, era completamente abbrutito al punto di sentire che nella sua testa vuota non esisteva più lo spirito che si rivela nella coscienza umana. Egli avrebbe voluto protrarre il buio della notte che rispecchiava ormai quello della sua anima e cercava di occultare i raggi del sole velando i sudici vetri con il saio grigio che aveva trovato nella soffitta, appartenente alla donna. Ma non riusciva a impedire che il chiarore diffuso dalla finestra rivelasse un altro segno di abiezione: «un grande numero nero campeggiò sul tessuto dorato dei raggi: un terribile numero. Ella emise un grido straziante». Anche se non detto in modo esplicito il numero potrebbe riferirsi alla prigione in cui la donna è stata detenuta. Anche lei non si sottraeva quindi all’ignominia e alla colpa.

Dopo aver lasciato la donna addormentata, egli persistendo nella sua insensibilità, voleva accertarsi dalla vecchia, che il figlio Romeo fosse veramente morto e che il nome della figlia scomparsa fosse Ada. La donna che dormiva nella soffitta era in realtà la figlia dei due vecchi, ma egli non svelava il segreto, e quando tornava da lei che, ormai sveglia, lo chiamava con il nome di Romeo, si spacciava per il fratello morto e le rispondeva chiamandola a sua volta con il nome di Ada, consapevole di assumersi così attraverso la sua falsa identificazione anche le colpe di cui si era macchiato lo sciagurato fratello. Fin dall’inizio, con semplici domande, avrebbe potuto scoprire la vera identità della donna misteriosa che si era introdotta nel suo alloggio e sciogliere l’enigma, ma invece egli si era adattato alla orribile realtà che sfocerà in tragedia alla fine del racconto. Solo per un attimo, egli sperava che non fosse vero quanto gli avevano rivelato gli indizi, ma ben presto, certo della verità, non desisteva dall’ingannare la donna che ora gli sembrava molto attraente e che gli suscitava una insana passione a cui si abbandonava completamente.

Nel romanzo, invece, la situazione è capovolta e la bellezza di Eliana si trasforma nello spaventoso aspetto di un cadavere. D’altronde in precedenza, l’alcova dove si consumerà l’amplesso, era stata paragonata a un catafalco senza fiori. Infatti nel vano della stanza era un odore di morte, cui invano tentava di dissipare l’aria fresca della notte scemante. L’uomo aveva provato anche la fantasia di uccidere l’amante, la quale in seguito gli chiederà di farla morire, ma il desiderio di morte sembra essere più che altro un artificio retorico che serve a creare un’atmosfera mortifera intorno ai due amanti. Quando all’alba penetra finalmente la luce nella stanza, il corpo tanto desiderato della donna, che si è addormentata, assume improvvisamente «un lividore […] come per una nuova agonia, dopo la morte violenta», solo vagheggiata dai due amanti. La visione orribile spinge l’uomo ad abbandonare definitivamente l’amante, mentre la voce dell’anima lo ammonisce: «Consumata la lenta agonia della notte, risorgi senza letargo e senza fanatismo alla vita nuova40!».

Il contrasto tra la notte e l’alba simboleggia, infatti, il buio della torbida passione che è dissipato dalla luce dell’anima ritrovata. Al contrario, il racconto si avvia ormai al suo drammatico epilogo. Mentre la donna, nel suo delirio, lo chiamava amore e lo abbracciava convulsamente, dell’uomo sono descritte solo le sue angosciose sensazioni corporee. Rinunciando a ogni freno morale, egli poteva solo registrare delle reazioni estreme che non riguardavano però la sua coscienza.

«Mentre ella parlava, la mia testa girava attorno per la stanza; un’ubriachezza infame mi pulsava nelle tempie: avevo l’impressione d’esser preso in un grande vortice d’aria rotta e d’esser tratto verso il centro, rotando sempre più rapido.»

Diventava però consapevole di essersi ormai inabissato nell’Inferno, quel centro verso il quale egli precipitava, trascinato da una forza a cui non opponeva resistenza se non tentando una fuga disperata dall’abitazione. Ma la donna, in preda alla sua follia amorosa, lo inseguiva nella strada in mezzo all’infuriare della tempesta. S’inginocchiava addirittura ai suoi piedi nel fango, invocando la morte se lui l’avesse abbandonata. 36 37 Allora egli decideva di condividere la sua pazzia e, sollevandola da terra, la stringeva a sé in un fatale abbraccio. Come due fantasmi vagavano sotto la pioggia violenta e si fermavano sopra al fiume che scorreva sotto di loro, promettendo un «soffice letto d’oblio». Ma neppure la morte poteva concedere loro una tregua, perché essi sarebbero stati uniti per sempre nell’eternità. Un ultimo bacio suggellava il loro disperato e dannato legame mentre precipitavano nel vuoto. In termini junghiani la donna può rappresentare l’“ombra”, presente spesso nei sogni che, a differenza di quella del racconto I due, non è più l’“io” autentico ma, al contrario, simboleggia la parte oscura della psiche la quale, se assecondata, può condurre all’annientamento dell’“io”. Tuttavia il giovane Onofri esorcizza, attraverso la scrittura, non solo l’incubo notturno, ma anche l’ancora irrisolto conflitto tra desiderio della carne e monito della coscienza che potrebbe risultare letale41, sulla base di alcune carte d’archivio si sostiene che, nel 1904, il giovanissimo Onofri aveva provato l’idea del suicidio e poco era mancato che egli ponesse fine alla sua vita con una pistolettata. In D l’alter ego dell’autore sta compiendo un’evoluzione spirituale verso una nuova concezione dell’esistenza che non si limiti solo alla ricerca di un piacere definito da lui stesso «mortificante». Ma non sono ancora superati del tutto dubbi e ripensamenti che turbano il suo spirito. Mentre apre la porta della stanza e grida addio alla donna, tra le sue gambe s’insinua «vellutatamente» il gatto nero che, all’inizio, dalla cima delle scale, aveva cercato d’impedire in qualche modo il suo ingresso. L’uomo sosta comunque sul pianerottolo, sperando che l’amante lo richiami, ma quando rientra nella stanza appena lasciata, la trova tutta intenta a contemplare i suoi gioielli, frivola occupazione in cui l’aveva sorpresa all’inizio del loro incontro. Sul cuscino ancora caldo della sua presenza egli scorge il gatto nero, che vi si è insediato. L’animale ha ripreso la sua posizione privilegiata, soddisfatto che l’usurpatore si sia allontanato. Al ritorno dell’elemento diabolico rappresentato dal gatto, si contrappone una presenza angelica, simbolo della sua coscienza, che, corrucciata, rimprovera l’uomo per il suo persistere nell’inganno dei sensi: «Imbecille! Tu ci tornerai. Io lo so, che tu ci tornerai. Se non più da lei, certo da un’altra!42». Ma non avverrà così. Alla p. 1 della copia personale del romanzo Disamore, edito nel 1912, due anni più tardi dalla sua composizione, si legge infatti la nota autografa, successivamente cancellata, «Estinzione della mania. Notte circa.»

A conferma di quanto aveva scritto sulla fine della sua distruttiva relazione, nel 1913 egli conoscerà Beatrice Sinibaldi, la salvifica beatrix, il cui nome è doppiamente allusivo per Onofri, non solo perché è lo stesso nome della propria madre, ma anche perché, al pari della Beatrice dantesca, lo libererà dalle colpevoli passioni che tanto lo avevano tormentato. Nel 1916 sarà celebrato il loro matrimonio, che in seguito sarà allietato dalla nascita dei figli Fabrizio e Giorgio. Raggiunta la stabilità affettiva, Onofri si dedicherà alla ricerca spirituale che troverà compimento nella sua adesione all’an troposofia steineriana, particolarmente consona al suo temperamento mistico. Infatti Steiner aveva elaborato una “scienza dello spirito” secondo la sua definizione, per cui attraverso una rigorosa disciplina, ogni uomo è in grado di scoprire in sé la presenza divina, senza ricorrere alla mediazione delle strutture ecclesiastiche verso le quali, già in giovanissima età, Onofri aveva provato un’istintiva diffidenza.

(Magda Vigilante)
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1 Tra le opere poetiche di Onofri si ricorda il complesso ciclo lirico Terrestrità del sole in 7 volumi: Terrestrità del sole, Firenze, Vallecchi, 1927; Vincere il drago, Torino, Ribet. 1928. Postumi uscirono Simili a melodie rapprese in mondo Roma, Al tempio della fortuna, 1929; Zolla ritorna cosmo, Torino, Buratti, 1929; Suoni del Graal, Roma, Al tempio della fortuna, 1932; Aprirsi fiore, Torino, Gambino, 1935.
2 A. Onofri, Nuovo Rinascimento come arte dell’io, Bari, Laterza, 1925. In quest’opera Onofri divulga una nuova teoria dell’arte, ispirata alla dottrina antroposofica di Rudolf Steiner, alla quale egli aderì verso il 1917 e che è alla base del ciclo lirico Terrestrità del sole (1927- 1935).
3 In particolare si cita il volume A. Onofri, Le letture poetiche del Pascoli, con la prefazione di Emilio Cecchi, Bari, L’albero, 1953.
4 A. Onofri, Il Tristano di Richard Wagner, guida attraverso il poema e la musica, Milano, Bottega di Poesia, 1924.
5 I racconti sono conservati alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. GI /1a, 1b, 1e.
6 Il racconto è stato segnalato da A. Dolfi nel volume A. Onofri, Scritti musicali, Roma, Bulzoni, p.24, nota 41.
7 Saranno raccolte nel volume A. Onofri, Orchestrine, Napoli, Libreria della Diana, 1917.  
8 Cfr. A. Onofri, La libertà del verso, I «Lirica», (4 aprile 1912), p. 151.
9 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. G I/4.
10 Cfr. Michele Beraldo, Ritmo settennale e metamorfosi. Una lettura inedita della biografia del poeta Arturo Onofri in «Il Divano Morfologico», n. 3, (2000), pp. 39-47. L’articolo contiene anche le riproduzioni fotografiche di tabelle e diagrammi.  cit..
11 A. Onofri, Liriche, Roma, Vita letteraria, 1907.
12 Id., Orchestrine, cit., p.41.
13 Cfr. Magda Vigilante, Inediti di Arturo Onofri: Temi e non poemi, Alchimie, Caino re in «Galleria» XXXIX (maggio-agosto 1989), fasc. 2, p.121.
14 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. GII/6. La sezione riunisce prose, frammenti poetici e alcune poesie che successivamente saranno pubblicate nel volume Terrestrità del sole. La loro data di composizione è compresa tra il dicembre 1924 e il gennaio 1925, in un brevissimo intervallo di tempo, durante il quale il poeta individuò i primi nuclei tematici da cui si sarebbe sviluppata la sua futura produzione teorica e poetica.
15 Genesi, 2,7 in La Bibbia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2001, p. 16.
16 Il Nuovo Testamento, Giovanni 9, 6-7, cit., p. 1105.
17 R.L. Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, in Romanzi e racconti, con una introduzione di E. Cecchi, Milano, Gherardo Casini Editore, 1987, pp. 209-278. 18 Traduzione di R. Pisaneschi, introduzione di C. Magris, Milano, Rizzoli, 1984.
18 Traduzione di >R. Pisaneschi, Intr. di Claudio Magris, Milano, Rizzoli, 1984.
19 Schumann intitolerà Kreisleriana l’opera 16, con riferimento al personaggio del romanzo di Hoffmann, un ciclo di pezzi per pianoforte composto nel 1838. Del resto il musicista era così attratto dal tema del “doppio” da designare aspetti diversi della sua personalità in ben tre figure ideali con i nomi dei quali firmava i suoi scritti: il Florestano, Eusebio e il Maestro Raro. Il primo rappresenta la sua natura fantastica e ardente, il secondo quella contemplativa e sognante, mentre il Maestro Raro si riferisce a Wieck, il suo maestro di musica rigido e pignolo, il quale contrastò a lungo il matrimonio della figlia Clara con il musicista.
20 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2. Sez. G I/4c, c.4.
21 Secondo la testimonianza di Giorgio Vigolo la sua amicizia con Onofri si stabilì intorno al 1912.
22 Il racconto fu edito per la prima volta sulla rivista «Letteratura» III (gennaio 1939), 1, pp. 68-81.
23 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C.
  1. Sez. G I/4d, c.8. 17
24 Arturo Onofri, Senz’alba, in Orchestrine, cit, pp. 148-149.
25 Per tale interpretazione cfr. Giorgio Vigolo, Notizia criticobiografica premessa alla ristampa in un unico volume delle opere Orchestrine-Arioso, Venezia, Neri Pozza, 1959.
26 H.C. Andersen, L’ombra e altri racconti, Roma, Orecchio acerbo, 2005.
27 A. Onofri, Tripartizione, in Poesie e prose inedite (1920-1923), a cura di M. Vigilante, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, [1989], pp. 88-89.
28 La madre del poeta, Beatrice Shereider era di origine polacca.
29 In calce al racconto è trascritta la data «1910».
30 A. Onofri, Disamore, Roma, Edizione dell’autore, 1912. Nell’ultima pagina del romanzo è stampata l’indicazione Roma, 1910. Il romanzo era già apparso a puntate sulla rivista «Lirica».
31 A. Onofri, Nell’Inferno. Non sono citati i numeri delle carte del racconto perché non coincidono con le pagine edite.
32 Così lo definisce A. Dolfi nel volume da lei curato Arturo Onofri, Poesie edite e inedite (1900-1914), Ravenna, Longo editore, 1982, p. 24
33 D’ora in poi si indicherà con I il racconto e con D il romanzo.
34 D, p. 13. 35 Ibidem, p. 14.
35 – 36 – D, p. 26. 37 Ibidem, p. 112.
39 A.Onofri, Disamore, cit., pp. 78-79. 40 Ibidem, p. 108.
40 Ibidem, p. 108.
41 In M. Beraldo, op. cit., p.44
42 A. Onofri, Disamore, cit., p. 113. 43 Roma, Biblioteca nazionale centrale Archivio Onofri, A.R.C. 2. Sez. B V/1.

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Archiviato in narrativa

Poesia senza plot di Giuseppe Talia, Mimmo Pugliese, Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Ermeneutiche di Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023https://giorgiolinguaglossa.substack.com/p/eur-roma-nuvola-di-fuksas-domenica

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]

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Crisi del linguaggio mimetico

Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale e provinciale ha cessato di essere un prodotto culturale, fa a meno di ogni contenuto critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è diventata una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare. È una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani, una carboneria di officianti di una liturgia privata, una società di alchemici della parola…

«Benvenuti in tempi interessanti», è l’augurio in stile derisorio di Slavoj Žižek, il filosofo eclettico marxista il quale così continua:

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

Ecco, appunto,  Žižek coglie nel segno: manchiamo di libertà, il nostro linguaggio, la nostra immaginazione mancano di libertà. La top pop poesia, la poetry kitchen, la pseudo-soap poetry e la false flag-top picture parlano di ciò, della impossibilità del mondo attuale a vedersi riprodotto in una rappresentazione. Perché?

Perché per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia o della narrativa o della pittura.

L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.

I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…

È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.

Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto, “Faust chiama mefistofele per una metastasi”, dal titolo eloquente del libro di poesia diFrancesco Paolo Intini.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giuseppe Talia

 Lo Stato di sWAp

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Non vi sono limiti alla tua esposizione. Con il passaporto sWAp raggiungi ogni angolo del mondo. Sei qui e sei lì. Sei qua e sei là. Sei ovunque tu desideri d’essere.

Non esiste burocrazia nello Stato di sWAp. Tutte le controversie sono risolte ad istanza di parte semplicemente con i tasti “archivia” o “elimina”.

Nello Stato di sWAp non ci sono frontiere con i Paesi vicini. L’entrata e l’uscita dal territorio può avvenire in qualsiasi momento. Quotidianamente. Agevolmente. In pochi istanti. Con un semplice segnale acustico di tua scelta sWAp.

Il sistema su cui si fonda lo Stato di sWAp è così efficiente, efficace ed economico che supera di gran lunga il Trattato di Schengen.

La geografia dello Stato di sWAp si espande ininterrottamente senza alcuna barriera. Puoi essere dove non sei. Dove sei. Dove non puoi esserci. Essendoci al contempo.

Non è previsto alcun censimento della popolazione. Lo Stato di sWAp è l’unico stato al mondo in cui i vivi e i morti coabitano contestualmente.

La lingua ufficiale dello Stato di sWAp è generativa. Si compone. Si scompone. Si frammista. La Buuuu-language è l’unica lingua al mondo i cui lemmi e parole possono essere sostituiti per intero dall’immagine di uno stato d’animo.

Non c’è una vera e propria capitale nello Stato di sWAp. La tecnocrazia è minore del 30 per cento sui circa 82 kg di CO2 per ciascuno degli abitanti prodotti dagli altri Stati.

In sWAp la leggerezza fa rima con lentezza. Il tempo in sWAp è intermittente. Tiene in conto e ingloba i fusi orari terracquei, a partire dall’ora di Greenwich. Collega i quattro angoli del mondo in tempo reale, fin su le stelle.

La sanità è efficientissima. Si possono ricevere consulti medici specialistici, non solo da singoli professionisti, ma da interi gruppi. I gruppi di sWAp -sWAp -sWAp sono tra i più rinomati del mondo per la loro caratteristica esperienziale e la tecno-simbologia emoji utilizzata.

La religione ufficiale dello Stato di sWAp è di difficile definizione -la parola è il francobollo dell’immagine. sWAp riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestare la propria fede e il proprio credo.

L’interconnessione di sWAp permette nell’immediatezza di recuperare reperti, prove, attestazioni, immagini e video.

La memoria nello Stato di sWAp è soggetta a tariffazioni previste dagli operatori economici che forniscono i servizi di appoggio alla rete infrastrutturale in divenire.

Le altre opzioni sWAp sono di norma previste con le funzioni, rispondi, inoltra, elimina, archivia.

Il backup di sWAp avviene una volta a settimana. Nella cartella “salva una vita”, nome e cognome, si possono recuperare tutte le storie del passato.

L’economia dello Stato di sWAp si regge sul principio dell’inseparabilità del capitale e della tecnologia. Il capitale pensa e la tecnologia realizza.

La virtualizzazione della finanza, in associazione al lavoro immateriale, permette allo Stato di d’incamerare i profitti necessari per il mantenimento del benessere collettivo di sWAp.

Le tasse in sWAp sono previste in pochissimi e specifici casi e di norma non superano i centesimi. Sono accettate tutte le valute esistenti e quelle che verranno.

Il Prodotto interno lordo dello Stato di sWAp è correlato al numero della popolazione dei richiedenti la residenza. I flussi in entrata sono illimitati.

La fabbrica del mondo di sWAp utilizza esclusivamente metadati prodotti da nuove dimensioni.

(Tallia -16 settembre 2023)

https://twitter.com/i/status/1418592112644435971

Crisi del plot e della poesia-racconto

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle suppellettili, delle sciorinature fatte passare per analisi psicologiche. Ma restano sciorinature senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia kitchen, come appare chiaro in questa composizione di Giuseppe Talia, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messi lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol e dopo Rotcko, a distanza di settanta anni da Warhol e da Rotcko. Paul Celan e Zbigniew Herbert del Rapporto dalla città assediata (1983) sono ancora poeti del modernismo. Invece, la poesia italiana dagli anni sessanta ad oggi si ostina a fare del plot, del racconto. Mi chiedo: che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o di “un “passaporto sWAp”.

Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità di fare della poesia-racconto, di fare racconti in poesia, non ha ancora preso atto che oggi i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto, magari in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, perché non c’è nulla da raccontare che non sia già stato narrato dai media, la poiesis deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace la poesia di Giuseppe Talia, di Vincenzo Petronelli, di Mimmo Pugliese, di Nunzia Binetti e degli altri autori kitchen, anche loro aborriscono il racconto. I loro avatar, i loro sosia io li leggo in versione pop, come una versione della fine della storia, della fine dell’umanesimo, del modernismo e del post-modernismo.

(Marie Laure Colasson) Continua a leggere

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Tra Roma e Praga, Antologia di poesia in onore di Angelo Maria Ripellino, GSE Edizioni, 2023, pp. 100 € 16.00 a cura di Kateřina Di Paola Zoufalová, poesie di Antonio Sagredo, Filadelfo Giuliano, Jana Sovová, Marcel Sauer, Kateřina Di Paola Zoufalová

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]
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Questo modesto volumetto di poesie costituisce una sorta di “incontro”, forse non del tutto casuale, tra nove poeti, un pittore e una traduttrice che vivono tra l’Italia e la Repubblica Ceca, desiderosi di esprimere un omaggio al grande poeta Angelo Maria Ripellino, studioso, maggiore slavista italiano, eccellente conoscitore e amante della cultura boema, del quale il 4 dicembre 2023 cade il centenario della nascita. È un incontro di poeti voluto da Kateřina Di Paola Zoufalová, Presidente dell’Associazione Praga che da più di 20 anni opera a Roma per promuovere e far conoscere in Italia la cultura ceca, e da Andrea Louis Ballardini, Presidente dell’Associazione Lucerna di Bologna che persegue lo stesso scopo. Tutti gli autori hanno collaborato al volume consapevoli della grande importanza del poeta e studioso Ripellino, che ha contribuito con passione e genialità alla conoscenza della cultura mitteleuropea, e non soltanto in Italia. Tra i libri da lui pubblicati spicca il saggio-romanzo Praga magica, edito da Einaudi nel 1973, che si presenta come una guida alla “capitale magica d’Europa”. Nella sua recensione a quel testo Claudio Magris, noto germanista e anch’egli profondo conoscitore della Mitteleuropa, affermò che «con gusto ardimentoso ed enciclopedico Ripellino passa in rassegna una folla di persone, luoghi, libri, ombre, edifici, relitti, echi e bagliori della civiltà praghese». Elaborare quel saggio fu per A.M. Ripellino anche “terapeutico”. Dopo i drammatici eventi dell’agosto ’68 il visto per la Cecoslovacchia non gli venne più concesso. Non gli restava che sognare di poterci tornare, tanto che scrisse: «Certo che vi ritornerò. In una bettola di Malá Strana, ombre della mia giovinezza, stappate una bottiglia di Mělník. Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi»1 .
Per molti, ricorda l’italianista Alessandro Fo, Ripellino fu fondamentalmente uno slavista con un “debole” per la poesia. Perché in verità la poesia era per Ripellino il cuore e la fonte di ogni sua attività letteraria, anche quando il genere praticato era la saggistica o la corrispondenza giornalistica. Intervistato nel programma Ore 20, curato da Bruno Modugno e trasmesso dalla Rai il 9 marzo 1976, alla provocatoria domanda di Modugno «Perché la poesia oggi? Che c’entra la poesia oggi?», Ripellino, che morirà due anni dopo, rispose: «Io direi questo: che nonostante l’epoca sia così nera, così difficile, piena di falsi teologi, di ladroni, di monatti, la poesia non ha perduto il suo valore, la sua efficacia… Forse l’unica cosa che rimane ancora che possa trasformare il mondo, almeno illusoriamente – un ultimo miracolo che ci resta – è la poesia; anche per questo suo dono di avere gli occhi divaricati, di poter abbracciare diverse cose insieme… questo suo dono dell’analogia, della metafora, larga, che abbraccia l’universo. Ora, in un universo che tende a restringersi nella miseria e nel nulla, la poesia è appunto quest’unica meraviglia che cerca di abbracciarlo e di rendere viva l’unità del mondo» .

1. Ripellino A.M., Praga magica, Einaudi 1973, p. 350.

(Kateřina Di Paola Zoufalová Roma, 17 settembre 2023)

Copertina Tra Roma e Praga (2)Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi e dal 1968 risiede a Roma. Le sue poesie sono state pubblicate in Spagna, Usa, Italia. A Zaragoza sono state pubblicate sue poesie scelte con il titolo Tortugas, Lola editorial, 1992, e Poemas, Lola editorial, 2001, alcune delle quali sono state riprese nelle riviste “Malvis” e “Turia”. Nel 2015 pubblica l’antologia bilingue Poems, Chelsea Editions di New York; nel 2016 Capricci, GSE, Roma, e nel 2019 La gorgiera e il delirio, Schena editore, Fasano. Ha curato le traduzioni di diversi poeti cechi, tra cui Otokar Březina, Vítězslav Nezval, Zbyněk Hejda, Ladislav Novák e Jiří Kolář, apparse in riviste letterarie italiane: L’ozio, Poesia, Metek e L’ombra delle Parole. In prosa ha pubblicato con GSE Il giardino, nel 2018, e l’Arrabbico, nel 2023.

Kajetanka

Oggi ho sorbito la mia razione
quotidiana di poesia
come un caffè:
aroma erano le parole
zucchero il sapore dei versi.

Ma nel bosco qui accanto
di querce e di betulle
perché i vecchi e le vecchie coi bambini
ogni giorno artigliavano gli alberi?

Sono come sogni appassiti nel tempo,
vetrosi recinti di pietra
che segano querce e betulle.

Ma i bambini frugano nel sottobosco,
i vecchi e le vecchie nel cimitero…
e cercano
e annusano se la prima larva
come la prima vita
si strema come una risacca!

(Praga, fine 1973)

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Camera di Praga

Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… Il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questo sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi profeta!

Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di sé stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

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Filadelfo Giuliano

Filadelfo Giuliano è nato a Catania. Ha insegnato a lungo materie letterarie a Vicenza. Oggi vive tra Vicenza e la Repubblica Ceca. In italiano ha pubblicato sei raccolte di poesie, l’ultima delle quali nel 2022 con il titolo Un’estate a Moterosso, due raccolte di racconti e due romanzi. Ha tradotto dal ceco La Nuova Europa di Tomáš Garrigue Masaryk, I ragazzi di velluto di Sheila Och, ed Eravamo in cinque di Karel Poláček.

Isole

Perché un uomo ha bisogno di un’Itaca?
Perché fingersi Ulisse e
pretendere, senza darne, fedeltà da Penelope e Calipso?
Ora che ti ho persa
cerco sulle carte il punto dove ti smarristi,
ma quale bussola può darmi oggi
le coordinate della tua assenza?

