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Paul Valéry OPERE SCELTE a cura di Maria Teresa Giaveri “I Meridiani” Mondadori, 2014 pp. 1770 € 80 Presentazione di Giorgio Linguaglossa e una nota critica di André Durand – La jeune Parque

Paul Valéry

Paul Valéry

 Paul Valéry (Sète, 30 ottobre 1871 – Parigi, 20 luglio 1945) è un poeta chiave per comprendere la poesia europea del Novecento; finalmente abbiamo qui riunite in un unico volume le opere poetiche del poeta francese insieme alle più importanti riflessioni sull’arte poetica e sulla Poetica. Valéry è il primo poeta europeo che crea una teoria del linguaggio e una teoria della composizione poetica, per lui il linguaggio è la fonte della metafisica come illusione intellettuale e la zona di massima dispersione e confusione intellettuale e linguistica. È caratteristico di Valéry che lui pervenga alla poesia da una teoria critica della poesia, da una via fino allora considerata impensabile. È un poeta e un teorico della poesia allo stesso tempo di straordinaria importanza.

«Tutta la mia filosofia – scrive Valéry – si riduce ad accrescere quella precisione o coscienza di sé che ha per effetto di separare nettamente le domande dalle risposte […] Bisogna imparare a pensare che ciò che è non è necessariamente una domanda. E che non ogni domanda ha necessariamente un senso». Valéry pensa che il linguaggio sia  il luogo stesso della confusione. Di qui quella sua forsennata ricerca di una poesia che fosse applicazione di una geometria assoluta, di un rigore quasi matematico. Il superamento del linguaggio naturale in Valéry non può essere compiuto grazie a un linguaggio ideale ma grazie alla vita, che pone dei problemi reali per dei bisogni reali e grazie all’azione.

Paul Valéry cop Scrive Valéry: «Si potrebbe – e forse lo si dovrebbe – assegnare come unico oggetto alla filosofia quello di porre e di precisare i problemi, senza preoccuparsi di risolverli. Si tratterebbe allora di una scienza degli enunciati, e dunque di una purificazione delle domande».  «Una riflessione semplicissima ci fa pensare che la Letteratura è e non può essere altro che una specie di estensione e di applicazione di certe proprietà del linguaggio. Essa utilizza per esempio ai propri fini le proprietà foniche e le possibilità ritmiche del parlare, che sono trascurate nel discorso comune […] È questo il mondo delle “figure”, di cui si preoccupava l’antica Retorica […] La formazione delle figure è indivisibile da quella dello stesso linguaggio, in cui tutte le parole “astratte” sono ottenute tramite qualche dilatazione d’uso o trasferimento di significato, seguito da un oblio del senso primiero. Il poeta che moltiplica le figure non fa dunque che ritrovare in se stesso il linguaggio allo stato nascente […] La Poetica si proporrebbe non tanto di risolvere i problemi quanto di enunciarli. Il suo insegnamento non sarebbe separato dalla ricerca stessa… dovrebbe essere trattato e mantenuto in uno spirito di massima generalità… quest’ultima considerazione conduce… a un’importante distinzione: quella delle opere che sono come create dal loro pubblico (di cui rispondono all’attesa e sono perciò quasi determinate dalla sua conoscenza) e delle opere che, invece, tendono a creare il loro pubblico». (qui pp. 380-381)

Paul Valéry 13 «Una poesia su un foglio di carta non è che uno scritto, sottoposto a tutto quel che si può fare di uno scritto. Ma fra le sue varie possibilità, ce n’è una, e una soltanto, che pone infine quel testo nelle condizioni in cui prenderà forza e forma d’azione. Una poesia è un discorso che esige e che provoca un legame continuo fra la voce che è e la voce che viene e che deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi, e da stimolare lo stato emotivo di cui il testo sia l’unica espressione verbale. Togliete la voce, e la voce che occorre, e tutto diventa arbitrario. La poesia diviene una serie di segni legati l’uno all’altro solo dal fatto di essere stati materialmente tracciati uno dopo l’altro. (qui p. 394) «Anche nella testa più solida la contraddizione è la norma; la consequenzialità è l’eccezione […] Ma ecco una circostanza stupefacente: tale dispersione, sempre imminente, importa e concorre alla produzione dell’opera quasi quanto la stessa concentrazione». (qui 396) «L’opera d’arte è un’opera in sé inutile, in rapporto al senso preciso di utilità: è una categoria completamente a parte». (qui p. 416) «Una poesia deve essere una festa dell’intelletto».

Paul Valéry

Paul Valéry

 Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova, cade in quella che in seguito avrebbe  indicato come una profonda crisi esistenziale intellettuale. Al mattino decide di ripudiare gli idoli dell’estetica simbolista tutta volta alla ricerca di una sopra-realtà e si concentra su una concezione  tutta razionale dell’arte quale mezzo di conoscenza e di auto-costruzione; l’opera sarà un espediente per l’affinamento delle doti spirituali e intellettuali, un «esercizio spirituale», una «ginnastica», una «danza», un «fare», una «scherma», un «gioco di scacchi», una «strategia».  La via dello spirito è una via anagogica, ce lo testimoniano i suoi cahiers, (diari) nei quali annota ogni mattino le sue riflessioni. Aggiunge, come battuta di spirito, «avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno». «Ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore» dichiara Valéry, oppure, segue le orme di Malherbe il quale aveva detto che «un buon poeta non è più utile al suo paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce».

Paul Valéry 8 Nel 1894, si trasferisce a Parigi, dove lavora come redattore al ministero della guerra. Rimane volontariamente lontano dalla scrittura poetica per consacrarsi alla conoscenza di sé e del mondo. Segretario personale di Edouard Lebey, amministratore della Havas, la prima agenzia di stampa, si dedica ogni mattino, dalle quattro alle sette, alla redazione dei suoi Cahiers, diari intellettuali, che vedranno la parziale pubblicazione solo dopo la sua scomparsa. Nel 1917, sotto l’influenza principalmente di André Gide, ritorna alla poesia, con La Jeune Parque, pubblicato presso Gallimard. In piena epoca di avanguardie e di libertà formale, Valéry ritorna all’alessandrino di Racine, a un modello formale seicentesco riproposto con due secoli di ritardo; sembra una provocazione, un lavoro a ritroso, e invece è subito un successo; il poema non è altro che «una fabbricazione artificiale che ha preso una sorta di sviluppo naturale» scriverà in seguito Valéry. Seguono Le Cimetière marin (1920) e una raccolta, Charmes (1922). Valéry non finisce mai di stupire, a proposito dei poeti simbolisti, durante una conferenza nega l’esistenza dei poeti simbolisti in quanto alla loro epoca nessuno di essi sapeva di essere dei simbolisti. Scrive:

«Quanto a loro, i nostri simbolisti dell’86 [concordi in una comune risoluzione di rinuncia al suffragio della massa], senza appoggi nella stampa, senza editori, senza approdi […], si adattano a questa vita fuori norma; si fanno le loro riviste, le loro edizioni, la loro critica interna; e si formano a poco a poco quel piccolo pubblico di loro scelta […]. Operano così una sorta di rivoluzione nell’ordine dei valori, poiché sostituiscono progressivamente alla nozione di opere che sollecitano il pubblico, che lo prendono per il suo lato debole o abitudinario, quella di opere che creano il loro pubblico». (pp. 1109-10) Scrive ancora Valéry: «I miei versi hanno il senso che si dà loro […] È un errore che va contro la natura della poesia potrebbe esserle fatale pretendere che a ogni poesia corrisponda un significato autentico, unico, conforme o identico a un pensiero dell’autore» (pp. 1298-9).

Paul Valéry

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 Scrive nella prefazione la Giaveri: «diversamente dalle opere giovanili (a cui d’altra parte rivendicava un senso preciso), le poesie della raccolta non vivono di un gioco metaforico costruito a posteriori, tramite la mediazione letteraria, ma di una analogia originaria fra due stati psicofisici che si strutturano secondo le stesse leggi e permettono le stesse varianti» (p. XXXIII). Diventa il “poeta ufficiale” di Francia ma resta schivo ed estraneo ai riconoscimenti e agli onori. Nel 1924, viene eletto presidente del Pen Club francese e componente dell’Académie Francaise. Seguono anni di riconoscimenti e di onori e la cattedra (quella di poetico al Collège de France).

Ma durante tutto questo tempo, la sua vera professione continua nell’ombra: la profondità delle riflessioni che dà alle stampe in opere consistenti (Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, La soirée avec monsieur Teste), i suoi studi sul divenire della civiltà (Regards sur le monde actuel) e la sua viva curiosità intellettuale ne fanno un interlocutore ideale per Raymond Poincaré, Louis de Broglie, Henry Bergson e Albert Einstein. Sotto l’occupazione nazista, si rifiuta di collaborare e perde il suo posto d’amministratore a Nizza. Muore  il 20 luglio 1945, poche settimane dopo la fine della seconda guerra mondiale. Charles de Gaulle richiede per lui i funerali di Stato e viene sepolto a Sète, nel cimitero marino che aveva già celebrato nel suo famoso poema.

(Giorgio Linguaglossa)

Paul Valéry 9Ecco come il critico André Durand presenta La jeune Parque (1917):

Depuis 1892, Valéry n’avait publié qu’un très petit nombre de poèmes d’une esthétique fort différente des compositions antérieures, en particulier pour la nature et le fonctionnement des métaphores. Vers le milieu de 1912, sur l’insistance d’André Gide et de Gaston Gallimard, il accepta d’éditer l’ensemble de ses œuvres de jeunesse, vers et prose. Mais, ne sachant comment transformer ces vers anciens qui lui paraissaient étrangers, il entreprit un poème d’une quarantaine de vers, qui serait un adieu à la poésie.

Dans sa dédicace à André Gide, il déclara : «Depuis des années, j’avais laissé l’art des vers ; essayant de m’y astreindre encore, j’ai fait cet exercice que je te dédie.» Et il précisa ses intentions : «Lorsque j’ai voulu me remettre à la poésie, j’ai voulu faire œuvre de volonté, combiner dans une oeuvre, tout d’abord les idées que je m’étais faites sur l’être vivant et le fonctionnement même de son être en tant qu’il pense et qu’il sent ; ensuite…, ne pas verser dans l’abstraction, mais au contraire incarner dans une langue aussi imagée que possible, et aussi musicale que possible, le personnage fictif que je créais.» Nulle contrainte n’était plus précieuse à cet athlète mental que celle de la versification traditionnelle, de la prosodie la plus rigoureuse. Il voulait que le poème en vers soit le chant continu d’une voix portée par un «je»  et dont l’efficacité poétique tienne aux ressources souplement modulées d’une matière verbale où la musique du sens est étroitement nouée à la musique du son. Son projet n’était pas de dire quoi que ce soit mais chercher à faire, c’est-à-dire à rigoureusement composer un poème dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement.

Paul Valéry

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 Si, après un long silence, il était revenu à la poésie, il n’en avait pas, pour autant, abandonné ses idées centrales. Leur restant fidèle ou ne parvenant pas à s’en détacher, les jugeant essentielles, il voulait traiter, dans un poème aussi, le thème de la passion de l’intellect ou, mais c’est la même chose, de la connaissance et de la conscience. Il voulut d’abord l’intituler “Psyché” (l’âme) et a d’ailleurs défini son objectif de la manière la plus claire : «Songez que le sujet véritable du poème est la peinture d’une suite de substitutions psychologiques et en somme le changement d’une conscience pendant la durée d’une nuit.» Il voulut montrer l’opposition entre deux états et le passage de l’un à l’autre : du non-être de la conscience à l’existence de la conscience, cette prise de conscience de la conscience étant le motif central de toute sa réflexion.

La difficulté était donc quasi insurmontable : unir la matière abstraite la plus éloignée de toute forme poétique à la forme poétique la plus éloignée de l’abstraction. Au surplus, il était obligé de compter avec les exigences propres à la poésie, sachant qu’elle ne concède rien et qu’elle veut rester rythme, image, chant. Il a donc tenté de tenir cette gageure : rendre l’abstrait voluptueux sans qu’il perde rien de son austérité et créer une plasticité sans qu’elle perde rien de son rayonnement sensoriel. Puisque l’étude du mécanisme de l’intelligence, surpris dans le moment propice de l’élaboration ou de l’invention, restait sa curiosité profonde, il a corrigé la sécheresse d’un tel dessein et il en a vécu l’émotion.

Par une sorte de miracle, l’objet même qui devait l’obliger à l’usage de la prose et au vocabulaire technique l’a conduit à une prosodie rigoureuse, une syntaxe audacieuse et puriste, un choix de mots rares, des images, des symboles, des métamorphoses, une langue sensuelle, chatoyante et précieuse, si harmonieuse et si pleine que sa beauté paraît se séparer de son sens et autorisa, en son temps, l’extravagante erreur de tenir ses poèmes pour de la poésie pure, soit sans signification.

Paul Valéry

Paul Valéry

 Cette tentative apparut d’abord à travers un brouil­lon intitulé ‘’Hélène’’. Ainsi, la mythologie grecque ajoutait aux différentes significations du poème des effets complexes de résonance. Hélène sortait de la grotte de la Nuit et voulait exister par elle-­même et non par le désir des autres («Suis-je quelque chose Moi qui ne me vois que dans le vertige des autres. Et qu’y suis-je?»), explorer les mystères de son être «en tant qu’il pense et qu’il sent». Mais, se regardant dans un miroir, elle se voyait séparée de ce reflet par des larmes, qui provoquaient aussitôt la question : «Si je me vois au miroir, des larmes me viennent, d’où?»). Puis elle se posait des questions sur un lieu inconnu, sur une identité autre et mystérieuse : «Mais qui pleure / seule et de diamants séparés?» Questions inachevables qui s’articulaient déjà sur un décor «élémental» : Astres, Nuit, Distance, Larmes, Regard, ­et cette objet indispensable à tout questionnement chez Valéry : le Miroir. Mais, en quarante vers, c’était trop. D’autant plus que l’écri­ture fit surgir en s’accomplissant les problèmes du «système» auquel il ne cessait de travailler : les substitutions, l’acte de conscience et la mémoire, les déplacements et les condensa­tions du Moi par la pratique du langage, le fonctionnement des figures, la production de l’imaginaire par les structures for­melles, etc.

Gardant la préoccupation du double manque, le manque qui cause les larmes, le manque qui fait de cette autre d’Hélène dans Hélène un être sans nom, il envisagea donc une œuvre plus ample, qu’il appelait d’ailleurs «mon opéra», dans laquelle il voulut donner à la poésie les valeurs des récitatifs des drames lyriques (« Glück et Wagner m’étaient des modèles secrets» (lettre à  Aimé Lafont, septembre 1922), pour laquelle différents titres furent ébauchés à mesure pour aiman­ter diversement le travail : ‘’Pandora’’, ‘’Vers anciens’’, ‘’Ébauche’’, ‘’Étude ancienne’’, ‘’Discours’’, ‘’La seule Parque’’, ‘’L’aurore’’, puis ‘’Psyché’’ qui fut proposé par Pierre Louÿs, ‘’Île’’, enfin ‘’La jeune Parque’’ en 1916. Le poète a choisi de faire parler une Parque, non une des trois Parques qui, chez les Anciens, étaient les divinités du Destin, symbolisaient les étapes de la destinée humaine, la troisième coupant le fil de la vie ; mais une Parque qui est une mortelle et qui, surtout, est jeune, se trouvant à l’âge où l’individu doit définir son identité, voit naître «la conscience de soi-même», rencontre les divers problèmes de «la conscience consciente».

La composition dura plus de quatre ans. Le poème se développa par fragments remis vingt fois sur le métier : il y eut plus parfois plus de trente états successifs. Une note d’un ‘’Cahier’’ de 1917, intitulée «Comment j’ai fait la J.P.»,  précisa la chronologie du travail :

– 1912 : Genèse              
– 1913 :  Serpent                            
– 1914 
– 1915 : «Harmonieuse Moi», Sommeil    
– 1916 : Îles
– 1917.

Paul Valéry 10 Il commenta : «D’écart en écart, cela s’est enflé aux dimensions définitives». Pour ces 512 vers, il avait rédigé plus de cent brouillons dont la reproduction occuperait 600 pages ! La pression de la guerre accompagna l’invention du poème. Il avait fini par considérer comme un devoir de léguer à notre langue menacée cet ouvrage «fait de ses mots les plus purs et de ses formes les plus nobles». – «Je ne me l’explique à moi-même, je ne puis concevoir que je lai fait, quen fonction de la guerre. Je l’ai fait dans l’anxiété et à demi contre elle. J’avais fini par me suggérer que j’accomplissais un devoir; que je rendais un culte à quelque chose en perdition. Je m’assimilais à ces moines du premier Moyen Âge qui écoutaient le monde civilisé autout de leur cloître crouler, qui ne croyaient plus qu’en la fin du monde ; et toutefois qui écrivaient difficilement, en hexamètres durs et ténébreux, d’immenses poèmes pour personne […] Il n’y avait aucune séré­nité en moi.» (lettre à Georges Duhamel, 1929). Mais les bruits de la guerre n’étaient peut-être pas nécessaires car il avoua : «angoisse, mon vrai métier».

Dans une lettre à Aimé Lafont (septembre 1922), il a ainsi défini son poème : «C’est une rêverie qui peut avoir toutes les rup­tures, les reprises et les surprises d’une rêverie dont le person­nage en même temps que l’objet est la conscience consciente. Figurez-vous que l’on s’éveille au milieu de la nuit, et que toute la vie se revive, et se reparle à soi-même […] Sensualité, souvenirs, paysages, émotions, sentiment de son corps, profondeur de la mémoire et lumière ou cieux antérieurs revus, etc.. Cette trame qui n’a ni commencement ni fin, mais des nœuds, j’en ai fait un monologue auquel j’avais imposé avant de l’entreprendre des conditions de ‘’forme’’ aussi sévères que je laissais au fond de liberté. Je voulais faire des vers non seulement réguliers mais césurés, sans enjambement, sans rimes faibles.»

Paul Valéry

Paul Valéry

 Dans une lettre à A. Mockel (1917), il précisa le but qu’il s’était donné : «Faire un chant prolongé, sans action, rien que l’incohérence interne aux confins du sommeil ; y mettre autant d’intellectualité que j’ai pu le faire et que la poésie en peut admettre sous ses voiles ; sauver l’abstraction prochaine par la musique, ou la racheter par des visions, voilà ce que j’ai fini par me résoudre à essayer, et je ne l’ai pas toujours trouvé facile […] Il y a de graves lacunes dans l’exposition et la composition, je n’ai pu me tirer de l’affaire qu’en travaillant par morceaux. Cela se sent, et j’en sais trop sur mes défaites !» Son projet était aussi de composer un poème «cent fois plus difficile à lire qu’il n’eût convenu», dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement. Cette obscurité résulterait d’abord de la nature du sujet. Il a voulu rassembler dans ce poème un grand nombre d’idées qui l’occupaient depuis longtemps

Ces «morceaux», les divers états du manuscrit font voir qu’ils ne se sont pas toujours succédé dans l’ordre où le texte définitif les présente, le plus important de ces déplacements concernant le dernier épisode. C’est que l’œuvre s’est formée en restant volontairement aveugle à son destin.

Ailleurs encore, on peut lire : «Ce chant est une autobiographie. J’ai supposé une mélodie, essayé d’attacher, de «ritardare», d’enchaîner, de couper, d’intervenir, de conclure, de résoudre, et ceci dans le sens comme dans le son…» (‘’Cahiers’’, VI, 508-509).

Armé de ces renseignements, invité par Valéry lui-même qui disait : «Il ne suffit pas d’expliquer le texte, il faut aussi expliquer la thèse», on peut essayer de déchiffrer ce poème dense et difficile dont l’obscurité ne résulterait pas d’une intention délibérée d’hermétisme (les raccourcis et les ellpises étant exigés par l’harmonie) et qui, grâce à la musique verbale, transpose une idée abstraite et revêche dans un érotisme onduleux, la pureté de l’idée étant atteinte à travers la pureté de la sensation, sans l’intermédiaire du sentiment.

 

Paul Valéry nel suo studio

Paul Valéry nel suo studio

La jeune Parque” (1917)

Poème de 512 alexandrins

«Le Ciel a-t-il formé cet amas de merveilles
Pour la demeure d’un serpent?»
Pierre Corneille

Qui pleure là, sinon le vent simple, à cette heure
Seule avec diamants extrêmes?… Mais qui pleure,
Si proche de moi-même au moment de pleurer?

Cette main, sur mes traits qu’elle rêve effleurer,
Distraitement docile à quelque fin profonde,
Attend de ma faiblesse une larme qui fonde,
Et que de mes destins lentement divisé,
Le plus pur en silence éclaire un cœur brisé.
La houle me murmure une ombre de reproche,
10 Ou retire ici-bas, dans ses gorges de roche,
Comme chose déçue et bue amèrement,
Une rumeur de plainte et de resserrement…
Que fais-tu, hérissée, et cette main glacée,
Et quel frémissement d’une feuille effacée
Persiste parmi vous, îles de mon sein nu?
Je scintille, liée à ce ciel inconnu…
L’immense grappe brille à ma soif de désastres.

Tout-puissants étrangers, inévitables astres
Qui daignez faire luire au lointain temporel
20 Je ne sais quoi de pur et de surnaturel ;
Vous qui dans les mortels plongez jusques aux larmes
Ces souverains éclats, ces invincibles armes,
Et les élancements de votre éternité,
Je suis seule avec vous, tremblante, ayant quitté
Ma couche ; et sur l’écueil mordu par la merveille,
J’interroge mon cœur quelle douleur l’éveille,
Quel crime par moi-même ou sur moi consommé?…
… Ou si le mal me suit d’un songe refermé,
Quand (au velours du souffle envolé l’or des lampes)
30 J’ai de mes bras épais environné mes tempes,
Et longtemps de mon âme attendu les éclairs?
Toute? Mais toute à moi, maîtresse de mes chairs,
Durcissant d’un frisson leur étrange étendue,
Et dans mes doux liens, à mon sang suspendue,
Je me voyais me voir, sinueuse, et dorais
De regards en regards, mes profondes forêts.

J’y suivais un serpent qui venait de me mordre.

Quel repli de désirs, sa traîne !… Quel désordre
De trésors s’arrachant à mon avidité,
40 Et quelle sombre soif de la limpidité ! Continua a leggere

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POESIE di Maria Rosaria Madonna “Gli angeli sono come gli uccellini”, Giorgio Linguaglossa “Carnevale delle ombre“, Marco Onofrio “Stige”, Fabrizio Dall’Aglio “Nel tempo in cui il passato continuava”, Nazario Pardini “Nel regno delle Eumenidi”, Anonimo “Poema dell’altrove”, SUL  TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (STIGE o ACHERONTE)

Arnold_Böcklin_seconda versione

Arnold Böcklin, seconda versione

  Arnold Böcklin (1827-1901) dipinse diverse versioni del quadro fra il 1880 e il1886. L’opera fu estremamente popolare all’inizio del XX secolo e affascinò personaggi come Sigmund Freud, Lenin, George Clemanceau, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio. Adolf Hitler ne possedeva una versione originale, acquistata nel 1936. Tutte le versioni del dipinto raffigurano un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura. Una piccola barca a remi, condotta da una persona a poppa, si sta avvicinando all’isola. A prua ci sono una figura vestita di bianco e una bara bianca ornata di festoni. L’isolotto è dominato da un bosco fitto di cipressi, associati da lunga tradizione con i cimiteri e il lutto, circondato da rupi scoscese. Nella roccia sono presenti quelli che sembrano essere portali sepolcrali. L’impressione complessiva è quella di uno spettacolo di desolazione immerso in un’atmosfera di mistero.

Arnold Böcklin non ha fornito alcuna spiegazione pubblica circa il significato del suo dipinto, anche se l’ha descritto come «un’immagine onirica: essa deve produrre un tale silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura». Il titolo, che gli è stato dato dal mercante d’arte Fritz Gurlitt nel 1883, non è stato specificato da Böcklin, anche se deriva da una frase scritta in una lettera inviata nel1880 ad Alexander Günther, che aveva commissionato l’opera. Non conoscendo la storia delle prime versioni del dipinto, molti critici d’arte hanno interpretato il vogatore come una rappresentazione di Caronte, che nella mitologia greca conduceva le anime agli inferi. L’acqua è quindi il fiume Stige o l’Acheronte, e il passeggero vestito di bianco un’anima recentemente scomparsa in transito verso l’aldilà.

Arnold Böcklin_Die_Lebensinsel_-1888

Arnold Böcklin Die Lebensinsel -1888

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga. L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi. Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

 Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Maria Rosaria Madonna

Gli angeli sono come gli uccellini

Gli angeli sono come gli uccellini
volano via al primo battere delle mani,
i dèmoni invece stanno immobili
appollaiati sui rami degli alberi
emettono il loro singhiozzo disperato.
Essi non possono fuggire… maledetti
dall’eternità sono condannati a star fermi.
Per sempre.

*
Ci sono parole che dormono
il loro sonno eterno e non è bene
svegliarle. Ci sono altre parole invece
che improvvisamente risorgono
a vita nuova dopo un sonno eterno…
magari in un’altra lingua, un altro mondo…
E questa è la vera resurrezione
della carne… la sola, unica e vera.

*

Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più male o più bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…

Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wehrmacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.

Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.

(Inedito da Tutte le poesie – 1985-2002)

Picasso the shadow 1953

Giorgio Linguaglossa

Carnevale delle ombre

«Benvenuti al carnevale delle ombre!», disse una voce;
l’angelo Achamoth dai dodici occhi che non guardano che i propri occhi
gridò: «toglietevi la maschera!».

[…]
Ed entrammo, con altri prigionieri, nel corridoio
delle ombre eterne: c’era una ressa del diavolo,
delle statue bianche si avviavano sotto un giogo di ferro
e calcestruzzo eretto, a destra e a sinistra, tra le finestre cieche
lungo un ambulacro alle cui pareti pendevano
migliaia di volti in cornici dorate. I volti dipinti parlavano tra di loro,
dicevano: «non fate entrare le ombre maledette!,
sbarrate loro l’ingresso!».

[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti,
dicono «Buongiorno e addio», e ritornano
nel buio da dove sono venuti; c‘è ressa:
dei figuri vogliono entrare dalle finestre, bussano ai vetri delle persiane
sbarrate, lottano anche essi con le ombre; “vogliono
diventare ombre”, penso con raccapriccio.

[…]
Una triplice voce piove dall’alto dai microfoni degli altoparlanti
nascosti nel buio:
«Benvenuti nella galleria dei quadri morti»
«Lasciate i vestiti su questa spiaggia».
Noi lasciamo i vestiti sulla spiaggia ed entriamo nel mare
fino alla cintola; «siamo pronti!», gridiamo.
Entrano in noi lentamente le ombre bianche
come un inchiostro nella carta assorbente;
e scompaiono; la voce ritorna nel microfono,
il microfono cammina nella sala d’aspetto,
il quadro si attacca alla parete, il mare si ritrae dalla spiaggia,
le ombre si staccano dai corpi, si allungano e camminano nel volo
dei gabbiani bianchi.
[…]
Dio scrive sull’acqua le parole che vuole nascondere:
un testo senza parole?, un pentagramma senza note?,
l’ascensore del silenzio sale nel sole assente,
il sole assente entra ed esce dal sole bianco.
Madame Hanska nell’atrio fa entrare le parole morte
e scaccia con un frustino le parole vive.
Le ombre prendono possesso delle statue bianche, ombre
anch’esse di altre pallide ombre; pallide linci di pallide ombre.
Portano una maschera bianca sul volto.
[…]
I geroglifici delle stelle vengono incontro
alle maschere bianche che portiamo sul volto.
La mia ombra veste l’abito del crepuscolo
ascende i gradini del silenzio, il dolore soffia
con un sospiro rauco e si attacca alle pareti del corridoio
i sopravvissuti della luce trascinano le ombre bianche
sopra le impalcature di ferro. Una voce esce da un altoparlante
e dice: «Buongiorno e addio»

(Inedito da La notte è la tomba di dio –)

i misteri di Eleusi

i misteri di Eleusi

 

Marco Onofrio

Stige

Raccolsi dentro il pugno la mia accidia
andando per montagne, per vallate
dove centurie d’anime perdute
mi chiamavano a vivere con loro;
e vidi: cenni di bonzi sciamani
giganteschi calvi di terrore
col cranio lucisferico di senso
che in coro mi lanciavano anatemi;
e il polso del braccio levato
emergere da melme barbuglianti
dal basso di fondali putrescenti
megere transatlantiche abissali
erinni o gorgoni impazzite
con le chiome gonfie color notte
annodate sulle facce urlanti
dagli occhi insanguinati e inebetiti
da minacce: spaventate picchiatrici
di sorde campane bombanti
suonando senza fine risuonando
dal vuoto la sottesa melodia
di algoritmi in carole flautate
modulando ossa traforate
di vittime immolate, fredde già
o gemebonde, all’ultima agonia
rosicchiare, raspolare, spollinare
e frangere, e gemere, e ingollare
e svellere vincigli corticali
le unghie fameliche rapaci
tuffate dentro l’opera tremenda
immerse nella chiorba alla poppugna
cucchiara della crogna nel babbàno
marmitta della pigna al sobbollire
maderna della broda in portulano
fernacca papelèra e bocca a culla,
or quando imbestialita di murena
or quando ingentilita e musicante:
e così, far cembali d’orecchi
e d’incavati malli le conchiglie
di nacchere giulive ed andaluse
e di mariti becchi le protuse
armoniche di trippe sbudellate
ad uso pizzicato di chitarra
e per le corde i nervi da vibrare
utilizzando a plettri le sporgenze
di nasi acuminati a scimitarra
e di scuoiati occipiti ocarine
busecchie iridescenti cornamuse
di chiappe a percussione il ratapùm
bombando fra i tiranti le membrane
tamburi contro rulli fragorosi,
nel fondo più profondo di pantani
dolciastri, al chiasso di batraci
dagli occhi velati, stroboscopici
palluti e concertati, a frotte
a lestre, a turbe di milioni
vidi gonfiare i gozzi ed eruttare
dalle bocche tumide violacee
il fiato solforoso in bolle ciane
grotteschi brutti gonfi ciondolanti
bambocci, allocchi imbecilliti
mentre le squame grigiazzurre dei tritoni
guizzavano nel viscido mollume
coi corpi attenti ad ogni variazione
e un fitto, inestricato brulicame
di rivoli ammuffiti e densi grumi
agglutinava bianche concrezioni
all’apice dei fusti e dei rizomi
nei luoghi abbandonati alla paura
agli angoli obliati dove i morti
trascorrono invisibili natura
nei posti poco fuori all’aria scura;
e larve raggrinzite degli aborti
vidi pendere, da rami scheletriti
e i resti delle crapule imbandite
su stuoie di macachi scotennati
catriossi di spolpata cacciagione
disseminata in croste di pattume
tra nodi di midolli pineali
disciolti dentro stormi di riflessi
e ciuffi dentro bulbi dilavati
e viscioli di villi e condilomi
sfinteri, duri anelli e polpi ricci
vesciche purulente, gialle piaghe
in volti liquefatti ed ustionati
di stolta maldicenza ottuse voci
le fole vagabonde senza autore
a friggere daccanto le scintille
barlumi fuggitivi e grandi luci
di croci nere sagome lontane
e visi, tanti visi senza tratti
i nasi consumati dal dolore
esausto nel suo riso evaporato
ai franchi prigionieri del silenzio
l’ecclèsia degli aventi in dissipare
ricchi di vuoto, di solennità
ghignare i loro ammicchi verso il cielo
da celle di costretta opacità;
e scivolanti anguille fatte a fiume
sciamare senza fine, a mille a mille
ali d’angeli con la zampa storta
dimenarsi nel bitume dei pasticci
stillando dappertutto colaticci
di pece puzzolente e di lordume
e schiere di scorpioni ticchettanti
brucare le mucose rosse fuoco
le callide lussurie di baccanti
confitte nelle forre d’acqua morta

(Inedito)

 

Fabrizio Dall’Aglio

Nel tempo in cui il passato continuava

Vorrei dirti che sotto questo sole
son già passate le generazioni.
Ascolta. Un passo, un asso, e nel rumore
di piedi che ricoprono la terra
c’è il lento genocidio della specie.
Gente. Persone. Qualcuna si è affrettata
nel tempo in cui il passato continuava
a passare. Qualcuna è già sparita.
Cosa conviene fare. Ascolta.
Fra un anno, forse, vedi,
saremo ancora insieme ad annaffiare
questa sabbia spettrale,
questa oasi imbandita di pianto.
Non siamo nati per questo.
Ma ora è solo un battito di sangue
nelle vene, un testo di stagioni trasferite
in piazze gremite di gente
a chiacchierare
o in lambrette curve
su strade di montagna
verso il mare.
La nostra storia.
Era un paese, era la sua luce
dischiusa dagli elementi abbandonati;
un’euforia di soldati smessi
nell’unica memoria che rimane.

(da Colori e altri colori Passigli 2014)

roma donna gioco della palla

pittura parietale romana

 

Nazario Pardini

Nel regno delle Eumenidi
(fra mito e poesia)

Avvenne proprio là. Nel punto in cui
scorre il diletto fiume, verdeggiante
nelle acque che rispecchiano le acacie
rigonfie e le betulle; quasi al termine
del suo fluire dove l’onda stenta
respinta dal libeccio; sulla sponda
rivolta alla marina, ormai matura,
mi apparvero dal volto minaccioso
tre fanciulle severe. Svolazzavano
sopra le loro forme le ampie vesti
sanguigne che cangiavano ora in nero
ora in bianco. Furiose e pien di sdegno
con un unico suono a me si volsero
stridente ed infernale: “Erinni siamo
o, se ti aggrada, Nemesie; lo vedi
dall’abito di pece del momento.
Ci fu madre la notte e genitore
Acheronte che in animo portiamo
rigonfio di uccisione e di indicibile
rancore. Se placate, diventiamo
l’eburnee Eumenidi. Guardaci bene!
Restiamo sopra te sospese in aria
con le materne ali. E ci vantiamo
che serpi attorcigliate sopra il capo
rimpiazzino i bei crini. Illuminate
da fiaccole splendenti
ancor di più risaltano d’orrore.

Gli dèi ci destinarono al castigo
degli uomini in vita coi flagelli
della celeste collera. A turbare
i loro sonni. Li perseguitiamo
con paurosi rimorsi e dilanianti
visioni. Perché soffrano di già
del tartaro gli eterni patimenti.
A noi, temute, omaggi singolari
furono offerti e tanto fu pauroso
il rispetto che nessuno si arrischiava
a nominarci o a porgere lo sguardo
ai nostri templi. Solo sia d’esempio
d’Oreste il gesto. Alzò in fondo all’Arcadia
un’ara per cercare di placare
i nostri tetri intenti. Di narcisi
e zafferano incoronò le nostre
statue; di frutta le cosparse e miele;
una pecora nera ci immolò
e consumò il suo corpo sopra un rogo
di cipresso, ginepro e biancospino.
Fu allora che commosse dai rimorsi
gli comparimmo con le vesti bianche.
Ci eresse un nuovo altare. Incoronò
noi Eumenidi di olivo e in sacrificio
due tortorelle ed una libagione
d’acqua di fonte in vasi con i manici
fasciati in pelle ovina. Proprio là
pretendevano i ministri il sacro vero”.

Intanto il sole deponeva in fondo
all’orizzonte i tiepidi languori
di sopore serale. Sopra il chiaro,
nel punto in cui il mio fiume ormai si annulla
nell’insaziabile gorgo dei pelaghi,
giacevano rosate d’occidente
animelle e poiane. Dalle sghembe
forcelle dei pinastri lacrimava
il pianto delle scorze ricamate
dei queruli richiami dei colimbi.

Sembrava l’astro, nella sua metà
roventata di luce porporina,
volesse richiamare l’attenzione
delle ferali Erinni. Dai loro
occhi sanguinolenti trasparivano
tutti i martìri umani: di Megèra
l’insaziabile invidia; il desiderio
più sfrenato di morte, di vendetta,
di uccisione da quelli di Tisifone;
mentre Aletto traspariva tutte quante
le nostre altre mestizie: solitudine,
spleen, tradimenti, indicibili affanni
dei poveri mortali. Mi sembrava
di essere il solo umano sulla terra
ad espiare i rimorsi. Mi rinchiusi
in un terrore infernale; era un sogno,
certo! oppure vivevo le invenzioni
che avevo immaginate più volte ai
limiti estremi della fantasia.
Si trasformava forse il quotidiano
in onirico irreale
e realtà in sua vece si faceva
l’universo pensato nei miei sogni?
Ma in quel momento vidi farsi verdi
i loro occhi profondi. Come il mare
nell’imo più lontano o come i bronzi
sottratti dopo secoli ai fondali
vidi farsi i loro occhi. Sulle teste
divennero le serpi rami fini
di fulve fioriture e poi capelli
fluenti come i grani dei declivi.
Le braccia glauche come i fondi cieli
opposti ad occidente. I seni ansiosi
si fecero rosati come dita
di un ultimo barlume trasparente
sulle sete nivali. Mi rapirono
le femmine vogliose e sensuali,
benevole oramai. Respiravo
tra i loro afflati e i crini di lavanda
l’aria del maestrale. Mi svanivo
gradatamente nei riflessi pallidi
dell’ultimo settembre. Quale pace
nel lieto regno! Essenza di trasvoli
di suoni, di silenzi, di dolcezze,
di estremi amori il regno delle Eumenidi.

Venere statua

Venere callipigia statua

 

Anonimo

Poema dell’altrove

Fummo nella dimenticanza di noi stessi eterni. Una lontananza incalcolabile definì la percezione dello spazio. L’inganno futuro non parve più inaccessibile.
La Ragione e la Musa scelsero templi dalle soglie ardenti. Ne delimitarono lo spazio oracolare.
Avvenne il trionfo, nonostante i divieti. Nel cerchio purissimo, nel punto glorioso, l’io e l’eternità dialogarono a lungo.

Scena della vestizione

Eleusi mi addestrò alla morte.
Non fu necessario giungere, piuttosto liberarsi e semplicemente essere.
Mi concesse la dea una vestale esperta di misteri.
Dimenticare. E vedere, udire unicamente il tutto.
È come sfilarsi una collana – disse –
e mi tolse anelli bracciali e corpetto.
Non più indefinita e inquieta la suprema dimora.
Ma la veste invasata di vita sulla pelle tessuta e cucita
non fu dato strapparla.
La libertà, in tutta la sua ampiezza, violava l’involucro della carne.
Incollerita mi cacciò dall’Ade.
E me ne andai come da una festa
sfilandomi adagio la collana.
La stillante tenerezza vide la sua pietà inondare il corpo delle cose.

 

Nato nel 1971 a Roma, dove si è laureato in Lettere moderne,  Marco Onofrio è autore di poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria.  Per la poesia ha pubblicato 9 dei 21 volumi complessivi, tra cui Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (con Raffaello Utzeri, 2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013). Ha pubblicato poesie in numerosi volumi antologici. Ha conseguito premi e riscontri critici a livello nazionale e internazionale, tra cui il “Montale”, il “Carver”, il “Pannunzio”, il “Farina”, il “Città di Torino”, il “Città di Sassari”. Web Site: www.marco-onofrio.it

 A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento. (nota di Giorgio Linguaglossa)

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

Fabrizio Dall’Aglio è nato nel 1955 a Reggio Emilia. Vive tra Reggio Emilia e Firenze, impegnato in attività di carattere editoriale e librario. Ha pubblicato: Quaderno per Caterina. Poesie e brevi prose 1975-1980 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1984); Versi del fronte immaginario, 1982-1983 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1987); Hic et nunc. Poesie 1985-1998 (Firenze, Passigli, 1999); La strage e altre poesie. Resti di cronaca, 1975-1982 (Valverde, Il Girasole, 2004); L’altra luna. Poesie 2000-2006 (Firenze, Passigli, 2006); Colori e altri colori Passigli, 2014.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha fondato il blog lombradelleparole.wordpress.com e-mail: glinguaglossa@gmail.com

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SETTE POESIE di Anna Ventura “Atena” “Noli me tangere” “Venere uscì dal mare”  “Antinoo” “Arbiter” “L’angelo freddo” “Gli sposi di pietra” – Sul tema Poesie su personaggi storici mitici o immaginari – Commento di Steven Grieco-Rathgeb

statua femminile

statua femminile

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013)

anna ventura

anna ventura

 Commento di Steven Grieco-Rathgeb

Il pensiero poetico di Anna Ventura si distingue, mi sembra, per una “velocità” tutta particolare: non necessariamente quella raggiunta attraverso la metafora o altre figure retoriche, e nemmeno quella di certi poeti orientali del passato, in cui la tensione metafisica preme in modo così forte sulla dimensione esistenziale-reale, che si crea un moto, capace di imprimere una inaudita, perfino auto-distruttiva, velocità nell’espressione poetica. In Anna Ventura sono l’estrema pulizia e chiarezza del verso i veicoli che le permettono di raggiungere di colpo il concreto delle cose e degli oggetti del pensiero. Su questo punto aggiungo soltanto qui qualche considerazione in più a ciò che è già stato rilevato da Giorgio Linguaglossa nella sua prefazione.

Dunque una velocità che rinsalda – paradossalmente – l’andamento pacato, equilibrato, intenso del verso; in cui le innervature dell’angoscia “esistenziale” sono per lo più sottintese, o espresse comunque con economia, e soprattutto senza quel particolare tipo di ironia “leggera e distaccata” che tanto ha contribuito a trivializzare la poesia a cavallo fra XX e XXI secolo.  In lei il ritmo serrato serve a superare la pesantezza dell’ogni giorno, che non è necessario ribadire, per ricordare invece frammenti di vissuto che rilucono di un qualche senso e possibilmente indicano un filo di continuità. Nei momenti migliori, infatti, le sue poesie dischiudono, tutte insieme, un intimismo puro, nitido, pasternakiano. Una somiglianza con il poeta russo che non è casuale, anzi la dice lunga sui nostri tempi, in cui vige una censura sottile, strisciante, della libertà di pensiero, così come un tempo in Unione Sovietica esisteva la censura ufficiale. Laddove impera infatti un Pensiero Unico, di qualsiasi colore esso sia, viene sempre danneggiata la solidarietà emotiva ed intellettuale fra gli individui, la loro capacità di pensarsi pienamente “umani”.

anna ventura

anna ventura

 Nell’attimo “inimmaginabile” di questa poesia, l’autrice deve a Blake (Tiger tiger burning bright / in the forests of the night) tutto quello che lei può o potrà mai dire in campo poetico: e nello stesso tempo al poeta inglese lei non è debitrice di assolutamente niente, non del minimo granello di polvere contenuto nella sua più piccola poesia. Per un semplice motivo: Anna Ventura ha saputo ri-forgiare questa, fra le tante immagini primordiali dell’uomo: il senso di stupore di fronte all’ignoto, che resiste a qualsiasi sistemazione filosofica, teologica o scientifica: la stessa immagine a cui Blake dette espressione due secoli fa in Inghilterra, e qualcun altro in Asia o in Africa mille o forse diecimila anni fa. Questa volta è stata Anna Ventura a ricreare l’immagine: conferendole quel senso inaspettato della cosa appena nata, appena emersa dal nulla, miracolosa come l’elefantino o il cerbiatto appena usciti dall’utero della madre, a stento capaci ancora di tenersi in piedi.

Ma quante proto-immagini e quanti elefantini sono nati e rinati nei milioni e milioni di anni? Ecco un aspetto fra i più importanti della poesia autentica: stare – a modo suo – vicinissima alla vita, quella che ognuno di noi vive. Ed è in questo senso che ho usato più sopra la parola “inimmaginabile”: che non denota semplice “sbalordimento”, bensì indica l’attimo pre-cogitativo, prima che la capacità immaginifica umana si muova e inizi a manifestarsi.

Nella poesia di Anna Ventura c’è inoltre forte il desiderio di tornare a casa, in uno spirito totalmente privo di ogni sentimentalismo. È la nostalgia per un senso più compiuto, più ricco, delle cose del mondo, che sentirono anche i poeti e le poetesse giapponesi del periodo classico (IX-XIII sec.). Essi chiamarono questo anelito furusato, letteralmente “l’antico villaggio” “la casa avita”, “il cuore rammentato delle cose”Comunque sia, con Pasternàk, e altri poeti di quel paese, l’autrice ha in comune la facoltà di gioire della presenza discreta delle cose: come loro, ha chiaro il concetto che è la concretezza a rivelare in essi l’energia nascosta (anche numinosa). “Res”.

(Steven Grieco)

 

Atena

Atena

ATENA

Atena uscì dalla testa di Giove
con lo sguardo fosco e la fronte turrita: già sapeva
quanto le sarebbe costato
essere all’altezza di un tale privilegio.
Prese a invidiare
le dee frivole e belle
che altro non dovevano fare
se non mostrarsi al meglio
delle loro grazie,
parlando il meno possibile.
Lei no; lei avrebbe dovuto anche parlare, all’occorrenza,
perché non poteva deludere
chi l’aveva messa tanto in alto.
Troppo per una donna,
anche se questa donna era Atena.
Un giorno si tolse le insegne divine
e scese tra gli uomini,
che non la degnarono nemmeno
di uno sguardo. Ma lei non fece una piega:
conosceva la superficialità degli dei,
poteva immaginare quella degli uomini.
Poi un bambino piccolissimo,
nella confusione di un mercato,
perse la sua mamma, e, con la manina,
si attaccò al braccio di Atena, cercando protezione.
Atena si commosse al punto che,
quando tornò sull’Olimpo,
immaginò che il bambino
stesse ancora con lei
e decise di tornare sulla terra
per rivederlo; il piccolo, a sua volta,
dopo aver ritrovata la madre,
ancora sentiva il calore
di quel braccio sicuro
e sperò di stringerlo ancora,
nell’allegria del mercato.

noli me tangere Correggio

noli me tangere Correggio

Noli me tangere

L’auriga di Delfi,
col suo broncio di bravo ragazzo
appena uscito dalle mani di sua madre,
non sa di essere tanto bello,
né, forse, tanto valente.
La tunica che lo ricopre
fino ai piedi perfetti,
simile a una colonna dorica,
è il “noli me tangere”
di chi appartiene al destino.

 

Venere Botticelli

Venere Botticelli

Venere uscì dal mare

Venere uscì dal mare
coperta di goccioline. Vulcano la vide,
dal fondo della sua fucina,
e pensò che, un giorno o un altro,
gli si sarebbe spezzato il cuore. Venere
se ne era accorta,
ma non sapeva che farci:
non era una colpa
se, di tutte, lei era la più bella. Poi
avvertì un brivido, e un altro,
e un altro ancora:
l’acqua del mare, rappresa,
si stava congelando:solo
la fiamma del dio deforme
poteva riscaldarla.
Con i suoi piccoli piedi,
Venere scese nella fucina;
e lì rimase per qualche tempo;
ne uscì fuligginosa e contenta,
perché finalmente era fuori dal gelo
della sua corazza invisibile:
la consapevolezza di un ruolo,
il pregiudizio degli eletti.
Mentre la vita è altrove:
nell’umiltà dell’amore,
nel rischio di spezzarsi il cuore.

(Inediti)

Anna Ventura copertina tu quoque

 

 

 

 

 

 

 

Antinoo

Adriano contemplava Antinoo;
la sua bellezza lo stregava:
volle che gli artisti tentassero l’impossibile:
fermare quella bellezza per l’eterno.
Tutto
avrebbe potuto chiedere – e ottenere –
il giovane dio.
Purtroppo, non voleva niente:
era un corpo di cera,
che un giorno si scoprì
galleggiare sull’acqua,
in mezzo ai petali dei fiori.:
quella era la sua meta, il suo destino.
Restarono le statue.

Petronio arbiter

Petronio arbiter

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Arbiter

Era tanto snob,
Petronio Arbiter,
che sfidava la sorte in campo aperto. Sapeva
che ogni suo gesto, ogni parola,
venivano osservati e giudicati,
anche per potersene impadronire. Lui
non faceva nulla per evitare
un tale avamposto della morte.
Nell’impari duello
contro la volgarità e la bruttezza
vinsero loro. A Petronio restò la morte,
che era quello che voleva.

