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Risposta di Giuseppe Talia alla Domanda Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? con una poesia kitchen  di Giorgio Linguaglossa e Giuseppe Talia, Quando parlo della Poetry kitchen mi vengono in mente due movimenti principali dello scorso Novecento: il Futurismo e il Surrealismo comparati con l’attuale situazione mondiale, dalla lotta al Covid19, alla lotta (?) alle disuguaglianze, alla guerra in Ucraina, alla crisi energetica e alla minaccia nucleare

Promenade_nocturne_14 collage 50x50, 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne n. 14, collage, 50×50, 2023

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Domanda

 Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Risposta di Giuseppe Talia

Quando parlo della Poetry kitchen mi vengono in mente due movimenti principali dello scorso Novecento: il Futurismo e il Surrealismo comparati con l’attuale situazione mondiale, dalla lotta al Covid19, alla lotta (?) alle disuguaglianze, alla guerra in Ucraina, alla crisi energetica e alla minaccia nucleare. Le assonanze con i due movimenti sono parecchie ma con i dovuti distinguo e con la dovuta consapevolezza che lo spazio aperto dalla« nuova poesia» riconosce la base della propria epitrope.

La domanda di Giorgio Linguaglossa sulla «fine della Metafisica», forse a mio avviso andrebbe chiarita, penso che Giorgio non intenda la fine tout court della Metafisica, piuttosto un ricambio metafisico, così come è stato da sempre, essendo la metafisica connaturata all’uomo, ed è la metafisica che ci fa comprendere ciò che altrimenti non comprenderemmo. Non si prescinde dalla metafisica, quale che essa sia. Mi sembra che la definizione di «metafisica disillusa» di Roberto Bertoldo calzi bene nel contesto; in effetti, la poetry kitchen ha il merito di porre alcune domande fondamentali che non sono quelle maggioritarie che si attestano su posizioni personalistiche e che hanno esaurito la loro accidia nichilista.

La velocità, che era un caposaldo del movimento Futurista, è rinvenibile nei componimenti Kitchen: l’oggettuale rapporto con i media attraverso i dispositivi tattili, l’esautorarsi della diffusione e condivisione di miriadi di dati privi apparentemente di un senso globale, la nascita e la morte subitanea di ogni notizia a cui si sommano le fake news e le notizie non notizie, sono tutti sintomi, diremmo conclamazioni della «riduzione del Reale da trauma a spettro» (Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, 2022, pag 45).

A differenza del Futurismo, i poeti Kitchen non sono interventisti e al pari dei Surrealisti ripudiano la guerra come anche l’idea stessa di conflitto per il potere. Le immagini in movimento, il tono canzonatorio, la disillusione, le onomatopee, la personificazione, sono la più moderna dislocazione in luogo della semplice velocità; il traslato nella Poetry Kitchen è sostanzialmente ubiquo, la catena degli eventi si mescola agli oggetti e alle emozioni con differenti combinazioni di immagini pescate alla rinfusa tra la miriade di immagini e discorsi a cui siamo costantemente sottoposti.

La Poetry Kitchen non è una «scuola», mi si dice, piuttosto un ricambio d’aria, cambio di paradigma, di quelli che si rendono necessari di questi tempi per la prevenzione della propagazione del virus. La nuova aria si sintetizza in questa affermazione: la poetry kitchen adotta la fantasy dell’immaginario come supporto dell’ordine pubblico; ma questo è solo una finzione, un capovolgimento, in realtà la prassi kitchen agisce in vista del disordine pubblico. (Ibidem, Pag. 47).

In che termini però si parla di disordine pubblico? Lungi dall’essere rivoluzionaria e anarchica, nella più aderenza dei termini, la Poetry Kitchen non sembra avere nessun impegno politico, nessun motore pulsionale verso l’identificazione in uno schieramento politico piuttosto che in un altro, semmai si limita a registrare con critica totale ed integrale, questo sì, la fine, la chiusura dell’«impegno», come lo si conosceva nel recente passato, per il suo fallimento su tutta la linea. La conseguenza di ciò è che le categorie dell’illusione e dell’abbaglio prendono il posto della certezza e della verità.

La particolarità rivoluzionaria della Poetry kitchen, se proprio vogliamo rilevarla, risiede piuttosto nell’età media dei poeti che la compongono nella compagine attuale. È rilevante come la svolta, il turn over non sia partito dai giovani poeti ma da un nucleo fondativo che va oltre i settant’anni di età.

Il Surrealismo in Italia non ha avuto il seguito e la risonanza che altrove. Nella Nuova Ontologia Estetica se ne rinviene più di un barbaglio, anzi la sovversione dell’ordine pubblico investe anche il privato, nel privato sono custodite le chiavi di ciò che siamo, e se siamo ciò che comunichiamo, nel profondo del nostro luogo, “dove non si è e non si dice”, in quel vuoto si situa il rimedio della poetry kitchen.

Penso che siano tanti i punti di denuncia e i rilievi che la poetry kitchen rivela e pone nel quadro della “zona -catastrofe” che sta investendo l’Occidente. L’angoscia che ne deriva annichilisce i presupposti una volta caduti i prefissi, post-moderno, post-contemporaneo, post-human, che non facevano altro che rimandare nel tempo, spostare il punto un’asticella più in là piuttosto che dibatterlo. Dopo la posteriorità non rimane che la negazione, l’annullamento: “il non-desiderio che produce la non-angoscia.”

La non-poesia produce l’effetto catarifrangente della dispersione dell’io poetico in un non-io poetico, mascherato, ovviamente, falso e consapevole dell’irreparabilità dell’Ente che non ha più una casa certa nel non-luogo.

Il peso relativo del vuoto e dell’insignificanza vanno di pari passo con il risultato della loro somma la quale dipende dall’abbondanza isotopica, vale a dire dalla differenza di massa. Ogni autore dell’Antologia Poetry Kitchen (Ed. Progetto Cultura, 2022) ha un proprio peso specifico nella ricerca dell’isotopo con cui provare a riempire lo spazio vuoto, affinché si creino i movimenti, gli scambi, le collusioni, l’entanglement, i cortocircuiti narrativi e i droni dell’ubiquità. Alla luce di quanto detto, «prendere una carota e renderla poetica cucinandola» (dizione di Roberto Bertoldo), mi sembra un impegno da non sottovalutare se si guarda alla poesia italiana contemporanea maggioritaria dove si prende un cetriolo e si cerca di renderlo poetico facendolo passare per un crumble alle mele.

Penso di capire l’affermazione sul minimalismo impegnato sul sociale e fondato sulla quotidianità che Roberto Bertoldo rileva nella poetry kitchen, in effetti mancano nel kitchen tutte le categorie estetiche “alte” preferendo alle note alte altre note, i discorsi si muovono su piani bassi, la cloche della barra di comando è posizionata sul sorvolare invece che sull’impennarsi, non tanto per soprassedere quanto per fotografare reale e irreale, ne viene che le immagini catturate non combaciano del tutto, perché la velocità con cui il Reale-reale e quello supposto cambiano, rende quasi impossibile far combaciano i tasselli, l’immagine risulta sgranata e dai contorni non ben definiti. L’uso del distico, in questo caso, agevola la parallasse e incita l’epitrope a tendere continui agguati, a superare l’accidia nichilista. Spostare i foni del bel canto in una scacchiera sostanzialmente a-metrica, produce il disallineamento degli accenti che si posizionano non più in una funzione suasoria ma distopica.

Strilli Tranströmer 1Seconda Domanda

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Risposta

La domanda è ambiziosa e difficile, presuppone l’espressione di una poetica, di una visione che non può che essere lungimirante e dunque ardua nel suo stabilizzarsi. Le poetiche del Novecento si sono frantumate con l’avvento della Neoavanguardia, la crisi innescata dal “Gruppo 63” è stato uno tsunami che ha contribuito alla svalorizzazione del linguaggio. Lo sperimentalismo quale presupposto irrinunciabile della Neoavanguardia, si è concluso in un vortice dalla cui macinatura linguistica non è risultato nessun prodotto duraturo. L’estremizzazione plurilinguistica di Eduardo Sanguineti con Laborintus (1965) ha sparigliato le carte della poesia italiana, a seguire di quella, la rivoluzione involutoria del 1971 ad opera di Montale e Pasolini con Satura e Transumanar e organizzar, hanno invalidato le “poetiche forti”, da quel momento in poi è stato un susseguirsi di rese e qualche resistenza, ad esempio lo stesso Mario Luzi si è dovuto rinchiudere nel suo tardo-manierismo per poter sopravvivere.  L’ultimo in termini di resa è stato Gianfranco Fortini con Composita Solvantur (1994). Nel frattempo, a latere delle così dette “poetiche forti”, si sono sviluppate delle diramazioni di “poetiche deboli”. Parrebbe naturale pensare che dopo una crisi per ricostruire un rapporto e un tessuto comune, si rovisti nella tradizione, si cerchi nelle proprie radici la continuità per edificare dalle macerie di cui sopra, l’atto poetico e il suo complemento, il testo.

Le poetiche deboli del secondo Novecento sono quasi tutte imperniate sull’io lirico-io poeta investito di tutti i poteri. Sull’onda delle due linee, quella innica e quella elegiaca, le poetiche deboli si sono chiaramente attestate sulla linea elegiaca, di pascoliniana memoria nel ritmo, il contenuto, invece, ruota sulla rielaborazione elementare di sofismi e truismi low cost.

Marginalizzare l’io lirico – l’io poeta significa deviare dal centro per una visione larga, allungata sul circostante abisso. È solo prendendo coscienza dell’abisso, soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione dal proprio io-poeta-io lirico che può emergere l’indicibile, la metafora. “Nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile.” (Giorgio Linguaglossa, La Poiesis Kitchen, 2022).

Sul solco del modernismo europeo, la poetry kitchen lavora sul passaggio al post-modernismo, una volta palese che la memoria non è più collegata con la tradizione e che la tradizione non è più la storia. In questi anni di lavoro e di confronto sulla rivista telematica L’ombra delle Parole e del trimestrale di poesia, critica e contemporaneistica, il Mangiaparole, la Poetry kitchen ha esplorato un largo campo di possibilità a partire dal «compostaggio dei linguaggi deiettati, dismessi e tolti» (G. Linguaglossa, Ibidem). Il risultato sicuramente ha portato alla nascita di un coro di voci, di un flusso di nuova coscienza poetica, ibrida, fluida, mutevole, instabile, né poesia né prosa.

Mimmo Pugliese

Dis-oggettivare il tempo e la forma ritengo sia tratto saliente della Poetry kitchen. Allontanarsi un po’ di più dalla metafisica e muoversi nell’interregno del rovescio della medaglia. Rincorrere sembianze di realtà e contaminarle di altra sostanza.

Ultrasurrealismo che si esplica nella frammentazione che sonda il vuoto e nello stesso lo determina. Esattamente questo incastro provoca un movimento tellurico nel quale, per esempio, ” la pallottola” e la “gallina Nanin”, per quanto assolutamente inconciliabili nella realtà, esprimono significazione.

Ultrasurrealismo che ri-forma l’espressività conducendo non verso le «magnifiche sorti e progressive» ma che si insinua nelle intercapedini e nelle contraddizioni di un evo che ha sembianze di gambero. Può essere che produca neppure un solletico ma, tuttavia, aziona la connessione esistente tra quanto diuturnamente è e l’altrove di ciascuno.