Attesa

Ti aspetto al caffè Slavia
per una cena in due.
Forse questa mia attesa appartiene al passato,
a una Praga che forse non c’è più.
Il tavolino è vuoto
e il cameriere mi guarda accigliato.
Non sei venuta,
ho visto invece il signor Nezval,
che mi ha detto
che le nostre vite sono come la notte e il giorno.

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Jana Sovová

Jana Sovová (1966) ha studiato prima al liceo di Uničov, poi alla Cattedra di Boemistica presso l’Università Palacký di Olomouc e alle Cattedre di Studi Romanzi presso le Università di Olomouc e di Brno. Dal 1993 vive prevalentemente in Italia, dove lavora come lettrice di lingua e letteratura ceca. Occasionalmente traduce dall’italiano ed è coautrice di tre libri di ceco per stranieri. Nel 2018 la casa editrice Protimluv di Ostrava ha pubblicato la sua raccolta di poesia Příběhy.

Un piano perfetto

Di te qui mi rimane
una devastazione nel cuore,
una coperta stropicciata,
una valigia
e l’impasto della pizza,
da cui tutt’ora esala

l’impeto delle tue forti braccia.
Mi hai lasciata a mezzogiorno,
e posso facilmente dedurre
che la pennichella di quel giorno

te la sei fatta tra le braccia dell’altra.
Ma prima o poi ti metto nel sacco,
ormai ti conosco troppo bene:
in un tuo momento di debolezza,

ti verrà voglia di ricordare i vecchi tempi.
Con gioia ti inviterò a entrare
e, quando meno te l’aspetti,
ti soffocherò senza tante storie

con quella nostra coperta a frange.
Poi ti ricomporrò con dovizia
nella tua valigia nera,

ti seppellirò in un posto fuori mano
e ergerò a monumento
un impasto ben lievitato.
E poiché in fondo sono una brava ragazza,
farò poi sapere alla tua amata
dov’è che potrà andare
a piangerti.

(traduzione di Michele Perrone)

I preparativi

Per il viaggio scegli l’abito migliore
quello meno consumato

e speri che

speri sempre che

Ancora cerchi di aggrapparti
alla superficie liscia delle cose

ma si scivola

si slitta all’indietro

e giù

(traduzione dell’autrice)

Isonzo

Scappo Via da cosa
Scappo Non so
Scappo

(traduzione dell’autrice)

A Věra Holanová

Mi sono accomodata su una sedia a casa Sua,
una visita tardiva la mia,
e noi ci siamo mancate
di qualche decina di anni.

Mi sono accomodata qui e mi viene in mente,
se Lei, Věra, fosse stata presente,
quando il Suo sposo prese a schiaffi
uno di quella lunga fila di coloro
che venivano a osservare da vicino
la clausura del poeta.

Dicono sia stato un gesto galante
in difesa di una bellissima signora,
che era stata colpita dal marito
davanti agli occhi di Vladimír.

Se Lei, Věra, fosse stata lì, presente,
mi viene ancora in mente se avesse una vaga idea
di chi a chi, come e per quale colpa.

E inoltre, Věra, mi perdoni, Le chiedo
come abbia potuto sopportare tutto questo
e cosa abbia provato dentro di sé.

(traduzione di Vincenzo Perrone)

.

Marcel Sauer

Marcel Sauer. È nato. Lavora come macchinista spirituale dei treni in ritardo. È allevatore. È precettore di seconda categoria di creature selvagge, un partecipante attivo al programma di fidelizzazione. Gestisce un museo di miniature, ma da molto tempo non riesce più a vedere quanto vi è esposto. È responsabile attivo dell’ufficio vendite di affari indifferibili. Risiede di frequente in altri mondi e spesso opera come diplomatico. Per esempio a Tokio. Per esempio a Roma. Era nella squadra della sala parto quando è venuto alla luce del mondo il programma satirico Česká soda. Ha mantenuto a lungo la capacità di percepire. Ha pubblicato per mezzo di diversi media. Anche su stampa. Per esempio, su Revolver Revue, il supplemento letterario di Respekt, e molti altri ancora. È cintura nera di Ki Aikido.

Roma I

Come ti chiami, domanda la città
ma subito si volta dall’altra parte
non aspetta
te
non aspetta
la tua risposta
lei sa
che non sarai, tra poco
e che incontrerà tra una settimana, tra anni, tra secoli
altri uomini, altri nomi, altri volti
Scivoleranno per le sue strade
e non saranno

Forse un giorno tornerai
legionario
Forse ti manderanno lungo il fiume
Forse diverrai lupo
Prenderai un respiro e allatterai i trovatelli
Come è giusto che sia

Su uno dei colli
In una delle sere
Su una delle rive
Alzerai la testa
e aprirai le braccia
Ti attaccherai al suo seno
Girerai
per un po’ ne diverrai parte
nel fiume fluttuerai
e ti eclisserai

Così è che va qui
l’orologio da molto si è arreso
il tempo corre solo
da spettacolino a spettacolo
e qualche volta torna
Fermati sbalordito
così è che le piace

Roma II

Siamo stati qui
direi
se non avessi paura di pronunciarlo

Ho vissuto qui
direi
se pensassi che fosse passato

Con te, con tutto questo, con tutti questi

Indivisibilmente carica
la Città sulla collina abbatte il mezzogiorno

Stappa il vino
e ricorda
le sere d’estate che ci sono state, una volta

Un giorno si accende
su ogni semaforo il verde
che non guasta nulla

Roma III

Ci conosceremo?
A volte di più
In qualche modo più a fondo
oltre quei
fugaci intrecci
oltre quelle notti

Sotto la superficie
ci sono altre superfici
sotto il profondo
il profondo più abissale
oltre la visuale
l’orizzonte più lontano

Ci conosceremo
Ci incontreremo ancora
Sarai ancora qui
Io sarò ancora qui
In questo tempo
In questo mondo
Su questo piroettante pianeta

Entrerò in te
e tu farai finta di niente
così ce ne sono già stati
così ce ne saranno

Te lo chiederò
Farai solo una smorfia
Ti toccherò
La prossima volta, forse

.

Kateřina Di Paola Zoufalová

Kateřina Di Paola Zoufalová vive a Roma dal 1980, dove all’Università La Sapienza ha studiato Lingue e Letterature Straniere Moderne. In seguito, ha conseguito gli studi post-laurea presso la SISS dell’Università degli Studi Roma Tre, specializzandosi in Didattica delle Lingue Straniere. Ha insegnato lingua e letteratura tedesca presso diversi licei linguistici di Roma e al Centro Ceco Roma ha tenuto corsi di lingua ceca. È socio fondatore dell’Associazione Praga, di cui è Presidente dal 2015. Nel 2010 ha fondato la Scuola Ceca Roma (il premio Gratias Agit 2022) di cui è tuttora direttrice. Nel 2016 le è stata conferita la Medaglia di 2° grado del Ministero dell’Istruzione, della Gioventù e dello Sport della Repubblica Ceca. Traduce poesia ceca in italiano. Con lo pseudonimo di Katerina Sagredo ha pubblicato una raccolta di poesie Variazioni su temi femminili, Petit Atelier, Praga 1992. Si occupa di bilinguismo e ha curato il libro Anime gemelle. Testimonianza sul valore del bilinguismo (ediz. italiana e ceca), GSE, Roma 2023.

Tevere

Ti distendi umile fiume.
Padre di gloria
e di fratelli più grandi

hai dominato tutto il mondo!
I centauri ancora una volta s’accoppiano
nel bosco di Anna Perenna.
E ti insegue Rainer Maria Rilke

per dare il suo biglietto a una baronessa.
Sulle tue rive un poeta sofferente
mi legge in latino i versi
di Orazio Flacco,

e per tanto tormento
s’è scheggiato il cristallo!
Gli angeli dal ponte
agitano furiosi le ali
per inaridire le mie lacrime.
E lancio ai gabbiani,
nelle acque senza requie,
le rose avvizzite
di un amore impossibile.

Loro

si libravano leggeri
celesti e rosa torno la lanterna
che dalla cupola maggiore
versava bagliori su tutta la città,
e ci divora eterna lei
e noi viventi…

Come penetrava il volto
quel putiferio di ali
mentre cadevano in un peccato eccelso…
di trattenere un po’ ancora,
e ancora la vostra mano e il punto,
e la distanza che misura l’ordine!

E m’allontanavo sotto gli archi
gremiti dei lamenti degli infermi,
e mi strappava a carne viva,
con invisibili artigli, la tristezza
di chi non ama abbastanza.

Tutto… tutto e ogni cosa
viene recisa da una vocina,
come da un affilato bisturi!

mammina… mammina… ti aspetto

Epilogo

Marcivano
come tronco senza linfa
le nostre vite
e sconce e incarnate
si mutavano
in radici di melo
inconsapevole.

E sui ghiacciai le ceneri
seminate tra farfalle arse.

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Lucio Mayoor Tosi, Mi sorrido gratis. E altre anomalie. Progetto Cultura, 2023 pag. 72 € 10. È una poesia ridotta agli ossi di seppia in termini moderni. Avvertenza ai lettori: all’interno di questo tipo di poesia non c’è niente, niente che valga la pena di essere annotata, è una poesia da non leggere, e che deve essere dimenticata subito dopo averla letta. È il modo totiano di albergare nel vuoto. Lettura di Marie Laure Colasson

tirannosauro 2

[immagine prodotta dalla AI su alcune parole di una poesia di Giorgio Linguaglossa]

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

La proclamazione che il linguaggio è in bilico

che la disinformatzia diventata una infrastruttura permanente dell’ideologia, ha prodotto guasti irreparabili al linguaggio. Questo l’Avatar di Lucio Tosi lo ha capito.

Le poesie di Lucio Mayoor Tosi sembrano scritte direttamente da una intelligenza artificiale che ha digerito un po’ di linguaggi scolapasta, linguaggi frigiderizzati e miniaturizzati. La AI ha drenato tutto il dionisiaco e l’elegiaco dai linguaggi-panettone della poesia elegiaca che va di moda oggi e che tanto piace al gusto ottimizzato delle massaie di Voghera. Sta di fatto che Tosi ce li restituisce come nuda impalcatura per parole isolate a voce sola, in mibemolle, allegro-non-cantabile, divise con ceramica isolante, parole isolazionate che stanno appese ai fili dello stenditoio condominiale: qui un calzino, qui una porta, un frigidaire, una maglietta scolorita, mollette in legno e in plastica, fettine di azzurro tra le lenzuola… qui ci trovi tutto il quotidiano ridotto ai minimalia con controfigura. La controfigura del linguaggio disinformatzizzato e mitridatizzato.

Offro castagne per cirri alla fonte. Duemila.
Alpini e gengivali.

J.M. Basquiat.
Natura morta con frutta e tabernacolo.
Bitter. Fotografia.

Certo, non si tratta di minimalismo, come una lettura superficiaria vorrebbe far credere, ma di un ultraismo (Tosi è un acceso tifoso juventino e un pacifista) portato alle estreme conseguenze. Così, il linguaggio portato alle estreme propaggini delle sue possibilità in-espressive rivela se stesso: l’incomunicabilità delle parole abbandonate a se stesse in obbedienza al dettato totiano. Anche il titolo del libro: «Mi sorrido gratis. E altre anomalie», non vuol dire assolutamente niente. È un linguaggio fitto di anomalie. E poi quel punto divisorio tra le due frasi (non finite), indica una precisa volizione: che tra le due frasi c’è una separazione, una scissione. Il punto indica un divieto, non un cominciamento né un ripiegamento ma un respingimento. Il punto è punto e basta, serve a interrompere lo scorrere superficiario del linguaggio, ad impedire che esso fuoriesca, trasbordi in tutte le direzioni. L’immagine in bianco e nero del fiore secco al posto della prefazione o della lettera dell’autore ai lettori è eloquente, ci vuole dire che tutto ciò che la poesia dirà è equivalente non agli ossi di seppia ma ad un fiore essiccato. Quello che è significativo in questa operazione è il procedimento condotto alle estreme conseguenze, che porta verso l’essiccazione del linguaggio ridotto alle parole prese in sé, il che contribuisce al dimagrimento massimo del linguaggio e delle sue facoltà locutorie, essendo la comunicazione lo statuto horribilis del linguaggio posto nello stato dinamico delle relazioni sociali, al quale Tosi replica con un linguaggio in stato di quiete, linguaggio appena uscito dal frizer del frigidaire. E la cover è quanto mai indicativa di questo stato di cose. Lo stato di cose esistenti è questo: non c’è via di uscita, non c’è alcuna Exit strategy. Tosi rimanda al mittente (cioè a se stesso) la stessa idea che vi possa essere una Exit strategy. La dicitura posta in cover: «Hai eliminato questo messaggio», è eloquente, non c’è bisogno di altre parole. Seguono le parole in verticale messe in cover:

emoticon di occhiali neri
Hai eliminato questo messaggio 19:26
Gentiluomo 19:47
Compratore 19:47
Freno 19:49
La parola era Canale 19:52
abbiamo perso 1952
(faccina colorata arancione)

È una poesia ridotta agli ossi di seppia in termini moderni. Avvertenza ai lettori: all’interno di questo tipo di poesia non c’è niente, niente che valga la pena di essere annotata, è una poesia da non leggere, e che deve essere dimenticata subito dopo averla letta. È il modo totiano di albergare nel vuoto. Un vuoto fatto di parole povere, semplici, finite, perché «nel finito c’è l’infinito» come asseriva Wittgenstein. È il modo totiano di attingere l’infinito. A bordo di una nuvola o di un autoveicolo, fa lo stesso. È il modo totiano di svuotare il mare con un secchiello.

(Marie Laure Colasson)

Lucio Mayoor Tosi
28 novembre 2023 alle 11:00

In musica, un trattino posto sotto la quarta linea del pentagramma corrisponde a un silenzio della durata di due quarti. Noi ci dobbiamo accontentare del punto di interruzione, quindi uno o più spazi di interlinea. Manca nella scrittura un segno di silenzio. E ci farebbe un gran bene, se non altro per poterci affrancare dal flusso modernista, tanto esposto alla demenza, ma tant’è. Non è bastato il distico, no, chi non riusciva a stare nella misura (propedeutica) si inventò il polittico; quindi ogni sorta di escamotage pur di tornare al verso libero, un po’ qui e un po’ là nel surrealismo europeo; ecco quindi i “compostaggi”, a volte auto remake (testi scritti due anni prima fanno la ricomparsa in testi aggiornati). Adesso – ma dov’è Talia? In fondo è sua l’idea – queste notizie dal “nuovo” mondo. Che significa? Che abbiamo bisogno di tracciare una distanza dal mondo per poterlo osservare, alla peggio indossare dei guanti. Ma il “prodotto” piacerà alla critica ancora in auge, o quello che ne è rimasto? (Chi se ne frega dei lettori). Forse no, ma possiamo sorprenderli questi critici. Ed ecco le scimmiette, per la prossima antologia Kitchen; che disegnerò volentieri (ma era una proposta che avevo già avanzato prima del dinosauro…).
Rispondo così all’apprezzamento di Alfonso Cataldi, che ringrazio con tutto il cuore: che io non c’entro nulla con questa messa in scena. Lo stesso Linguaglossa scrisse, anni fa, quando ancora mi ingegnavo per scrivere poesie, «Chi mai potrebbe scrivere come Lucio?». Figuriamoci adesso! Eppure la mia scrittura è perfettamente in linea con le premesse critiche avanzate da Giorgio. La critica marxista è sempre stata diffidente verso l’estetica, la critica marxista vuole contenuti; un tempo rivoluzionari, oggi progressisti. La democrazia, prese le distanze da Platone, è diventata democrazia americana, israeliana, perfino russa. Tra un po’ anche cinese. Siamo costretti a sostenere le loro continue guerre, magari parteggiare per una ricchezza anziché l’altra. Buona giornata. Oggi è il compleanno di Giorgio [28 november 2023]. Sono contento che si sia rimesso in salute. Non avevo dubbi, ha un’indole da guerriero… Antico romano, sebbene provenga dalle colonie. Antico romano è anche un mio verso, lasciato lì, in mezzo al nulla.

Al circolo dei defunti.
Uomo in bicicletta sotto la neve.
Pierrot Lunaire.
Veicoli per soldati FACCIAMO LA GUERRA, non l’amore.

Antico romano. Nuotatore in vasca tiepida. A capo di nulla.

«È vitello, spero ti piaccia.»

Da Mi sorrido gratis. E altre anomalie. Un titolo senza significato. Fantastico!

Lucio mayoor Tosi cover DefPoesie da Mi sorrido gratis. E altre anomalie.

1
Confusa, con geranio. Davanti al mare.
Pittori di venezie.

Mentre aspettiamo. E due chiedono la strada.
In South Dakota.

Prima, e coi denti rifatti.

Mio marito, davanti al ritratto
di Andy Warhol.

Separati in casa. La domestica.

Tra i semafori. E in piscina.

In posa tra volpi galline e gatti.
Prima che diventassi famosa.

Senza radici, appollaiata sul furgone,
ah ah ah! Oh, mi mancavi.

Cosa leggi?

Già fanno festa i tulipani
e Smetti di toccare all’impazzata.

Il sorriso del carceriere.

Arabi. Continua a leggere

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Tre Voci di Avatar Raffaele Ciccarone (Sic Stantibus) Francesco Paolo Intini (Gneo Gaius Fabius) Giorgio Linguaglossa (Germanico), Fate attenzione ai linguaggi, quando un linguaggio tramonta, un altro sopravviene e prende il posto di quello deperito. Il linguaggio belluino della Meloni fa da contraltare e coabita con il linguaggio bambinesco della poesia di Vivian Lamarque…

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Raffaele Ciccarone
Cara Scintilla

(Il cantico delle farfalle ottura le canne dell’organo)

Sarebbe la verticale che allunga la scia delle farfalle
amplificando l’eco della frescura nella mentuccia
non c’è l’abbaglio del treno a suscitare tremore
visto l’apericena consumata in galleria

un equilibrio disarticolato il sibilo di sottesi fischi
allarga la visuale dell’amarena ora che il criceto
tra l’ossigeno e l’ossido di carbonio stenta
veleggia tra le montagne russe motu proprio
Vista la risposta dell’AI all’angolo acuto

l’accento sprizza scintille e non è detta la piena
comprensione della ChatGPT una volta
che il distributore dispensi la tazzina se manca il caffè
fu Cassandra a elargire le tessere magnetiche

per accedere alla mostra della tela di Penelope
prima che Ulisse arrivasse a Itaca per la mostra
con tutti i Proci per assistere all’inaugurazione
nelle waiting list sfioriscono i ciclamini

Annibale rifiuta di portare a Roma i fiori quando
Il telescopio segnala solo orme di dinosauri
e la luna fa il bagno al largo delle isole Tremiti

(Sic Stantibus)

Francesco Paolo Intini

Caro Germanico

Di quale guerra si sia liberato non so dirti ma questo puledro che gira per l’astronave e vi entra ed esce, non vuole saperne di biada e acqua.
Non fa che intrufolarsi tra vecchi registri di bordo e libri di storia per digerirli prima di mangiarli.
Se gli metti sotto gli occhi il debito di una generazione su un’altra, sorride come un primo ministro al G20 infischiandosene e nitrendo
Il giovane Biden sembra partorito da una tempesta di antimateria.
Un pidocchio però lo tormenta nella criniera.
Antienergia o la coscienza di assomigliare ai fanciulli sotto tiro?
Forse solo il vecchio corteo confederale rimasto impigliato alla scala mobile che ritorna a Piazza del Popolo con le bandiere basse e meste dell’asino bastonato dal destino.
Certo è che se ne sentono gli slogan nel nitrito fanciullesco e sbarazzino.
Persino quando corre contro il sole illudendosi di raggiungerlo e giocare con un raggio o quando la pioggia di detriti gli trafigge gli occhi e scalpita, ha qualche sprazzo dell’antica forza con tanto di barba che gli cresce fluente e minacciosa sui secoli a venire.
Ah il Gibaud di metalmeccanici. Che meraviglia di fanciulli percorse le strade, compose poesie con rima baciata..carogne..fogne!
Sulle due sfere di cristallo si intravedono lampi di Carosello e ciglia robuste.
Come se il Dna lo avesse dotato di un repertorio di sketch pronti e inossidabili.
Smorfia e faccia storta di Totò all’occorrenza.
Baffetti e bombetta che si stampano all’improvviso sui denti appena lavati e uno scommettere su questo e quello del benessere alla carte che lo sveglia dal sonno e… il buco nella tasca non c’è più!
A stento devo ricordargli che è solo un cavallino e non può recitare in un stacchetto pubblicitario e fumare sigari cubani in tuba e pelliccia, senza destare sospetti e invidie e nemmeno in Miseria e Nobiltà, ma che se si tratta di un piatto di spaghetti si può rimediare alla meglio appena si arriva a Plutone.
Anche su un iceberg c’è sempre una fila di proletari e orsi neri che aspettano il loro secolo per staccarsi le catene dai piedi e pattinare sul ghiaccio, fare uno stage in una miniera di Litio o di Nickel e ricaricarsi lo stomaco a un distributore di corrente.
E’ il nostro?
Ma i giovani come si sa non sanno nulla di speranze di lungo corso e tutto vorrebbero mettere nel tritacarne dei loro recettori freschi e puliti.
Lui adesso è immobile, nella pancia finge di avere Odisseo e pochi audaci.
Sembra che partecipi al gioco di una bimba di un anno che lo cavalca dondolandosi di tanto in tanto.
Chissà se metterà a ferro e fuoco la sua stanza di cubi e bambole di Mulan e Cassandra o semplicemente uscirà all’improvviso a pattinare con Alina sgomitando nella Bellezza con un triplo flip, in senso inverso, questa volta e senza un missile che gli caschi tra i capelli.

(Gneo Gaius Fabius)

Giorgio Linguaglossa

Caro Gneo Gaius Fabius

Si narra che Kateřina Zoufalová, la moglie del poeta Antonio Sagredo, alzi il calice della discordia ogni qual volta il console Ripellino abbraccia il suo schiavo, il filosofo Callicle… quel sofista, per rabbonire il suo padrone, ha predetto lunga vita alla Repubblica a condizione che le farfalle – dice – volino più in alto delle meduse, il che è un falso truismo, come possono le farfalle, che vivono nell’aria, volare nel mare che è fatto di materia equorea? Aristotele cosa ne direbbe?

Si narra altresì che nell’ologramma n. 5ABWX 145.78 si vive la battaglia di Farsalo del 49 a.C, ma qui Pompeo sconfigge Cesare, ritorna a Roma e diventa dittatore con il favore del senato, ingaggia un esercito con il quale sconfigge l’invasione delle formiche a cavallo capitanate dal sarmata Ozerov
Si dicono tante cose, caro Gneo Fabius, la più esilarante è che in un altro ologramma il poeta Catullo le abbia suonate per bene all’elegiaco Mimnermo sull’ermo colle dinanzi alla finestra dalla quale era affacciato il sommo poeta di Recanati…

Ma tutte queste cose tu, lo so, le sai, ho così visitato un altro ologramma nel quale Cesare sta servendo come coppiere in un banchetto insieme ad altri prostituti disteso su un triclinio su un letto d’oro, con una veste dorata e rabescata… pensa che persino i suoi soldati l’hanno sbeffeggiato durante il trionfo gallico gridando: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare!». Che fo che non fo, ti spunta il vicepremier del consiglio, quel furfante, l’ostrogòtt Salvini, che alza un cartello con su scritto: «dò due Mattarella per mezzo Putoler!»

Nel metaverso si sta meglio, non hai a che fare con le mosche nocchiere o con i vandali di Vercingetorige… in un altro ologramma il commissario Montalbano arresta il poeta Valerio Magrelli, gli mette le manette ai polsi per aver emesso un sonoro peto nella piazza pubblica che fiancheggia il Ministero della Giustizia dell’Urbe, atto davvero sconsiderato e insolente

Tu dici che un pidocchio tormenta la criniera del giovane Biden? – non saprei dire, opino si tratti di una cimice o di una piattola gigante; infatti, in un ennesimo ologramma la piattola è diventata una mongolfiera riempita con l’anidride carbonica e il metano emessi dalle terga degli elefanti portati nell’Urbe da quel saccente di Scipione l’africano di ritorno dalla guerra del Donbass

Pensa tu che, alzo il naso e chi ti vedo?, vedo il poeta Lucio Tosi che solca il cielo con una astronave con su scritto “Mi sorrido gratis. E altre anomalie”, che altro non è che il titolo del suo libro d’esordio nell’agone poetico italico dato alle stampe nel novembre del 2023 per sabotare quegli ingenuotti della poetry kitchen capitanati dal poeta Vincenzo Petronelli

Fu allora che raccolsi da terra un pugno di mosche e le lanciai verso il cielo in segno di “Buon augurio”, dal titolo di una poesia del poeta italo-germanico Steven Grieco-Rathgeb, il quale, è notorio, sotto sotto parteggia per la poesia elegiaca e i suoi accoliti
(Germanico)

Noticine miserabili in margine ai grandi eventi

Il coordinatore del gruppo di psicologi e giuristi è Alessandro Amadori nel 2020 ha autopubblicato La guerra dei sessi, un libro in cui nega la violenza maschile e sostiene tesi cospirazioniste sul tentativo delle donne di dominare i maschi. Il suo punto di vista somiglia molto a quello reazionario e retrivo del generale Vannacci.

  1. Come è possibile che Alessandro Amadori sia stato scelto come consulente del governo?

2. Come è possibile che un ufficiale che sostiene tesi illiberali, contrastanti con i valori della Costituzione sia diventato generale dell’esercito italiano?