.
L’angelo freddo

Chi può dire che cosa non ci appartiene,
chi segna i confini delle proprietà,
chi chiude le porte e col gesso scrive
i limiti del possibile?
Chi, se non un angelo malvagio,
al quale bruciamo inutili incensi,
l’angelo conformista di un galateo di menzogne,
l’angelo di pietra che sta sulla tomba,
e aspetta solo che gli stiamo a tiro,
ma non ha fretta,
perché già ci possiede?
A quest’angelo freddo
è inutile strizzare l’occhio:
ignora spirito e fantasia;
non ha la luciferina gaiezza
del Satana piede caprino,
né la buia durezza del Maligno:
alita soavemente sulle nostre case arredate,
governa le nostre automobili,
i bambini grassi e le serve.
E’ la nostra ottusa certezza,
la fede indegna di essere creduta.
I ladri, i rapitori, il dolore
sono l’unico baluardo
contro di lui.

gli sposi etruschi di Volterra

gli sposi etruschi di Volterra

 

 

 

 

 

 

 

Gli sposi di pietra

Forse la tartaruga di Volterra
parla con i sarcofaghi sommersi
nella terra morbida
del giardino del museo.
Sono sempre due,
gli sposi etruschi di nessuna bellezza,
stretti in una scatola di pietra,
che non si annoiano e ridono
di un sorriso che non si spiega ed è beffardo.
Il mistero etrusco non è la scrittura,
non è la remota provenienza,
ma la tenacia testarda
dei loro matrimoni eterni.
Contro la durezza quadrata
di queste scatole di pietra
si spezza
e diventa segatura
il biondo dell’oro sibarita.
Sommerso nella terra, minuscolo,
l’ultimo sarcofago
aspetta di sopravvivere
al giorno del giudizio.
Ha gli sposi mangiati dal tempo,
caduti i nasi di pietra,
interrotto il sorriso sulle bocche,
il filo d’argento di una solitaria lumaca
li percorre, e ammiccano
nell’ombra della fratta più nascosta,
dove è il mistero del mistero, la tana
della tartaruga di Volterra.

dalla Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014

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DANTE ALIGHIERI E GUIDO CAVALCANTI -L’AMICIZIA E POI IL DISSIDIO di Cesare Garboli con due sonetti di Guido Cavalcanti

 Dante Alighieri 2

.

da Repubblica, un articolo di Cesare Garboli sul legame tra Guido Cavalcanti e Dante Alighieri 

Confesso di sentirmi un po’ a disagio di fronte al generoso corsivetto che lo scrittore Sebastiano Vassalli ha dedicato sul Corriere della Sera (6 settembre), all’articolo sull’Inferno di Dante che ho recentemente pubblicato su questo giornale (Repubblica, 31 agosto). Come ci si comporta con chi approva le nostre idee nel momento stesso in cui le fraintende? La cosa avrebbe ben scarsa importanza, se non fosse che nel titolo del corsivetto campeggiano due nomi di fuoco, che appartengono al patrimonio culturale di tutti coloro che parlano la nostra lingua: “Perché Dante odiava Cavalcanti”. Una simile notizia, e un simile enunciato, non possono passare sotto silenzio. “Per il critico letterario Cesare Garboli – scrive il Vassalli – al centro della visione di Dante, e del poema che ne discende, c’ è il più forte e il più complesso dei sentimenti umani: l’odio, e al centro dell’odio c’ è Guido Cavalcanti, il grande «cancellato» della Commedia”. Non me ne voglia il Vassalli, ma il fatto è che non sottoscriverei la sua parafrasi neppure per un miliardo di lire. Non sono così miscredente da infischiarmene dell’aldilà. Ci penserebbero le anime di Dante e di Guido, prima o poi, a presentarmi ben altro conto. Prego dunque il lettore di attribuire le righe che seguono a un doveroso bisogno di rettifica.

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

Me la sbrigherò rapidamente. Nel mio articolo dantesco osservavo come la capacità di odiare, presente in tutta la Commedia e non solo nella prima cantica, abbia assunto ai miei occhi, col passare del tempo e del secolo, una colorazione sempre più forte e marcata. Non c’ è da meravigliarsi se il Novecento scopre in Dante ciò che l’Ottocento aveva tenuto più discretamente occultato. Fuori da questo tema, a conclusione dell’articolo, facevo anche notare che ci sono due ingressi nel tartaro dantesco, corrispondenti a due diversi inizi del poema: uno la grande porta scardinata, l’altro una delle tante porte della città di Dite. Appena varcate le mura della città di Dite, si apre, come tutti sanno, a perdita d’ occhio, il cimitero degli atei: innumerevoli tombe piene di fuoco, destinate a chi negava che l’anima sia immortale e non annetteva alcun valore alla sepoltura. Nel cimitero rovente Dante incontra una figura mitica della sua gioventù, un politico, un condottiero, il capoparte ghibellino Farinata degli Uberti. Insieme a lui, nella stessa tomba, giace Cavalcante Cavalcanti, il padre del grande e insostituibile amico di Dante, il poeta e filosofo Guido. Sotto il profilo strutturale, romanzesco, stilistico, il viaggio dantesco nell’oltretomba comincia qui, davanti al supplizio degli atei, quando Dante coglie l’opportunità, che gli è offerta da Farinata (“chi fur li maggior tui?”), di dichiarare la propria identità anagrafica (leggi: “il proprio io”). Simultaneamente, Dante affronta e scioglie due nodi, due miti, due idoli, o, come si dice modernamente, due “complessi” della sua gioventù, uno politico-militare e l’altro filosofico-letterario, Farinata e Guido. Con il primo, con il fantasma incombente di Farinata, Dante si misura a viso aperto: discute, replica, battibecca. Con Guido, Dante si comporta come si fa con gli amici del cuore, quando il tempo dell’amore e dell’amicizia è finito. Grazie a uno stratagemma geniale, rimuove delicatamente e tacitamente la presenza dell’amico, facendolo scomparire dal proprio sistema intellettuale e quindi dallo scenario della Commedia. In questa rimozione non c’ è nessuna traccia di odio.

Dante Alighieri

Dante Alighieri

 E se non sapessi che leggere è più difficile che scrivere, mi meraviglierei che qualcuno abbia potuto fraintendere e distorcere a tal punto il senso delle mie parole. Del resto, si tratta di un meccanismo molto perdonabile. Succede spesso, anche ai più grandi lettori, di scorgere confusamente nel discorso di un altro il riflesso, il riverbero, lo specchio di pensieri propri che non hanno mai preso forma, e così di appoggiare all’autorità di un testo stampato l’occasione per trovare il coraggio di esprimerli. Più gravi, perché storicamente e culturalmente perniciose, mi sembrano invece le conclusioni originali cui giunge il Vassalli, per il quale a fondamento del presunto odio di Dante per Guido Cavalcanti “c’ è la comune esperienza dell’avanguardia”. L’avanguardia? Ma sì, per il Vassalli l’avanguardia si sarebbe incarnata, ai tempi di Dante, nel “dolce stil nuovo”. Diceva un grande maestro di studi storici, Delio Cantimori, e lo ripeteva a ogni occasione, che bisognerebbe astenersi dal tracciare o immaginare analogie, paralleli, raffronti tra i fatti accaduti nel passato e quelli che ci scorrono sotto gli occhi, o tra le congiunture che si sono verificate in un passato lontano e in un altro meno remoto. Le storie dentro la storia, come le unioni carnali, sono sempre diverse. Se lo stesso vale in letteratura, non sarebbe meglio lasciare i movimenti d’ avanguardia al Novecento, che è il loro posto, e lo stil nuovo a quei tempi lontani, ignari di automobili e di socialismo, e così poco interessati a cambiare il mondo? Ma la reincarnazione dell’esperienza letteraria dantesca nella realtà e nell’attualità dell’oggi ci fornisce ben altra sorpresa. Avanguardia o non avanguardia, lo Stil nuovo, secondo il Vassalli, “deluse” Dante, il quale si staccò dal gruppo preferendo “la visione tradizionale dell’arte: l’Antico, contro l’odiato Nuovo”.

Dante Alighieri

Dante Alighieri

 L’Antico sarebbe Virgilio, la buona guida della Commedia, mentre l’odiato Nuovo sarebbe il maestro cattivo, Cavalcanti: “una guida ingannevole che lui (Dante) non poteva perdonare e che non perdonò”. Par di capire che il Vassalli dia pochissimo peso a quel documento di storia letteraria che è il noto incontro di Dante, nella sesta cornice del Purgatorio, con Bonagiunta da Lucca, dove lo “Stil nuovo” viene non solo recuperato al poema ma confermato, commentato, autenticato, omologato con tanto di bollo e firma, tra l’altro consegnandone la formula – dolce stil novo – ai posteri e quindi anche allo stesso Vassalli che la usa con tanta disinvoltura. Caro Vassalli, la ringrazio delle sue parole, ma il suo capitoletto di storia letteraria si presenta così oltranzista e così emotivo da sconfinare dal tema letterario. Episodi simili nascono spesso dalla violenza invadente di un oscuro fondo autobiografico. Non so se questo sia il suo caso.

 

guido cavalcanti

guido cavalcanti

 

 

 

 

 

 

 

Rime, XII – Perché non fuoro a me gli occhi dispenti

Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti?»

Ch’una paura di novi tormenti
m’aparve alor, sì crudel e aguta,
che l’anima chiamò: «Donna, or ci aiuta
che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti!»

Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente,
tanto che s’ode una profonda voce

la quale dice: – Chi gran pena sente
guardi costui, e vedrà ‘l su’ core
che Morte ‘l porta ‘n man tagliato in croce.

*

Perché gli occhi non mi sono stati
spenti o strappati, così che, attraverso
la loro vista, [la donna] non fosse

venuta nella mia mente a dire:
«Ascolta se mi senti nel tuo cuore»?

Ché allora una paura di tormenti
inauditi mi colse, così spietata
e acuta che la mia anima gridò:
«Donna, ora aiutaci, affinché
gli occhi ed io non ne soffriamo.»

Tu li hai lasciati in tale condizione
che Amore è venuto a piangere
su di essi per compassione,

tanto che si sente una voce profonda
che dice: – Chi è addolorato guardi
costui [il poeta], e vedrà che Morte
porta il suo cuore tagliato in croce.

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POESIE SCELTE di José-Flore Tappy  da   “Poesie  lunari” (2001)  (Losanna – 1954) traduzione a cura di Marco Morello

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José-Flore Tappy è nata a Losanna nel 1954 ed è autrice di sei volumi di poesia. Ha vinto due prestigiosi premi letterari svizzeri: il Premio Ramuz per Errer mortelle e il Premio Schiller per Hangars e l’opera omnia. Tappy ha anche scritto un saggio sull’artista Loul Schopfer, ha tradotto poesie dallo spagnolo e, in collaborazione con Marion Graf, le poesie di Anna Achmatova. Lavora come editor e ricercatrice presso il Centro di Ricerche sulla Letteratura Romanza all’Università di Losanna.

José-Flore Tappy  da   “Poesie  lunari” (2001)

da Lunaires , Geneva : La Dogana, 2001 “Sheds / Hangars : Collected Poems 1983 – 2013″ (bilingual edition, Fayetteville, New York, 2014).

 En plein jour
Une fourmi
Elle me hante cette nuit
 

Seishi

 
Dans ma robe de drap fruste
osseuse
plus aiguë qu’un silex
je creuse
l’étouffante noirceur
je gratte avec mes ongles
le salpêtre de la nuit
 

*

Nella mia veste logora
ossuta
più aguzza d’una selce
scavo
nella soffocante nerezza
gratto con le unghie
il salnitro della notte

*

La nuit tient tout contre elle
l’astre de sel sa poupée chauve
aux yeux troués
si sombre sa robe si taciturne
elle se confond avec le ciel

Sans refuge
partout l’emmène
poupée blafarde
d’avoir traîné
à travers toute l’immensité

jusqu’au matin
la serre la baigne
de sa sueur mobile

bouclier de nuées
contre les pluies fantômes
*

La notte tiene tutto per sé
l’astro di sale la sua bambola calva
dagli occhi forati
così scura la sua veste taciturna
si confonde col cielo

Senza rifugio
la porta dappertutto
pallida bambola
da trascinare
per tutta l’immensità

fino al mattino
la stringe la bagna
col suo sudore mobile

scudo di nuvole
contro le piogge fantasma

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Les hanches serrées
dans une étoffe rêche
j’avance
compacte
portée par mes chevilles

tout autour
cratères lumière d’écume
et de mercure

à peine si l’astre sous mes pieds
vibre

moi l’insecte elle la toile
moi l’agitée elle la sphère
moi debout elle circulaire

pétrie de terre et de fumée
avec mes rêves mes cires et mes boues

moi la chair elle la pierre
moi l’anarchie elle souveraine
moi la naine elle géante

j’irrite le silence
véhicule en tous sens
l’eau potable et de troubles marchandises
et je vaque aux besognes et j’entretiens le feu

moi la fauve elle nuée
moi païenne elle l’extase
moi la rauque elle fluide

et je raie l’espace de ma stridente aiguille

moi l’oreille elle la sourde
moi violente elle muette
moi la houle elle néant

.
Seishi

I fianchi costretti
in una stoffa ruvida
avanzo
compatta
sorretta dalle caviglie
tutto attorno
crateri luce di schiuma
e di mercurio

la luna vibra appena sotto i miei piedi

io l’insetto lei la ragnatela
io l’agitata lei la sfera
io in piedi lei circolare

impastata di terra e di fumo
coi miei sogni le mie cere i miei fanghi

io la carne lei la pietra
io l’anarchia lei sovrana
io la nana lei gigante

irrito il silenzio
trasporto in ogni direzione
l’acqua potabile e oscure merci
mi dedico alle faccende e curo il fuoco

io la belva lei nuvola
io pagana lei l’estasi
io la rauca lei fluida

e graffio lo spazio col mio ago stridente

io l’orecchio lei la sorda
io violenta lei muta
io l’onda lunga lei il nulla

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

 

 

 

 

 

 

 

 

Kaos

Têtes coupées crânes vides
roulent dans la poussière
tellement sonores
sur la terre nue
leurs fronts cognent
contre le sol

les boules
dans la main des joueurs
quand le lancer est courbe
s’entrechoquent
comme des cailloux

jeu de bandits
jeu d’assassins

Kaos

Teste tagliate crani vuoti
rotolano nella polvere
risuonano
sulla terra nuda
le fronti colpiscono
il suolo

le bocce
dalla mano dei giocatori
concludono la parabola
scontrandosi
come sassi

gioco da banditi
gioco da assassini

*

Comment user l’angoisse
comment l’exténuer

vertiges tournis
amoncellements
caillots des nuits

sous la poitrine
bolides lancés
dans une course
aveugle

*
Come stancare l’angoscia
come estenuarla

vertigini capogiri
accumuli
coaguli delle notti

sotto il petto
bolidi lanciati
in una corsa
cieca

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Mais c’est elle
qui l’hallucine
l’attractive
la fait rire ou crier
c’est elle
qui tangue et l’appelle
c’est l’iode et le chant
des sirènes et la tête
lui tourne sur le roulis
des vagues
*

Ma è la luna
ad allucinare il mare
l’attraente
lo fa ridere o piangere
è lei
che beccheggia e lo chiama
è lo iodio e il canto
delle sirene e la testa
le gira al rollìo
delle onde

*

Le ciel agite
Son bout d’étoffe
sa lune grise
dans la nuit rare

il voudrait dire
il voudrait dire

au grand train qui dévale
le temps ferraille
le temps sur rails
tout ce vacarme

le ciel agite
sa lune pâle
dans la nuit rare
aromatique

*

Il cielo agita
il suo pezzo di stoffa
la sua luna grigia
nella notte rara

vorrebbe dire
vorrebbe dire

al grande treno che viene giù
il tempo sferraglia
il tempo sulle rotaie
tutto questo fracasso

il cielo agita
la sua luna pallida
nella notte rara
aromatica

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Engourdis
bleuis de froid
là-bas
leurs yeux se perdent
au fond de leurs visages

on y cherche
on voudrait

mais l’oubli
l’oubli seul les recouvre
de la neige plein la bouche

*

Intirizziti
resi blu dal freddo
laggiù
i loro occhi si perdono
in fondo ai loro volti

vorremmo
cercarli

ma l’oblio
solo l’oblio li ricopre
le bocche piene di neve

*

L’eau des rivières
a beau couler
rien ne guérit
quand la mort creuse
des ventres déjà vides

*

Di acqua può passarne
sotto i ponti
ma niente guarisce
quando la morte perfora
dei ventri già vuoti

*

Lentement
à travers l’insomnie
descend
l’âpre théine
des larmes

*

Lentamente
attraverso l’insonnia
scende
l’aspra teina
delle lacrime

José-Flore Tappy

José-Flore Tappy

Le jour fendu
crachera-t-il ses pépins
dans nos bouches affamées

ou peut-être faudra-t-il
à nouveau
patienter jusqu’au soir
se contenter de boire
boire à la blanche mamelle
à son lait d’autrefois
doux-amer

*

Il giorno spezzato
sputerà i suoi semi
nelle nostre bocche affamate
o forse bisognerà
di nuovo
pazientare fino a sera
accontentarsi di bere
bere alla bianca mammella
il suo latte stantìo
dolce-amaro

*

Chaque matin
poser nos voix debout
sur la toile cirée
rompre le pain casser le sel

avant que la fatigue
encore une fois ne vienne
ne nous fauche
une fois de plus
hâtive
de sa grande pelle

*

Ogni mattina
posare le nostre voci dritte
sulla tela cerata
spezzare il pane sminuzzare il sale

prima che la fatica
ancora una volta venga
a falciarci
una volta di più
frettolosa
col suo grosso badile

José-Flore Tappy photo Yvonne Bohler

José-Flore Tappy photo Yvonne Bohler

Pendant qu’un homme
harassé se replie
sur son matelas
que toujours
plus près de lui
s’amenuise le souffle

la lumière
par vagues se déploie
balaie l’espace
de grands mouvements
fluides

Ou suspendue
descend
dans les jardins

sous une toiture de paille
l’hibiscus ouvre
chaque jour
cinq pétales rouges

*

Mentre un uomo
sfinito si rifugia
sul suo materasso
sempre più
vicino a lui
il respiro s’affievolisce

la luce
si diffonde a ondate
spazza lo spazio
con grandi movimenti
fluidi

o sospesa
scende
nei giardini

Sotto un tetto di paglia
l’ibisco spalanca
ogni giorno
cinque petali rossi

*

Elle transpire
l’humide la verte
terre qui persévère
bol de vapeur où
je plonge mon visage

monte
jusqu’à l’opaque
toute sa moiteur

ne rien dire
peut-être est-ce
juste pour respirer
quand le corps
n’a plus d’ombre

*

L’umida
terra verde
prosegue a traspirare
una bolla di vapore
dove tuffo la faccia

tutta la sua umidità
cresce
fino all’opacità

non dire nulla
forse è
giusto per respirare
quando il corpo
non fa più ombra

*

Sur le sol torride
je fume des herbes
devenues vénéneuses
et soumise j’attends
j’attends la nuit
qu’elle me recouvre
de son sel noir
et de ses bûches

*

Sul suolo torrido
fumo delle erbe
diventate velenose
e quieta attendo
attendo che la notte
mi ricopra
col suo sale nero
e i suoi ciocchi

*

Aux deux extrémités du champ
une chèvre brune une chèvre noire
poignées d’un même récipient vide

ou clés de poils
qui ferment en tournant
sur elles-mêmes
à chaque nuit tombante
les deux battants de l’île

*
Alle due estremità del campo
una capra bruna una capra nera
manici dello stesso recipiente vuoto
o chiavi pelose
che chiudono girando
su se stesse
i due battenti dell’isola
ad ogni tramonto.

(traduzione di Marco Morello  –  6.9.14)

 

Marco Morello nasce a Torino nel 1956, insegnante alle superiori dal 1980. Direttore dell’aperiodico “Poesia nella Strada” negli anni ’80. Ha pubblicato “Quartine per ‘Lù” presso Joker e “111 haiku” per Genesi. Ha tradotto “Gli arazzi dell’Apocalisse” e “Se cade la notte” di John Taylor rispettivamente per i Quaderni di Hebenon e Joker. Recentemente, in collaborazione con John Taylor, ha tradotto in anglo-americano una raccolta miscellanea dei migliori aforisti italiani. Ludolinguista dal ’79, ha fornito numerosi spunti creativi per le rubriche e i testi di Stefano Bartezzaghi (sua l’ideazione dell’accavallavacca). Da un decennio cura due rubriche on line sul “Giornalaccio”: ‘devi sapere che’ di punzecchiature letterarie e ‘l’alce mormorò’ di liriche e giochi di parole. Suoi contributi sono apparsi su ‘Hebenon’ e su ‘corto circuito’.

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SETTE POESIE di Andrea Rompianesi da “Sette capitoli di Avinguda del Paral-lel” (2014)

 

Barcellona Raval

Barcellona Raval

 Andrea Rompianesi (Modena, 1963) formatosi  presso l’Università di Bologna, svolge attività editoriale. Risiede attualmente in provincia di Novara. Ha pubblicato, in poesia: “Orione”(1986), “Vascello da Occidente” (1992), “Punti cardinali” (1993), “Scendevi lungo la strada” (1994), “Momenti minimi” (1994;1999), “Apparenze in siti di trame”(1996), “I giorni di Orta”(1996), “La quercia alta del buon consiglio”(1999), “Scritti e frammenti”(1999), “Ratio”(2001), “Versi civili”(2003), “Metrò:Madeleine” (2004), “Gustav von Aschenbach” (2006), “Rimbaud Larme” (2007), “Il grido”(2008),”Fides” (2009), “Dietro tutti i colori del blu” (2013) ; in prosa : “Il pane quotidiano” (1990), “Quella dei Beati Angeli” (1994), “Il killer” (1995;2000), “Venti e lune” (1995), “In odore di terre”(1998), “La notte dei grandi ladri” (2003), “Strada di pausa e di viaggio” (2012), “Avinguda del Paral-lel” (2014).

 

Barcellona Metro

Barcellona Metro

 

 

 

 

 

 

Agosto (caldo). Sera (cielo nitido).
Lampioni di Barcellona (gialli, bianchi,
arancioni). Taxi (rapido). Brezza
(dal finestrino). Port Vell (mare).
Leo osserva (curiosità). Placa d’Espanya;
Palau Nacional (collina di Montjuic).
Avinguda del Paral-lel (hotel Silken).

*

Facciata dell’albergo (rifatta da poco);
porta girevole (faretti direzionali);
hall (divano e tre poltrone); banco di
ricevimento (due ragazze in giacca
nera). Leo appoggia il bagaglio.
Mezza parete, tavoli. Bed and
breakfast. Ragazza alta e mora (capelli
a coda di cavallo). Tessera magnetica
(stanza 312). Ascensori.

Andrea Rompianesiscanner 031 (1)

 

 

 

 

 

 

 

 

Cellula fotoelettrica (corridoio camere).
Corsia rossa. Porta 312 (spia verde apre).
Bagno (a destra); letto matrimoniale,
televisore piatto, frigobar, aria
condizionata (spenta), poster di Mirò.
Tenda (lunga) sopra scrivania con
penna e carta intestata. Lenzuola
bianche. Faretti. Moquette scura.
Vasca da bagno (doccia).

*

Pigiama giallo. Bagaglio aperto.
Materasso rigido. Telecomando
(scorrono i canali). Frigobar (salatini,
acqua minerale, bibite, liquori).
Cuscino alzato. Leo pensa (la ragazza
mora della hall).

Andrea Rompianesi

Andrea Rompianesi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mattina (luce). Tavolo (prima colazione).
Latte e caffè. Famiglia nordica; coppia
taciturna (¿con leche?). Strada ( gente).
Clima mediterraneo. Odori di aromi,
cucine, rifiuti. Fermate d’autobus,
cartelloni pubblicitari, bar, videonoleggi,
bancomat. Leo osserva la cartina. Placa
d’Espanya (senso opposto al mare).
Arena abbandonata (fossile tozzo).
Gran Via (alberata).

*

Placa de Catalunya (venendo da Carrer
de Pelai). La grande incantatrice
( antico a sud, moderno a nord).
Megastore, tavolini bianchi, magazzini,
automobili (promesse per la sera).
La Rambla (un fiume umano). Leo segue
un’altra strada (Avinguda del Portal).
Burger, bar, book shop, bambini in corsa,
jazzista nero (voce roca). Ombra della
pianta. Placa Nova (quartiere gotico).

barcellona strada

barcellona strada

 

 

 

 

 

 

 

Accesso stretto (varco tra le cose). Mura
romane. Carrer del Bisbe Irurita (luce
in diagonale); angoli delle pietre.
Musicisti di strada. Placa de Sant Jaume
(Leo osserva la mappa). Placa de l’Angel,
via Laietana. La Ribera (brezza dal mare).
Carrer de Montcada.

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TRE POESIE INEDITE di Giorgio Linguaglossa “Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il console?»”I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso” “Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata” – SUL TEMA DEI PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica la sua prima opera poetica, Uccelli (Roma, Edizioni Scettro del Re) e, nel 2000, Paradiso (Edizioni Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Dal 1992 al 2005 ha diretto la collana di poesia delle Edizioni Scettro del Re di Roma. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dirigerà fino al 2005. Nel 1995 redige e firma, con altri poeti, Giuseppe Pedota, Lisa Stace e Maria Rosaria Madonna, il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicandolo nel n. 7 della rivista da lui diretta. Nel 2001, pubblica il racconto lungo Storia di Omero nel volume collettivo Via Pincherle – Modelli Narrativi a Confronto, per le Edizioni Libreria Croce. Nel 2002 pubblica il libro di saggi sulla poesia, Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Coedizione Libreria Croce – Scettro del Re). Suoi saggi sulla poesia contemporanea sono presenti in Linee odierne della poesia italiana, a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio (Torino, Quaderni di Hebenon, 2001), e nel volume Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei a cura di Gabriela Fantato (Milano, Bocca, 2004). Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare presso editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio.

Roma statua2Ha curato l’apparato critico del numero speciale 33 di «Poiesis» del 2006 dedicato alle traduzioni di alcuni saggi del poeta russo Osip Mandel’stam e di dieci poesie inedite del poeta russo: Il fornello a petrolio (poesie per bambini). Nel 2006 per la poesia pubblica La Belligeranza del Tramonto (LietoColle 2006). Alcuni suoi saggi sulla poesia contemporanea sono apparsi in “Numen” del 2007, quaderno di critica edito dalla rivista di segni contemporanei «Altroverso» di Campobasso. Ha curato le presentazioni critiche dei poeti inseriti nella La poesia degli anni Novanta. Antologia (Roma, Scettro del Re, 2002) ed è presente con alcune composizioni nella Antologia della poesia erotica contemporanea (Roma, Ati Editore, 2006). Collabora in veste di critico con le riviste di letteratura: «Polimnia», «Hebenon»,  «Altroverso», «Capoverso», «I fiori del male», nel 2014 fonda il blog lombradelleparole.wordpress.com – Sue poesie sono state tradotte in spagnolo, inglese e bulgaro. In quest’ultima lingua è stata pubblicata nel 2007 la traduzione de La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 è apparso il saggio Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia  in Atti del Convegno È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo per le edizioni Passigli di Firenze. Nel 2010 esce La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) l’editore Edilet di Roma; nel 2011 per il medesimo editore esce Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945 2010). Nel 2013 esce il saggio Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, e la raccolta di poesia Blumenbilder (Natura morta con fiori) per Passigli, Firenze. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni (Achille e la Tartaruga) e l’Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma)

scena di film

scena di film

Un Appunto

Le poesie fanno parte di una raccolta inedita Tornare alla corte di Cesare?, scaturita dalla lettura di una poesia di Zbigniew Herbert (“Il ritorno del proconsole”). La figura retorica sulla quale ho costruito le poesie della raccolta è la “trasposizione” (il traslato), ovvero, il parlare dell’oggi fingendo di parlare di personaggi del lontanissimo passato. Se non si capisce questo non si comprenderebbe nulla delle mie poesie. Il problema indagato è la condizione dell’artista nei confronti del Potere, di qualsiasi potere, anche di quello cd. democratico. Anche la figura dell’Imperatore Giuliano (forse la figura più grande degli ultimi due secoli della storia romana) è stata affrontata in questa prospettiva: il grande riformatore dell’Impero (grande generale e grande amministratore, uomo colto e saggio che vedeva lungo, molto al di là della sua epoca). Ecco, l’avere lo sguardo lontano è proprio di ogni artista, ogni vero artista non può che disprezzare il presente, non può accordare la propria cetra alle regole metriche del Presente. Il tono “salottiero” di cui parla Francesca Diano è quello usato, è vero, ma vorrei ricordare anche l’altra figura retorica fondamentale di molta poesia degli ultimi due secoli (tra cui ci metto Brodskij) : quella della “epistola” che consente di scrivere nel’intimità delle cose che altrimenti non potrebbero essere vergate; il pubblico è lontano, le poesie sono indirizzate quindi ad un misterioso “interlocutore” non ben specificato. Tutte le poesie (almeno le mie) sono sempre indirizzate ad un “interlocutore” posto al di fuori del proprio tempo e del tempo, per questo forse appaiono stranianti (ma non sono il solo, ci sono molti poeti europei che scrivono in questo modo!).
Parlo meglio di me e della mia epoca quando assumo la finzione di parlare di un’altra lontanissima epoca. Tutto qui. Però oggi in Europa ci sono poeti che trovano invece la contemporaneità molto più poetica e preferiscono fare delle poesie sulla Minetti. Oggi Tutto è permesso, la democrazia dispiegata afferma che questo è libertà. Sì, rispondo io, la libertà degli eunuchi.

Confessione del poeta Cornelio Viburno: «E adesso che farà il Console?»

Adesso spero proprio di essere inessenziale,
invisibile, trascurabile come un piccione

che becca tra gli orti del Foro.
«Chi vivrà vedrà», mi dico tanto per consolarmi.

«In fin dei conti il Console può essere sconfitto dai barbari
o dalla guerra civile o da se stesso».

Ma ecco il Console, nel manto di porpora, sulla biga addobbata,
di ritorno dalla guerra vittoriosa,

l’ennesima guerra tra le mura della Repubblica,
che fa ingresso con le sue legioni, tra squilli di trombe

e rullio di tamburi sotto l’Arco di Trionfo.

«È il suo trionfo o il nostro?», chiedo al mio fidato amico Claudio
assiepati alla transenna del Foro della Repubblica.

Ogni mattino mi reco in allarme ai piedi del Campidoglio, negli uffici del Consolato,  cerco il mio nome tra quelli inscritti nelle liste di proscrizione.

«E se lo trovassi? – mi chiedo – che cosa farei se trovassi
 il mio nome nelle liste di proscrizione?

Andrei subito dal Console per rendergli omaggio?
Lo supplicherei di essere risparmiato?

Rinnegherei la mia fede repubblicana?
Reclamerei la mia fedeltà in lui, nel console vittorioso

che ha risolto con le armi il contenzioso?

Mi prostrerei ai suoi piedi a invocare clemenza?».
Così, ogni mattino mi reco pieno di angoscia al Campidoglio,

ma ormai spero davvero di trovare il mio nome
tra quelli iscritti nelle liste di proscrizione;

finalmente sarei libero, libero di fuggire o di umiliarmi
dinanzi alla toga del Console, mi getterei ai suoi piedi 

scongiurandolo di risparmiare me e la mia famiglia,
lo invocherei di liberarmi della mia angoscia,

di mozzarmi subito la testa o, peggio, di lasciarmi libero tra gli orti
del Foro, proprio come un piccione.

statua di romano epoca imperiale

[statua di Caracalla, epoca imperiale]

I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso

Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;

inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave

e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.

Nel Foro non prende mai una posizione univoca, 
ciò che dice in privato non lo ripete certo in pubblico.

È abile, sfuggente come una biscia, oleoso come la resina del Ponto Eusino,
dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,

una ipocrisia, ma ciò che è più grave, non riesco
neanche a detestarlo.

Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,
un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,

non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli
il suo faccione impolverato di cerusso?

In fin di conti, è un mio simile: un teatrante, un attore,
ha un mento, un naso aquilino, proprio come me.

«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».

Druso ha il volto foderato di cerone da teatro,
scivoloso di biacca, il mento leporino e gli occhi cisposi

per il vino in eccesso della notte innanzi, ascolta
ciò che gli torna immediatamente utile,

quando non gli conviene fa il pesce in barile;
dei nostri discorsi sulla res publica, dice
 «che sì, che no, che forse, che insomma…».

Del resto, sto molto attento quando il fedifrago
nei conviti mi porge il cratere colmo di vino,

fingo di bere con un sorriso sordido…  mentre con la coda dell’occhio
sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.

in casa di Mecenate evito di guardare in volto il capo delle guardie
quando fa ingresso con il codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.

Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato

dei miei pensieri pubblici…

sesterzio  romano

sesterzio romano

 

Monologo dell’Imperatore Giuliano l’apostata

Come quando sei a teatro e vedi
sul fondale trascorrere delle ombre indecifrabili,

incomprensibili icone, però, che parlano
una loro lingua muta;

geroglifici, criptogrammi, tracce misteriose
degli dèi scomparsi, di infausti eventi;

e credi di riconoscere un profilo,
un volto, una immagine, un segmento,

una mano tesa in aiuto
 o pronta ad impugnare una spada…

Io Cesare, davanti allo specchio, chiedo a Cesare:
«È il tuo quel volto?», «Sono per te quei segni?»

Il mio dèmone mi dice che «le Moire
sono più antiche del Fato, che la mia filosofia

è aggiogata ad un carro più antico».
Mi dice anche: «guardati dai tuoi generali, Cesare!»*.

«È tua l’immagine che vedi riflessa nello specchio!»
«Una mano compirà quel gesto. Ti colpirà alle spalle.

Una Moira l’ha deciso.
Che tu forse speravi avesse dimenticato.

Ma è lì il gesto, nel nodo che Lachesi ha intessuto nel filato
del tuo manto di porpora, che dimora

nel secchio senza fondo della tua anima».

Mi chiede ancora il dèmone: «È tua quella mano,
la mano che ha impugnato la spada?

La spada chiama altra spada, Giuliano,
l’odio chiama altro odio».

«Chiedo al dèmone: quel volto che vedi riflesso nell’immagine
dello specchio corrisponde alla mia “anima”?».

«Sì, – risponde il dèmone – quel volto corrisponde al tuo profilo,
alla linea sghemba del tuo mento leporino,

alle rughe che hai agli angoli degli occhi
almeno nelle sue linee, diciamo così, generali».

«Sì ritengo di essere sempre io
il riflesso di quel volto che ho considerato,

troppo spesso, in modo incongruo, discontinuo,
a volte fraudolento,

scambiando l’effetto per la causa, o la causa per l’effetto.
Sì, sono proprio io quel volto,

il volto che gli dèi mi hanno dato,
il destino che le Moire mi hanno concesso».

roma busto maschile*giunto nel 363 d.c. con il suo esercito a Ctesifonte, Giuliano, a soli 33 anni, fu assassinato da una congiura di alcuni ufficiali cristiani. Ecco il resoconto di Ammiano Marcellino sugli ultimi istanti di vita dell’imperatore:
“Giuliano, giacendo sotto la tenda, rivolse la parola ai circostanti depressi e tristi “é venuto il tempo, amici, di uscire dalla vita. Sono in procinto di pagare alla natura il debito che chiede, non afflitto e addolorato, ma ammaestrato dai pareri dei filosofi su quanto l’animo sia più beato del corpo, conscio che tutti i dolori, come infieriscono sui codardi, così cedono il passo a chi persiste. Non rimpiango alcuna delle mie azioni nè mi opprime il ricordo di un grave delitto, sia quando venivo relegato nell’ombra e nelle ristrettezze, sia dopo la mia ascesa al principato. Ho conservato l’animo esente da macchie, come penso, reggendo l’impero con moderazione. Considerando che il fine di un giusto impero fosse l’interesse e la salvezza dei sudditi, fui sempre alquanto propenso ad una situazione tranquilla. Ora me ne vado lietamente, e ho venerazione per il nume eterno, poiché prendo congedo non dopo una lunga e dolorosa malattia, ma nel mezzo della gloria fiorente”

(Inediti, da Tornare alla corte di Cesare? – 2010)

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POESIA di Iosif Brodskij “Odisseo a Telemaco” POESIA di Mark Strand “Marsyas” POESIA di Wistan Hugh Auden “Musée des Beaux Arts POESIE di Bertolt BrechtIl ladro di ciliege” “Mio fratello aviatore” “Generale, il tuo carro armato è una macchina potente SUL TEMA DEI PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

Iosif brodskij 5

Iosif brodskij a Venezia

 

 Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

 

Mark_Strand april 1992

Iosif brodskij a Venezia

 

Mark Strand

Marsyas

Something was wrong
Screams could be heard
In the morning dark
It was cold

Screams could be heard
A storm was coming
It was cold
And the screams were piercing

A storm was coming
Someone was struggling
And the screams were piercing
Hard to imagine

Someone was struggling
So close, so close
Hard to imagine
A man was tearing open his body

So close, so close
The screams were unbearable
A man was tearing open his body
What could we do

The screams were unbearable
His flesh was in ribbons
What could we do
The rain came down

His flesh was in ribbons
What could we do
The rain come down

His flesh was in ribbons
What could we do
The rain came down

His flesh was in ribbons
And nobody spoke
The rain come down
There were flashes of lightning

And nobody spoke
Trees shook in the wind
There were flashes of lightning
Then came thunder

Marsia

Qualcosa non andava
si sentivano urla
nel buio del mattino
faceva freddo
le urla erano laceranti

S’appressava un temporale
qualcuno si dibatteva
le urla erano laceranti
qualcosa di inaudito

Qualcuno si dibatteva
così vicino, così vicino
qualcosa di inaudito
un uomo si squarciava il corpo

Così vicino, così vicino
le urla erano insostenibili
un uomo si squarciava il corpo
cosa potevamo fare

le urla erano insostenibili
la carne era in lacerti
cosa potevamo fare
cadde la pioggia

La carne era in lacerti
e nessuno parlava
cadde la pioggia
apparvero i lampi

E nessuno parlava
alberi scossi dal vento
apparvero i lampi
poi venne il tuono

(traduzione di Damiano Abeni)

W.H. Auden

W.H. Auden

 

Wistan Hugh Auden

Musée des Beaux Arts

About suffering they were never wrong,
The old Masters: how well they understood
Its human position: how it takes place
While someone else is eating or opening a window or just walking dully along;
How, when the aged are reverently, passionately waiting
For the miraculous birth, there always must be
Children who did not specially want it to happen, skating
On a pond at the edge of the wood:
They never forgot
That even the dreadful martyrdom must run its course
Anyhow in a corner, some untidy spot
Where the dogs go on with their doggy life and the torturer’s horse
Scratches its innocent behind on a tree.
In Breughel’s Icarus, for instance: how everything turns away
Quite leisurely from the disaster; the ploughman may
Have heard the splash, the forsaken cry,
But for him it was not an important failure; the sun shone
As it had to on the white legs disappearing into the green
Water, and the expensive delicate ship that must have seen
Something amazing, a boy falling out of the sky,
Had somewhere to get to and sailed calmly on.

*

Sul dolore la sapevano lunga,
gli Antichi Maestri: quanto ne capivano bene
la posizione umana; come avvenga
mentre qualcun altro mangia o apre una finestra o se ne va a zonzo spensierato;
come, quando gli anziani aspettano riverenti, con fervore,
la miracolosa nascita, debba sempre esserci
qualche bambino che non l’avrebbe voluta e pattina
su un laghetto alle soglie del bosco:
non dimenticavano mai
che anche l’orrendo martirio deve compiere il suo corso
comunque in un angolo, in un sudicio luogo
dove i cani fanno la loro vita da cani e il cavallo del torturatore
si gratta l’innocente didietro contro un albero.

Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.

(in Another time, 1940 traduzione di Nicola Gardini)

 

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

 

Bertolt Brecht

Il ladro di ciliege

Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,
mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.
Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino –
c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,
e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi
mi fece cenno col capo, a due mani
passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che già ero tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.

 

Mio fratello aviatore

Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.

Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.

E lo spazio che si è conquistato
sta sulla Sierra di Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.

 

 il binario che porta ad Auschwitz

 

il binario che porta ad Auschwitz

 

 

Generale, il tuo carro armato è una macchina potente

Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.

Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido di una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.

Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.

(traduzione di Franco Fortini)

 

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DUE POESIE di Antonio Sagredo “Cirene, Ker… o il mito?” “In cammino…” “Francesca Diano TRE POESIE da “Bestiario” (1981) Silvana Baroni UNA POESIA “Dafne, in assolo, a ricorrenzaSUL TEMA DEI PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

raffigurazione di Polifemo

raffigurazione di Polifemo

 

 

 

 

 

 

Antonio Sagredo

Cirene, Ker… o il mito?

Mi assillava il Vuoto irregolare all’ora sesta
e la domestica ombra delle Naiadi in calore.
Era cinta alla lingua delle api la loro caccia,
alla carcassa di un leone e della sua criniera.

Le braci di potassio negli occhi di Diomede
e le sue cavalle infuriate che divorano gli uomini
sono corone in cenere di mirto sparse sullo Ionio.
Sono stragi – per Euridice morsa da un serpente!

Lo spettro orfico si gingilla di passi e di sguardi,
cancella le tracce sulle piante e le orme di Mefisto.
La cetra non sa l’estasi del dubbio e la pietà infernale
che distrugge il canto per un ritorno irrevocabile.

E non sai se sono zoccoli nel bosco e corna del grigio frate
che contriti battono la sua parola e la pungente luce – e ora,
basta! Tersite, il codardo, intona un Te Deum e gioca ai dadi,
e dal suo volto ciondola la tossica armilla di una smorfia.

(13/17 novembre 2011)

.
In cammino… dagli occhi di Diomede

Come il cammino sul molo irriverente segue incerto
una luce franta che conduce a un sentiero cieco,
ma un oblio che vai a cercare ha la morte altrove
e non sai il canto di una nostalgia che non ha passato.

Oggi ho ascoltato con le dita il continuo sconforto del mare
sui granuli… le implorazioni e le suppliche, i gridi, e i suoi lamenti,
e compassione ha avuto – lui di me! – con la sua belante letania,
e non la sfida di un gabbiano con uno sguardo in picchiata: amami!

E ho sentito sui malleoli i vagiti asmatici delle sue risacche
e dei cavalli omerici le scintille dalle criniere dei marosi,
dagli occhi di Diomede gli uncini dei suoi furori come braci –
– mi sono ricordato l’infanzia delle vigilie eretiche:

le bestemmie contro gli angeli e tutti gli dei in ogni tempo,
i pugni dei miei occhi contro tutti gli altari e i cristi crocefissi,
le omelie blasfeme da pulpiti e patiboli come frustate inquisitorie
perché interdetto è il condannare per chi il diniego e la smorfia

sono un sacramento nuovo contro ogni verbo irrazionale – ma non ho
timore del puzzo delle scimitarre e dei candelabri, né di quelle croci –
invano attendi una liberazione da questi barbari legami che solo
su questa terra infame sono divisi e uniti per sterminarci tutti!

(Campomarino, 23 luglio 2011, ora prima del nuovo giorno)

roma pasifae

 

 

 

 

 

Francesca Diano

L’ape

Ape regina, emblema del Sole
Creatura di pura luce
Spirito d’oro, nettare regale
Che dalla terra al cielo conduce.
Ape di bronzo, rintocco alato
Delle vergini oracolanti
Donate a Hermes da Febo-Sole
Che stordisce i mortali coi suoi canti.
Ape d’argento, segno immortale
Di vita eterna, di simmetria
Ronzando tracci nell’aria azzurra
Complesse regole di geometria

.
Il cane

Custode dei morti, compagno di veglie
In forma di Ecate appari
Ai crocicchi di notte scortata
Da una muta senza pari.
Silenzioso compagno e muto
Ti adatti ad ogni negazione
Soffochi il gemito sconosciuto
Senza piegarti alla commozione.
Cuchulainn, eroe tetro e fiero
Che rinasce ad ogni luna
Ululando di notte alle foglie
Tra vapori di morbida bruma

 

Il corvo

A novembre, sui prati secchi
Saltellano torme di corvi
Neri principi dell’inverno
Sotterranei signori torvi.
Demiurghi oscuri della rinascita
Sottili signori dell’aria
Formule alchemiche della materia
Che dal mondo dei morti s’irradia

(Inediti, da Bestiario 1981)

 

apollo e dafne

apollo e dafne

 

 

 

 

 

 

 

 

Silvana Baroni
Dafne, in assolo, a ricorrenza

Dall’ingordo gorgo dell’eco
l’imperioso buio della parola.
Ascoltami Apollo
dai pace a questo urlo
spezza la distanza di questa estrosa
mia giovinezza, rovinosa
virginale rapina d’essere arciere
e freccia e belva.
Furente l’acqua ribolle
è il tuo nome, Apollo.
Grumo di buio l’alloro mi avviluppa
arsa quaresimale a rifugio nel fogliame
con dita tese sull’arco al primo richiamo
io stessa preda imbronciata in arrocco
dietro le quinte dei lauri
io dea della distanza
nella convulsa galleria dei latrati.
Da questo strazio di luna
da questo corpo incompiuto
miro al cervo da un anello di legno.
Chimere si pasciano del mio bersaglio
i gesti del ritardo cadono a grandine
amnesia giù per i dirupi
dell’eterno diluvio.
Non ho scampo
schiava del presente assoluto
non oso voltarmi al tuo domani.
Una sponda di marmo è l’attesa
non altro che albe a imbrunire
traghetti di luce per fori larghi del cielo
a cui s’addossa a sentenza la luna.
Ho in archivio il tuo nome, la voce
il vigore del fremermi accanto
tu corpo d’altra natura che non la mia
io vizio a distanza a certezza di resa.
E ancora t’ho sognato, Apollo
sul ponte a dritta del tuo sole
e che sorpresa la goccia smorfiosa
dal piovasco della tua verde navata!
Il bosco di nuovo un gemito di nati
fiammelle dai bivacchi e sagome
muy adelanti a risveglio a snodarsi
dall’orchestra dei rami.
Apollo! Torna ai boccioli in accensione
morsi vorrei, svestirmi dell’ombre
godere del furioso sequestro della bocca
dell’insistere a sete al traino del tuo sole.
Apollo!
Tu che mi sfrondasti l’anima
abbi pietà della ripulsa verginale
dell’arco mio teso al fulgore dell’ego.
Perso l’abbraccio altro non sono
che un verde scarabocchio nel caglio notturno
un assolo a ricorrenza
dell’assieme voluttuoso abbraccio
alla medesima altra creatura.
Ma la luna è sovrana
io carne fatale della sua bocca
io preda dei profumi e veleni del suo forziere.

 

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

Antonio Sagredo. Dicono che sia nato nel Salento decine di anni fa… a pochi chilometri da Giulio Cesare Vanini (a cui ha dedicato un poema mirabile), da Carmelo Be-ne e Eugenio Barba; il primo lo frequentò con discrezione somma, e gli de-dicò versi immortali. Fu frequentatore assiduo di quei teatri d’avanguardia romani e non, di cui conobbe autori e attori; recitò in due spettacoli teatrali: nei drammi lirici del poeta russo Aleksandr Blok e in uno spettacolo del poe-ta praghese Vitězslav Nezval, che inneggiava ai progressi della scienza della comunicazione. Sagredo studiò e visse a Praga calpestando gli acciottolati insieme ai poeti praghesi e a Keplero. I suoi primi componimenti, a 14 anni, in un vagone di terza classe (seppe tempo dopo che Pasternak e Machado viaggiavano nella stessa classe, componendo); distrusse i primi versi, i secondi e seguirono altre rovine; trovò un impiego di ripiego per nascondersi; poi raggiunse una forma inclassificabile tendente al sublime che gli permette di vivere di eredi-tà auto-postuma. Un amico poeta spagnolo, M. Martinez Forega, lo spinse a pubblicare due piccole raccolte di poesia a Zaragoza: Tortugas (Lola edito-rial, 1992) e Poemas (Lola editorial Zaragoza, 2001); sulle riviste: Malvis (n. 1) e Turia (n. 17). Poi nulla più, fino a che da New York, la scorsa estate, gli giunse una proposta di pubblicazione con Chelsea Editions.

francesca diano

Francesca Diano

Francesca Diano è nata a Roma nel 1948 e vive a Padova. Laureata in Storia dell’Arte, ha vissuto a Oxford e Londra. Ha insegnato all’Istituto Italiano di Cultura e ha lavorato al Courtauld Insitute. Ha vissuto a Cork, in Irlanda, dove ha insegnato all’University College e ha tenuto lezioni pubbliche sull’arte italiana contemporanea. Dai primi anni ’80 è consulente editoriale e traduttrice letteraria di poesia, narrativa e saggistica per vari editori, tra cui Fabbri, Neri Pozza, Donzelli, Guanda. E’ la traduttrice italiana delle opere di Anita Nair. Studiosa di folklore e tradizione orale irlandese, ha curato l’edizione italiana delle Fairy Legends di Thomas Crofton Croker (Neri Pozza, 1998) e quella anastatica dell’originale (The Collins Press, 1998).