L’ego sostituito dall’Es è l’altrove di ognuno che, galleggiando nel vuoto, accomuna “bianche geishe” e “pistacchi del commissario”, “zar di Russia” e “misuratore delle ombre” o, ancora ” sassolino inerte” e ” cane scemo”.

La spoliazione del senso significativo è il carattere distintivo della Poetry kitchen, libera-mente in libero-corpo, che solo apparentemente viaggia senza meta.

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne n. 10, collage, 30×40, 2023

Giuseppe Talia

– we-we, si dice a Napoli

– sei stato a Napoli?

– non di recente

– l’antiquario ha fatto la proposta

– conviene?

– sì, il 35% deve rimanere originale, il resto si può citare

– vero, a San Basile hai ricordato le poesie Frankenstein

– devi tener conto dell’abilità dei punti di sutura

Giorgio Linguaglossa

Kitsch poetry

Dopo essersi ingollato una boccia di marmellata all’albicocca di proprietà del poeta Mario Lunetta che abitava nella capitale in via Accademia Platonica n. 37, il pappagallo Gazprom aprì la porta d’ingresso della abitazione del critico Linguaglossa il quale stava golosamente consumando un uovo alla coque.

Sulla soglia dimorava il poeta Gino Rago con sotto il braccio destro una torta ai mirtilli, lamponi, shrapnel al fosforo bianco e una fotocopia della gallina Nanin opera di Lucio Mayoor Tosi.

Il pappagallo Gazprom aveva appena volato dall’appendiabiti al tavolo da cucina dove finì di ingurgitare i residui della torta e anche una confezione di gorgonzola che giaceva incustodita scolandosi sopra anche una bottiglia di Bourbon, si guardò soddisfatto allo specchio e proclamò con voce stentorea:

«Il vincitore della battaglia di Jena e lo sconfitto di Waterloo sono la stessa persona, sono io!».

Accadde un forte bagliore. Il critico Linguaglossa si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus antiplacca allorché una lampadina con il filo in tungsteno incandescente andò a mal partito.

Quella mattina il poeta Gino Rago stava prendendo un caffè al bar di Trebisacce, correggeva le bozze del suo libro “Storie di una pallottola e della gallina Nanin”.

Sempre a Roma, seduta ad un caffè della Circonvallazione Clodia n. 21 Marie Laure Colasson redige il verbale degli acchiappafarfalle, ci mette dentro tutti i poeti della Poetry kitchen.

Ewa Lipska stava aggiustando la redingote al pappagallo Proust quand’ecco che il poeta Lucio Tosi è diventato un bambino, la mamma gli sta aggiustando il grembiule di scuola e lo rimprovera, gli grida: «stai attento, maleducato!», «ne combini una dopo l’altra!», «sei sempre il solito!».

Francesco Intini ha appena acquistato un revolver a tamburo da 6 colpi calibro 7.65, spara un colpo in aria, dice che Faust ha chiamato al telefono Belzebù per una metastasi mattutina.

Un ippopotamo bianco sta fumando un sigaro cubano in compagnia di Francesco Intini al bar sito proprio davanti al Colosseo, quand’ecco che interviene il poeta-chimico Vincenzo Petronelli che dice: «it will not be easy to handle, il plutonio è un isotopo del favonio e il leone è la marca del water che ho in bagno. Il Colosseo è una dentiera e la groviera è un dentifricio per cani, il che è già un ottimo argomento per l’enthymema».

Proprio in quel momento a Lubjana il critico marxista Tatarkiewick stava litigando con il filosofo Žižek circa il concetto di «vuoto» nella pittura di Rothko

A Londra il cagnolino della regina Elisabetta prende ad abbaiare in tedesco rivolto allo Zar del Cremlino che le si avvicinava. «I cani hanno un istinto interessante, non trova?», ha commentato la regnante rivolgendosi al ministro degli esteri…

Note biobibliografiche

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.; con il medesimo editore nel 2017 esce la raccolta poetica La Musa Last Minute. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Giorgio Linguaglossa nasce nel 1949 e vive a Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 pubblica  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei, la Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia metastabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen  perseguita dalla rivista rappresenta l’esito dello sconvolgimento della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa viene ad esaurimento la metafisica del novecento e si entra nel condominio personale delle parole, una sorta di «nuvola» delle parole gratuite e libere, cioè a disposizione di ciascuno.

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Scambio di missive tra Giuseppe Talìa (Tallia) e Giorgio Linguaglossa (Germanico), Sullo scambio di missive tra due commilitoni della battaglia di Idistaviso tra sovraeccitazione e surdeterminazione dei significati ultronei, di Marie Laure Colasson, L’idea della «nuova poesia» si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica dell’assente e del non-referente

 

Roma facce

Due ex commilitoni, Tallìa e Germanico, reduci dalle battaglie di Idistaviso

di Marie Laure Colasson

Due ex commilitoni, Tallìa e Germanico, reduci dalle battaglie di Idistaviso, si scambiano missive, si cercano e si allontanano nella misura in cui il loro linguaggio è diventato ultroneo e tellurizzato. È un dialogo drammatico e ilare perché non c’è un cunicolo per uscire fuori dalla Storia, siamo già tutti «storializzati» costretti ad un «fuori-significato permanente» e a un «fuori-senso permanente», deiettati dalla «storia» e già tutti «storializzati». È un dialogo sovradeterminato e sovraeccitato in quanto surdeterminato, impossibile da svolgere perché comunque non condurrebbe in alcun luogo, perché il luogo del Potere è il positum, il posto. Si tratta di un dialogo «posizionale», ciascuno dei due attori ristretto nella propria «posizione» reclusoria e, al tempo stesso, «spodestato», cioè «fuori-luogo» senza alcuna possibilità di sortita politica. Di qui il loro linguaggio, che è un «fuori-luogo», un «fuori-posizione», un «luogo ultroneo». In un mondo dove il motto di Hölderlin non appare più valido: «Dove nasce il pericolo maggiore cresce anche ciò che può salvarci (Wo aber Gefahr ist das Rettende auch)», perché oggi siamo già dentro il «pericolo maggiore», siamo nell’epoca della catastrofe permanente e non si avvista nessuna Idistaviso all’orizzonte. Il dramma di Tallia e di Germanico è di essere stati deiettati dalla «storia» e di non avere una «via di uscita». Il dramma è sempre politico, l’estetica viene dopo, ecco la ragione che determina una sovraeccitazione del linguaggio di Tallia e di Germanico. Oggi, il dramma della politica delle grandi potenze sta nel dis-equilibrio permanente e che nessuno dei due contendenti (Cina e U.S.) è in grado di mantenere una egemonia globale e quindi il mondo è condannato a una competizione globale permanente, le due grandi potenze sono consapevoli del fatto che ciascuna di esse può sferrare in qualsiasi momento un attacco a sorpresa con conseguenze devastanti per l’avversario. Il dis-equilibrio permanente determina così una situazione di catastrofe permanente.

La poesia kitchen è un prodotto dell’epoca della catastrofe permanente nel quale il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico” è stato sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo «olistico» e «multi-tasking».
Il dizionario Garzanti scrive che con «multi-taksing si dice di sistema operativo (informatico) in grado di eseguire contemporaneamente più programmi alternando il tempo dedicato all’esecuzione di ciascuno di essi».
L’idea della «nuova poesia» si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica dell’assente e del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate, non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel Qualcuno che glielo consente di indicare. C’è sempre un Qualcuno, un fuori-testo, un fuori-cornice che interferisce con le nostre parole, le parole sono sempre ibride, abnormi, ultronee e chi non l’ha ancora capito è perché è rimasto alla numismatica dei francobolli fuori corso.

Scrive Giorgio Linguaglossa:
«Una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlocutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».

Per la «nuova poesia» è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.
Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità… si tratta di una dis-cordanza, di un dis-formismo che si stabilisce tra i singoli sintagmi… anche le unità di luogo e di tempo della mimesis aristotelica sembrano dissolversi in una fitta nebbia e, con la dissoluzione della mimesis, viene meno anche la giustificazione di un io plenipotenziario e panottico, viene meno anche la maneggevole sicurezza del corrimano del significato.

È una poesia che fa larghissimo impiego di «sovraeccitazioni», di shock, di sussulti, di strappi, di traumi… È perché viviamo in una società traumatizzata e tellurizzata che fa del trauma una necessità di vita e di Narciso. Basta osservare il panorama della politica di oggi: i populisti nazionalisti e sciovinisti fanno amplissimo uso della «sovraeccitazione»; gli stessi media Facebook, Instagram, Twitter, Tik Tok, i telegiornali etc non sono altro che una vetrina e un palinsesto di notizie che fanno della sovraeccitazione una surdeterminazione, una normologia profilattica; la stessa forma-merce, il design e il marketing, dipendono dallo stato di «sovraeccitazione permanente» in cui noi viviamo. Si punta allo stato di «sovraeccitazione» e di surplus di eccitazione, non vedo perché la forma-poesia ne debba rimanere estranea.

Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«La scrittura NOE (nuova ontologia estetica) è più vicina al pensare stesso, ne riprende le modalità. Per questo, nonostante le stranezze, i salti semantici, penso si tratti di poesie ri-conoscibili. Perché tutti pensano, e spesso parlano, in modo incoerente. NOE è vicina all’aspetto sorgivo del pensiero… come anche tutta la poesia di sempre, solo che in altri modi si avverte il profumo del potpourri, violette e lavanda, cose del consueto, del corredo».

Roma Caligula

Giuseppe Talìa

Tallìa

Caro Germanico,

sono molto preoccupato. Giorgio Linguaglossa
non è più quello di prima, È diventato un buono

perdona tutti, perdona anche le mie intemperanze
invece di ributtarmi nel vuoto da cui vengo.

Dice che anche il vuoto è una “cosa”, una cosa che
Contiene il vuoto stesso come un vaso che contiene

La presentificazione e il paradosso del pieno e del vuoto.
Tu lo capisci? Farnetica che la verità è più potente

Della verità stessa. Non ti pare, Germanico, delirante
Il pensiero per cui la verità che di per sé non esiste

Possa esistere in un fondo veritativo? E poi frequenta
Piazze dell’Urbe colme di sardine inneggiando

Ad un rinnovamento che dal profondo dei mari terrestri
Possa riportare questa nostra società malata di memoria

A lungo termine dal Nulla al Tutto e che il Tutto possa comunicare
Con il Tutto. Non ti pare la metonimia un sintomo grave?

Lo tengo d’occhio e ti dirò nella mia prossima.

Giorgio Linguaglossa

Risposta di Germanico a Tallia (Giuseppe Talìa)

Il posto del re è vuoto

caro Tallia,

scrivo dalla mia abitazione: Marketstrasse n. 7 nell’anno mille 3781 ab Urbe còndita.
Il posto del Re è vuoto.
La nuova poesia?, il nuovo romanzo?, la nuova critica?
L’elefante sta bene in salotto, è buona educazione non nominarlo.
Tu dici:
«Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?».
L’elefante si aggira nel salotto.
Con la proboscide fracassa il vasellame, sporcifica la tappezzeria,
rovista nei cassettoni stile liberty e post-pop,
manda in pezzi anche il lampadario di Murano
e la cristalleria di Boemia…

Il vestito di Heisenberg è morto il 25 agosto 1926
mentre si recava in tram a Copenaghen.
Noi lo sappiamo dai resoconti dei suoi studi intorno ad un misterioso ipotocasamo
una micro struttura elicoidale
un miliardo di elementi all’incirca
con innesti di mitogrammi di tantalio e cadmio.