Fate attenzione ai linguaggi

Fate attenzione ai linguaggi, quando un linguaggio tramonta, un altro sopravviene e prende il posto di quello deperito. Il linguaggio belluino della Meloni fa da contraltare e coabita con il linguaggio bambinesco della poesia di Vivian Lamarque e con il linguaggio pacificatorio della “narratrice” che ha vinto l’ultimo Strega. E questi sono davvero un pessimo segnale dello stato di salute della società civile. Continua a leggere

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Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

Fabio dainotti cover

L’osservazione di Andy Warhol secondo cui in futuro ognuno godrebbe di un quarto d’ora di notorietà esprime un totale scetticismo nei confronti della possibilità di fare opere artistiche tali da restare come azioni significative per i contemporanei e i posteri. Siamo diventati tutti degli scettici integrali, dei lucidi paranoici, abitiamo la follia dello psicozoico senza rendercene conto.
Occorre quindi prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: «Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione». Il delirio, la derelizione, il soliloquio a voce alta o voce bassa, soprattutto se sistematizzato e messo in forma di lirica, vorrebbe dare una apparenza di ordine e di senso alle esperienze di caos. È che è diventato impensabile dare un ordine di senso al caos dei giorni nostri, ma Fabio Dainotti è un affezionato storyteller, un raccontatore di storie, lui non vuole mettere ordine al caos né indire una gara per un concorso pubblico in materia di una lingua pura, la sua poesia è spuria, invariabilmente legata al plot, al racconto magari sui morti o sui nati morti alla maniera di Giorgia Stecher, senza però che intervenga l’elegia. Dainotti è un poeta ormai eslege e ipocondriaco, ha messo nel cassetto degli agenti patogeni l’elegia considerandola come una indebita intromissione di un esigente creditore nell’ambito del nostro conto corrente. È possibile pensare, sulla scia di Lacan, che il soliloquio sia una salutare reazione che ha luogo quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, ovvero, quel significante-escluso, significante-Padrone a cui non corrisponde alcun significato. Ora, è che questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto. La perdita di autorevolezza e di senso del soggetto-autore non riguarda soltanto la letteratura, ma ogni forma d’arte e di presenza nell’esistenza, Dainotti è uno spigliato investigatore, sa che l’intromissione dell’io nel testo poetico deve essere ridotta al minimo presentabile, e si comporta di conseguenza, la riduce ad un piccolo io che se ne sta in un cantuccio e di lì osserva lo sbrogliarsi della matassa dell’esistenza.
Questo preambolo per dire che al di sotto di quest’ultimo libro di Fabio Dainotti c’è una situazione storica di disincanto, di dissoluzione, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni prototipiche del nostro tempo di crisi epocale. Le tematiche del libro sono le più varie; mi limito a citare i titoli di alcune poesie, per lo più composte da una sola parola (Grillo, Scarpine, Sconforto, Mareggiata, Pioggettina, Bimbo, Bimba, Alla Madre, In morte, Notturno, Rimorso, Viaggi, Pierrot, Burlesque, Bisticcio, Cattedrale, Lettera, Ricordi di scuola, Sera, Ars poetica, Effe, Abatino, Sara, San Marco, Il gatto, Fillide, Congedo, Piove, Sguardo, L’albergo dei morti, Miliardaria, Mattino milanese, Mattino vicentino, Novecento, Cane e padrone, Famiglia, Cimitero marino, Orario d’apertura etc.). Come si vede già dai titoli, risalta la nominazione blasé, svagata e disincantata del dettato poetico di Dainotti:

Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori, la vita celebra
i suoi trionfi, in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne ricorderà.

È il cane il più saggio tra gli umani di oggi. È l’aspetto grottesco quello che traspare tra le parole gentili del poeta di Cava de’ Tirreni. Ecco un altro esempio di poesia disillusa e disincantata:

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Ma dove sono i re e le regine
di cartapesta con le teste mozzate?
Prigionieri di polvere e incantesimi
negli abbaini pieni
e sogni infranti e di luna.

Dov’è re Ezio, prigioniero illustre,
dove la sua bionda carceriera?
e Federico, vento di Soave,
a quale porticina di convento
bussò, stanco di vivere e di regnare?

Son tutti morti, non c’è più nessuno.
L’erba è cresciuta e ora il vento la spinge
sulla collina.

Non ci saremmo mai imbattuti in questo genere di poesia, una sorta di neo-crepuscolarismo declassato e privo di elegia, se non vivessimo in un periodo di grande crisi economica, politica, sociale, e crisi del linguaggio poetico. Dainotti risponde alla crisi plurima con un linguaggio soliloquiale, limpido e disilluso di chi ha cessato di credere alle balsamiche virtù progressive della storia, malgrado tutto, e alle virtù benefiche dell’io plenipotenziario e penitenziario:

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Ciò che resta non è neanche più il non-senso, che sarebbe pur sempre una istanza plausibile, quanto l’indebolimento del senso fino alla esaustione, fino alla fine del senso stesso. Tutti quei valori di un tempo che ci appare lontano, d’improvviso oggi non valgono più nulla, sono caduti in disuso, sono stati, come si dice oggi con una brutta parola, rottamati. Fabio Dainotti ne prende nota nel suo taccuino post-lirico e si rivolge al lettore con il suo registro post-musicale medio, con il suo tono sornione, dimesso e auto ironico da neo-crepuscolare giunto in ritardo all’appuntamento con il treno dell’ipermoderno.
La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere.

(Giorgio Linguaglossa)

da L’albergo dei morti, manni, 2023

Famiglia

“Un treno lanciato nella notte”
ci aveva portato su al Nord,
io all’università; tu per lavoro,
con la tua valigia da emigrante.
Si parlava di temi difficili: la vita,
e la letteratura, si fumava;
intanto si viaggiava
verso un incerto destino.

Era, la solitudine, ghiacciata;
neppure il vino mi scaldava il cuore.
Scrivevo lettere d’amore,
ma senza il suono di una voce umana
la voce della mia amata lontana.

Indossai il mio abito elegante,
e presi il treno da Pavia a Milano;
ed eccomi in Piazza Tricolore,
dove mi porta il tram, scampanellando;
poi pochi passi ancora, caro amico,
e suono il campanello alla tua porta.

Viene tua madre, in vestaglia ancora,
e sono già le undici.
È lei che porta avanti la famiglia,
l’emigrazione al Nord e poi il lavoro
trovato a tutti i figli. Anche al marito:

a un tratto lo intravvedo
dietro una porta semichiusa,
vestito già da vigile;
parrebbe un generale,
se non fosse il sorriso bonario.

Poi c’è Filippo, il figlio donnaiolo;
rincasa tardi d’estate, apre il frigo,
afferra qualche cosa da mangiare
incurante di me; poi ti canzona
bonariamente e se ne va a dormire. Continua a leggere

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Steven Grieco Rathgeb, “Il Buon Augurio II”, La poesia con vista da remoto «Forse sei tu, in Italia, il più grande poeta modernista, oggi, dopo Zbigniew Herbert, capace di allargare lo sguardo dal privato alla geografia (Roma, Varsavia, Łodz, Berlino). Forse sei l’ultimo dei modernisti che poeta en plein air, come un novello impressionista che impieghi gli stilemi dell’espressionismo e del modernismo. Le tue poesie sono icone in movimento che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e la luce», a cura di Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Steven Grieco-Rathgeb è nato nel 1949 è un poeta bilingue che scrive in lingua inglese e italiana. Vive in Grecia, dove coltiva un piccolo lembo di terra. Ha pubblicato Maschere d’oro, poesie italiane nella collana Biblioteca Cominiana, dove il suo volume era affiancato da testi di Yves Bonnefoy, Francesco Tentori e Charles Tomlinson: Entrò in una perla, poesie inglesi in traduzione italiana, collana Hebenon, Mimesis, Udine 2016. È stato redattore della rivista letteraria internazionale L’Ombra delle Parole. Nel 2018 si trasferisce in Grecia dove abita su una piccolissima isola che puoi attraversare a piedi, Koronisia (Κορωνησίας), unita alla terraferma da una strada in mezzo al mar Mediterraneo lunga 25 chilometri, abitata da qualche pescatore e dai gabbiani e dagli uccelli di passo.

Steven_Grieco_Rathgeb_destroyed Warsaw

[Destroyed Warsaw]

.

caro Steven,

che altro è la tua poesia se non un pensiero poetico da remoto che medita sul tramonto della luce che avvolge tutte le cose? Sulla luce che lentamente si estingue? La tua poesia è sempre paesaggistica, è sempre en plein air, vuole chiamare il lettore dentro la luce e i suoi mille riverberi; e che cos’è questo se non il chiamare, da remoto, il lettore quale protagonista dentro il tramonto della luce? È in questo tramontante tramontare che la tua poesia si illumina (riceve la luce) e la proietta sul lettore (la irradia)… nella tua poesia i personaggi, i paesaggi, gli oggetti ricevono luce dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, diventano visibili e, nello stesso tempo, invisibili per un eccesso di luce, un eccesso di aria trasparente, di rifrangenze, di ultrasuoni. È una poesia in movimento, una colonna in movimento che chiama il movimento, e lo allontana per rifugiarsi nel rammendo del ricordo e delle icone in movimento. Prendi l’abbrivio con l’invocazione ad una deità, Zbigniew Herbert, il poeta che ha poetato «nei modi della complessità», e aggiungi «come Subbutaj e i suoi Mongoli». E allora eccoti a lavorare, come un fabbro ferraio, sulla piegatura dei verbi per rendere visibile il passaggio, il sentiero della luce, modulando le declinazioni dal gerundio al participio passato fino al condizionale:

Tu, Zbigniew, poeta, hai descritto questo
nei modi della complessità: come Subbutaj e i suoi Mongoli,
non giungendo, mai giunti, giungano sciamando
alle sponde del fiume Kálka.

Forse sei tu il più grande poeta modernista, oggi in Italia, dopo Zbigniew Herbert, capace di allargare lo sguardo passando dal privato alla geografia e alla storia attraverso i suoi luoghi (Eleusi, Mègara, Roma, Varsavia, Łodz, Berlino). Forse sei l’ultimo dei modernisti che poeta en plein air, come un novello impressionista che impieghi gli stilemi dell’espressionismo e del modernismo. Le tue poesie sono icone in movimento che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e l’onda di luce che avanza nello spazio tridimensionale. Ecco una tua tipica icona in movimento:

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

Che inizia con un passato remoto (andammo) da una data incerta (qualche giorno d’ottobre) attraverso un luogo incerto anch’esso, (a Varsavia) dove due personaggi sono diretti verso un luogo incerto e instabile perché sottoposto alla aleatorietà degli eventi.

Che cos’è l’Icona? Non è una pittura silenziosa dove la luce viene dal un altro Luogo?, un luogo immateriale e immortale? Ovviamente, la tua poesia en plein air, si riallaccia alla antichissima poetica delle icone bizantine, è una poesia da zoom paesaggistico, è un periscopio che scandaglia l’orizzonte, fotogramma dopo fotogramma, fotogrammi che prendono luce da un’altra dimensione, ricchi di aria e di vuoto, pieni di vento e di cartacce.

L’icona segna il punto di congiunzione tra la dottrina neoplatonica e la religione cristiana. Qui l’icona non è semplicemente la raffigurazione del trascendente, ma vera e propria incarnazione dell’ente supremo nella forma sensibile della storia degli uomini ricca di sangue e di sperpero. Si parla allora di epifania dell’essere supremo. In questo senso la mimesis platonica raggiunge la sua massima espressione. Questo carattere epifanico della verità di Dio non spetta allora solo al Verbo, alla parola, ma anche l’immagine, simbolo della luce divina, è manifestazione di Dio; possiamo addirittura affermare che l’arte dell’icona è poesia senza parola, messa in opera della verità in immagine silenziosa: ciò che la parola dice, l’immagine lo mostra silenziosamente.

È quindi sbagliato affermare che mentre nella cultura greca è la vista l’organo privilegiato per pensare il soprasensibile – basta pensare al significato delle parole fondamentali del pensiero platonico idea e eidos che rimandano a un vedere essenziale -, nella cultura cristiana il vedere diventa un ascoltare. Non a caso una delle immagini più ricorrente in tutta la tradizione cristiana è proprio quella della luce, intesa, appunto, come immediata epifania della verità: lo Spirito santo è sia Verbo che Luce. Nella visione teologica cristiana la luce è una promanazione (secondaria quindi) dello Spirito Santo. Questa metafora della luce come immediata percezione della verità non si esaurisce in una dimensione puramente religiosa, tra luce e verità c’è un filo conduttore comune, infatti, quando l’occhio percepisce gli oggetti, ciò che in realtà percepisce è la luce riflessa di essi. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela. È la luce che rende bello l’oggetto, permettendo a quest’ultimo di raggiungere il suo bene, la sua essenza.

La tua poesia ha bisogno dell’icona e del passato, è sempre immersa nel passato, dà forma al passato e lo trasfigura in statua di sale, statua di rifrangenze.

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

L’artista delle icone è colui che mediante la vita ascetica si svuota di tutti i desideri terreni per accogliere la luce trascendente trascrivendola su tela. Infatti, l’arte contemplativa si pone al centro della cosmologia dei Padri della chiesa: la visione dei lógoi archetipi, dei pensieri di Dio sugli esseri e sulle cose, costituisce una teologia visiva, una iconosofia. Ogni cosa possiede il suo lógos, la sua parola interiore, la sua determinazione strettamente legata all’essere concreto. Questo legame è posto dal fiat (l’imperativo “sia”) divino; esso è la corrispondenza adeguata e quindi trasparente tra forma e contenuto, il suo lógos; la loro intima compenetrazione, la loro coincidenza segreta si rivela in termini di luce e rivelano la bellezza. La bellezza della icona sta nella trascendenza e nell’immanenza divina. Quest’arte, tipicamente orientale della cristianità ortodossa, rappresenta la possibilità che il trascendente platonico possa rendersi visibile nel mondo mediante un processo ascetico di purificazione e di accoglimento del soprasensibile.

Ecco, tu metti l’immobilità dell’icona nella magmaticità della Storia. La bellezza delle tue icone in movimento sta in questo atto di immissione nella transustanziazione della storia. In questo ti riveli occidentale, figlio della cultura anglosassone e della lingua di Dante; riesci concreto ed astratto, dipingi le parole come un pittore espressionista e le moduli con la dolcezza delle sculture di Henry Moore. Così, riesci ad essere molto poco italiano e molto poco inglese e fai una poesia che per tua fortuna non ha niente a che vedere con i minimalismi della poesia italiana e inglese degli ultimi decenni a cui tu sei semplicemente, per tua fortuna, estraneo.

(Giorgio Linguaglossa, 19 novembre 2023)

Onto Steven Grieco

[Steven Grieco Rathgeb]

.

Il Buon Augurio II

I. Plac Zbawiciela

Questa primavera non fioriranno i salici bianchi al fiume.
Gli alberi volano e sono nudi.
Ma i loro sguardi a migliaia già volteggiano nell’aria,
spolverando lanugine ovunque,
sulla folla ed io, felicemente ignari,
a passeggio per le vie e le piazze di una Varsavia
che ogni spigolo allarga, ogni specchio incastra
nel cielo impetuoso di nubi.

Più si sdoppia immobile e non moltiplica, si perde.
Compiuta fra noi e noi, l’imperfetta identità.

E l’immagine è nera.

È qui che vengono a morire i blocchi della banchisa,
nell’animarsi d’infiorescenze solo riflesse nell’aria;
e il cimitero di petali di ghiaccio in crescita di anno in anno,
su in alto, dove la statua con gesto misericordioso,
indica la città rasa al suolo.
Ma ancora, e sopra i tetti, scivolando nel silenzio,
passano le sagome di iceberg, i colossi
nel loro transito a sud,
traditi talvolta dalla danza di un filo d’erba.

“Tutto era per sempre, fino a che non fu più.”
Aprile 2019, i fiori, la guerra da sempre terminata,
e ogni capitombolo nella notte sconfitto e imprigionato.

Questa nostra mattina di luce totale, di luce sbarrata
a se stessa, è primavera che non ha fine;

e nella porosità fattasi estrema, il travaso di pensiero
in ogni direzione, gli strabilianti progressi,
freno ad ogni capitombolo in nuovi precipizi.

I tuoi occhi, Kasya, tradiscono altri paesaggi.

“L’albero della vita ha maturato frutti molti,”
hai detto, quando tutti piangevano;
“ma noi non sappiamo dove dimori quest’albero;
né i frutti prima di cadere e dopo
a cosa siano serviti.”

La forza dei tuoi occhi rivela la brezza dei salici,
e tutto a noi sussurra il vero:
di anima e suono questo vibrare apre un varco,
un’origine; le tue labbra azzurre spalancano porte
sulla nostra casa ormai decaduta, miseria
e innocenza di brutte femmine e letti eunuchi
condivisi nell’ira, nell’inganno, nell’arroganza;
e fango, i piatti e le posate
lavati nel sangue di impietosi sradicamenti.

Tu riveli le migrazioni mai interrotte, da Łodz a Berlino
a tutt’oggi lo ieri verso il domani in marcia,
le donne avvolte negli scialli e i bambini in braccio.
Opera di industriali della carne surgelata,
che per “rischi asimmetrici, ambigui e irreversibili”,
hanno appeso i negazionisti per le pudenda
alla trave maestra della sala dei banchetti.

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

Steven-Grieco Rathgeb in celeste

II.

Tu, Zbigniew, poeta, hai descritto questo
nei modi della complessità: come Subbutaj e i suoi Mongoli,
non giungendo, mai giunti, giungano sciamando
alle sponde del fiume Kálka.

Di là, attraverso le prime brume del mattino,
le immagini della poesia materializzano ombre
di accampamenti, rumoreggiare di uomini e cavalli –
tutta la nostra modernità irrealizzabile.

“Senza bisogno di ignorare un dopo.”

Hai sparso, poeta, semi in campi mai arati.
Balzarono su erbacce nel tormento della fioritura.
Hai accolto me nel tuo secco disincanto,
prevedendo i luoghi dell’aggressione, i sicari
nelle ambasciate, il muto collasso della luce del giorno.

Io sono sceso sotto l’orizzonte, al bruno gioiello;
ho compiuto il viaggio remoto là dove
s’accendono mille lumi fra aggrovigliate radici
di giganti in alto in dialogo con il vento di stelle cadute.

Sotterraneo labirinto, non sarà di parole, hai detto:
di altro germinare, quando quelle lanterne, capovolgendosi,
spingeranno a significare molteplici futuri.

Vedo il tuo quanto il nostro tempo di sciagure rimosse;
lento avvicinarsi delle distanze;
sempre più incantato, più impotente a scindere l’Uno
nella distorsione dell’Altro, principe di pagliacci.

In quali modi, poeta, io giunga con te
alle sponde del fiume Kalka,
dove i salici getteranno ombre sugli accampamenti.

Steven Grieco Rathgeb profilo grigio

III.

Nelle nivee città della sintassi, sventolano bandiere
alle torri avare. Sventolano dure, inespugnabili.

Così le lingue monolitiche crollano di colpo:
“per non aver intravisto la sponda opposta.”

Il pensiero umano più ardito rasentava altri pianeti!
Ma quando ci girammo a guardare,
ogni sua offerta retroagiva nel gran specchio convesso,
della pece incandescente lanciata al cielo
le traiettorie tornavano giù
in squallido vivere, riproposto e riavvenuto.

In quale modo, allora – io mi scervellavo –
tutto ciò si replica, la bruttura si ripete?
È questo forse il luccichio della spada di false vittorie?
E davvero l’intelligenza ha fatto tanto scempio?
È proprio questo, questo, l’instancabile ripartire
che ripiega e sempre s’inverte?

Quanto visto annotai nello smisurato libro dell’Avvenire:
Rítsiana, 16 luglio: “il guazzabuglio s’irradia in alto
solo per ricadere orgoglioso sui propri sinistri.”

Ma certo, eccolo l’ipertempo, il nostro, l’agognato!
Immaginario così veloce, da sembrare fermo.
Può l’esperto aver sbagliato nel riporvi tanta fede?

Ha asserito: “Il fatto non è stato cieco; l’errore
è esatto: a chiare lettere riconferma
ciò che sappiamo: sintassi d’ogni questo che è quello,
ed inesausto, e reiterato.

Questa, Signori, l’inalterabilità delle Cose:
dove i fiori del salice riflessi voleranno
e tutto per sempre ricomincerà.”

“Calpestati e distrutti.”

Questa dunque la menzogna che ogni giorno io estirpo,
nell’intimo io disperdo? Che ricostruendo distruggo,
ingranaggio del mio stesso riconfermarmi?

Incredulo, alzai lo sguardo: lassù,
nell’occhio illuminato, furente, parvemi udire una voce
oltre il gran fracasso di trionfi, che mormorava:

“Fummo paralizzati dalla complessità che ci confrontava.”

Steven Grieco

IV.

Allora, e mosso da grave senso e urgente, in partenza
per Atene, 20 luglio, chiesi: “Tutto è scomparso?”
“Niente è apparso, – tornò l’eco del vento. –
Le tenebre sono quelle stesse opere.”

E ancora udii: “Calpestati e distrutti.
Elèusi e Mègara, le raffinerie sul mare. Sogna tuo,
se ami illuderti, l’orizzonte del pensiero metafisico.”

“Perché le opere sono le stesse tenebre.”

E guardai: là, oltre l’autostrada,
al largo, sposarsi d’isole e bracci di mare,
e Salamina, trasognata, dire a noi:

“Oggi non scompare più niente.”

“Siamo noi le tenebre delle stesse opere.”

E l’eco tornare, ritornando.

V.

Ancora guardai: conferivano nelle sale di consiglio
i vampiri, affiancati dai nipotini dell’URSS,
i cristo-muzhỳk risorti al saccheggio,
quelli che scoperchiano le colline
e oggi dichiarano l’incontestabile verità:
“gli ammassi di scorie liquide, i nostri Picasso e Mirò,
rivomitano senza numero il vostro ripetervi.

A noi, come a voi, non importa un fico secco.”

“Sappiatelo: Erebo generò la notte in tutto il mondo,
e in esso in cui appare.
Non scordate, voi. Sappiatelo, feccia di popoli.
Ecco perché Elèusi vi parrà per sempre trasognata,
e la nascita del pensiero-petrolio iridato sul mare.
Guardatevi attorno: Socrate, i misteri, l’oscurità,
abbiamo trasformato in luce quantificabile: camion,
ruspe giganti, verità. Prendetene nota. Stupite.”

Poi vidi il miracolo. Tutti loro, tramutati in angeli,
uscire dalle discariche rivomitando
il nostro indice e riepilogo mille volte ribadito,
spaziare per le lande disastrate salmodiando:

“Qui sorgeranno le polis verdi, il popolo
frusciante delle latifoglie e dei salici e dei prati
del mare, del verdissimo mare.”

Mentre dalle discariche ancora tornavano distorte
le loro parole: “Mai poté alcun disfacimento paralizzarci.”

VI.

Nivee bandiere in alto, aulica sintassi!
Collari di ferro, ingressi privi di varco; vie notturne
impercorribili, disseminate di trappole e tagliole.

“Ma lo sai, sento talvolta musica serpeggiare nei versi.
Poi subito scompare, quando la cerco.”

“Sei tu per caso?” – chiedo, senza aver risposta.

“È solo il vago ricombinarsi di suoni
nella tromba delle scale infinite.”

“Sì, certo. E provo e riprovo, ma non ricordo
come rotolano, torcendosi nelle onde, gli oceani.”

VII.

Allora balbettai, “Kasya, mia Musa!
Questi versi, questi utamákura, sono dunque
spezzoni luminescenti di un parlare in disfanie?”

E lei:
“Intessono, o mio Re, il vasto ordito del Presente.
Non i piccoli cieli, non paraninfi e poetastri!

Di là dalle vuote griglie di senso, fessure nostre distanze.

Nel mondo così più avanti e più indietro di te, solo
tu ne puoi dedurre, sognando, l’esistenza.”

Risposi: “Ma come farò? Stento a credere
che non strozzeremo i nostri migliori pensieri
con le nostre mani;
che ai filosofi e agli esperti ciarlatani non concederemo,
una volta ancora, di ruscellare determinismo
dai loro pozzi neri.”

“Non curartene, non aver brame. Sii ενέργια.
Fendi la cecità dell’eterno non-arrivo.

Le tenebre sono le stesse opere.”

Questo udii. O pensai di udire.

Non solo con i segni che chiamiamo scrittura!
Eppure tu, Zbigniew, utilizzando quegli stessi ghirigori
su fogli così bianchi,
esprimesti lo sbraitare degli stivali chiodati.

E rividi i volti spauriti, i volti camusi,
come fuggivano inutilmente
dal loro corpo, fuggivano dal nostro;
chi batteva il pugno, chi usciva brandendo fasci di vento,
ombre minacciose nell’efferatezza,
nel tormento e la solitudine
di questa danza del nichilismo che danza,
che danza.

(Aprile 2019)

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Il pensiero poetante, l’immaginario, 42 poeti a cura di Fabio Dainotti, Genesi, Torino, 2023, pp. 168 € 16,50 – Lettura di Giorgio Linguaglossa, Dove va la poesia? Mistero della fede.

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

Fabio Dainotti Il pensiero poetante cover

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

(Giorgio Linguaglossa)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Marina Petrillo,  Indice di immortalità, Ed. Prometheus, 2023  pp. 120  18, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, la «Cosa» inesprimibile della poesia petrilliana è, insieme, una meta e una origine, una linguisticità febbrile che si muove verso la prossimità dell’inesprimibile dove il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza olistica ed elitaria, intima e refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio

marina petrillo cover

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Nota di Lettura di Giorgio Linguaglossa

 Marina Petrillo dopo materia redenta del 2019, ci consegna un libro il cui testo è scandito in prosimetri: asindeti dell’ultra senso e dell’ultra sensorio e polisindeti di ciò che apre oltre il senso e oltre il significato in quella dimensione ultra mondana e trascendentale che è stato il sogno e la meta dei poeti orfici da Mallarmè ai giorni nostri. Un lavoro che ha del prometeico per la acuzie con la quale la poetessa romana ha attraversato il linguaggio poetico in direzione dell’ultra-senso e dell’ultra-significato. Il problema è, come sempre, la messa in questione della posizione della soggettività nel linguaggio.

 Marina Petrillo proviene dalla frequentazione della «nuova ontologia estetica» e di lì si è incamminata verso una poesia dell’ultrasensitivo e dell’ultrasenso, come dire che ci sono svariate possibilità di indirizzo e di ricerca, fermo restando che una nuova economia politica dell’Immaginario passa per la reintroduzione del Politico nell’Immaginario, o dalla sua estromissione, ma passa anche e soprattutto dalla estromissione del Privato dall’Immaginario, ciò comporta la de-territorializzazione del linguaggio poetico della tradizione e la ri-territorializzazione di quel linguaggio in un altro linguaggio poetico.