Autrice di saggi, testi narrativi e poetici, nel 2012 ha vinto il Premio Teramo. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese e la raccolta di racconti Fiabe d’amor crudele(Edizioni La Gru, 2013). Suoi testi poetici sono presenti sui blog letterari MOLTINPOESIA, CARTESENSIBILI, LA PRESENZA DI ERATO

Silvana Baroni

Silvana Baroni

Silvana Baroni Vive a Roma. Ha scritto testi teatrali: Le infinite metà del mondo, L’amore è una scatola di biscotti rappresentati entrambi al teatro XX° Secolo a Roma, Liti d’amore con Neruda” ai teatri: La catapulta e  Agorà di Roma.In poesia ha pubblicato: nel ‘92  Tra l’Io e il Sé c’è di mezzo il me– aforismi e grafica- Il Ventaglio; nel ’94  Stagioni Il Ventaglio; nel ‘98 Nodi di rete Fermenti; nel 2001 Ultimamente Fermenti; nel 2002 Il tallone d’Achille di una donna Fermenti; nel ’97 Acquerugiola-acquatinta – haiku e grafica – Dell’oleandro;  nel 2005  Alambicchi – 14 racconti – Manni; nel 2006, Nel circo delle stanze – poesia – Fermenti; nel 2007  Neppure i fossili – aforismi, grafica e pittura – Quasar; nel ’11 Il bianco, il nero, il grigio– aforismi – Joker; nel ’12 Perdersi per mano– poesia – Tracce; nel ’13 Criptomagrittazioni – Onyxeditrice; nel 2013 ParalleleBipedi – aforismi- La città del sole. www. htts://silvanabatroni.it

 

 

 

 

 

 

 

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Andrej Andreevič VoznesenskijDalla vita delle crocette” (Inedito in italiano) traduzione e commento di Donata De Bartolomeo (Prima parte)

 

Andrej Andreevič Voznesenskij, Андрей Андреевич Вознесенский (Mosca, 12 maggio 1933  – Mosca,1 giugno 2010), è stato un poeta russo. Laureato in architettura, scopre, alla fine degli Anni Cinquanta, la sua passione per la poesia. Fin dal 1958 si fece interprete, attraverso i suoi versi, del disagio e delle passioni delle giovani generazioni, sia nella ricerca di ideali da vivere, sia nella forma linguistica più appropriata e più moderna nell’esporli. Esordisce nel 1958 con una raccolta di versi, cui seguì, nel 1959, il poemetto Mastera (“Maestri”), ispirato alla leggenda dell’accecamento dei costruttori della chiesa di San Basilio, con il quale si afferma poeta di vigorosa ispirazione e alto magistero formale. Tra le altre raccolte: Parabola (1960); Mozaika (“Mosaico”, 1960); Antimiry (“Antimondi”, 1964); Vzgljad (“Sguardo”, 1972); Proraby ducha (“Capomastri dello spirito”, 1984).

Dal 1958 cominciò, insieme ad Evgenij Evtušenko, a pubblicare poesie che ebbero riconoscimenti anche da Pasternak e Achmatova. Nel 1978  è stato insignito del Premio Lenin. È stato più volte in Italia, in particolare nel fiorentino cui ha anche dedicato una poesia. Memorabile la sua querelle con il leader sovietico Kruscev, ai tempi della Guerra Fredda, quando il politico dovette cedere alle richieste del poeta e al suo desiderio di poter lasciare il paese e viaggiare per il mondo. Le sue mete furono l’Europa, l’Italia la sua preferita, e gli Stati Uniti che, all’epoca più di oggi, erano l’emblema della libertà. Qui entrò in contatto con i personaggi che negli anni Sessanta tracciarono con le loro variegate espressioni, l’immagine artistica dell’America: Allen Ginsberg, Arthur Miller e Marilyn Monroe.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 Dopo la laurea in architettura Voznesenskij ha iniziato a pubblicare i primi versi nel 1958, alle soglie di quegli anni Sessanta che, se da un lato furono caratterizzati dalla perdita per la letteratura russo-sovietica di eminenti personalità artistiche (basti citare per tutti l’Achmatova e Pasternak), videro dall’altro affermarsi nuove personalità alle quali saranno affidate le future sorti della letteratura, della poesia e della critica.

Voznesenskij aveva inviato già nel 1954 le sue poesie giovanili a Pasternak ma attese il 1960 per pubblicare i suoi primi volumi: Parabola e Mozaika. La sua fama andò prestissimo crescendo al punto da spingere Evtuscenko a dichiararlo il più grande poeta della giovane generazione, accanto a lui e ad Evghenij Vinokurov che, per la verità, erano poeti più maturi avendo debuttato nell’agone poetico nel decennio precedente. Non dimentichiamo che in questi stessi anni (1962) pubblicava il suo primo libro di versi una nuova poetessa, Bella Achmadùlina, e lavorava, sia pure in clandestinità, Iosif Brodskij le cui prime poesie furono pubblicate nel 1965 negli Stati Uniti ma di cui circolavano in patria numerose copie manoscritte.

Kennedy e Kruscev

Kennedy e Kruscev

Diversissimo il destino di questi poeti, condannato Brodskij per parassitismo sociale e lodato Voznesenskij per aver salvato la sua personalità lirica rivestendola di toni sociali che nascondevano il dramma della personalità umana nella nuova società in via di tecnologizzazione.

Nella raccolta di saggi critici Il talento è un miracolo non occasionale (Mosca, 1980), Evtuscenko dice dell’esordio letterario di Voznesenskij: «si cominciano a scrivere versi così come si comincia a nuotare. Chi sguazza da solo nell’acqua bassa, chi si esercita assiduamente in una piscina ricca di cloro sotto la guida di un maestro esperto. ma in ogni caso i primi movimenti nell’acqua sono convulsi, goffi. Voznesenskij ha cominciato subito a nuotare a farfalla – per lo meno il suo sguazzare o i suoi esercizi nel gruppo dei principianti sono rimasti un mistero per i lettori. I forti, sicuri movimenti del principiante hanno irritato quelli che nuotano tutta la vita “a cagnolino” o si dondolano comodamente sulla schiena. Voznesenskij non ha intrapreso il cammino degli sforzi minuziosi da una categoria all’altra – egli ha raggiunto subito il livello del maestro».

Andrej Andreevič Voznesenskij by_Mikhail_Lemkhin

Andrej Andreevič Voznesenskij by_Mikhail_Lemkhin

 Ma c’è una maestria impersonale quando il poeta assimila almeno le regole della buona creanza – non di più. Voznesenskij «ha confuso le carte». Egli ha unito il russo pereplies[1], le sincopi del moderno jazz e i rombi beethoveniani. Il tragico singulto della Cvetaeva viene frantumato all’improvviso dall’ardita ciciotka[2] del primo Kirsanov. Il fragile tema lirico dai paesaggi quasi alla Zoscenko. Questa asprezza di palpiti ha spaventato gli amanti dei toni piani, affettati. Gli assertori delle regole severe si sono allarmati, scorgendo già nelle prime pubblicazioni di Voznesenskij, e soprattutto in La pera triangolare, un attentato alla poesia russa tradizionale. Fu da loro adoperata sprezzantemente la parolina “moda” per spiegare in qualche modo l’interesse dei lettori per i versi di Voznesenskij: ma i rimandi alla “moda” appaiono spesso rivelare una debolezza di argomentazioni. nonostante le predizioni sarcastiche, il nome di Voznesenskij si è solidamente affermato in letteratura ed i suoi detrattori fanno sorridere come il barone von Grivaldus seduto sempre nella medesima posizione sulla stessa pietra.

Il libro di Voznesenskij L’ombra del suono, che rappresenta in un certo qual modo il bilancio del già lungo lavoro del poeta, appare come la testimonianza del fatto che la sua attività è divenuta nella poesia russa simile a quella parola che non si cancella da una canzone. Assumendo a suo modo l’esperienza della poesia russa, egli stesso ne è divenuto parte.

Mi sembra che senza una analitica comprensione dell’opera di Voznesenskij non sia possibile spiegare i nuovi poeti. Nella psicologia dei lettori si sono in un modo o nell’altro rifratti i suoi ritmi nervosi, le sue metafore intense che sono divenute parte del mondo interiore di molti».

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 Quella di Voznesenskij si palesa quindi come una poesia che se da un lato si riallaccia alla migliore tradizione russa degli anni post-rivoluzionari (Majakovskij, Pasternak, Zabolockij), appare completamente nuova. D’altra parte tutta la generazione dei poeti dell’era chrusceviana e brezneviana aveva operato un drastico ribaltamento della concezione del mondo e del concetto stesso di poesia, giungendo sino alla frantumazione del tabù della sussumibilità della sfera del privato nella prassi artistica ed a questa tematica sempre più laica il pubblico offriva una straordinaria attenzione e compartecipazione.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

Alla lettura Voznesenskij appare poeta «gradevole», versificatore di gran talento; Egli si impunta nell’impedire al suo estro pirotecnico di giostrare oziosamente all’interno delle metafore e delle similitudini, per agganciarle al reale desublimato e per prodursi in rocambolesche variazioni metriche e semantiche che sviano continuamente il lettore, lo sorprendono, lo inchiodano ad ogni verso in una girandola di equivoci e di inceppamenti semantici. L’impressione di dissolvenza, di «deregulation» della costruzione ordinata e gerarchica si fa sempre più evidente e serrata man mano che ci si addentra nel suo lavoro, nei serpeggianti drenaggi metrici e materici, tra gli inciampi delle metafore che fanno scoccare scintille, nel balletto e nella balbuzie dei «dialoghi» così naturali da far pensare estratti dal registratore, costruiti su geometrie scalene o scanzonti, per lo più triangolari, in ripidissima successione paratattica. Il convenzionale della vita quotidiana, quello per intenderci della distinzione tra vero e falso, viene vivisezionato e rimontato con tutti i relativi paradossi e giochi perversi, in una intelaiatura fantastico-surreale lontanissima dalla cantabilità della poesia della sua generazione. La ipernovità di questo nuovo stile doveva apparire ai lettori contemporanei, ad un tempo, estremista ed estranea ai canoni del realismo socialista. Ed invece Voznesenskij creava dall’interno della tradizione la nuova poesia mutuando dalla sineddoche e dalla metafora gli elementi per una poesia anti convenzionale e modernista nutrita di intertestualità dissacratorie e deliranti, in direzione di una orchestrazione sinfonica che si ispirava al «ballabile», ai ritmi jazz, con continui cambi ritmici e timbrici, con la sovrapposizione di note sgargianti e di registri colloquiali convenzionali.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 Voznesenskij porta di colpo la linea melodica della lirica russa al suo naturale capolinea per scoprire le innumerevoli possibilità offerte da una poesia coerentemente «modernista». Con questa operazione Voznesenskij recupera la carica ancora attuale dell’eredità del cubofuturismo russo e l’eredità delle «poesie per bambini» di Osip Mandel’štam , secondo il quale compito del poeta è animare dall’interno le immagini, le similitudini, le metafore ricercando uno sguardo «ingenuo» (per eccellenza lo sguardo infantile) che potesse permettere inconsueti e non-convenzionali associazioni di correaltà e consentisse l’appropriazione artistica del «nuovo» reale. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua e in Mandel’štam  lo sguardo infantile costruisce gli oggetti, in Voznesenskij il medesimo sguardo opera un bizzarro montaggio delle immagini e delle locuzioni dialogiche. Il risultato è sorprendente. Un realismo infantile, pirotecnico, surreale basato sulla tecnica del montaggio e del corto metraggio: successione di rapidi fotogrammi dove il caso e l’estro convergono nella liquidazione di ciò che rimaneva della retorica del realismo apologetico sostenuto dalla critica ortodossa e di ciò che restava della retorica del poetismo spalleggiata dalle autorità culturali.

Andrej Andreevič Voznesenskij in recita

Andrej Andreevič Voznesenskij in recita

Potremmo quindi dire di essere di fronte ad un «esistenzialismo pirotecnico», nel senso di una poesia fortemente tramata sull’esistenza, sul mal di vivere di un’epoca e di un’intera generazione. Ma al contempo è questa una poesia che guarda al futuro, che annuncia il futuro, che si pone di fronte al pubblico senza pavoneggiarsi in elegiache tristezze ma con scorci, ellissi verbali, scarti ironici ed allusivi alla situazione del presente.

È un privato scomodo quello che Voznesenskij offre ai suoi lettori: l’amore desublimato, la modernità (sotto le spoglie di una segreteria telefonica), la quotidianità con la «volgarità del ciao» e le radiazioni nei pacchetti del té; tutto viene fatto oggetto di ironia tagliente che si sere della resa poetica di un vocabolario basso, di versi brevi, di invenzioni linguistiche e metaforiche che rendono dura la vita al traduttore. Su tutto pesa il fardello della Storia che, lontanissima dalla poetica dell’Achmadùlina e vissuta ottimisticamente da Evtuscenko, getta una luce sinistra anche sul rimo amore: «Perdona il fatto che in questi giorni / eravamo innamorati».

L’ironia si fa sberleffo della Storia delle crocette, dove l’espediente figurativo consente a Voznesenskij di demolire persino il mito sacro del famoso sabato comunista in cui Lenin «portò la trave». Non c’è invece ironia dell’assoluta rivendicazione della singolarità del ruolo del poeta:

Tutti scrivono, io smetto.

Di Stalin, di Visotskij, del Bajkal,

di Grebenscikov e Chagall

scrivevo, quando non era permesso.

Non voglio finire nel calderone.

Scrive ancora Evtuscenko nell’articolo citato: «per Voznesenskij il poeta è il salvatore non  il salvato. E di nuovo imperiosamente affiora l’immagine del “superamento della palude”, che ricorda l’eterna funzione della poesia: la lotta con la palude, comunque la si chiami».

(Donata De Bartolomeo)

[1]  ballo russo in cui i danzatori si esibiscono in assoli

[2]  danza ritmica

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

(testi tratti da Aksioma Mosca, 1990)

 

 

 

 

 

Volavano due bastoni. Uno verso il Nord, l’altro verso il Nord, l’altro verso
Occidente. Sull’asfalto le loro ombre si sono
Sovrapposte: ne è venuta fuori una crocetta.
-Bastoni, per favore non separatevi, altrimenti io sparirò!
-Scusa, crocetta, per noi è tempo di filarsela.

*

La crocetta andava lungo una stradina.
Vede una folla di crocette su un ramo.
-Siete un’assemblea rionale di crocette?
-No, siamo un lillà.
Si rattristò la crocetta. Soltanto, allargò le braccia.
Andò oltre.

*

Cammina, vede: delle crocette nere stavano l’una sull’altra,
formando una figura ginnica.
-Un saluto ginnico, pace al mondo! Posso montare su di voi
per un attimo?
-Prego, noi siamo la grata di una prigione. Aggrappatevi!
-Scusate ma ho fretta.
Soltanto, allargò le braccia.
Diremo dopo in quale direzione si affrettava.

Andrej Andreevič Voznesenskij

Andrej Andreevič Voznesenskij

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

L’uomo discende dalla scimmia. Ma di chi deriva la crocetta?
Dall’uomo. Se metti sotto terra un cadavere (e lo innaffi),
crescerà una crocetta.
Ma molti ritengono che sia un prodotto della terra.

*

La crocetta ha scoperto l’America per prima.
Sedeva sull’albero maestro.

*

Dicono che la crocetta abbia buttato la bomba atomica su Hiroschima.

*

La crocetta aveva paura dell’AIDS. Andò in farmacia. Comprò.
-Ma su quale estremità bisogna metterlo?
-Avete letto la favola “La bertuccia e gli occhiali”? Rassegnatevi alla via sperimentale.

*

Quando le crocette elessero il ministro dell’economia fluviale, questi stava sulla tribuna e, allargando le braccia all’inverosimile, indicava: “Ecco quale pesce pescheremo!”

*

Una donna andò a trovare una crocetta.*
-Crocetta, posso appendere su di te la camicetta? Solo, non
muoverti, altrimenti me la spiegazzerai.
Si spogliò. Si mise a letto. Aspettò un po’. Si addormentò.
La crocetta rimase ferma fino al mattino, aveva paura di muoversi.

*ndt: in russo la parola krestnik (crocetta) è di genere maschile.

*

La crocetta può nello stesso tempo
stringere

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POESIE SCELTE di Mark Strand – da “L’uomo che cammina un passo avanti al buio La metafisica del quotidiano, traduzione di Damiano Abeni e nota introduttiva di Giorgio Linguaglossa

Il Mangiaparole rivista n. 1 Mark Strand (nato l’11 Aprile 1934) è un canadese-americano nato poeta, saggista e traduttore. Dal 2005-06, è stato un professore di inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University.

 Mark Strand è nato nel Summerside Prince Edward Island, Canada. His early years were spent in North America, while much of his teenage years were spent in South and Central America. I suoi primi anni sono stati spesi in Nord America, mentre gran parte della sua adolescenza è stata trascorsa in Sud e Centro America. In 1957, Nel 1957, ha conseguito la laurea. Strand ha poi studiato pittura con Josef Albers presso la Yale University , nel 1959 tramite una borsa di studio Fullbright , ha studiato la poesia italiana dell’Ottocento in Italia durante il 1960-1961. Ha frequentato i workshop Writers Iowa presso la University of Iowa e l’anno successivo  ha conseguito un Master of Arts nel 1962. Nel 1965 ha trascorso un anno in Brasile come lettore.

Molte delle poesie di Mark Strand sono incardinate nel tema della innominabile nostalgia dell’uomo contemporaneo, una nostalgia che non può essere detta o rivelata senza tradire la nominazione. L’Itaca dell’uomo contemporaneo è il senso di quella antica nostalgia che è stata dimenticata, la nostalgia che sta prima dell’estraneazione, in quella zona franca che non fa più parte della storia individuale e neanche della storia dei nostri sogni: una dimensione, appunto, innominabile, intransitabile a ritroso, ma neanche percorribile in avanti, circondati come siamo da un buio fitto che non consente di riconoscere una direzione. Nella  poesia di Strand si trova tutto ciò che il poeta ha frequentato nella sua vita: le baie, i campi, barche, gli appartamenti grigi e anonimi negli agglomerati urbani etc e i pini e i sogni della sua infanzia su Prince Edward Island. Strand è stato paragonato a Robert Bly per il suo uso del surrealismo, ma la vera origine del suo surrealismo del quotidiano gli deriva piuttosto dalla attenta lettura iconografica della pittura di Marx Ernst, Giorgio de Chirico e René Magritte. Una poesia dunque che si nutre dell’arte figurativa, una traduzione e una riconfigurazione di quella iconografia nella poiesis. Le poesie di Strand utilizzano un linguaggio diretto, colloquiale e concreto, una sintassi regolare, un verso ampio di origine narrativa privo di rime e di un metro riconoscibile ma non per questo meno musicale. In una intervista del 1971, Strand ha detto, «Mi sento molto una parte di un nuovo stile internazionale che ha molto a che fare con la semplicità di dizione, un certo affidamento sulle tecniche surrealiste, e un elemento narrativo forte.»

(Giorgio Linguaglossa)

da Mark Strand L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Poesie 1964-2006) Oscar Mondadori, 2007, pp. 392 € 15 – traduzione di Damiano Abeni

Mark Strand

Mark Strand

 

The tunnel

A man has been standing
in front of my house
for days. I peek at him
from the living room
window and at night,
unable to sleep,
I shine my flashlight
down on the lawn.
He is always there.

After a while
I open the front door
just a crack and order
him out of my yard.
He narrows his eyes
and moans. I slam
the door and dash back
to the kitchen, then up
to the bedroom, then down.

I weep like a schoogirl
and make obscene gestures
through the window. I
write large suicide notes
and place them so he
can read them easily.
I destroy the living
room furniture to prove
I own nothing of value.

When he seems unmoved
I decide to dig a tunnel
to a neighboring yard.
I seal the basement off
from the upstairs with
a brick wall. I dig hard
and in no time the tunnel
is done. Leaving my pick
and shovel below,

I come out in front of a house
and stand there too tired to
move or even speak, hoping
someone will help me.
I feel I’m being watched
and sometimes I hear
a man’s voice,
but nothing is done
and I have been waiting for days.

.
Il cunicolo

Un uomo sta fermo
davanti a casa mia
da giorni. Lo spio
dalla finestra del
salotto e la sera,
non riuscendo a prendere sonno,
con la torcia elettrica
illumino il prato.
È sempre lì.
Dopo un po’
socchiudo appena
la porta e gli ingiungo
di andarsene dal giardino.
Strizza gli occhi
e geme. Sbatto
la porta e mi precipito
in cucina, poi su
in camera, poi di nuovo giù.
Piango come una scolaretta
e faccio gesti osceni
alla finestra. Scrivo
messaggi enormi sul proposito
di suicidarmi e li espongo
in modo che li legga facilmente.
Distruggo gli arredi
del salotto per dimostrare
che non posseggo nulla di valore.
Lui resta impassibile
e allora decido di scavare un cunicolo
che sbocchi nel giardino del vicino.
Separo lo scantinato
dai piani superiori
con un muro di mattoni. Scavo
come un matto e il cunicolo
è subito finito. Lascio sotto
il piccone e la pala,
sbuco davanti a una casa
e resto lì troppo stanco
per muovermi o parlare, sperando
che qualcuno mi aiuti.
So di essere osservato
e a tratti sento
la voce di un uomo,
ma non succede niente
e sono giorni che aspetto.
da “Dormendo con un occhio aperto”

(1964)

Mark Strand

Mark Strand

From the Long Sad Party
from “The Late Hour”

Someone was saying
something about shadows covering the field, about
how things pass, how one sleeps towards morning
and the morning goes.

Someone was saying
how the wind dies down but comes back,
how shells are the coffins of wind
but the weather continues.

It was a long night
and someone said something about the moon shedding its
white
on the cold field, that there was nothing ahead
but more of the same.

Someone mentioned
a city she had been in before the war, a room with two
candles
against a wall, someone dancing, someone watching.
We begin to believe

the night would not end.
Someone was saying the music was over and no one had
noticed.
Then someone said something about the planets, about the
stars,
how small they were, how far away.

 

Dal lungo party triste
da “The Late Hour”

Qualcuno stava dicendo
qualcosa riguardo ombre che coprono il campo, riguardo
lo scorrere dell’esistenza, di come ci si addormenti verso il mattino
ed il mattino passi.

Qualcuno stava dicendo
di come il vento muoia ma poi ritorni,
di come le conchiglie siano le bare del vento
ma il tempo continui.

Era una lunga notte
e qualcuno disse qualcosa riguardo a come la luna perdeva il suo
bianco
sul freddo campo, come non ci fosse nulla davanti a noi
oltre le solite cose.

Qualcuno menzionò
una citta in cui era stata prima della guerra, una stanza con due
candele
contro un muro, qualcuno che danzava, qualcuno che guardava.
Cominciamo a credere

che la notte non avrebbe avuto termine.
Qualcuno stava dicendo che la musica era finita e nessuno
se n’era accorto.
Allora qualcuno disse qualcosa riguardo i pianeti, riguardo le
stelle,
di quanto fossero piccole, quanto fossero lontane.

Mark Strand

Mark Strand

Keeping Things Whole
from “Sleeping with one eye open”

In a field
I am the absence
of field.
This is
always the case.
Wherever I am
I am what is missing.

When I walk
I part the air
and always
the air moves in
to fill the spaces
where my body’s been.

We all have reasons
for moving.
I move
to keep things whole.

Tenendo le cose assieme

da “Sleeping with one eye open”

In un campo
io sono l’assenza
di campo.
Questo è
sempre opportuno.
Dovunque sono
io sono ciò che manca.

Quando cammino
divido l’aria
e sempre
l’aria si fa avanti
per riempire gli spazi
che il mio corpo occupava.

Tutti abbiamo delle ragioni
per muoverci
io mi muovo
per tenere assieme le cose.

Mark Strand

Mark Strand

 

 

 

 

 

 

 

What it was
from “Blizzard of one”

I

It was impossible to imagine, impossible
Not to imagine; the blueness of it, the shadow it cast,
Falling downward, filling the dark with the chill of itself,
The cold of it falling out of itself, out of whatever idea
Of itself it described as it fell; a something, a smallness,
A dot, a speck, a speck within a speck, an endless depth
Of smallness; a song, but less than a song, something drowning
Into itself, something going, a flood of sound, but less
Than a sound; the last of it, the blank of it,
The tender small blank of it filling its echo, and falling,
And rising unnoticed, and falling again, and always thus,
And always because, and only because, once having been, it was…

II

It was the beginning of a chair;
It was the gray couch; it was the walls,
The garden, the gravel road; it was the way
The ruined moonlight fell across her hair.
It was that, and it was more. It was the wind that tore
At the trees; it was the fuss and clutter of clouds, the shore
Littered with stars. It was the hour which seemed to say
That if you knew what time it really was, you would not
Ask for anything again. It was that. It was certainly that.
It was also what never happened – a moment so full
That when it went, as it had to, no grief was large enough
To contain it. It was the room that appeared unchanged
After so many years. It was that. It was the hat
She’d forgotten to take, the pen she left on the table.
It was the sun on my hand. It was the sun’s heat. It was the way
I sat, the way I waited for hours, for days. It was that. Just that.

Cos’era da “Blizzard of one”

I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che proiettava,
che cadeva a riempire l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori di sé, fuori di qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto entro un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo vuoto tenero, piccolo che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, una volta essendo stato, era…

II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sui capelli.
Era quello, ed era più di quello; era il vento che sbranava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore era tanto grande
da contenerlo. Era la stanza che sembrava immutata
dopo così tanti anni. Era quello. Era il cappello
che s’era dimenticata, la penna lasciata sul tavolo da lei.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, giorni. Era quello. Solo quello.

mark strand quote

 

 

 

 

 

Black sea
from “Man and camel”

One clear night while the others slept, I climbed
the stairs to the roof of the house and under a sky
strewn with stars I gazed at the sea, at the spread of it,
the rolling crests of it raked by the wind, becoming
like bits of lace tossed in the air. I stood in the long
whispering night, waiting for something, a sign, the approach
of a distant light, and I imagined you coming closer,
the dark waves of your hair mingling with the sea,
and the dark became desire, and desire the arriving light.
The nearness, the momentary warmth of you as I stood
on that lonely height watching the slow swells of the sea
break on the shore and turn briefly into glass and disappear…
Why did I believe you would come out of nowhere? Why with all
that the world offers would you come only because I was here?

 

Mare nero
da “Man and camel”

Una notte chiara, mentre gli altri dormivano, ho salito
le scale fino al tetto della casa e sotto un cielo
fitto di stelle ho scrutato il mare, la sua distesa,
il moto delle sue creste spazzate dal vento, divenire
come pezzi di trina gettati in aria. Sono rimasto nella lunga
notte piena di sussurri, aspettando qualcosa, un segno, l’avvicinarsi
di una luce lontana, e ho immaginato che tu venivi vicino,
le onde scure dei tuoi capelli mescolarsi col mare,
e l’oscurità è divenuta desiderio, e desiderio la luce che approssimava.
La vicinanza, il calore momentaneo di te mentre rimanevo
su quell’altezza solitaria guardando il lento gonfiarsi del mare
rompersi sulla riva e in breve mutare in vetro e scomparire…
Perché ho creduto che saresti venuta uscita dal nulla? Perché con tutto
quello che il mondo offre saresti venuta solo perché io ero qui?

 

Mark Strand

Mark Strand

 

 

 

 

 

 

 

The Remains
from “Darker”

I empty myself of the names of others. I empty my pockets.
I empty my shoes and leave them beside the road.
At night I turn back the clocks;
I open the family album and look at myself as a boy.

What good does it do? The hours have done their job.
I say my own name. I say goodbye.
The words follow each other downwind.
I love my wife but send her away.

My parents rise out of their thrones
into the milky rooms of clouds. How can I sing?
Time tells me what I am. I change and I am the same.
I empty myself of my life and my life remains.

Ciò che resta

Mi svuoto del nome degli altri. Mi svuoto le tasche.
Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada.
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino.

A che giova? Le ore hanno fatto il loro dovere.
Dico il mio nome. Dico addio.
Le parole si inseguono nel vento.
Amo mia moglie ma la caccio.

I miei genitori si alzano dai troni
nelle stanze delle nuvole. Come posso cantare?
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e resto lo stesso.
Mi svuoto della mia vita e rimane la mia vita.

Mark Strand

A piece of the storm

from “Blizzard of one”

From the shadow of domes in the city of domes,
A snowflake, a blizzard of one, weightless, entered your room
And made its way to the arm of the chair where you, looking up
From your book, saw it the moment it landed. That’s all
There was to it. No more than a solemn waking
To brevity, to the lifting and falling away of attention, swiftly,
A time between times, a flowerless funeral.
No more than that
Except for the feeling that this piece of the storm,
Which turned into nothing before your eyes, would come back,
That someone years hence, sitting as you are now, might say:
It’s time. The air is ready. The sky has an opening.

Frammento di tempesta

Dall’ombra delle cupole nella città delle cupole,
un fiocco di neve, tormenta al singolare, implacabile,
è entrato nella tua stanza e si è fatto strada fino al bracciolo
della poltrona dove tu, alzando lo sguardo
dal libro l’hai scorto nel’attimo in cui si posava. Tutto qui.
Niente altro che un solenne svegliarsi
alla brevità, al sollevarsi e al cadere dell’attenzione, rapido,
un tempo tra tempi, funerale senza fiori. niente altro
se non per la sensazione che questo frammento di tempesta,
fattosi niente sotto i tuoi occhi, possa ornare,
che qualcuno tra anni e anni, seduta come adesso sei tu, possa dire:
«È ora. L’aria è pronta. C’è uno spiraglio nel cielo».

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LA POESIA METAFISICA – De profundis o madre – di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996) Commento di Giuseppe Elio Ligotti a cura di Giorgio Linguaglossa

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opera di Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

 Giuseppe Pedota (Genzano di Lucania – Pt – 26.01.1933 – Cremona 15.05.2010). Dall’età di cinque anni compie studi musicali quindi, studi medi, ginnasiali e classici a Potenza tra i gesuiti. Dà concerti d’organo e pianoforte. Di formazione laica, instaura legami con Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Vito Riviello, Orazio Gavioli, Lucio Tufano e riunisce il meglio dell’ intellighenzia lucana di allora proponendo un inedito ed importante centro di dibattito politico e culturale.  Si lega a Crippa, Fontana, Kodra, Buzzati, Vittorini, Roversi.. Per reazione a certi modi e mode d’arte si dedica per motivi di lavoro soprattutto all’architettura, al design, alla pubblicità e scenografie. Tra i lavori degli anni ’60, la commissione per gli interni dell’hotel “due Foscari” di Busseto; gli interni totali del cinema Vittoria di Crema. Alcuni progetti, come la villa Kesten a Ginevra, sono considerati esempi ante litteram di bioarchitettura.

Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

 A Cremona, mostra personale con interventi di Elda Fezzi (1965). A Roma, mostra personale di pittura e scultura con catalogo titolato dai curatori ”Pittura sovvertitrice, Pittura dell’inconscio, con testi di Fiammetta Selva, Vito Riviello, Ernst Zeisler, Sebastiano Carta con una poesia dedicata (1968). A Matera, personale alla “Scaletta” con presentazione di Franco Palumbo (1970).

Giuseppe Pedota che fuma foto anni Settanta

Giuseppe Pedota che fuma foto anni Settanta

In un’asta di maestri contemporanei a Milano, viene per la prima volta quotato a livello internazionale (1970). È invitato a Palermo dove allestisce una mostra personale di pittura e scultura alla “Trinacria” (1972). Il catalogo è di Ugo Moretti con testi dello stesso, mentre alla vernice interviene con una prolusione Leonardo Sciascia. Testi critici sui maggiori quotidiani, reti TV-Rai3. Nella primavera del ’73 è chiamato a dirigere “Trinacria” dove allestisce, tra le altre, un’importante antologica al suo amico Tot. Segue poi quest’ultimo, titolare di seminari di scultura in campus universitari, durante un iter americano. Visita a New York i più importanti studi di artisti americani (Robert Kleinman, N.Y. “Tormentingly poetic”, 1974). È invitato a numerose mostre nelle maggiori città europee.

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Giuseppe Pedota nudo femminile, anni Novanta

 Dal ’95 è redattore e art director della rivista di letteratura “Poiesis”. Giorgio Linguaglossa presenta le poesie di Giuseppe Pedota nel numero sette di “Poiesis” (settembre ’95); nel medesimo numero Pedota firma il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”. 1996, pubblica il poema Equazione dell’infinito per i tipi “Scettro del Re” – Roma. Nel 1999, pubblica il poema “Einstein, i vincoli dello spazio” con prefazione di Luigi Reina. Nel 2009, esposizione a Roma presso la Domus Talenti. Nel 2005 esce il numero speciale di «Poiesis» (32) con il titolo Acronico comprendente tutte le poesie di Pedota.

 *

Il verso di Giuseppe Pedota, fin dal suo primo germinarsi, soddisfa l’affermazione per cui la poesia non è vaga, non meglio definita ispirazione, è bensì, esattamente, folgorazione da contrasto: pietra focaia degli opposti, sistema di equivalenze tanto calibrate quanto drammatiche, limite grafico dell’illimite per un impossibile pareggio delle sorti. È, in definitiva, quell’equazione dell’infinito che è poi lo sfolgorante titolo sidereo della nostra silloge ed è pure, per così dire, lo zoccolo duro tematico dei paragrafi di cui si compone.

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

 Ed è dunque l’unico luogo, la poesia, in cui si possa tentare di conciliare l’inconciliabile: le tre facce della storia, il desiderio e la realtà, l’aristocrazia del pensiero e la sua irrealizzabilità, la relatività della vita e della morte. Tutti temi e motivi che caratterizzano la poesia di Pedota, che anzi la esaltano fino ad essere risaltati. “…io siedo al crocevia del tempo”  – dice il poeta –  “spietato dono per il nostro limite.” E ancora, in una lirica dedicata alla Lucania delle origini, parla di “sogno di remote/civiltà stellari…la mia Lucania è un’Itaca/ di tutte le ombre/ che mi crearono la luce.” Dove mi pare evidente la visione orfica e metamorfica delle cose della terra e dell’uomo. Orfismo che è parametro e paradigma dell’eterno. L’orfico Pedota, il pitagorico Pedota, ci ricorda che il tempo è ritmicità, rotazione e ciclicità: è la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche: teoria portatrice sì di fatalità, ma anche di serenità cosmica, per cui l’uomo la terra le cose sono viste  dall’alto,  al di sopra del tempo:  afferma, il poeta: “sarà solo un abbaglio/ una cifra che ho inciso nel mio seme/ disincarnato e immemore/ di questi miei silenzi a darvi il segno/ forse d’amarmi anche non capendo/ mi basterà questo amore mai detto/ a risalire dalle mie vertigini/e inondarmi di stelle.”

giuseppe pedota al pianoforte 2009

giuseppe pedota al pianoforte 2009

 Alla funzionalità di un tale processo orfico-metamorfico, destinato al sottile succo dell’ebbrezza della metempsicosi, contribuiscono le più impensate contaminazioni, gli accostamenti mitopoietici più audaci, le plasmabilità della creta compositiva: fino ad estrarne figurazioni ed immagini nuove, miste ed icastiche: l’esito è d’uno splendido ibridismo delle forme. Ecco allora il “seme del tuo pube di seta/ innalzato a ostensorio/ il tuo ventremuschio rovesciato /in filigranavene di luce/ per i figli che nasceranno/nei silenzi dei nuovi pianeti.” E poi: “l’autoritratto è un efebo/per i languori di saffo ed i corrucci di michelangelo.” Ora è l’androgino: “ha mani di rebus intrico di spazi/ha il tuo culo di gioia irrispettabile/che spiega i paradossi/della gravitazione oscillante.” Ora appare “l’amico cogitans/ maitre à penser della contrada/fons bandusiae” il quale “vede Orazio scendere dai fianchi/d’una lucida mula di massari.”     Ecco   poi riaffiorare le figure torbide  e  insanate  del Mito greco:  da Medea a Edipo, da Elena alle Arpie, al Minotauro: “antropofaghi sputi del peccato.” E il corpo di chi quei miti ha sempre vissuto, “il mio corpo di giunco vecchio/ attraversato da meteore.” Infine, l’epifania d’un “gigante guerriero/ venuto ad inseminare la mente/ d’un branco di scimmie prensili.”

ritratto femminile di Giuseppe Pedota inizi anni Settanta

ritratto femminile di Giuseppe Pedota inizi anni Settanta

 E mi si passi questa serie di estrapolazioni necessariamente riduttiva, ma non accidentale, atta com’è a dimostrare che, in definitiva, la dimensione spazio-temporale, anzi spazio-atemporale, in cui muove la poesia di Pedota è quella del simbolismo, per meglio dire: d’un neosimbolismo e contenutistico e formale. La concezione orfica di cui s’è detto  – e che niente concede a forme di epigonismo di maniera –  ha al centro l’evocazione, la necessità cioè di fermare nel moto ciclico dell’eterno ritorno, nuove sembianze e nuove prospettive: ma perché ciò sia possibile, perché cioè lo spessore della suggestione sia colto nella sua forma più elevata e più astratta, s’impone un uso prepotentemente connotativo della parola, un supplemento di immagini, al di la del valore semantico-lessicale suo proprio, sia sul piano analogico sia su quello fonico e, soprattutto, cromatico. Questo è un punto focale. Il maestro di pittura Pedota fa del cromatismo verbale uno degli elementi fondamentali del suo metabolismo metamorfico. Il pittore poiètes inventa, attizza, metaforizza e rassembla: in lui è vivissimo il gusto della sciarada come neologismo: termini come “orosalmastro, ambraviola, ditapiume, falloseme, ventremuschio” hanno una loro autonomia plurisensoriale, venendo a soddisfare, fra l’altro, la sintesi di quel processo di sinestesia (per cui un senso s’innesta nell’altro) che è uno dei cardini della costruzione simbolista.

Giuseppe Pedota anni Novanta

Giuseppe Pedota anni Novanta

 In Pedota tutto è pulsione, ricerca e distinzione: tutto è, grecamente, istorìa: indagine, visione, esplorazione oltre i limiti del sensibile e del visibile: pur all’interno d’un disegno formale che non esula dalla filigrana della tradizione: basti considerare l’unità di base metrico-ritmica che resta pur sempre l’endecasillabo, ma si tratta d’una levigatezza, d’una morbidità accesa, stupita di sé e di un mondo e di un tempo che non hanno confini, solo avvicendamento di “più futuri/innumerabili… dove l’alfa si tocca con l’omega.”

In questo contesto, l’endecasillabo espanso in enjambement, l’isolamento della parola, l’andamento ossimorico teso a saldare gli opposti, giocano un ruolo basilare, direi cardinale, giacchè il moto che prevale è quello dell’altitudine o, se preferite, della perlustrazione delle profondità, ora stellari interplanetarie siderali, ora terrestri ctonie magmatiche. N’è collante, ripeto, il cromatismo verbale: punto di congiunzione e sutura fra, ad esempio, il Sud della Lucania, il sud lucano, e una stella antelucana (la radice è sempre quella: lux, lucis), un pianeta “dai solo blu”, dove, attenzione alla fulminazione michelangiolesca, “dove/ un laser di pensiero/è una nostra vita di parole.” La scommessa è rischiosa, lo sappiamo, ma l’esito è non di rado sorprendente. La poesia di Pedota è un quasar di sorprese. Inventa soluzioni o riscopre movimenti di una bellezza assurda totale esaustiva. Si legga l’ungarettiana “Mater”, un respiro purissimo della memoria e della pietas, in cui la contrapposizione è il saldo di due esistenze: un saldo risaltato, reso altorilievo da uno splendido chiarismo: i “sublimi fallimenti”del figlio, cui si contrappongono le “fedi ostinate”della madre.

C’è infine un aspetto di questa poesia che non va trascurato. Ed è la vis polemica, il propellente morale, l’ethos, a proposito di ciò che la poesia e il mondo delle lettere non dovrebbero, anzi non devono essere. La critica allora diviene sferzante: “se ne andranno i servi che si dimisero/ dalla categoria dell’uomo… chi imprigionò i poeti/ chi non volle vedere l’invisibile”. Orfismo, dunque, è anche immanenza, necessità di fare i conti con la storia, con le sue brutture, con le sue deviazioni. E nulla pare offenda    più    Pedota     dell’andazzo    corrente    del decadimento culturale degli ultimi decenni. Ancora una volta il vero artista, e Pedota è un vero artista, dà per implicito il rischio dell’impresa, dove impresa e rischio codificano la necessità di una nuova arte, comunque elitaria. Il poeta questo lo sa, ad altri il compito di affrancarsi, di leggere, d’inchiodare al loro vero bassissimo rango i falsi poeti e i falsi profeti.

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Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

 Pedota è un iniziatore di avventure, di nuove stagioni e viaggi, di ricognizioni nei buchi misterici del tempo: è un iniziato del cosmo, non meno che della zolla e del sangue. Né forse è un caso che l’anagramma di PEDOTA è ADEPTO o, ad essere più sottili, togliendo da ADEPTO la “D” di Delirio, resta AEPTO, il cui anagramma, guarda caso, è POETA. Ora, chi crede a queste numerologie combinatorie, resti soddisfatto, chi non ci crede, sia quanto meno incuriosito o presti attenzione e riguardo alla preziosità di un’opera come Equazione dell’infinito. Un’opera che si ascrive a pieno titolo (ed è un titolo esteticamente vertiginoso), si badi bene, non nel presente, un presente ancora malversato e nebuloso, ma nel futuro, nel futuro prossimo, quello costruito dall’istorìa del verso.

(Giuseppe Elio Ligotti)

 

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Giuseppe Pedota, L’universo acronico, ani Novanta

da Equazione dell’infinito, 1996

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?

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Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

IV

ed ora che traslata la tua forma
e lunare innocenza
hai superato l’ultimo confino
dove hai scienza del nostro paradosso

sai perché le cento teste dell’idra
furie dell’ombra attraversarono
il grande enigma delle nostre vite
e del mondo

perché dopo l’abbaglio delirante
di più soli immortali
in un’alba porgesti a me il sudario
del fratello
con lo stupore di tutte le madri
cui in quel tempo rovente in un crogiolo
di fumo si strapparono quaranta
milioni di figli

ora tu sai perché sedevo sempre
su orli d’universo e ad ogni balzo
non s’esauriva ancora la mia sete
e ancora… e ancora

V

e poi ti raccontai gli occhi di Luis
d’arcobaleno sceso nei recessi
degli oceani e dei vuoti siderali

occhi che soli hanno percorso
il mio stellare labirinto

ti raccontavo i viaggi da mutante
tra città dagli acùmini di diaspro
non abitate
ma impregnate da abitatori-luce

con scale che salivano a volute
arditissime al nulla interrompendosi

come accade
ai percorsi-pensiero degli umani quando
dopo gli arditi giri del troppo chiedersi
sperdendosi sull’improvviso balzo
della rarefazione d’assoluto
dell’acuto abbisognano d’un volo

VI

de profundis ti chiama questa chiara
tristezza e già un disincarnato alto
canto mi porta ai nostri
campi dello splendore

le mie ali si chiusero a uno spazio
d’attesa appena
stanche

creature ho amato senza le radici
che il dolore esorcizzano
con incensi d’abiura
alla vita e gioie
d’atarassia

ancora molte teste di quell’idra
miti d’alterità aberrante
a intelligere nostro evolutivo

VII

per quei lampi comete-apparizioni
che danno il senso e il conto
di viverci fluttuati dalle stelle

per quei percorsi curvi d’occhi chiari
levitanti alle estreme
regioni della mente

e all’immisura
delle nostre stagioni capovolte
nell’incommensurabile

questo è il dono maturo delle nostre
storie che finalmente
coincidono elidendosi in un punto
essenziale

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Giuseppe Pedota, stella segreta, anni Novanta

 

 

 

 

 

stella segreta

o mia stella segreta come l’ombra
dell’altra luna
se le finzioni del cuore preservassero
dalle comete amare
io tramerei un bozzolo di luce
per incontaminarti
e appannerei il mio specchio con un alito
di senno

ma il mio riflesso è un tempo
che si diverge in più futuri
innumerabili

le ragioni segrete
che dipanarono i tortuosi
sentieri del minotauro
assaltano il mio labirinto
dove l’alfa si tocca con l’omega

 

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POESIE SCELTE da “Lezione all’aperto” di Alfonso Berardinelli (1978) Commento di Sandra Petrignani e una intervista ad Alfonso Berardinelli del 1979

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alfonso berardinelli

Quando Alfonso Berardinelli, critico e saggista tra i più noti, scriveva poesia, in questo caso intorno agli anni 70, un poeta quindi giovane di cui Marco Forti, in una nota del ’78, scriveva: “Non c’è dubbio che l’interscambio fra il critico e il poeta nel trentacinquenne Berardinelli sia molto forte. La sua poesia si trova a nascere nel punto di un complesso e personale incontro fra un attento adeguamento critico e culturale-generazionale del suo autore, la sua presa di coscienza non soltanto letteraria di un complesso tempo di transizione, e la capacità del poeta di coglierne una metafora subito matura, in forme chiuse e programmaticamente non periture. (…) La sua poesia — almeno a quanto noi la conosciamo — ha cominciato a formarsi e aggregarsi dopo la rottura «novissima» dei primi anni ’60, dalla quale il nostro autore si è subito staccato mostrando il bisogno di operare al livello di una scrittura che egli vuole personale, nutrita culturalmente, di un discorso che si vuole funzionale e esatto, e non mai semplicemente ideologico o illustrativo di un messaggio troppo scoperto e non sufficientemente elaborato. La poesia di Berardinelli, infatti, stabilite le sue distanze dal linguaggio di crisi novecentesca della prima metà del secolo, o anche da quello più immediatamente prossimo delle neoavanguardie, sembra semmai ricollegarsi al rigorismo etico e  all’allegorismo dei Vociani, riconquistati tramite la gnomica e la pedagogia in verso di Fortini e la sperimentazione non solo verbale-letteraria degli scrittori di « Officina », fino a trovare e configurare, nella realtà di oggi, un suo universo deietto, massificato e come congelato nel tardo capitalismo, di fronte a cui chi scrive ha una presa di coscienza politica, che somiglia, peraltro, molto anche a una lotta espressiva, e a un agone mistico religioso.(…)”.

alfonso berardinelliAl di là delle parole di Forti, che lo stesso successivo lavoro critico e polemico di Berardinelli datano inequivocabilmente, è interessante gettare uno sguardo sulla scrittura poetica di quegli anni del nostro. E cercare di immaginare che cosa scriverebbe del Berardinelli poeta di allora il Berardinelli critico di oggi.