Ricordo un trafiletto del 24 aprile 1997 sul “Sole 24 Ore”
di un poeta milanese che parlava di silenzio e di ascolto…
Masticavo quei tramezzini psicopoetici con del chewingum che attaccavo alle pareti.
Adesso ci sono i cinici, stretti parenti delle cimici, gli scettici,
gli iloti parenti stretti degli idioti.
Però gli iloti di oggi hanno un aplomb più strutturato,
intendo i loro brodini psicocritici.

Nei loro trafiletti ci vedo il vuoto apotropaico, il vuoto del Re.
Una volta c’erano anche i “francobolli” su “La Stampa”,
con all’interno una poesiuola.
Lo spettacolo non era edificante, affatto.

E certo che i lettori normali non prestavano alcuna attenzione a quelle sciocchezze.
Quindi nessuno le leggeva.

Bei tempi, caro Tallia!

Roma Cesare 1

Giuseppe Talìa

Eventum.
(Risposta di Tallia a Germanico)

Caro Germanico,

La crisi idrica è iniziata lo scorso anno.
I pozzi si asciugheranno la prossima estate.
Il popolo se ne accorgerà goccia a goccia.
Quando il vaso sarà colmo.

Giorgio Linguaglossa è un eremita.
Gli spedisco di tanto in tanto i fichi secchi della Bitinia.
Con dentro le mandorle delle Galapagos.

Da quando ha visto per primo l’elefante
In salotto sporcificare la cristalleria,
Non è più lo stesso.

Recentemente mi ha inviato un rotolo.
Con alcune domande. Uno spartiacque.

È ossessionato dal pensiero della fine
del pensiero occidentale.

L’algoritmo – metafisica del presente lo tenta.
E ci sta dentro. La crisi iniziata nel 1929.

Un Nihil si muove dall’ora da una banca all’altra.
Le legioni dispiegate cercano di fare la storia.

Un sentore di fine secolo anticipata
Fuoriesce dagli split dei condizionatori.

Lo invito a qualche incursione barbarica:
Aleja, la schiava amazoniana, recita tutta la divina Commedia;
Grunge Assistant, il liberto, traduce qualsiasi frase in tutte le lingue.

Avoir la patate/banane/pêche.
Tomber dans les pommes.
Raccontare qualche insalata.

(Come dargli torto, la bellezza del sublime
Nel disordine estraneo al bello, ci accomuna)

Un giorno Boileau mi suggerì: lascia perdere gli alessandrini.
Ignora i bellimbusti degli emistichi. Molla i signorini settenari.
I gargarismi del privé a portabilità probatoria.
Apri le finestre al nonsenso del mondo. Aria.
Chiudi le inferriate del valore assoluto.

Di te che ti nascondi.

Va verso – verso. Rompi quando è necessario.
Ti accorgerai che Eventum non è cosa di macchine.

Ricorda che l’ape esce dal fiore solo quando è ubriaca di polline.

Giorgio Linguaglossa

Risposta di Germanico (Giorgio Linguaglossa) a Tallia (Giuseppe Talìa)

caro Tallia,

qui nell’Urbe non ce la passiamo tanto bene.
La plebe è nel dubbio se stare dalla parte dei meloniani o se da quella del bullo di Mediolanum.
Oscilla.
In entrambi i casi siamo fottuti.

E poi c’è quel Cavaliere con le sue coorti di lucidascarpe e sciacalli che maneggiano sottobanco con l’azero Ozerov che viene dalla Sarmatia.

Ozerov ama il prosecco del Friuli, i fanghi del mar Morto e gli spaghetti alla amatriciana.
Scalda le sue armate ai confini della Dacia.

Al momento, è in vetta agli scudi il tribuno Conte, quel manigoldo vuole la pax, costi quel che costi, con i barbari sarmati.
Asserisce il Conte:
«La Dacia se la sbrighi da sola, non sono fatti nostri, teniamoci le legioni a guardia delle Alpi apuane, i bordi dell’impero ad est non sono questione che ci riguardi!»
Questo dice il tribuno.

Il cavaliere cincischia, i meloniani fanno minzioni, i salviniani spetazzano, i destriani caracollano per l’Urbe con le magliette e l’effigie dell’azero perfino dentro le terme di Diocleziano…

Nel frattempo, i prezzi del gas sono alle stelle, le cibarie costano quanto un occhio.
Servono rigassificatori, stoccaggi di armi e munizioni, meno climatizzatori, più balestre e balliste, obici, pilum.
Serve il grano della Dacia e meno ciarle tribunizie.

Intanto, il poeta Montale cincischia con questi versicoli:
«Le trombe d’oro della solarità»

Roma volti
Giuseppe Talìa

Tallia

Caro Germanico,

Fukuyama ha mosso le truppe di terra per tentare
Di ricreare la collettività perduta.

Bauman ha pensato bene di allagare il terreno.
Renderlo scivoloso, fanghiglioso e disaggregante.

Si naviga come con Conrad, si scrolla come per scrollarsi
Di dosso ogni responsabilità, si surfa come a Bondi Beach,
Si entra e si esce come si fosse con Proust, ci si accontenta
Di poco come per ipertrofia congenita dell’io sono,
Si lasciano tracce inesistenti come minimale chic.

L’altro giorno si parlava con Laterzo sed Peiora:
Shakespeare vivacchiava con il bonus studenti.
Montale teneva con il reddito di cittadinanza.
Pasolini veniva invitato spesso nelle Domus.

Gli altri a seguire, tra un’ospitata e l’altra
e il bonus docenti qualcosa pure gli entrava nelle tasche.

Pare che si riuniscano di tanto in tanto per capire
Come resistere nell’autonomia differenziata dell’Impero.

Giorgio Linguaglossa

Germanico

Caro Tallia,

Il poliptoto è entrato nel retto di Putler

Bum! il poliptoto è entrato nel retto di Putler lanciato dall’incrociatore Moskvà
L’Elefante suona l’olifante
Ne esce il pesce Lavrov con squame e sopracciglia dipinte
Odisseo commercia con il petrolio e il gas dei russi, manduca fagiani e noccioline del Ponto Eusino
Confonde Cesare con la regina Zenobia, però ha un occhio peritissimo per la valuta pregiata della Signora Circe
Il pesce Lavrov tira per la giacca il Signor Putler
Ne esce una marmellata di essenze all’isotopo di deuterio e un rotolo di carta igienica con impresso l’aureo sigillo della defecatio del Tirannosauro
Accadde nel Cetaceo che una proboscide con squame di coccodrillo prese a crescere dal retto dell’Ibrido

«It is high time to put this on the agenda»,
disse Odisseo appena uscito dall’antro di Polifemo aggrottando le sopracciglia.
«The event has occurred»,
così chiuse la questione l’itacense alla conferenza stampa convocata da Penelope.

Dopo aver ingoiato il poliptoto il pesce Lavrov non trovò di meglio che rifugiarsi di nuovo nel retto del Signor Putler
Ed ivi compì la defecatio e la prolificatio

Il topo saltellò sul piattino con del formaggio bucherellato, morse un fiordo di Emmental Switzerland e lo trangugiò
Dal retto del pesce Lavrov uscì un minuscolo Putler all’isotopo di plutonio in forma di supposta o di Sputnik
Lo psicozoico tossì e crebbero delle margherite all’intorno

«Benvenuti – esclamò il manigoldo – alla fine dell’Antropocene, ovvero, l’Età della Catastrofe Permanente!»

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.; con il medesimo editore nel 2017 esce la raccolta poetica La Musa Last Minute. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Lettera di Simone Carunchio a Giorgio Linguaglosa a proposito della presentazione della Antologia Poetry kitchen tenutasi alla Fiera del Libro di Roma, La Nuvola, l’11 dicembre 2022, con l’elenco degli assiomi e delle linee di forza della poetry kitchen e due poesie dell’autore, La fine della Metafisica?

Il Mangiaparole 18 Poetry kitchen

Caro Giorgio,

Mi auguro tutto bene per te. Per me non c’è male.

Come sempre ringrazio te e tutta la redazione e i poeti che si aggirano all’Ombra per gli spunti di riflessione che vengono proposti. Ultimamente non sono più riuscito molto a seguire e ancor meno a partecipare alle discussioni sull’Ombra delle parole. Un po’ perché la produzione è talmente ampia da lasciare storditi; un po’ perché avevo bisogno di ‘disintossicarmi’; un po’ perché ho smesso di fare il pendolare e, quindi, avevo meno tempo di leggere altre carte che non fossero quelle di lavoro.

Mi sono però interessato. A fondo, all’antologia Poetry kitchen. E di questo vorrei parlare. Impulso che mi è venuto soprattutto dopo aver assistito alla presentazione del libro alla Fiera del libro di Roma dell’11 dicembre 2022. Come sai, mi occupo del giuridico, in particolare tributario, e, pertanto, in questi ultimi tre anni da fare ce n’è stato moltissimo a causa del fatto che quasi tutti gli aiuti statali erogati per fronteggiare le varie urgenze, prima sanitaria e poi bellica, sono passate per il fisco. Materia, quella tributaria, peraltro, ancora alla fase embrionale (rispetto per esempio al diritto civile).

Prendo spunto da queste brevi note iniziali, concernenti in particolare la mia utile attività, per mettere subito in chiaro, come già feci presente anni fa (era il 2017, ormai, quando ti inviai una lettera sulla NOE, poi pubblicata il 5 giugno 2017 su L’Ombra delle parole, sui temi del frattale, dello spossessamento dell’io e del giudizio), che non mi trovo affatto in accordo con espressioni tipo “la fine della metafisica”. La metafisica, infatti, che si concretizza in tutto ciò che esiste (ma magari non c’è, ma talvolta anche sì), si manifesta quotidianamente, a mio parere, in primo luogo nell’istituzione, la quale non è finita per niente; anzi: pare più viva che mai! Forse anche troppo! Ciò che è venuto a mancare è l’ontologia, il discorso sull’essere (e il dover essere e il non essere e il poter essere), il quale è talmente complesso che racchiuderlo in solo discorso pare davvero impresa impossibile.

In ogni caso, forse, si sta dicendo la stessa cosa, solo utilizzando e sostituendo i due diversi vocaboli. E così arrivo a bomba a uno dei capisaldi del tuo Saggio introduttivo La poetry kitchen presente in apertura dell’antologia di poesia contemporanea Poetry Kitchen: la fine della metafisica.

Comunque sia, premetto, prima di addentrarmi nell’analisi del Saggio, oggetto primario di questo intervento scritto, che, come già affermato in precedenza, mi sono deciso a scriverti in proposito perché, come sai (o almeno credo che tu sappia), sono stato presente alla presentazione della suddetta antologia alla Fiera del libro di Roma del 2022 di pochi giorni fa, riuscendo a comprendere meglio il ‘gesto’ insito nel modo di fare poesia in Cucina. Ciò che ho appreso in presenza è l’oggetto secondario di questo intervento scritto. Naturalmente il mio scopo attuale è quello di spingere sempre più in là il pensiero.