 C’è qualcosa nella soggettività che si configura, come ebbe a dire Sigmund Freud in relazione all’Es, nei termini di un «territorio straniero interno». Questo territorio scosceso è, per l’appunto, ciò in forza del quale è possibile definire la soggettività mediante la nozione di extimità, nella misura in cui con tale categoria non ci si riferisce esclusivamente al mondo interiore della soggettività e alla sfera dell’interiorità, quanto piuttosto a quell’ambivalenza radicale che attraversa, incidendola, l’intima esteriorità del soggetto a sé stesso. In ciò che usualmente intendiamo con «interiorità» c’è dunque uno spazio aperto, un vuoto che incide, che taglia, che genera una differenza incolmabile, una irriducibile estraneità che, paradossalmente, per quanto intima, de-cide inesorabilmente la soggettività. Questa intima esteriorità si configura come quel vuoto necessario, originario e generativo che consente il linguaggio e, di conseguenza, anche il linguaggio poetico.

 Il carattere per certi versi trascendentale dell’extimità della poesia petrilliana fa sì che essa, precedendo di diritto qualsiasi opposizione categoriale tra interno ed esterno, si configuri come quello spazio ultra-linguistico in cui ogni dualismo perde la propria sostanzialità e si presenta come un vuoto originario, vuoto causativo, limite trascendentale che sta al fondo di ogni soggettivazione. Se il soggetto petrilliano si genera dal suo vuoto, così intimo eppur esterno a sé stesso, il reale è ciò che serve a nominare tale intima esteriorità. Questo nucleo vuoto, per certi versi irrappresentabile, attorno al quale Lacan si è arrovellato fin nell’ultimissimo periodo della sua vita, si costituisce come quella totalità originaria sulla quale si sviluppano tutte le nodalità della soggettività per via del fatto che il reale è così profondamente intimo alla soggettività da essere invisibile, irrappresentabile e anche ingovernabile, come quella forma di cecità auto-indotta da chi osserva troppo da vicino gli oggetti, tanto da non poterne distinguere nitidamente tutte le sinuosità; il reale del soggetto è figurato da quell’intima esteriorità vuota al centro del soggetto stesso, che ne ostacola ogni sorta di dominio. Nella sua extimità lo statuto della «Cosa» è al di là di ogni linguisticità, oltre ogni sua possibile chiusura nel sistema della significazione.

 In tal senso, la «Cosa» inesprimibile della poesia petrilliana è, insieme, una meta e una origine, una linguisticità febbrile che si muove verso la prossimità dell’inesprimibile dove il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza olistica ed elitaria intima e refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio, definibile lacanianamente nei termini di uno spazio vuoto che buca ogni verbalizzazione, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un ordine linguistico di senso e di significato.

 È proprio in questa accezione che Lacan (1986), nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi si riferisce al Das ding e al suo «statuto» come a qualcosa che si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, come sostiene lo psicoanalista francese, che la «Cosa» è «quel che del reale patisce del significante», la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale nella sua totalità, il reale inassimilabile al senso, il reale primordiale) altro non è che la condizione di possibilità di un pieno (un pieno linguistico). Così come infatti il vuoto (linguistico) è la condizione necessaria del pieno, il fuori senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso.

 Ecco, dunque, il motivo per cui l’inesprimibile è la curvatura linguistica della poesia di Marina Petrillo in quanto manifestazione (impossibile) del simbolico; poesia che si costituisce in un paradossale regime di doppi e di scambi tra le parole, per agglutinazione e per separazione di parti del discorso, come ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale linguisticità dotata di senso e di significato.

 Per Marina Petrillo il reale non è rappresentabile, il reale non è la realtà. Il tessuto simbolico e immaginario della poesia petrilliana «deve» negare il registro del reale per giungere all’indicibile e all’ineffabile come ciò che massimamente irrompe nella trama dell’ordine linguistico e simbolico bucandone l’intreccio testuale, aprendone un varco verso l’ultra-senso e l’ultra-significato. È questo uno dei motivi per cui il simbolico è, per la poetessa romana, ciò che si situa al di fuori del senso e del significato e, in tal modo, riconduce il senso e il significato alla significazione trascendentale e oltre mondana sua propria.

[Marina Petrillo figure ]

Poesie da Indice di immortalità (2023)

La rosa che fiorisce incontro al nulla
Die Niemandsrose
genesi incurabile di fiori morenti
Ginestra senza nome essiccata al tributo
degli Dei inferi

Lava giacente su pendici detenebrate
dall’accecante vortice di luce suprema
scavata a margine del rosso carminio
rivivente in feste patronali

Croci simmetriche generate a dottrina
Tralasciate in sere odorose di ghirlande
Fascino suadente dell’indocile declino
Sibilato in lodi, del fruscio afone.
Si imprime come creante, il verso
Duella con i proseliti in triade sovrana
al monito

Interdizione in sottile sibilo
ferale al sommesso candore
della prima argilla creante l’essere animato
destituito tale, dall’incauto passaggio
ad altro status.

*

Un sommesso atonale lacera
l’ascolto di Musikanten

Un bemolle disserta sul candido
destino di un semitono

Sordità in ascesa nell’incauta
Secessione della dissonanza
e della consonanza.

Scale cromatiche discendono
su scale di Giacobbe, angeli

percorrono a ritroso i passi
in alchemico prolungarsi dei suoni
in sogno

Il paradigma del risveglio accade
Nuovo gene della contiguità con il divino

Le scale esatonali di Debussy
i madrigali di Carlo Gesualdo
sciamano preziosità accolte in conchiglie
di instabile entropia.

*

Appare a manto della sparsa Odissea del linguaggio
il tramortirsi ad onda corta, intendendo il seme
quale viatico di altra conoscenza
Idioma assiro-babilonese
o fenicio approdo tra ideogrammi
Travalicanti il detto.

Fummo scriba in schiavitù difforme
Addetti all’epilogo delle storie tutte
Sommessi carcerieri ei ego frammezzati
Comparse tragiche in cori dissimulanti
il Teatro dell’assurdo.

Giace ogni sbadiglio in tedio cosmico
sofferto in metropolis di anico ordine
Un mondo murale cementa saperi
Illudendo i propri asfittici principi in Logos.

Manifestano caos, i sigilli infranti
Logorroico impianto seriale
dove la non causalità incide solchi
e bambini giocano a campana.

Sotteso ad ogni salto, il cambio dell’abito
semantico, per cui non scioglie l’ossidiana
del sapere, ogni glifo, nevralgico all’osservatore.

Ammettere transito il filosofo a sua dismisura
mentre in anfore adagiate sui fondali
permane il senso dell’indescritto, ultimo poetare

Frastuono di lallazioni professate dalla sibilla celeste
Sussurrate da Emilio Villa in labirinti
sensoriali divelti a lemma.

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Archiviato in poesia italiana contemporanea

Le procedure della de-figurazione e della de-localizzazione nel linguaggio della nuova poesia kitchen, dopo la riscrittura post-moderna operata da Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, La resa dei conti stilistica del «poetico» è, dopo il novecento, rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione, che non potrà essere solo stilistica e vocabologica  ma dovrà andare molto più a fondo, dovrà investire nientemeno l’ontologia del linguaggio poetico, Poesie di Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 75x28 acrilico 2021

Marie Laure Colasson Strutture libere nello spazio, acrilico 75×28, 2021 
L’accadere della verità dell’opera d’arte è nient’altro che l’evento del suo accadere. L’accadimento è esso stesso verità, non come adeguazione e conformità di parola e cosa, ma come indice della difformità permanente che si insinua tra la parola e la cosa. La cosiddetta verità dell’opera d’arte tanto reclamizzata dal pensiero filosofico del novecento è nient’altro che difformità, differenza, divergenza.  L’arte come accadere della verità che significava nel novecento preannuncio dell’aprirsi di orizzonti storico-destinali o del chiudersi di orizzonti storico-destinali, è oggi diventata una mera funzione decorativa. L’arte non è più quell’evento inaugurale in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole umanità storiche. Le opere di poiesis sono oggi esperienze di shock tali da sovvertire l’ordine costituito dei significati consolidati dalla vita di relazione. L’ovvietà del mondo diventa non-ovvietà. Nuove forme storico-sociali di vita sono di solito introdotte da opere di poiesis che le hanno preannunciate. Le opere di poiesis dell’ipermoderno si configurano quindi come produzione di significati in condizioni di spaesamento permanente, di s-fondamento rispetto a sistemi stabiliti dei significati ossidati. Un tempo le opere di poiesis avevano senso soltanto se «aprivano», se preannunciavano nuove mondità, nuovi possibili modi di vita e forme di esistenza, altrimenti deperivano a cosità. Oggi va corretto quel concetto di «apertura», le opere di poiesis oggi hanno senso soltanto se «chiudono», se preannunciano la «chiusura» delle mondità, se «chiudono» i modi di vita e le forme di esistenza del presente e del passato, altrimenti deperiscono a cosità. (g.l.)

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Sulla de-figurazione

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una»

(Charles Baudelaire)

Nel suo Éloge du maquillage (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo artifex, ultima emanazione dell’ Homo Super Faber, o Super Sapiens.

La «defigurazione» è la procedura poetica tipica  adottata dalla «nuova poesia». Pensare lo «spazio poetico» oggi significa applicare ai testi la de-figurazione e la dis-locazione in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia globale e glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e logotecnici, sono caratterizzati dalla de-figurazione e dal disallineamento metrico, vale a dire dalla distassia e dalla dismetria.

È il linguaggio pubblicitario che impone al linguaggio poetico le sue regole, si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estetica non può fare a meno che ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima  misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.

La de-figurazione  è una procedura retorica che consente di prescrivere una «figura» linguistica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, introducendo nel testo proposizioni liberamente dis-locate, spostate, liberate dalla cogenza del referente, non appropriate quindi non corrispondenti al referente; ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal referente che corrisponde alla parola che non gli corrisponde; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della de-localizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro dalla  poesia di accademia dove l’espressione che mira al referente viene ad essere sostituita da enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva, appunto, referendaria. Così è avvenuto che il linguaggio referendario del poetico e del narrativo ha sostituito il referente.

La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite, globale e glocale, in cui agiscono vettori anche contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo, in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione; ci si muove nel quadro di smottamenti linguistici globali e glocali, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei, oggi una poesia europea che non  abbia qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni epigoniche.  Pensare ancora con le categorie della poesia del novecento: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi. La globalizzazione e la glocalizzazione sono processi macro storici che non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.

È impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico, è viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento: lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre: occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione dello spazio poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di orientare le categorie del pensiero poetico.

Quello che oggi occorre fare con urgenza è riprendere a riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, de-territorializzare il linguaggo poetico della tradizione del novecento e riterritorializzare il nuovo linguaggio poetico per una «nuova poesia» di là da venire, anche perché dopo la riscrittura post-moderna operata da Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna la resa dei conti stilistica del «poetico» è, dopo il novecento, rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione, che non potrà essere solo stilistica e vocabologica  ma dovrà andare molto più a fondo, dovrà investire nientemeno l’ontologia del linguaggio poetico.

Il pensiero logico-sequenziale nella nuova poesia kitchen è andato a farsi friggere.

Nella «nuova poesia» il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, è andato a farsi friggere, sembra essere stato in buona parte sostituito da un pensiero nello stesso tempo teppistico e multi-tasking. Se leggessimo con concentrazione una poesia di Francesco Paolo Intini, di Raffaele Ciccarone o di Marie Laure Colasson ci metteremmo a ridere, ci accorgeremmo che ci troviamo davanti ad una testualità multi-tasking, triggered, tigrata, non ammaestrata, una poesia pop-corn, una poesia pop-fast-food. Intini, Ciccarone e la Colasson sono i primi  primati, in Italia e, che io sappia anche in Europa, che facciano una pop-corn-poetry, che non sai se sia più ridanciana o auto derisoria o auto compromissoria, fatto sta che si tratta di una testualità che si deve leggere di sguincio, con l’occhio distratto, facendo zapping con lo sguardo. Come è possibile sostenere che il soggetto fondatore è indicibile (e quindi la parola è impronunciabile) e fare di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico? Non si continua in tal modo a pensare a partire dagli stessi termini, ma invertiti? «La traccia dell’origine», in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e diventa effetto; lo spostamento qui è produzione. La non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un logos dell’originario è d’altronde una vecchia idea del proposizionalismo della poesia elegiaca che è presente da Pascoli a Sanguineti post-Laborintus (1956) e arriva fino ai giorni nostri, poiché la ratio cognoscendi non può porre in primo luogo ciò che è realmente primo; di qui il ritorno all’origine, innato o a priori della poesia elegiaca, che non possiamo enucleare se non mediante uno scarto e un’eterna inadeguazione. È questo lo scotto che va pagato, lo scotto di una eterna «inadeguazione» del discorso poetico ad approssimarsi. Ma approssimarsi a che cosa?. Il discorso poetico è un voler dire, un atto di potenza e di rappresentazione, una possibilità che non si sa mai se si tradurrà in atto storico, reale, e quindi estetico. È il discorso sotteso alla «Muta» di Raffaello: lei ci parla meglio e con più chiarezza di quanto possano parlarci le più belle parole dei poeti classici; ma oggi, mi chiedo: è possibile raffigurare in parole (o tramite i colori) un soggetto che non può parlare? È dicibile l’indicibile? È rappresentabile l’irrappresentabile? È questo il paradosso nel quale si consuma la poesia maggioritaria che si fa in Italia, ma è soltanto in questo attrito, in questa collisione che la poesia vive e si accende. Ecco la ragione della elusione, della volatilità della parola poetica che il kitchen ammette alla ennesima potenza. Con concetti come quelli di «traccia» o di «differenza», si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa esserne il padrone. La «differenza» è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto incessantemente differito nel movimento del significante. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena infinita di significanti, in una rete che lo dispiega e, nello stesso tempo, lo allontana. Lacan dirà il celebre motto secondo cui «il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante», che consacra la scissione del soggetto da se stesso, come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo «porta-voce» e non «autore» in senso teologico. Lacan fa del soggetto questa «presenza assente», questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più segno, con un significante che si libera dal rapporto fisso col significato e si sposta dal suo luogo verso un altro luogo. Il soggetto è in questa traccia, velato in questo vulnus che si sposta, che pronuncia parole s-podestate, de-posizionate. Il soggetto è stabilito dal significante del segno che rimanda ad un altro segno, ad un altro significante. La poesia odierna fa un uso logologico dell’io: la semantica diventa una mantica, e la poesia diventa magia bianca, quando invece è magia nera, con tanto di mago Woland a certificarla. Così, l’io prende il piffero e diventa un pifferaio magico, e invece diventa altro da sé, avanza con la maschera dell’io ma è altro, stabilisce la propria identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. L’identità dell’io si realizza al prezzo della rimozione, di quella parte del «sottosuolo» che è «il sottosuolo del sottosuolo» per dirla con Emanuele Severino. In tal modo, risulta rimosso lo scarto retorico rispetto al sé, retorico perché l’identità è letterale più che figurata, quella letteralità che la posizione poetica maggioritaria propone, rientra nel circolo dell’io positivizzato e privatizzato. * J. Derrida, De la grammatologie, 1967 – trad it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1969, p. 69

(Giorgio Linguaglossa)

Struttura_dissipativa_acrilico 50x28, 2023

Marie Laure Colasson Strutture libere nello spazio, acrilico 50×28, 2023 

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Raffaele Ciccarone
10 novembre 2023 alle 0:04

Collisione con lo spazio a curvatura negativa

Fu la collisione con lo spazio a curvatura negativa
a spostare AEW World Championship mentre tutto
l’ologramma era a Dubai a fare il bagno

tutto l’amore riversato in una bacinella
ammalia Loredana amica del mago Woody
ora la TVS fa pagare certi servizi
ma teme punti di congelamento

tant’è che il progetto olografico
di S. Hawking si presenta sotto l’albero
di Natale per sciogliere le palle gialle limone

in tanti hanno disertato il reading di poesia
Kitchen tranne Filiberto assillato dal risentimento
quantico ora che il divano è ripulito

dopo l’ostentazione del raro incunabulo Beatrice
si ritira in clausura a Firenze per dedicarsi
alla pittura figurativa visto la vendita delle nuvole azzurre

Raffaele Ciccarone

Dalle proiezioni asimmetriche poi!

Dalle proiezioni asimmetriche eccetto
certi interrogativi istanti di sequenze Z+X=- 1
per CRO>100 che s’inerpica per svasate aggregazioni
quale cromatismo al momento? E poi?

Le news del mercato, il pane che sale per il sale! Sic!
tutto nello street shop vuoi scarti involontari di glucosio
guarda la sottotraccia arancione C12 H22 O11
magari sinonimo ma ora cosa fare, ora?

L’urgenza di un tempo superiore tale da aver
nuova visione del canto del canarino al teatro
ove Adalgisa a prescindere dal forfait
quella volta che Lucia Lammermoor di Donizetti

per il presunto sogno delle farfalle l’ufficio
investigativo memore di frontiere e degli assolo
l’Armando più di una volta ordunque
quanti e quali sospiri da dipanare se?

Di questo passo l’orizzonte pur rifritto
quale frontiera nella hall se tutto si consuma?
reggerà alla pressione iperbarica
con quella temperatura il conogelato?

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Draghi

Mario Draghi, il fuoriclasse che il Ct. dell’Italia tiene in tribuna

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Francesco Paolo Intini

Novembre

Capita a novembre di vedere zombi qua e là. Ogni volta che succede devo rincorrerli per la stanza, pulire il cloro che cola dalle mandibole e mettere varichina dove sbarcano.

Ologrammi credo che vivono in simbiosi con il passato e non gli fa specie che siano dei vermi a parlare nelle orbite degli occhi.

Uno di questi si fa chiamare stato, ma è indeciso quale delle tre facce mostrare.

Credo di averlo visto nella mia gioventù. Si aggirava da padrone per le scale e i ripiani delle torte, esibendo stalattiti d’idrogeno e stalagmiti di oganesson.

Adorava i crisantemi però e contava i petali per dire t’amo al vuoto di cui si circondava, tra un funerale e un tentativo di risalire l’albero della cuccagna.
Come un giorno possa scivolare sotto uno scheletro non è dato sapere ma il Re dei mesi ce la mette tutta per tirare fuori i campioni in gara.

Bene e male credo di aver letto. Chi non ricorda l’oratorio in cui trascorrevano le loro giornate a discorrere della creatio ex nihilo e cercare in tutti i modi di convincere il Sodio a bere acqua?

Imparavamo dai razzi di acetilene l’abc delle discussioni.
Nel dopo esperimenti c’era sempre una bandiera bucherellata su sui poggiare i piatti.

Così tra una Napoli repubblicana e un’altra borbonica spuntava il cardinale Ruffo a far da arbitro e fischiare per un fuori gioco la discesa agli inferi.

Ora che da un neo spunta un continente, si portano a guinzaglio gli ologrammi: lupi senza occhi, cervi con i cingoli, pecore che belano come draghi di Komodo.

Perché, mi chiedo, far bere ossigeno alle parole?
Se tuona un corvo dall’alto di un cipresso allieta una vipera che ride nella bocca. Continua a leggere

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La scrittura poetica invalsa oggi è una «ontologia della im-posizione», una «produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose. Mia impressione è che la poesia italiana di queste ultime decadi sia un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un genere di scrittura non retta da alcuna poetica, alcuna episteme. Una scrittura imbonitoria. Una scrittura da obitorio. Poesie di Antonio Sagredo e degli Avatar di Alfonso Cataldi, Tiziana Antonilli, Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini

macchia gialla 50x50, acrilico, 2023

Marie Laure Colasson, macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023

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La scrittura poetica invalsa oggi è una «ontologia della im-posizione», una «produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose.

Invece la posizione del «poetico» dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio condiviso, una distanziazione, un passo indietro un attimo prima che la parola ci raggiunga dall’esterno, con la sua dote di «im-posizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger.

Se procediamo verso il linguaggio con attese, ideologemi, posiziocentrismi, con «im-posizioni», con Gestell, quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, verrà inficiato dalla «im-posizione» dei linguaggi che provengono dal mondo della utilitarietà, delle condotte, delle pratiche, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria auto im-posizione.

Il problema ha molte sfaccettature e non riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema referendario delle narrazioni e della poesia dell’io (vedi  il successo del sotto genere diaristico) che impera nel mondo delle società tele-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere in un linguaggio poetico critico. L’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione comunicativa. L’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria autotutela, per i progetti di auto organizzazione, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nel mondo e non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.

La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più «accreditati» dalle istituzioni accademiche, non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici: scrittura utilitaria, impositiva, progettata per la comunicazione, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, scrittura da risultato, che parla con un linguaggio suasorio, giustificato, giustificatorio.

Qualcuno ha chiesto: «Che cosa intende per linguaggio giustificatorio»? Ecco la mia risposta: con l’espressione «linguaggio giustificatorio» intendo la posizione del «poeta referendario» che si pone in un angolino del «mondo» e di lì si interroga e interroga leopardianamente  il «creato» o il Sé alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria auto imposizione. Ebbene, questa è una finzione e una ipocrisia, una posizione imbonitoria, auto assolutoria in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto, sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di egotismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di tali «poeti» che sono di moda e vengono amministrati dagli uffici stampa degli editori.1

Qualche tempo fa un autore mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» «sulla morte della poesia italiana», che invece godrebbe, a suo dire, di «ottima salute». Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, ho argomentato che la poesia di questi ultimi decenni è stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni encomiastiche, di status symbol, per personalismi, per posiziocentrismo, senza  progetto culturale e consapevolezza storico culturale delle criticità della poesia del novecento e del post-novecento. Mia impressione è che la poesia italiana di queste ultime decadi sia un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un genere di scrittura non retta da alcuna poetica, alcuna episteme. Una scrittura imbonitoria. Una scrittura da obitorio.

(Giorgio Linguaglossa)

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 1 Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura auto assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.

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Antonio Sagredo

da La gorgiera e il delirio, (2020)

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterrò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

(luglio 2015)

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Marie Laure Colasson
1 novembre 2023 alle 19:01

caro Gaius Gallus,

come intuisco, vivi nel nulla (anche tu) dove la materia è inerte,
il mio spazio invece è ovunque, dunque, nulle part.

In conseguenza, il conteggio dei morti abolisce totalmente la punteggiatura… le margherite, mi hanno detto, fioriscono solo al buio in Arabia Saudita e vanno a manifestare insieme alle stelle filanti.

Ti dirò che sono sospesa tra il bianco e il nero su una altalena, come nel film “Lo sceicco bianco” di Fellini, con qualche pennellata di rosso paesaggistico multitasking e giallo smart.

Certi capi di stato, mi hanno detto, si sono convertiti in droni per andare all’inferno, però l’inferno, mi hanno sempre detto, è qui sulla terra.

Per fortuna né tu né io lo abitiamo.
Nessuno è profeta nel proprio colore.

(Scintilla)

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  • Nulle part est un endroit … Una conferenza danzata in cui Nach mostra in scena la storia e i movimenti del krumping, dirompente danza urbana nata nei sobborghi di Los Angeles come forma di protesta della comunità afro-americana. La coreografa mette il suo corpo al servizio del racconto personale che l’ha fatta innamorare della disciplina, restituendoci uno spettacolo affascinate, intenso e viscerale. (Creazione e interpretazione: Nach – Regia: Vincent Hoppe)

Francesco Paolo Intini
1 novembre 2023

Caro Germanico,

finalmente sono a casa.
Peccato però che l’albero della Libertà sia stato divelto dalle truppe sanfediste. Ora è accartocciato su sé stesso come il gigante alle porte di New York alla fine del Pianeta delle scimmie mentre il Re Cerbero caccia tranquillo tra le sue forche e le sue mannaie.

E dunque temo proprio di trovarmi nella pellicola di quel film. Per giunta qualcuno ha provato a vestirlo da sanculotto ma ahimè un tagliaerba gli ha moncato le gambe prima che potesse sedersi da qualche parte e mostrare il pendolo dei fatti che ora vanno avanti e poco dopo ritornano indietro.

Che vita mi aspetta? Dipende da questo cielo che si scioglie riempiendo di fanghiglia putrida e radioattiva ogni istante che intenda battere la sua ora.

Pur tuttavia scenderò da cavallo e fonderò una colonia. I miei figli costruiranno alberi di celluloide, respireranno acetone e si batteranno per ogni millimetro di colonna sonora.

I terrestri sanno queste cose. Sono salvi dal disastro per l’illusione di poter sopravvivere in sotterranei degni di topi campagnoli. Mi chiedo altresì come sia potuto accadere che dei corpi si siano svestiti di carne e ossa e abbiano rimediato le parole di un regista o peggio, quelle di un poeta per poter esistere.

I fatti dunque hanno la stessa natura del sonoro e puzzano dello stesso urlo in cui si risolve la pellicola.

Eserciti di emoticon armati fino ai denti scorrazzano nel deserto di piante e animali.
Mastini della realtà, tutti uguali, liberi finalmente di abbaiare e mordere questo o quell’antilope e sbranarla fino all’ultimo villo.

Non pensare però che tutto finisca in questo modo. Nel nuovo mondo non finisce proprio nulla. Monconi di terre rare si uniscono a strofe per farne chip, cloro pianta coltelli verdi sulla città, lune di fosforo bianco accompagnano i bambini nel tornare a casa, persino tori incornano toreri in strofe dolenti, serpi e tecnezio bollente affollano Wall Street cercando carbonio per raffreddare il ventre.

E’ nella natura della pellicola l’impossibilità di isolare una molecola di viver male.

La materia prima non manca al coraggio e il capriolo che rifugge il caos lascia orme sulla calce viva.

Al capitano di ventura non chiedere come snidi queste figure dai loro miseri nascondigli. Abbrutito dal compito non prova alcuna avversione contro la nausea.

Ah il Walalla attende le faccine che condensano il piacere e il dispiacere, un rossore di mela da masticare nel giorno della certezza ma per il momento siamo tutti esposti a pioggia e sodio che hanno cessato di reagire concedendosi all’infangare.