Sandra Petrignani (Il Messaggero”, s.d. ma estate 1979)

 alfonso berardinelli 4Presentato nell’Almanacco dello Specchio del ’78 da Marco Forti come «scrittore vivacemente controcorrente» Alfonso Berardinelli ha ora pubblicato il suo primo volume di poesia, Lezione all’aperto, con Mondadori. Il suo nome è già noto nel campo della scrittura critica per una monografia su Franco Fortini del ’73 [Alfonso Berardinelli, “Franco Fortini”, Il Castoro-La Nuova Italia, n. 78, giugno 1973, pp. 177, L. 2.000 gdc, già allora “seguiva”… Franco Fortini…] e per aver curato, insieme a Franco Cordelli, un’antologia di giovani poeti, Il pubblico della poesia, nel ’75 [Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli, “Il pubblico della poesia”, Lerici, Cosenza, pp. 307, L. 4.500. A. Berardinelli firmava l’introduzione, Effetti di deriva, pp. 7-29, F. Cordelli lo schedario, pp. 279-307 gdc], in cui per la prima volta si dava una sistemazione alla generazione poetica del periodo immediatamente successivo agli anni della neo-avanguardia.
La «lezione» che ora Berardinelli dà con il suo libro è quella di un verso costruito direttamente sul reale, contro la «letterarietà», per la contaminazione col grande testo della vita, che nella metafora biblica è quello della natura. «Scruta l’occhio della scimmia», «Guarda il sonno dei cani», «Prova a guardare, a vedere. / Smetti di leggere: guarda!», così suonano i suoi versi, semplicemente dichiarativi, spesso durissimi, gelati e raggelanti nella loro perentorietà. Controcorrente, quindi, come chi oggi riesce in tanto disseminarsi e non-essere di altri poeti ad affermare un io-positivo, anche se assente e tutto concentrato in uno sguardo. E lo sguardo è da una parte innocente (è il bambino che «guarda» che scopre le cose per la prima volta), ma anche sacralmente onnisciente (chi se non il Poeta è in grado di «vedere» e perciò di «rivelare»?).
Vecchia tecnica dell’arte lo straniamento sorregge tutta la costruzione poetica di Berardinelli; il suo è un occhio moderno, un teleobiettivo, capace di ingrandire mille volte l’oggetto, di sorprenderlo e isolarlo da lontano, d’avvicinarlo tanto da coglierne il particolare, la venatura, la ruga, il poro («Dove vanno le sue cancellabili / macchie, i suoi pori?…»).
Ma in tanto osservare e sezionare l’oggetto ci si dimentica del soggetto, che rimane prudentemente acquattato, nascosto nel luogo privilegiato di chi guarda senza farsi guardare. Berardinelli assomiglia, naturalmente, ai suoi versi. Parla guardando un punto lontano, distante. Sfugge al registratore, preferendo affidare le sue risposte alla pagina scritta. É un poeta preciso, pignolo, che non rivela i suoi sogni e che non dimentica di essere anche un professore (insegna Storia della Critica Letteraria all’Università di Calabria).

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

– Cosa è cambiato dal «Pubblico della poesia» a oggi nel panorama poetico italiano?

«Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti».

– Il processo di dissoluzione della figura dell’autore che ipotizzavi quattro anni fa sembra oggi non avere riscontro nel successo di pubblico che hanno le letture pubbliche di poesia. Si può dunque credere che quell’amputata circolarità scrivente-scritore si sia ora ricostruita?

«Assolutamente no. L’autore continua a non essere riconosciuto dal nuovo pubblico: incontra agressività, sordità, diffidenza. Ma forse proprio per questo i giovani autori relativamente affermati hanno cominciato a darsi un gran da fare, temono di perdere la loro buona occasione, hanno paura che passino troppi anni senza che intorno a loro si sia stabilito il loro ruolo, la loro immagine sociale. Il fatto è che non può obiettivamente stabilirsi. Perché un autore, una generazione di autori, indipendentemente dalla qualità di quello che scrive, abbia un’identità storica, uno spazio, un riconoscimento, è necessario che la società  stabilizzi la propria figura complessiva, organizzi con un minimo di stabilità i propri ambiti e settori di attività e di vita, proietti di fronte a sé una qualche prospettiva. Tutto questo in Italia non avviene».

alfonso berardinelli 3 Non ti sembra che la tendenza a «teatralizzare» la poesia, la tendenza del poeta ad affrontare fisicamente il pubblico risponda a un preciso progetto,«democratico», di diffusione della poesia, una sorta di promozione pubblicitaria?

«Sì, ma non la condivido, perché non serve che alla moltiplicazione giornalistico-mitologica di quello che è avvenuto, rito di puro cannibalismo. Né la poesia si è venduta di più perché le platee erano affollate: i piccoli editori lo sanno bene. Tra bassa mitologia e distruttività molte delle manifestazioni poetiche di impianto grosso modo teatrale si fondano sul presupposto che la presenza e il gesto sono tutto, la lettura e il testo nulla. Ma il testo poetico, lo si voglia o no, è costruito in modo da richiedere per sé una focalizzazione, un supplemento speciale di attenzione. Certo questa può essere considerata, rispetto a altri tipi di discorso, una bella pretesa antidemocratica…».

– Niente più letture pubbliche allora…?

«Non dico questo. Ma si deve garantire alla lettura lo stesso grado di concentrazione adeguata alla concentrazione di senso presente in quello che si legge o si ascolta. Perché scrivere poesia se non per dare densità a messaggi non rapidamente usurabili e consumabili, se non per dare intensità e durata a quello che si dice, sfidando in qualche modo le distanze di spazio e tempo? Memoria, ripetizione, ritualità sono caratteristiche difficilmente sottraibili alla poesia».

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

– Parliamo un attimo del tuo libro e delle tue tendenze poetiche

«Lezione all’aperto» è per me il libro di un decennio, il ’68-’78, con molte cose che questo decennio implicava. Le mie poesie le pensavo e scrivevo all’interno di un sistema culturale in cui la tradizione di quella che era la Nuova Sinistra aveva un peso più che rilevante, un peso fondamentale… Insomma io a vent’anni ho preso terribilmente sul serio le cose che a proposito della letteratura dicevano Fortini, Asor Rosa, Enzensberger con tutte le implicazioni e i precedenti: da Brecht a Lu Xun a Adorno. Insomma una tendenza è quella della concentrazione e riduzione all’osso, ma accanto a una tendenza del tutto opposta: quella della descrizione, dell’accumulo, dell’apertura enumerativa, perfino».

– Benn, Williams, Vallejo, Auden, Ponge i tuoi autori preferiti: ne dimentico qualcuno?

«Una mia recente scoperta, scoperta della sua grandezza, intendo dire, è Ingeborg Bachmann: qualcosa di eccezionale di cui mi sembra non ci si è resi del tutto conto. La Bachmann è in assoluto uno dei massimi poeti del ’900».

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

Odio Roma e la Dolce Vita di Alfonso Berardinelli

Uscito sul Foglio

Che cos’è Roma? Ci sono nato, da genitori nati a Roma, e sono cresciuto a Testaccio. Ma non ho mai capito cos’era questa città. Non mi è mai piaciuta, l’ho sempre rifiutata, da bambino mi sembrava che avesse un odore di sacrestia e di latrina. Ho studiato dai Salesiani fino a tredici anni, la vita personale dei preti mi incuriosiva, mi chiedevo in che cosa credevano loro, in che cosa dovevamo credere noi, se nella messa del mattino o nei film western e nei tornei di calcio con cui ci tenevano occupati di pomeriggio. Perfino con un gigante letterario come Gioachino Belli ho difficoltà. Mi piace leggerlo a voce alta a qualcuno, ma dopo la lettura mi sento letterariamente euforico e moralmente abbattuto. Posso essere fiero del fatto che Roma abbia prodotto un attore come Ettore Petrolini, ma sento che la sua comicità, la sua nausea di sé, è una scorante malattia che nessuno ha mai eliminato dall’aria di Roma. Perciò sopporto male i fanatici della bellezza di Roma, soprattutto se non sono romani. Li considero esteti e guardoni, ciechi alla tristezza, alla metafisica barbarie, al “delirio d’immobilità” che la città trasmette a chi ci nasce. Roma è un mito e un problema? O è semplicemente un luogo meraviglioso e irresistibile?

 la grande bellezza gambe-e-tacchi-a-spillo

 

da Lezione all’aperto

Smetti di leggere: guarda!
P. Celan

1
Ancora una primavera opaca
coperta da una nebbia verde
propizia come una macchia di foglie
affondata nel buio, carica, repellente.

Una schiuma di luce sotto la cute
astratta e rovente come un’ustione.

La suppurazione cieca dei biancospini
bianco su bianco, verde e grigio
appena un filo, un indizio
un’esuberanza, una nuvola.

Anche qui macchie di mandorli
file di nocciòli nella nebbia
biancastri, senza dolcezza
tra una stagione e l’altra, in dormiveglia.

.
2
Qui mucchi di sabbia, crepe.
Niente che suggerisca ricomposizioni.
Raramente una striscia di gelo.
Una costa assiderata.
Una cauta evenienza di vita.

Barriere di nuvole, schermi.
Conifere e licheni. Visibili così,
da qualunque lato, dovunque.

Una frana di foglie. Umidità, riflussi.
Rami di fibra dolce.
Appena foga di parole o altro.

Contrazioni e spasmi,
fenditure di ali e zampe,
sfinteri e pinne avviati alla fine.
Tutto ciò che l’apparenza risparmia.

«Qui non donna, né uomo, né fanciullo,
né uccello, né vespa, né cane,
né conca d’acqua, né fronda. »

alfonso berardinelli foto di dino ignani

alfonso berardinelli foto di dino ignani

3
Approssimazioni: rampicanti e piumini.
Sughera, carrubo, siliquastro,
vite vinifera, albero di Giuda.

L’arenaria rossa cementata
da ossido di ferro.
L’arenaria stratificata e conglomerata:
chi lo direbbe? una chioma rossa
pettinata da molte mani.

La graminacea ammofila:
spudorata, sfrontata, a fiocchi.

La graminacea piena di speranze prossime.
La graminacea accanto all’osso, cupa.

.
4
Scruta l’occhio della scimmia,
osserva il giallo quasi-umano,
il gesto pigro e svelto.

Ricorda il salto, il pelo grigio,
l’unghia nera e lunga,
l’inquieta e sospettosa calma.

La fronte è un’acuta lingua.
La coda è animata e tesa.
Il corpo è una molla equamente caricata da Dio.

Guarda il sonno dei cani,
il loro scuro giaciglio.
L’arcaico stile di vita che li governa.

L’occhio loro non ha ruotato
lungo tutti i perimetri.
La lìngua loro non immagina niente.

E tutto questo non è un travestimento.
Prova a guardare, a vedere.
Smetti di leggere: guarda!

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

5
Un giardino nella sfera del giorno.
Il pelo caldo del lama mansueto. La scimmia
alla catena. Ma, oh guarda

il mostruoso lungo pelo fulvo
dell’orango coricato dietro lo spesso vetro!
Guarda il fango nero in cui nuota e scava

il muso del cinghiale! L’odore asprigno
delle capre nomadi, il tapiro dalla gualdrappa,
il contegnoso volto del cammello caccoloso e sgonfio!

Qui il cervo non esibisce né usa il mistico rameggio.
La poiana medita e sdegna.
L’avvoltoio è un vecchio nobile sanguinario in pensione.

Solo la scimmia è abbastanza cinica da fregare
il padrone e il prossimo. Eppure urla e piange
come un neonato o un vecchio, oltre ogni ragione.

Bello è il ghepardo, e il giaguaro:
hanno freddo e odio dentro le lussuose pellicce,
tengono in serbo muscoli inutili per lottare

e vincere, navigano in sogno nei deserti di roccia
o di neve, a pesca e a caccia lungo steppe e fiumi montani.
Questo pasto di vermi non li appaga.

Ma voi,
fenicotteri rosa in sonno, miti bramini,
perché non lasciate la sporca pozza,

perché non volate all’improvviso a Dio?

.
6
È qui, è presente
con la faccia rugosa del suo legno.
Si concentra in tondi nodi,

stabilisce con sagacia il suo limite.
Si allunga senza esitare, mostra
per un momento il proprio essere in fuga.

Dove vanno le sue cancellabili
macchie, i suoi pori? Dove accade
la sua lenta maturazione di oggetto?

Il tornio ha lavorato le sue vertebre.
Senza muoversi aspira al soffitto,
si dispone in lungo e in largo

occupando uno spazio considerevole.
Ma fa dormire su di sé
altre fraterne cose.

Non scioglie i propri né gli altrui
confini. Tiene conto di processi e di
contraddizioni. Ha il suo occhio

e la sua volontà. Ha
la sua storia, ma anche il suo sonno.

.
7
Arrendevoli alberi e arbusti,
lucidi nella loro carta, ma dentro opachi.
Curvi e pendenti ma soddisfatti come sessi.

O mossi e protesi, a spigoli.
Ben collegati al tepore dei loro canali.
Di superfici erette e tese. Esplosi.

Eppure ben difesi dentro le maglie dure
del guscio. Si versano senza avarizia.
La luce che assorbono va lungo strali e arti.

Si macchiano di rosso, se necessario.
O escono dalla propria levigata pelle
in spine e foglie. Divisi. Si aggregano

e danno frutti o difese. Si gonfiano
in serbatoi di alimento e di sonno.
Piovono giù. Allontanano l’acqua dal sughero.

Organizzano dischi sovrapposti, eliche
dure. Bacche o pigre trombe. Pomi di folta luce.
Si negano e si mediano.

Crescono.

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POESIE SCELTE di Dylan Thomas La poesia negli anni ’40 in Gran Bretagna: Dylan Thomas (1914-1953) traduzione di Roberto Sanesi e nota introduttiva di Patrizia Pallotta

dylan thomas 1941

dylan thomas 1941

 L’aspetto più vistoso della poesia inglese degli anni quaranta lo si scopre agevolmente leggendo la poesia di Dylan Thomas (1914-953). Viaggiando sulla scia  dell’eredità che il grande Wystan Hugh Auden aveva lasciato, i poeti della generazione seguente come Robert Graves, Louis MacNeice e altri, svilupparono l’ideale iconoclastico della semplicità e del realismo per dare vita ad uno stile prettamente derivativo.

Dylan Thomas è stato il poeta più rappresentativo di questo periodo. Il poeta che rompe gli schemi. Nato a Swansea, nel Galles, Dylan Thomas abbandona presto gli studi formali per dedicarsi al giornalismo. Solo qualche anno dopo inizia a scrivere poesie. Nel 1943 diventa subito famoso con la prima raccolta  dal titolo Diciotto Poesie, dove lo scrittore- poeta riesce a fondere lo stile musicale e romantico con  i temi mistici della natura  e con quelli psicologici e sessuali.

Dylan Thomas

Dylan Thomas

A Londra, dove si trasferisce viene accolto come una vera e propria “celebrità” e dichiarato dagli amanti della poesia come “un profeta” coraggioso e realista insieme. Il “personaggio” Dylan Thomas è passato  alla storia letteraria come la figura del ribelle romantico, sebbene i suoi scritti fossero, talvolta, criticati aspramente. Fra i pregi maggiori  del poeta, si ricorda la reintroduzione della recitazione tradizionale delle poesie attraverso la lettura  orale dei componimenti nei caffè e nei cabarets. La realizzazione dei vari tour inizia in America. Egli stesso recita le sue liriche durante i readings, la sua voce suadente dal pieno accento gallese, ricca di espressioni e cadenze musicali, rendeva incisivo ogni verso, conferendogli una accentuata nota di teatralità .

Per Thomas il potere della natura costituisce l’unico aggancio fra passato e futuro, l’uomo era parte integrante di questo processo come un rito perpetuo e naturale, le sensazioni umane come speranza, paura, desideri sessuali convergono sempre alle forme e alle coerenze   attraverso  l’identificazione  con madre natura. La sua personale tecnica poetica non seguiva le regole tradizionali,cambiava la punteggiatura, inventava espressioni del genere : “un dolore fa” o “ mare succhiato” che scioccavano il lettore ma nel contempo riuscivano ad affascinare e ad essere trascinanti.

Dylan Thomas

Dylan Thomas

 Stilisticamente Dylan Thomas risente molto dalle tradizioni poetiche gallesi del 1600, avvalendosi di queste  che usò per la creazione dei versi, altro  motivo di proclamazione a “genio originale.” Il suono espresso dalle parole era parte integrante della sua poetica, era solito usare le tecniche dell’allitterazione e dell’anafora in modo sorprendente. L’abilità stilistica lo porta a creare  significati linguistici fuori da ogni schema  usuale e tipico di quel tempo. L’immaginazione per Thomas fu di estrema importanza, usava mischiare immagini di natura biblica, con quelle di origine freudiana.

dylan thomas

dylan thomas

 Nel poema “Fern Hill”, nome della fattoria dove la zia di Thomas viveva, il poeta adolescente si sentiva un principe e la sua sfrenata fantasia lo conduceva verso la voglia di libertà e la possibilità invincibile di giocare nei campi e di stare con gli animali. Il contatto diretto con la natura esalta le sue doti di poeta, è solito ripetere suoni e parole ad effetto. Il poeta si cimenta anche nella narrativa, pubblica Ritratto dell’artista come un giovane cane, una raccolta di racconti brevi, pubblicati nel 1940. La vita di Dylan Thomas, termina a soli trentanove anni, vittima dell’abuso di alcolici. Una delle sue poesie più significative e rappresentative del suo stile e della poetica è “Sognai la mia genesi”. Trascrivo qui una famosa dichiarazione di Dylan Thomas sulla propria poesia:

dylan thomas

dylan thomas

 «Spesso lascio che un’immagine “si produca” in me emozionalmente, e quindi applico ad essa quanto posseggo di forza critica e intellettuale – lascio che questa immagine contraddica la prima, già sorta, e che una terza immagine generi dalle altre due insieme una quarta immagine contraddittoria, e lascio quindi che tutte restino in conflitto entro i limiti formali da me imposti… Dall’inevitabile conflitto delle immagini – inevitabile perché appartenente alla natura creativa, ricreativa distruttrice e contraddittoria del centro motivante, cioè del centro della lotta – cerco di pervenire a quella pace momentanea che è una poesia».

(Patrizia Pallotta)

 Sognai la mia genesi

Sognai la mia genesi nel sudore del sonno, bucando
Il guscio rotante, potente come il muscolo
D’un motore sul trapano, inoltrandomi
Nella visione e nel trave del nervo.
Da membra fatte a misura del verme sbarazzato
Dalla carne grinzosa, limato
Da tutti i ferri dell’erba,metallo
Di soli nella notte che gli uomini fonde….

(da Poesie nella stanza)

 

dylan thomas

dylan thomas

 

The force that through the green fuse

The force that through the green fuse drives the flower
Drives my green age; that blasts the roots of trees
Is my destroyer
And I am dumb to tell the crooked rose
My youth is bent by the same wintry fever

The force that drives the water through the rocks
Drives my red blood, that dries the mouthing streams
Turn mine to wax
And I am dumb to mouth unto my veins
How the mountains spring the same mouth sucks.

The hand that whirls the water in the pool
Stirs the quicksand; that ropes the blowing wind
Hauls my shroud sail
And I am dumb to tell the hanging man
How of my clay is made the hangman’s lime.

The lips of time leech to the fountain head
Love drips and gathers, but the fallen blood
Shall calm he sores

And I am dumb to tell a weather’s wind
How time has ticked a heaven round the stars.

And I am dumb to tell the lover’s tomb
How at my sheet goes the same crooked worm.

 

La forza che attraverso il verde càlamo sospinge il fiore

La forza che attraverso il càlamo sospinge il fiore
E’ quella che sospinge la mia verde età;
Quella che spacca le radici agli alberi
E’l la mia distruttrice
E io non ho parole per dire alla rosa incurvata
Che la mia giovinezza è piegata da identica febbre
invernale.

La forza che spinge le acque attraverso le rocce
Spinge il mio rosso sangue;
Quella che le correnti prosciuga alla foce
Le mie trasforma in cera:
E io non ho parole per gridare alle mie venerdì

Che alla sorgente montana la stessa bocca sugge.

La mano che mùlina l’acqua sul fondo dello stagno
Agita sabbie mobili
Quella che allaccia il soffiare del vento
Tende la vela del mio sudario.
E io non ho parole per dire all’impiccato
Che la mia creta è fatta con la calce del carnefice.

Al getto della fonte le labbra del tempo sorseggiano;
L’alore stilla a gocce e si condensa, ma il sangue versato
Addolcirà le piaghe di colei che amo.

E io non ho parole per dire a tutto l’impeto del vento
Come attorno alle stelle il tempo ha scandito un suo cielo.

E sono muto per dire alla tomba di colei che amo
Come lo stesso verme tortuoso si avvia al mio sudario.

dylan thomas

dylan thomas

 

 

 

 

 

 

Vision and prayer

Who
are you
Who is born
in the next room
So loud to my own
That I can hear the womb
Opening and the dark run
Over the ghost and the dropped son
Behind the wall thin as a wren’s bone?
In the birth bloody room unknown
To the burn and turn of time
And the heart print of man
Bows no baptism
But dark alone
Blessing on
The wild
Child

.
Visione e preghiera

Chi
sei tu
Che vieni generato
Nella stanza accanto
Alla mia così rumoroso
Ch’io posso udire il grembo
Aprirsi e il buio scorrere
Sopra il fantasma e il figlio rovesciato
Oltre il muro sottile come un osso di scricciolo?
Nella stanza sanguinosa di nascita ignoto
Al bruciare ed al volgersi del tempo
E all’impronta del cuore dell’uomo
Nessun battesimo si inchina
Ma oscurità soltanto
Porge benedizione
al selvaggio
bimbo.

dylan thomas

dylan thomas

 

This bread I Break

This bread I break was once the oat,
This wine upon a foreign tree
Plunged in its fruit;
man in the day or wind at night
Laid the crops low, broke the grape’s joy.

Once in this wine the summer blood
knocked in the flesh that decked the vine,
Once in this bread
The oat was merry in the wind;
Man broke the sun, pulled the wind down.

This flesh your break, this blood you let
Make desolation in the vein,
Were oat and grape
Born of the sensual root and sap
My wine you drink, my bread you snap.

.
Questo pane che rompo

Questo pane che rompo un tempo fu frumento,
Questo vino su un albero straniero
Nel suo frutto fu immerso;
L’uomo di giorno o il vento nella notte
Gettò a terra le messi, la gioia dell’uva infranse.

Un tempo, in questo vino, il sangue dell’estate
Pulsò nella carne che vestì la vite;
Un tempo, in questo pane
il frumento fu allegro in mezzo al vento;
L’uomo spezzò allora il sole, abbattè allora il vento.

Questa carne che rompete, il sangue a cui lasciate
devastare per le vene, furono
Frumento ed uva, nati
Da radice e da linfa sensuali; voi
Bevete del mio vino, spezzate del mio pane.

.
In my craft or sullen art

In my craft or sullen art
Exercised in the still night
When only the moon rages
And the lovers lie abed
With all their griefs in their arms,
I labour by singing light
Not for ambition or bread
Or the strut and trade of charms
On the ivory stages
But for the common wages
Of their most secret heart.

Not for the proud man apart
From the raging moon I write
On the spindrift pages
Not for the towering dead
With their nightingales and psalms
But for the lovers, their arms
Round the griefs of the ages,
Who pay no praise or wages
Nor heed my craft or art

.
Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa

Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa
Che nella quiete della notte esercito
Quando solo la luna effonde rabbia
E gli amanti si giacciono nel letto
Tenendo fra le braccia ogni dolore,
A una luce che canta mi affatico
E non per ambizione, non per pane,
Né per superbia o traffico di grazie
Su qualche palcoscenico d’avorio,
Ma solo per la paga consueta
Del loro sentimento più segreto.

Non è per il superbo che si apparta
Dalla luna infuriata che io scrivo
Su questa spruzzaglia di pagine,
E non per i defunti che torreggiano
Con i loro usignoli e i loro salmi,
Ma solo per gli amanti che trattengono
Fra le braccia i dolori delle età,
E non offrono lodi né compensi,
Indifferenti al mio mestiere o arte.

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DUE POEMI di Kamau Brathwaite (1930) “La polvere” “Ali di colomba” da Diritti di passaggio, cura e traduzione di Andrea Gazzoni, Roma, Edizioni Ensemble, 2014 (Parte II Prima traduzione in italiano)

capanna

capanna

 Nato nel 1930 a Bridgetown, sull’isola di Barbados, Kamau Brathwaite è non solo un poeta di fama internazionale ma anche uno storico, un critico, un editore e un organizzatore culturale che ha segnato mezzo secolo di letteratura caraibica in lingua inglese (della quale è tra i grandi padri fondatori insieme ad autori come Derek Walcott, George Lamming e Wilson Harris) e di cultura postcoloniale. Emigrato in Inghilterra con una borsa di studio per gli studi universitari, si è formato come storico, e ha scritto importanti saggi sulla creolizzazione della cultura caraibica e sulle sue origini africane. Dopo alcuni anni in Ghana, tornato nei Caraibi pubblica tra 1967 e 1969 la trilogia The Arrivants, composta dal poema della diaspora (Rights of Passage), da quello della riscoperta alla radici (Masks) e da quello del ritorno al Nuovo Mondo (Islands). Fonda il Caribbean Artist Movement ed è uno dei fautori di uno scambio culturale sempre più intenso tra i Caraibi anglofoni, francofoni e ispanofoni. Come poeta e critico Brathwaite difende le ragioni della voce e dell’oralità, radicate nel nation language, l’inglese parlato e creolizzato dalle genti delle isole. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 scrive la seconda trilogia, Ancestors, con Mother Poem, Sun Poem, X/Self.  Sia in poesia che in prose narrative che in saggi critici Brathwaite trasporta la sua sperimentazione sull’oralità dentro alla materialità della scrittura, sviluppando il suo Sycorax Video Style, che produce testi come partiture visive.

isola dei Caraibi

isola dei Caraibi

Composti in questa modalità all’inizio del nuovo millennio, i due volumi di MR (Magical Realism) sono la più grande sintesi del Brathwaite poeta-pensatore-lettore-critico, nonché uno dei più grandi, innovativi e profondi studi di letteratura comparata che si possano oggi leggere. Verso la fine degli anni ‘80 una serie di drammatici avvenimenti personali e collettivi danno inizio a quello che lo stesso Brathwaite ha chiamato il suo “tempo del sale”, che infine lo vede lasciare l’arcipelago e cominciare l’attività di professore di letteratura comparata alla New York University, dove in anni più recenti comincia un “secondo tempo del sale”. Brathwaite ha chiamato culural lynching, “linciaggio culturale” – memore di una storia antica di violenza – l’isolamento e il sabotaggio che lo hanno colpito fino a fargli lasciare il suo posto a New York, in particolare con la sottrazione di materiali dal suo archivio personale, che in mezzo secolo ha raccolto non solo il percorso di un artista e intellettuale ma le testimonianze scritte, orali, visive e materiali di una cultura, quella caraibica, che non ha musei o luoghi che preservino le tracce del suo passato. Piegato dalle fatiche e dalle frustrazioni, Kamau Brathwaite continua a produrre scritti che sconcertano per la loro radianza emotiva, intellettuale e visionaria.

andrea gazzoni

andrea gazzoni

[Per una più completa introduzione al quel grande continuum che è l’opera di KB, rinvio allo “Speciale Kamau Brathwaite” pubblicato sul n.2 della «Rivista dell’Arte», pp. 150-212, corredato di traduzioni di poesie edite ed inedite]:

[I seguenti testi sono tratti da Kamau Brathwaite, Diritti di passaggio, cura e traduzione di Andrea Gazzoni, Roma, Edizioni Ensemble, 2014. Dal tessuto continuo del poema si sono estratte alcune sequenze].

http://www.aliasnetwork.it/pdf_rivistaArte/pdf_N2_marzo2013/N2_marzo2013.pdf ]

Kamau Brathwaite

Kamau Brathwaite

 Kamau Brathwaite "Diritti di passaggio"

The Dust

Evenin’ Miss
Evvy, Miss
Maisie, Miss
Maud. Olive,

how you? How
you, Eveie, chile?
You tek dat Miraculous Bush
fuh de trouble you tell me about?

Hush!
Doan keep so much noise
in de white people shop!

But you tek
it?

Ev’ry night ‘fore uh gets
into bed.

Uh bet-
‘cha you feelin’ less
poorly a’ready!

I int know, Pearlie,
man. Any-
way, the body int dead.

No man, you even lookin’
more hearty!

A’ready?
Then all uh kin say
an’ uh say it agen:
we got to thank God
fuh small mercies.

Amen,
Eveie, chile.
Amen,
Eveie, chile

an’ agen
I say is Amen.

Miss Evvy, uh wants
you to trus’ me half
pung-a flour an’ two
cake o’ soap till
Mundee come wid de will
o’ de Lord.

Write two
cake o’ soap an’ half
pung-a flour in Olive black balance
book fuh me, Maisie muh dear.
An’ Olive—

doan fuhget ‘bout de
biscuit an’ sawlfish
you daughter Marilyn
come here an’ say that you wish
to tek out las’ month!
Mundee Dee Vee, uh settlin’
up ev’ry brass bill an’ pen-
ny that owin’ this shop, Miss
Olive muh dear.

Hey Mary!
You there?
I int see you there
wid you head half hide
in de dark o’ dat crocus bag. How
Darrington mule?

He still sicky-sicky. An’ now
I hear dat de cow
gone down too. It int give no milk
since las’ Tuesdee.

Is de pes-
tilence, man.
Same kind o’ sickness,
like wickedness, man, dis-
favour de yams.

Is true. Bolinjay,
spinach, wither-face cabbage,
muh Caroline Lee an’ the Six Weeks, too;
greens swibble up an’ the little blue
leafs o’ de Red Rock slips gettin’ dry
dry dry.

Is de pes-
tilence, man.
Mister Gilkes say is a test
o’ de times like the nine-
teen fourteen an’ eighteen
war when they burn out ‘e balls
wid dat yellowin’ mustard gas.

An’ if you as’
me, there soon goin’
to be fresh wars an’ rumours
of wars.

But is
true.

Is
the pes-
tilence, man. You
int hear

the silence? Pastor
say las’ night in the Chapel
that the Writin’ Han’ pun the Wall.

But that isn’t all!
you remember that story
Gran’ tell us ‘bout May
dust?

No! What nother fuss
that?

Well it seem that
they have a mountain near hey
that always smokin’ an’ boilin’
like when you belly got bile.

What you sayin’, chile!

But is
true!

Now how you
know! Any-
body live there? You
know any-
body from there who
live out near here?
Besides, where
exactly you say this place is?

That isn’t you biz-
ness! Besides,
is miles an’ miles
from the peace o’ this

place an’ is
always purrin’ an’ pourin’
out smoke. Some say
is in one o’ them islands away

where they language tie-tongue
an’ to hear them speak so
in they St. Lucia patois
is as if they cahn unnerstan’

a single word o’ English.
But uh doan really know. All uh know
is that one day suddenly so
this mountain leggo one brugg-a-lung-go

whole bloody back side
o’ this hill like it blow
off like they blastin’ stones
in the quarry.

Rocks big as you cow pen hois’
in the air as if they was one
set o’ shingles. That noise,
Jesus Christ, mussa rain down

splinter an’ spark
as if it was Con-
federation.

But you int got to call
the Lord name in vain
to make we swallow
this tale! It int nice,

Olive, man!

It is true!
An’ the Lord God
know that uh sorry.

But it black black black
from that mountain back:
in yuh face, in yuh food,

[in yuh eye. In fac’,
Granny say, in de broad
day light, even de white

o’ she skylight went out.
An’ if you hear people shout!
how they can’t find the way

how they isn’t have shelter
can’t pray to no priest or no leader
an’ God gone an’ darken the day!

Gran’ say that even the fowls in the yard
jump back pun they coops when the air
turn grey an’ the cocks start to crow
as if it was foreday mornin’.

It went dark dark dark
as if it was night
an’ uh fright-
en, you know,

when uh hear things so;
is make me wonder an’
pray: ‘cause uh say

to meself: Olive, chile,
you does eat an’ sleep
an’ try to fuhget

some o’ de burdens
you back got to bear;
you does drink, dance

sometimes pun a Sar’dee
night, meet yuh man
an’ if God bless yuh, beget

Yuh does get up, walk ‘bout,
praise God that yuh body
int turnin’ to stone,

an’ that you bubbies still big;
that you got a good
voice that can shout

for heaven to hear
you: int got nothin’ to fear
from no man. You does come

to the shop, stop, talk
little bit, get despatch
an’ go home;

you still got a back that kin dig
in the fields
an’ hoe an’ pull up the weeds

from the peeny brown
square that you callin’ you own;
you int sick an’ you children strong;

ev’ry day you see the sun
rise, the sun
set; God sen’ ev’ry month

a new moon. Dry season
follow wet season again
an’ the green crop follow the rain.

An’ then suddenly so
widdout rhyme
widdout reason

you crops start to die
you can’t even see the sun in the sky;
an’ suddenly so, without rhyme,

without reason, all you hope gone
ev’rything look like it comin’ out wrong.
Why is that? What it mean?

Kamau Brathwaite

Kamau Brathwaite

La polvere

‘Sera Miss
Evvy, Miss
Maisie, Miss
Maud. Come stai

Olive? Come sta
la mia Eveie?
Lo hai preso il Cespuglio dei Miracoli
per il guaio che mi hai detto?

Zitta!
Non far ‘sta cagnara
nella bottega dei bianchi!

Ma allora lo
hai preso?

Tutte le sere prima di
andarmi a letto.

Scom-
metto che ti senti
già meno giù!

Non lo so,
Pearlie mia amica. Com’è
o come non è, non è morto qua il corpo.

No amica mia, sembri anche
più sana!

Di già?
Allora posso dirlo
e lo dico ancora:
ringraziamo Dio
per le sue piccole grazie.

Amen,
Eveie mia.
Amen,
Eveie mia

e io dico
ancora Amen.

Miss Evvy, vorrei
segnare la farina mezza
libbra e il sapone
due pezzi finché non è
lunedì se lo vuole
Nostro Signore.

Scrivi sapone
due pezzi e farina mezza
libbra nel libro nero dei conti
di Olive per me, Maisie mia cara.
E Olive –

non ti scordare i
biscotti e il merluzzo salato
che Marylin tua figlia
è venuta qui e ha detto che vuoi
saldare l’ultimo mese!
Sì lunedì sì ti pago
tutto il malloppo le carte e gli spic-
ci in sospeso in questa bottega, Miss
Olive mia cara.

Ehi Mary!
Sei tu?
Non ti vedevo laggiù
con mezza testa allo scuro
sotto il saccone di iuta. Come sta
il mulo di Darrington?

Malato è malato. E in più
ho sentito che pure la mucca
se ne sta un bel po’ giù. È da martedì
che il latte non c’è.

È la pes-
tilenza, amica mia.
Un tipo di malattia uguale,
come una carogneria, amica, stra-
pazza gli ignami.

Vero. Melanzane,
spinaci, i cavoli a grinze,
Anche le mie patate e i fagioli dell’occhio;
la verdura trapassa e nella fila dei cavoli le foglioline
azzurre sono ormai così secche
secche secche.

È la pes-
tilenza, amica mia.
Il signor Gilkes dice che è una prova
dei tempi come nel quattor-
dici diciotto con la
guerra quando bruciavano le palle
con quel gas mostarda tutto giallo.

E se me lo chiedi
a me, lo so che presto
ci saranno altre guerre e voci
di guerre.

Ma è
vero.

È
la pes-
tilenza, amica mia. Non
lo senti tu

il silenzio? Il Pastore
nella Cappella ieri sera diceva
che è la Mano che scrive sul muro.

Ma non è tutto qui!
ti ricordi la storia
che il nonno diceva, la polvere
a maggio?

No! Che altra
roba è?

Be’ sembra che
c’è una montagna vicino qua
che tutto il tempo bolle e fuma
come quando hai la bile nella pancia.

Cosa dici, cara mia!

Ma è
vero!

E come lo
sai? Là qual-
cuno ci vive? Tu
conosci qual–
cuno da là
che vive quaggiù?
E anche, dove dici
che questo posto è di preciso?

Non sono af-
fari tuoi! E poi,
è miglia e miglia
dalla pace di questo

posto
e tutto frigge e tutto fuma
tutto il tempo. C’è chi dice
che è laggiù in una di quelle isole

dove gli si intorciglia la lingua
e sentirli parlare così
nel loro patois di St. Lucia
è come se non sanno capire

neanche una parola di inglese.
Ma non lo so per davvero. Tutto quello che so
è che un giorno di colpo così
questa montagna ha fatto bum-bum-bum-kabumm

Tutta quella maledetta parte di dietro
di questa collina è come scoppiata
come nella cava che fanno saltare
in aria le pietre.

Rocce grosse come il recinto dove tieni le mucche
buttate su in aria come se erano
un pugno di ghiaia. Quel botto,
Cristo santo, deve aver fatto piovere giù

schegge e scintille
come se fosse la Con-
federazione.

Ma non hai da nominare
il nome di Dio invano
per farcela bere questa
storia. Non va bene,

Olive, cara!

È vero!
E il Signore Iddio
sa che ti dispiace.

Ma che nero nero nero
da dietro di quel monte:
ce l’avevi in faccia, nel mangiare,

negli occhi. Infatti,
dice la nonna, in pieno
giorno anche il bianco

della sua finestrella si è spento.
E se senti la gente che grida!
come fanno a non trovare la strada
come fanno a non avere il riparo
a non pregarlo un prete o un capo
e Dio è andato via e ha fatto scuro quel giorno!

Dice la nonna che anche i polli nell’aia
saltavano sopra le stie quando l’aria
veniva giù grigia e i galli via che cantano
come quando è prima di giorno.

Si faceva scuro scuro scuro
come di notte
e hai pau-
ra, lo sai,

quando senti cose così;
e mi fa meravigliarmi e
mi fa pregare: perché io

mi dico: Olive mia,
tu mangi e poi dormi
e provi a scordarti

qualcuno dei pesi
che ha da portare la schiena;
tu bevi, tu balli

a volte un sabato
sera, incontri il tuo uomo
e con la grazia di Dio fai un figlio

Tu ti alzi, vai in giro.
ringrazi Dio che il tuo corpo
non è ancora di pietra,

e le hai ancora grosse le tette;
che hai una voce
buona a gridare

fino al paradiso per farti
sentire: non hai da aver paura di niente
da nessuno. Te ne vieni

alla bottega, ti fermi, due
chiacchiere, dai il saluto
e vai a casa;

hai una schiena che può ancora scavare
nei campi
e zappare e strappare le erbacce
da quel quadra-
tino di terra che tu chiami il tuo;
non sei malata e hai figli forti;

ogni giorno lo vedi il sole
che s’alza, il sole
che scende; ogni mese Dio manda

una luna nuova. La stagione di secca
viene ancora dopo la stagione di pioggia
e dopo la pioggia viene il verde raccolto.

E poi di colpo così
non c’è rima
non c’è ragione

i tuoi raccolti iniziano a morire
non puoi neanche vedere il sole nel cielo;
e di colpo così, non c’è rima,

non c’è ragione, la tua speranza è finita tutta
ti sembra che tutto va storto.
Perché va così? Che cosa vuol dire?

Kamau Brathwaite

Kamau Brathwaite

Wings of a Dove

Brother Man the Rasta
man, beard full of lichens
brain full of lice
watched the mice
come up through the floor-
boards of his down-
town, shanty-town kitchen,
and smiled. Blessed are the poor
in health, he mumbled,
that they should inherit this
wealth. Blessed are the meek
hearted, he grumbled,
for theirs is this stealth.

Brother Man the Rasta
man, hair full of lichens
head hot as ice
watched the mice
walk into his poor
hole, reached for his peace
and the pipe of his ganja
and smiled how the mice
eyes, hot pumice
pieces, glowed into his room
like ruby, like rhinestone
and suddenly startled like
diamond.

And I
Rastafar-I
in Babylon’s boom
town, crazed by the moon
and the peace of this chalice, I
prophet and singer, scourge
of the gutter, guardian
Trench Town, the Dungle and Young’s
Town, rise and walk through the now silent
streets of affliction, hawk’s eyes
hard with fear, with
affection, and hear my people
cry, my people
shout:

Down down
white
man, con
man, brown
man, down
down full
man, frown-
ing fat
man, that
white black
man that
lives in
the town.

Rise rise
locks-
man, Solo-
man wise
man, rise
rise rise
leh we
laugh
dem, mock
dem, stop
dem, kill
dem an’ go
back back
to the black
man lan’
back back
to Af-
rica.
2
Them doan mean it, yuh know,
them cahn help it
but them clean-face browns in
Babylon town is who I most fear

an’ who fears most I.
Watch de vulture dem a-fly-
in’, hear de crow a-dem crow
see what them money a-buy?

Caw caw caw caw.
Ol’ crow, ol’ crow, cruel ol’
ol’ crow, that’s all them got
to show.

Crow fly flip flop
hip hop
pun de ground; na
feet feel firm

pun de firm stones; na
good pickney born
from de flesh
o’ dem bones;

naw naw naw naw. Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Ernst Paul Klee a cura di Valerio Gaio Pedini traduzioni di Giorgio Manacorda e Ursula Bavaj

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Nota critica di Valerio Gaio Pedini
 Se la poetica di Picasso è un intruglio di colori e di sfumature, quella di Ernst Paul Klee, (Münchenbuchsee, 18 dicembre 1879 – Muralto, 29 giugno 1940),  è l’opposto. Si può dire che la sua poesia, come la sua pittura, è acromatica, asettica, a-significativa; se la poesia di Picasso si forma in un luogo esterno, quella di Klee è sempre più interna, in una formazione «foucaultiana» del soggetto.
Possiamo dunque presentare l’opera di Klee, dicendo che si incornicia in qualcosa che è ben privo di cornice, un foglio bianco o nero, un chiaroscuro del significante, una dimensione protozoica della poesia in chiave generativa, in cui l’evoluzione della poesia sta nel renderla più netta possibile, più  infantilistica e in una visione riduttiva del verso, dove la terminologia viene ridotta a soggetto, verbo e complemento, senza la presenta di attributi, che darebbero un impressione troppo artefatta all’opera, troppo sofistica: più le sfumature sono ridotte, più le immagini sono distinte e più distinta è  la personalità del poeta.
Paul Klee

Paul Klee

 Klee poeta, ergo è poeta proprio nella dimensione del suo disegno: il suo disegno è il suo segno e viceversa. Ed è generatore d’arte proprio nella dimensione di se stesso, in una privazione carnale e passionale, verso ad una meta del tutto metafisica ed astratta: l’opposto, ergo, come ho già potuto constatare, di Picasso, poiché come sostiene Greenberg  nel Saggio Su Klee: “Picasso vede il quadro come un muro, Klee come una pagina”. Se il primo aveva una concezione rinascimentale dell’arte come riempimento di uno spazio, il secondo aveva una concezione dell’arte, oserei dire, «proto orientale»  di svuotamento dello spazio, di risalto dell’acromatismo, che delinea un colore a sé stante, una fusione semiotica tra linguaggio ed immagine.
Ed in tutto questo, il ritrovarsi in sé medesimo nella figura contrastante di Dio: un Prometeo condannato a se stesso, si profila una polemica adorativa, lasciata in una sospensione genetica, in cui l’adorazione è dovuta, ma il rifiuto d’essa fa da cornice contrastante:
(…)
Per i dolori di molti e per i miei
io ti giudico,
per ciò che non hai fatto.
Ti giudica
il tuo figlio migliore,
il tuo spirito più audace,
a te affine eppure
tanto da te diverso.

Paul Klee 4

Ma se la genesi di Klee è acromatica e il colore è soggetto e predicato, in un caso diviene attributo: ed il verde diviene colore della natura, colore materno ed astratto, fisico e metafisico e nell’assunto di questo croma universale un nome s’impasta dinanzi agli occhi: Eveline.
Facile da desumere che la donna sia la figura più similare a Dio, e quindi al cosmo e alla terra, basti pensare alle svariate supposizioni mitiche e antropologiche che la vedono raffigurata come cardine sociale, o basti vedere le famose madri della fertilità neolitiche. Ma, senza andare così lontano nel tempo, la donna in una concezione metafisica, con il dolce stilnovo diviene una fonte di beatitudine, di congiungimento con Dio, un’immagine creatrice. E tornando indietro alla storica greca, la creazione artistica è delle muse, divinità femminili. Ducis in fundo, quell’Eveline astratta, quella donna metafisica, incarna il cosmo e diviene arte: da genesi a genesi. Per questo:

.

Eveline è un sogno verde fra gli alberi, il
sogno di un bambino nudo nella campagna.
Poi mi fu negato di essere felice, quando
arrivai fra gli uomini per non lasciarli più
Una volta mi sono liberato dalla violenza del dolore
e sono fuggito nei campi assolati, abbandonato
al rovente declivio. E ritrovai Eveline, matura
ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate
Adesso lo so. Ma lo intuivo solo quando cantavo.
Siate teneri con i miei doni. Non spaventate
la nudità che cerca sonno.
Paul Klee
Paul Klee
La poesia di Klee assume un moto circolare, che si conchiude da dove inizia e continua in un flusso genetico. È importante e decisivo capire che in Klee vi è un insieme semiologico, tra musicalità, iconismo e letteratura e tutto si traduce nel segno: l’arte diviene una linea, poiché così come un colore può descrivere una scena, una linea la può generare e chiudere.
Ed è strano che sia proprio questa la tendenza del maestro espressionista, è un paradosso che il colore, la sfumatura, l’aggettivo si riduca a verbo, a sostantivo, a vuoto, a chiaroscuro: è un’inversione: se, in altri espressionisti il colore generava il soggetto, con Klee è il soggetto a generare il colore, in una dimensione puramente simbolica. Di contro però si può dire che da qui parte una poetica dell’Io che caratterizzerà tutto il Novecento: dall’ermetismo dell’io sociale, al minimalismo dell’io artistico, fino a chiudersi progressivamente in una disintegrazione dell’io, che diverrà successivamente la chiave del nuovo io anti-individualistico ed anti-sociale.
.
(Poesie tratte da Poesie di Paul Klee, a cura di Giorgio Manacorda, traduzioni di Giorgio Manacorda e Ursula Bavaj; Abscondita; carte d’artisti)
Paul Klee

Paul Klee

 

1915

Dal sottosuolo
sorge la mia stella

dove abita d’inverno la mia volpe?
dove dorme il mio serpente?

.

LINGUA IRRAZIONALE

-E la ragione se ne andò
nella corrente del vino-

1
Una buona pescata è una grande consolazione.

2
L’abiezione cerca anche quest’anno
di scivolarmi dentro.
3
Io devo essere salvato.
Attraverso il successo?

4
Ha occhi o cammina nel sonno
l’ispirazione?
5
Si piegano talvolta per pregare
le mie mani. Ma il ventre
poco sotto digerisce
e il rene filtra l’urina chiara.
6
Amare la musica soprattutto
significa essere infelici.
7
Dodici pesci,
dodici assassini.

(1901)

.

ASINO

il raglio risuona e mi strazia
udite udite che grazia!

Quando tacque l’usignolo
notevole fu il nulla solo.

Cresce sola e isolata
la pianta d’avorio abbandonata.

Pensieri e pensieri si scambia il mare
non c’è più nulla da afferrare.

C’era una volta una cosa
ha chiesto: cosa
contava qualcosa?
da no a niente
nessun ente
comunque oplà
il senso eccolo qua
entrò l’apparenza
dentro la verità
e divenne possibilità.

Paul Klee

Paul Klee

 

UNA SIMILITUDINE

Il sole cova vapori;
i vapori si levano
e combattono contro di lui.

(1899)

.

AD EVELINE

Ti ho promesso di essere
un uomo onesto. Io voglio
sopportare il tuo sguardo. Devo
inginocchiarmi davanti a Dio.
Poi Eveline salvami tu!
Perché non ho nessuno!

Giocavo col veleno
e mi sono avvelenato,
perché ho voluto chiamarmi fuori?
Ma in fondo tenevo troppo
al bene. Maledetta
colpa, forse è maggiore
di quanto pensassi.
Dimenticare lei con te!
Ma prima, se puoi,
mi dovresti perdonare.
Ti saluto in lontananza.

.

ANEDDOTI VERI

Uno
cui nel più grande dolore
cresca una dentatura da belva.

Deve essere una sorta di naufragio,
quando da vecchi
ancora ci si arrabbia per qualcosa.

. (1905)

***

Ridurre!
Vogliamo dire qualcosa
in più della natura e si fa
l’incredibile errore di volerlo dire
con più mezzi invece
che con meno strumenti.

La luce e le forme razionali
sono in lotta, la luce
le mette in movimento,piega
angoli retti,
curva parallele,
costringe i cerchi dentro gli intervalli,
rende l’intervallo attivo.

Da tutto questo l’inesauribile
diversità.

. (1908)

Paul Klee Paesaggio

Paul Klee Paesaggio

La creazione vive
come genesi
sotto la superficie visibile
dell’opera.

A ritroso la vedono
tutti gli intellettuali.

Avanti- nel futuro-
solamente gli artisti.

.

EPIGONO

In me scorre il sangue di un tempo migliore.
Sonnambulo del presente
dipendo da una vecchia patria,
dalla tomba della mia patria.
La terra inghiotte tutto
e il sole del sud non lenisce i miei dolori.

(1902)

Paul Klee, Blue Night 1937

Paul Klee, Blue Night 1937

QUASI UN PROMETEO

Eccomi davanti a te, Giove,
perché ne ho la forza.
Tu mi hai eletto e questo
mi obbliga a te. Sono
saggio abbastanza da pensarti
ovunque, e non cerco
il potente ma il dio buono.
Sento la tua voce dalle nubi:
tu ti tormenti, Prometeo.