Antologia Poetry kitchen

Orbene, che si ricava dal Saggio introduttivo?

Sulla base di un solido pensiero filosofico (Žižek e Agamben in primis, ma anche Platone; Foucault, Lyotard, Wittgenstein, Adorno, Baudrillard, Welsch, Desideri, Ferraris, Leopardi, Marx, Heidegger), che prende in considerazione la sociologia, la psicoanalisi, la politica, l’esistenzialismo, mi sembra che si affermi:

– che la realtà, la vita, è troppo per essere presentabile e trattabile;
– che l’ideologia è di supporto alla realtà;
– che la realtà è divenuta liquida;
– che la realtà è relativa (compreso il soggetto e l’oggetto);
– che la realtà è divenuta tecnologica;
– che si è nell’epoca della fine della metafisica;
– che l’umanità è suicidaria;
– che il linguaggio non ha più contatti con la realtà;
– che il soggetto è assoggettato al linguaggio;
– che il soggetto ‘artistico’ cerca di dominare il linguaggio;
– che l’arte è imitazione di imitazione di idee (imitazione della realtà?);
– che l’arte è tale perché lo decide un’autorità;
– che qualsiasi oggetto può divenire arte (e che quindi c’è un progresso fenomenologico sociale nel quale l’arte da aulica è divenuta bassa);
– che nell’arte c’è un di più che corrisponde a ciò che non c’è;
– che il concetto di mimesis non è più valido;
– che la nuova poesia è evento linguistico (e che pertanto rappresenta se stesso?);
– che la nuova poesia è affollata di mondo;
– che la nuova poesia corrisponde al sublime tecnologico;
– che la nuova poesia non ha più messaggi da inviare;
– che la nuova poesia ha origine in un luogo (mistico) precedente al linguaggio (alla lingua?) (Es, Inconscio, Preconscio) (fondamento negativo);
– che la nuova poesia è fuori dal significato, dal significante e, forse, anche dal significativo;
– che la nuova poesia è gratuita;
– che la nuova poesia è rivoluzionaria (poiché tende a nuovo ordine delle cose);
– che la nuova poesia è performativa (è quello che è);
– che il nuovo poeta non vuole dominare il linguaggio;
– che la nuova poesia è realistica al massimo grado, in quanto irrealistica;
– che la nuova poesia non ha più niente da dire;
– che la nuova poesia non propone nessuna etica (morale?);
– che la nuova poesia questiona la verità;
– che la nuova poesia è un prodotto dell’attività immaginativa e della tecnica;
– che la nuova poesia ha come tecnica di riferimento quella del cinema (montaggio) (e che quindi sintassi e semantica sono ‘antiquate’);
– che la nuova poesia, come qualsiasi prodotto della creazione, ha come scopo il non detto;
– che la questione fondamentale è l’adattamento al Nuovo in gioco di perenne dialettica (degli opposti, dei contrari, della contraddizione).

Corretta la ricostruzione del messaggio del Saggio? Mi pare di sì. Eh sì: la dialettica, la dialettica degli opposti. Quando un discorso può effettivamente dirsi vero (e non falso)? Forse solo quando è contraddittorio, poiché rappresenta fedelmente la realtà, o meglio la percezione logica della realtà, la quale, come dimostra la fenomenologia, quando è sottoposta ad analisi (la realtà), essa non può che apparire contraddittoria: è la struttura della lingua fonetica (esemplare in questo senso è Linee di fenomenologia del diritto di Kojève: alla fine della storia – che si potrebbe anche identificare con il presente non analizzato – il diritto è tutto e niente allo stesso tempo).

Il Saggio introduttivo mi pare che sia perfettamente dialettico nella sua logica consequenzialità. Per esempio: la poesia non ha più niente da dire, ma dice la questione della verità; la poesia è nella verità che rappresenta se stessa, ma essa rappresenta la realtà liquida; il soggetto artistico tenta di dominare il linguaggio, ma il poeta non vuole dominare il linguaggio; etc. Un discorso dialettico così strutturato è un discorso forte, difficile da attaccare. Per farlo, rispettando la stessa dialettica, è necessario quindi porre di fronte al testo un contesto diverso e, in più, identificare alcuni valori, alcune fondamenta, che non sono messi in discussione nel testo ma ne appaiono come i capisaldi.

Un primo fondamento è il seguente: la poesia è un’arte. Ma siamo certi di questo?

Un secondo fondamento è che il nulla possa produrre l’essere. Ma siamo certi di questo?

Relativamente a tale ultima questione (che poi ci può condurre alla prima), la quale deriva da un’impostazione esistenzialmente atea, si può opporre, per esempio, il pensiero religioso, nel quale si afferma: come è possibile affermare, come fanno in molti, che dal nulla scaturisca qualcosa? Solo da una cosa può scaturire una cosa: il non essere è una cosa come anche l’essere è una cosa (tra i vari: Kardec, Il libro degli spiriti). Certamente è poi possibile discettare su che tipo di cosa sia: ci sono cose che esistono, ma non ci sono (per esempio la responsabilità), e ci sono cose che esistono e ci sono (per esempio un bicchiere).

E tale questione interpretativa si pone al massimo grado nella lingua e nelle creazioni effettuate mediante la stessa, ossia, in particolare nella poesia. Nell’ambito delle altre arti (pittura, scultura, fotografia, musica, cinema, etc.), vale a dire di altri linguaggi, la questione del non essere si pone più che altro in via speculativa, ossia di discorso (naturalmente logico) sull’opera d’arte, e non afferisce direttamente all’opera in sé, la quale è lì, presente, nella complessità dei suoi significati nell’istante stesso della fruizione.

Ecco che quindi la riconducibilità della poesia alle altre arti (e pertanto alla loro condizione di prodotto di mercato) mi pare non così scontata (senza contare il diverso impegno degli arti, del corpo, nelle arti e nella poesia, la differente fruizione da parte dell’utente, etc.). Ne consegue, quindi, che anche l’analogia tra l’artista e il poeta possa e debba essere messa in discussione (e quindi dovrebbe essere messa in discussione la comunanza che tra le varie categorie della creazione è stata effettuata dalle avanguardie del secolo scorso).

In questo senso il ruolo del poeta e dell’artista nel mondo contemporaneo dovrebbero forse essere distinti: il poeta mi pare che possa sopportare una ricostruzione della realtà, nella sua verità, molto più complessa di quello che può avvenire nelle altre arti, soprattutto per la semplicità tecnica del suo mezzo, la quale non ha necessità di importanti supporti esterni (quali apparecchi e strumenti vari).

In più il poeta ha a disposizione la stessa ‘materia’ delle istituzioni: le parole. Ecco che quindi il fascino per il cinema non può eliminare le tecniche proprie della parola: retorica e sintassi in primo luogo. Inoltre non è possibile scappare al senso: esso può essere latente o patente, ma è comunque presente (anche perché, comunque sia, la letteratura è sempre autobiografica, che essa espliciti l’io o meno). O almeno il lettore è automaticamente indotto a cercarlo.

Per esempio, io lettore ho dato un senso ai versi della Tagher e di Intini citati nel Saggio: Ewa si rende conto che non può sfuggire al senso (e il senso attualmente è quello del galoppatoio, quale metafora della condizione umana nella nostra società), o, meglio, che per lasciare gli stacci ha necessità di cominciare a galoppare; e Intini sopravvive alla socialità (scafandri e onde radio quale metafora della stessa società organizzata come un galoppatoio) per cercare qualcosa di intimo. In questo senso ho quindi trovato piacere in altre poesie, le quali mi hanno permesso di interpretare la realtà diversamente da come mi capita di fare in automatico. Continua a leggere

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Instant poetry, ultimo esito della poetry kitchen, Il gatto di Schrödinger, Lo spazio espressivo integrale della poesia kitchen, Sketch di poesia di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Curzio Malaparte, Anonimo, Gino Rago, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Vincenzo Petronelli

La instant poetry
Sulla struttura circolare e la struttura lineare della nuova poesia

Lo spazio espressivo integrale della poesia kitchen è il campo in cui «maschere», «icone» «tempo», «spazio» vengono ridefiniti in un nuovo paradigma.

Lo spazio espressivo integrale della instant poetry è l’istante, l’essere qui e là contemporaneamente, qui per me, là per te, in due luoghi. E ciò combacia perfettamente con la legge del gatto di Schrödinger e con la fisica dei quanti.

La «struttura a polittico» della poesia è una struttura circolare. La struttura della instant poetry è una struttura a segmento.
La struttura lineare, a segmento della poesia kitchen e della instant poetry chiama in causa la mancanza di fondamento del pensiero della fine della metafisica.

La poesia kitchen è fondata sullo statuto di verità del nuovo discorso poetico, ultimo esito della ricerca definita «nuova ontologia estetica».

Il «polittico» nasce dalla consapevolezza che il discorso poetico è privo di un fondamento. La instant poetry nasce dalla consapevolezza che il discorso poetico è privo di un fondamento. La instant poetry nasce dall’utopia di poter afferrare l’istante, come fondamento di se stesso, ovvero, come l’originale di se stesso.

Il tempo del fantasma è l’istante, l’istantanea presenza del presente.
Il fantasma è lì dove il linguaggio manca. Pone un termine, un alt alle possibilità del linguaggio, perché è il presupposto affinché vi sia linguaggio.
Il silenzio è dentro il linguaggio, è contenuto nel linguaggio come suo presupposto, come confine «interno». Se non vi fosse il silenzio, non sorgerebbe neanche il linguaggio. Quindi, il linguaggio non deriva dal silenzio come una nota vulgata vorrebbe farci credere, ma è all’interno del linguaggio. Di conseguenza il «fantasma» sarebbe nient’altro che il commissario rappresentante del silenzio all’interno del linguaggio. La sentinella del linguaggio.

(g.l.)

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Giuseppe Talia, La ferula, pianta erbacea perenne, poemetto, Marie Laure Colasson, Uccello Petty, scultura in ferro,

Marie Laure Colasson Uccello Petty

Marie Laure Colasson, Uccello Petty, scultura in ferro e materiale solido, 2010. La statua greca non parla, la parola non le è più necessaria, dice Hegel, perché in lei interno ed esterno coincidono, ciò che rimane è il suo linguaggio muto, è l’assenza di linguaggio, quello che noi chiamiamo conciliazione e pacificazione dinanzi al Bello. Nell’arte moderna invece la poiesis rimane muta perché interno ed esterno non coincidono più, c’è una frattura, una discrepanza non più suturabile. L’Uccello Petty rimane in silenzio. Vorrebbe parlare, vorrebbe gridare il suo orrore ma non può perché il suo linguaggio è solo rumore, coacervo di fonemi indecidibili e insignificabili.