(Gneo Fabius)

Marie Laure Colasson

2 novembre 2023 alle 20,00

caro Fabius,

finalmente anch’io sono a casa, mi sono fatta i bigodini, ho dismesso il rossetto e mi sono messa comoda sul divano, i fatti, caro Fabius, non so cosa siano, hanno la stessa natura del trauma e puzzano di aglio…

Perché hai scritto che la valutazione dei manoscritti è una pratica oncologica?, io penso invece che sia una pratica da obitorio essendo la letteratura tutta una attività di natura medico legale.
Lo so, il dover pronunciare diagnosi infauste è penoso, ogni volta. È terribile.

Tutta la colpa è di Aristotele che nella “Poetica” ha istituito il (CEF) Controllo Elettronico della Felicità, da allora le cose sono andate di male in peggio.

Lo sai?, i watussi che sono andati sulla spiaggia a fare il bagno con i nani hanno sviluppato una orticaria di origine radioattiva che porta in breve al decesso con pustole fritte e piattole arroganti.
Se Sartre fosse vivo avrebbe oggetti degni di studio da par suo, però Picasso sa dove mettere i piedi, al limite, c’è una fessura nella tela della “Les Demoiselles d’Avignon”, lì ci starebbero bene, al caldo, negli stivali di feltro

Chissà quanti I like e retwitter avrebbe il filosofo!
Sai, sono indecisa se inviarti una faccina con gli occhiali o un’altra con la parrucca, nell’indecisione ti lascio perché devo fare la doccia…

«La scelta se inviare una bomba al tecnezio, al boezio o al polibio sono argomenti da non sottovalutare affatto – ha dichiarato Xi -, un bombardamento del Donbass produrrebbe hightech, ciniglia e vapore acqueo…»
La reazione del Cremlino non si è fatta attendere: il portavoce Dmitri Peskov con la camicia sbottonata si è presentato ai microfoni dicendo di preferire les gauloises imbottite di molibdeno ai ciclamini di campo…

Con una musichetta in bemolle si è presentato l’Avatar del Linguaglossa presso l’abitazione della pittrice Marie Laure Colasson, in Circonvallazione Clodia 21, il quale si è limitato a manifestare, con un lessico diplomatico, il proprio dissenso…

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Poesie kitchen di Nunzia Binetti: “Il La è Bemolle. Così si presentò l’avatar. Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso/ La musica si interruppe, l’avatar assunse un tono perentorio,/ sfilò per tutto il corridoio…” – e Giorgio Linguaglossa: “Il mago Woland si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus anti placca quando accadde un fatto bizzarro: la confezione di borotalco posta sul mobiletto del bagno cadde sul pavimento a piastrelle senza essere stata determinata da alcun evento preliminare


La macchia gialla su verde, 20x20, acrilico 2023

(Marie Laure Colasson, macchia gialla acrilico, 25×25, 2023)

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Poesia di Giorgio Linguaglossa

Il mago Woland si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus anti placca quando accadde un fatto bizzarro: la confezione di borotalco posta sul mobiletto del bagno cadde sul pavimento a piastrelle senza essere stata determinata da alcun evento preliminare.

Il Grande Collisore di Adroni ha prodotto un Megapositrone che interagisce con i nostri pensieri cinquecentomila anni luce prima di essere stati pensati.

Navighiamo all’interno del metabolismo di un ologramma che ha previsto la nostra esistenza.

Il fisico teorico Juan Maldacena ha dimostrato anni fa che l’ipotesi olografica reggeva per un tipo di spazio teoretico chiamato spazio anti de Sitter. A differenza dello spazio del nostro universo, che su scala cosmica è relativamente piatto, lo spazio anti de Sitter ha una curvatura interna che ricorda una sella.

Gli spazi anti-De-Sitter, che sono molto lontani dalla nostra esperienza, sono a curvatura negativa, il che significa, per esempio, che un oggetto che si muove in linea retta finisce per ritornare al punto di partenza.

È come se il nostro mondo tridimensionale + il tempo fosse all’interno di quattro specchi che riflettono il tutto.

Con il gigantesco puntatore laser Holometer puoi bucare l’universo e sbucare nell’universo negativo mentre ti stai grattando il naso.

Il reale emette un rumore. Ed esso è la prova della sua esistenza.

Per la legge dei quanti di Planck, più piccoli di un fotone alcuni trilioni di trilioni di volte, quel rumore è equivalente al reale, ovvero, è il reale. 1 : p : forma a doppia goccia (simile al simbolo di infinito) • 2 : d : forma a quattro lobi (simile a due simboli di infinito sovrapposti) . 3 : f : forma a otto lobi.

Sovrapponendo un infinito sull’altro non abbiamo due infiniti ma sempre un solo infinito, asserì il mago Woland, che così chiuse la questione.

Esattamente come avviene nella nuova concezione dell’ontologia estetica dove dieci o centomila infiniti sovrapposti danno luogo ad un solo infinito.

Commento

Come avviene per il battito delle ali di una farfalla che determina un uragano a centinaia di migliaia di chilometri o di anni luce di distanza, nella composizione di Giorgio Linguaglossa l’abbrivio del Tutto è dato da un evento minimissimo (o minimassimo): «la confezione di borotalco posta sul mobiletto del bagno cadde sul pavimento a piastrelle senza essere stata determinata da alcun evento preliminare».

La composizione è scritta con il linguaggio tipico delle riviste scientifiche, la poesia ha fatto a meno di tutto l’armamentario retorico di una tradizione millenaria, adesso la poesia è diventata prosa scientifica (o finta prosa scientifica, il che fa lo stesso), né più né meno, è diventata la dimostrazione di un teorema. Ma quello in esame è un teorema davvero bizzarro che contempla un «Grande Collisore di Adroni» che «ha prodotto un Megapositrone che interagisce con i nostri pensieri cinquecentomila anni luce prima di essere stati pensati».

La conseguenza logica che ne deriva è in realtà un salto logico di inaudita fantasy: «Navighiamo all’interno del metabolismo di un ologramma che ha previsto la nostra esistenza.»

Vero o non vero, verificabile o falsificabile non ha importanza, il teorema si presenta ricco di spunti interessantissimi, esso ci dice che la nostra esistenza può verificarsi soltanto in quanto essa è stata prevista «cinquecentomila anni luce prima di essere stati pensati». Una ipotesi strabiliante, chi può metterla in dubbio? Chi la può verificare tramite esperimento? – Tutta la composizione, mescidando ipotesi scientifiche ardite e fake news, intende dimostrare qualcosa che non possiamo dimostrare mediante la semplice consecutio logica degli argomenti scientifici, ragion per cui l’autore è costretto a far ricorso alla immaginazione, alla fantasy per poter raggiungere una Evidenza.

E l’Evidenza è che «Il reale emette un rumore. Ed esso è la prova della sua esistenza.» Detto così, ci troviamo dinanzi alla inversione dell’onere della prova: è il «rumore» che decide della esistenza o no del nostro «reale», quindi anche di noi stessi che siamo dentro il «reale». Di qui la ulteriore asserzione paradossale: «Navighiamo all’interno del metabolismo di un ologramma che ha previsto la nostra esistenza.». Così, di paradosso in paradosso, da iperbole a iperbole la composizione rivela la propria architettura probabilistica e fantasmatica. Il «reale» non è altro che un prodotto fantastico-fantasmatico e noi stessi forse siamo dei fantasmi che abitano un universo fantasmato. E la riprova di ciò è l’asserzione che segue: «Con il gigantesco puntatore laser Holometer puoi bucare l’universo e sbucare nell’universo negativo mentre ti stai grattando il naso». Ergo, è una asserzione ben verificabile e infatti verificata dalla scienza di oggi, ma il risultato è strabiliante e fantasmatico, prodotto di una iperbole di una immaginazione s-regolata.

Il kitchen altro non è che una modalità di intendere l’impiego del linguaggio. In questa composizione la capacità fantasmatico-simbolica dei ragionamenti posti in essere produce un «reale» probabilistico e fantasmatico che potrebbe accadere o che potrebbe essere accaduto, o che magari sta accadendo mentre prendiamo il caffè, chissà. È che viviamo in un universo bizzarro che si produce in esibizioni bizzarre e inverosimili.
E tutto questo è kitchen, puramente kitchen.
Anche il finale messo in bocca al mago Woland è qualcosa per cui le nostre cognizioni matematiche e scientifiche non possono soccorrerci:

«Sovrapponendo un infinito sull’altro non abbiamo due infiniti ma sempre un solo infinito, asserì il mago Woland, che così chiuse la questione.»

La deduzione di Linguaglossa è esemplare perché serissima e derisoria insieme:

«Esattamente come avviene nella nuova concezione dell’ontologia estetica dove dieci o centomila infiniti sovrapposti danno luogo ad un solo infinito.»

E tutto questo è kitchen, puramente kitchen.

(Marie Laure Colasson)

La macchia rossa acrilico 20x20, 2023

Marie Laure Colasson, macchia rossa, acrilico, 25×25, 2023

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Una poesia di Nunzia Binetti

«Il La è Bemolle». Così si presentò l’avatar.
Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso

La musica si interruppe, l’avatar assunse tono perentorio,
sfilò per tutto il corridoio…

«Errore, delitto preterintenzionale !» replicai.
«No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità», rispose.

Lady Tristezza emerse da un mare di suoni,
sirena per finta. Frammenti di sughero poi vennero a galla.

Commento

Quello che nella poesia della tradizione è il momento epifanico, ovvero, una istantanea reazione emotiva, nella nuova fenomenologia del poetico, ovvero, nella poetry kitchen, diventa uno spazio linguistico abitato da linguaggi significanti estranei e conflittuali. La parola è oggi diventata incomunicazionale. L’avvento della linguisticità delle emittenti mediatiche ha mutato radicalmente l’ontologia poetica; oggi a ragione si può parlare di una ontologia linguistica della caducità metastabile, i linguaggi sono diventati instabili e meta stabili; il momento kitchen, come si vede bene nella poesia di Nunzia Binetti, è il discorso dell’Estraneo o, come recita l’autrice, di «Avatar» che parlano ciascuno un proprio idioletto, un linguaggio privatistico e non-comunicazionale. Sono gli Avatar che prendono possesso del discorso poetico. L’io ne resta diviso, scisso, dis-locato: «Così si presentò l’avatar./ Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso»; personaggi sconosciuti prendono la parola, discutono, discettano tra di loro e con il lettore; all’improvviso, veniamo deiettati in un’altra dimensione («La musica si interruppe»), e l’Avatar prende posizione, prende la parola. Ecco il momento diegetico-mimetico: «l’avatar assunse un tono perentorio,/ sfilò per tutto il corridoio…»; il momento mimetico parla mediante un io lateralizzato, de-funzionalizzato: («Errore, delitto preterintenzionale!»); interviene un Avatar femminile che pronuncia parole «fuori senso»: «No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità». Subito dopo si cambia fotogramma: interviene un terzo personaggio: «Lady Tristezza emerse da un mare di suoni,/ sirena per finta. Frammenti di sughero poi vennero a galla». Lady Tristezza è un terzo personaggio-Avatar che parla o forse è ancora il precedente Avatar che prende la parola?. Il testo non lo dice, rimane nel dubbio, un alone di incertezza si estende a tutta la composizione: la poesia è o non è?, è un reale o è un irreale? E il lettore non può fare a meno di chiedersi: siamo ancora nel campo del reale o ci troviamo in un’altra dimensione?.
Nunzia Binetti sa che non ha senso parlare di «reale», e la soggettività non è mai «autentica», è sempre impura, contaminata, fin dall’inizio impregnata di impersonale, perché solo la lingua pubblica (cioè di nessuno, arbitraria e pre-soggettiva), le offre i dispositivi grammaticali per formare l’“io”. Lacan ha scritto: «Lalangue sert à de toutes autres choses qu’à la communication». In conformità a questa impostazione, il pre-individuale precede la soggettività, ergo la lingua del pre-individuale e del trans-individuale è più vera di quella della soggettività, ecco la ragione della modalità kitchen: posizionarsi e direzionarsi verso il pre-individuale e il trans-individuale del linguaggio poetico è la via prescelta dalla poesia della nuova fenomenologia del linguaggio poetico.

(Giorgio Linguaglossa)

Nunzia Binetti è nata a Barletta in Puglia, dopo il Liceo classico e studi in medicina ha intrapreso quelli di Lettere moderne e Beni Culturali laureandosi presso l’Università degli studi di Foggia con una tesi sulla Poesia contemporanea femminile in Puglia. È impegnata nel sociale e in particolare nella promozione delle donne nelle Arti e Affari (già presidente della Fidapa BPW. sezione di Barletta e già membro della task force twinning BPW International).  Cofondatrice del “Comitato della Dante Alighieri Barletta” è anche membro del Consiglio Direttivo. Ha recensito e prefato raccolte poetiche di autori  e pubblicato articoli letterari su “Vivicentro Notizie Rassegna Stampa” e su “Versante Ripido”, in web. Sue poesie sono presenti in molte antologie poetiche (Campanotto Editore), (ED.Giulio  Perrone –Roma), ( LietoColle) e nelle antologie: Fil Rouge (CFR editore) e Il ricatto del Pane (CFR Edizioni ). Nel 2010 ha esordito con la Silloge In Ampia Solitudine (CFR – Editore) e nel 2014 ha dato alle stampe la raccolta Di Rovescio (CFR .Editore), tradotta anche in francese nel 2017 da Roberto Cucinato, pubblicata in Francia e depositata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.  La rivista serba “Bibliozona” (della Biblioteca Nazionale di Nis) ha pubblicato una sua poesia in lingua serba. È stata recensita nelle Riviste letterarie: Capoverso (Ed. Orizzonti Meridionali), I fiori del male (Ibiskos Ed.), dal quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”, dalla Gazzetta di Verona” e, in web, nella rivista on line lombradelleparole.wordpress.com. Nel gennaio 2019 ha pubblicato la raccolta poetica Il Tempo del Male (Terra d’ulivi edizioni).

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Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re, Roma), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce, Roma). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore delle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023 nonché dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), del saggio L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista on line lombradelleparole.wordpress.com  con la quale insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito letterario del Collasso del Simbolico, di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo di oggi.
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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022,  Poetry kitchen 2023, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2023) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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EUR-Roma “Nuvola” di Fuksas, Domenica 10 dicembre, ore 17.00 Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen, Cambiare nome alla Poesia per cambiare la Poesia? Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Riflessioni di Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

La_macchia_arancione_50x50 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 50×50 cm, 2023

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EUR-Roma “Nuvola” di Fuksas
Domenica 10 dicembre, ore 17.00 Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen

Cambiare nome alla Poesia per cambiare la Poesia?

Intervengono
Marie Laure Colasson, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa
Tiziana Antonilli, Gino Rago, Giuseppe Gallo
con Reading degli autori della Poetry kitchen

Francesco Paolo Intini

15 ottobre 2023 alle 9:02

Cari

Penso che il vuoto sia prima di tutto prodotto dalla società in cui muoviamo i nostri passi. Negli ultimi tempi si sono succeduti tre grossi avvenimenti che hanno svuotato la realtà storica di tutto ciò che si poteva considerare accadere nel senso di un progresso per l’intera umanità. Covid, guerra Russia\Ucraina e per ultimo l’epilogo della guerra perenne per il diritto di un popolo all’esistenza tra Palestina e Israele.

Le implicazioni e le estensioni di questi fatti e principi sono sotto gli occhi di tutti e minano da una parte la credibilità della scienza di rappresentarsi come l’unica arma capace di lavorare in favore della conservazione della specie e dall’altra la fiducia in valori universali capaci di contrastare la legge del più forte.

Che altro rimane?

Beh, il senso di tutto questo è quello di una tendenza allo svuotamento generalizzato di valori compensato da una disponibilità di tecnologia e di merci in crescita esponenziale su tutti i fronti.

Non c’è da meravigliarsi se a questo vi corrisponda un vuoto nel significato delle parole con le quali intendevamo gli altri e non c’è da meravigliarsi se all’interno di questo in cui conserviamo le merci e la tecnologia che le produce, le stesse aleggiano come fossero particelle estremamente rarefatte in cerca di qualcosa su cui poggiare.

Io credo che ci sia nelle parole, nel come le vedo nascere ed interagire con le altre per fare un verso, qualcosa che non assomiglia ad un bisogno di senso. Le vedo mentre dirottano le possibilità di significato verso il non senso, lo sberleffo, il derisorio, la caricatura, lo sfottò. Le vedo distruggere qualcosa che potrebbe risultare gradevole ad un orecchio abituato alla dolcezza del suono, del ritmo, della commozione etc.

Sono parole che prendono spunto da ciò con cui vengono a contatto e cioè l’enormità del prodotto che chiamiamo merci per sabotarle, dissiparle e togliersi di dosso l’odore di denaro a costo di non farsi voler bene per il senso negato anche solo all’ultimo istante, all’ultima virgola.

Non è dunque una parola destinata a riscuotere facilmente like, approvazione, comprensione e successo. Specialmente nella composizione apparirà sempre precaria, malaticcia, clownesca, sul punto di fallire, togliersi il trucco e ricadere su sé stessa.

Roba da RSA dirà qualcuno, magari qualche ex amico allontanatosi perché inorridito dalle conseguenze a cui è arrivata la sua stessa creatura. Ma che c’è da meravigliarsi?

Tutto ciò che penso è che nell’attraversare il vuoto le parole risentano di un minor grado di attrazione da parte di altre parole e vengano fuori, per ciascuna di esse, possibilità inesplorate, sfaccettature che aprono tunnel e passaggi segreti evidenziabili solo quando sono allo stato di nudità assoluta.

La loro riaggregazione è un fatto inspiegabile con le normali leggi della sintassi poetica. Forse cercano qualcosa per poter essere riportate nel mondo macroscopico ma nessuno sa quando la tempesta che collassa i valori cesserà.

Un caro saluto

La macchia blu, acrilico, 20x20, 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 50×50 cm, 2023

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Giorgio Linguaglossa

16 ottobre 2023 alle 7:55

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Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale fa a meno di ogni atteggiamento critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare, è una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani…

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Diceva Umberto Eco in una famosa intervista :

«…un giorno Balestrini (e non so se fossi il primo con cui ne parlava, ma eravamo in una tavola calda vicino a Brera), mi ha detto che il momento era venuto di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi, ciascuno parlando male anzitutto dell’altro – poi, se avanzava tempo, degli altri, quelli che secondo noi intendevano la letteratura come “consolazione” e non come provocazione. Mi ricordo che Balestrini mi avea detto “faremo morire di rabbia un sacco di gente”. Ebbene sembrava una spacconata, ma ha funzionato.

Perché il Gruppo 63 che si riuniva a Palermo senza, all’inizio, strombazzare troppo l’iniziativa, e – se ci pensiamo bene – facendosi i fatti suoi, doveva fare arrabbiare tanta gente?

Per capire questa storia occorre fare un passo indietro a ricordare cosa fosse la società letteraria italiana (indipendentemente dalle posizioni ideologiche) verso la fine degli anni cinquanta. Si trattava di una società che era vissuta in difesa e in mutuo sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime – dico che non si allineavano quanto a scelte stilistiche, indipendentemente dalle convinzioni e persino dalle viltà politiche di molti – erano a mala pena tollerati. Si riunivano in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata.

[…]

Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria non era stata la posizione che diremmo “politica” del Gruppo. Era stata una diversa disposizione al dialogo e al confronto. Ho parlato di una società letteraria confinata nei propri luoghi deputati, e impegnata per ragioni storiche di sopravvivenza a proteggere i propri membri e a mantenere intatto l’unico suo capitale, la idea sacrale del poeta e dell’uomo di cultura. Era una generazione che poteva conoscere il dissenso, ma lo consumava attraverso un mutuo ignorarsi delle varie conventicole, e preferiva la malignità sussurrata al bar alla stroncatura su un pubblico elzeviro. Per così dire era una generazione abituata a lavare i panni sporchi in famiglia.

Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia aveva bene fissato le caratteristiche di questi movimenti. Erano: attivismo (fascino dell’avventura, gratuità del fine), antagonismo (si agisce contro qualcosa o qualcuno), nichilismo (si fa tabula rasa dei valori tradizionali), culto della giovinezza (la Querelle des ancien set des modernes), ludicità (arte come gioco), prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda (violenta imposizione del proprio modello a esclusione di tutti gli altri), rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, nel senso di senso agonico dell’olocausto, capacità di suicidio al momento giusto, e gusto della propria catastrofe.

Invece lo sperimentalismo è devozione all’opera singola. L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardistica.»*

* https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/02/21/ricordando-umberto-eco-il-gruppo-63-quarantanni-dopo-prolusione-tenuta-a-bologna-per-il-quarantennale-del-gruppo-63-8-5-2003-1-eco-gruppo-63-2003-da-www-umbertoeco-it/

Marie Laure Colasson

16 ottobre 2023 alle 13:03

È vero, qualcuno, leggi la poetry kitchen, ha smobilitato il discorso poetico del Grande Labirinto della narratività, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo, mostra la fatuità di quel linguaggio. Nessuno oggi fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce con un bel Campari. Invece, il bello della modalità kitchen (o infantile) è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaco-narrativi che partono da qui: In principio era il Verbo, per poi affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice e ricreatrice alla Vivian Lamarque.

Questa poesia [del post precedente, n.d.r] di Francesco Paolo Intini è felice, perché scritta con un linguaggio che ha la libertà immaginativa tipica dei bambini, sembra scritta durante un terremoto del 9° grado della scala Mercalli. Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci più sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci e degli adulti che parlano la Lingua del Labirinto elegiaco, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo possiamo dire, senza innaffiarci di «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci.

Intini riesce formidabile quando adotta il principio di Lacan:

«Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto». Intini ha la peculiare e rarissima capacità di perdersi nel linguaggio fino a non trovare più la via di uscita dal Grande Labirinto della narratività, ma non demorde, continua a cercare la via di uscita e sbatte la testa di continuo contro il muro del linguaggio. Quello che noi leggiamo sono le cicatrici sulla testa di Intini.

La Macchia all'angolo, 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 25×25 cm, 2023

Giuseppe Talìa

17 ottobre 2023 alle 16:38

Ricordo di aver commentato in precedenza la poesia di Intini, “Spyke di fine settembre”, rimanendo molto colpito proprio dal distico iniziale, “Accadde all’inizio che…”, un lampo improvviso scuote l’immobilità e a cui segue il tuono dell’indeterminatezza e delle aporie che costellano l’intero testo di Intini, a partire proprio dal verso “il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno./Gnam!” Un sovvertimento, una metonimia, dove contenuto e contenitore vengono sovvertiti come le stesse attese. Se ricordiamo la famosa frase “apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”, allora capiamo il rumore prodotto da chi mangia e la comodità del triclinio dove le parole passano ai fatti e diventano poltrone e sofà. Solitamente, Intini infarcisce i suoi distici con una o più metafore, in questa lirica salta all’occhio immediatamente la metafora del cibo e degli organi fisici ad esso, il cibo, collegati. Come un giocoliere, un saltimbanco, il poeta Intini riesce collegare i distici con un tropo comune ma nascosto, non dichiarato immediatamente, una riduzione del significato in una sineddoche inferenziale, come nell’esempio di seguito:

– Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.

Dov’è la sineddoche in questo esempio? Qual è l’elemento nascosto, sostituito? Alla luce della metafora del cibo, i denti appaiono senza apparire, sono “secoli” che “rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.”
L’ironia in questo gruppo di versi è pungente e si concretizza nella domanda su la bonne cuisine française, altra sostituzione per completare il tavolo dei commensali, Macron, Biden Putin (?) E l’Italia, come viene rappresentata se non con il luoghi comuni sovvertiti ? « Rospo all’amatriciana, Andreotti. »
Il lauto pasto del « potere » si conclude con il brindisi finale :

L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

Chi pensa che la poesia kitchen non abbia in sé anche le corde della denuncia globale dovrebbe ricredersi ri-leggendo i versi di Intini. Se si prestasse attenzione, ad esempio, alla decostruzione del mito attraverso le aporie di Giorgio Linguaglossa, – “Quindi il mito è falso. Dice il falso” – cercando di non avere sotto gli occhi la scheda di lettura editoriale, si capirebbe meglio la portata unica in Italia della poetry kitchen.

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Poesie di Mimmo Pugliese tradotte in albanese da Angela Kosta, La nomenclatura della poesia è diventata vocabologia assolutamente irrilevante, Quale «io» in questa situazione di collasso dell’ordine simbolico? Il mondo storializzato è un mondo parallattico e serendipico, La realtà era già da tempo diventata serendipica e parallattica, e non ce ne eravamo accorti, Commenti serendipici di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa

Mimmo Pugliese cover

Poesie inedite di Mimmo Pugliese tradotte in albanese da Angela Kosta

APRILE VENTIVENTIDUE

Scappava da 12 giorni
tutti gli indirizzi che ricordava erano sbagliati
La giacca appena comprata
era parente di una scatola di fiammiferi
Scappava da 12 giorni
dopo avere seppellito tappi di sughero
Uomini con gli occhi di passero
discutono con rane e trattori
La mongolfiera vende passaporti alle formiche
timonieri incrociano davanzali
Sulla schiena della collina
i vasi comunicanti avevano serrature finte
Stanotte la campagna è blu
nella mansarda è fiorito il baobab
Torpide gondole rovistano ortiche
donne con le trecce interrogano fondi di caffè
L’ipotenusa della foresta va alla guerra
ha un fastidioso prurito al braccio destro
Scappava da 12 giorni
hai fame?
hai sete?
hai dormito?
La geografia stringeva le labbra
sputava cicatrici lo specchio.

PRILL NJËZETNJËZETEDY

Prej 12 ditësh ia mbathte
të gjitha adresat që kujtonte ishin të gabuara Xhaketa që sapo e kishte blerë
ishte e afërmja e një kutije shkrepseje
Prej 12 ditësh ia mbathte
pasi kishte varrosur tapat e shisheve
Burra me sy harabeli
diskutojnë me bretkosat dhe traktorët
Ballona u shet pashaporta milingonave timonierët kryqëzojnë parmakët
Në shpinën e kodrës
vazot komunikuese kishin brava fallco
Sonte fshati është blu
në papafingo një baobab çeli
Gondolat e përgjumura
gërmojnë nëpër hithra
gratë me gërsheta fallxhojnë fundin e kafesë Hipotenuza e pyllit shkon në luftë
ka një kruarje të bezdisshme në krahun e djathtë
Prej 12 ditësh ia mbathte
Je i uritur?
Ke etje?
Ke fjetur?
Gjeografia shtrëngonte buzët
pështynte plagë pasqyra.