Da sempre il tormento è il mio destino
perché sono nato per amare.
Spesso chiedendo e pregando
ho guardato a te: ma invano!

Batta dunque alla tua porta
La grandezza del mio scherno!
E se non basto io,
ti lascio con la tua superbia.
Tu sei grande, è grande
la tua opera. Ma
solo grande all’inizio,
incompiuta.
Un frammento.

Compila!
Allora griderò l’evviva!
Viva lo spazio, la legge
che lo attraversa e misura.
Ma non griderò l’evviva.
Approverò soltanto
l’uomo che lotta.
E il più grande sono io
che lotto con la divinità.

Per i dolori di molti e per i miei
io ti giudico,
per ciò che non hai fatto.
Ti giudica il tuo figlio migliore,
il tuo spirito più audace,
a te affine eppure
tanto da te diverso.

(1901)

.
GUARDANDO UN ALBERO

Gli uccellini sono da invidiare,
evitano
di pensare al tronco e alle radici
beati si dondolano tutto il giorno,
loro che sono leggeri
cantando sull’orlo dei rami.

(1902)

Paul Klee

Paul Klee

Con fiori, io uomo bambino,
voglio incoronare il tuo pallido viso.
Sulle bianche pareti si legge
Che i crisantemi sono vicini.

Le tue fredde labbra hanno bisogno di una lieve febbre,
forse un bacio le difende dall’arsura.

Come sei bella ora, i tuoi colori,
sono solo apparenza di colori.
I miei occhi voraci volevano
raccogliere nuovi fantasmi.

Se morirò brilleranno molli
due fiori notturni nel crepuscolo.

Ai tuoi occhi dolcemente cerchiati
dirò ich glaube e crederò
quel che vedo morendo.

(1902)

 

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

 Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se potete, Rigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicala, Essence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme Liquide, Scenari ignoti e Glocalizzati.

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La letteratura invisibile. Pensieri “a briglia sciolta” di Marco Onofrio sul sistema letterario

labirinto

labirinto

Così recita un passaggio di Treno di panna (1981), il romanzo d’esordio di Andrea De Carlo: «noi siamo racchiusi sotto questa cupola di nevrosi in questo ranch di talenti in attesa che arrivi uno con un lazo a tirarci fuori dal branco e portarci finalmente verso la esposizione totale che ricerchiamo e vorremmo evitare allo stesso tempo». È proprio questa, mi pare, la condizione perpetua in cui si dibattono, mordendo il freno, i talenti invisibili: quelli cioè che non vengono aspersi dal crisma dell’ufficialità, l’unico che garantirebbe loro di essere considerati, di vendere copie dei loro libri e, quindi, di impostare la propria attività letteraria su basi professionali.

escher Labirinto

escher Labirinto

 Il passaggio decisivo che consente a uno scrittore di imporsi finalmente come tale (a prescindere dal successo che ne potrà scaturire) è la pubblicazione con l’editore “di peso”. Medium is the message: se lo stesso identico libro lo stampa e tenta inutilmente di diffonderlo il piccolo editore, ottiene un rilievo mediatico – ma soprattutto un prestigio simbolico – incomparabilmente minore. Il pubblico comune tende a valutare sulla base dell’etichetta, prima ancora di leggere una sola pagina. L’editore importante, insomma, è già una garanzia. La gente pensa pressappoco così: “se lo ha pubblicato X [grande editore] allora vuol dire che il libro vale, e che l’autore è bravo”. E viceversa (in assenza di grande editore): “se Y [autore sconosciuto] è davvero bravo come pretende di essere e di imporsi, perché allora non lo pubblica un grande editore?” Quasi che le singole persone, astratte dalla massa, non avessero un cervello autonomo per pensare, e strumenti critici (sia pur minimi) atti a capire che la pubblicazione con il grande editore non è affatto garanzia di qualità: e anzitutto perché non è la qualità l’unico – ma nemmeno il primo – requisito per cui si viene pubblicati dal grande editore.

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

 Ci sono in realtà tanti giochi nascosti che portano un autore alla ribalta della grande editoria. Oltre all’opportunità commerciale che si fiuta, con sempre minore sicurezza, tra le pagine del dattiloscritto “potenziale bestseller”, c’è tutta una filiera di manovre occulte (segnalazioni, scambi di favori, marchette economiche o politiche) dietro alla stupefacente apparizione di certe “meteore”, che magari non verranno neppure distribuite e, appunto, spariranno nel baleno della loro insignificanza; ma intanto potranno dire di essere scrittori professionisti (e tali verranno ritenuti) perché li ha pubblicati il grande editore. Mi si lasci immaginare, a “briglia sciolta”, una di queste situazioni-tipo: il politico che favorisce e protegge da anni il grande editore ha un’amante, una mediocre poetessa, la quale tuttavia vuole togliersi la soddisfazione di vedersi pubblicata da un marchio editoriale di “peso”, acciocché tutti quelli che conosce, e in primis i “colleghi poeti”, muoiano d’invidia; il politico, così, chiede al grande editore di pubblicarle le poesie, e questi non può dire di no.

Czeslaw Miłosz

Czeslaw Miłosz

 LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Poco male, si dirà: il libro “imposto” entrerà in un catalogo collaterale,  una sorta di “canale b” di pura rappresentanza, sul quale non si punta e non si investe. La classica marchetta “all’italiana”.  La cosa grave, invece, è che, per la mediocre poetessa pubblicata, ce n’è un’altra di valore che – pur avendo proposto le sue poesie – si vedrà rifiutata o, com’è più probabile, completamente ignorata dal grande editore. Perché al grande editore non interessa in primis la qualità delle cose che pubblica, ma il sistema convenzionale di opportunità che si nasconde dietro la loro eventuale pubblicazione. Conta soprattutto chi ti presenta, e in quale alchimia di convenienze sei inserito come oggetto di cooptazione.

Marco Onofrio legge Emporium 2011

Marco Onofrio legge Emporium 2011

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Scrivevo 6 anni fa nel mio Emporium. Poemetto di civile indignazione:

È il classismo e il nepotismo delle logge
sono i muri invalicabili di gomma
il “dimmi chi ti manda, non chi sei”
da cui le camarille, le consorterie
i privilegi ereditari della casta
e la rabbia conseguente di chi urla
“Adesso basta” (…)

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

 Molte istituzioni, in Italia, sono coperture ideologiche per dare penetrali e posti sicuri ai soliti protetti alto-borghesi, o (le briciole) a piccoli diavoli che agiscono a livello di procacciamento elettorale. I fenomeni visibili della cultura ufficiale (università compresa) sono, per lo più, manifestazioni di movimenti e smottamenti invisibili, gestiti da lobbies, aggregazioni occulte e massoniche: centri di spartizione del potere politico/economico che orchestra, senza parer di nulla, le grandi manovre di rappresentanza della letteratura che “conta” (autori affermati, o nuovi ma caldeggiati, sospinti da “ordini di scuderia”, presentati e/o imposti ai grandi editori). La cruda verità è che occorre pescare nell’invisibile per diventare visibili; chi opera onestamente alla luce del sole, confidando solo nella spinta propulsiva delle pagine scritte, resta assolutamente invisibile: anche se pubblica cinquanta libri di valore, anzi, tanto più!

zbigniew herbert

zbigniew herbert

 È in realtà una storia vecchia. La cultura è sempre stata appannaggio dei ceti dominanti, chiamati a formarsi per alimentare, secondo certi criteri di selezione e legittimazione, le classi dirigenti del Paese. Queste sono dunque formate da un corpo sociale omogeneo e tendenzialmente “chiuso”, fondato su un patto di connivenza. La cultura è da sempre il potere invisibile (il “capitale” immateriale: prestigio e rappresentanza) attraverso cui l’élite perpetua la propria posizione e il riconoscimento simbolico dei privilegi di cui gode. Il ricambio generazionale all’interno di questi gruppi chiusi non può permettersi di derogare da una strategia di “cooptazione endogamica”, secondo dinamiche nepotistiche, per cui vengono fatti “entrare” solo i figli del ceto dirigenziale e intellettuale, provenienti da famiglie rappresentative, o comunque agiate, secondo una discendenza patrilineare in grado di garantire la gestione del potere e il mantenimento dello status quo. La cultura è un potere da gestire con cautela e condividere tra sodali fidati, di comprovata e certificata appartenenza.

W.H. Auden

W.H. Auden

 Occorrono “garanzie” per entrare a far parte dei gruppi che, come club esclusivi, si spartiscono questo potere. Garanzie che non risiedono – umanisticamente – nel valore e nel talento dell’individuo, bensì nel livello sociale della famiglia da cui proviene, nella struttura che eventualmente lo sostiene e protegge, nelle segnalazioni che lo precedono, nel potere di scambio che veicola rispetto all’opportunità di proporlo e imporlo alla pubblica attenzione. E il malcapitato talentuoso, privo delle garanzie che contano (ad es. bravissimo scrittore ma di estrazione piccolo-borghese, senza agganci politici, inquietamente “isolato”, forte soltanto delle proprie capacità), verrà fieramente ignorato e, al limite, osteggiato dai gruppi di potere, che vedranno in lui un germe allogeno pericoloso (oltre che un pungolo alla cattiva coscienza del merito mancante) e lo accerchieranno per isolarlo, per farlo sbattere inutilmente e invariabilmente contro i muri di gomma del sistema.

Costantino Kavafis

Costantino Kavafis

 La cultura diventa, così, un luogo simbolico di riproduzione, piuttosto che di promozione e mobilità sociale; sia pur in aperta contraddizione con l’ideologia meritocratica e democratica che, apparentemente, sostanzia il processo di affermazione della borghesia moderna. Si diffonde anzi la prospettiva illusoria di un’accessibilità alle “alte sfere” (niente e nessuno t’impedisce, se vuoi…) nella misura in cui è utile e necessario occultare la realtà oscena di certi meccanismi a doppio fondo. Chiunque, partendo da una posizione allotria, si proponga (capacità e opere alla mano) come se davvero il campo fosse libero e impregiudicato, dovrà poi vedersela con una serie infinita di sbarramenti di ammissione e di iniziazione. Gli individui allogeni sono, su un piano simbolico, “predatori” da bloccare: vengono perciò sottoposti a giri e rigiri logoranti, ore di anticamera, promesse illusorie, indicazioni false o contraddittorie…  nella speranza che desistano, rinuncino, si lascino prendere dallo scoramento. Non è la loro strada, malgrado i meriti eventuali (quanti e quali siano): che tentino altrove, quello deve restare terreno minato, zona off limits.

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

 Ecco il bisogno del mentore: qualcuno già interno al sistema che ti presenti, che ti faccia entrare. Qualcuno che garantisca che sei un “bravo picciotto”, e che una volta entrato ti renderai funzionale alle dinamiche generali, e non darai problemi. Anche Dante ha bisogno di un mentore (Virgilio) per superare gli sbarramenti dell’inferno! I “cavalli pazzi”, cioè gli uomini liberi, confidenti solo nel loro valore e incapaci di prestarsi alle trafile umilianti del vassallaggio, insomma i pochi italiani che ancora credono nel potere dell’autodeterminazione e della meritocrazia, vengono prima o poi accerchiati, isolati e messi all’indice, trascritti segretamente sulla “black list” degli indesiderabili. La “scomunica” li renderà “appestati”, esclusi per sempre da ogni accesso. A costoro non resterà che rinunciare al proprio destino o, come molti fanno, scegliere un Paese meno degenerato. Anche chi denuncia queste cose, violando il patto di omertà, si candida al ruolo di “capro espiatorio”. Tutti gli faranno il vuoto intorno, terrorizzati anche solo di poter lanciare messaggi di condivisione o solidarietà (tanto grande è il condizionamento del sistema). Viene fuori anzi, in questi casi, il solito sciacallo tirapiedi che ne approfitta per fare un po’ di baccano e, aggredendo il capro espiatorio, attirare l’attenzione di chi sta in alto, con la segreta, inutile speranza di guadagnarne la fiducia e riceverne tangibili riconoscimenti.

Mandel'stam a Firenze 1913

Mandel’stam a Firenze 1913

 La più parte dei critici e dei poeti ha, in fondo in fondo, interesse a difendere il proprio sia pur piccolo orticello di prebende e prelazioni, e dunque si esime dal dire apertamente ciò che pensa (ciò che tutti pensano e sanno) per paura di rompere le “uova nel paniere” entro qualche gruppo o gruppuscolo al quale già appartiene o nel quale aspira ad entrare, provocando turbative e/o alienandosi simpatie, nella delicata alchimia di gestione e spartizione dei poteri di rappresentanza. Le dinamiche della “società letteraria” sono a mio parere desolanti: almeno quanto quelle di altri settori della società italiana. Conta sempre meno il riscontro della pagina scritta, il valore intrinseco/oggettivo del lavoro svolto sulle opere (che, peraltro, quasi nessuno legge).

paul celan ingeborg bachmann

paul celan ingeborg bachmann

 Ci sono delle guarentigie sine qua non è impossibile entrare nella casta dell’ufficialità, ma anche essere semplicemente presi sul serio. E si resta pressoché invisibili (come dicevo all’inizio), malgrado i libri scritti e pubblicati, se non c’è nessun potentato politico o massonico o cardinalizio che lavora per imporre il nome dell’autore. O se non c’è uno scrittore affermato che fa da mentore e apre le porte del Tempio. È passato purtroppo questo messaggio: conta più autopromuoversi e, quindi, intessere public relations (presenziare, farsi vedere, farsi conoscere, farsi accettare) che dedicarsi al lavoro vero, sudando sulla pagina per estrarne il meglio che si può. E la crisi della società letteraria riflette quella più generale della società in cui viviamo, nelle sue multiformi radici etiche, politiche, economiche. L’organizzazione dei processi culturali agisce per sopravviventi sacche di feudalesimo, affatto incompatibili con lo sviluppo storico e civile degli ultimi tre secoli. Anche per questo l’Italia, oggi, sembra un Paese senza futuro.

(Marco Onofrio)

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POESIE SCELTE di Ivano Ferrari da “Macello” (2004) a cura di Flavio Almerighi

Medusa Caravaggio

Medusa Caravaggio

 Trent’anni fa ho lavorato con un ragazzo reduce da un’esperienza presso un mattatoio, dove si occupava dell’uccisione del bestiame assieme a un collega. Ha retto pochi mesi, poi ha cercato un altro lavoro, ha preferito il precariato. Macello è un poemetto scaturito dall’esperienza dell’autore, Ivano Ferrari, impiegato per qualche tempo al macello comunale di Mantova. E’ un diario di bordo sull’ambiente e sul posto di lavoro composto tra il 1976 e il 1978, edito da Einaudi nel 2004. Poesia disincantata, imbevuta di realismo, ma non semplice calco della realtà, risposta e metodo di adattamento verso una concretezza scabra e un lavoro duro. Se un carnefice non è particolarmente sadico prima o poi crolla. Di suo, Ferrari aggiunge poesia autentica, trasparente come strumento e scatenante come effetto, impercettibile nel dire e inesorabile a cose dette: poesia che non tralascia tuttavia momenti particolarmente lirici, questi emergono con forza in alcuni dei versi proposti. Poesia che anticipa di decenni la mucca pazza e tante altre deviazioni tipiche del nostro tempo di individualismo senza più individuo. E’ lo stesso Ivano Ferrari ad affermare del resto che:

Escher Maurits Cornelis Drago

Escher Maurits Cornelis Drago

“La poesia ha un’urgenza che non è la tua. Non esce un capolavoro ogni volta che si scrive. Se è una poesia che vale non ha tempo. Quindi secondo me bisogna conciliare l’urgenza della poesia che è latente e spesso dilatata nel tempo con la propria, che imporrebbe di pubblicare all’istante. La distanza spesso paga. Non mi sento invece di dare giudizi sul lavoro degli altri, anche perché la storia della letteratura ci ha lasciato esempi eclatanti di grandi autori che hanno avuto un’esperienza opposta alla mia, penso a Svevo, a Rimbaud. E’ comunque vero che la tribù degli andanti a capo cresce a vista d’occhio. Il rischio è quello di logorare in maniera irreversibile la parola. Il poeta deve essere ostile con il mondo e deve verificare se all’interno della sua poesia è avvenuto il riscatto della parola. Certo la scolarizzazione di massa non ha aiutato questo riscatto.”

(Flavio Almerighi)

Nota

Gli animali, confinati nelle stalle dei macelli, possono solo attendere il loro turno mentre vedono portare via gli altri e sentono la loro sofferenza, i vitelli possono vedere come gli operai sparano agli altri che stanno in fila prima di loro e che cadono per terra davanti ai loro occhi. Terrorizzati, quando la sbarra si alza cercano tutti inutilmente di scappare tornando indietro. Nella trappola di stordimento gli animali scivolano e cadono, e sentono l’odore del sangue degli animali che vengono dissanguati. Dopo lo sparo del proiettile nella loro testa, alcuni animali restano ancora coscienti e provano ad alzarsi disperatamente. I veterinari raccontarono che in varie occasioni alcuni vitelli erano riusciti ad alzarsi e avevano cercato di fuggire correndo verso l’interno del recinto.

Ivano-Ferrari

Ivano-Ferrari

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Ivano Ferrari È nato a Mantova nel 1948 ed ha lavorato nel mattatoio cittadino e per il Palazzo Te. Ha esordito nell’antologia Nuovi poeti italiani 4 (Einaudi 1995). Sempre con Einaudi ha poi pubblicato le raccolte La franca sostanza del degrado (1999), Macello (2004) e La morte moglie (2013). Un altro suo libro di poesie, Rosso epistassi, è stato pubblicato da Effigie nel 2008; con Einaudi ha pubblicato il poemetto Macello all’interno dell’antologia Nuovi poeti italiani.

Ivano Ferrari Macello
Lo stanzino in fondo allo spogliatoio
è detto delle seghe
affisse a tre pareti foto di donne
dalla vagina glabra
nell’altra il manifesto di una vacca
che svela con differenti colori
i suoi tagli prelibati.

*

La mia pelle ripulita e triste
il cuore glabro
il colorito bluastro
bene, io sono quello
che stabilisce la commestibilità
dei vostri miasmatici cibi.
*
Dove nasconderà le lacrime?
Se la domanda pende sul cranio
sfondato di un puledro
sfumo affannando versi
subendo animali e cose.
*
La carne morta rivive
nella sua grande miseria
col vento che riporta gli odori
ad un ordine sparso.
La carne morta è ricamata
da quelle sinuose presenze
che gli altri chiamano larve.
*
È fuggito un toro nero
erra sul cavalcavia
impaurendo il traffico,
lo rincorriamo
impugnando coltelli
bastoni elettrici e birre
corre si ferma torna
arrivano i carabinieri coi mitra,
ora è steso su un velo d’erba
e sussurra qualcosa alle mosche.

Ivano Ferrari

Ivano Ferrari

Quando hanno tolto la luce
la morte si è ricomposta
per apparire subito dopo
più nitida, più vergine.
*
Un lungo, insopportabile ritardo.
poi il rumore dei camion
le urla degli autisti
le ultime preghiere delle bestie.
Ricomincia la vita appaiono le forche
le pistole, le falze, i coltelli.
*
Nella stanza d’attesa
un vitellone chiazzato
e una tornita manzarda
avranno ancora la notte
per annusarsi promesse
da domani eterne.
*
Dalla vasca d’acqua bollente
emerge un enorme maiale
bianco come uno spettro
che oscilla impudico fino a quando
dal finestrone il sole
accende quintali di luce.
*
A qualche centinaio di metri
passata la forma fresca del prato
e dopo case dagli occhi spenti
si trova il cimitero degli umani
dove c’è carne che non sfama.
*
È venerdì santo ma senza
la primaverile viandanza,
già prodiga di resurrezioni
il sangue ancora ghiaccia
riempiendo i fiati di bagliori
e le bestie sono troppo pesanti
per scendere dalla croce.
*
Qualcuno si chiede se io ami
se durante il giorno cerco
o risolvo, se almeno vedo.
Quando guardano le mie labbra
o le mie mani
e più maliziosamente giù, fra le cosce
sento sul corpo le domande
che mi attraversano
come una forca farebbe con la paglia.
Se faccio sanguinare il vento
se trasformo le foglie fredde
in involtini di carne,
se i cavalli bianchi del mio rinascimento
sono esposti sul bancone di una macelleria
non rinuncia alla mia umanità come voi del resto.
*
Tutti in fila | nudi | appena sporchi di letame | attendono la perfezione | balbettando proteste | il più intraprendente sodomizza il compagno davanti | l’urlo che si alza è solo un anticipo | la rivoltella a pressione frena lo scandalo
*
Per i problemi dell’anima
la sala stoccaggio:
coi quarti e le mezzene senza sangue
i cartellini del sesso
l’etichetta di destinazione
la delazione cosciente della bilancia.
Ci si confessa pestando reni di scarto
schegge d’ossa e strati di grasso.
Più liberi, dopo, divoriamo
fettine di carne cruda (dei quarti più belli)
appena un po’ di sale
e tanta devozione.

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DUE POESIE di Claudio Damiani “Quando mi alzai già suonava la musica” “Il cercatore d’oro” sul tema Poesie su personaggi storici mitici o immaginari con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

claudio.damiani

claudio damiani

 

Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovannclaudio damiani Eroii Rotondo. Vive a Roma dall’infanzia.
Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), Il fico sulla fortezza (Fazi, 2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì). Nel 2010 è uscita un’antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010 (Poesie, Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum). Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia(L’Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). E’ stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui principalmente inglese, spagnolo, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane (anche scolastiche) e straniere.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Mi sembra che una delle caratteristiche della poesia di Claudio Damiani sia la capacità di travasare la dimensione onirica nel quotidiano, farne una dimensione unica ed omogenea. Il musicista che non sa di aver scritto la musica, che si meraviglia che gli altri ascoltino estasiati quella musica, non distingue più la dimensione onirica da quella del reale. Analogamente, nella poesia “Il cercatore d’oro”, chi cerca si accorge che all’improvviso, “senza scavare”, tutto gli è dato, che tutto l’oro del mondo è lì perché era lì da sempre e che il più grande rimpianto era un’altra cosa che gli era sfuggita da sempre.
Nella poesia di Damiani il linguaggio sembra già dato e formato lì da sempre, il poeta sembra che dica che c’è sempre un nucleo di senso nella vita, che non è vero che il senso non esiste o che non sia raggiungibile, il senso della vita è qui, con noi, accanto a noi, nell’attimo del quotidiano delle piccole cose; c’è una positività nell’atteggiamento del poeta dinanzi al mondo, c’è un implicito invito a raccogliere, ad ascoltare questo grumo di positività. Mi sembra una sincera dichiarazione di principio di contro alla presunta negatività di chi nega e vuole negare qualsiasi ipotesi di positività per riaffermare sempre di nuovo il nichilismo esistenziale e il nichilismo in poesia. Mi sembra una dichiarazione di speranza, una apertura di credito alla positività. Di qui quella poesia del discorso quieto e pacato, la poesia del racconto del quotidiano, di un «io» debole che narra le sue vicende sentimentali.

claudio damiani foto di dino ignani 1

claudio damiani Sognando-Li-Po-Damiani_3

 

 

 

 

 

 

Quando mi alzai già suonava la musica

Quando mi alzai già suonava la musica,
era una musica che non conoscevo
eppure, essendo mio il sogno,
era una musica che avevo scritto io.
Sì, l’avevo scritta io, ricevevo i complimenti
della gente, gli applausi, scene di delirio,
coppie che piangevano, ricordando il loro amore,
donne già avanti negli anni che mi guardavano estasiate,
sì, l’avevo scritta io, e allora?
Giornalisti mi facevano domande, quali erano le circostanze
della mia vita allorquando composi
questa musica meravigliosa,
se ero stato influenzato da qualche musicista,
se ero innamorato
quando l’avevo scritta, e chi era l’amata,
e già fantasticavano di una donna magra
piccola, che si nascondeva ai fotografi,
mi chiedevano in quanto tempo l’avevo composta
e se col piano, o senza strumenti,
se l’avevo composta nella mia mente.
Sì nella mia mente
– rispondevo – l’ho trovata già fatta
e come l’ho trovata, tale e quale l’ho scritta.
Dissi che non conoscevo la musica, che ero pure stonato
solo portavo un amore smisurato,
i giornalisti non mi volevano credere
e ridevano, poi fui accolto da re
e imperatori, scrissi molte musiche
divenni famoso in tutto il mondo, mi chiamavano ovunque,
ovunque dicevano che per me la musica era risorta,
la grande musica che da tanti anni taceva
era tornata a rifiorire all’improvviso,
i teatri straripavano, ovunque si studiava il canto,
si studiava il pianoforte, il violino
ovunque scuole di musica (la televisione
fu chiusa, perché si disse:
che o la musica la ascolti dal vivo, oppure niente
e che la devi suonare, per capirla).
Si disse anche che la musica ingentilisce
e che la gentilezza è la cosa più importante,
non la felicità, la ricchezza o la fama, il potere
ma la gentilezza era il traguardo di ognuno.
Poi la mia popolarità cominciò a scemare,
a nuovi musicisti volgeva il favore del pubblico,
caddi presto in miseria, come era successo a Vivaldi
che sarebbe stato riscoperto molti anni dopo la morte
per brillare per sempre nel cielo della musica.
Ma di morire dimenticato
non mi dispiaceva,
ero contento di aver fatto rinascere l’arte
e di aver stimolato tanti
all’educazione e allo studio,
ero contento che tutti cantavano, tutti ballavano
ricercando la gentilezza in cuor loro,
questa era una cosa che mi riempiva di gioia.

claudio damiani foto di dino ignani

claudio damiani foto di dino ignani

claudio damiani la miniera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il cercatore d’oro

Quanto ho penato, sai, cara Ketty
quanti anni ho passato in solitudine
a scavare in queste colline, a filtrare
nel mio setaccio interi greti di fiumi,
ora mi vedi sulla mia poltrona
davanti al caminetto, ma quanto ho penato, Ketty.
Vivevo in stamberghe umide, mi nutrivo di bacche,
piccoli roditori, radici, eppure sai, se penso a quei tempi
era una gioia per me, non trovavo l’oro
ma la mia vita era una preghiera,
come con una cannuccia infissa nella terra
suggevo un nettare invisibile, gioia liquida, forza,
come un bicchiere che non avesse fine,
un pozzo senza fondo, e ogni giorno di più
e più prendevo e di più ce n’era ancora.
Poi a un certo punto trovai l’oro, scendendo
in una grotta abbandonata, senza scavare,
senza nessun colpo di pala o piccone
trovai oro a non finire,
divenni ricco, molto ricco, e ora vedi
sono vecchio e mi si avvicina la fine
ma non rimpiango la povertà e la fatica,
non rimpiango la ricchezza e gli agi,
ma non aver conosciuto te bambina, questo rimpiango,
non aver diviso la mia vita con te,
questo rimpiango, ma vedi, ti vedo ora, cresciuta,
accanto a me, davanti al fuoco, a parlare,
cara figlia, e questa è una gioia,
una gioia che non riesco a contenere.

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DUE POEMETTI di Gëzim Hajdari Maldiluna” “Spine nere”  con un Commento di Fulvio Pezzarossa e Andrea Gazzoni

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

 Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio in una azienda per la bonifica del terreno, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

 Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.

Gezim Hajdari sulle colline del villaggio natale

Gezim Hajdari sulle colline del villaggio natale

 La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.

È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia.

Ha pubblicato in Albania: Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte). Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010.

Gezim Hajdari, Siena 2000

Gezim Hajdari, Siena 2000

 Ha pubblicato in Italia in bilingue: Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001; Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013; Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006; Maldiluna/ Dhimbjehëne, Besa, 2005. II edizione Besa 2007; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014; Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012; I canti dei nizam/ Këngët e nizamit (i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012; Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 -Libri reportage di viaggio: San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, 2004; Muzungu, Diario in nero, Besa, 2006 – Libri sull’opera di Hajdari: Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore 2010. La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari, a cura di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble 2014.

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

 Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.

Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

 Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.

Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 È co-curatore in italiano: dell’antologia I canti della vita (con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore 2008. È curatore e co-traduttore (insieme ad Andrea Gazzoni) dell’antologia Dove le parole non si spezzano (con testo originale a fronte) del poeta più importante delle Filippine, Gémino H. Abad, (Edizioni Ensemble 2014).

Gezim Hajdari a Udine 2011

Gezim Hajdari a Udine 2011

Commento di Fulvio Pezzarossa

Parte della totalità

  1. (Gezim Hajdari)

      Poche righe di prefazione devono prima di tutto rilevare l’intelligenza e il coraggio di Andrea Gazzoni nel realizzare un’impresa che ha i tratti dell’eccezione, offrendo il primo volume critico dedicato in Italia ad uno scrittore migrante. La scelta di una riflessione monografica a più voci sull’opera dell’albanese Gëzim Hajdari non risulta casuale, e si lega alla ricca disponibilità di materiali analitici, affiancati da nuove riflessioni, testimoni del vasto uditorio che quei versi hanno saputo ritagliarsi presso studiosi di varie competenze, collocati in una dimensione internazionale a cui naturalmente tendono le complesse significazioni dei suoi testi. Voce sorprendente, tra le prime che in Italia manifestarono i potenziali di novità derivanti dalla creazione letteraria affidata a una lingua e una cultura di casuale accoglienza, Hajdari ha raccolto successi e riconoscimenti delle superbe capacità poetiche lungo un’intensa parabola, che negli anni Novanta l’ha proiettato dai concorsi per migranti indetti da Eks&Tra, al riconoscimento del premio Montale nel 1997, fino a una serie lunghissima di attestazioni. Ma la capacità di mettere a frutto con un’incessante forza creativa i lunghi anni di residenza italiana, che gli ha consentito di offrire alla nostra cultura l’abnegazione rigorosa di raccolte poetiche frequenti e in continuo sviluppo, si è manifestata in proposte di intelligente varianza formale e di genere, che derivano dall’inquieta frequentazione di esperienze e panorami della vita culturale alle periferie dell’Occidente.

Gezim Hajdari e Laura Toppan (docente all'Università di Lorraine-Nancy 2) durante la presentazione della sua antologia Poesie scelte al Centro Internazionale di Lingua e Cultura Italiana a Parigi, 2008

Gezim Hajdari e Laura Toppan (docente all’Università di Lorraine-Nancy 2) durante la presentazione della sua antologia Poesie scelte al Centro Internazionale di Lingua e Cultura Italiana a Parigi, 2008

 Assolutamente estraneo al profilo diffuso di one book man, che alimenta una scrittura a ridosso della bruciante intensità del viaggio e dell’approdo,  trasformando in forza creativa lo spaesamento dell’essere umano ridotto a precario migrante, Hajdari ha costruito una voce assolutamente distinta in una platea crescente di autori che con percorsi spesso similari mirano alla professione letteraria come occasioni di integrazione e di rifiuto di categorie distintive. Il suo tratto singolare è invece costruito entro la fissità di un esperienza esiliaca, proclamata quale condizione esistenziale dell’umanità intera, che diviene punto di forza quando la condizione individuale sa raccordarsi all’incrocio di culture che i secoli hanno stratificato in un piccolo e aspro angolo dei Balcani. L’identità albanese, non rinnegata se non nella dimensione contingente di una cronaca ostile che l’ha reso fuggiasco, costringe di fatto i lettori del nuovo paese, e del più vasto mondo, a ripensare il continuo di esperienze e di scambi che da mezzo millennio intrecciano l’esistenza dei due popoli raffrontati sulle sponde adriatiche, e la profondità degli scambi resistenti alla deformazione dell’immaginario mediatico, fino a cogliere il perdurare di una responsabilità coloniale e fascista non riscattata.

      La trama esistenziale del poeta subisce gli esiti di quella drammatica e inconclusa decolonizzazione, e origina una tensione al riscatto di sé e del proprio popolo che si fa sguardo aperto sui grandi modelli della poesia mondiale, attivando con quella un colloquio diretto entro un’operazione singolare, che concentra quelle suggestioni nello scavo di forme e temi di arcaica misura, da cui si alimenta una poesia all’apparenza elementare, composta da un universo di frammenti e di immagini cariche di potenza evocativa, dove le profonde tensioni dell’animo si materializzano nella vivezza densa di cose e di scene quotidiane senza tempo. Il discorso non pretende una frantumazione indicibile, ma all’opposto vi alimenta la necessità di una resistenza, basilare per la rifondazione di un universo immaginativo a contrasto con la crisi totale che travolge la vita economica, le consuetudini sociali, gli assetti politici, i tratti ambientali, e i riferimenti ostili fra le culture. A fronte della catastrofe, che dalla nazione albanese si proietta su scala globale, l’intellettuale rintraccia nella dimensione locale le radici di una vita nuova, salda sui principi atavici, e che la sua responsabile narrazione propone con forza rigenerativa.

      La complessità di uno sguardo simultaneo tra locale e globale manifesta la reattività della doppia coscienza, e si esprime in una lingua doppia, capace di moltiplicare potenziali espressivi e stimolo a percorsi differenti, necessari a superare l’oscurità di un cupo velo (per rimanere nelle categorie di DuBois) dovunque incombente, che solo la parola disperata sa attraversare. Alla gigantesca ombra, che nell’immediato esprime l’oppressione politica del sistema mondiale, e pretende la poesia asservita e racchiusa in riferimenti canonici, si oppone la forza di un verso che si fa esperienza tangibile, capacità di rendere la sofferenza universale manifesta attraverso il corpo del poeta veggente, sottomesso ad un’operazione sacrificale per consentire la celebrazione di un rito di rinnovamento, al quale sono indispensabili coordinate all’apparenza contraddittorie nell’incrociare fitta presenza delle cose terrene e slancio dell’esperienza mistica del sufismo.

  È su questo corpus poetico, così ricco e sfaccettato nel suo progressivo manifestarsi da aver consentito per primo una ricostruzione antologica di poesie scelte, offerte come sfida continua alle tensioni cruciali fra i due millenni, che risulta possibile aprire percorsi critici tesi a considerare le scritture di migrazione oltre il dato etnico e il portato delle novità tematiche e delle ragioni sociali messe in rilievo, anche nell’ambito italiano, da metodi interpretativi esito degli studi culturali. Pertanto queste pagine saggistiche accostano l’attenzione alle valenze della ricezione con un approccio mirato alla dimensione più strettamente letteraria, linguistica e stilistica, dove la poesia pur sempre attinge la propria forza d’origine, e gli esiti universalmente riconosciuti.

Gezim Hajdari a Filettino 2012

Gezim Hajdari a Filettino 2012

Una forza attiva su un orizzonte totale, che nell’esibire un radicamento nell’immaginario di culture periferiche, riesce nello sforzo di dislocare il centro dell’universo, anche letterario, attraverso un’operazione che mette in scena un io smarrito, non titanico, la coscienza di una piccolezza marginale rispondente a una letteratura minore. Voce marginale e minore, il poeta diviene obiettivo di persecuzioni quando pretende di rompere schemi, quando costringe al dialogo materializzandosi come altro e diverso, quando suggerisce con la propria scrittura vertigini di mondi aperti oltre ogni ristretta barriera e confinazione. Obbligatoriamente Hajdari sceglie i toni e le risorse dell’epica, tipica dei grandi momenti fondativi, per misurarsi a tutto campo con la Storia, che trascina ormai, travalicandole, le frontiere di incoerenti nazioni, inutili fossili su uno scacchiere in cui si manifesta la totalità mondo, secondo Glissant.

      Il poeta si fa allora tessitore di trame ancora fragili, ma proiettate su una messa in forma futura, che può irrobustirsi solo con l’incessante lavoro di ricomposizione dei modi inventivi, divaricati nelle forme scrittorie e nelle lingue, e che vanno alimentati col paziente lavoro per connettere le voci di ogni provenienza, dal vicino Mediterraneo, altrettanto potenti di quelle delle Filippine o dell’Africa. Ma non è contraddittorio aggiungere che nella parabola della creazione poetica albanese, italofona, mondiale di Hajdari si rintracciano anche gli esiti di una sensibilità diacronica, che guarda al filone più aperto della nostra tradizione novecentesca; i debiti riconosciuti verso due interpreti della modernità internazionale quali Saba ed Ungaretti, raccolgono la spinta a fare tesoro degli inesausti potenziali della lingua italiana, evoluta anche attraverso le voci più recenti di coloro che l’hanno incontrata fra le tribolazioni dell’età adulta. Essi le hanno consegnato una gamma di sensazioni e di potenziali estranei, che rispondono all’investimento emozionale ed al carico di aspettative tipici di un atteggiamento denso di stupore infantile, che ha la convinzione tipica di una coscienza netta e intensa di poterle garantire vitalità e rinascita, da porre a disposizione di figure umane deboli e spaesate, in grado di superare la fragilità caduca del corporeo e del contingente soltanto attraverso il sopravvivere pieno della voce poetica, che sa travalicare spazi e tempi.

 (Tratto da Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari. Cosmo Iannone Editore, 2010. A cura di Andrea Gazzoni)

Gezim  Hajdari con la sua compagna Iris Hajdari, Marsiglia 2012

Gezim Hajdari con la sua compagna Iris Hajdari, Marsiglia 2012

 Andrea Gazzoni Introduzione. Cantare nel sisma dell’esilio

Qui si raccolgono quattordici testi critici dedicati all’opera di Gëzim Hajdari, quelli che chi scrive ritiene i più importanti.[1] Ancora mancano studi monografici di rilevante ampiezza, mentre sono ormai numerosi sia i saggi, in volume o rivista, sia gli interventi a conferenze, convegni, presentazioni. Da questa messe il libro raccoglie i suoi materiali (con l’aggiunta di alcuni inediti) e li propone nel loro insieme come uno strumento utile per chi voglia studiare o avvicinare l’opera di Hajdari.

      È una ricapitolazione critica di un percorso letterario che di libro in libro, raddoppiandosi tra italiano e albanese (due lingue, due immaginari, due mondi), ci ha rivelato una costellazione di leggibilità solo in parte decifrata e ancora da scoprire. Ogni opera di Hajdari sembra gettare fasci di luce retrospettiva su tutto il resto, portando allo stesso tempo alla nostra coscienza ombre, zone oscure, esperienze opache e refrattarie.

      I saggi qui riuniti sono raggruppati in sezioni che si definiscono in base ai loro approcci e ai nessi di problemi dai quali muovono. Con la prima sezione vengono proposti saggi che lavorano sul senso dell’esilio in Hajdari: quelli di Simona Wright e Franca Sinopoli, i primi in ordine cronologico, partono da ricognizioni della nascente letteratura italiana della migrazione per poi misurarne alcune questioni sul corpo della poesia di Hajdari. Se Wright sceglie una prospettiva diacronica, Sinopoli si concentra su una tipologia di scrittura e su un singolo testo poetico e, d’altra parte, lo affianca ad un secondo testo esemplare delle scritture migranti in italiano: Immigrato di Salah Methnani. Anche Ugo Fracassa sceglie il confronto con un altro autore, vissuto però nella prima metà del Novecento: Emanuel Carnevali. L’analisi serrata e incrociata permette di tracciare somiglianze decisive in due scrittori coinvolti, a distanza di tempo, in simili e simmetriche esperienze di dispatrio e di scrittura (Carnevali è italiano e, emigrato negli Stati Uniti, scrive in inglese). Nel saggio L’intentio epica dell’esilio ho tentato invece di portare alla luce, a partire dal Poema dell’esilio, i gesti epici coi quali Hajdari investe la sua poesia.

      La seconda sezione è dedicata all’inscindibile relazione lingua-patria, vissuta da Hajdari attraverso il bilinguismo. Fausto Pellecchia, leggendo Stigmate, ci conduce attraverso le tensioni della lingua di Hajdari per coglierne la radicale portata filosofica, che irrompe ogniqualvolta la poesia, dentro la lingua, faccia balenare il non-linguistico, l’infans. Silvia Vajna de Pava, lavorando sul sostrato albanese della poesia di Hajdari, descrive il passaggio tra le lingue e le patrie come perdita e ritrovamento del canto, intuibile attraverso la ricorrente nominazione ornitologica. Constantina Evanghelou descrive (attraverso le relazioni tra lingua, madre, sensi e luogo) le patrie che costruiscono l’io di Hajdari: la memoria, il luogo e la poesia.

      La terza sezione raccoglie saggi dedicati a singoli libri, attraverso i quali emergono, di volta in volta, elementi o funzioni particolari della scrittura di Hajdari: Simona Wright analizza Corpo presente sotto il segno dell’assenza; Laura Toppan attraverso Maldiluna ricapitola l’itinerario di Hajdari nella congiunzione di vita e parola; Massimo Fabrizi offre un commento puntuale di Péligorga, con particolare attenzione al carattere di ricapitolazione e nuovo inizio che segnano il libro; Ugo Fracassa legge San Pedro Cutud e Muzungu discutendo i sottili slittamenti che Hajdari impone agli schemi della scrittura di viaggio e il gioco di sovrapposizioni e sfasature che essa instaura con l’opera poetica.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

  La quarta sezione, infine, è composta da testi che costituiscono un minimo ma essenziale campionario di quelle figure in Hajdari ricorrono come emblemi della poesia stessa, in un certo senso come “doppi” del poeta. Laura fa un excursus sulla donna che è l’assente/presente dal teatro della poesia di Hajdari e allo stesso tempo ne è il punto di fuga, il termine mai raggiunto, non nominabile, non visibile: madre, amante, patria. Viktor Berberi insegue le ombre del corpus di Hajdari: doppia, transitoria, oscura, l’ombra è il segno del rapporto di unione e disunione tra vita e scrittura. In conclusione l’intervento di Luigi Manzi, poeta che Hajdari ha antologizzato e tradotto nel libro Il muschio e la pietra, ci riporta alle ragioni prime dell’interesse per la poesia di Hajdari, a una lettura intensa fatta di intuizioni folgoranti, a un corpo a corpo doloroso ed estatico, a formule e parole che passano dalla parola di Hajdari a quella dello stesso Manzi: una restituzione del libro all’opera che ne è la “materia”.

(Tratto da Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari. Cosmo Iannone Editore, 2010. A cura di Andrea Gazzoni)

[1] Nella scelta non si è tenuto conto di forme testuali estremamente sintetiche, come le prefazioni, o non primariamente critiche, come le testimonianze.

– Testi tratti da Poesie scelte, Edizioni Controluce I edizione 2008, II edizione ampliata con nuovi testi 20014 –

Gezim Hajdari Frosinone 2007

Gezim Hajdari Frosinone 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

MALDILUNA

Io, Gëzim Hajdari,
creazione di tremule ombre notturne,
errante maledetto delle sacre dimore,
confesso davanti agli dei,
ai templi e all’oblio.
Confesso davanti ai campi abbandonati della patria
e ai fuochi dell’Inferno:
sono maschera della mia maschera,
e ciò che ho scritto sono fandonie,
non sono stato io
ma un indegno delirante,
chiuso in una stanza sgombra.
Giuro e scomunico i miei versi maledetti
ovunque siano
e chiedo perdono ai pazienti lettori
per averli ingannati
con il mio fango.

Che possano cadere tutti i fulmini del cielo 
e l’ira dei demoni su di te,
Cerbero possa giudicare la tua anima tenebrosa
tra le fiamme impietose.
Hai perso la nostra fiducia
nelle paludi invernali vagherà la tua ombra orfana
come uno spirito maligno,
che tu non possa trovare mai pace sulla terra degli uomini!                
Piogge cadranno, nevi e melma dall’alto,
soffieranno venti gelidi sulla tua parola,
fiumi neri cancelleranno il tuo nome.
Con polvere e pietre copriremo le tue orme passo per passo
e con l’oblio sarai condannato                                                           
dalla tua stirpe!

O stagioni finte con fiori di ginestre e profumo di viole
nei cespugli in primavera
dove il passero gioioso insegue il cuculo;
rosa canina,
petali di papaveri
caduti nella terra del crimine,
sentieri con fischi di vipere.
O anni persi nei ruderi di merli e civette,
labirinti oscuri e tremendi dove ho errato
come un monaco mesto
per tutto questo tempo,
in nome di un Padre che non si è fatto mai uomo.
O bei giorni consumati invano
in una patria castrata
lanciando sassi controvento
e scrivendo con la punta del coltello sulla mia carne
canti d’amore e di pena.
O vortici di sogni incantevoli
che continuate ad uccidere poeti ingrati
senza una guerra, né una goccia di sangue.
Io, ombra della mia ombra,
condannato all’esilio per un altro esilio
bestemmio il mondo
e sputo in faccia al dio ipocrita e crudele,
ho amato solo il mio terrore e non il canto dell’uomo.

Ma tu, mia vecchiarella,
continui a volermi bene come sempre,
nomina il mio nome come facevi ogni sera
nella piccola e umida casetta di campagna
e non dar retta a quel che scrivo.
Sgomento è il mio cervello,
avvelenati i miei pensieri,
e se in un’alba m’impiccassi,
sarà per una vergine puttana
per un poeta la vita conta poco,
è la morte che vale.
Ho deciso di svendere questa vita
in cambio di uno squallido poema,
ma tu, grazia il tuo figlio prediletto
che amava gli alberi
stretti l’uno all’altro.
Ritornerà il mio nome
e busserà ad ogni crepuscolo alla tua porta
come un uccello che cerca di ripararsi dalla pioggia,
come un fragile amante pentito.

Sia castigato il tuo verbo maledetto in tutto il regno dei vivi
e che sia impedito al tuo seme di fiele di attecchire
nella terra di Adamo,
pèntiti del peccato orribile
e che dio misericordioso ti assolva!

Gezim Hajdari nello suo studio con la sua compagna Iris

Gezim Hajdari nello suo studio con la sua compagna Iris

Sono vissuto sempre in mezzo ai miei simili
solitario ed estraneo ad essi,
affascinato dalla mia follia
e dagli occhi teneri degli uccelli,
celebrando le mie ceneri oscure e chiare
sotto la luce di una luna spaventata,
testimone di atroci delitti.
Come un assassino in fuga,
attraversando regioni di neve,
rivendicavo a piena voce nel silenzio cieco e macabro
il mio potere .
Ridi tu, valle,
e nascondi il mio panico,
sorgi tu, collina
e copri il mio terrore,
germoglia tu, stagione funebre
e distruggi i miei sogni veggenti.
Con il pettirosso del cortile
che m’insegue nel bagliore del ghiaccio
divido il tormento
in questo autunno pallido.
Nessuno crede alla mia gioia,
i giorni per me sono cieli chiusi di pietre
e le notti paradisi di orge.
I primi che ho conosciuto nell’infanzia
furono i falchi nella mia collina;
si nutrivano delle allodole dei prati
ed io mi beavo ai pianti delle vittime,
mettevo in testa corone di ginestre
e passavo davanti alla battaglia dei predatori
come un re vincitore.
Chi non applaudiva con me era un vigliacco,
questo sono io,
ho adorato i volti sorridenti dei tiranni
ed ho odiato prima di amare.
Avanzate miei amori crudeli
mordete la mia carne innocente
lapidate con pietre i miei occhi castani;
incendiate la mia angoscia,
affinché vengano placati i miei gemiti
e sia fatta la vostra volontà malvagia.
Che aspettate,
inchiodatemi con le mie parole
fino al sangue,
flagellatemi il corpo con i miei versi;
impiccate il mio cuore rosso
ai rami
prima che io corvo dei corvi
entri nelle vostre vene
a bere del vostro sangue impuro,
per risorgere mostro.

Oh, cose inaudite e blasfeme ascoltiamo
in questa notte di stelle gelide,
mentre canta il primo gallo rivolto ad Oriente:
morirai lontano dalla tua terra oscura, 
distrutto dal dolore dell’esilio immenso,
spine mortali cresceranno dalle tue ceneri.

Sono uno straniero di passaggio,
nulla rimpiango del tuo regno di perdizione,
un altro destino rivendico;
conosco i segreti della vita infedele
come l’arma il proprio delitto,
Non c’è veleno che calmi la mia pazzia
donatami dal Padre
prima che diventassi
figlio di cannibali
nel deserto promesso.
Accoltellato dai fedeli
in una notte fonda
di comunione
e tradimento,
mostro alla gente la mia ferita che sanguina:
desiderio del mistero voluto.
Dal giorno che ho perso Atlantide,
erro senza meta nelle strade e nei campi
con la mia ossessione nelle mani
e maldiluna,
incendiando
alfabeti,
eros,
addii.
Oblio del tempo, salvami.