.

cara Marie Laure,
il mio riccio Kirby aveva una passione particolare per questi nuclei cilindrici. Ha passato anni a studiarli cercando di infilarne qualcuno col triangolo della sua testa ed il corpo cilindrico. Poi forse ha capito che era impossibile e ha desistito. Probabilmente vedeva in essi un tunnel spazio temporale o qualcosa intorno all’assurdità del suo desiderio. Da qualche tempo ha perso un occhio e non sogna più di essere un bisonte e dunque dalla sua prateria di rotoli da inseguire come cespugli intriganti è passato a una collina di panno arancio con cui rivestirsi. Una nuova visione del tempo, credo con meno entropia e meno fatica. Quello  che si può permettere con un occhio solo è dunque nel segno dell’economia. Umanizzazione o no? la tua opera è bellissima. ciao
(Franco Intini)

.

… per un attimo avrei dovuto smettere di parlare del reale e andare verso la ferula, che in questa stagione cresce ovunque. Nasce da uno sbuffo di foglie curiose e cresce in altezza fino a divenire uno stelo, un tronco, con pannocchie che si aprono in ombrelle. Dopo l’essiccatura, la pianta erbacea perenne, si riposa d’estate.

Ecco, la fotografia che mi hai chiesto tempo fa.

La ferula è una pianta erbacea perenne, che cresce lungo le colline che dalla marina di Ferruzzano portano all’acrocoro del paese, in cima alla collina più alta. Una pianta spontanea, uno sbuffo di foglie, un Soffio d’aria, di fumo o di vapore, sta di fatto che dal rigonfiamento dei ciuffi verdi si generano degli steli da cui si aprono delle infiorescenze gialle.
I mattoncini lego dei fichi d’india. Le tue tuie o le tuie tue. L’ulivo olivastro. I cocus con le fronde verso il mare Jonio ionico iconico. Le colline ne sono costellate. Le ferule digradano da una parte all’altra. Forse il nome Ferruzzano è legato alla pianta. La sua storia è presto detta. La torre di Capo Bruzzano, dove si pensa ci fosse il porto di Locri e la villa di Palazzi di Casignana, ne attestano la presenza. La intravedi ai margini delle strade, con il tronco nodoso e le ombrella. Quando d’estate secca spargere i semi a ogni alito di vento. Giallo. Il giallo si versa dalla cima dei poggi lungo tutto il litorale e invade i pedi del mare. Questo, però, d’estate. D’inverno, invece, l’odore dei camin, e la potatura degli alberi. Rami tagliati in fascine. Ricordi di quel che era. Il verde s’impadronisce della scena e concede solo acetoselle nel trifoglio. “Io ti consegno come sono state le cose e come sono”, par dire il verde. L’acqua scrolla la battigia e si sente il rollio delle onde. Verde, Giallo e Blu fanno buuu. Alcune scene del film di Calopresti a cui si deve, pare, la rimozione del portone in quercia che mio nonno si fece fare quando costruì casa, e mai più tornato a casa. Se t’affacci dal belvedere di Piazza della Memoria, abbracci l’intero arco di insenature e lidi fino a Punta Stilo. Da togliere il fiato. Saccuti è l’avamposto. E’ da quando mi hai chiesto della situazione sanitaria che mi ritorna un ritornello, oh Spirlì, Spirlì, Spiriliììì. La faccio poco lunga. Bova ellenofona non si esime dall’accogliere la ferula, e nemmeno le bianche terre dove cresce il vino greco. La ferula è ovunque, in queste terre battute da Terrazzano. Un vento che in epoche remote scavò assieme all’acqua, il corso di Canalello. Un fiumiciattolo che porta le acque reflue, depurate, uno dei pochi comuni della zona a depurare gli scoli. A nulla può valere lo sforzo titanico di pochi, quando la maggioranza sversa, impunemente, nello stato delle cose. Quant’è bella giovinezza, sarebbe il canto giusto per la ferula. Succede che nelle vicinanze di una ne cresca un’altra, e che s’accapiglino quando il peso della chioma le curva una sull’altra. Lo stesso Peter Knut, quando sbarcò all’aeroporto dello Stretto, fu accolto da alcune d’esse, anche se in lontananza, dai clivi frastagliati di Pentedattilo. La conservazione del Borgo e le attività commerciali di artigianato ne potrebbero fare un centro fiorente. Mancano le infrastrutture, la ferula non le permette.
Escher realizzò una litografia su Pentedattilo.

(Giuseppe Talìa)

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La ferula di notte
1-Ferula di notte.
La Ferula

.

La ferula è una pianta erbacea perenne. Una pianta spontanea.
Da cui si aprono delle infiorescenze gialle.

I mattoncini lego dei fichi d’india le sono tutt’intorno acquattati.
I cocus, con le fronde verso il mare.

Capo Bruzzano, ne attesta la presenza.
La intravedi ai margini delle strade. Con il tronco nodoso e gli ombrelli.

Si concede solo al trifoglio.
Il rollio delle onde. Alcune scene del film di Calopresti.

Da Piazza della Memoria, le insenature insenature di Punta Stilo.
Nemmeno Bova ellenofona si esime dall’accoglierla.
Nemmeno le bianche terre dove cresce il vino Greco.

La ferula è ovunque, in queste terre battute da Terrazzano.

Succede che nelle vicinanze di una ne cresca un’altra.
Pentedattilo!
Che si accapiglino quando il peso delle chiome le curva una sull’altra.

La ferula è dov’è, dove deve stare.
Un prometeo incatenato.

La ferula, ferina e ferigna.

Il finocchietto selvatico, gli cresce accanto.
Il De alimenti urgentia.

Una valanga di marrone. Cotto nel sole. Gerani. Le spighe. Scalda la rena.

La Ferula vince in altezza. Immobilizza i tessuti vicini (Ferula assa-foetida).
Solo l’aglione e i gigli di mare le resistono.

In India, la resina della sua radice viene aggiunta al burro chiarificato. Vanta origini persiane.

Le bacche rossastre del lentisco dal forte aroma di oliva.

*

ferula 4 foto di vanessa Ragona

Ferula, foto di Vanessa Ragona

.

La ferula comincia da questo momento in poi.
Con un crack del terreno.

Le mani protese cercano la luce.

Ha visto anche il sangue, sapete!

Spari. Strage. Famiglie, zii, nipoti.

Era presente nella strage degli Alberti. Certo, non poteva non mancare.
Ama starsene nelle crepe e da lì vedere il mare.

Ovunque si trovi sparge i semi con il favore del vento.
Non scherzo.

È anche opportunista, eh!

Un quarto di luna calante cadde una volta come una mannaia sulle povere sorelle.
Dove? Dove.

Però attizza. Sì, un po’ si acconcia e un po’ si lascia usare la ferra.

Cavoli che non vi riguardano, direbbe. Ma parrebbe? Parrebbe
Anche a quelle che vedono Barbara D’Urso, che hanno il privilegio
Di crescere vicino all’abitato e sbirciare, dalle volte dei terrapieni
L’interno degli umani.

Ma vi racconto questa. Ebbe a sentire di una sua parente che visto il posto non prese la decisione di rimanere lì. Qui? In città?

La ferula ha capacità adattive rafforzate. Presente anche in cucina.
Contro i gonfiori di pancia. E relative flatulenze. Una bustina, sciolta in acqua.
È un thè.

Può capitare di vedertela alle spalle riflessa in qualche acrilico.
Paolo e Francesca. Perché?

Cichorium una volta le disse , Cynara Cardunculus, Borrago Officinalis e le dieci piante più viste in giro ti sparlano. (O ti sparano.)

Quando la luce dell’estate si accende, il mandarino termina e le zagare si trasferiscono
in oli e profumi, lei s’asciuga i fianchi.
Sbotta dal basso con ombrelle di piccoli fiori gialli.

Tutte, contemporaneamente, ovunque esse si trovino, di seguito, di fila, nello stesso momento mostrano gli acheni, il gloss&gas.

Neve, tanta neve che arriva con i cargo di neurotrasmettitori e i vasocostrittori.
Pochi atomi di carbonio, adattamento e habitat e forte specializzazione, grazie alla velocità del trasporto e ai mezzi di conservazione.

La ferula lo sa bene, specie in queste terre e in questi porti.

Villa Demidoff offre percorsi ambientali. La ferula è presente in comitato.

Si discute, in comitato, delle moltitudini di piante che hanno la sventura di essere straziate e macerate in qualche parte di mondo fragile.

Ben vengano le colture a uso medico. Va bene finire in una bustina. Siamo per l’osmosi dopotutto.
Così recita lo slogan.

Si fa anche cultura.

D’altronde è una Lady di Ferula, firma.

La risoluzione del problema sta nel conteggio.
La pianta come sta? Sciaborda o sciabola? Quando cazzo ci pensate?
Le infiorescenze. Contatele.

In tutti gli ambienti dove la ferula è presente, quello che più l’aggrada (sceglie lei, mica io) è quello caritatevole lasciato da uno strano destino ad essere la sola ombra possibile, in quelle terre dove regna sovrana.
Arrivano per mare e li accoglie.

Escherichia coli, tosse, sono le prime ad invaderla quando s’accasciano disidratati al suo cospetto.
E lei offre riparo.

La crisi coeva di Montale e di Pasolini del 1971. L’inizio della fine della borghesia e del proletariato. Lei c’era.

La ferula communis, volgarmente chiamata, trova le risposte giuste.

Dal seguente brano scegli con una crocetta la risposta che pensi si avvicini alla domanda.

Non accogli volentieri in giardino, la ferula. Non è tra le piante ornamentali.
Come un canto essa si muove digrignando i denti. I gatti l’amano. Graffiarne il tronco,

e le foglie che solleticano.

Bring. Suono.
Quando invece è abituata al grillo.
S’appoggia volentieri alle germinazioni dei suoi rami.

Ma bring.
Suono. Non è come il trillo.
Bring. Continua a leggere

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Umberto Eco, Manlio Sgalambro, Franco Fortini, Erminia Passananti, Giorgio Linguaglossa commenti sulla poesia nell’età della tecnica, Poesie di Antonio Sagredo, Giuseppe Talia, Raffaele Ciccarone, Francesco Paolo Intini, Al mondo ridotto a mondo artificiale della tecnica corrisponde una poiesis diventata un manufatto artificiale interamente tecnico, che della tecnica ne impiega il lessico e l’orizzonte mondano, il che equivale a dire che l’orizzonte della poiesis tende ad identificarsi con l’orizzonte della tecnica, La poiesis odierna dell’età della tecnica non può che oscillare tra metafisica e giornalismo

Scrive Umberto Eco:

«I Poeti assumono come proprio compito la sostanziale ambiguità del linguaggio, e cercano di sfruttarla per farne uscire, più che un sovrappiù di essere, un sovrappiù di interpretazione. La sostanziale polivocità dell’essere ci impone di solito uno sforzo per dar forma all’informe. Il poeta emula l’essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostruire l’informe originario, per indurci a rifare i conti con l’essere».1