Mimmo Pugliese

Mimmo Pugliese e Angela Kosta

.

NON SOLO FERRO
Il ferro da stiro esce da scuola. Collide
James Bond è morto. Fuoco
Bertoldo beve naftalina
rovi e piastrelle si sfidano a ping-pong
uova di cenere scalano il muro del suono
la cartilagine del chinotto tossisce
sbuffano le Termopili
la colite sconfigge la terrazza
il nichel offre calabroni
Mercurio illude il pranzo
il pettine sviene
Godot suda
Nerone importa nitroglicerina
l’indice di borsa doppia l’appendiabiti
Decibel. Piove ancora?
vuoto senza uscita.

JO VETËM HEKUR

Hekuri i hekurosjes del nga shkolla. Përplasje
James Bond ka vdekur. Zjarr
Bertoldo pi naftë
ferrat dhe pllakat konkurrojnë në ping – pong vezët e hirta ngjisin shkallët e tingullit
kërci i chinotto-s kollitet
mllefosen Termopilet
koliti mposht tarracën
nikeli ofron grerëza
Mërkuri zhgënjen drekën
krëhërit i bie të fikët
Godot djersitet
Neroni importon nitroglicerinë
indeksi i bursës dyfishon varësen e palltove Decibel. Ende bie shi?
boshllëk pa dalje.

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ISCHIA
Ischia è una lisca di pesce
bastimento in bottiglia ad aria compressa
Nel buio polare fantasmi muti
scavalcano balconi cantando l’Internazionale
49 turiboli intermittenti
scaricano uva secca dai battelli di New Orleans
Calcolata l’ipotenusa dei tuoi polpacci
il bollettino meteo diventa vino
Treno dopo treno
il sottoscala è occupato da attinie vedove
In autostrada le tartarughe hanno sciarpe di lana
per vivere stappano barattoli di incisivi
Ieri era l’anno che verrà
a strozzare le fondamenta dei caschi di banana
Megafoni salpano dalle ecografie
gli abbracci hanno padri di lievito madre
Sulle onde medie a bassa intensità svolazza il papiro

la lavatrice della Prefettura è campionessa di tiro con l’arco
Le lampade alogene producono coleotteri
la carta vetrata si trucca per le televendite
Dopo un nuovo tatuaggio
i calamari cambiano anche le pasticche dei freni
Il deodorante non dice bugie
a Natale partirà soldato.

ISKIA

Iskia është një halë peshku
anije në shishe me ajër të kompresuar
Në errësirën polare fantazma të heshtura
kapërcejnë ballkone duke kënduar Ndërkombëtaren
49 temjanica me ndërprerje
shkarkojnë rrush të thatë nga vaporat
në New Orleans
Përllogaritet hipotenuza e puplave të tua
Buletini i motit bëhet verë
Tren pas treni
shkalla e poshtme është e zënë nga anemonat vejushe të detit
Në autostradë breshkat kanë shalle leshi
për të mbijetuar hapin kavanoza me prerës Dje ishte viti që do të vijë
për të mbytur themelet e helmetave të bananeve
Megafonët lundrojnë nga ekografitë
me ultratinguj
përqafimet kanë baballarë të majasë nënë
Në dallgët me intensitet mesatar e të ulët valëvitet papirusi lavatriçe i Prefekturës
është kampione e gjuajtjes me hark
Llambat halogjene prodhojnë brumbuj
letra zmeril bën makiazh për teleshopingun Pas një tatuazhi të ri
Kalamarët ndërrojnë edhe ilaçet e frenave Deodoranti nuk thotë gënjeshtra
në Krishtëlindje do të niset ushtar.

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LA CASA DI EINSTEIN

Al mercato nero un litro di vaccino
si scambia con sporte di pellet
evase dal dentifricio ultralight
reso prezioso dalla portiera del frigo
chiusa in faccia ai succhi gastrici
Il mormorio dell’agente segreto è ovale
ha la fretta di una palla in buca
al collo una discesa libera
nel pollaio è successo qualcosa
è in atto il trapianto del red carpet
I giorni di gesso
nascondono le mani nel cellulare
che semina acqua di colonia
necessaria per citare in giudizio
le caravelle di Cristoforo Colombo
Gocce di caffè in dribbling sulla pubalgia
pesano il doppio del quadrato
davanti ad arnie di neutrini
che fanno salti lisergici
nella casa obliqua di Einstein.

SHTËPIA E AJNSHTAJNIT

Në tregun e zi një litër vaksinë
shkëmbehet me thasë me pelet
dalë nga pasta e dhëmbëve ultra të lehta
e çmuar nga dera e frigoriferit
e mbyllur në fytyrën e lëngjeve gastrike
Pëshpërima e agjentit sekret është ovale
ka nxitimin e një topi në gropë
në qafë një rrëpirë e lirë
Në pulari diçka ndodhi
është në akt transplanti i tapetit të kuq
Ditët me shkumës i fshehin duart në celular
të cilat mbjellin ujë kolonje
e nevojshme për të paditur
karavelat e Kristofor Kolombit.
Pika kafeje në driblim pikojnë në pubalgji
peshojnë dyfishin e katrorit
përballë koshereve të neutrinos
që bëjnë kërcime lisergjike
në shtëpinë e shtrembër të Ajnshtajnit.

Pregatiti Angela Kosta shkrimtare, poete, gazetare, eseiste dhe Zv. Drejtore & Zv. Kryeredaktore në Albania Press dhe Kryeredaktore në portalin Dritare e Re.

Giorgio Linguaglossa giacca blu

Caro Mimmo Pugliese,

il televisore è quella cosa che si accende e si spegne, si accende dopo che si spegne e si spegne dopo che si accende

Nella notte che Zeus ci ha comminato nuotiamo in quella zona di indistinzione e di indiscernibilità in cui tutti i significati sono fasulli e posticci.

È come svuotare il mare con delle tazzine da caffè

È il collasso dell’ordine simbolico ciò di cui tratta la tua poesia serendipica, il collasso dei significati

Le nottole di Minerva si levano in volo al gong del polonio

Il poliptoto e il molibdeno succhiano dal biberon liquore all’isotopo di plutonio

I bambini giocano con gli aquiloni al deuterio

E Ozerov scherza con la rasputiza

Mi ha colpito la notizia dei due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa*

Su Encelado, satellite di Giove, piove una pioggia di diamanti

L’acchiappafarfalle ha litigato con il ventilatore ed è diventato un tropo

Minosse è diventato un appendiabiti

Al festival di Cannes del 1962  Brigitte Bardot si è presentata in topless, così che Venere e Giunone si sono ritirate dalla gara

La mancanza di un Principio è diventata una petizione di Principio

La poesia ha cessato di essere una «posizione di significati» per diventare una «indisposizione di significati»

La guerra di invasione dell’Ucraina e la guerra nella striscia di Gaza hanno reso tutto ciò assolutamente evidente, che la realtà obbediva da tempo alla legge della serendipità

Occorre nascondere il revolver nel primo cassetto del comò

E anche la mano fumante

Spazza sempre la polvere sotto il tappeto dopo le ore 18.00

La posizione parallattica di Venere tra Marte e Saturno inficia i tuoi progetti

L’io plenipotenziario si è convertito al penitenziario

La nomenclatura della poesia è diventata vocabologia assolutamente irrilevante

Quale «io» in questa situazione di collasso dell’ordine simbolico?

Il mondo storializzato è un mondo parallattico e serendipico

La realtà era già da tempo diventata serendipica e parallattica. E non ce ne eravamo accorti Continua a leggere

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La nostra è una ontologia metastabile della caducità, la nostra ontologia è diventata «caduca», chi non l’ha afferrato non ha capito nulla di quello che è accaduto al nostro mondo. Ci sono rimaste le «parole caduche» e con quelle, volenti o nolenti, ci dobbiamo arrangiare. Chi usa le parole «forti», le parole dell’elegia, le parole del panlogismo del secondo novecento, il discorso zanzottiano e post-zanzottiano, le parole «fortificate» , le parole polifrastiche e paesaggistiche non ha capito nulla del nostro mondo, Poesie di Ennio Flaiano, Lucio Mayoor Tosi, Tiziana Antonilli, Giorgio Linguaglossa, Anna Ventura

Lucio Mayoor Tosi frammento a strisce 2021

opera di Lucio Mayoor Tosi, frammento, acrilico, 2021

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Una poesia di Lucio Mayoor Tosi

Arsenale

Parole di mezzo mondo. Pagina quattrocento
“Single”, silloge in Fa, codazzi e sbandieramenti. Perché
non sono nata ieri. Come piove.

Dal burattinaio: servono emendamenti.
Cartaforno, pescispada. Fabbriche di camomilla.
Renata.

Hawaii, futurismo. Perché due guerre invece di una.
Mele cadute. Sapore di sale. E venne giorno. Segnali
di fumo. La Bibbia.

Ho scritto in Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010 (2011) che Ennio Flaiano è il più grande poeta italiano degli anni cinquanta.

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Una poesia di Ennio Flaiano

Chi apre il periodo lo chiuda.
È pericoloso sporgersi dal capitolo.
Cedete il condizionale alle persone anziane, alle donne e agli invalidi.
Lasciate l’avverbio dove vorreste trovarlo.
Chi tocca l’apostrofo muore.
Abolito l’articolo, non si accettano reclami.
La persona educata non sputa sul componimento.
Non usare l’esclamativo dopo le 22.
Non si risponde degli aggettivi incustoditi.
Per gli anacoluti servirsi del cestino.
Tenere i soggetti al guinzaglio.
Non calpestare le metafore.
I punti di sospensione si pagano a parte.
Non usare le sdrucciole se la strada è bagnata.
Per le rime rivolgersi al portiere.
L’uso del dialetto è vietato ai minori dei 16 anni.
È vietato servirsi del sonetto durante le fermate.
È vietato aprire le parentesi durante la corsa.
Nulla è dovuto al poeta durante il recapito

(Ennio Flaiano, Grammatica essenziale – 1959)

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Una poesia di Giorgio Linguaglossa

Un aeroplano cade giù dalla stratosfera
Tempo della discesa 2 minuti e 33 secondi

Nel frattempo le donne si ripassano il fard sulle gote, si mettono il rossetto sulle labbra, si spruzzano del profumo, sembrano allegre…

Gli uomini non finiscono mai di radersi la barba, hanno anche il tempo di chiacchierare convivialmente tra di loro, cercano di scorgere dai finestrini le nuvole…

Durante questo tempo tutti invecchiano, passano decine di anni, i capelli diventano bianchi, le guance pendule, gli occhi cerulei, ancora per un po’ possono godere dei tramonti…

Ma solo per un po’ perché il tempo sta per scadere.

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Una poesia di Tiziana Antonilli

: Allergia o letargia?

Una processione di macchie di unto
si è fermata nella Sala della Lettura

e applaude la madre di Inconsapevole junior
che stende un tappeto di jazz persiano.

La signora dello zero assoluto
veste un completo Armani

fatto di trecento buchi a perdere
spalmati su parole di marmellata di mirtilli,

buona per le unghie spezzate sul davanzale
éngagè del convegno sannitico.

Nuda sotto i fori strabuzza la pelle:
è allergica al nichel dei neuroni.

Lucio Mayoor Tosi Frammento

opera di Lucio Mayoor Tosi, frammento, acrilico, 2021

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Giorgio Linguaglossa

27 marzo 2018 alle 12:30

Milosz è stato un mio maestro, tanto tempo fa leggevo i suoi versi con ammirazione. L’ammirazione è restata ma è subentrato il rammarico che non posso più contare sui suoi versi… Milosz è un altro tipo di poeta, lui era un credente, credeva nella «pesantezza» della parola e delle parole, viveva in un mondo regolato dalla cortina di ferro, le parole per lui erano di ferro… Adesso noi invece sappiamo di abitare un mondo di sabbia dove le parole sono sabbia di sabbia, e le parole di un poeta non sono altro che geroglifici inscritti nella sabbia. Noi della nuova ontologia estetica non potremmo mai scrivere un verso siffatto:

Quando morirò, vedrò la fodera del mondo Continua a leggere

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Edith Dzieduszycka, Senza scampo, Genesi, Torino, 2023, pp. 106 € 15.00, La poetessa italo francese adotta lo stile da «ectoplasma» di montaliana memoria, ci conduce da subito in un «luogo», la circoscrizione del privato che ad ognuno di noi viene assegnata nel mondo, che coincide con il punto della Lichtung (radura) ove avviene la deiezione e la dispersione dell’esistenza storica

edith senza scampo 1

È noto che nell’epoca della post-storia, dopo la fine della guerra fredda ad opera di due blocchi di potenze belligeranti, siamo entrati nell’epoca della fine del post-moderno e della fine della storia. L’epoca attuale ha decretato l’equivalenza di tutte le Forme della Tradizione e la dis-missione del passato storico relegato al ruolo di pre-storia del genere umano. La Forma non è più l’involucro estetico dell’autenticità ma peripezia dello Spirito dissolto in quanto dissoluto e soggiogato dalla equivalenza di tutte le Forme e dalla mancanza di espressione.

«Questa epoca non ha nessuna singola forma che permetta, a noi che tacciamo, di esprimersi. ma ci sentiamo soggiogati dalla mancanza di espressione». Queste parole sono contenute nella lettera del 9 marzo 1915, con la quale Benjamin rompe con Gustav Wyneken e quindi con la “Jugendbewegung”. Motivo di tale rottura è l’adesione di Wyneken alla guerra e l’avversione verso ogni attivismo (Aktivismus) che finisce per soccombere in una intentio apologetica ben al di là di quel gigantesco bagno di sangue in cui refluì la migliore gioventù espressionista tedesca ed europea.

La poesia di Edith Dzieduszycka, come del resto anche la sua pittura, appartiene alla categoria dell’informale nella accezione invalsa da Benjamin in poi. Nella Dzieduszycka poesia e pittura procedono insieme, si scambiano vicendevolmente le acquisizioni che le singole arti attingono. Se la pittura pertiene alla sfera del pubblico, la poesia appartiene alla sfera del privato, ma entrambe sono facce della stessa medaglia, aspetti d’un medesimo processo creativo. Il nomadismo della Dzieduszycka è il vagabondare dell’artista tra le forme vuote come laboratori di impagliatura. La «mancanza di espressione» in lei acquista il tenore dell’urlo espressionista, del gesto acuminato dell’iperrealista. Nella Dzieduszycka l’esperienza del vuoto viene ad occupare un ruolo dominante nella misura in cui la sua arte tende ad assumere una caratterizzazione marcatamente informale e privata.

Nell’iper-moderno, nella misura in cui le filosofie del tardo moderno diventano apolitiche, anche le arti soccombono nella dimensione della apoliticità, si riducono alla condizione decorativa del vassallaggio. Nel mondo divenuto post-politico, cessa la politica, e l’arte contemporanea ne è la riprova più evidente. Resta un medaglione ornato di solfeggi e di trovate ironiche e iconiche: un’arte decorativa.

L’arte, se vuole reagire a ciò, dovrebbe diventare sempre più mondana, dovrebbe tornare a parlare agli uomini del mondo. Infrangendo la censura del principio di tolleranza, l’arte diverrebbe umana, andrebbe oltre l’umano e il non-umano dell’estetica nietzschiana. Ma per far ciò occorrerebbe una negazione radicale mediante la quale l’arte correrebbe il rischio del proprio ammutinamento. Nell’apocalisse della tolleranza universale l’arte celebra il proprio decesso.

Agli uomini che hanno cessato di «parlare», l’arte non può che restare muta sulla soglia della comunicazione universale. Se la democrazia reclama che tutte le arti siano uguali, le arti obbediscono in quanto tutte inessenziali, inessenziali in quanto decorative. Che la tendenza al decorativismo costituisca il piano inclinato per tutta l’arte del tardo novecento, è un dato di fatto difficilmente oppugnabile. Ciò che appare lampante nel design e nell’architettura è la mancanza di uno stile nel tardo moderno, surrogato dal remake di tutti gli stili del passato. Addirittura, nelle nuove condizioni spirituali è problematico finanche discorrere di arte dato che se ne è perduto il concetto. Senza contare che un’arte senza stile è già una contraddizione in termini. Così come discettare di un’arte senza concetto è analogamente un’arte senza spina dorsale, decerebrata. Tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno, impegnate some sono nell’eutanasia della libertà, stanno incondizionatamente dalla parte del mondo amministrato, oltraggiosamente partigiane della téchne dei medaglioni.

Già a cospetto del verismo fotometrico come di ogni forma di realismo senza stile, l’arte contemporanea abita il concetto del minimalismo: l’attenzione ai dettagli, la riduzione delle grandi problematiche al minimo comun denominatore di una filosofia della prassi agnostica. Il questo senso il minimalismo e l’iperrealismo, intese come campo di forza stilistiche proprie dell’ipermoderno, sono la configurazione delle esigenze della razionalizzazione della prassi. È chiaro che il non-stile dell’ipermoderno sia in realtà uno stile, anzi, lo stile per eccellenza: lo stile del beota.

Forse nessuno come il secondo Montale ha compreso l’utilità di uno stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili, dove l’impiego dell’ironia socratica resta l’unico argine al dirompere del trash. Ma oggi anche l’impiego dell’ironia si è rivelata un’arma spuntata, non è l’ironia il toccasana di una materia non più trattabile con le parole ironizzate. La distanza che l’ironia introduce non è più sufficiente a colmare la distanza degli oggetti tra di loro. Lo stile della «nuova poesia» parte da lì, dalla problematica sopravvivenza di un’arte senza stile. Il genere diaristico contraddistingue la poesia dell’attimo, della temporalità estenuantesi, costantemente rinnovantesi e continuamente perente.

Con questo libro intenso e crudele Edith Dzieduszycka adotta lo stile e il linguaggio da «ectoplasma» di montaliana memoria. La coscienza che «parla» è la guida del discorso, ci conduce da subito in un «luogo», la circoscrizione del privato che ad ognuno di noi viene assegnata nel mondo, che coincide con il punto della Lichtung (radura) ove avviene la deiezione e la dispersione dell’esistenza storica. È il modus essendi proprio dell’Esistente che precede d’un soffio il modus significandi. La modalità linguistica dell’«ectoplasma» racchiude l’espressione di questo vulnus nel luogo che ab initio ci è stato assegnato: il colloquio con l’Estraneo che abita il «luogo» della coscienza, quell’Ultroneo che intorbida e annebbia la «voce» della coscienza. La «voce» della Dzieduszycka si dirige verso il fondamento ma deve fare i conti con la questione del fondamento che è, afferma Agamben, comunque, indicibile e irriducibile, anticipa già sempre l’uomo parlante, gettandolo in una storia e in un destino epocale.

(Giorgio Linguaglossa)

edith dzieduszycka 1

edith dzieduszycka

Poesie da Senza scampo (2023)

Sempre la stessa cosa
alla medesima ora
e alla stessa ora
le medesime cose
indietro e avanti
avanti e indietro
implacabile torchio
che strizza e trascina
e fa girare l’osso attaccato alla ruota
Ma ora cosa dico
forse mi sto perdendo
nella radura informe del bosco privo d’alba
d’alberi morti sparso
e già sto vaneggiando
di bivi e sentieri smarriti nella neve
fuori dal centro mio
d’inerte gravità

*

Ma quale tempo – chiedo –
ne è passato tanto
non lo ritrovo più
temo si sia perso
anche lui nel groviglio
del tempo accumulato
sulle discariche
di quel tempo sprecato
Non lo ricordo più
ne è passato troppo
ora devo cercare
e frugare e scavare
in fondo all’oblio

*

Vuota – credo –
la stanza
o chi sa forse sbaglio
devo pensarci bene
controllare ogni angolo
sdoppiato nel riflesso
addossato allo specchio
in cui vedo seduto immobile qualcuno
però non so chi sia
ci vedo così poco
fantasma di me stessa
evanescente clone
ignaro
nell’attesa di poco
tanto o nulla

*

Non possiede finestra
l’ultimo mio muro
né porta né pertugio
dove passar la mano
uno sguardo furtivo
per andare a scoprire
di là
che cosa c’è
Non è bastione o tana
liscia, calda, clemente
si offre a me rugoso, sgretolato
lerci brandelli cuciti a punto croce
e stracci rammendati
rimediati al tramonto
sulla discarica vicino al cimitero

*

Ha paura del sole
è silenzioso, grigio
arcigno e slavato
Si regge a malapena
tra un pilastro e l’altro
e nulla proferisce
che mi possa turbare
Ma lo sento pensare
a me
intensamente
e sempre più vicino
Sembra strisciar perfino
impercettibilmente
verso di me
inerme

*

Finiremo per sbattere
scontrarci
– manca poco –
e quel giorno avverrà
chi sa quando e come
inesorabilmente
e questo lo sappiamo
pur se facciamo finta
di non conoscerci
Ma sarà quell’incontro
uno strusciarsi breve
delicato, leggero
lo sfiorare d’un’ala

*

Ora me ne accorgo
non mi esce la voce
anche se ogni cosa
la sento
mi trafigge
colle sue frecce d’oro
nel cobalto accecante
E poi all’improvviso
da pianure stagnanti
e sabbie mobili
quando non te l’aspetti
al riparo ti credi
d’altri sommovimenti

*

vanesi fantaccini
dagli occhi di ghiaccio
poveretti convinti di essere
speciali
di essere poeti
ma sono servi sono
inconsapevoli
da lei manipolati
In quella cupa notte
della fine di un’era
ora mi scopro muta
inerte a galleggiare
a pelo d’acqua sporca
nella brodaglia amara
dei miei pensieri insetti

*

bruchi voraci
il cui scopo maggiore
sembra la distruzione
del loro micromondo
finché venga raggiunto
il livello di guardia
perfino superato
quello più in alto
Di fronte all’ansia brulla
alla ferocia alzata
disseminate in un fervore inetto
un brulicare viscido
d’insetti ripugnanti

*

Troppe cose, pensieri
incosciente ho smosso
che dovevo lasciare
in letargo
silenti
in cavo alla conchiglia
della notte profonda
Nelle faglie dischiuse
ora s’è insinuata
gelida cristallina
compagna della neve
la subdola rugiada
che bruca intrisa l’erba
mentre la roccia lecca
con lingua di torpore
il Sé lontano e freddo

Edith de Hody Dzieduszycka è nata a Strasburgo (Francia) nel 1936 e vive a Roma nel quartiere ebraico. Compie studi classici e lavora 12 anni al Consiglio d’Europa, dove fonda insieme a colleghi di varie nazionalità il Club des Arts. Contemporaneamente disegna, dipinge e scrive poesie pubblicate in varie antologie. Riceve un Premio di poesie nel 1966 dalla SPAF (Societé des Poètes et Artistes de France). Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano dove si diploma alla Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive dal 1979. Crea collage e scatta fotografie, incoraggiata da Mario Giacomelli, André Verdet, Federico Zeri (mostre in Italia e all’estero). Ha pubblicato numerosi libri in italiano e bilingue, altri in attesa (poesia, haiku, aforismi, poemetti, 2 romanzi). Ne ha curato quattro. Numerosi video su YouTube.

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Dialogo tra Jacopo Ricciardi e Giorgio Linguaglossa  sulle aporie della poetry kitchen, Gli autori di  poesia di questi ultimi decenni adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato, Poesia di Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini

(da Facebook del 29 settembre 2022)

Spyke di fine settembre

Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.

Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!

La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
– Che c’è di buono in France?

Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.

Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.

Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi

Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito

Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
– Io non sono Antigone -ripete un ragno sul muro

Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.

La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche

L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

*

Giorgio Linguaglossa

1 ottobre 2022 alle 11:32

Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’ insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere a-significanti e inoperose (g.l.)

Alcuni autori di poesia (ad esempio, Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni) adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno. L’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato; questi autori fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «centricità» dell’io, di «identità», di «soggetto», di «riconoscibilità», di «originarietà» della scrittura poetica implica un rivolgimento: porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione», di un «nuovo paradigma», di una «nuova forma-poesia». Il discorso poetico della poetry kitchen passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo novecento incentrato sul dolorificio permanente dell’io egolalico ed elegiaco e su una «forma-poesia riconoscibile». Il capitalismo cognitivo in crisi di identità e di accumulazione genera ovunque normologia e riconoscibilità; quello che occorre è l’«irriconoscibilità», una poiesis che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica.

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 18:14

Il mio ultimo libro “Dei sempre vivi” è uscito con Stampa2009 diretta da Cucchi. Il libro non è né avvicinabile alla Poetry kitchen (anche se si dirige verso quei lidi) né parente della poesia minimale dell’io e dell’esperienza di cui Cucchi è certamente l’esponente più autorevole.

Si distanziano da questa posizione io-centrica tutto quel gruppo di poeti simili a Marco Giovenale che escludono l’io in favore di una oggettualità del mondo.

Già tra questi due gruppi non c’è alcuna comunicazione, posti come sono sulle due facce della stessa medaglia. Un passaggio però esiste, e riguarda l’utilizzo è la considerazione (la lettura) da parte del secondo gruppo di tutta una serie di testi che per esempio vengono dall’arte contemporanea (Emilio Villa in testa) e questo dal mio punto di vista fa loro onore. Mentre parlavamo del libro da pubblicare Maurizio Cucchi era avverso al Lucio Fontana dei tagli mentre esaltava il sempre eccezionale Lucio Fontana delle ceramiche figurative, o pseudo figurative. Dal mio punto di vista l’inclusione è sempre migliore dell’esclusione.

Ora, se uno volesse una poesia che lavorasse sull’esperienza e sull’io ridimensionandone la portata da una diversa angolazione, si potrebbe benissimo parlare dei due premi Nobel, Szymborska e Tomas Tranströmer, molto diversi ma «rigenerativi». Che il minimalismo italiano sia invece «conservatore», paragonandolo ai due Nobel, mi pare lampante.

Soprattutto Tranströmer nella poesia “Silenzio” mostra come il contesto, il collante, il linguaggio, debba essere compreso o ricompreso, perché il testo ne stabilisce un nuovo ordine: le immagini in successione sostituiscono il dettato, il parlato, quindi il poeta non utilizza le proprie parole ma delle immagini che si sostituiscono al suo parlare e al suo apparire nel mondo. Quindi le frasi di immagini si auto indagano e sprofondano in un abisso del linguaggio rinominando il “silenzio”, rinominandolo in “Silenzio”. Quando nella Poetry kitchen si citano i versi di questa poesia di Tranströmer:

.