So quel che faccio mio dio
e non chiedo grazia a nessuno;
io contadino di capre,
abitante di ex-cooperative agricole di buio e fulmini,
che un tempo correva dietro ai tori insanguinati e alle ombre,
non obbedisco al tuo disordine,
ben venga il rogo
e questi versi come castigo dell’eterno.

Gezim Hajdari nel suo studio 2006

Gezim Hajdari nel suo studio 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

SPINE NERE

C’era una volta un ragazzo magro dall’animo fragile
con occhi castani e sguardo penetrante come un corvo nero,
nato in un inverno magico di lampi e tuoni marini
e cresciuto sulla collina brulla vicino alle stelle ardenti.

Quando vide i primi raggi del sole pallido:
«Il suo nome vivrà in eterno -dissero i laghi e le nebbie cieche –
di pietra in pietra verrà scolpito il suo verbo,
nei secoli la sua storia d’uomo verrà narrata».

«O donne, lo renderemo immortale –
giurarono i folletti delle valli oscure –
gli insegneremo la lingua degli uccelli e delle Fate,
e lo affideremo all’amore».

Per sette giorni e sette notti egli dormì nelle ali delle Ore
senza mangiare, né succhiare al seno di donna.
Fu un patto stipulato con sua madre,
nel caso la creatura nascesse maschio.

Con un bel nome lo battezzarono nel paese natio i saggi
giunti di notte dalle regioni di mezzaluna.
Con l’acqua fresca del pozzo lo benedissero una mattina di febbraio
donne zingare dai volti scavati e dalle trecce nere.

Lui veniva dall’Est, paese del sole nascente,
tra riti e falchi trascorreva la sua infanzia.
Con fiori di ginestre intrecciava ghirlande per la sua capra
e le infilava tra le vecchie corna.

«Lo chiameremo col titolo nobile di bey
e aumenteremo i terreni – brindavano spesso i nonni paterni –
prima diventerà il principe della sua gente
poi il Re del paese».

Passarono anni ed egli crebbe con il latte di rondine,
mentre il sole seccava le spine della sua futura corona
e il bosco allargava il tronco del suo trono bianco come la neve,
nei campi lunari cadevano piogge feconde.

Nel suo paese tirava sempre vento e l’erba cresceva incurvata,
mentre di notte sulla riva del fiume danzavano belle spose.
Dalle faide sanguinarie sorgeva la sua stirpe antica:
guaritori di morsi di serpenti, indovini di destini furono i suoi avi.

Sul fango e la polvere camminava la sua gente umile
con la speranza nella terra e nella benedizione del Signore.
Quando moriva qualcuno veniva seppellito all’ombra dell’ulivo,
senza né croce, né mezza luna.

Fu allora che il ragazzo di notte e di nascosto,
decise di scendere dalla collina fino al fiume profondo
aspettando impaurito nel silenzio e nel buio
di incontrare le belle spose danzatrici.

«O bel fanciullo – gli dissero appena lo videro –
dicci quale bontà ti ha portato fin qui? –
mentre danzavano intorno a lui
legate con le proprie trecce –

Nessuno fino ad oggi ha osato
assistere alla nostra danza notturna,
che il tuo seme non possa crescere sulla terra,
sarai maledetto in eterno.

Morirai in esilio solo e di crepacuore,
lontano dal paese che amavi.
Divoreranno impietosamente la tua debole carne
pietre ed aquile nere a due teste.

Mai nessuno pronuncerà il tuo nome
nei richiami quotidiani.
Il peccato lugubre ti peserà
come un vecchio chiodo nella fronte.

La tua anima non sarà mai amata,
nessuna donna ospiterà il tuo corpo.
Vivrai dimenticato per il mondo
come una pietra buttata al margine della strada».

E nel fiume oscuro le bianche spose scomparvero
cantando e danzando nella lingua dei fiumi.
Vortici di fuoco avvolsero il ragazzo sette volte
senza lasciare segni di sangue,né ferite.

Da quella notte fonda
gli spiriti abbandonarono le valli.
Le donne misero la sciarpa nera in testa
una nenia sgomenta si udì nel paese.

Cessarono i lampi, i tuoni marini,
i galli del paese cantavano giorno e notte.
Siccità e spine crescevano nei campi seminati,
ovunque regnavano le ombre.

Un giorno di pioggia egli attraversò il mare
avvolto da canti marini e nebbie cieche.
Gli sembrò che qualcuno lo seguisse nell’oblio,
come se lo volesse accoltellare.

Nulla si sa della sua vita errante,
nel profondo racchiude i suoi misteri.
Come un monaco mesto fugge per il mondo
con una vecchia sciarpa intorno al collo.

Così narra la leggenda:
si dice che egli, di notte, torni
nel paese dell’Est che tanto amava
su di un cavallo bianco.

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CINQUE POESIE di Otokar Březina (1868-1929)  traduzione di Antonio Sagredo (A. D. P-) e Kateřina Zoufalová

Museo del poeta

Museo del poeta

 Otokar Březina 2Otokar Březina poeta ceco (1868-1929) – A.M. Ripellino definisce Jakub Deml “un antenato del surrealismo ceco”, in Storia della poesia ceca contemporanea, Le Edizioni d’Argo, Roma, 1950, p. 40. Grandi slavisti si sono occupati del poeta Otokar Březina, come Ettore Lo Gatto (il suo saggio Un poeta ceco moderno è del 1931); poi Luigi Salvini, Renato Poggioli, Bruno Meriggi hanno tradotto alcune poesie. Recentemente il giovane Ernesto Evangelista (La funzione semantica del verso libero nella poesia di Otokar Březina). Segnalo i lavori importanti sul poeta del boemista Petr Holman; e l’aiuto ricevuto dal poeta cattolico Josef Kostohryz, nei primissimi anni ’70.

Otokar Březina biblioteca

Otokar Březina biblioteca

Otokar Březina nasce il 13 settembre 1868, a Počátky, piccola città “nella regione di  Tábor, sulle alture ceche-morave, ai confini con la Moravia, Václav Ignác Jebav,; “più tardi, il grande poeta della vita e della morte e del silenzio, è conosciuto sotto lo pseudonimo di Otokar Březina”.    La sua è una famiglia umile, modesta, devota e rispettosa delle tradizioni etico-religiose. Entrambi i genitori, il padre, il calzolaio Ignác Jebavý e la madre Kateřina, erano prima della sua nascita, persone già anziane.  I parenti della madre erano evangelici, ma uno di loro si imparentò con una famiglia cattolica.

   Durante i primi anni alla Scuola comunale a Počátky, il poeta si lega di febbrile e tenera amicizia con un suo compagno di scuola così che l’amicizia è il suo primo più importante sentire, la quale è letteralmente, storicamente rilevante per la genesi dell’opera di Březina. A questo suo amico dedicò alcune poesie che si possono considerare i suoi primissimi componimenti poetici. Giovanili componimenti, e già senza luce alcuna, pieni invece di un fatalismo e pessimismo di cui il poeta si nutre. Questi componimenti possono dare la chiave per molti tratti del suo carattere e del suo sviluppo.

  Si può affermare che è l’amicizia – per il valore che il poeta a questa conferisce, altissimo e spirituale, ma anche morboso – una delle cause della sua iniziazione alla poesia: il lievito, il fermento di questa iniziazione è la solitudine. La poesia di Březina avrà aspetti più gotici che barocchi. In verità, questi due aspetti, si alterneranno.

  Già studente liceale, nella cittadina di Telč  prenderà la  difesa ad oltranza degli eroi e delle lotte nazionali, di Hus (arso vivo nel 1415) e della rivolta hussita, dei fratelli boemi, di Giorgio di Poděbrady: il capo degli ultraquisti ussiti  e futuro Re di Boemia; e infine il desiderio di un nuovo e diverso cristianesimo. Insomma il poeta  questi anni liceali li vive tra compagni della sua età, e partecipa ai discorsi sulla letteratura e sulle scienze, perfino recita e declama la poesia polacca che d’altronde avrà una influenza, ma non decisiva, sulla formazione del suo verso. Il suo pessimismo è vicino a quello di Giacomo Leopardi e di Alfred de Vigny. Fu grande saccheggiatore costruttivo di biblioteche.

Otokar Březina

Otokar Březina

 Gli bastarono  una decina di anni per realizzare la sua opera di Poesia, principalmente dall’inizio del 1891 al 1901; poi sino al 1903 e oltre ha prodotto pochi altri versi e prose. La sua prima opera in prosa, che anticipa quella in poesia, va dal 1886 al 1890 fu da lui rinnegata, poi che si trattava in gran parte di imitazioni di vecchi movimenti romantici e zavorre sentimentali. Bruciò un romanzo, l’Eduard Brunner, nel quale riponeva grandi speranze, e  se non l’avesse fatto, avrebbe avuto non poche difficoltà a fare quei versi che sono il fondamento della poesia moderna ceca. Ma in prosa scrisse una serie di undici saggi non a caso intitolata Hudba pramenů (La musica delle sorgenti)], che ha affiancata, sostenuta, guidata e modellata una parte consistente della sua produzione in versi dall’inizio del 1897 al 1901, e più oltre. Questi saggi sono scritture che trattano di argomenti religiosi, orfici, esoterici, trascendentali, mistici, teosofici, simbolici ecc., insomma tutto quell’armamentario che sconfina nei misteri e nei segreti insondabili e incomprensibili che sono dietro le creazioni delle opere umane.

    Si donò al silenzio e corrispose però con centinaia di suoi conoscenti: poeti, artisti, filosofi. Studiosi di chiara fama e traduttori d’ogni paese invano lo spronarono  a continuare a far Poesia, senza preoccuparsi loro delle ragioni primarie che lo assillavano da tanto tempo… come, in primis, il pericolo di ripetersi e di diventare un pedante impertinente. Poi che  già presagiva la nascita di una nuova anima in lui, che richiedeva una nuova forma, e un silenzio!

   Rimase orfano d’entrambi i genitori a 22 anni: evento che acuì fortemente il suo pessimismo già malsano, terribile, senza scampo che non gli dava requie, tanto da fargli  desiderare un destino simile a quello di Leopardi, che conosceva molto bene. Un letale e fatale pessimismo gli faceva desiderare la sua morte e quella della Natura stessa, e quel Nulla di Schopenhauer, come unica fede da seguire e in cui credere! Ma la filosofia del tedesco invece gli aprì allora la mente. Da quel pessimismo se ne uscì fuori con una rassegnazione attiva (al contrario di quella orientale, che è passiva), aiutato da tanti poeti più vitali di lui, come per esempio,  dalla natura vulcanica dell’americano Walt Whitman.  Ma fu lo spirito ditirambico di Nietzsche che gli dette una scossa grandiosa, ma poi infine dovette scegliere, e scrisse: “Non il superuomo di Nietzsche, ma il magico titano di Novalis”.

  E infine  sono stati i Fiori del male di Baudelaire che migliorarono la sua maniera di far versi, ma dallo spleen e idéal, dal concetto salvifico della mort che possedeva il francese si allontanò poi che ritenne  la sua ebbrezza non dovuta affatto all’uso di alcol e droghe, ma alle immagini allucinatorie del suo stesso fantasticare di cui si nutriva. Quanto amò la corrosiva ironia decadente di Laforgue e lo spirito acuto e sprezzante di Heine! E  Verlaine più di Rimbaud! La musicalità del primo lo affascinava. Altra sua conquista fu che assunse per se, per la sua poesia la limpidezza lirica di Hölderlin, come un corroborante esaltante che gli dette vigore!

   Intanto la forma della sua poesia diveniva sempre più raffinata (lezione del suo Maestro Mallarmé), tanto che un eccellente critico, Arne Novák,  sentenziò che possedeva  “il dono eccezionale dell’eufonia…l’instancabile inventiva nella rima, per cui il poeta è riuscito a usare felicemente tutte le più riposte possibilità musicali”.  Fu grande anche il suo amore per la musica di Beethoven da dedicargli versi “eroici”, e per il pittore, il lituano Curljonis, che nei suoi “quadri musicali” si ispirò al tedesco.. Il suo silenzio ebbe inizio nel 1901 fino alla sua morte nel 1929: il suo periodo creativo durò una decina di anni, poi ritenne di non scrivere più versi : questo il suo silenzio: il suo timore di divenire accademico, pedante, ripetitivo; scrisse è ovvio ancora, ma con l’ultima delle sue cinque raccolte, Mani, terminò la sua poesia! Era sicuro di se stesso, di ciò che aveva scritto e donato alla Poesia, così scrisse chiaramente che “Di tutte le rivelazioni che l’arte ha fatto nel corso dei tempi, solo una piccolissima parte si conserva nell’opera d’arte e nel libro. La maggior parte di esse scompaiono con le anime che poterono o dovettero sognare le loro vittorie in silenzio”.  Ecco le motivazioni : il timore di diventare, dunque – troppo barocco, gotico, metafisico, mistico, esoterico, religioso, estatico, analitico, sintetico, orientaleggiante, cosmico, mistagogo, più eretico che cattolico e viceversa, e così via – era reale: tanti gli -ismi che ha dovuto sopportare! E tutti gli stavano stretti! Disprezzò allora tutti gli –ismi che gli avevano  appioppato. Visse solo per amore delle sue parole, i versi, le metafore, le forme, le immagini intricate… si nutrì traverso la sua conoscenza enciclopedica dei pensieri dei filosofi e dei sogni dei poeti del passato, perfino di quelli dei contemporanei, ma con discrezione.

   Dette loro più lustro depurandoli coi suoi versi, raccogliendo di loro tutto ciò che potesse servire per proiettarli ancora di più nel futuro, dentro e fuori di tutte le arti.  In alcuni luoghi del suo cervello e del suo cuore risiedevano visioni di un rinascimento cristiano (e non cattolico come affermava con dichiarazioni arbitrarie il polemico e bravo scrittore sacerdote Jakub Deml) e di un risorgimento delle opere d’arte di tutti i secoli passati e presenti verso un futuro dove la fratellanza umana si potesse mutare in mistica, cosmica e universale. (questo suo traguardo era il suo ideale… il suo limite!).

  Non si capacitava che proprio a lui, che non era un presuntuoso, che era nato nel 1868 in un paesino moravo, Počátky, a sud-est di Praga, erano venuti in mente simili grandiosi pensieri con cui costruì, come una cattedrale, i suoi versi a cui attinsero decine e decine di poeti, anche stranieri! R. M. Rilke che lo lesse restò quasi di sasso! L’editore di Kafka, Kurt Wolff lo pubblicò. Fu candidato nove volte al Premio Nobel, senza che muovesse qualcuno o qualcosa per ottenerlo! La sua vita fu monastica in assoluta solitudine. Ebbe per compagno il Pensiero, fin dalla sua origine, dei Grandi Uomini, che nutrì la sua Poesia, e quanti fratelli ebbe: quelli morti per difendere il proprio e  libero pensiero: i grandi martiri eretici, Jan Hus, Giordano Bruno e tanti altri. Parteggiò per i suoi Fratelli Boemi, per l’insegnamento pedagogico di Comenius! (che ancora oggi detta legge nella Pedagogia!). Studiò e amo i grandi Padri della Chiesa! E i grandi mistici di tutte le terre e i filosofi d’Oriente e d’Occidente: i tedeschi, gli spagnoli, gli italiani, e tutti gli altri vedeva uniti da un infinito abbraccio fraterno! Dostoevskij e Tolstoj, dopo averli ammirati, li abbandonò perché per aver  troppo scavato nell’animo umano, si smarrirono. Parole di grandissima ebbe stima per Puškin e Lermontov. Rifiutò “le fantastiche teorie di paradisi in terra… dalla repubblica di Platone per finire a Proudhon e Marx” testimoniando una mente aperta e chiaroveggente! Divorò le visioni, le allucinazioni creative di Omero, Dante, Milton, Blake, Poe, Byron! E come Shakespeare, Tasso e Cervantes gli fecero conoscere  l’animo umano! Non posso elencare tutti gli autori che lesse.

   E poi,  le donne, le poetesse: da Saffo a Gaspara Stampa, alla diletta Emily Dickinson, e la Browning  e tante altre, di cui tanto scrisse nelle sue corrispondenze agli amici, specie alla sua amica teosofa Anna Pammrová.

   Lesse i poemi tibetani, i canti andini ed egiziani, e Gilgamesh, quasi tutti i poemi dell’antichità, prima di Omero! E i poeti greci e latini: Anacreonte, Catullo ecc. Quante loro tracce nei suoi versi! Forse troppa cultura sostenne la sua Poesia! Quando scrissi la tesi su Otokar Březina: profilo critico (1974-75 – unico relatore A. M. Ripellino) mi andavo smarrendo giorno per giorno per colpa della sua vastissima e profonda cultura!. Impossibile conoscere tutti gli autori che lesse e studiò e amò!  Coi poeti contemporanei della sua terra firmò manifesti (gli ultimo anni dell‘800) per il rinnovamento della poesia ceca; ma quelli più giovani di lui, coi loro esperimenti linguistici di primo novecento lo lasciarono indifferente. A Jakub Deml (A.M. Ripellino lo definì “un antenato del surrealismo ceco”), che gli parlava del giovane talentuoso poeta Vítězslav Nezval, rispose “del resto il surrealismo non è nulla di nuovo” aggiungendo che “già in Shakespeare si trova questo linguaggio, come nei pazzi”.

 Březina cantò in versi, in cinque raccolte (nomino in corsivo i titoli rispettivi), le oscure e splendenti Lontananze misteriose, le aspettative e le speranze conflittuali degli Albori a occidente, i gelidi Venti dai poli violati dalle prime spedizioni artiche moderne, le esaltanti e mistiche azioni dei Costruttori del tempio, e infine il lavoro festante e faticoso e socialistico di tutte le Mani  liberatrici, con cui  terminò il suo viaggio nella Poesia.

   Březina seppe estrarre dal sapere universale una bevanda vitale composita del Pensiero e della Poesia dei secoli passati…  e quante culture e scienze mescolò al suo Presente! Il risultato fu un vino di primissima qualità, come il vino di Hafiz! (che conosceva) – una tecnica magistrale della versificazione che ha sostenuto lo sbalorditivo cromatismo delle sue immagini, che sostiene ancora oggi la poesia ceca. L’uso delle metafore e anafore incessanti il poeta praghese Nezval lo apprese da Březina.

   Affermò che il poeta è il creatore di ciò che sorseggia, assapora; beve questa bevanda, la Poesia, inebriandosi, e questo atto stimolò simultaneamente gli umori e le forme dei suoi versi: così si  generò la sua Poesia! Ma questo lavoro di faticosa e riuscita liberazione lo si sente specialmente nella  tecnica versificatoria, nelle strofe rimate (che non sono una prigione!), e nei sonori ritmi, talvolta tortuosi, perfino nella sua grafia precisa, inappuntabile… tecnica eccelsa le filosofie e poetiche unite ai suoi umori che si addensano in oscuri-chiari pensieri e incidono profondamente sulla qualità delle immagini, metafore, altre figure… come il ditirambo dionisiaco dominante, il verso libero, l’alessandrino… e le strofe impeccabilmente rimate e limate, segnano conquiste liberatorie e lezioni a non finire per futuri poeti!

   Giocò come un invasato (ma controllato) e vinse una partita equilibrando l’ebbrezza dionisiaca col suo desiderio apollineo, preferendo infine  quest’ultimo (Novalis). Per questo poi abbracciò il cammino di una fratellanza e di un ottimismo universali, che gli era congeniale, ma tutto ciò fu distrutto dalla carneficina della Prima Guerra Mondiale. Gli sembrò che il mondo (i suoi mondi) gli crollasse intorno, beffeggiandolo, eppure ebbe il coraggio della speranza e nonostante le tragedie, il suo ritornello “dolce è la vita” restò intatto, perché voleva donare una ultima emozione, un sentimento ancora perché non risultassero aridi e freddi i suoi versi. (tanti furono i poeti e i critici che trovarono i suoi versi… gelidi! Che errore critico!).

  Březina fu tradotto in tante lingue; i primi suoii due traduttori furono un polacco e un italiano… glielo riferì l’amica teosofa Anna Pammrová in una lettera del lontano 1896; ed era appena agli inizi della sua produzione poetica.    Ha influenzato la Poesia ceca (e non solo) a lui contemporanea e quella dopo di lui profondamente (la stessa azione di Dante o Puškin), come per esempio la poesia di Halas, Holan, Nezval, Seifert, Josef Hora, Zavada, ecc. Anche se il vero fondatore della moderna poesia ceca è stato il romantico Karel Hynek Mácha, vero antesignano del  surrealismo ceco, secondo i poeti surrealisti cechi.

  Era cosciente che le sue metafore erano fuori del comune! Grandi poeti contemporanei stranieri hanno lodato la sua maestria, e di ciò si meravigliò  fortemente. Insomma, ha influenzato profondamente persino l’arte figurativa: artisti e poeti simbolisti e  surrealisti sui quali le sue visioni hanno agito fortemente.

Difatti un suo amico fraterno, il grandissimo scultore František Bílek, che non è secondo affatto ad August Rodin, ed è pure un raffinato disegnatore e pittore, ha subito il fascino dei suoi versi e li ha illustrati con disegni e grafiche, e perfino con straordinarie sculture lignee e di pietra. Tanti artisti hanno illustrato molti suoi libri

di poesia,  come Váchal (di cui ho visto tutte le cinque raccolte illustrate a colori pagina per pagina, nel Museo dei manoscritti nazionali in quei primi anni settanta), e poi il cupo Konůpek, che ha prediletto gli aspetti più romantici e dionisiaci del poeta.   Trionfali elogi gli giunsero dal grande critico letterario František X. Šalda. E infine fu definito da uno dei suoi primi estimatori, Sigismund Bouška, già nel 1896, a 28 anni!, “poeta per poeti”, un Maestro!,  a quattro anni dalla sua prima pubblicazione!   Poeta visionario, essenzialmente, comprese come pochi le tensioni tra due secoli: l’800 e il ’900, e che, con la sua alta e profonda cultura, ha sintetizzato la fine di un’epoca della Poesia: Březina è ultimissima propaggine romantica e uno degli ultimi grandi poeti simbolisti…  del simbolismo ne vide la fine senza rimpiangerlo affatto!  Notizie recenti riferiscono che fu candidato otto volte al Premio Nobel.

(nota di Antonio Sagredo)

Otokar Březina

Otokar Březina

Otokar Březina 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POESIE di Otokar Březina

Siesta

Il sogno dei grigio-azzurri tornò a vivere nelle ombre della neve,
ma i bagliori si assopirono nei giallo-rosei;
nelle gallerie della luce l’aria si distese negli strati irrigiditi,
e si placò il sibilo degli assi della ruota lamentosa dei venti.
Il riposo di linee bianche discese lentamente sul paesaggio
nel vestito di campi rigonfi e di boschi morti per incuria;
il volo degli uccelli non disegnava ragnatele nell’azzurro,
per il freddo, nel vapore bianco, non si condensava il respiro dei viventi,
e si è trascinato sul campo, come una nube, solo un Grande Pensiero
che parlava per il gioco delle ombre, per il sogno delle luci
e la voce del silenzio,
per l’unione delle forze e il dominio melanconico,
che dalla musica di onde nevose respira fin nelle anime umane.

Otokar Březina con il presidente Masaryk

Otokar Březina con il presidente Masaryk

 

 

 

 

 

Da misteriose lontananze

Mi canta nell’anima da lontananze eterne
una canzone monotona,
un’ottava bassa della mia tastiera
malinconica le suona.
Mi scorre sulle labbra e nel riso
come il gusto del mio vino,
e da uno stelo spezzato
nella lacrima amarognola del latte.
Il soffio ritmico dei ricordi
nei desideri delle danze bacchiche,
la sua nostalgia si spegne lentamente
stregata, nelle risonanze.
Il sogno-veglia fermenta il mio sangue
nella voluttà e sulle solitudini,
e mi cresce nei lunghi adagi
e nelle note oscure.
E affaticati dalla quiete dei raggi
non si addormenta,
e mi succhia e mi ingabbia nelle volte oscure
dei suoi suoni,
come nugoli di insetti in vortici metallici.
O lontananze e notti,
svenimenti e sogni! Dove non si attaccherebbero
le sue note? E con quale potere
rovinerò dentro me stesso, l’indistruttibile?
Il suo contatto come ala gelida
mi soffia sul viso
nei confessionali, davanti agli altari
e nei silenzi sepolcrali delle biblioteche,
ai miei colori mescola l’olio,
suona con le ali della mia ispirazione,
canta beffardamente nella mia afflizione,
eterno, monotono,
e sulle piastre roventi della mia vita
fermenta lo scroscio spumoso
della mia bevanda mortale, da cui berrò
il Mistero della vanità.

Otokar Březina cop

 

 

 

 

 

 

 

 

Rincrescimento

Io ho nella mia anima il rincrescimento di quello che è incatenato al letto,
– quando da un’altissima torre vibra un vittorioso suonare di campane,
(davanti al Corpo del Signore eresse altari di gigli
e concesse il fiorire, nei candelabri d’argento, di fiamme
trasparenti e malaticce negli incendi del sole),
– quando i passi delle folle si smorzano nei verdi tappeti
dei fiori
e nei ritmi rotti da un fragrante canneto si agitano per i
caldi vapori delle acque,
– quando il saluto dei giardini si diffonde da corone di
fanciulle
e un grazie della vita quando, pieni di gloria, navigano
sulle onde dei fumi a vele spiegate
nel corale del Mistero dell’Altissimo.
Io ho nell’anima il rincrescimento di un sovrano impoverito
di immense distese,
quando stanco della vita sente il crepitio delle spighe sui
declivi dei campi:
– delle ciocche di aghi d’argento setacciate dal vento,
– della splendente nuvola d’insetti bizzarri posarsi su steli
sonori,
– delle sere stanche per i profumi che riposano sui vigneti;
egli sente dal fragore delle falci la sua campana a morto,
le canzoni funebri dalle grida di forza;
di chi sarà la raccolta del grano, dove si sono rappresi i
raggi dei giorni nelle lucide squame
e nei grappoli nerastri il sangue della terra?
Chi soffiò il gelo sulla mia finestra e annebbiò il puro canto
dei colori?
Le lucerne serali si accenderanno nelle sale bianche sopra
la mia camera,
gli specchi col sorriso restituiranno i lieti rossori dei volti
vetri gelidi infiammeranno la neve di seni inumiditi,
l’aria colmerà le grida di risa e di profumi.
Ritmici colpi delle danze!
E ho ancora nell’anima il rincrescimento del prigioniero
nel giorno delle feste di maggio,
il rincrescimento dell’amante presso la soglia del tempio
nel giorno del fidanzamento,
il rincrescimento dell’esiliato nei tuoni dei cannoni, che
accoglie i vascelli coi vessilli dell’adirata lontananza,
il rincrescimento dell’esausto dalla ricerca dei sogni durante
i primi azzurramenti dell’aurora,
il rincrescimento degli sguardi stanchi per la vana attesa
prima della partenza,
il rincrescimento dei visi avvizziti che non arrossirono per un bacio,
il rincrescimento dello straniero commosso per l’innocente
abbraccio del canto di Natale,
il rincrescimento dello strumento musicale appeso sopra
il letto del maestro morto,
il rincrescimento dei fiori che nessuno ha colto e sacrificò
nei vasi sugli altari,
Il rincrescimento della luce che si spense nella lampada solitaria
e che nessuno accese nell’alcova degli amanti.
Le ore del mio passato mi abbandonarono e io per loro
non ho colto i fiori,
i giorni mi giungevano fiduciosi e non li ornai di rose, e
per loro non ho mietuto i raggi immaturi,
è giunta la stagione dei crepuscoli, il vento dello Sconosciuto
si alza nei viali
e nemmeno una canzone allegra mi risuona dalla lontananza.

(dalla raccolta Misteriose lontananze, 1895)

Otokar Březina

Otokar Březina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La leggenda di colpe misteriose

Il chiarore delle mie ore future illuminò questo istante nei sogni
e con tutte le luci dei lampadari si è sparso nelle magnifiche
sale dei miei giorni;
là scaturiva la musica delle mie future primavere e delle
tenerezze nascoste,
là scintillava il riso delle labbra che mi inebriavano e il respiro
che ingannava,
e negli occhi, dove mi aspetta la mutezza della voluttà,
là ardevano pieni di desiderio.
Ma inutilmente camminavo là dove tremava nei vertiginosi ritmi
la canzone della Vita. Mi seguiva dietro l’Ombra di Qualcuno
che davanti a me si univa;
di sala in sala veniva e dovunque entrava si spegneva il calore luminoso,
si oscuravano gli specchi e fremette il desiderio, la voce di
una musica trionfale cadde giù
fin nelle più basse ottave e si fuse in un’angoscia silenziosa.
O anima mia, da dove è venuto Lui? E chi sa quanti secoli trascorse
con le anime dei miei antenati prima di giungere sino a me?
Su quante tavole nuziali ha disteso come una tovaglia un
tappeto funebre?
Su quanti sorrisi rosei ha soffiato il suo gelido respiro sotterraneo?
E in quante lampade illividiva oscuramente con fiamme
di sale e d’alcool?

Otokar Březina 1

 

 

 

 

 

 

Umori

Il fruscio stanco del calore si distese sul ramo con gravezza
e pendeva senza moto poi che il bosco schiacciato respirava
nei malinconici intervalli, e un torrente amaro di sudore
gli fluiva con aspro profumo da vegetazioni frante.
Avanzava pallida la stanchezza sotto gli alberi immoti,
sedette al mio fianco, i presentimenti sospirò sul viso,
mi sommerse negli sguardi la malinconia della domanda eterna
e parlava con la mia anima, con la lingua delle parole morte.
Il fiore di un sole stramaturo appassì nei bianchi calori,
nei crepuscoli dei rami tremava e con foglie azzurre cadeva
nei silenzi apatici la muta estenuazione, si accese nel musco
e col deliquio mi cullava nel bagno di un respiro misterioso,
come se sotto le onde il sangue fosse sgorgato lentamente
da vene aperte.

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TRE POESIE di Valerio Magrelli da Il sangue amaro (Einaudi, 2014) con due Commenti di Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa su “L’Ombra delle Parole”

alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Scrive Alfredo De Palchi nel Commento del 7 ottobre 2014:

Sembra si sia esaurita la critica sul problema della raccolta “Il sangue amaro” e della persona civile di Valerio Magrelli. La mia opinione sui commenti degli interlocutori mi fa dire che l’insieme è riuscito un disastro,
i rari commenti seri di due tre interlocutori non salvano la vitriolica atmosfera del blog. D’accordo, si è liberi di parlare pacatamente, gridare, insultare, averi dissensi, etc. etc., ma non in maniera incivile anche tra interlocutori, io incluso. Dopo aver approfittato della mia libertà, mi trovo veramente commosso davanti a un ragazzo ventenne, Valerio Gaio Pedini. Alla sua età e alla mia età si esagera tutto, sia nel bene che nel male, ma coloro che si trovano nello spazio tra Valerio Gaio e ADP dovrebbero insegnare che ci sono migliori posizioni per giudicare il bene o il male di un’opera e della personalità dell’autore. A ventanni e a ottantanni si è mentalmente ragazzi, si giudica bianco o nero, le vie di mezzo le crediamo borghesi, e indubbiamente lo sono, però più accettabili. . . Purtroppo, Valerio Gaio, è così, e i tipi delle nostre età vengono definiti esaltati.
Lei ha espresso la sua opinione contraria di esaltato su “Il sangue amaro” di Valerio Magrelli, io ho espresso la mia favorevole di esaltato. Tuttavia le assicuro che le nostre opposte posizioni di giudizio non sono meno oneste delle posizioni di mezzo espresse meglio e professionalmente. Per me, chiudo soddisfatto di aver elogiato l’opera di Magrelli. Lei, Valerio Gaio, pensi e scriva quello che vuole, ma quando avrà completa fiducia in sé stesso sarà migliore e sicuro. Importantissimo. Ci sentiremo altrove.
Saluti a tutte e a tutti.

(Alfredo De Palchi)

 

giorgio linguaglossa la noia

Alfredo de Palchi

Risposta di Giorgio Linguaglossa, Commento del 7 ottobre 2014:

Caro Alfredo De Palchi,
Rendo omaggio al grande poeta Alfredo De Palchi, alla tua nota generosità e prendo atto della tua tesi in favore della poesia di Magrelli, ma non posso non dissentire dalle tue argomentazioni. Per quanto riguarda «la vetriolica atmosfera del blog» nei riguardi della poesia di Valerio Magrelli, questo convalida il fatto che ormai il blog è rimasto l’unico avamposto del pensiero libero in Italia. Il blog è libero, chiunque può inserire i propri commenti (purché non offensivi) con piena libertà di esporre le proprie tesi nel modo ritenuto più idoneo. Non c’è nessun controllo, né preventivo né successivo, e questo credo è un fatto che tutti possono verificare. Al contrario, scorrendo nei vari blog le recensioni al libro di Magrelli, ho notato un coro unanime di lodi sperticate come se fossimo davanti al capolavoro della poesia della Terza Repubblica. Purtroppo, la verità è un’altra: è un libro della «vecchia republica», certo è scritto da un professionista della scrittura, uno scrittore che, almeno, sa scrivere. Però va anche detto che si tratta di una scrittura facile. Innanzitutto, potremmo togliere tutti gli a-capo delle sue poesie e ne verrebbero fuori dei testi narrativi forse addirittura migliori. Cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che è una scrittura in prosa con degli a-capo. Dirò di più: non è poesia ma finta-poesia; è prosa travestita da poesia. Ormai ho un occhio e un orecchio troppo smaliziato per non accorgermi di questi trucchi. Ma dirò di più, la poesia di Il sangue amaro pesca nella superficie dei luoghi comuni che tutti frequentiamo: il padre che ha avuto una vita difficile, il figlio, il seno rifatto di Nicole Minetti, la fobia per il “sesso”, “le gocce” prese per profilassi, il Pin, il Puk, l’Irpef, l’Irak, l’Urar, etc. Troppo facile direi. Si può fare questo tipo di poesia all’infinito, è una procedura serializzata che serializza e socializza i luoghi comuni alla maniera che tutti li possano condividere.
Dal punto di vista sociologico ritengo che la poesia di Magrelli sia lo specchio fedele dell’Italia di oggi, con le sue miserie, le sue meschinità, i suoi egoismi, i suoi piccoli e vanitosi narcisismi, gli esibizionismi dell’io esposti in bacheca, etc. Specchio e nulla di più. Per di più espresso con un linguaggio in prosa arricchito di calembours e, qua e là, con giochi di parole. Non mi sembra il caso di gridare al capolavoro, anzi, mi sembra un lavoro furbo, che ammicca alla complicità del lettore, ai tic e agli inciampi che l’esistenza degli italiani incontra con la burocrazia di ogni giorno.
La poesia di Magrelli è lo specchio e, al tempo stesso, un tassello, della mediocrità generalizzata del nostro Paese, delle mancate riforme non fatte negli ultimi 30, anzi 40 anni. In questi ultimi 30, 40 anni il Paese è andato indietro in tutti i campi, non si è investito nella ricerca, non si è investito sulla scuola, le università sono dei Palazzi d’inverno dove regna il rigore del grigio. La politica è rimasta ferma a difendere gli interessi della classe politica. Così il Paese è rimasto fermo durante 30, 40 inverni. L’omologia e il conformismo culturale che hanno invaso il nostro Paese li ritroviamo tali e quali nella poesia de Il sangue amaro, senza alcuna distinzione; direi che questo è il l’elemento di gravità che emerge dalla lettura di questo libro. La poesia di Magrelli è appena un tassello della medietà generalizzata del sistema Paese e della sua incapacità a rinnovarsi e di ritrovarsi. Ecco altre due poesie ammiccanti del libro:

Le nozze chimiche

Queste che prendo gocce
con tanta religiosa compunzione
sono i miei testimoni
per le nozze col mondo.
Soltanto grazie a loro posso stringere
un patto d’amore col mondo,
perché solo con loro reggo l’urto
della sua illimitata ostilità.
Elmo fatato: mio padre non lo aveva
e morì, prima ancora di morire,
incredulo, indifeso ed indignato,
sotto i colpi del mondo.

Sul circuito sanguigno

È come nel sistema circolatorio:
il sangue è sempre lo stesso,
ma prima va, poi viene.

Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza,
la vena che riporta
il dono delle arterie alla partenza.

 Da notare il patetico dell’ultima strofa della prima poesia, dove si accenna alla morte del “padre” perché non aveva “l’elmo fatato” che avrebbe potuto proteggerlo. Ma, caro Magrelli, gli elmi fatati esistono solo nelle fiabe! (anche mio padre è morto “sotto i colpi del mondo” dopo una vita di duro lavoro; anche altri mille migliaia di padri di altre persone sono morte “sotto i duri colpi del mondo! perché non avevano “l’elmo fatato”). Mi fermo qui. Non posso fare a meno però di sottolineare l’intreccio di patetismo e di buonismo di questo finale che vorrebbe astutamente intenerire il lettore per adescarlo nel dramma tutto intimo familistico dell’autore, ma in realtà posticcio. Beh, direi troppo facile, no?, troppo corrivo e scontato:

Elmo fatato: mio padre non lo aveva
e morì, prima ancora di morire,
incredulo, indifeso ed indignato,
sotto i colpi del mondo.

Ma arriviamo al “capolavoro” del libro, la poesia sulla figura di Nicole Minetti:

L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan

La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione

di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa

fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale

sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.

Cari amici lettori: una serie di luoghi comuni elencati ad effetto, uno dopo l’altro, senza tema di apparire, quanto meno fuori luogo o sopra le righe, una ironia scontata applicata ad un personaggio dei media fin troppo facile da colpire e, infine, il finale sessuofobico nei confronti della bellezza (se pur corretta dal bisturi) femminile. Anche qui, un finale facile per accalappiare il consenso del lettore sessuofobico e conformista. Mi sembra davvero troppo (mi correggo, troppo poco) per incoronare Magrelli come il più grande poeta degli ultimi trent’anni.

(Giorgio Linguaglossa)

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli è nato a Roma, dove vive, nel 1957. È professore ordinario di letteratura francese all’Università di Cassino. Tra i suoi lavori critici Profilo del Dada (Lucarini 1990; Laterza 2006), La casa del pensiero. Introduzione a Joseph Joubert (Pacini 1995, 2006), Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry (Einaudi 2002; l’Harmattan 2005) e Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire (Laterza 2010). Collabora a «la Repubblica». Il suo primo libro di poesia, Ora serrata retinæ, esce da Feltrinelli nel 1980 (ed è raccolto, insieme ai successivi Nature e venature dell’87 ed Esercizi di tiptologia del ’92, in Poesie (1980-1992) e altre poesie, Einaudi 1996); gli ultimi – Didascalie per la lettura di un giornale del ’99, del 2006 e Il sangue amaro del 2014 – sono usciti da Einaudi. Nel 2002 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il Premio Feltrinelli per la poesia italiana. Al suo attivo anche quattro libri di prose: Nel condominio di carne (Einaudi Stile Libero 2003), La vicevita. Treni e viaggi in treno («Contromano» Laterza 2009), Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto (Einaudi 2010) e Geologia di un padre (Einaudi 2013; Premio «Stephen Dedalus», Premio Bagutta, Premio SuperMondello, finalista al Premio Campiello). Tra gli altri libri, Che cos’è la poesia? (Sossella 2005, libro e cd; Giunti 2014), Sopralluoghi (Fazi 2006, libro e dvd), Il violino di Frankenstein. Scritti per e sulla musica («fuoriformato» Le Lettere 2010, prefazione di Guido Barbieri, postfazione di Gabriele Pedullà), il pamphlet politico in forma teatrale Il Sessantotto realizzato da Mediaset. Un Dialogo agli Inferi (Einaudi 2011) e il saggio Magica e velenosa. Roma nel racconto degli scrittori stranieri (Laterza 2012).

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TRE POESIE INEDITE di Ivan Pozzoni “L’alieno” “Il destino di Siface” “La fuga di Mitridate” POESIE SU PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

 

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Ivan Pozzoni è nato a Monza (MB) il 10-06-1976. Sue raccolte di versi: Underground (A&B, 2007), Riserva Indiana (A&B, 2007), Versi Introversi (Limina Mentis, 2008), Androgini (Limina Mentis, 2008), Lame da rasoi (Joker, 2008), Mostri (Limina Mentis, 2009), Galata morente (Limina Mentis, 2010), Carmina non dant damen (Limina Mentis, 2012), Il Guastatore (Cleup, 2013), Patroclo non deve morire (deComporre Edizioni, 2013) e Scarti di magazzino (Limina Mentis, 2013); ho curato antologie di versi: Retroguardie (Limina Mentis, 2009), Demokratika (Limina Mentis, 2010), Triumvirati (Limina Mentis, 2010) [raccolta interattiva], Tutti tranne te! (Limina Mentis, 2010), Frammenti ossei (Limina Mentis, 2011), Labyrinthi IIIIIIIV (Limina Mentis, 2013), Generazioni ai margini, NeoN-Avanguardie, Comunità nomadi, Metrici moti, Fondamenta instabili, Homo eligens, Umane transumanze, Forme liquide e Scenari ignoti (deComporre, 2014); nel 2008 sono stato inserito nell’antologia Memorie del sogno, di A&B Editrice, nel 2009 nell’antologia Paesaggi, di Aljon Editore, nel 2010 nelle antologie Rosso e Taggo e ritraggo di Lietocolle, nel 2011 nelle antologie Insanamente, di FaraEditore, Dal tramonto all’alba, di Albus Edizioni, e Verba Agrestia 2011, di Lietocolle, nel 2013 nelle antologie Il ricatto del pane, con CFR Edizioni e Le strade della poesia, con Delta3 Edizioni, nel 2014 nell’antologia L’amore ai tempi della collera, con Lietocolle. Ho collaborato, con saggio, ai volumi collettivi Ricerche sul pensiero italiano del Novecento (Bonanno, 2007), Le maschere di Aristocle. Riflessioni sulla filosofia di Platone (Limina Mentis, 2010), Centocinquant’anni di scienza e filosofia nell’Italia unita (Limina Mentis, 2011), Scienza e linguaggio nel Novecento italiano (Limina Mentis, 2012) e Pensare la modernità (Limina Mentis, 2012); sono usciti miei volumi e volumi collettivi da me curati: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale. I Pre-socratici (Limina Mentis, 2008), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis, 2009) [mon.], Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press, 2009) [mon.], Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis, 2009), I Milesii. Filosofia tra oriente e occidente (Limina Mentis, 2009), Voci dall’Ottocento (Limina Mentis, 2010), Benedetto Croce. Teorie e orizzonti (Limina Mentis, 2010), Voci dal Novecento (Limina Mentis, 2010), Voci dal Novecento II (Limina Mentis, 2011), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press, 2011), Voci dall’Ottocento II III (Limina Mentis, 2011), La fortuna della Schola Pythagorica. Leggenda e contaminazioni (Limina Mentis, 2012), Voci dal Novecento IIIIV (Limina Mentis, 2012), Pragmata. Per una ricostruzione storiografica dei Pragmatismi (IF Press, 2012), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press, 2012) [mon], Le varietà dei Pragmatismi (Limina Mentis, 2012),  Elementi eleatici (Limina Mentis, 2012), Pragmatismi. Le origini della modernità (Limina Mentis, 2012), Frammenti di filosofia contemporanea I  (Limina Mentis, 2012), Frammenti di cultura del Novecento (Gilgamesh Edizioni, 2013), Frammenti di filosofia contemporanea II (Limina Mentis, 2013), Lineamenti tardomoderni di storia della filosofia contemporanea (IF Press, 2013), Schegge di filosofia moderna I (deComporre, 2013), Voci dal Novecento V (Limina Mentis, 2013), Voci dall’Ottocento IV (Limina Mentis, 2014), Schegge di filosofia moderna IIIIIIVVVIVIIVIIIIXX (deComporre, 2014) e Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e Politica (deComporre, 2014) [mon.]. Nel 2012 è uscito il numero unico di rivista, da me curato, Le bonhomme. Dal 2007 al 2013 ho assunto il ruolo di direttore culturale della casa editrice solidale Liminamentis Editore.

Milano Periferia, scorcio

Milano Periferia, scorcio

“… mi sembra che si tratti di una questione molto semplice: la scomparsa della poesia così come l’abbiamo conosciuta e praticata nel Novecento: l’affondamento del Titanic. Ivan Pozzoni trae tutte le conseguenze dal fatto che il locutore ha cessato di essere fondatore, e che il linguaggio ha cessato di essere la dimora dell’essere; che, insomma, l’essere, l’io e il linguaggio stanno tutti in una dimensione di galleggiamento dove presente e passato collimano con il futuro-passato. Una dimensione a-dimensionale. Ivan Pozzoni  liquida la poesia così come liquida la filosofia del Novecento; tutto è affondato sotto i colpi di quel machete che è stato l’affondamento della Fondazione. Pozzoni risolve (a modo suo e con pieno diritto), la questione della «Poesia» facendo una «cosa» che, molto semplicemente, è fuori-della-poesia. La presa di distanze da ogni ipotesi di «retroguardia» come di ogni «avanguardia» è chiarissima nella nomenclatura che ne dà Pozzoni quando parla di «non-poesia» e di «neon-avanguardia», quell’avanguardia che è andata a farsi friggere non desta più alcun interesse al poeta di Monza, così come la «poesia» vista come istituzione stilistica è un concetto che non dice più nulla a Pozzoni.

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Pozzoni prende dunque atto che la poesia contemporanea è rimasta priva di referente, priva di un pubblico mandato sociale, priva di fondazione, priva di un tegumento stilistico, figlia legittima del tempo della stagnazione e della susseguente recessione economica, politica e spirituale, essa non può che girare a vuoto nel vuoto valoriale ed esistenziale. Ergo, il «poeta» diventa «non-poeta», la «poesia» diventa «non-poesia», è una quiddità non esistente, galleggia su di una materia non-materia, liquida, è parerga, fronzolo ricciuto e fronzuto, «neon». Direi che questo azzeramento mi sembra una operazione che ha i suoi risvolti positivi: una iconoclastia radicale, una dissacrante e arrembante distruzione di tutto ciò che pretenda di ergersi a mondo valoriale riconosciuto e riconoscibile, tanto è vero che Pozzoni riesce convincente quando abbandona la griglia formale in rime che nel suo corpo testuale diventa qualcosa molto simile alla non-rima, che riesce appunto telefonata in quanto prevista in anticipo, in quanto è già programmata nel software del Dopo il Moderno anche la sua mancanza. In quanto posti nel magazzino dei bagagli smarriti in anticipo, Pozzoni si sbarazza con funesta allegria di tutto il conglomerato delle retorizzazioni novecentesche. È l’affondamento della forma-poesia che qui ha luogo, senza nessun frastuono immersi come siamo nel rumore di fondo di una omologizzazione pervasiva e onnilaterale.
A questo proposito ritengo interessante per i lettori riportare una riflessione di Ivan Pozzoni apparso su un blog”
(Giorgio Linguaglossa da prefazione a Patroclo non deve morire, 2012)

Ivan Pozzoni Patroclo non deve morire“I miei frammenti, come frammenti ametrici, rifiutano ogni categorizzazione tradizionale, caratterizzandosi come «non-poesia» dove, con «poesia», si intenda una scrittura in versi eccessivamente attenta a modelli e strutture formali. La mia è una «vocazione», interessata a richiamare alla mente l’assurdo della quotidianità e a chiamare a raccolta chi, contro tale assurdo, desideri architettare forme di resistenza, benché io non sia certo che, nel tardo-moderno, sia ancora significativo il concetto, molto solido, molto orientativo, di «via»”.

(Ivan Pozzoni)

ivan pozzoni l'alieno

48. L’alieno

Dei fari si accendono allo sbocco della tangenziale di Milano
stride un rumore di impatto al suolo, brucia il terreno
non è l’inondazione del solito Seveso a creare rumor d’uragano
è sbarcato un alieno.

Arrivano in loco ambulanze e carabinieri richiamati dalla confusione,
l’attracco di un Unidentified Flying Object non è un consueto risvolto;
dalla torre di Cologno Monzese arrivano celeri i fanti della televisione
l’intervista esclusiva su Mediaset Premium amputerebbe ogni indice d’ascolto.

«Dottor Alieno» – sgomita il giornalista pubblicista- «ha intenti di belligeranza?»,
nella speranza di strappare all’alieno una firma gratis sulla liberatoria;
«Somaro mio» – risponde l’alieno- «secondo te sarei sbarcato in Brianza
se avessi avuto intenzione di conseguire anche una mezza vittoria?».