Commento di Giorgio Linguaglossa

Nel nuovo mondo di oggi dominato dalla tecnica, la filosofia tende a diventare un discorso antropologico e la poesia tende ad un discorso sulla storia celata e indecifrabile (indecidibile) della mutazione antropologica.
La tecnica, prodotto della interazione sociale, cessa di essere un problema filosofico perché è diventata un dato di natura, è essa stessa il problema principale perché modifica irrimediabilmente le strutture categoriali e antropologiche, così come i nessi tra le varie ontologie regionali. Questo per tre motivi principali, in primo luogo, perché il mondo in cui oggi viviamo è un mondo interamente tecnico, costituito da immagini, protesi, oggetti tecnici; in secondo luogo, perché lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha radicalmente mutato la nostra esperienza percettiva del mondo trasfigurando il cosiddetto mondo reale in immagini già date, già elaborate dalle emittenti mediatiche e non; in terzo luogo, lo stesso concetto di «esperienza» subisce una radicale modificazione: se l’esperienza era un tempo il risultato intellettuale di una elaborazione di dati sensoriali, la tecnica  interviene modificando le strutture concettuali e psicologiche e i limiti, la qualificazione della nostra percezione sensibile: l’esperienza tende a diventare una abreazione di pressioni inconsce che pulsano alla coscienza e chiedono udienza, trattasi di una mera registrazione inconscia di un processo di abreazione inconscia. L’esperienza artistica tende così a diventare anch’essa inconscia, tende a sottrarsi alla coscienza e la poiesis tende a trasformarsi in (mi si passi il termine) antiprassi inconscia in rotta di collisione con le ragioni del conscio. Al mondo ridotto a mondo artificiale della tecnica corrisponde una poiesis diventata un manufatto artificiale interamente tecnico, che della tecnica ne impiega il lessico e l’orizzonte mondano. Il che equivale a dire che l’orizzonte della poiesis tende ad identificarsi con l’orizzonte della tecnica. La poiesis odierna dell’età della tecnica non può che oscillare tra metafisica e giornalismo senza poter mai trovare un abito proprio ed è così costretta ad indossare abiti e lessici presi in prestito dal vocabolario della tecnica e adottati per l’occasione, per le festività dell’occasione. La poiesis tende a diventare un interludio delle festività.

Scrive Manlio Sgalambro:

«Oggi il filosofare non ha più la possibilità di seguire una linea dritta, perfetta, precisa, perché altrimenti diventa geometria – e non ci sono filosofie geometriche, adesso. Questa parte iniziale del Duemila non ha filosofie, o ha filosofie meramente accademiche. E quindi non resta che accentuare il capriccio, accentuare la variazione. E richiamarsi all’epifania joyciana. Ho fatto una specie di piccolo duello con questo altro tipo di filosofare, privilegiando il non-senso, il non-significato. E’ come se a un tratto il cavallo si fosse sbrigliato, avesse perso le redini – ma volontariamente – e se ne andasse al galoppo cercando di entrare e di uscire, qua, là… Un pensiero “sbrigliato”»2

Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966)

«La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con “martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine economico che le sostiene».

Commenta Erminia Passananti

Nei saggi sparsi poi raccolti in Verifica dei Poteri appare chiara la visione critico-dialettica che Franco Fortini aveva della poesia. Per Fortini la forma-poesia deve stabilire un rapporto marxisticamente dialettico con il lettore, spingerlo ad assumere una posizione di critica del testo (e del reale), sollecitarlo a prendere una posizione di opposizione alla forma-poesia del genere lirico. L’«opposizione» che Fortini richiede al lettore è di tipo transitivo, dialettico, svolge una funzione insostituibile perché soltanto nell’esercizio continuo del mestiere dell’«opposizione» marxisticamente orientata si può affinare il senso estetico-politico di critica dei prodotti culturali e della poesia nelle condizioni avverse delle società di massa. C’è in Fortini l’idea marxista propria del suo tempo secondo cui la poesia deve essere capace di esercitare un ruolo di guida e di educazione dialettica dei lettori di poesia verso i prodotti di poesia nella prospettiva escatologica della lotta di classe (del conflitto finale) e del rivolgimento totale dei rapporti di produzione esistenti tra forze produttive antagonistiche. Quel «conflitto» ben attivo e rinvenibile anche all’interno della forma-poesia. Di qui il rifiuto della poesia elegiaca (che prevede il ruolo passivo del lettore e dell’autore).
Quindi, si tratta di un compito marxisticamente inteso come educazione attiva del lettore, dei lettori, della «massa». In attesa della modificazione delle condizioni esterne alla forma-poesia, si tratta di far convergere nella forma-interna della poesia quelle tensioni e quelle stratificazioni stilistiche antagonistiche che conferiscono al genere lirico quella sua inconfondibile forma di «resistenza dei materiali poetici» alla fruizione acritica e passiva del testo poetico (in opposizione alla letteratura come snobismo al servizio del privilegio borghese «che perpetua la ricostituzione di un’ideologia per dirigenti», «aroma spirituale», «vino di servi»).

1 Eco U., Kant e l’ornitorinco (1997), Milano, La nave di Teseo, 2016, p. 51.
2 Da un’intervista di Maurizio Assalto tratta dal sito del filosofo Manlio Sgalambro: http://sgalambro.altervista.org/

Commento di Antonio Sagredo

De Sausure non è invocato invano dal Linguaglossa, anzi ha una sua giustificazione specie quando l’oggetto principe della POESIA è il montaggio, il suo montaggio da parte dei poeti, ma poi bisogna dare atto che la POESIA si “automontaggia”, e i poeti sono straniati, nel senspo anche che non sono più capaci di sostenere la caduta della parola stessa a causa della gravità
che la rovina.
La POESIA è una creatura che usa spesso lo specchio affinchè si realizzi il proprio montaggio. De Saussure, uno delle basi fondanti del formalismo russo, sapeva che ” l’ immagine verbale non si confonde col suono stesso” , negando allo specchio la “riflessione” più che la visione “altra”… lo specchio che riflette soltanto il suono della parola nega alla parola stessa qualsiasi significato e significante, e l’entrata in scena dei “tratti distintivi” (Roman Jakobson) che sono prima della parola e oltre la parola hanno la funzione di sospendere tutto ciò che rappresenta il mondo della parola… che oggi non esiste più… e allora altri mondi si affacciano per sostenerla, per sostenere infine l’inconsistenza, l’assenza di gravità fa crollare tutti i riferimenti a cominciare dal fatto che qualsiasi suono che apparteneva alla parola, non esiste più. E come dare alla parola un nuovo suono se il suono stesso è crollato? E dire ancora qualcosa sul montaggio della parola poetica (ma anche di tutte le parole altre”) è vano se assente o mancante è qualsiasi suono! Bisogna abituarci a una poesia priva di suono. Come a una orchestra che non emetta alcun suono, perchè questo è tutto assorbito dalla partitura! Che suona di per se e non bisogna di alcun strumento.
Riccardo Muti direbbe: fandonie! Questo è il punto.

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare

assomigliare a San Carpoforo.
Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele

sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.
Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.

Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.
Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

(poesia postata il 26 novembre 2018)

Raffaele Ciccarone

set 1


gli era difficile trattenere
il taglio delle mezze lune
il sauro montato da Holden
saltava senza posa
il ritmo market movers
gli permetteva di schivarle tutte

Adalgisa senza ombrello
incontra una pioggia
vestita d’argento fuligginoso
il cappello a punta nero
montava piume di struzzo
omaggio del suo pappagallo Continua a leggere

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Mini Antologia di Poetry kitchen, Poesie di Gino Rago, Guido Galdini, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa, Giovanni Giudici, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa 

Marie Laure Colasson ZY Struttura dissipativa acrilico 50x50 cm, 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa ZX 30×80 cm, acrilico su tavola, 2020

Qui Marie Laure Colasson fa esperienza originaria del linguaggio del colore. Fare esperienza originaria del linguaggio (dunque della storia) come linguaggio del colore è fare esperienza del gioco del colore. Esperienza, linguaggio e in-fanzia (il non-colore) coincidono in quanto origine. Origine, esperienza e linguaggio coincidono in quanto in-fanzia del non-colore; origine, esperienza e in-fanzia del non-colore coincidono in quanto linguaggio.
In origine, linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto gioco, esperienza fondamentale.
È questa coincidenza confluenza nel gioco ciò che consente il dispiegamento della ‘storia’, a fondare la possibilità che vi sia qualcosa come una ‘storia’ e un significato. L’in-colore, ovvero il fatto che l’uomo non sia sempre già (stato) un parlante, che il linguaggio giunga all’uomo dall’esterno, dall’altro,  scindendosi e articolandosi in lingua-e-discorso, semiotico-e-semantico, essenza-ed-esistenza, si annuncia come quel luogo che, indugiando sulla soglia, al limite delle scissioni, nel loro punto d’insorgenza, inaugura la loro destituzione nella forma della di loro originaria esperienza, nell’esperienza del gioco, cioè nella forma dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. In questo modo essa, l’in-fanzia, il non-colore acquista colore, profondità e storicità e può fare esperienza dell’origine della differenza in quanto esperienza fondamentale. Ciò che implica, anche, esperienza della storicità.
«Se noi non possiamo accedere all’infanzia senza urtarci al linguaggio che sembra custodirne l’ingresso come l’angelo con la spada fiammeggiante la soglia dell’Eden, il problema dell’esperienza come patria originale dell’uomo diventa allora quello dell’origine del linguaggio, nella sua doppia realtà di lingua e parola». (G. Agamben, Infanzia e storia, p. 47) 
(Giorgio Linguaglossa)

Gino Rago

Gino Rago è nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

.

Storie di Passages n. 1

La caffettiera di van Gogh
per tutta la notte ha litigato con il manichino di de Chirico.
Diceva che lei almeno sa fare il caffè, invece un manichino
è solo un manichino.

Allora, è successo che De Chirico
si è spazientito e ha disegnato un sole con i raggi
che si mette in cammino, attraversa a piedi le montagne e le nuvole
entra nell’atelier di Marie Laure Colasson,
si ferma allarmato davanti ad una “Struttura dissipativa” della pittrice
posta sul cavalletto.
e chiede: «E questo cos’è?»,
domanda che ha molto seccato la pittrice francese la quale per ripicca
lo ha punzecchiato con una forcina per i capelli
dicendogli che era uno spazzacamino, un presuntuoso, un leghista, un feticista
e un fascista…

Squilla il telefono al 6° piano di via Domodossola n. 25.
Sylvie Vartan parla con George Perec.
«Monsieur Perec, c’è un figuro che ci segue,
dice che abita nel futuro e che è capitato per sbaglio
nel presente».

«È Jèrôme Lapalisse, di professione crittografo, di mestiere ammazza parole
e aggiustalampadari.
Abita nel condominio al numero 11 di Rue Simon-Crubellier…
Tappeti Bukhara, due dobermann, libri rilegati in pelle,
porcellane cinesi, uccelli esotici, un pappagallo gialloverde del Madagascar,
tavolini africani in mogano».

Jèrôme Lapalisse a Sylvie Vartan:
«Madame, quella signora elegante ci osserva».

George Perec:
«È Madame Colasson, pittrice, vive a Roma,
ogni tanto torna ai passages, nei boulevard, passeggia con dei foulard colorati,
si ferma sempre davanti alle pasticcerie,
pensa che il segreto delle sue “Strutture dissipative”
sia racchiuso nelle torte con la panna…».

 

[Ecco un tipico esempio di poesia con oggetto, o poesia sull’oggetto, cmq poesia oggettiva, che altro non è che una poesia pensata come uno stampo mimetico-realistico dell’oggetto, che gira intorno all’oggetto…]

Giovanni Giudici (1924-2011)

Descrizione della mia morte

Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l’avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L’avvenimento era importante ma non grave.
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?
Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C’era un bel sole non caldo, poca gente,
L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,
Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrota o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.