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

.

si isolano questi versi dal proprio contesto, e così isolati sembrano già una poesia kitchen. Nella poesia kitchen si passa dall’immagine sola di Tranströmer che tramanda l’abisso dell’essere come cosa della Natura, al distacco elementare di due parti del linguaggio che fa sbuffare su di noi il vuoto. Io colgo in queste tre fasi una direzione di progressiva liberazione dall’io del testo poetico, e la Szymborska e ancor più Tranströmer ne segnano il vettore. Quindi rifiutare questo fatto è pericoloso per la contemporaneità del proprio scrivere.

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 10:26

Da un punto di vista decentrato rispetto alla «posizione centrica» di Giorgio Linguaglossa e di altri come Francesco Paolo Intini o Marie Laure Colasson ecc., io mi trovo a guardare in lontananza ciò che accade in quel centro teorico e pratico, che vuole o vorrebbe, battendo sempre sul medesimo punto, mostrare uno spazio privo di metafisica, quindi senza l’illusione della rappresentazione.

Quindi il processo della lettura nella Poetry kitchen vuole o vorrebbe disarcionare tutta l’abitudine narrativa o lineare dell’osservazione e della comprensione tradizionali, fondati sul riconoscimento delle cose del mondo.

Quindi si ottiene un percorso spezzato che dà su una realtà che è appunto quel vuoto o nulla scoperti in un improvviso altrove che non ha più rapporto coi frammenti che l’hanno suscitato, un vuoto che genera quei frammenti galleggianti sul vuoto. Frammenti che non sono però il vuoto, ma che per frammentazione fanno scorgere oltre di loro il perfetto, il vuoto. Ora se questo vuoto sta anche all’interno dei frammenti, le parole operano come forme e racconti metafisici, con una metafisica tradita che però è sempre metafisica. Una metafisica dal volto disilluso come dice Roberto Bertoldo. Il piacere della lettura è appunto questo perdersi nella parte metafisica, tradente sé medesima, dei frammenti e nei fantasmi delle cose, più che con l’incontro con il vero vuoto che è fisso, identico, tra i frammenti di un solo poeta, e di poeti diversi, uguale, solo momento, a dire il vero inafferrabile, e non trattenibile.

Quindi io credo che il vuoto esterno ai frammenti non sia un appiglio per la mente, e che si riveli alla mente come attimo comunque mascherante se stesso, nel suo essere veritiero, e che i veri appigli siano nei frammenti dalla linearità cortissima o abortita, che trattengono in sé una metafisica ripetutamente e variegatamente ripiegata nel proprio tradimento. Uscire veramente dalla metafisica vorrebbe dire teorizzare il comportamento di una mente senza corpo e priva di mondo, e del tutto senza pensiero, in un tempo vasto senza tempo.

La Poetry kitchen produce lo shock del vero vuoto? Forse.

Giorgio Linguaglossa

1 ottobre 2022 alle 14:27

caro Jacopo,

è che il vuoto ce l’abbiamo nel linguaggio, fuori del linguaggio, di fronte a noi ed è dentro di noi, dentro gli oggetti, è nel soggetto e nell’oggetto, specularmente. E allora, quale sguardo impostare?, quale esperienza?, con quale linguaggio? Il problema di ogni giudizio o rappresentazione è che si tratta di cose che derivano da una posizione frontale (kantiana). L’io, il soggetto metafisico che osserva l’oggetto è una finzione perché il soggetto è sempre parte e «limite del mondo, non si può staccare il soggetto dall’oggetto come un francobollo da una busta. Fare una poesia o romanzo rappresentativi presuppone sicuramente un soggetto plenipotenziario, una ideologia narcisistica, egoriferita, ombelicale ovunque poi cada la rappresentazione, se nella storia o nella storialità, nell’ipoverità o nella iperverità o nella perversione del Collasso del Simbolico. Nel Collasso del Simbolico non c’è una «mente» che possa tenere insieme i membra disiecta. È che non ci resta che una auto educazione alla lateralità, alla disfunzionalità del linguaggio, del soggetto che lo agisce e del soggetto che viene agito e etero agito; occorre la formattazione della antica ottica per una nuova che sdipani i fili di quel che si è fittiziamente e fattiziamente fattualizzato dall’io auto riferito ponendo però attenzione alla dis-attenzione, a quel che, di volta in volta, è andato smarrito, centrifugato e dissolto nel Collasso dei linguaggi e delle visioni.

Il «cogito ergo sum» di cartesiana memoria è stato rovesciato da Lacan nel monito «penso dove non sono, dunque sono dove non penso»: il diffondersi di questa concettualizzazione non-lineare e a-centrica della rappresentazione del soggetto «a-centrico» (per usare una dizione di Enrico Castelli Gattinara) non ha avuto seguito nella produzione poetica e romanzesca italiane (fatta eccezione per Calvino), dunque, la rivoluzione copernicana iniziata da Freud deve essere portata a compimento anche nel cassetto della poesia italiana ancora immobilizzata ad una visione «centrica» della soggettualità.

Il linguaggio non è la sede del trauma, è il trauma che buca il linguaggio; ma il trauma obbliga il soggetto a «perdere» la cosa e a «bucare» la rappresentazione. Questo è il passaggio fondamentale: il momento in cui si struttura la soggettività per la rappresentazione è il medesimo momento in cui si struttura il linguaggio. Da questo momento in poi quando entriamo nel linguaggio «perdiamo» la Cosa e trattiamo con i suoi sostituti: le «parole» delle «cose», così le «parole» acquistano legittimazione filosofica e giuridica. Le parole del mondo collassato sono anch’esse attinte dal collasso. La modalità kitchen disconosce la «posizione centrica», non c’è nessuna posizione che sia «centrica», siamo tutti lateralizzati. Non avrebbe senso dinanzi alle parole collassate salvaguardare una «mente» integra o «centrica» come affermi tu. Le parole del mondo collassato sono degradate ad utilitarietà e convogliate nella comunicazione (a-centrica). E così perdono peso, senso, significato.

Pensare che vi sia una uscita di sicurezza gratuita dalla fine della metafisica attraverso una operazione di modernariato sul linguaggio è una pia illusione, un errore. C’è un dazio da pagare, altrimenti si va a comprare il soggetto «centrico» al mercato nero.

https://www.academia.edu/37583578/PK_9_Soggettivazioni_Segni_scarti_sintomi_Subjectivations_Signs_wastes_symptoms?email_work_card=title

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 17:10

L’ipoverità e la disfunzionalità del linguaggio anche se possono essere messi in un discorso come distinti fattori, potrebbero a un atto pratico di verifica – analisi testuale – sovrapporsi ed essere addirittura la stessa cosa. Ossia, come posso sapere se il vuoto vero non è un’ipoverità del vuoto ovvero una sua immagine. Non ho difficoltà a vedere il vuoto, a “sentirlo” addirittura, nelle cose – coglierlo nella struttura della società contemporanea -, a formare di vuoto il soggetto, a rendermi conto della non aderenza tra frontalità e pratica disfunzionale del linguaggio come lateralità, ma penso che essere certi alla lettura che quel dato frammento o parola non mantenga un’aura metafisica che si confonda col desiderio di sogno e di racconto, ancorché negato, non è certo.

Nel mio caso poetico uno spazio e un tempo si dilatano in un modo che trova un luogo fatto di fuori spazio e fuori tempo, eppure resta una forma di spazio e di tempo, anche se nell’esperienza – alla lettura – molto diverso. Nei testi della Colasson trovo personaggi e loro gesti e situazioni ridotte e frammentate che mi danno godimento per essere dei fantasmi la cui aura mi fa sognare, nel vuoto diciamo, però sognato. Può essere un mio errore, il godimento. Però la lettura richiede soddisfazione di un godimento, altrimenti non ci sarebbe lettura. I testi di Linguaglossa mi piacciono perché il luogo dove avviene una serie di fatti idiosincratici è un vuoto che nonostante tutto si riempie, di vuoto forse, ma che è sempre qualcosa. Così seguo la pallottola di Gino Rago, perché fa dipanare una storia che non si svolge, il filo della pallottola è fatto di vuoto ma pure passa come un filo continuo attaccato ad un ago che attraversa e lega distanze e tra loro il vuoto. Se Gino Rago non mantenesse in vita la storia quale piacere proverebbe il lettore. Lucio Tosi seziona la realtà e la isola in maniera tale che la disgrega, ma pure la mantiene viva in pochissimi pezzi e quasi incomunicabile; perché ogni poesia comunica, e lo stare davanti a un testo così stringato che non si stringe può affascinare il lettore. Intini forse è l’unico che concede al lettore meno spazio, e che si trova al centro di un centro. Il testo di Intini si trova nel centro del centro della teoria di Linguaglossa, ma il lettore – dalla mia personale esperienza di lettura – vede il suo desiderio insieme al proprio sogno bruciati via.

Ora questo margine degli autori dal centro del centro – per esempio di Linguaglossa poeta rispetto al Linguaglossa critico – della Poetry Kitchen meno Intini, offrendo uno spazio meno stringato del linguaggio, dove ancora spiffera il desiderio e il sogno del lettore, a me pare necessario; evitandolo nella direzione di Intini – oltre di lui -, che pure non ne è esente, si farebbe del testo un esercizio filosofico anziché restare nel letterario, vivrebbe insomma nel presente della teoria anziché nel futuro della pratica.

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Edipo è stato sostituito da Vivian Lamarque e dagli influencer, il Principe di Salina è stato sostituito dal commissario Ingravallo e il Presidente del Consiglio Draghi dalla Meloni con i suoi accalappiacani. Con il che l’essere si allontana indefinitamente e l’Esserci non sa più che pesci prendere, non abbiamo più un linguaggio poetico con cui trattare questi argomenti, e così il linguaggio poetico rischia di andarsene a ramengo – Poesie di Francesco Paolo Intini, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Commenti di Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa

Penelope che di giorno fila la tela e di notte la sbroglia è una mentitrice, al pari del suo congiunto Odisseo che ha inventato la menzogna quale struttura ermeneutica e comunicazionale, difensiva-offensiva. Dall’itacense e da Penelope il mondo (cioè il linguaggio) ha adottato la menzogna come una forma di organizzazione del discorso (del logos). Entrambi, Penelope e Odisseo, sono i protagonisti primordiali di questa rivoluzione del mondo (leggi linguaggio). Di qui la ressa dei significati che vengono legittimati e codificati e de-legittimati e sbrogliati tramite la politica. La politica è diventato il regno del logos, della disinformatzia, delle opinioni di parte, degli interessi di parte, delle ideologie. Il logos stesso è diventato di parte. I significati sono anch’essi di parte. Credere ad un significato inconcusso è un atto di ingenuità oltre che di falsa visione del mondo. E questo inquinamento del linguaggio avvenuto in tempi primordiali lo possiamo dire noi a buon diritto dopo Auschwitz e la guerra di invasione dell’Ucraina. Ne deduco che la poiesis debba prendere le distanze critiche dal significato, da ogni significato. E andare oltre, «fuori  significato», saltare oltre l’ombra delle parole.
Fare una poiesis del significato claro e acclarato oggi lo considero un atto di ingenuità e di superstizione.

(Marie Laure Colasson)

Francesco Paolo Intini

FRITTAGLIE
La coscienza si vide trascinare in terrazza
Fu lì che scrisse agli uomini terribili.

Doveva essere bella e spaziosa come l’occhio di Giove
per accogliere i pianeti sottostanti
su tappeto rosso sangue.

Perché suonare la tromba
per delle pentole a pressione?

Scese la Luna come rappresentante di profumi
ma se ne stette in un angolo per svanire senza storia
perché nessuno poteva credere a limousine e canzoni d’amore.

Le fondamenta devono toccare il cuore
senza sfiorare la segatura del micio.

Ecco Marte che non finge correlativi
Sgomitare tra nuvole e sbarazzarsi delle radici.

Si vedono xylelle armeggiare gru
Ed ascensori progettare cannoni.
Cos’è successo al ferro dei pilastri?

Le balene bianche sembrano piuttosto irrequiete.
Di solito vendono pomate in Africa
e le recuperano su navi al largo di Venere.

Aorta che grida all’impostura:
Ah il tagliagola della vena porta ha colpito ancora!

Ulivo che non comprende la concorrenza
Dei granchi blu.

Domande che strisciano in corpi di mamba
come poliziotti dentro casa
alle cinque del mattino.

.

Lucio Mayoor Tosi

Instant poetry metafisica

Mi piace il tempo presente, ti va di parlarne?

Ascolta. Si aprono centimetri alla volta celeste.
Scrivi valore, valore. Altrimenti sposami.

Per chi voglia raccapezzarsi un po’ circa il problema dell’io, legga di Sergio Benvenuto qui:

https://drive.google.com/file/d/1Xm3mhJBdNl8AkyG0n9nsxx9KLUZ_PA29/view?pli=1

Nella poesia di Francesco Paolo Intini abbiamo la esemplificazione della destituzione dell’io sostituito dalla «metodologia delle equivalenze», ovvero, delle multipresenze che sostituiscono lo shifter dell’io all’interno delle proposizioni creando un gigantesco crash, un effetto di effetti, esplosioni terroristiche che avvengono in una città assediata senza che nessuna polizia riesca a rimettere in ordine e in sicurezza la città. È esattamente questo il Collasso del Simbolico, che non si può rappresentare se non per via indiretta e in diagonale, dove le parole vengono sottratte al logos assertorio in quanto dipendenti esclusivamente dall’entanglement e dal correlativo casuale, ovvero, dall’ossessione suicidaria delle parole.

Antonio Sagredo

Dove va la poesia contemporanea?

Va dove non c’è il Poeta. Là dove non esiste Lei stessa.
Va dove non deve andare. Va dove meno te lo aspetti.
Va dove non c’è nessun dove.
Semplicemnte: va.
Va dove c’è uno Spazio e non esiste il Tempo.
Va dove non esiste alcuna dimensione come la intendono i “terrestri”. Va dove c’è una tendenza che la giustifichi: Poesia e tendenza sono la medesima cosa. meglio creatura.
Là dove la Vita e la Morte (come la intendono gli umani-terestri)
non esistono nemmeno come parola: dove per il termine “definizione” non v’è alcuna diemnsione p spazio possibile.
Va, semplicemnte va, anche senza il Poeta che la contiene o è semplicemente assente, perché fra assenza e presenza non vi è distinzione.

Va, semplicemente va…

Doveva essere il secolo breve

Le guerre dovevano durare il tempo di un lampo. C’era ancora un orizzonte. Si pensava che l’umanità prima o poi sarebbe stata redenta. E invece il secolo non smette mai di finire. I conflitti si spostano, mutano, si verificano in ogni parte della Terra, si smaterializzano, scompaiono, ricompaiono, sembrano specchi per le allodole, e invece sono specchi ustori. E l’orizzonte non si è avvicinato nemmeno di un passo, anzi, sembra essersi allontanato (questa questione dell’orizzonte mi sembra una cosa davvero seria!), Edipo è stato sostituito da Vivian Lamarque e dagli influencer, il Principe di Salina è stato sostituito dal commissario Ingravallo e il Presidente del Consiglio Draghi dalla Meloni con i suoi accalappiacani. Con il che l’essere si allontana indefinitamente e l’Esserci non sa più che pesci prendere, non abbiamo più un linguaggio poetico con cui trattare questi argomenti, e così il linguaggio poetico rischia di andarsene a ramengo. Per cambiare di segno a questa fine che si trascina senza mai finire occorre individuare degli indizi (le prove le stiamo cercando). Siamo così giunti all’ultima spiaggia, siamo nel campo dell’Ereignis inteso come rapporto dei rapporti o relazione delle relazioni, o relazione indiziaria. Ogni differenzialità e relazionalità, per quanto pure, sono, per Agamben, già da sempre inscritte nel pensiero occidentale – almeno a partire da Aristotele. Resta però il fatto che Aristotele è stato sostituito con il ministro Sangiuliano e dal valletto Sgarbi. Resta il fatto che alla poesia oggi non resta altro che avere a che fare con gli sgarbi e gli sgorbi.
La «nuova poesia» va alla ricerca di questi minimi indizi, è una poesia indiziaria, nei suoi momenti più riusciti è uno sguardo dal di fuori, rivela l’alterità irriducibile della poesia e l’estraneità e l’intramontabilità del mondo, il mondo non tramonta mai, semmai è l’uomo a tramontare e a periclitare, sembra essere proprio qui, proprio nella forma della destituzione di ogni relazione e di ogni relatività, che si snoda, dalla forma-di-vita all’«ontologia modale», ci dice Giorgio Agamben, quella «ontologia modale» che ci rende liberi come uccellini nel bosco, che ci sottrae alla «terra» heideggeriana e ci getta nella terra di nessuno di nessuna ontologia, ovvero, di una «ontologia del pressappoco».

(Giorgio Linguaglossa)

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Intervista a Giorgio Linguaglossa, di Daniele Santoro DOVE VA LA POESIA CONTEMPORANEA?(2009) Risposta: Se guardiamo alla poesia ufficiale, il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all’interno non c’è nulla, proprio nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell’editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un’area che in un libro di critica in corso di stampa definisco “La Nuova Poesia Modernista Italiana”, Poesie scritte dagli Avatar di Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese, Giorgio Linguaglossa

Intervista a Giorgio Linguaglossa
di Daniele Santoro DOVE VA LA POESIA CONTEMPORANEA?

Giorgio Linguaglossa giacca blu
Ho avuto cattivi maestriÈ stata una buona scuola» (Ich hatte schlechte Lehrer. Das war eine gute Schule) verso di Hans Arnfrid Astel – In foto Giorgio Linguaglossa.

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Poeta e narratore, Giorgio Linguaglossa esercita da anni, con non minore interesse, una considerevole attività critica, tanto acuta quanto eversiva e dissacratoria; attività che ha trovato in passato il suo organo di “partito” nello storico quadrimestrale “Poiesis”, da lui fondato e diretto dal 1993 al 2005, e che continua tutt’oggi attraverso collaborazioni a diverse riviste letterarie e pubblicazioni varie. Lo fa con la consapevolezza di chi ama la poesia incondizionatamente e non accetta di vederla asservita, come pure accade, a becere logiche di potere editoriale e alle mode del momento, manco fosse un prodotto soggetto a mercificazione. Di qui le sue battaglie, le sue accanite lotte, le sue «azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni», come scrive in un suo corposo libro dal titolo Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (coedizione Libreria Croce – Scettro del Re, Roma 2003). In occasione della uscita del suo nuovo volume di saggi La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) Roma, EdiLet, 2010, abbiamo pensato di raccogliere direttamente dalla sua voce cosa pensa della poesia e di altrettante interessanti questioni intorno al fare poetico.
(d.s.)

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1. Consapevole della difficoltà di offrire una risposta breve ed esaustiva, puoi aiutarci a tracciare un quadro della poesia italiana più recente?

Se guardiamo alla «poesia ufficiale», il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all’interno non c’è nulla, proprio nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell’editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un’area che in un libro di critica in corso di stampa definisco «La Nuova Poesia Modernista Italiana». Un’area poetica che è emersa nel corso degli ultimi venti-trenta anni, quando si è manifestata la crisi e l’esaurimento delle poetiche epigoniche, cioè quelle che facevano capo al post-sperimentalismo e a quella rappresentata dai poeti della seconda linea lombarda, per intenderci, quella del «piccolo canone».

2. Riporto dalla introduzione al tuo Appunti critici (2000) una significativa frase di Hans Magnus Enzenzsberger che può essere intesa come un manifesto del tuo modus operandi: «l’inverso di ogni distruzione della poesia è la costruzione di una poetica nuova». Alla luce di tale affermazione, quale futuro è possibile disegnare per la poesia?

Risposta: Il linguaggio di poeti del Novecento come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini comuni come in Wordsworth ma acquista le caratteristiche di una sofisticatissima colloquialità. Ciò che Yeats rimprovera ad Eliot può essere rivolto contro la sua stessa poesia. La colloquialità e il quotidiano prendono il posto della dimessa prosodia e della mitologia («Eliot has produced his great effect upon his generation because he has described men and women that get out of bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effect by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantic rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty»).

L’arte che oscilla tra iperrealismo e minimalismo è quella che meglio corrisponde alle esigenze di conservazione dell’esistente. Se l’iperrealismo muove dall’assunto che occorra ripristinare uno sguardo quanto più vicino possibile al «reale» mediante un punto di vista asintoticamente prossimo al punto di fuga del campo ottico, il minimalismo, nelle sue varianti consapevole e inconsapevole (cioè, conseguente e inconseguente) assume l’assioma secondo cui ciò che esula dalla lastra fotografica del «reale» non ha ragion d’essere. La limitatezza dello sguardo viene scambiata per limitatezza del «mondo».

In questo quadro problematico il problema del realismo diventa un problema soggettivo. Il «realismo» diventa un problema di «psichismo», con tutto ciò che ne consegue: l’oggettività del mondo scompare… etc. La «progettualità» del minimalismo è una finta e fittizia progettualità, per il minimalismo il mondo diventa una funzione dell’io e l’unità di misura degli oggetti è lo sguardo soggettivo.

Così, sia gli iperrealisti post-sperimentalisti (Giancarlo Majorino, Luigi Ballerini), che gli esistenzialisti milanesi (Maurizio Cucchi, Mario Benedetti, Antonio Riccardi), e i minimalisti (ad es. Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, Franco Marcoaldi), sono accomunati dall’idea dello spazio come «contenitore» di «oggetti linguistici», considerati come entità misurabili e calcolabili a-priori, e quindi spostabili e modificabili. I minimalisti «sanno quante tazze ci sono nel mare». Ma, appunto, questa «ingenuità» della loro poetica fa del minimalismo una poetica ancillare dell’esistente. Il minimalismo non arriva neppure ad immaginare una «ontologia estetica» ma si ferma al di qua degli oggetti e al di qua del reale. In queste condizioni il problema del «realismo» non si pone nemmeno. Anime ingenue e inconseguenti, i minimalisti non sanno veramente che cos’è una «ontologia estetica»: essi procedono a tentoni, con gli occhi bendati, producono migliaia di pagine di finta poesia, di simil-poesia, di spacconate triviali e superficiali, truismi e banalismi. Per quanto riguarda coloro che si esprimono con quelli che definirei una sorta di paralinguaggi come i dialetti, costoro finiscono a dare voce a una gamma di «manichini» i quali parlano un linguaggio che non esiste, un linguaggio fittizio, virtuale, costruito in un laboratorio linguistico separato da un burrone rispetto alla comunità linguistica europea di cui l’esempio più recente è fornito dall’ultimo libro di Franco Loi, Voci d’osteria (Mondadori, 2008). Nel suo genere un capolavoro di gergo iperletterario costruito a tavolino. Un gergo privato, insomma.

Preso atto di ciò, penso che occorra procedere alla costruzione di una «nuova» poetica per andare oltre il riformismo moderato del minimalismo.
Poiché nella tensione verso il reale le «cose» subiscono uno «spostamento», la cosiddetta parallasse, sono «altrove», sono «oltre», ecco allora che un nuovo realismo non può che sorgere da un nuovo concetto dello «sguardo», ovvero, da uno «sguardo stereoscopico e stereometrico» che vada dal particolare al generale, dagli oggetti alle loro metafore. Ecco allora che la «nuova poesia» non può non porsi il problema della «esistenza» degli oggetti allo scoccare della in-tensione significante. Ecco, allora, il precipuo carattere linguistico della tensione semantica (leggi la metafora), quel ponte semantico che rimanda all’urgenza del «reale».

Porre oggi la questione di un realismo integrale è un modo per porre la questione di una uscita dal Novecento, lottare affinché il «nome» si avvicini alla «cosa», chiami, convochi la «cosa».
Porre oggi la questione di un realismo integrale significa risolvere il problema di uno stile integrale che sappia coniugare l’alto e il basso, il sermo humilis e il sublime.

Chiediamoci con molta franchezza: chi è in grado oggi in Italia di esprimersi con il «subtle conversational tone» di Eliot o con la potenza rappresentativa di un Mandel’stam? Come è possibile non vedere i grandi risultati estetici raggiunti dai poeti del «nuovo realismo» come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Luigi Manzi, Anna Ventura, Roberto Bertoldo, Mario Lunetta? Si tratta di una svista o di un palese atto di misconoscimento?
Mi chiedi: quale futuro per la poesia? Credo che la poesia, quella ufficiale intendo, quella pubblicata dagli editori «a diffusione nazionale», non abbia futuro perché non c’è alcun filtro critico. La poesia-spazzatura dei nostri tempi non ha nessun futuro perché non ha nessun presente.

Antologia Poesia contemporanea cop

3. Per un proficuo “rilancio” della poesia, quanto può giovare la riflessione storico-filosofica?

Risposta: Per il minimalismo l’assunto di partenza è che per fare poesia non è necessario avere alcuna idea di poetica, io invece penso che occorra ripartire da una seria riflessione filosofica sul che cosa significa fare oggi poesia in un paese dell’Occidente in pieno post-moderno.

Per un “rilancio” della poesia credo sia necessario procedere alla riforma dell’Università, della Scuola, della Ricerca, della Stampa, della TV. Occorrerebbe una rifondazione della borghesia finanziaria e dello stato di diritto. È un problema complesso.

4. Ricordo al pubblico dei lettori che, tra le tante attività da te svolte, non meno importante è stata quella di traduttore da poeti inglesi, francesi e tedeschi, non ultimo il premio Nobel Milosz; si è trattato di scelte oculate e di autori che hai avvertito essere più congeniali o magari di un rifiuto della poesia italiana delle ultime generazioni? Dunque, quanto è importante il ruolo della traduzione dalle letterature straniere?