«Sono un alieno, e vorrei lanciare un messaggio alla vostra nazione,
che, insieme a Grecia, Portogallo e Spagna è terrona dell’Unione Europea,
la Bca (Banca centrale aliena) è disponibile a favorire stock option
– come dite voi- in modo che ogni banca d’Italia, attuata una ricapitalizzazione,
abbassi i tassi di interesse ai conti correnti, irritando i colon
dei milioni di risparmiatori italiani fino a crear loro una recessiva diarrea».

La giornalista trentenne, in minigonna e scollatura di rappresentanza
tenta di interrompere l’alieno con una domanda d’ordinanza:
costui, puntando col medio, le manda un fulmine, sparita, via,
com’era abituata, di tanto in tanto, a sparir sotto qualche scrivania.

«Punto due della Bca – continua l’alieno- dovrete incrementare ogni forma di flessibilità,
cioè usate un flex o una mola Bosch sui sorrisi di chi spaccia disoccupazione
sotto la falsa retorica dell’opportunità: dall’era Craxi hanno esaurito ogni credibilità.
Se volevate mandare l’Italia a troie tanto valeva tenersi in Camera Ilona Staller
e smettere di votare, come ciucci, i microcefali epigoni sinistra-centro-destra della Merkel
affrontando sul Transatlantico, MonteTitanic, la punta dell’iceberg della recessione».

«Punto tre della Bca – conclude l’alieno-, se da Arcore arriva Berlusca neanche inizio
non vorrei, tra le varie nipoti di Mubarak, incappare in un’odissea nell’ospizio
(di Cesano Boscone) o se da Firenzi mi arriva il Fonzie con la faccia da cassamortaro
non vorrei spendere milioni di alien-dollari in detersivi a cercar di smacchiare un giaguaro,
dovrete vendere le Alpi alla Svizzera, il Tirreno alla Corsica e l’Adriatico all’Albania
e svuotare l’oceano di un debito pubblico col cucchiaio della gerontocrazia».

All’improvviso a sirene spiegate arriva un’autolettiga della Croce Verde Pavese
due nerboruti infermieri, attenti a schivare medio e media, incamiciano l’alieno genovese
che, divenuto immediatamente alienato, interrompe il discorso e si incammina tranquillo.
Come cazzo hanno fatto a confondere messaggi d’alieno con un comizio di Beppe Grillo?

 

Sofonisba, la consorte di Siface

Sofonisba, la consorte di Siface

49. Il destino di Siface

Tito Livio, contro Polibio, si compiace
di spiegarci il destino di Siface.

La cronaca: raccontiamo i meri fatti
come farebbe Govoni coi suoi fiori soddisfatti.

Gli antefatti: Scipione attiva Massinissa e Lelio
contro un Siface costretto a dare er mejo.

Per Siface, in Magnos campos, è amarissimo il boccone
d’essere sconfitto al Bagrada insieme ad Asdrubale Giscone:
Postero die Scipio cum omni Romano et Numidico equitatu Masinissamque Laelium
expeditisque ad persequendos Syphacem atque Hasdrubalem mittit militum.

Catturato Siface la resa di Cirta è certa
i cavalieri di Lelio stravincono in trasferta
la disfatta è colpa di Siface: nisba!
ci finisce in mezzo Sofonisba
costretta a ingurgitare una tazza di veleno
come nel Critone fece Socrate senza esserle da meno.

Scipio C. Laelio cum Syphace aliisque captivis Romam misso, cum quibus et Masinissae
legati profecti sunt, ad Tyneta rursus castra refert ipse.
Siface è imbarcato verso Roma, caput mundi
incarcerato da una catena di gerundi,
a Zama c’erano Mazetullo e Ticheo e Siface stava a Tivoli
Annibale ebbe volatili da diabetici, cioè cazzi amari, e a Cartagine furono davvero cavoli.
Morte spectaculo magis hominum quam triumphantis gloriae Syphax est subtractus,
Tiburi haud ita multo ante mortuus, quo ab Alba fuerat traductus.

Dove stanno bene i fiori? In un vaso:
non servivano ventisei versi a distruggere il Parnaso.

Mitridate

Mitridate

 

 

 

 

 

 

 

La fuga di Mitridate

Questi momenti oscuri da instabile mondo terziario
ci inducono ad una sottile costante mitridatizzazione,
versandoci in versatori versatili di veleni metrici
nelle arterie d’una società tossicomane,
in crisi d’astensione.

Fondo un mondo dove rari eroi eroinomani,
ed eroine, inoculino, alternando, dosi d’antidoto e dosi di veleno
nelle loro stanche vene artistiche,
assicurando esiti incerti ai tests d’immunodeficenza,
battendo soglie di tolleranza.

Mitridate, assuefatto a Roma,
indossò un’armatura di scaglie di vento,
e non fuggì.

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Marco Onofrio legge “Una donna” di Sibilla Aleramo. Un percorso di evoluzione interiore, fra istanze emancipazionistiche e suggestioni romane

sibilla aleramo

sibilla aleramo

foto d'epoca

foto d’epoca

Sapeva di non essere una «narratrice nata» poiché «irrimediabilmente lirica»; fu tuttavia proprio un’opera di narrativa a sancirne l’esordio letterario e a garantirle un primo lancio di notorietà. Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) racchiude nel tracciato eterodosso di Una donna (1906), a cavallo tra i generi del romanzo di formazione, del diario autobiografico e del saggio, «un pensiero di donna che riflette dinamicamente l’immagine fantastica di sé tra la memoria del passato e l’elaborazione del futuro» (Zancan). La scrittrice di Alessandria plasma la materia del proprio vissuto nella vicenda esemplare di un alter ego femminile e anonimo che si trasfigura per elevarsi, e che lotta coraggiosamente contro le convenzioni di una società retriva per aderire al proprio imperativo interiore, alla legge etica che le comanda di crescere, di evolvere, di diventare ciò che è.

auto d'epoca

auto d’epoca

 La «parte migliore di me che avevo trascurata», ovvero l’«io profondo e sincero» di Rina, mortificato da vicende eteronome – tipiche di un percorso biografico femminile, in Italia, ai primi del ‘900 – risorge, oltre i vincoli della storia, nella sublimazione creativa di Sibilla. La scrittura stessa è il luogo simbolico della “nuova nascita” dalle ceneri dell’umiliante quotidianità: dai fili delle parole viene pazientemente annodato l’itinerario di una rigenerazione che spinge la protagonista a rendere fecondo il dolore attraversato, cioè a raccogliere i frammenti dispersi di un’esistenza per accedere di nuovo al “sogno di pienezza” perduto dopo l’infanzia felice. Come Rina ha avuto, infatti, una fanciullezza «libera e gagliarda», vissuta in solitudine ma aperta agli interessi e agli studi: «M’avvolgeva allora uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza». E ha assorbito l’indipendenza intellettuale dal padre, spirito libero, laico e anticonformista. La timidezza muliebre lotta dentro lei con un «nuovissimo impulso di audacia indipendente». Sente stretto, perciò, l’ambiente paesano e provinciale, tutto intramato di paure e ipocrisie, della «cittaduzza del Mezzogiorno» (Porto Civitanova Marche) in cui la sua famiglia si è trasferita, a seguito del nuovo lavoro del padre. Sospira di desiderio pensando alla vita della città, dove è già vissuta (a Milano), «col suo formicolio umano, con la sua esistenza vibrante». Il padre la porta in viaggio a Roma e così rivede la folla:

sibilla aleramo

sibilla aleramo

«mi risentivo piccola, insignificante, sperduta, anelante ad apprendere da tutti e da tutto intorno. Ciò mi produsse una emozione forse maggiore di quella che mi destarono i monumenti (…). Fu quel viaggio come il coronamento della mia adolescenza brada, temeraria, trionfante».

Roma le dà il primo accenno di rivelazione: a se stessa e alla vita. La fanciulla comincia a maturare, prendendo orgogliosamente coscienza dell’intelletto e della dignità che la donna racchiude in fondo a sé, e che un impulso irrefrenabile la spinge a sviluppare, a tirar fuori.

«Ero una persona, una piccola persona libera e forte; lo sentivo, e mi sentivo gonfiare il petto d’una gioia indistinta».

sibilla aleramo

sibilla aleramo

Volersi libera e indipendente, però, è contrario all’opinione comune, che a quei tempi considera la donna un «essere naturalmente sottomesso e servile». Le donne sono prone al peso che da secoli le schiaccia: «la cura pigra ed empirica dei figliuoli, la cucina e la chiesa eran tutta la loro vita». Il destino preordinato di tutte le donne, soprattutto in provincia, è soltanto «amare e sacrificarsi e soccombere». Ovvero: subire sevizie in silenzio e mascherarle sotto un velo di ipocrisia. Non c’è alternativa alla menzogna, alla rassegnazione. I tentacoli sociali avviluppano anche, suo malgrado, la protagonista di Una donna, la quale appunto – a dispetto del titolo del libro – oppone a tale stato di cose la «rivolta selvaggia» di tutta se stessa, che la porta a lottare per non ridursi ad essere “una” donna come tutte, la donna che gli altri vorrebbero che fosse, ma per avere il diritto di diventare semplicemente “la” donna che è – ed è proprio questo che non è concesso. Il primo grande strappo che la allontana dall’infanzia è il tentato suicidio della madre. Il divario si allarga con la scoperta che il padre ha un’amante. L’infanzia muore definitivamente con l’iniziazione sessuale traumatica: subisce uno stupro. Si sposa con un uomo geloso e ottuso che la soffoca e la controlla, e la vuole remissiva. Le nasce un figlio. Il marito la trascura, lei si lascia vincere dalla «smania di vivere» e cede alle lusinghe di un altro uomo. Poi tenta il suicidio con il laudano. Viene salvata per miracolo. Si dà allo studio, alle meditazioni, alla scrittura. Concepisce il Libro capace di «mostrare al mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima volta», un libro autobiografico: «il capolavoro equivalente ad una vita». Coltiva intensamente lo sviluppo della sua vita interiore. Comincia a interessarsi di emancipazione femminile: la parità dei diritti della donna come persona umana di uguale dignità.

«Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia, m’indusse irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo».

Ecco di nuovo Roma, balenante spiraglio di luce in fondo al tunnel di una vita che la violenza della realtà  ha soffocato e riempito di tenebra.

sibilla_aleramo copSin qui il romanzo, dove l’autrice riversa un grumo di vicissitudini in gran parte autobiografiche. Alla fine del febbraio 1902 Rina aveva avuto il coraggio di abbandonare il marito, Ulderico Pierangeli, e il figlio Walter, con cui viveva a Porto Civitanova Marche, per trasferirsi a Roma, dal padre, in zona Pineta Sacchetti. Lì, nell’estate 1902, mette mano ai primi capitoli di Una donna, che conclude in prima stesura l’estate successiva, a casa dello scrittore Giovanni Cena, con cui nel frattempo è andata a vivere, in via Flaminia 45. Il libro prende la sua forma definitiva nel 1904 e viene pubblicato dalla Sten di Torino il 6 novembre 1906. A Roma comincia la seconda vita di Rina/Sibilla; è il luogo fisico e sociale della sua liberazione, lo spazio simbolico della sua esistenza rigenerata che si apre finalmente alla scrittura, alla notorietà, allo scambio intellettuale, all’impegno comunitario (Cena la spinge a prestare la sua opera nelle scuole dell’Agro romano e presso un dispensario di Testaccio). Rina, rinascendo come Sibilla, ha osato ribellarsi al pregiudizio della donna sottomessa al ruolo di madre e moglie: dunque al sottinteso incontrovertibile del sacrificio imposto, da secoli, alle energie creative femminili, con la sistematica repressione dei relativi talenti; e, più in generale, all’idea deprimente di una vita statica e reazionaria, intesa a mo’ di fato immutabile e non di destino fluido in evoluzione, sottoposto per ciò stesso all’incidenza del libero arbitrio, dove cioè non sia possibile cambiare direzione, e quindi chiudere un processo di esperienze per cominciar daccapo, quasi nuovi. Il romanzo mostra, invece, che la vita di un individuo umano è, a prescindere dal sesso, un continuo succedersi diacronico (costituito a sua volta da intersecazioni sincroniche) di morti e rinascite esistenziali, in campiture cicliche legate al ribollire inquieto dell’esperienza: un processo creativo “aperto”. In questa coscienza della complessità del divenire cosmico, e nella serenità di averne giusta parte (per aver adempiuto al proprio imperativo etico interiore) si realizza forse, alla fine del libro, il sogno di armoniosa interezza vagheggiato – post factum – sin dalle prime pagine: malgrado i rimorsi per il figlio abbandonato.

«In cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola, su tutto, splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d’essere nell’ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l’ultima volta.

   In pace con me stessa».

sibilla aleramo

sibilla aleramo

Roma stessa le ha allargato e approfondito lo sguardo; le ha fatto capire, dinanzi a un mondo dove  tout se tient, quanto inutili, ridicoli e dannosi siano gli schemi di rappresentazione con cui l’uomo sociale cerca di ridurre l’infinito che, a dispetto degli argini di contenimento, appartiene per natura ad ogni cosa. È una lezione che la protagonista del romanzo, rinata a nuova vita, impara proprio dal cielo di Roma:

«Nel cielo le nuvole andavano, tutte avvolte dal sole, mutevoli e continue: le piazze, le fontane, le case di pietra, le cupole, il fiume e le pinete incise sull’orizzonte, il deserto della campagna e i monti lontani, tutto pareva seguire il lento viaggio delle nubi, tutto era com’esse immerso nella luce meravigliosa e com’esse appariva fluido ed eterno. Anch’io ero già passata sotto quel cielo che ora tornavo a guardare; ed anche in quel mio passaggio di adolescente l’anima s’era sentita dilatare al cospetto dell’infinito azzurro. Non ero la medesima, ancora? Non cominciava ora la giovinezza?»

Roma è il catalizzatore positivo del cambiamento: «l’itinerario di formazione e di crescita della nuova donna riparte da lì». Vi ha sede, da qualche tempo, un periodico femminile: Mulier. La  chiamano a collaborare. Il marito, che nel frattempo ha rotto con il suocero (con cui lavorava), teme di non saper fronteggiare l’ambiente mondano della Capitale. E poi non saprebbe che fare. Si risolve ad impiantare a Roma il commercio di alcuni prodotti locali. Ecco dunque il trasferimento a Roma. Ed ecco il travaso della Città Eterna, siccome affiora, dopo aver sedimentato, dal tessuto sottile dello sguardo, dentro la coscienza:

sibilla aleramo

sibilla aleramo

«Roma appartiene allo spirito che la desidera con volontà, e mantiene tutto quanto le si chiede con vigore d’anima. E forse non era tanto lontano il giorno in cui avrei compreso in un solo sguardo la città unica, l’avrei sentita tutta nel palpito del mio cuore… Frattanto, che ebbrezza e che estasi assistere con mio figlio ai lunghi tramonti di fiamma dalla terrazza del nostro quartierino, con dianzi il fiume e Monte Mario, dopo aver lavorato ore e ore nel silenzio dell’alto studiolo!

   Mi sembra di non poter raccontare quei miei primi mesi di vita romana (…) … Città di esaltamento e di pace!

   Riserbandomi di penetrare poco per volta la bellezza e la maestà dei luoghi sacri, esploravo lietamente le parti moderne, che mi risuscitavano il senso dell’energia umana avuto nella fanciullezza. Ma ad ogni tratto, dalla confusione e dal frastuono della vita febbricitante mi trovavo repentinamente trasportata davanti a quadri di silenzio e di sogno, lontano, in epoche non conosciute quasi, fuorché in leggende. Ed erano anche aspetti improvvisi di civiltà più prossime e più note al mio spirito, e l’impressione talora della presenza di grandi anime non ancora estinte, non ancora lontane dalla terra così improntata di loro. Se ero sola o col piccino soltanto e nulla d’estraneo mi turbava, l’intensità della commozione mi faceva qualche volta salire alla gola un singhiozzo. L’avvenire si velava, s’allontanava: il presente appariva più indecifrabile. Ed io, piccola accanto al mio piccino, quasi dileguavo alla mia stessa coscienza.

   Mi riscuotevano presentimenti vaghi di un’altra parola ancora che la città doveva dirmi. Intorno ai nuclei di pietra che rappresentavano memorie grandiose o attualità mediocri, sapevo che esistevano cinture di miseria, agglomeramenti di esseri che la società fingeva d’ignorare e nei quali intanto fermentava forse il segreto del domani…».

Sibilla Aleramo (1917)

Sibilla Aleramo (1917)

Roma parla di eternità attraverso la sua storia: è un muto colloquio interiore, di segni e simboli, che allarga l’anima e talvolta la confonde, aprendola anche alla contemplazione del futuro, sia pur enigmatico, che trapela dagli squarci di un presente non sempre generoso. È il «cuore del mondo» che parla al cuore dell’Uomo, e lo raccoglie – sparso da ogni luogo – sul più vasto cammino della crescita, dell’evoluzione. A Roma convergono e si incontrano gli spiriti eletti chiamati ad operare il bene, a migliorare il mondo. Uno lo incontra anche lei: una specie di “santone” ieratico (che nella realtà corrisponde a Umano, alias Eugenio Meale) col quale approfondisce la coscienza di una urgente evoluzione sociale, per l’avvento di una nuova epoca, «l’epoca dello spirito liberato».

 «Roma, sì, era il centro ideale, la comune patria delle stirpi privilegiate. Ripartivano quei pellegrini che avevano tante, tante aspirazioni comuni e che non potevano contemplare una comune opera irradiata da questo cuore del mondo, Roma!».

 Mulier ha i suoi uffici accanto a Piazza di Spagna. Ci va due o tre volte la settimana, e poi svolge il lavoro a casa: rassegna stampa, riassunti di libri o di articoli, traduzioni. Il marito non le perdona di «averlo indotto a gettarsi nel caos cittadino» e attende fiaccamente alle sue attività. E intanto lei, elettrizzata dalla città e dal lavoro (che la fanno sentire utile, parte di un immenso meccanismo e, quindi, viva come non mai) si gode la sinfonia delle stagioni.

sibilla aleramo 6Autunno:

 «L’autunno romano svolgeva intorno la sua magnificenza. Io proseguivo ne’ miei vagabondaggi assaporando tutto l’incanto misterioso degli spettacoli che mi si svolgevano dinanzi come altrettanti simboli (…) prima di riprendere il mio povero lavoro di giornalista guardo dalla terrazza il disco abbagliante del sole sopra i cipressi di Monte Mario, e le due fasce incandescenti che lo attraversano e arrossano l’orizzonte. E mi pare che quel tramonto si fisserà per sempre nel mio ricordo».

 Inverno:

«Venne Natale, cogli arbusti delle rosse bacche sui gradini della Trinità dei Monti, coi presepii di Piazza Navona, delizia del mio piccino; venne la stagione dei teatri e delle conferenze, ed il febbraio coi primi rami fioriti; per le vie stormi di giovani straniere, alte, bionde e ridenti, passavano recando sulle braccia le candide nuvole di petali (…). Lavorando, continuavo a sentirmi alitar nello spirito, in maniera confusa, le idee e le immagini accolte durante la passeggiata, nei prati di Villa Borghese o sulla deserta duna del fiume». Continua a leggere

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DUE POESIE di Giorgina Busca Gernetti “Eleusi candida e silente” “Capo Sounion” sul tema “Poesie su personaggi storici mitici o immaginari”

Bassorilievo di Farsalo. Museo del Louvre, Parigi

Bassorilievo di Farsalo. Museo del Louvre, Parigi

Invitiamo i lettori interessati ad essere ospitati nel blog ad inviare poesie sul tema: “Poesie su personaggi storici mitici o immaginari”

Giorgina Busca Gernetti è nata a Piacenza, si è laureata con lode in Lettere Classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è stata docente di Letteratura Italiana e Latina nel Liceo Classico di Gallarate, città dove tuttora vive. Ha studiato pianoforte al Conservatorio di Piacenza. Ha composto liriche fin dall’adolescenza, seguendo un’intima vocazione e nell’intento di dare forma duratura alle proprie emozioni, ma ha iniziato tardi a pubblicarle e a partecipare ai Concorsi letterari con inediti e opere edite. Ha pubblicato i libri di poesia “Asfodeli” (Torino 1998, prefazione di Sandro Gros-Pietro), “La luna e la memoria” (Torino 2000, prefazione di Elio Andriuoli), “Ombra della sera” (Torino 2002, prefazione di Antonio Gagliardi dell’Università di Torino), “La memoria e la parola” (pubblicazione 1° premio, Pisa 2005, prefazione di Nazario Pardini), “Parole d’ombraluce” (Torino 2006, prefazione di Sandro Gros-Pietro, postfazione di Gianni Solari dell’Università di Torino), “Onda per onda” (Spinea 2007, prefazione di Paolo Ruffilli), “L’anima e il lago” (pubblicazione 1° premio, Pomezia 2010, Tricase 2012², prefazione di Giuseppe Panella della Scuola Normale Superiore di Pisa); il saggio su Cesare Pavese “Itinerario verso il 27 agosto 1950” (in “Annali” del Centro Pannunzio, Torino 2009; in volume singolo, Tricase 2012); la raccolta di racconti “Sette storie al femminile” (nell’Annuario “Dedalus” n. 1, Novi Ligure 2011, prefazione Ivano Mugnaini; in volume individuale, Tricase 2013, prefazione di Anna G. Pessina). È in elaborazione un nuovo libro di poesia.

Bassorilievo in terracotta (pinax) del VI secolo a.C. proveniente dalla Magna Grecia, con rappresentazione di Demetra e Dioniso nell'atto di mostrare

Bassorilievo in terracotta (pinax) del VI secolo a.C. proveniente dalla Magna Grecia, con rappresentazione di Demetra e Dioniso nell’atto di mostrare

Nel 1999, a Gallarate, ha recitato sue poesie in un “reading” di poeti con Tomaso Kémeny, Vivian Lamarque, Giampiero Neri, Franco Buffoni. Nel 2001 ha letto poesie d’amore in un “Contrasto” con il poeta Nevio Nigro nella “Familia Piemontéisa” di Torino. Ha partecipato ai Convegni di poeti, critici e filosofi, organizzati da Sandro Gros-Pietro nel “Circolo degli Artisti” di Torino, “Nostalgia dell’Eterno” (2003), “Natura benigna / Natura matrigna” (2006), “La gioventù del mondo” (2006). Ha inoltre illustrato i propri libri di poesia a Piacenza (sua città natale) in un “Incontro con l’Autore” svoltosi nel 2004 presso la Fondazione di Piacenza e Vigevano. Ancora a Piacenza nel 2007, nell’Atélier della pittrice Roberta Braceschi, (dopo il Salone del Libro di Torino nel 2006 e il Centro Pannunzio di Torino nel 2007) ha di nuovo proposto il libro “Parole d’ombraluce” con numerosi rimandi alle altre sue opere e un appropriato accompagnamento di musica classica durante la recita delle poesie. Nel 2010 lo stesso libro è stato presentato a Firenze, nel “Pianeta Poesia” di Franco Manescalchi, con la relazione del prof. Giuseppe Panella e di altri valenti relatori. Nel 2012 il Centro culturale “Firenze Europa Mario Conti” le ha organizzato nel Caffè Storico Letterario “Le Giubbe Rosse” di Firenze un “Incontro con l’Autore” sul tema “Classicità e modernità nella poesia di Giorgina Busca Gernetti”, articolato sui sei libri di poesia finora da lei pubblicati.

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Sue poesie, talora tradotte in lingue straniere, sono incluse in numerose Antologie a tema oppure destinate alle scuole superiori (Book Ed., Genesi, Ibiskos, Helicon, Latmag ed., CFR). Suoi saggi letterario-artistici, racconti e articoli vari, recensioni, commenti agli scritti altrui compaiono in riviste specializzate, anche universitarie (“In Limine”), sia cartacee sia elettroniche, oppure in Blog culturali. Ha ottenuto giudizi di consenso dalla critica più qualificata (Giorgio Bárberi Squarotti, Giuseppe Panella, Enrico Nistri, Domenico Cara, Paolo Ruffilli, Francesco D’Episcopo, Vittoriano Esposito, Sandro Gros-Pietro, Mariagrazia Carraroli, Eugen Galasso, Giuliano Ladolfi, Pasquale Matrone, Nazario Pardini, Giuseppe Giacalone, Giuseppe Baldassarre, Sandro Gros-Pietro, Renzo Pavese e molti altri). Ha conseguito più di 70 primi premi per editi e inediti, due Medaglie del Presidente della Repubblica Italiana e numerosi Premi per la Cultura. Ha rifiutato un primo premio prestigioso e una corona d’alloro non consoni ai suoi principi.

raffigurazione dei misteri eleusini

raffigurazione dei misteri eleusini

 

 

 

 

 

 

 

 

Eleusi candida e silente

Bianche rovine giacciono silenti
nel vetusto sacerrimo santuario
d’Eléusi misteriosa nei suoi riti
per Demétra, gran madre della terra
bionda di grano, rossa di papaveri
sbocciati in primavera, quando torna
dall’Ade oscuro e lugubre Perséfone,
la bella Kore, amata figlia e pianta
dalla madre vagante disperata
scrutando ovunque, con la face accesa
nel buio della notte, nella luce
sfolgorante del sole di Sicilia.

Celata dietro un rocco di colonna
sogno o rivedo in mistica parvenza
il fascinoso mito che consacra
questo luogo di culto e di preghiera.

Regina delle Ombre era Perséfone
sposa del re degli Inferi, il crudele
Ade che la rapì dai prati sìculi
mentre danzava con le gaie Ninfe.
Dal sole al buio tetro d’Oltretomba
cadde la bella figlia che la madre
cercò piangendo e invocando gli dèi.
Ebbe pietà il potente Zeus, che volle
il ritorno di Kore sulla terra,
spoglia di fiori e frutti ed erbe e messi,
per risvegliarla dal gelido inverno
e rivestirla d’ogni aulente fiore.

Par di vedere nel sogno ad Eléusi
quelle vicende amare per le dèe
e per gli uomini, nel cupo inverno
e nella primavera ormai insperata.

Vita e morte, rinascita e ancor morte.
Sei mesi sulla terra e sei negli Inferi
fu il patto che il tremendo Ade impose
alla dolce Perséfone, sua sposa
ma figlia di Demétra, amata madre.
Il ciclo delle squallide stagioni
che fan sfiorire e morire il rigoglio
virente e profumato in quelle estive
perennemente ruota sulla terra,
generando la fertile rinascita
di germogli sui rami, d’erba giovane,
di bionde spighe e dolci frutti e fiori.

Mortali solo gli uomini, dolenti
della sorte dal Fato inflitta a tutti
senza uno scampo, senza via di fuga
dall’angoscioso destino di morte.

Sperano di commuovere le dèe
nei Misteri Eleusini con rituali
e preghiere nel celebre santuario,
implorando un futuro oltre il sepolcro
dopo l’odiata morte ineludibile.
Invocano la fertile rinascita
della natura dopo l’aspro inverno,
ma l’animo per il futuro trema
nell’Ade oscuro, denso di mistero,
d’Ombre dolenti squallida dimora.
Par di sentire nel silenzio candido,
tra le sparse colonne, fioche voci.

Sono schiere d’oranti che sussurrano
preghiere e litanìe per le due dèe.
Mi unisco a loro in sogno nel sentiero
tra le rovine della sacra Eléusi.

i misteri di Eleusi

i misteri di Eleusi

Capo Sounion

Place me on Sunium’s marble steep
Where nothing, save the waves and I,
May hear our mutual murmurs sweep:
There, swan-like, let me sing and die.
(George Byron)

Anch’io, Byron, un cigno vorrei essere
che qui canta nel mormorìo dell’onde,
canta in questa infinita solitudine
del Capo Sounion di marmo divino
e muore nello splendido tramonto
del sole che declina fino al mare.

Nel meriggio dell’Ellade assolata
il candore del marmo luce e splende.
Le doriche colonne del Santuario,
Tempio di Posidóne dio del mare,
s’erigono nel terso cielo azzurro
sulla vetta del sacro promontorio.

I miei passi sui tuoi, Poeta amante
dell’Ellade ventosa, accarezzata
dal mare che risuona in lieve mùrmure,
in urla acute contro la scogliera
se tempesta l’adira e lo sommuove
talora per vendetta contro gli uomini.

Il nostro tempio, Byron, sorge a picco
sull’onda che rammenta come un’eco
il lamento e le grida e l’atra morte
del padre Egèo che diede il nome al mare
in cui dall’aspra rupe si scagliò
per l’errore fatale di Teséo

Vele nere come annuncio di morte,
non bianche come un grido di vittoria
sul Minotauro mostruoso di Creta.
Nel Labirinto si salvò l’eroe
grazie al filo d’Arianna e al suo vigore,
ma la sacra promessa non mantenne.

L’eroe glorioso, del sangue macchiato
d’Asterione, feroce Minotauro,
discendente dal Toro luminoso
sacro al dio Febo e caro a Poseidone,
dai venti tempestosi del dio irato
le sue candide vele ebbe in lacerti.

Un re si getta dalla rupe in mare.
Un altro re sulla scogliera siede
e piange la sconfitta a Salamina,
contempla l’acqua rossa del “suo” sangue,
del sangue dei Persiani massacrati
dai Greci per la loro libertà.

Da Capo Sounion ammira la flotta
dei Persiani con navi poderose
come l’impero ch’era il suo progetto.
Il Greco che la patria vuole libera
con navi snelle e lievi come i sogni
vola sul mare tra le belle isole.

Serse sconfitto piange il sogno infranto
nato dall’hýbris che ignora ogni limite,
ma il Greco che combatte per la patria
or può cantare e suonare la lira,
di vino Samio riempire la coppa
fino all’orlo e brindare con fierezza.

Rimpiangi, Byron, questo eroico evento
e sogni non più schiava la tua Ellade
amata per la sua fiera Bellezza.
Di marmo sul pendìo del Capo Sounion
vuoi cantare come un cigno e morire.
Anch’io con te tra il mormorio dell’onde.

Hai inciso a fondo il tuo nobile nome
di una colonna dorica alla base,
memoria eterna del tuo grande animo
per chi sosta del Tempio tra le file
di ritte e snelle colonne nel vento
e nel sole del sacro Capo Sounion.

(inediti, inseriti nel libro di imminente pubblicazione)

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TRE POESIE di Lidia Are Caverni “Proserpina” “Odisseo notturno” “Il ciclope risvegliato” (poemetti 1991) POESIE SU PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

 Invitiamo i lettori interessati ad essere ospitati nel blog ad inviare poesie sul tema: “Poesie su personaggi storici mitici o immaginari”

Roma_pittura parietale_ impero romano

pittura parietale stile pompeiano

 

Lidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3/11/41, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. E’ insegnante elementare in pensione. Scrive sin da giovanissima. Ha pubblicato quattordici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  “Il passo della dea” 1999; “Fabulae linguarum” 2000; “Le montagne di fuoco” 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; ”L’anno del lupo” 2006 con la prefazione di Walter Nesti; “Animali e linguaggi” 2006 con la prefazione di Michele Boato; “Il prezzo dell’abbandono” 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; “Fiore bianco notturno” 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; “Colori d’alba” 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi “. Nova itinera” 2014 con la prefazione di Franco Dionesalvi.

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

Di racconti: “Il giorno di primavera” 1992; “La fucina degli dei” 2000; “Il satiro e la bambina” 2000; “L’albero degli aironi” 2004; “I giorni del breve respiro” 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia “Clotilde e la bicicletta” 2000; “Il pesce verdino” 2009. Romanzi:  “I giorni dell’attesa” col ilmiolibro.kataweb.it di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: “Discorso sul linguaggio”. Ha pubblicato con la Casa Editrice Bruno Mondadori, Passigli, Bonaccorso con distribuzione nazionale, Masso delle Fate, Raffaelli, Edizioni Orizzonti Meridionali, Istituto Italiano di Cultura di Napoli. È stata tradotta in lingua inglese e rumena. Collabora a varie riviste, fra cui Capoverso, Poiesis, Lo scorpione letterario, Atelier,  ClanDestino. Ha collaborato con la rivista “I viaggi di Erodoto” della Casa Editrice B. Mondadori. Sue poesie sono apparse sui blog di Antonio Spagnuolo, Fortuna Della Porta, La Recherche, José Pascal, Moltinpoesia.

Roma Bernini il ratto di Proserpina 1621

pittura parietale stile pompeiano

 

Proserpina

Potrebbe ancora nascere
solitaria ruga dove si leva
il mare
nei cespugliati lentischi
ad abbeverarsi di salsedini
per abbarbicata emergere
dove ruvide labbra
la strappano
nei silenzi di mattini
dorati perduti come l’alba

Se ritornasse potrebbero
fiorire primavere
dimenticate orde remote
di notti nei solitari
sbadigli dei sonni
che tessono mai compiuti
riposi invecchiati volti
dipanano matasse
di lunghe stagioni
e ghirlande per le intrecciate
danze

Il tuo suolo di ovide
aspro nasconde desiderio
di fiori e di aratri
nelle purificate messi
impaziente attendi
che dai visceri scivoli
la bella
a ridonarti sorrisi

Forse languida non sa
più lasciare tepori
di notti
troppo è sazia di baci
prigioniera l’avvolgono
braccia nelle profondità
senza spiragli a rallegrarla
di luci
lento matura il seme
nel suo grembo
di spenta primavera

Della tenera cova
non resta che attesa
vuote le mani sospirano
morbidezza di guance
non sfiorata la terra
grida che si apra
il chiuso pugno di madre
spogliata del frutto
neppure seme spande
sterpi curvi abbrutiscono
labbra dove non più che
amare stoppie divorano
campi senza germogli

A sera tornavano i figli
stanche giovenche nel sonno
curvando l’umidore del viso
al mattino destandosi
nel fulgido bagno
del giorno
intrecciava nastri la madre
per il fiore più bello
finché tutta s’ingrigì la terra
nel mordente gelo
il sole a mascherarsi d’ombra

Acre sposo ruppe
il suo velo di sposa
imenei di tenebra levarono
canti si spensero i risi
dei dolci giochi
i sogni dei connubi
incantati
irsuti abbracci strinsero
tepori di fanciulla
traditi serti di fiori
oscurarono occhi

Corni modulano essenze
nevi ricoprono gli aridi
campi
fauni cercano memorie
di verdi solchi
non destano i suoni
eternità di sonni
mute acque non sanno
infrangere ghiacci
e aspettano i rinnovati
gorgogli

Il sole si colmò di raggi
penetrando la terra
suggellò la promessa
invano Pluto oscurava
le stanze per tradire
l’attesa
bagni di spigo aspettavano
pallide guance finché
tornasse l’aurora a indorare
la pelle

Ampi seni accolsero
tremori
splendenti tornarono
arcobaleni nelle freschezze
di piogge
dilagarono i teneri germogli
belati d’agnella
come la sua gola
ebbra di gioia
negli involucri delle bianche
braccia sospirose di rosa

Spighe bionde potranno
ora adornare capelli
papaveri arrossare labbra
ridenti come pianure
irrorate di chiare acque
frutti gonfiare grembi
nei flebili vagiti
la notte avvolgersi di stelle
custode l’Orsa a indicare vie
nei quieti solchi del mare
dalle pescose reti
dimenticate si perderanno
tristezze.

Cogito figura 1
Odisseo notturno

Segnato dal silenzio
non avresti che poche cose
da dire
dissanguato ti lasciano
parole che dicevano ore
pallori di meriggi
consumati in una tazza
di thé
sole ti restano attese
di presenze che non verranno

Rustiche pareti indicano
ricoveri dove si passa
una notte
aspettando di proseguire
cammini
devastate da lune
che dissipano raggi
incuranti della tua nudità

I nomi che tacciono
perdute stelle
mai possedute
se non per indicarle
con i pallidi telescopi
degli occhi
non le ritrovi
nella notte senza luna
se non per rimpiangerle

Curva sul tuo cappello
si è posata la luna
un po’ di mago
un po’ di bohemien
ne approfitti per tacere
chi sei
preferendo velarti
di mistero

Ora ti sorridono gli occhi
molto hai sognato
di luoghi lontani
assaporate acque di fontane
e di pianti
mescolati sudori e mattini
sosti e stai
di nuovo aspettando di partire

Assetato di follia
non porteresti con te
che le consuete banalità
sono le sole da cui
si può uscire
zavorre che ti faranno
tornare

Assaporate le acque
del sogno
non potrai che dire vado
infinite ti giungono malie
di stelle lontane
che non ritrovi più qui
mascherate di indifferenza

Lo stretto corpetto
rivela l’ombelico del mondo
attorno a cui credi
di ruotare
senza voltarti indietro

Solo un luogo ti è noto
che riscopri nei luoghi
che trovi
e non sei mai partito
punto che lanciato ritorna
boomerang di te stesso.

 

raffigurazione di Polifemo

raffigurazione di Polifemo

Il ciclope risvegliato

Scosso dalla cenere
che generava il sonno
(per destarsi non basta
che lieve sbatter di ciglia)
diatermie generate dai silenzi
e dai ghiacci di avvolgenti
simulacri destinati
ad altri pianeti
potresti intorno veder Continua a leggere

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QUATTRO POESIE di Nazario Pardini  “Ulisse” “Con Venere a settembre” “Il canto di Alceo” “Dallo scoglio di Lèucade” (Poesie su personaggi storici mitici o immaginari)

Invitiamo i lettori interessati ad essere ospitati nel blog ad inviare poesie sul tema: “Poesie su personaggi storici mitici o immaginari”

Pasiphae Dedalo e Icaro decorazione parietale a mosaico Zeugma Seleucia II secolo Turchia

Pasiphae Dedalo e Icaro decorazione parietale a mosaico Zeugma Seleucia II secolo Turchia

 Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

Venere statua

Venere statua

Con Venere a settembre

Dal mare blu, mentr’io miravo intento
il concerto degli organi del cielo
e degli oceanici spazi, spiccò
il vivido splendore di marmorea
bellezza giovanile. I lunghi crini,
sincronici con l’acque speculari
ai golfi di Citera, erano avvinti
al seno di corallo e ai fianchi eburnei
che il mare partoriva. Già ti amai
perlea dagli occhi chiari. Erano i giorni
nei quali mi trovavo a rimirare
le mitiche scogliere. Ed incosciente
immergevo nel cerulo frullare dei marosi
il senso di pochezza
per affogare l’anima. Fu un fremito
il suo morbido apparire al mio stupore.
“Eccoti amore” appena mormorò
muovendo rosee labbra con sottile
malizia sensuale. Io trasalii
ed intonai le rime di superba tensione
al profumo di donna
che attorno diffondeva. Ventilò
lo spirito del canto delle Grazie.
E lei dolce divina recitò
attorno alla Natura delle cose
i versi che il poeta le donò.

Giorni e giorni innocenti nei sentieri
dei pini e degli allori si donò
al mio immemore seno; vissi solo
di lei. Mi ricopriva coi capelli
lunghi e fluenti quali i biondi steli
dei grani mossi dai respiri estivi.
Ma fu settembre: il mare si faceva
sempre di più verdastro, ed il fogliame
cadeva color rame sui suoi fianchi
coperti appena da una veste rosa
che le donava il cielo per pudore.
Abitavamo selve di Citera
folte e selvagge. Appena la stagione
disseminò dintorno le memorie
dei gracili fogliami e il vento freddo
stava per sopraggiungere, lo zeffiro
pietoso si levò.
Stormivano le fronde degli abeti
per cedere il vestiario olivastro
alla sua nuda bellezza.
L’avvolse nel respiro e, con dolore,
la sottrasse ai miei spasimi. Nell’isola
di Cipro la rinvenni. Indifferente
ornava di fulgore i suoi dirupi.

Ulisse pittura parietale

Ulisse pittura parietale

 

 

 

 

 

 

Ulisse
(il ritorno)

Qui tutto è sapido. Lo so! I profumi
dell’isola, il ginepro, la lavanda,
e tu che ho ritrovato. Ho sempre in mente
il volo urlato della procellaria.
Mi strappava la carne. Le sirene
misteriose e adescanti e io che immobile
all’albero maestro volli fendere
i nascondigli fitti del sapere,
i più vogliosi. È questa la mia isola.
Qui alla sera torna a dilatarsi
l’idea dei meriggi e il lungo andare.
E ancora estendo sguardi in lontananze
sperdute. Mi lasciarono nell’anima,
crepata di salsedine, le note
che tornano insolute. È sempre aperta
la sfida tra l’eterno e me che cerco
con gli occhi indolenziti quella luce
che mi soverchia. Ma stasera il mare
riporta chiare voci di Calipso
e di Circe. E il canto di una vergine
fanciulla intenta al suo corredo.
Sento ancora la sua candida pelle
su me adusto di sale. Ritornare
era il mio sogno. Eppure condannati
siamo sempre dai gorghi della vita
che le spoglie depongono. Nell’anima
germinano e si fanno giganti al
calare. Ognuno tiene di Nausicaa
chiusa con sé nel fondo una sembianza
mai defilata. Ed ora salta fuori
e porta dietro ogni contorno d’anni
e di stagioni che non solo amore
significa, ma voglie e nostalgie
che trovano le vie le più nascoste
e avanti a noi si levano. La ciurma
è lì che attende. Ancora salperemo
oltre colonne, questa volta, mitiche
d’impedimento ai sogni. L’ora è giunta.
Se il mio destino vuole che ritorni
ai familiari usi ed ai barlumi
dell’isola agognata, porterò
con me più luminoso il cielo. Se
perire vorrà ch’io debba in mare
straboccante d’immenso sopra i limiti
del mio essere umano, perirà
assieme a me l’eterna primavera
di chi non sentì mai sopita in anima
la voglia del viaggio. Poi tornare
nuovi. O superbi spegnerci per via.

 

Nazario Pardini

Nazario Pardini

 

 

 

 

 

 

 

 

Dallo scoglio di Lèucade

E furono le Eumenidi a portarmi
dove non vi è stagione. Ventilava
zefiro eterno l’isola di Lèucade
eternamente dolce nel respiro
di lavanda e di timo. “Dallo scoglio”
mi dissero “Ove siedi ad osservare
gli ampi spazi del mare ricamato
da sciami di gabbiani, si gettavano
gli sfortunati umani per disperdere
reminiscenze estreme. Ed anche Venere
restò meravigliata nel sentirsi
serena dopo il volo. Gli infelici
a Lèucade accorrevano
dai più lontani luoghi. Preparavano
con offerte ad Apollo e sacrifici
la loro prova. Ed erano sicuri
coll’aiuto del dio di sopravvivere
all’eccelsa caduta. Proprio qui,
dove tu siedi, stette il piede tenero
dell’infelice Saffo che Faone
abbandonò. Nel cielo di quest’isola,
lucido ed armonioso, riscontrava
solo dolore; andava su altre sponde
dove il mare violento tormentava
gli scogli dissestati per rivivere
il suo triste destino. Dalla cima,
sfiorata dalle mani
della dimenticanza, si gettò
in quest’onde fatali. Ed Artemisia
regina della Caria ed altre ancora
raggiunsero la meta, ma scambiando
la vita con la morte.” “Mi sovviene
il mio settembre tanto logorante
nei palpiti di umana inconsistenza,
nei flebili lamenti di esistenza,
nei pallidi scolori di tristezza
di un borbottio leggero di rumori
quasi alla fine. Ma non so se vale
di più restare immoti nella stasi
di un eterno sereno che provare
il dolce senso del dolore umano”.
“Proprio il poeta, diciamo di Nicostrato,
gettandosi dall’alto della rupe
non lasciò col patire
il respiro di vita. Forse il dio
volle che poesia perpetrasse, dopo il salto,
il suo divino suono. Ci chiediamo
se più grande pacato che in tormento
come da scoglio umano.” Ed io fuggii
scabro settembre, mese addolorato,
dal sangue che si sperde in ogni dove
dell’ultimo respiro della vita.
Io ti lasciai e un salto nelle oniriche
acque di Lèucade non mi concesse
morte né oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini feconde rivissute
da un’anima al di sopra delle povere
storie del giorno. E ti rivissi, vita,
con un sentire lieve e tanto amato
che in ogni fatto lieto o meno lieto,
ma scampato, vidi un superbo dono.

Il canto di Alceo

Il canto di Alceo

Il canto di Alceo

Se a me è cantare, lo farò stasera
sullo splendido fiume che disperde
l’anima chiara dentro il mare di Eno.
Il sole fuoco strugge la sua mole
in mezzo all’onde e il cielo rutilante
è speculare ai gorghi rumorosi
della foce. Diffonde il suo mugghìo
sui pascoli prativi della Tracia
verde e distesa. Ed io farò che appaiano
gli sciami di fanciulle dalle guance
rosate e dai capelli d’oro nelle
tremule note delle ghiaie. I guadi
rifletteranno trepide le cosce
(le sfioreranno mani dolcemente)
lucide come d’olio. E questa sera
nel festino lucente delle coppe
traboccanti del nettare che i colli
dettero generosi, ci faranno
dimenticare l’ardua eccitazione
delle ferali gesta. Sia il simposio
stasiotica fucina e gran sollievo
d’asperità. Leggiadre le figure
d’efebica snellezza còlte d’ansito
quali cerbiatte sussultanti all’ombre
sperse nel bosco o ardue di volute
quali puledre indomite di Tracia
negli scarti selvaggi, ecciteranno
i nostri sensi gonfi di passione.
E prima che la morte
ci getti alla deriva nelle forre
(il nostro crine bianco sarà scherno
di freschi sguardi ai brividi
d’amore) palperemo i corpi freschi
di verginale pelle di fanciulle
esili e generose. I bei tramonti
saranno qui con noi con il respiro
di divini salmastri ad esalare
gli acuti della vita. Il cielo è fulvo,
è rosso, è bianco, è verde per gli svoli
di colimbi, d’aironi e cormorani
che frangono nel rosso della sera
gemme bianche dai frutti alle correnti
del fiume testimone. Menalippo
e tu mio amico, e tu, e tutti voi
che baciati da sorte generosa
vi vedete, cessate di pensare
al torbido Acheronte. Ubriacatevi
e Menalippo tu fallo con noi;
tu forse credi di poter rivivere
questa luce di sole. Riassaggiare
il nettare che turba od i piaceri
del corpo, se una volta nel buiore
sarai dell’Acheronte. Non sogniamo!
Nemmeno la saggezza, neanche quella
valse a Sisifo, seppure figlio d’Eolo,
un re. Alla morte si pensava Sisifo
di avere scampo. Ma sotto la terra
nera, arrivato là oltre Acheronte,
il re figlio di Crono lo tormenta.
“Fugite quaerere!”. Noi siamo ancora
giovani per quel mondo. Non pensiamo
a quel regno. Da là non si ritorna.
Non rivedremo più le iridescenti
luci riflesse sopra i verdi pampini
di un sole vesperale. Sia sommersa
la sorte dall’oblio che l’ebbrezza
ci donerà d’efebico sopore.