(da O Beatrice, 1972)

Marie Laure Colasson

caro Gino,

questa volta ti meriti i miei complimenti, hai raggiunto la légéreté tipicamente francese che consente di rendere più leggera una realtà in sé asfissiante e l’hai trasposta nella poesia italiana come meglio non si poteva,
Ha ragione Lucio Mayoor Tosi quando dice che la tua poesia è di stampo giornalistico, è vero, e ben venga finalmente una poesia che impiega il linguaggio dei rotocalchi e lo converte in opere letterarie. La poesia di Giudici postata sopra era un tentativo di scrivere una poesia giornalistica, purtroppo non riuscito; al contrario, il tuo tentativo è, a mio avviso, riuscito. Se Giudici avesse scritto la poesia invertendo gli addendi, cioè mettendo la morte che osserva e descrive l’io, avrebbe ottenuto risultati migliori, ma le sue convinzioni neoveriste non gli consentivano neanche di immaginare un tale salto immaginativo. Un bravo anche al pittore Giorgio Ortona. È problematico per un pittore fare oggi un ritratto di figura umana per tantissimi motivi che non sto qui a ripetere. Ma lui c’è riuscito in modo brillante. Io ci vedo anche un lontano ricordo di Bacon. Ma è che dopo Bacon fare un ritratto o autoritratto è diventato ancor più problematico. L’autoritratto è come una poesia lirica, un racconto dell’io sull’io. Qualcosa sfugge sempre. E allora devi inseguire ciò che sfugge. 

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Compostaggi di versi di Autori Vari della Nuova Ontologia Estetica, Sull’Evento, Osservare l’evento dal punto di vista dell’evento

Foto Giuseppe Conte

Compostaggio, ovvero, fotocomposizione al pc in immagine

Giorgio Linguaglossa

Sull’Evento

Il nuovo paradigma ospita l’evento come un convitato di pietra, un ospite invisibile, che non lascia indizi, che copre le proprie tracce; esso è libero di presentarsi come vuole e dove vuole. Per questo dobbiamo lasciare uno spazio di libertà all’evento, sarà lui a scegliere il come e il quando presentarsi. Noi possiamo soltanto preparare le condizioni per ospitare l’evento e il gioco degli eventi.

Nella misura in cui il soggetto, l’«attore» cessa di costituire la prospettiva della poesia, è l’evento, con le categorie impersonali che porta con sé, a dettare i termini della prospettiva pluricentrica. Il compito del soggetto è di saper diventare figlio dei propri eventi o degli eventi che fa propri, e non delle proprie opere. L’evento, come singolarità assoluta, non ha nessun qui ed ora, poiché il qui ed ora è sempre in riferimento ad un soggetto.

Non vi sono quindi cose che divengono altro da ciò che erano prima in virtù di questo o quell’evento, ma innanzitutto vi è la relazione tra oggetti, in quel tutto aperto e cangiante che è il reale, il che delinea i contorni di un quadro che presenta più di un’analogia con quello leibniziano. Per un verso, quindi, il segno indelebile che su di me lascia l’evento che mi incarna e che in questo modo duplico in me stesso; peraltro verso, il suo carattere eminentemente impersonale e al di sopra o al di là di ogni logica tradizionale.

Non è un caso che la questione dell’evento si sia fatta strada assieme ad un ripensamento radicale del linguaggio e che si possa perciò parlare – in un senso certamente molto ampio, tenendo presente la varietà di prospettive che qui contempliamo – di una grammatica dell’evento.

Le coppie sostanza-accidente, potenza-atto e così via, come la credenza che esistano oggetti in sé, al di là del tempo, non sarebbero altro che il riverbero metafisico della struttura della lingua greca, che si fonda sulla coppia soggetto-predicato.

Né il puro significante che non rimanda ad alcun significato (non essendo perciò nemmeno più un significante, dal momento che non esiste significante senza significato) possono essere indicati per mezzo del nostro nuovo linguaggio poetico, essenzialmente sostanzialistico, che ripudia l’aggettivazione e l’eccessiva inflazione del verbo.

Concetti come percezione, esperienza, empatia, soggetto, oggetto, causa, effetto in questo nuovo orizzonte, non sono più in grado di aiutarci a capire in quale mondo ci troviamo, non ci forniscono che informazioni equivoche, erronee, perché appartengono alla vecchia metafisica della presenza e del venire alla luce. La nuova poesia richiede una nuova modalità di pensiero. Innanzitutto, il mondo come questità di cose, connessione delle questità di cose in una composizione infinitamente complessa che non può essere spiegata da una unica causa agente o da concetti come causa ed effetto. La nuova forma-poesia del polittico recepisce queste esigenze del pensiero poetante dando la priorità e la centralità ad un quid che agisce indipendentemente dalla volontà di un soggetto. Questo quid non deve essere necessariamente visibile, anzi, può agire meglio se non è visibile. Esso si rende visibile attraverso delle condizioni che si verificano nel corso della processualità mondana. L’evento agisce sempre indipendentemente dalla sua visibilità. L’evento come accadere processuale del mondo non è relativo ad alcuna soggettività, ma è un assoluto, una singolarità. È impossibile racchiudere l’evento in un significato. L’evento è il singolare che cambia la processualità del divenire senza che noi ce ne accorgiamo. Questa visione comporta dunque il superamento della metafisica classica e il superamento della soggettività trascendentale di quella metafisica.

Gif Soldi

La vittoria incontrastata del Capitalismo è l’Evento invisibile della nostra Epoca. La razionalità tecnico-scientifica è stata fondata dalla razionalità dell’ordo rerum e dell’ordo idearum promossa dal mercato, idest, dal denaro. In termini marxisti è sempre la razionalità del denaro che ha il dominio sulla razionalità tecnico-scientifica

Osservare l’evento dal punto di vista dell’evento

Per esempio, nella poesia di Gino Rago e in quella di Giuseppe Gallo postate sopra, abbiamo una novità che balza subito agli occhi: in quella di Rago è una «pallottola» che assume il ruolo di «soggetto», tutti i personaggi che intervengono nella poesia sono degli epifenomeni. Analogamente, nella poesia di Giuseppe Gallo è l’«Ombra» che assume la funzione di «soggetto», è l’«Ombra» la protagonista che distribuisce i ruoli e i luoghi ai personaggi che intervengono nella poesia.

L’evento visto dal punto di vista dell’evento, potremmo dire. È l’evento che guida la costruzione della poesia. È l’«evento» che distribuisce le funzioni degli attanti. È una novità rivoluzionaria che sposta tutti i termini cui siamo abituati dalla poesia della vecchia ontologia poetica e introduce una nuova gerarchia dei «ruoli».

Per quanto riguarda la poesia di Mario Gabriele, lì non c’è un «evento» che governa la costruzione della poesia, ma è piuttosto la «mancanza di evento» che svolge la funzione centrale, che altro non è che una rigorosa funzione decostruttiva del testo, rivelando la sua natura-di-non-testo, un testo dove – come ha acutamente sottolineato Lucio Mayoor Tosi – la poesia diventa prosa e la prosa diventa poesia. È in questa «zona grigia» (dizione di Francesco Paolo Intini) o «zona gaming» (dizione di Giuseppe Gallo) che la poesia di Gabriele trova il proprio «luogo».

Con l’Ereignis (Evento) si interrompe quel gioco linguistico per cui qualcosa come un significante sta, in quanto segno, per qualcos’altro, cioè per un altro significante, poiché non c’è nulla, al di fuori dell’ Ereignis. È l’Ereignis che precede e fonda il significante e il significato, e quindi il linguaggio. Ora, conformemente a questa premessa, costruire una poesia dal punto di vista dell’Evento significa sottrarsi al vincolo di una poesia basata sul significante e sul significato e sottrarsi al punto di vista che questo necessariamente comporta.

Compostaggi di versi di Autori Vari della NOE

a cura di Mauro Pierno

“Il quid è negli interstizi dei vuoti a rendere.
Entra. Siediti. C’è qualcuno che non hai mai visto?

“Vuoti palchi osservano bagni metafisici dove figure
dal passo umbratile, bisbigliano ad oracolo, il contraddetto evento.”

Un solo piccolissimo punto è quello che ci sfugge.
E lo chiamiamo porto, libro, colbacco, Maestrale.

“o comunardi sulle barricate di Parigi
ma sprizzava luce dai crateri.”

“Intanto, fiocchi di neve, chicchi di riso, uno scolapasta,
una stella di latta, un catecumeno con la tonsura,”

“Pomeriggio di piogge sfebbrate. Chilometri di coltivazioni di spose tristi.
Infanticidio di stoffa verde. Madri oscurate, fino alla spina.”

“In questi agglomerati urbani non puoi chiedere
a nessuno la strada di un nuovo battesimo.”

“Solo mi viene da ridere. Ha visto il film Joker?
Ecco, una cosa del genere.” Continua a leggere

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Il Coronavirus nella poesia di oggi, La zona grigia, Pensare la zona grigia è compito del pensiero, Poesie di Dante Alighieri, Tomas Tranströmer, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda

Lucio Mayoor Tosi La Gioconda

[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà  a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra  per i prossimi milioni di anni…]
.
«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
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1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
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Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
Caro Gino Rago,
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il virus ci rende deboli e fragili, ci isola ed esaspera gli egoismi e gli individualismi, i populismi e i sovranismi. Nello stato della «nuda vita» agambeniana ognuno si preoccuperà della propria sopravvivenza. La solidarietà sarà una parola del passato. L’uguaglianza dello stato di diritto anche.
Il filosofo «Žižek afferma che il virus ha assestato un colpo mortale al capitalismo, ed evoca i fantasmi di un oscuro comunismo. Crede anche che il virus possa far cadere il regime cinese. Žižek si sbaglia. Non succederà niente di tutto ciò.» Condivido l’analisi del filosofo cinese Byung-Chul-Han. La Cina spaccia il suo Stato di polizia digitale come la soluzione della pandemia, esibirà la superiorità del suo sistema rispetto a quello delle democrazie dell’Europa. Idem Putin il quale ha dichiarato più volte che le democrazie liberali dell’Europa sono in disfacimento.
(Giorgio Linguaglossa)
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1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116

Giuseppe Talìa

La poesia del dopo COVID-19.

Riguardo al Nostro Giuseppe Conte, poeta, che nel tempo ha invocato gli dei e che continua, dopo aver preso un abbaglio clamoroso scambiando un modesto video montaggio di un’agenzia di propaganda per un’immagine reale della prima guerra mondiale, non ce lo dimentichiamo, ricordiamo questa sestina cattiva da La Musa Last Minute, Progetto Cultura, Roma 2018.

Giuseppe Conte

Né ferite né fioriture sono possibili
Lo dice il telegiornale non stop h24
E alla tavola rotonda che fu di re Artù
Si siedono ora tredici famiglie del gruppo
Bilderberg a cui importa solo il think tank
Della Parca parcheggiata nell’Economia

 

 

Tomas Tranströmer

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:
«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1

La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. Solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere com-presi nella nostra più vera essenza.
Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.”