Risposta: Ho tradotto alcune poesie di Milosz, in collaborazione con una persona di madre lingua, aiutandomi con la mia scarsa conoscenza del russo e in stato di ipnosi. Le grandi poesie di Milosz sono state per me un corroborante e un tonico dell’intelligenza. Dopo aver letto Milosz guardi alle cose del mondo con un occhio più severo ma anche più comprensivo. E poi occorreva guardare al di là della nostra piccola e provinciale Italia, occorreva guardare al di là delle Alpi. Le traduzioni sono importanti, di più, sono essenziali per ricostruire l’identità della poesia italiana del secondo Novecento che ha perduto la propria fisionomia. La grandissima parte dei poeti inseriti nelle Antologie redazionali e amicali di questi ultimi trenta anni sono prive di valore culturale, anche quelli inseriti nell’Antologia dei Meridiani a cura di Cucchi e Giovanardi sono per lo più indistinguibili gli uni dagli altri.

5. Cosa pensi delle numerose antologie di poesia, pubblicate negli ultimi anni, che pretendono di fare il punto della situazione? qual è la tua personale idea di canone letterario, seppure è lecito assumerne uno?

Risposta: Credo che l’utilità delle antologie pubblicate negli ultimi trent’anni sia prossima allo zero. Non c’è nessun «punto» della situazione. Quello delle antologie degli ultimi quindici anni è stato uno spettacolo squallido: ognuno ha fatto l’antologia a proprio uso e consumo. Per quanto riguarda il cosiddetto «canone letterario», dirò semplicemente che esso è l’assioma della propria primogenitura che il ceto letterario egemone produce. Non c’è nessun «canone», né piccolo né grande, c’è soltanto una grandissima confusione dalla quale emergono soltanto i più furbi e i più attivi nel perseguimento delle alleanze di comodo. Come nella giungla vige la legge della giungla.

Antology How the Troja war ended I don't remember

6. Il tuo nome è legato, come si diceva, alla fondazione e alla codirezione per quasi tredici anni di “Poiesis”, rivista militante tra le pochissime di allora. Cosa ha rappresentato per te quella esperienza? l’averla chiusa è stata un abbassare la guardia, è l’avere voluto riconoscere un fallimento, un inevitabile scacco?

Risposta: Aver chiuso una rivista come «Poiesis» ha coinciso con il prendere atto che la palizzata del conformismo era praticamente infrangibile. Di fatto, ho dovuto prendere atto della mancanza di interlocutori. I più dotati, si defilavano per timidezza, i meno intelligenti, neanche capivano di che cosa si stesse parlando. Chi stava sul ponte di comando delle istituzioni egemoni capiva bene che cosa si stava dicendo ma non gliene importava niente. Sì, posso dire che la fine di «Poiesis» ha segnato una sconfitta, un «inevitabile scacco» come tu dici. Ma mi conforta il pensiero che ci sono sconfitte inevitabili, sconfitte che possono, in un futuro più o meno prossimo, convertirsi in un insperato successo postumo. Del resto, quando ho fondato «Poiesis», nel lontano 1993, non mi ero fatto alcuna illusione sulle possibilità di «bucare» la chiglia del conformismo. Era una sconfitta annunciata.
Non ho mai «abbassato la guardia», né allora né tantomeno intendo farlo adesso: il profilo della mia riflessione critica è rimasto lo stesso, anzi, con il tempo si è affinato. Adesso è più appuntito e preciso. Guardo le cose con maggiore distacco.

7. In un tempo impaziente come il nostro qual è il futuro della poesia?

Risposta: Questo libro è venuto alla luce in un tempo impaziente, un tempo in cui il discorso poetico è rimasto irrimediabilmente indietro rispetto alla velocità di riproduzione e rinnovamento dei linguaggi mediatici. Ciò che in un tempo lontano era una attività di «avanguardia» è oggi diventata una attività di numismatici che collezionano monete fuori corso. L’emancipazione dalla letteratura borghese non è avvenuta e, forse, mai più avverrà; gli dèi sono tramontati e dio è scomparso, e probabilmente è meglio che le cose siano andate così. Nel frattempo la poesia si è mutata in discorso poetico. Qualcosa di determinante nel suo DNA si è mutato irreversibilmente. Qui non si tratta di indicare come perduta l’«innocenza» della scrittura poetica (ammesso e non concesso che sia mai stata innocente), e neanche l’ipercriticismo (anch’esso una diversa modalità di confezionamento dell’«innocenza»). Ciò che un tempo apparteneva alla profondità adesso pertiene alla superficie, ciò che un tempo corrispondeva alla fenomenologia di apparenza ed essenza, adesso pertiene ad una dimensione unica che comprende e giustappone superficie e profondità, durata (dell’opera d’arte) e suo carattere transeunte, periclitante, effimero. Davvero, non c’è alcun dramma nella scomparsa della poesia, che è stata sostituita dai paralinguaggi degli addetti ai lavori. Ci inoltriamo sempre di più in un mondo virtuale ed effimero e non vedo perché la poesia non debba situarsi entro questo contesto culturale come meglio le aggrada e meglio la soddisfi. Alla «coscienza infelice» di Hölderlin e di Leopardi fino al primo Montale è subentrata la coscienza felice della piena integrazione della società globale.

Giorgio_Linguaglossa_cover_Dopo_Il_Novecento

8. Fare poesia è un modo per parlare e per sentire con tutti i sensi e in molti sensi. Fare poesia è darsi il tempo di ascoltare il proprio respiro. C’è un modo “diverso” di fare poesia tra Nord e Sud? Oppure la poesia è uguale a tutte le latitudini, dalla Sicilia alle Alpi?

Risposta: In questo articolo di Giovanni Raboni che risale al 1969 scritto in occasione di una analisi della poesia di Daria Menicanti, abbiamo la prima acuta diagnosi critica della nuova situazione della poesia italiana. Si prende atto che il campo della poesia è un rettangolo di gioco aperto alle più svariate correnti.

«Diciamo la verità: il linguaggio della tradizione, recente o remota, è uno spazio sperimentabile come qualunque altro – non meno, suppongo, dell’alfabetismo dei mass media o dei sussulti linguistici della cibernetica. Sperimentabile, voglio dire, ai fini espressivi, di recupero o di straniamento o di critica: senza alcuna preventiva garanzia d’efficacia, è ovvio, ma senza preclusioni specifiche. Non c’è davvero bisogno d’aderire alla teorizzazione del falsetto per riconoscere che si può operare dentro – e sopra, e persino “contro” – un linguaggio anche senza usargli violenze vistose, e che, d’altra parte, si può “inventare” anche un linguaggio che c’è già

D’ora in avanti, si afferma la convinzione secondo cui il linguaggio poetico è diventato una zona franca, esentasse, una sorta di svizzera e il linguaggio della tradizione un «campo aperto» alle incursioni di abili rivisitazioni: un mix di sperimentalismi e di orfismi «privati»; uno sperimentalismo «personale», «libero», «esentasse», privo di una procedura sperimentabile, orientabile e verificabile; uno sperimentalismo non più verificabile né falsificabile, come dovrebbe essere ogni procedura scientifica, ma uno sperimentalismo gratuito che sconfina nell’arbitrio, una procedura di riscrittura libera, ilare, gioiosa, giocosa, parodica, umoristica; una procedura di investigazione del quotidiano libera, ilare, gioiosa, parodica, umoristica; si diffonde la convinzione che la scrittura poetica non sia altro che il prodotto di una riscrittura continua, di un rifacimento perpetuo dei medesimi topoi, che nulla di nuovo c’è da dire perché non c’è nulla di nuovo che valga la pena di esser detto e scritto. In questa situazione di disillusione, di scetticismo di massa e di illusione di libertà creativa di massa, accade che aumentano a dismisura le possibilità della scrittura poetica e aumenta vertiginosamente il numero degli aspiranti poeti. Altro che «parlare e sentire con tutti i sensi»! I pessimi odierni epigoni di Zanzotto, Giudici e Pasolini fanno una poesia cosiddetta del «quotidiano» ma non hanno la minima idea di che cosa sia il «quotidiano» e come parlarne in poesia.

La convinzione secondo cui il linguaggio poetico sia «uno spazio sperimentabile come qualunque altro», e per di più gratuito, a disposizione di tutti come la manna dal cielo, è stata, bisogna riconoscerlo, una grande infatuazione collettiva e una grande mistificazione di massa. La corresponsabilità è presto detta: ad iniziare dal più grande poeta italiano del Novecento, Montale con Satura (1971), per proseguire con Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), fino a Zanzotto già con Dietro il paesaggio (1951) e La Beltà (1968) e Giovanni Giudici con La vita in versi (1965), forniscono la sponda teorica e l’esempio fattuale di una poesia che accetta la visione dell’ordinamento borghese del mercato delle idee (le idee dell’iperuranio del mondo mediatico, un certo concetto acritico di «quotidiano», e di «privato», un certo concetto di utilizzare in poesia gli «oggetti» in modo acritico, come se fosse possibile versarli da un contenitore all’altro quasi fossero vasi comunicanti).

La poesia diventa marginale e marginalizzata, abbandona l’impegno «alto» e si auto confina nella investigazione del «quotidiano», del «privato», del «paesaggio». Manca del tutto l’idea di «progetto». Inizia in quegli anni, per la poesia italiana, un pendio declinante che non avrà termine, che va a bucare il Novecento e giunge ai giorni nostri.
Certo che c’è un modo diverso di fare poesia tra Nord e Sud; la latitudine così come la longitudine, cambiano il profilo di una lingua, cambiano la sensibilità. La marginalizzazione della «Linea meridionale» diventa un fatto compiuto: basti pensare a poeti del calibro di Luigi Compagnone, Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo, Gesualdo Bufalino (tanto per restare nel Sud negli anni Ottanta), Mario Lunetta, i quali vengono espunti dalla storia della poesia italiana con la complicità del conformismo della critica letteraria, sempre più inesistente ed evanescente.
Con gli anni Ottanta e Novanta si consuma la definitiva subordinazione della poesia meridionale all’egemonia del parametro stilistico maggioritario. Continua a leggere

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Realismo terminale, Che cos’è? Riflessione di Davide Chindamo, assomigliamo sempre più agli oggetti tecnologici, “Mamma, stacca un po’ la spina! Sdraiati sul divano e ricarica le batterie”

Gif Automa

“Mamma, stacca un po’ la spina! Sdraiati sul divano e ricarica le batterie”

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REALISMO TERMINALE

Un vero e proprio chido fisso

Non si può sapere cosa la vita abbia in serbo per noi. Ognuno crea una sorta di sentiero, cammina lungo il proprio percorso, ma a volte incontri strabilianti deviano il tracciato. La vita, quindi, tramuta in sorpresa, in un alternarsi di gioie e dolori che rendono questa giostra una collana di sfide. Ed è quello che mi è successo con il Realismo terminale.

Durante il corso magistrale di Filologia moderna, presso l’Università Cattolica di Milano, ho avuto la fortuna, e l’onore, di avere Giuseppe Langella come professore di Teoria e storia della modernità letteraria. «Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno» direbbe Leopardi: però, a differenza del recanatese, affascinato dall’«opre femminili» e dal «suon della […] voce» della fantomatica Silvia, io ero incantato dal carisma di quell’uomo. Incurante del tempo, speravo che le sue spiegazioni non finissero mai, consapevole che sarebbero state rivelazioni di inestimabile valore, sia culturale che umano. Per tutto questo gli sono grato.

Consolidata nei mesi una arricchente confidenza, ho rivelato al Professore il desiderio di elaborare la tesi su di lui, in quanto poeta, sul Realismo terminale e inevitabilmente su Guido Oldani. Dopo aver superato l’imbarazzo iniziale, considerando che avrebbe dovuto gestire i panni del regista e del protagonista, ha accettato la mia proposta e mi ha suggerito di intervistare l’ideatore del movimento.

Nonostante io fossi un giovane autore, apprezzato dai miei pari, con tre titoli all’attivo e diversi riconoscimenti in bacheca, di fronte ad Oldani mi sentivo un piccolo televisore a tubo catodico accanto al maxischermo di un cinema moderno; un telefono in bachelite accanto all’ultimo modello di smartphone. Sapevo che era appena stato candidato al Nobel per la Letteratura e mi chiedevo cosa potesse nascere dall’incontro tra lui e un giovane poeta devoto alle lettere. Ricordo ancora quel 14 novembre di un anno fa. Un pomeriggio uggioso, abbastanza smorto, con un cielo grigiastro: per dirla alla Oldani, un «cielo di lardo». Nella sua officina di idee, a Melegnano, mi attendeva su un manzoniano seggiolone. Lì, finalmente, ho potuto degustare sia la genesi del Realismo terminale che la caratura profetica del suo fondatore. Quella chiacchierata, durata quasi due ore, si è rivelata la chiave di volta verso la piena conoscenza del movimento. Ricordo tutto. Le risposte, i sospiri, le preoccupazioni. Le risate, le pause, i silenzi. Tutto. E ricordo con affetto i racconti privati di quel poeta, che si faceva sempre più uomo e meno autore. Tuttora, li conservo con gelosia.

Da quel momento, non ho mai smesso di pensare a ciò che avevo imparato. Il Realismo terminale, da rivelazione, era diventata quasi un’ossessione: un vero e proprio chiodo fisso. E in questi mesi così intensi, ricchi di convegni e letture in gruppo, ho appurato che la poesia, come direbbe Saba, ha realmente il compito di riverberare la «verità che giace al fondo». Di certo, non esiste una sola verità, ma la poesia ha il potere, e il dovere, di avvicinarsi maggiormente a quella più universale.

Ecco la verità del Realismo terminale: l’uomo si sta dimenticando di essere tale ed è sempre più suddito degli oggetti; anche la natura è stipata in un cassetto, nel dimenticatoio, ed è diventata «azionista di minoranza». La parola chiave è «accatastamento». Già nel 2010, anno di teorizzazione del Realismo terminale, nell’omonimo libricino Oldani preannunciava le «pandemie abitative»: uomini che si agglomerano nelle metropoli, vittime di una «bulimica» fame di manufatti.

Tutto questo perché gli oggetti hanno assunto un valore sempre più segnaletico. «Dimmi che oggetti hai e ti dirò chi sei» dichiara Oldani, e l’uomo del Terzo Millennio finisce per demolire il detto «l’abito non fa il monaco». Tutto è apparenza, non c’è più sostanza. Impera il vuoto delle idee.

La «similitudine rovesciata», altra creatura di Oldani, è lo strumento retorico più distintivo del movimento. Non sono più le cose ad assomigliare alla natura, bensì il contrario (non è più consuetudine esclamare «sei veloce come una lepre», bensì «sei veloce come un treno»). Io ripeto a mia madre, vittima delle faccende domestiche nel fine settimana: “Mamma, stacca un po’ la spina! Sdraiati sul divano e ricarica le batterie”. Garantisco che mia madre non è un’aspirapolvere, ma a tutti gli effetti la mia sensazione è quella di vedere un elettrodomestico che deambula per casa senza sosta. Ecco che l’essere umano diventa sempre più parente prossimo degli oggetti, e così anche il vocabolario si modula sugli elementi artificiali che lo circondano.

Oggi percepisco Oldani come il mitologico Atlante, curvo a sorreggere il mondo: quella sfera, però, non è l’agglomerato di terra e di mare che tutti pensano, bensì una sorta di sacro ostensorio al cui interno risiede lo spirito umano. Immagino Oldani raccogliere l’ultimo brandello di umanità, caricarselo sulle spalle e condurlo laddove è sicuro. Ma il peso è opprimente, e chiama a sé tutti coloro che condividono la sua missione: bisogna salvare ciò che di umano resta dell’uomo e contribuire a questa titanica impresa con la forza di chi non teme sfide arrischianti.

Oggi il Realismo terminale ha un compito temerario. Tra tutti, dimostrare che la grandezza dell’uomo sta nell’essere tale, non nella sua proiezione, sia essa in un oggetto tangibile o in un futuribile metaverso, e che questo cambiamento irreversibile può essere quantomeno limitato. Walter Benjamin, nell’Angelus novus, diceva che l’Angelo della Storia non può intervenire per mettere ordine tra le macerie, perché il violento vento del progresso lo allontana dai suoi doveri. Il Realismo terminale, invece, ha l’asperrimo dovere di placare il vento e vivisezionare la modernità: non bisogna essere antimoderni ma poeti engagé, e cercare di salvare quello che di buono esiste.

Ma come fare? Innanzitutto confermando un linguaggio intriso di «ironia filosofica», quella che io tendo a considerare figlia dell’umorismo pirandelliano; successivamente, coinvolgendo più interpreti, provenienti da ambiti diversi e complementari, così da sbrogliare le intricate sfide a cui il progresso ci sta sottoponendo (tra tutte, l’Intelligenza Artificiale): siano dunque benvenuti i fisici, i chimici, gli ingegneri informatici, i medici, gli astronomi, seguendo l’invito di Montale verso una poesia «inclusiva» e non «esclusiva», sia per temi che per maestranze; di seguito, è perentorio candidarsi a nuovo sistema di valori e proporsi come guide e modelli per i giovani, zattere in un oceano senza fari; inoltre, tutti noi dobbiamo cooperare in maniera coesa, seguendo un’unica direzione, in modo tale da rendere la nostra filosofia sempre più dominante, e sempre più profetica.

Gif Danza di bottiglie

Homo homini machina

L’uomo vede il suo simile come pedina
su una grande scacchiera: in base alla
situazione, o questa o quella posizione.

L’uomo è la macchina di un altro uomo:
si usa, si consuma, si spreme, e infine
si butta via, senza concedere spiegazione.

E se c’è un problema, non esiste la toppa,
e l’idea dell’aggiustare è diventata fané:
e tutto si scarica come acqua nel bidet.

(Davide Chindamo)

Davide Chindamo è nato a Como il 28/05/1998. Poeta e scrittore, è laureato in Scienze dei Beni Culturali (2020) e in Filologia moderna (2022) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesie Apollo (Transeuropa edizioni, 2020) e Allegrezza solitaria – Riflessioni di un eremita socievole (Rosabianca edizioni, 2021 – menzione speciale Premio “Michelangelo Buonarroti”). Ha pubblicato il romanzo Il trionfo dell’Arte (Rosabianca edizioni, 2022). È responsabile della sezione cultura per la testata giornalistica «Aliseo». Docente a contratto presso scuole secondarie di primo e secondo grado. Allievo di Guido Oldani e membro del Realismo terminale. Ha vinto numerosi riconoscimenti, tra cui il Concorso Letterario Europeo “OSCAR WILDE” (I classificato, con la poesia Il suono della tua ombra, 2021).

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Annachiara Marangoni, da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti), con una Lettera ad Antonio Sagredo di Giorgio Linguaglossa

Gif Polanski

Annachiara Marangoni, veronese, di formazione sanitaria e umanistico – pedagogica, dirige a Trento una struttura riabilitativa per giovani affetti da disturbo dello spettro autistico. Fa parte del movimento poetico Realismo Terminale (RT), fondato dal maestro Guido Oldani.  Già autrice nel 2013 delle raccolte poetiche Nerooro e nel 2019 Il corpo folle, collana I Gigli, editi da Montedit (Mi), ha pubblicato nel 2021 per l’editore Aletti una plaquette realistico terminale raccolta nel volume Enciclopedia dei Poeti Contemporanei. Presente nell’antologia RT Il gommone forato curata da T. Di Malta, editore Puntoacapo, 2022. Ha pubblicato per la rivista Atelier, diretta da Giuliano Ladolfi, per la rivista Amicando Semper, diretta da Enzo Santese. Per il direttore della rivista La Terrazza, ha curato l’introduzione di un gruppo di poesie di Guido Oldani. Ha pubblicato per la rivista internazionale Noria, diretta dal prof. Giovanni Dotoli, sul numero 5, 2023, un articolo dal titolo Autismo e realismo terminale. Per la rivista polacca Bezkres ha pubblicato numerosi testi poetici ed articoli, traduzioni e cura di Izabella Teresa Kostka. Presente nell’antologia italo – polacca “Inter Amicos (Dobrota, Polonia 2023), curata dalla poetessa Izabella Tereza Kostka, con una plaquette di poesie realistico terminali. Suoi testi poetici sono presenti in alcune pubblicazioni, volumi e riviste culturali.

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da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti)

Tempo nostrum

Smunto come un ombrellone chiuso
il nostro tempo di promesse spente
piantuma intorno al pianeta tutto
alberi di cuccagna consistenti.
Seduta all’ombra aspetto il pacco dono
scaffai Amazon già continentale
poi ho l’INPS che mi scrive sempre
vedo il dopo da un occhiale opaco.

Il gomitolo

L’odio è un gomitolo di lana
stringe come l’acqua fredda in un inverno.
E allora lo lavori a maglia
con gli aghi piantati sotto pelle
addosso è un’armatura arroventata
ti scioglie come dado dentro all’olio.
Ma ci si abitua a diventare ferro
anche la voce è come una ciabatta,
e l’anima nel barattolo di latta
è un fagiolo dimenticato dentro al fondo.

Il direttore

È un termometro il traffico dirige
che i ghiacciai senza la corrente
sono appesi come gocce al vento.
E la terra con le sue cornicette
è una colata credo, di mercurio
in mezzo ai denti, arsa con gli insetti.
Dio su in alto è il condizionatore
fa cascare frescura nei container
dove la calca è priva di pudore.

Disumale

Le facce sono treni al finestrino
sfrecciano fino a farne un volto uno.
Poi stesi in corridoio all’ospedale
la banda la fa un vecchio quando russa.
Gli arrivano coperte come burka
per scaldare il nessuno che sta sotto.
Ed ora il tempo si misura adesso
mentre di sete muore il giorno stesso.

Annachiara Marangoni

Annachiara Marangoni

Il bisturi

La croce è una sala operatoria
dai camici simili a un sudario,
l’anestesia, imballaggio del dolore
spala ore fuori dal quadrante.
Steso con il sesso fuori,
è uno spiedo con le penne sparse
e la fiducia la cardiamo a mano,
mezzo vivo, prossimo e lontano.

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Il barbone

Il sole è il lampione della strada
che gli fa da materasso, pressappoco.
E i quadri sono le facce dei passanti,
che ogni giorno scambia tra di loro
le pareti di vento pari a ferro,
fanno da perimetro alla gente
che gira alla larga, ma fa niente.

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Tempi storti

Seduti davanti a un telo bianco
scorrono i secondi accartocciati
delle vite di quelli come noi.
Come spilli scordati nel vestito
le manovre dei potenti sono guai
tutti cristi, tempi storti, siamo noi.

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Niente

C’è gente in questo arso continente
il cui ventre è un piatto vuoto,
la faccia da palloncino sgonfio
e sono in tanti a non avere niente
sulla bilancia pesano una piuma
impastati con la trasparenza
sono spiriti senza ricorrenza.

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Legale ora

Spazzolata l’ora
come fa il tergicristallo con la pioggia
furto di buio, sottrazione d’oscurità
la sera è un mazzo di lampadine accese
palpebre schiuse come saracinesche
sono sorrisi in mezzo alla faccia.

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La fronte sullo specchio

Lo specchio stamattina
mi rimbalza un volto uguale a un’officina,
in cui le macchine sostano sdraiate
in attesa di essere aggiustate.
Una carezza asporta l’olio dalle dita
a ricordare le malattie subite,
un po’ tutti ci hanno messo mano
a rendermi gli occhi come lenti sopra il naso
che mirano al tutto da un puntino,
il mondo è meno grande del sogno di un bambino.

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Dash

Dopo il temporale litigammo
al deposito dei carrelli del super.
Ai ¾ di bianco della casa
apparivano i titoli di coda
di un’apologia atomica
ad oriente i riscatti
ad occidente i ricatti.
Offrimi un drink babysapiens.

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Carceri accaventiquattro

È agosto e si ribolle,
tra le sbarre incandescenti,
umani pressati aspettano gli sconti.
A decine le lenzuola stese sugli uscenti.
La bilancia li destina nella turca
lo stato dice non c’è spazio
e così la dignità è una Simmenthal
abbonata all’obitorio aperto accaventiquattro
ma fra tutti c’è chi se ne frega.

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caro Antonio Sagredo,

è vero, tu hai per certi aspetti anticipato gli esiti della «nuova poesia», ti sei costruito un «linguaggio-soglia» che non abita in nessun-luogo. Voglio dire che il concetto di «soglia» è la negazione di quell’altro concetto di «viaggio» inteso come «ritorno» (nostos). La «soglia» è una intuizione più antica di quella di «ritorno», il «ritorno» per ecellenza è il viaggio di Ulisse nell’Odissea, mentre nella «soglia» ogni nostro movimento, ogni nostro peregrinare che avviene per mezzo di avatar, di sosia, di doppi… è soltanto irreale, virtuale, onirico. La poetry kitchen è fatta di «linguaggi soglia» che non comunicano niente di essente, ma comunicano ombre, ombre di ombre. Certo, mette disagio nei letterati abituati e costruiti nelle certezze (dell’io, del noi, del voi, di questo e di quello etc.) scoprire che ci possono essere linguaggi-soglia, linguaggi-di-ombre… che là, nei «linguaggi-soglia» c’è una ricchezza inusitata che loro non potrebbero mai neanche immaginare.
Detto con le parole di Lucio Tosi: “La poetry kitchen ha il merito di aver individuato la durata di ogni pensiero, il suo passare (nel vuoto, spazio e tempo), e nelle parole il loro morire”.
Detto con le parole di Marie Laure Colasson: “Sostare sulla soglia, fare una poesia della soglia significa accettare l’instabilità e la precarietà dello stare sulla soglia (né dentro né fuori)”.

L’idea dell’io come semplice modalità deriva dalla Faktizität di Heidegger, e quindi dalla sua ontologia, che individua nella modalità dell’esser-ci la sua matrice più profonda, unitamente alla dialettica proprio-improprio da cui emerge la centralità della modalità quale caratteristica del Dasein.
Da qui all’«ontologia modale» di Agamben e alla «ontologia modale» della «nuova poesia» c’è solo un passo.
La poesia del «realismo terminale» ruota pur sempre attorno all’epicentro dell’io, anch’essa è costruita in parte su un «linguaggio della soglia». È l’io che costruisce la geografia e la topografia di questa poesia «terminale», dunque, si tratta di una poesia che mantiene ancora un legame, seppur tenue e in via di decostruzione, con quella della tradizione. Fatto a meno dell’io, messo tra parentesi l’io, ecco che si entra in un nuovo «condominio linguistico»: se viene meno lo shifter (io) viene meno anche l’istanza di discorso che lo shifter apre e legittima. E si aprono le possibilità del «linguaggio della soglia»

(Giorgio Linguaglossa)

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