(da Poemetti onirici, inedito)

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POESIE INEDITE di Giorgio Linguaglossa La felicità è scritta su un’elica doppia e sulle foglie degli alberi, Una ridicola orchestrina a piazza Winckelmann, Il Signor Cogito, da La notte è la tomba di Dio, con commenti di Anna Ventura e Giuseppina Di Leo

Poetry Kitchen Topologia del poetico CoverGiorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica la sua prima opera poetica, Uccelli (Roma, Edizioni Scettro del Re) e, nel 2000, Paradiso (Edizioni Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Dal 1992 al 2005 ha diretto la collana di poesia delle Edizioni Scettro del Re di Roma. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dirigerà fino al 2005. Nel 1995 redige e firma, con altri poeti, Giuseppe Pedota, Lisa Stace e Maria Rosaria Madonna, il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicandolo nel n. 7 della rivista da lui diretta. Nel 2001, pubblica il racconto lungo Storia di Omero nel volume collettivo Via Pincherle – Modelli Narrativi a Confronto, per le Edizioni Libreria Croce. Nel 2002 pubblica il libro di saggi sulla poesia, Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Coedizione Libreria Croce – Scettro del Re). Suoi saggi sulla poesia contemporanea sono presenti in Linee odierne della poesia italiana, a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio (Torino, Quaderni di Hebenon, 2001), e nel volume Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei a cura di Gabriela Fantato (Milano, Bocca, 2004). Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare presso editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Ha curato l’apparato critico del numero speciale 33 di «Poiesis» del 2006 dedicato alle traduzioni di alcuni saggi del poeta russo Osip Mandel’stam e di dieci poesie inedite del poeta russo: Il fornello a petrolio (poesie per bambini). Nel 2006  pubblica La Belligeranza del Tramonto (LietoColle 2006). Alcuni suoi saggi sulla poesia contemporanea sono apparsi in “Numen” del 2007, quaderno di critica edito dalla rivista di segni contemporanei «Altroverso» di Campobasso. Ha curato le presentazioni critiche dei poeti inseriti nella La poesia degli anni Novanta. Antologia (Roma, Scettro del Re, 2002) ed è presente con alcune composizioni nella Antologia della poesia erotica contemporanea (Roma, Ati Editore, 2006). Collabora in veste di critico con le riviste di letteratura: «Polimnia», «Hebenon»,  «Altroverso», «Capoverso», nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com – Sue poesie sono state tradotte in spagnolo, inglese e bulgaro. In quest’ultima lingua è stata pubblicata nel 2007 la traduzione de La Belligeranza del Tramonto. Ha curato le Antologie di poesia Poeti del Sud EdiLet, 2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016).
Nel 2007 è apparso il saggio Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia  in Atti del Convegno È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo per le edizioni Passigli di Firenze. Nel 2010 esce La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) l’editore Edilet di Roma; nel 2011 per il medesimo editore esce Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945 2010). Nel 2013 esce il saggio Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, e la raccolta di poesia Blumenbilder (Natura morta con fiori) per Passigli, Firenze. Nel 2016 pubblica con Progetto Cultura la Antologia di poesia contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo e il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga
anna ventura

anna ventura

Commento di Anna Ventura

Non è facile entrare nell’immaginario di Giorgio Linguaglossa; e, se ci si riesce, bisogna avere l’umiltà di ammettere che, forse, qualcosa è stato tralasciato, dietro le quinte molteplici di un palcoscenico dove compaiono fantasia e ragione, un’ispirazione ora opulenta, bizantina, ora algida e segreta, forse irraggiungibile. Questo anche perché, dietro la spinta artistica, si indovina una cultura complessa, dove convergono suggerimenti orientali e istanze che muovono dalla storia e dalla cultura occidentali. La presenza umana è rappresentata da personaggi in cui il valore simbolico travalica il concreto, per cui la realtà cede il passo, talvolta, a un’invenzione ora cupa e sofferta, ora sfolgorante, sempre sorretta da un sottofondo musicale, denominatore comune di tutta l’opera. Come comune a tutta l’opera è la presenza degli animali, che, forse, meglio degli uomini, rispondono a una ricerca di onestà e di bellezza: lo splendore della tigre,la varietà degli uccelli. Ma, anche, a contrasto, ecco la crudeltà dei mastini, l’oscura minaccia del lupo, la presenza buia del corvo. Il discorso si addentra nei meandri della storia recente, quando gli uomini portavano gli stivali e Marlene incantava i cuori solitari; quando  il massacro era nell’aria, e la gente si apprestava a subirlo; quando la bellezza non sapeva dove trovare un rifugio. Gli scenari che fanno da sfondo hanno anche essi una forte componente allusiva: corridoi bianchi, anditi privi di ringhiera, scale infinite, dove si può pensare a Escher, ma anche a De Chirico e a Piranesi… C’è poi un’attenzione al numero, che rientra, anche essa, nella ricerca di esattezza, ordine, equilibrio, che connota tutta la raccolta: sette corvi, tre squali, una tigre,un cormorano nero, un merlo. E ci sono anche frotte di lupi al guinzaglio, i pipistrelli col muso ad uncino, gli uccelli storpi che prendono un volo sghembo; le blatte che si accalcano sotto la porta, i mastini pronti a scatenarsi: queste (ed altre) sono le bestie dell’incubo, che, come gli angeli gobbi, gravano su un orizzonte di oscura minaccia; minaccia mitigata, tuttavia, da squarci di luce, da presenze affettuose: la madre “ammalata di stelle”, la bellezza di Enceladon, il profumo dei gelsomini, i pesci d’argento che nuotano contro corrente. Anche gli oggetti hanno valenze allusive: la sedia rossa, il violino,l’occhio di vetro, il cappello rosso, il frack nero, la lanterna rossa, il quaderno nero; si noti come anche il colore abbia connotazioni ricorrenti:il bianco, il rosso, il nero: colori indelebili, tracciati con mano ferma. Come con mano ferma è tracciato tutto l’universo di Giorgio Linguaglossa,  Arbiter  nella grassa cena di Trimalcione che ancora stiamo consumando.

giuseppina di leo

giuseppina di leo

Commento di Giuseppina Di Leo

Solitaria è la nostalgia, è stato il commento scritto a caldo a conclusione della lettura di questa poesia di Giorgio Linguaglossa, e mi sono chiesta ‘perché?’, o per dire meglio: per quali ragioni la poesia mi ha procurato un pensiero simile? Si entra in uno o più spazi immaginari attraverso rimandi contigui tra interno ed esterno, le ordinate sono indipendenti dalle ascisse, i riferimenti temporali sono aboliti, come pure i punti cardinali, e se una stella indica il cielo è per ricordare che l’uomo viaggia lontano dal tempo, suo e della storia.

«Mia amata, il mio posto è qui».

La scrittura è il luogo. Meglio: il luogo è la poesia. Nell’hic et nunc tutto il tempo somma l’insieme degli infiniti presenti. Il verso racchiude una sua compiutezza che non rimanda ad un ‘a capo’, al verso successivo; anzi, sembra quasi che, coscientemente, si isoli. Manca la ricercatezza di parole chiave che conducano a un senso, perché ogni parola è nel senso: essa, esprimendosi, ricerca sé stessa.
Herr Cogito, è una figura emblematica: è la voce vera del nostro tempo in quanto include in sé tutto quello che il nostro tempo rappresenta, passato e presente.
Ma il signor Cogito può esprimere il tempo nel suo presente.
Come in tanti addii, i flash-back lo racchiudono.
Geniale.

"The Knight, the death and the devil", B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.

“The Knight, the death and the devil”, B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 13

La felicità è scritta su un’elica doppia e sulle foglie degli alberi

Dürer ha finito l’incisione:
“Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”.

Il cavaliere galoppa verso il limite del quadro.

Il diavolo gli sussurra qualcosa di sconveniente
all’orecchio.

La morte, invece, sub specie di un caprone cornuto,
in un angolo, aspetta il suo turno,

ma il cavaliere galoppa verso il futuro,
manifesta disprezzo e alterigia, ha il volto corrucciato.

Il cavaliere non sa che tutto comunica con il tutto,
che c’è un prisma, un Aleph da qualche parte,

che la felicità è scritta su un’elica doppia
e sulle foglie degli alberi.

E viaggia sulle ali di una farfalla.

Stanza n. 15

Enceladon tira fuori dalla borsetta lo specchietto

Intanto, si alzano in volo gli aeroplani carichi di bombe.
Enceladon tira fuori dalla borsetta lo specchietto,

Si ripassa il rossetto sulle labbra, il fard sul bellissimo volto ovale.
Cogito si affaccia dal finestrino del treno blindato.

Parla della bellezza di Enceladon.
La finestra in fondo alla sala bianca del ricordo.

Distesa di abeti su un cielo lurido.
Il Re delle blatte sbuca da una botola del pavimento del treno:

«Sono una Figura del presente. Sono in atto.
L’attualità è nient’altro che il presente con le sue Figure.

Una di esse tocca la finestra del passato, un’altra
collima con la finestra del futuro».

«Le parole non servono per comunicare».
Cogito aspira del fumo dal sigaro italiano.

«Signor K. mi limito a rispondere alle Sue domande».
«Ogni Sua parola può essere rivolta contro di lei»,

replica K. dal corridoio.

Giorgio Linguaglossa giacca bluStanza n. 17 Continua a leggere

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UNDICI POESIE METAFISICHE di Kikuo Takano (1927-1998) da “L’infiammata assenza” Commento di Renato Minore

Tokyo Maison Hermes

Tokyo Maison Hermes

 Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya.L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da RyuichiTamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.

“Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste: Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle”. E ancora: “Sulla Terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato o gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo innanzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nascere”. Queste sono parole di Kikuo Takano, un poeta che non ha mai smesso di interrogarsi non solo sull’essere e sul nascere, ma sul mondo intero. Perché il cielo è così sfuggente? Perché il mare è così rancoroso? Perché una trottola trova il suo equilibrio solo nel movimento? Perché dio si trova solo con le parole del cuore? E perché dio non risponde, quasi fosse un dio individuale, ad personam e non di tutti gli uomini?

ponte di legno tra i ciliegi in fiore

ponte di legno tra i ciliegi in fiore

 Takano è un poeta complesso, a dispetto dell’estrema semplicità stilistica e formale delle sue poesie. Si parte dal fiore, dalla farfalla, dal moto circolare che ogni giorno, quasi per inerzia, conduce il sole a nascere e a morire. Ma poi si arriva lontano e, quasi senza accorgersene, uno si ritrova a parlare dell’origine dell’universo, dell’amore, di dio. (…) È la visione della natura che ogni giorno combatte per uscire da sé e diventare altro. È un equilibrio sottile e impercettibile che lega le forze naturali in una lotta perenne, tra l’andare e il restare, tra il bene e il male, tra il nascere e il morire.

Takano parte dall’infinitamente piccolo, dall’osservazione delle forme più semplici. Una tradizione giapponese che sopravvive da almeno sei secoli e che, dopo la II guerra mondiale, ha preso forma in Giappone con gruppo raccolto intorno alla rivista ‘Arechi’. Ma Takano va oltre: non è più soltanto osservazione e identificazione con la natura. È un’interrogazione continua sul ‘senso’ della natura. Sul senso della nostra esistenza. Evangelica, oserei dire. O meglio, biblica: è il feroce punto di domanda dell’uomo davanti all’immensità, prima di disperare.

Tokyo

Tokyo

Potremmo dire che anche l’amore, per Takano, si inserisce in questa visione panteistica dell’universo. Il prato che si distende e accoglie le sagome degli amanti; il cielo che continua il suo giro idiota, indifferente alle lacrime di una donna abbandonata; la farfalla che punta verso un confine visibile solo ai suoi occhi miopi e non si accorge del dramma di un uomo sconfitto. Sono parte del tutto e, quindi, anche del sentimento. Entrano in quella vertiginosa girandola di identità nascoste, che solo l’osservazione del tutto restituisce. Il mondo è visto da Takano come un dono non richiesto. Come un bimbo che si veda ricevere un giocattolo del quale sa poco o nulla e si chiede cosa farne. Ma poi comincia a osservarlo, a sventrarlo, a scardinarne le parti… E in questo si ritrova gran parte della filosofia del Tao, di Lao-Tsu: «Il grave è radice del leggero, / il quieto è signore dell’irrequieto. / Per questo il santo viaggia tutto il giorno / senza discostarsi dal bagaglio, / anche se possiede palazzi regali / placidamente se ne sta distaccato».

L’uomo che si trova, suo malgrado, dentro un disegno oscuro, complesso, immenso quasi. L’uomo che non riesce a capire perché mai in quel momento lui e solo lui può e deve trovarsi in quel determinato punto, a dire quelle determinate parole. Ecco le domande che maggiormente assillano Takano; un determinismo del presente che inscatola la natura umana e sembra definirla. Ma poi questa muta forma, come in un quadro di Picasso: diventa uccello, farfalla, pistole, diamante, rana o portafogli. Impossibile inscatolarla, aveva insegnato Jaspers, uno dei maestri del poeta. Non resta che la distanza: protési verso l’obiettivo, ma con la testa rivolta indietro, in una specie di Angelus Novus improvvisato. O come insegnava Lao  Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta. Forse nessuno capirà mai queste parole ma quando leggiamo Takano che scrive: «Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi», ecco che si srotola una immagine bellissima. Quella di un uomo che rinuncia a se stesso, si spoglia delle sue convenzioni i ridiventa puro. Bambino. Assoluto.

Tokyo paesaggio urbano

Tokyo paesaggio urbano “Per entrare più a fondo l’uomo deve fare il contrario, allontanarsi”

Non è un caso che Kikuo Takano abbia rinunciato a produrre verso nel trentennio che va dagli anni Settanta ai Novanta. In quegli anni infatti la poesia stava attraversando quella temperie che passerà alla storia come sperimentale (…) E non a caso il suo lavoro è stato spesso paragonato a poeti quali Eliot, a cui è accomunato da un vocabolario asciutto e metafisico, scabro e essenziale. Il silenzio dei cieli muti di Takano è il contrappeso dei mondi spogli di Eliot…

Un oscuro senso di desiderio insoddisfatto percorre tutta la produzione di Takano: da una parte l’aspirazione a essere uomo, a imporre la propria umanità scabrosa, dall’altra la consapevolezza che l’unica salvezza è l’assenza di passioni. Si gioca su questi due registri il filo che tiene insieme le poesie: l’assenza e il desiderio. E, in mezzo, un dio che si fa negare… Il silenzio di dio è bergmaniano, ha un che di tragico perché è il silenzio dell’uomo: nessuna risposta a nessuna domanda ma in fondo che cos’è la vita se non aspettare invano?… Come due specchi che vengono messi l’uno di fronte all’altro e insieme rispecchiano un vuoto infinito, per usare le parole del poeta.

(Renato Minore)

Kikuo Takano L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 pp106 € 9,30 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore

Kikuo Takano 2

Kikuo Takano

Burattino

Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette.

Il treno

Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.

Ed io penso:
“Ma le mani non dimenticano”.
Non dimenticano quelle mani d’essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.

Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
E cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per aver certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.

.
Il gancio

Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando, chissà perché,
lasciato chissà da chi,
appeso così, è un gancio proprio pauroso.
E speravo davvero che, con la ruggine,
mai dovessi provarlo.

Ma ora desidero
vedere me capovolto
a quel gancio dove non c’è
proprio nulla da appendere.

Kikuo Takano cop 2
Il cigno

«Osserva bene il cigno,
valuta tutto grazie al cigno»,
un tempo era questo
il mio severo proposito.

Ma quanto è dura la vita del cigno:
con le sue ali bianche
egli rifiuta la luce
e dentro alimenta la tenebra.

.
Corda

«Lascia andare le mani, abbandonale».
Qualcuno me lo bisbiglia all’orecchio.
All’improvviso lo ho ascoltato
mentre stringevo una temibile corda,
più la tiro da ogni parte
e più diventa lunga.
Davvero inutile maneggiarla,
ben me ne accorgo,
ma se non la toccassi
sarei tutto soffocato
da quella corda.

tokyo paesaggio urbano

tokyo paesaggio urbano “Lao Tsu: se vuoi raggiungere una cosa prendi la direzione opposta”

Due giochi di prestigio

“Ecco uno spago
e ne prendo i capi,
li annodo, ne faccio un anello:
di che si tratta?”
Ma è ormai banale
sentire cose simili.

“ecco, lo sciolgo,
ma da qualche parte
sarà pur finito l’anello”.
È un sempliciotto
chi me lo domanda.

“Di nuovo lo annodo,
compare l’anello,
torno a scioglierlo
e quello scompare,
ripeto il nodo,
spunta fuori l’anello,
ma se torno a snodarlo
l’anello non c’è più”.

*

Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Tokyo

Tokyo

Lo specchio

Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.

.
In me

In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato ce non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.

kikuo takano copertina

Sempre una voce

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Se piangi
vai oltre il dolore.
E ti accorgi che nell’addio
c’è l’incontro”.
Così ti parlava Dio, sfiorandoti
con la mano la schiena.

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Con pazienza
aspetta, e per meglio guardare
impara a chiudere gli occhi”.
Così ti parlava Dio, con una lieve
carezza sui capelli.

Quando nel dolore piangevi
senza poter far nulla
quel Dio lo avevi accanto,
a volte ti portava sulle sue spalle.

.
Se ti dico

Se ti dico che è la destra,
mi rispondi: “Anch’io la destra”,
se ti dico che è la sinistra
mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
E così insieme abbiamo atteso l’alba.
Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
era il desiderio dell’uno per l’altra
e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
e noi, senza neppure toccarci,
eravamo stupiti da tanto desiderio.

“Siamo stati stupiti come bambini…”
E ora tu mi disprezzi
“sì, ti odio
perché l’hai contemplata come in estasi
senza svegliarmi con uno schiaffo
anch’io abbagliata da quella visione”.

Senza darti uno schiaffo.
un pesante schiaffo.
E noi, in quell’istante,
eravamo già oltre quella “domanda”;
tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
io avrei detto il mio
e con questi nostri addii
avremmo potuto iniziare
ogni notte e ogni mattina.

Ma ancora mi chiedi:
“Non poteva quell’addio
prender congedo dall’addio?”
Ed io ancora ti ripeto
quando diversa è la “domanda”,
che sparisca quella “domanda”.
Abbiamo fatto esperienza non d’amore
ma di tempo, il tempo vuoto,
e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
Avesti dovuto capirlo anche tu.

Ma alla fine che cosa vuol dire?
Se mi confronto con te,
scuoti il capo in modo banale
e banalmente mi rimproveri.
Erano inutili quei giorni,
inutili quelle lotte.
Oggi sentiamo come peccato
l’esperienza dopo aver recuperato
ciò che abbiamo vissuto.
Oh, la spola della tessitura!
È un terribile filo: più costruisce la trama
più si sfila l’altra parte del bandolo
E passano i giorni in cui mi capita
di dipanare sempre fil filo.

(da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

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Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij (1907-1989)  POESIE (1933-1936) a cura di Donata De Bartolomeo

Arsenij Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij

Viene qui presentata una scelta delle poesie (1933-1936) del poeta russo Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, tratte dal volume Stelle sull’Aragaz, edito nel 1988 ad Erevan, che comprende oltre ad una raccolta della sua personale produzione poetica, anche traduzioni in lingua russa di poeti armeni a cura dello stesso Tarkovskij. Arsenij Tarkovskij nasce nel 1907 ad Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco, georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940); nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija (Poesie); nel 1978 e nel 1979 escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e viene sepolto a Peredelkino.

La presente traduzione ha rispettato fedelmente la misura del verso russo senza tentare una resa in un equivalente metro italiano, operazione che avrebbe fatalmente corso il rischio di falsare i ritmi colloquiali della lingua originale; la utilizzazione dell’a capo rigorosamente conformato a quello del testo russo ha consentito, in qualche misura, la conservazione anche nella versione italiana degli enjambements e delle cesure interne, così come dei tempi lenti di progressione delle immagini.

 Arsenij Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij

Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la linea ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la «lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio, rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij è presenta la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij. Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e palpitante della vita. la rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia – come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in atmosfere di sogno e irreali.

arsenij tarkovskij con il figlio andrej

arsenij tarkovskij con il figlio andrej

La struttura simbolica significativa che presiede la poesia di Tarkovskij è rappresentata dalla opposizione tra la immobilità della storia russa e la direzionalità, la verticalità, il moto unidirezionale della modernità che irrompe con le immagini dei treni che sfrecciano e degli aeroplani che volteggiano. Detta polarità è attraversata dalla figura del poeta-profeta, «cronista del mesozoico», «il Geremia dei tempi futuri» che tiene in mano «l’orologio e il calendario»; strumenti, marchingegni escogitati dall’uomo per tentare di conciliare il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la storia e l’anima, l’immortalità e la caducità. Nella poesia «Vita, vita», il tono sacrale trova d’incanto l’esatta misura d’uno stile ieratico che si staglia in grandiose metafore tridimensionali, dove la potenza delle immagini rimanda alla integrità del poeta, alla sua forza interna, invincibile, che la fede nell’«immortalità» gli restituisce dopo lo scacco del destino e della storia. Sono versi di eccezionale altezza:

Nel mondo non c’è la morte./ Tutti sono immortali. Tutto è immortale./ Non bisogna temere la morte né a diciassette anni/ né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce,/ in questo mondo non ci sono né buio né morte./ Noi tutti siamo già sulla riva del mare / ed io sono tra quelli che tirano le reti,/ mentre passa a branchi l’immortalità./ Vivete in casa – e la casa non crollerà./ Io evocherò uno qualunque dei secoli,/ entrerò in esso ed in esso una casa costruirò./… Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,/ con le mie clavicole ho sostenuto,/ misurai il tempo con la catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso gli Urali.

osip mandel'stam foto varie

osip mandel’stam foto varie

L’«immortalità» è qui una metafora oscura che indica l’attraversamento che gli uomini devono operare, nella negatività della storia, di quella distesa grigia e arida rappresentata dal mondo infirmato dalla mortalità dell’individuo. La costellazione simbolico-metaforica è qui: l’onda, la stella, l’uomo, l’uccello, la realtà, i sogni, la morte… e, di nuovo, l’onda. L’epifania della verità avviene «tra gli specchi – riflesso nel recinto/ dei mari e delle città che brillano nel fumo». E la pace dell’«immortalità», dell’«onda» che va dietro l’«onda» è rappresentata dalla «madre (che) piangendo, prende il bimbo in grembo». Le immagini del «grembo materno», delle «erbe infantili», della «città col Cremlino sul fiume» e le altre innumeri variazioni della immagine archetipica materna acquistano plasticità e vigore se proiettate sullo sfondo delle «acque nere», della «riva», della «casa distrutta dalla guerra», etc. che rappresentano lo sfondo luteo della storia, il magma acherontico che investe la coscienza infelice. Compito del poeta è cogliere «la corrispondenza del suono e del colore». La metafora è combinazione di rappresentazioni in funzione di una più ricca, inscindibile unità semantica. Come per Mandel’štam anche in Tarkovskij il mutamento dei significati diviene evidente attraverso il contenuto delle parole nel contesto dell’opera, laddove esse producono vicendevolmente nuovo senso mediante improvvise rimozioni e profonde anamnesi. Con questo metodo si ottengono le parole portanti, si mette in luce la ricchezza delle parole-chiave. Mandel’štam studiò la produzione di queste parole-chiave nel simbolismo oggettivo e psicologico di Innokentij Annenskij. La rifrazione della vita nei simboli poetici è per Mandel’štam accettabile, inaccettabile è l’estrazione di un «simbolismo professionale»; «le immagini sono sventrate come animali da impagliare –  scrive Mandel’štam criticando il simbolismo – e imbottite di un contenuto a loro estraneo… Una spaventosa controdanza di “corrispondenze” – che ammiccano l’una all’altra. Un eterno strizzar d’occhio… la rosa rimanda alla fanciulla, la fanciulla alla rosa». Mandel’štam propone «una poetica organica di carattere non normativo, bensì biologico», cioè di «considerare la parola come un’immagine, una rappresentazione verbale… un complesso insieme di fenomeni, un nesso, un sistema»* Tarkovskij ha studiato in Mandel’štam la componente architettonica della sua poesia, la dislocazione spazio-temporale del materiale linguistico, l’assoggettamento del materiale alle esigenze  costruttive. Anche in Tarkovskij come in Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono, così come primitivismo e utopia, polarità contraddittorie, vengono risolte con l’indebolimento dell’utopia e con la massiccia immissione di tracce della quotidianità all’interno delle composizioni poetiche. Proprio come in Chlébnikov, il futuro diventa esperienza anteriore, ciò che deve accadere è già avvenuto, il futuro non è ciò che sarà ma ciò che è già stato. Probabilmente, una tale concezione rivela l’influenza delle teorie di Fedorov, il suo concetto della storia come progetto e simultaneità di tutte le generazioni. Per Tarkovskij il mondo tecnologico, la modernità, sono inconciliabilmente ostili alla silvestre innocenza  dello stato di natura; del resto, tutte le sue metafore sono rigorosamente tratte dalla civiltà agricola («la svasatura dell’imbuto», «la ruota del vasaio», «gli occhi dell’erba», «il catino, la brocca», «la gonna di cotone stampato», etc. – Il tessuto quietamente discorsivo dei testi stride con le metafore lampeggianti e le vertiginose accelerazioni; v’è un’algebra delle corrispondenze, vi sono dei cunicoli sotterranei, una densità semantica, rimandi espliciti e impliciti alla grande tradizione della poesia russa, in particolare a Mandel’štam, con il quale condivide il concetto di metafora come costruzione complessa fondata su rapporti di inerenza. Non è affatto un caso che le ultime bozze di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo volume di versi (corre l’anno 1946) ad una lettura attenta da parte di un funzionario di partito, eufemisticamente denominata «recensione per uso interno», recitava: «poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmàtova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». La recensione sfavorevole indurrà la casa editrice Sovetsjij pisatel’ a distruggere il piombo delle matrici.

Aleksandr Blok

Aleksandr Blok

Il rifugio in una lirica della natura è lo stratagemma residuo che resta al poeta che non intenda sottomettersi all’estetica zdanoviana e che voglia sottrarsi al kitsch dell’arte del realismo socialista. I processi autoritari di accumulazione forzata del capitale e la erezione di uno stato socialista basato sulla socializzazione dei rapporti di produzione, erano le condizioni più svantaggiose per la nascita della poesia, e tali condizioni imposero l’assunzione della forma della poesia lirica.

Tarkovskij prende le distanze dalla assunzione acritica del concetto di «natura»; dichiara il poeta russo: «non v’è libertà nella natura», ché altrimenti finirebbe dritta nell’anacronismo, non soltanto perché il suo contenuto di verità è scomparso ma soprattutto perché la natura è inattuale; la celebrazione del passato remoto sarebbe il ripristino di un rito museificato, deificato. Per Tarkovskij «il nostro passato è in tutto simile a una minaccia». È questa la posizione di partenza della sua poesia: la percezione che l’arte, a fronte della stato socialista, non è altro che un diversivo all’orrore, «crittografia del dolore, anamnesi di ciò che è stato sconfitto».*

Vladislav Chodasevič

Vladislav Chodasevič

Sotto le condizioni imposte dalla amministrazione totale dello stato socialista sovietico, unica via di uscita è la certezza che «il vento che irrompe violento nella vita – dissolverà – le farfalle che giocano col fuoco». Sembra una chiarissima premonizione della fine dell’Impero, della rovinosa caduta degli idoli. Soltanto un veggente che vive nella propria veggenza poteva possedere strumenti di auscultazione così sofisticati e sensibili da intravedere con tanto anticipo gli esiti finali. A ben leggere, i testi dei grandi poeti ci indicano sempre il cammino del futuro: «La tempesta qua e là per la Russia / scagliava loro dei bengala. ( Ed era soltanto l’inizio», scrive Tarkovskij in una poesia del 1976. I poeti del Pantheon Nero avevano già messo su carta il colore nero dell’orrore. In Tarkovskij e in Chlébnikov la farfalla e il cigno bianco sono ipostasi del poeta e della bellezza: il «candido angelo», il «cigno morente», la «candida neve» sono simboli che annunciano la caducità della bellezza; la «notte», ovviamente, è il luogo della morte, ove «più leggera dell’ala di un uccello» trascorre la bellezza «come una vertigine». Ma la «bellezza» può anche condurre «dall’altra parte dello specchio»: «Nel cristallo pulsavano i fiumi, / fumavano le montagne, rilucevano i mari». Così, la morte può essere detronizzata soltanto dall’amore che tutto trasfigura, perché la via che conduce alla morte si chiama «destino»: «quando il destino ricalcava le orme dietro di noi, / come un pazzo col rasoio in mano». Questa complessa rete di simboli fondata sulla opposizione binaria luce-tenebra regge tutta la poesia di Tarkovskij, ed infonde spessore analogico alle similitudini Il poeta è, di volta in volta, «Nestore, cronista del mesozoico», «Geremia dei tempi futuri», perché il poeta sa «della morte più cose dei morti», e il suo romanzo è preda dell’«orologio» e del «calendario», del «passato» e del «futuro»; soltanto la morte, «la terribile bocca della regina Kore» può fornire il viatico per la «verità». Ed ecco i simboli della «pioggia», del «mare» e del «ruscello» che richiamano l’idea del fluire dell’universo nell’«irripetibile movimento dell’erba», nella «immortalità»; il tempo soggettivo fluisce e sfocia nel tempo oggettivo: «io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza». La terribile storia russa detta a Tarkovskij i versi tra i più commoventi e saldi della poesia russa del XX secolo: «vivete in casa – e la casa non crollerà (…) il futuro si compie ora». Una dichiarazione di fede così alta trova concrezione in questi versi monumentali, scanditi con lenta, sacrale progressione.

 *T.W. Adorno, Teoria estetica Einaudi, Torino, 1975

traduzione di Donata Bartolomeo

pasternak 1in russo: Арсений Александрович Тарковский(Elisavetgrad25 giugno 1907 – Mosca27 maggio 1989), poeta russo, di origine ucraina dal temperamento alquanto instabile, padre del famoso regista Andrej Arsen’evič Tarkovskij. Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrive drammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura  durata sino agli anni sessanta. Arruolato come soldato  nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.

arsenij tarkovskij

arsenij tarkovskij

E il buio e la vanità non sfioriranno
la rosa di giugno sulla finestra
e la via sarà luminosa
e il mondo sarà benedetto
e benedetta la mia vita
come lo fu tanti anni fa’.

Come tanti anni fa’ – quando
gli occhi appena aperti
non capivano come fare,
l’acqua piombò sull’erba
e, con essa, il primo temporale
già imparava a parlare.

In questo giorno io vidi la luce,
l’erba rumoreggiava al di là della finestra,
oscillando nelle boccette di vetro
e si fermò sulla soglia degli anni
con le ceste nelle mani ed in casa,
ridendo, entrò la fioraia…

La pioggia perpendicolare lavò l’erba
e dal basso la rondine prese il volo
e questo giorno fu il primo
tra quelli che, come per miracolo, in realtà
brillavano, come sfere, frantumandosi
nella rugiada su un petalo qualunque.

(1933)

arsenij tarkovskij in casa

arsenij tarkovskij in casa

La culla

Ad Andrej T.*

Lei:

Passante, perché non dormi per tutta la notte,
perché ti trascini e ti trascini,
dici sempre le stesse cose
e non fai dormire il bambino?
Chi ti ascolta ancora?
Cosa hai da dividere con me?
Lui, come un bianco colombo, respira
nella culla fatta di corteccia di tiglio.

Lui:

Scende la sera, i campi diventano azzurri, la terra orfana.
Chi mi aiuta ad attingere l’acqua dal pozzo
profondo?
Non ho nulla, ho perduto tutto lungo il cammino.
Dico addio al giorno, incontro la stella. Dammi da bere.

Lei:

Dove c’è il pozzo, c’è l’acqua
ma il pozzo è lungo la strada.
Non posso darti da bere
ed abbandonare il bambino.
Ecco solleva le palpebre
ed il serale, latteo luppolo
avvolge, lambisce
e fa dondolare la culla.

Lui:

Aprimi la porta, fammi entrare, prendi da me quello che vuoi –
la luce della sera, un mestolo di acero, la piantaggine.

(1933)

* Poesia dedicata al figlio Andrej

***

Avevo appuntato il lungo indirizzo su un brandello di carta
non riuscivo in alcun modo a congedarmi e tenevo il foglietto in mano.

La luce si spense sul lastricato. Sulle ciglia, sulla pelliccia
E sui guanti grigi cominciava a cadere una neve molle.

Andava il lampionista, si voltò, vicino a noi accese un lampione,
si mise a fischiare, il lampione balbettò come il corno di un pastore

e aleggiò una goffa, inconcludente conversazione
più leggera di una piuma, più minuta di una frazione…
Dieci anni sono passati da allora.

Persino l’indirizzo ho perduto, persino il nome ho dimenticato.
E dopo un’altra ho amato, quella che più appassionatamente di tutte ho amato.

Ma tu vai – e cade una goccia dal tetto: una casa e una nicchia alla porta,
una palla bianca sulla nicchia rotonda e leggi: chi abita?

Ci sono porte speciali e case speciali,
c’è un indirizzo speciale, di preciso la giovinezza stessa.

(1935)

arsenij 10

 

 

 

 

 

 

 

Dedica
I
In me vive la profonda inquietudine
delle chiome di legno, che non dormono di notte,
io, come i versi, predico la peculiarità
conferite alle persone e alle cose.

Per il fatto che respiravo, come respira la parola,
io ero l’eco tra gli alunni,
ero la risonanza della voce altrui,
smarrita nel coro delle voci.

Il mondo, come un bambino di sette anni, è agile;
la tempesta fioriva – il mondo, come un fanciullo, si placava
ma cumuli di errori ereditati
giacevano in quei giorni nelle mie mani.

Tutta la mia vita arrivò e mi stava accanto,
come se davvero fossero passati tanti anni
e con estraneo, verdastro sguardo
mi rispose lo specchio.

Io sobbalzavo ad ogni suono bugiardo,
pensavo: fammi vuotare le mani.
E, dormendo, liberavo le mani
per imparare di nuovo a parlare.

Spaventandomi, tastavo gli oggetti –
I corpi delle meduse nel mare scintillante,
la radice degli alberi, rianimata dalla musica
e il marmo, riverso verso la stella.

Ed io imparai a parlare, come nell’infanzia
col mio libro balbuziente.
Ma se i figli serberanno memoria dell’eredità
tutto quello che posseggo, a loro lascerò.

II
E ciascuno ricorda la luminosa città dell’infanzia,
l’aul sulle montagne, la stanitsa sul fiume,
dove dai padri abbiamo preso in eredità
l’amore per la terra, per sempre cara.

Dove le madri accanto alle nostre culle
Non dormivano di notte, dove abbiamo imparato,
dove per la prima ispirazione fremevano
sul libro le nostre giovani menti.

Dove per la prima volta abbiamo amato, senza temere
di ammettere che eravamo cresciuti nella lotta,
dove abbiamo giurato davanti alla nostra coscienza
eterno amore a te…

Rumoreggiano gli alberi del viale cittadino,
come fiaccole di verde fuoco.
Io te li darò, sono più necessari a te,
vieni, prendi da me gli alberi.

Vieni, prendi tutta la mia città, sarà
tua – e tu ti addormenterai nella mia erba.
Il sibilo delle mie rondini ti sveglierà,
io te le darò, sono più necessarie a te.

Tutto quello che ho vissuto per tanti anni da allora,
per tante verste dal tuo ricordo,
tu lo evocherai, senza compiere il miracolo,
senza troncare il complotto delle ombre.

Io sono il primo ospite nel giorno della tua nascita
E mi è stato concesso di vivere in due assieme a te,
di entrare nei tuoi sogni notturni
e di riflettermi nel tuo specchio.

III

Come ragnatela si tende il residuo
di tutto quello che mi sembrava caro
ed è per me strano che una fittizia impronta
lascerò ai miei eredi.

E forse, i figli che giocano,
pur ricordandosi di me in estate,
non distingueranno le sconnesse interiezioni
dalle parole che indicano la cecità.

Io non ero cieco. Vedevo tutto quello che era,
che diveniva la vita dei miei coetanei
che il tempo con la sua firma convalidò
e portò dinanzi agli occhi sonnolenti dei ciechi.

Io vedevo tutto quello che era visibile ai vedenti
come la luce dell’alba attraverso il telaio dei rami.
Prendi anche l’amaro, che ingiustamente nascondiamo
ai nostri figli e alle nostre figlie.

Arsenij 7
IV
Così io imparai di nuovo a parlare
e ricevetti il difficile dono nell’anno terribile
in cui l’amore bruciava le mie gote
e stringeva al cuore il ghiaccio mortale.

E la gelosia si stringeva al capezzale
E mi sussurrava all’orecchio:
Guarda,
mentre tu dormi, torturato dall’amore,
hanno spento i lampioni della città.

Io, fedele, ti aprirò gli occhi:
liberata per sempre per te,
tra le lenzuola, sul far dell’alba rosata,
giace la tua ultima stella…

Ed io correvo dalla mia soglia
là, dove la luce dà una sventola sul viso,
lungo la città mi incalzava l’inquietudine –
ed io vidi il telaio dei fulmini.

Volavano come uno stormo di cigni,
non li contai, erano più di cento,
volavano lontano sulla piazza deserta
e l’altezza faceva dondolare i loro becchi.

Volavano così lentamente che sembrava –
arda pure davanti agli occhi stessi il nuovo giorno –
come se questa amarezza si fermasse per sempre,
i loro riflessi resteranno vicino a noi.

Prendi anche loro, sono più necessari a te
che li tocchi la mano infantile
e sfiora la gelosia ancora più delicatamente
perché l’amore ti sia lieve.

V
Ed il cielo si fece azzurro, rinascendo,
e l’altezza cominciò ad abbassarsi
e sotto le ruote del primo tram
si stendeva il selciato dell’alto ponte.

E nell’ora in cui la tua gigantesca città
tutta in verde si spande all’alba –
tu giaci, figlio, nel grembo materno
nella semitrasparente delicata bolla.

E, forse, tu non vedi nulla
ma il sole nuota sopra di te…

(1934-1937)

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Marco Onofrio La dimensione poetica: da Apollo e Dioniso nasce l’opzione orfica, Il Logos senza Mithos, La Poesia come avventura aperta dello spirito, Edipo, L’esperienza metafisica del bello (Parte IV)

"The Knight, the death and the devil", B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.

“The Knight, the death and the devil”, B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.

La poesia che, venendo dai tempi antichi, si apre all’esperienza lancinante del moderno, si dibatte e può riconoscersi tra questi due poli che in sé racchiude: “coscienza tragica” e “nostalgia di canto”. Cucire la tela del canto attraverso e nonostante il dolore della vita. Incantarsi nel disincanto. Essere Apollo e Dioniso insieme.

Scrive Rilke:

Oh dimmi, Poeta, cosa fai?
Io canto.
Ma ciò che è mortifero, il mostruoso,
come lo sopporti, come lo accogli?  
Io canto.
Ma ciò che non ha nome, è anonimo,
come puoi, Poeta, chiamarlo?
Io canto.
Donde il tuo diritto, in ogni costume,
in ogni maschera, di essere vero?
Io canto.
Come possono conoscerti la quiete
E il furore, la stella e la tempesta?
Io canto. 

Canova Orfeo e Euridice

Canova Orfeo e Euridice

Dall’unione di Apollo e Dioniso nasce l’opzione orfica: la terza via dello spirito greco, oltre gli opposti e i limiti di entrambi. Lo sguardo di Orfeo che si volta verso Euridice, come in un “folle volo”, determina l’inizio della poesia tragica: nella coscienza della conoscenza, frutto di ricerca personale, incapace di resistere al richiamo del nuovo, dell’ignoto, del proibito. È l’uomo che si ribella al sapere acquisito per divinità, giacché non può accettare il divieto di conoscere oltre, liberamente, con le sue stesse forze. Il poeta, da quel momento in poi, incarna la paura degli dèi: paura della parola libera, creativamente umana, che non si fa più complice d’incanto ma pensa, scava, dice, scopre i loro segreti e li rivela oltraggiosamente – benché ciò costi la perdita eterna di Euridice, la cacciata dal paradiso, il dolore del dis-incanto. L’Orfeo poietes – che insegna agli uomini la sua parola colma di pensiero e di esperienza – si contrappone all’originario Orfeo agamos apollineo, nella misura in cui il Logos si contrappone all’armonia del Mithos, con le sue favole quiete, portandovi rovina, frattura, distruzione.

È un occhio che si apre al nuovo sguardo. La ragione mette l’uomo dinanzi ai suoi limiti: lo fa dolorosamente libero e consapevole. Egli è diviso e solo: non più pieno, non più tutt’uno con il mondo, non più unito alle sue radici.

giorgio de chirico il ritorno di Orfeo

giorgio de chirico il ritorno di Orfeo

Il Logos senza Mithos è sterile e freddo, pesa; il Mithos senza Logos è vano ed effimero, vola. La poesia è e dà la “giusta sintesi”: è infatti coscienza logomitica; è scienza “nutrita di stupore”; è accordo e scambio biunivoco tra gli emisferi della mente; è snodo cardinale tra gli stati dell’essere; è incrocio di assi, spaziali e temporali; è incontro di sintagmi e paradigmi – metro, ritmo, metafora. La poesia è centratura dello sguardo e riequilibrio autologico delle energie. È cura animi, e dunque pratica terapeutica. Può donare nuovo equilibrio alla complessità, del mondo, delle cose, di noi stessi, e alla motile armonia dei suoi contrari. Può servire a rimitologizzare il mondo, senza facili nostalgie. Agevolare una fondazione poetica, e quindi etica, della realtà. Rendere sì leggibile la “rottura” della totalità, che ci fa relativi; ma consentire e articolare l’apertura dello sguardo su uno spazio sconfinato che sta “oltre”. Noi siamo conficcati nella storia, apparteniamo al tempo. Ma se il tempo è la dimensione dell’assenza, della perdita irrecuperabile, allora siamo condannati a vagare nel vuoto come uomini vuoti, nel caos, nel buio informe dell’inumano.

Czeslaw Miłosz

Czeslaw Miłosz

Il cammino poetico moderno, infatti, si è configurato come un’avventura aperta dello spirito: tra il “non più” e il “non ancora”: tra le macerie del vecchio mondo e le tracce inquietanti del nuovo. E il poeta era un essere scorticato: il più fragile, il più esposto. Al rischio supremo del linguaggio: dov’è o dovrebbe essere il forno di conio del fondamento. Molti poeti hanno pagato con la follia; altri col suicidio; altri ancora con la morte prematura, dopo una vita di indicibile dolore.

Occorre una poesia, oggi, che risponda non solo alla domanda “perché”, ma anche a quella “da dove”. Occorre il ri-ascolto di ciò che sta prima e al di fuori della storia, del tempo. C’è un luogo profondo, remoto benché vicinissimo, che è stato occultato in ogni modo dalle grandi costruzioni razionalistiche del pensiero occidentale: dove l’Essere parla ancora, coi nomi originari della sua pienezza.

 

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

La poesiacome l’arte in genereè simbolo vivente di questo luogo dell’Essere: offre la possibilità di accedere alle fonti originarie della vita; di portarsi al punto cruciale in cui il tempo storico dell’assenza si interseca con il tempo pieno dell’eternità.

Il poeta penetra nelle profondità del mondo attraverso se stesso, il proprio caso particolare, la propria esperienza. Giri e rigiri e ingorghi tortuosi, e fango putrescente di paludi – labirinti di foreste sempre più oscure, sempre più fitte e intricate… sino a che, oltre la tenebra, ecco splendere la radura dell’Essere, la Luce. E si scopre che le radici sono interconnesse: che nel profondo di noi stessi siamo tutti collegati, siamo Uno. E, quindi, che ognuno è anche tutti. Raccogliendo immagini primordiali agguantiamo, dominiamo e innalziamo la nostra precarietà alla sfera delle cose eterne. È in questo processo di elevazione del profondo che l’immagine si trasfigura, diventa emblematica, universale.

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

È forse ora di rivendicare – oltre, ed eventualmente contro, il paradosso assolutistico del relativismo a tutti i costi, e quindi l’imperio, ormai stantio, del cosiddetto “pensiero debole” – un rapporto nuovamente elementare e universale fra arte e verità; ripensare la bellezza come porta aurorale della conoscenza, e l’artista come un pre-illuminato che mette i suoi doni spirituali a completo servizio di questa dinamica. Nella poesia potrebbero racchiudersi e accordarsi philokalia e philosophia: amore di bellezza e amore di sapienza. È «al cor gentil», del resto, che «rempaira sempre amore». È nella predisposizione cosmica e ricettiva dello spirito pre-illuminato che trova accoglienza e risonanza la pulsione erotica che spinge a creare poesia, e illumina la voce del suo canto. Il poeta è “ventriloquo di Dio”: si fa strumento della forza che lo sceglie per manifestarsi. Parla come amor gli detta dentro.

L’amore di cui si fa carico la poesia è un’energia fluida, mutevole e ondeggiante: come la vita. Anzi: è la vita. Non ha una forma preordinata, proprio per permettersi di averle tutte. Entra ed esce in ogni dove, Mercurio permettendo. È un ponte che media tra umano e divino. Se amore è “desiderio di bellezza”, la poesia è nostalgia dell’infinito che la bellezza manifesta in ogni cosa. La bellezza traluce nelle cose del mondo, come riflesso di ciò che è infinitamente vero e infinitamente buono.

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

La bellezza sensibile è una scala di accesso alla bellezza ultrasensibile. Principio, dunque, di un’esperienza metafisica che possiamo compiere, per gradi di elevazione spirituale, grazie alla bellezza disseminata nel mondo (ma anche raccolta e magnificata in opere dagli artisti). L’uomo è Edipo, accecato dal caso e dal destino. Procede come uno straniero in mezzo al mondo, tra segni incomprensibili, in attesa di parole illuminanti. È possibile elevarsi alla conoscenza del vero? Siamo in grado di comprendere? Sì: perché abbiamo dentro l’infinito. Abbiamo incisa l’impronta divina. Ci brilla dentro gli occhi la scintilla cosmica fondamentale che ha creato il mondo. C’è il silenzio delle stelle nel nostro sguardo. C’è il mistero che ci batte nel respiro. Siamo dinanzi alle cose: ma ne facciamo parte. Siamo ciò che lo specchio riflette e, insieme, lo specchio che permette di vederci. Figura e sfondo. Platea e scenario. Essere e non essere.

Anna Ventura

Anna Ventura

 L’esperienza metafisica del bello – il regno di luce da cui proveniamo e cui facciamo ritorno – possiamo farla in un istante assoluto, libero dal tempo. È Phanes: il simbolo orfico dell’espressione, del venire alla luce, del manifestarsi. Il nascente, l’originario. Lampo, epifania, scorza che si apre. È la visione mistica dell’Uno, “oltre l’oltre” di ogni  limite: di ciò che risplende sempre uguale a se stesso, per se stesso, con se stesso: che non ha forma, figura, limite, confine. Irrelato, semplice, eterno. La cosa in sé. L’invisibile. L’indicibile. Il tremendo: perché si manifesta con una forza immensa, spaventosa. Come la sfera dell’Aleph, nell’omonimo racconto di Borges. È lì, l’essenza della bellezza.

zbigniev herbert  con la sua libreria

zbigniev herbert con la sua libreria

Può la pittura dipingere l’aria? Può farci toccare il vuoto? E così, allo stesso modo: può la scrittura catturare le realtà invisibili?

La scrittura è già, in parte, “invisibile”. Un brano di prosa che descrive i rossi colori di un tramonto non si lascia vedere come immagine figurativa di ciò che descrive, ma come testura di parole in corpo tipografico. Dobbiamo poter decifrare ciò che le parole dicono: estrarne noi, il significato: dargli noi, i colori di quel tramonto. Quindi, se non conosciamo la lingua in cui è scritto, il testo rimane lettera morta. Anche e soprattutto quando descrivo a voce ciò che vedo, sto trasformando il visibile in invisibile. Il suono non si vede: devo poterlo decifrare, per capire di che tratta.

Cristina Campo

Cristina Campo

E se la scrittura, invece, decide di parlare dell’invisibile, del mistero, delle realtà metafisiche: con quali mezzi può farlo se non con quelli, sempre, del visibile? Con quale sguardo? Assumendo quale punto di vista, se non quello limitato dell’uomo singolo che guarda?

Le parole – se esistono, se sono dette – stanno sempre “al di qua”: relative, inabili, parziali. Non dicono mai tutto: non afferrano mai l’essenza vera, l’essere stesso della cosa. Scrive Gustave Flaubert in Madame Bovary: «La parola umana è come un vaso di rame fenduto, su cui noi battiamo delle melodie buone a far ballare gli orsi, mentre vorremmo commuovere le stelle». La poesia, da questo punto di vista, è sempre il resoconto di uno scacco; che cosa, altrimenti? Se non il silenzio, cioè il bianco del foglio, che contiene ogni parola ma non dice?

Antonia Pozzi

Antonia Pozzi

Le parole sono finite: lasciano sempre un “resto” che però ci spinge a sapere, ad andare avanti. Il riscatto dalla precarietà del tempo (come nella pagina scritta, che dura uguale a se stessa) procede mediante la ricerca e la conquista del tempo, fuori e dentro di noi. Come diceva Ungaretti: l’innocenza recuperata attraverso la memoria.

Restano poi, talvolta indimenticabili, le vie che le parole scrivono nel mondo. Come scie luminose. Come sentieri di stelle. Come tracce iridescenti di lumaca. Scrive il poeta Paul Celan: «(…) sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi. Una sorta di rimpatrio».

 Proprio a Celan dobbiamo la suggestiva immagine della poesia come “meridiano”: una linea vera, benché immateriale e inesistente, che indica una direzione attraverso molti territori, e su cui a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino di accostamento a se stesso e alla propria verità, di uomo e di essere nel mondo.

(Fine)

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