(Giorgio Linguaglossa)

E’ incredibile come la quartina di Tranströmer, con quel finale:

Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

corrisponda alla nostra situazione quotidiana, prigionieri all’interno delle nostre abitazioni, con tutte le porte e le finestre chiuse a causa del virus Covid19.

 (Marie Laure Colasson)

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 1
K. invia il Signor F. sulla terra con una minuscola teca

K. sfregò uno zolfanello sul muro e accese il sigaro.
Il suo occhio di vetro sembrava osservarmi.

Poi accese il fuoco, ci mise sopra un bricco il quale cominciò a tossire.
Uscì fuori una figura di fumo che si contorceva.

«Ecco, questo è il Signor F.» disse K. «È una persona ragionevole,
con lui si possono fare ottimi affari…».
«Sa, è stato per tanto tempo nell’aldilà. Adesso però è stato dichiarato innocente.
E per questo riabilitato e restituito al pianeta Terra,
tra gli umani».
Fece una giravolta. Uno sgambetto.
Si infilò il monocolo sull’occhio di vetro.

Mostrò una minuscola teca. «Ecco, questo è il vasetto di Pandora.
Contiene il Covid19, un affaruccio con la corona lipidica che si scioglie ad una temperatura
di 27 gradi. Mille volte più piccolo di un globulo rosso…».
Azazello fece uno sberleffo, una piroetta.

«La sentenza di assoluzione è la prova di un errore giudiziario», disse K. con sussiego, riprendendo il discorso interrotto.
«Ciascuno è intimamente innocente»,
«E intimamente colpevole». «La confessione è il miglior argomento
in pro del giudizio».

Poi prese a passeggiare in cerchio.

Nel frattempo una ladyboy in calzamaglia a rete iniziò a litigare con Azazello.
«Sei piccolo e brutto!, e stupido!, non sai neanche come si tratta una Milady!, tornatene da dove sei venuto, scimunito!».

«È estremamente riprovevole giocare con il Covid19, non crede?», riprese K. il filo del discorso dove lo aveva lasciato. E si aggiustò la mascherina.

Nel frattempo, la teiera si alzò dal tavolo
E versò nella tazza di F. un tè bollente.
Che il Signor F. bevve d’un sorso. Deglutì sonoramente.

Il pomo d’avorio fece su e giù.

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Lettera di Tallia a Germanico e risposta, Poesie, riflessioni, citazioni di Giorgio Agamben, Gigi Roggero, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini

Foto Statua volto romano

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Giuseppe Talìa

Tallia a Germanico

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Apollo figlio di Apelle, fece una palla di pelle di pollo…
Ricorda sempre – dice la Pizia – le viscere dell’aruspicina.

Dunque io filosofo e tu poeta. E chi l’avrebbe mai detto!
-Su ciò che non si può parlare si deve tacere. Ora mi spiego
Il mio lungo silenzio.

E se dunque non so, come realmente non so, perché l’Oracolo
Dice che io sono il filosofo e tu il poeta? I grandi problemi.

Ecco. La neve. La neve, tra gli altri, è un grande problema.
La neve non cade più, né più si scioglie al sole. Sparita.

Sparita come sparite le correlazioni: neve come cotone;
Il silenzio della neve; bianca come la neve; il fiocco vagabondo.

Parole in estinzione. Parole già estinte. Parole svanite.
Che fortuna, caro Germanico, la tua, di essere poeta.

(Tallia)

*

Leggo solo ora la stanza n. 13. Mi viene in mente
il percorso che ogni mattina abitualmente faccio
per andare a lavoro.

Attraverso la passerella Fortini sul Mungnone.
Incontro qualche Chichibbio e in primavera qualche gru.
Arrivo a Piazza della Libertà. Passo sotto l’arco
di Porta San Gallo, saluto Rolandino da Canossa.
Lungo via Palestrina l’organo del traffico suona il Magnificat.
A pochi passi da Piazza San Marco, l’ascensore mi porta
al terzo piano. Entro nell’enigma.

Giorgio Linguaglossa

Germanico a Tallia

caro Tallia,

ti devo confessare che mi è accaduto un fatto strano.

In questi ultimi tempi si è accentuato il mio mutismo. Dinanzi a libri (anche ben scritti) di poesia e di narrativa che mi giungono, e che scorro svogliatamente con gli occhi, mi sono accorto che non so che cosa dire, mi sono accorto con sorpresa che non saprei nemmeno dire qualcosa di sensato su di essi.

Come spiegare questo fenomeno? In me è cresciuto il mutismo. Peggio. Non ho più le categorie euristiche con le quali si è soliti leggere quei libri. Le ho perdute. Ho perduto le parole. Non ho più fiducia in QUELLE parole.
Allora ho capito: il mio mutismo segnala il bisogno di un nuovo linguaggio poetico, di un nuovo linguaggio critico e di un nuovo linguaggio civico: segnala l’insorgenza di un potere destituente. Ormai ne devo prendere atto: non sono più capace di utilizzare quel linguaggio pseudo critico fatto di omissioni, adulazioni e di ipocrisie.

Il mutismo della rivolta delle sardine italiane, la loro assenza di richieste, che cosa ci vuole dire?
A mio avviso segnala il destarsi dell’esigenza di un nuovo linguaggio politico e di un nuovo senso civico che, con le categorie agambeniane tradurrei così: il bisogno di una «nuova forma di vita». Le sardine non chiedono al Cesare di terracotta una piattaforma di riforme, ma ben di più, chiedono un rivolgimento del potere costituito e dei rapporti tra il potere e gli elettori, i cittadini non elettori e gli elettori tutti. Se fare richieste al potere di governo è già un modo di riconoscerlo, il mutismo sembrerebbe dirgli: non ho nulla da chiederti perché non ti riconosco, e non te lo dico neanche, perché altrimenti entrerei in relazione con te, ti riconoscerei una qualche forma di legittimità o di rappresentatività.

Allo stesso modo, nel rogo delle automobili, nella devastazione delle strade di Parigi, i gilet gialli non vedono, come pure alcuni famosi filosofi francesi hanno scritto, semplicemente il segno dell’ impotenza e l’opera di un nichilismo puramente distruttivo, ma l’ esercizio di un potere «destituente» che rifiuta le logiche e i mezzi dell’ integrazione delle periferie perché permeati di un razzismo, per così dire, «democratico».

Quella rivolta, dunque, non solo illumina con i lampi dei suoi incendi la crisi dei modelli tradizionali di azione politica ma sarebbe anche l’avvento di un nuovo tipo di esperienza politica.

Dunque, caro Tallia, io, Germanico, qui dall’Urbe, da una domus fuori le mura, mi rivolgo a tutti i cesaricidi nostri compagni d’armi: non deponete le spade, conservatele per un giorno migliore. Che giungerà.
Prima o poi.

(Germanico)

Scrive Gigi Roggero recensendo Non esiste la rivoluzione infelice di Marcello Tarì, DeriveApprodi, 2017, pp. 238:

«Bisogna sempre diffidare di un libro di cui tutti parlano bene. Se uno dice cose che sono gradite a tutti, è perché non ha niente da dire. Bisogna soprattutto diffidare del suo autore, in particolare se dice di essere un intellettuale militante (e già che ci siete, fate che diffidare a priori della categoria di intellettuale militante). Il pensiero rivoluzionario è infatti sempre divisivo: non si parla e si scrive per piacere a tutti, si parla e si scrive per separare gli amici dai nemici, per rischiare un passaggio o un salto in avanti, per spaccare le dannose compatibilità, anche quelle interne alla propria parte. La lingua dell’uomo è una tromba di sedizione, avvertiva Hobbes. La lingua del militante annuncia la guerra, non la pace.»1

1 https://www.commonware.org/index.php/gallery/788-rivoltarsi-alla-storia

Giorgio Agamben: L’uso dei corpi, Neri Pozza, pagg. 208, euro 18
Risvolto.
Con questo libro Giorgio Agamben conclude il progetto Homo sacer che, iniziato nel 1995, ha segnato una nuova direzione nel pensiero contemporaneo. Dopo le indagini archeologiche degli otto volumi precedenti, qui si elaborano e si definiscono le idee e i concetti che hanno guidato la ricerca in un territorio inesplorato, le cui frontiere coincidono con un nuovo uso dei corpi, della tecnica, del paesaggio. Al concetto di azione, che siamo abituati da secoli a collocare al centro della politica, si sostituisce così quello di uso, che rimanda non a un soggetto, ma una forma-di-vita; ai concetti di lavoro e di produzione, si sostituisce quello di inoperosità che non significa inerzia, ma un’attività che disattiva e apre a un nuovo uso le opere dell’economia, del diritto, dell’arte e della religione; al concetto di un potere costituente, attraverso il quale, a partire dalla rivoluzione francese, siamo abituati a pensare i grandi cambiamenti politici, si sostituisce quello di una potenza destituente, che non si lascia mai riassorbire in un potere costituito. E, ogni volta, la definizione dei concetti si intreccia puntualmente all’analisi della forma di vita di alcuni personaggi chiave del pensiero contemporaneo.

Pasolini al Rosati Roma

Moravia e Pasolini seduti al caffè Rosati, Roma, anni sessanta, sembra davvero un altro mondo, gli intellettuali andavano ancora al caffè e discutevano di cose… oggi ci resta l’etere etilico dai lampioni…

Francesco Paolo Intini

Etere etilico dai lampioni 

Paesaggi calmi, la ricerca di un filo spinato.
La luce non si fece attendere e dunque

Alla logica sostituì un balzo sulle spalle.
Perché dovevano allinearsi ai pianeti.

Dopo tutto vendevano merletti per Orione
E i mercati del quartiere erano aperti.

Il ponte spira endecasillabi
Il cobra nel ristorante cinese

e dunque si può operare
il fegato in gangrena.

Il colombo si tiene stretto
al forziere di sterco.

La noia sporge lupi dalla bocca.
Si comincia da Communio (Lux aeterna)

Enzimi guastatori, scampati a Norimberga.
Un melograno secco. Tutankamon tra i rami.

Talpe ammucchiano stelle
lava nelle pupille di corvo.

Gli ossessi con un dente, i malati di spirito
Furono accettati per quanto di geco avessero nelle code.

Gli altri vendevano madri a Caronte
per un appoggio di ventosa sul remo.

Li vedemmo affrontare il colpo di pistola
perché una telecamera sostituisse gli occhi.

Le scene di un colpo alla nuca e Resurrectio
ceduta a un cent.

Pure il sangue di Pasolini si vendeva in barattoli di salsa.
Un grammo della polvere di Ostia andò all’asta.

Si diffuse la notizia di un trend in salita
Per i seminatori di scandalo.

Il tasso di resurrezione salì alle stelle.
L’aids, la mafia, la shoah annichiliti in un lampo della IX sinfonia.

Avrebbero inglobato la mandibola ad uno stalattite
e sacrificato un mammut per la funzione.

Ma non fu facile riscrivere
la distruzione di Hiroshima.

Troppe teste l’una sull’altra e l’ombra
richiedeva il ritorno in Enola

Queste cose la luce non le ha mai fatte
L’esploso di farina si mescola al pensiero

Poter girare scene fino all’Introito
tenersi buono il Dio con Dies irae

Miserere per un giorno.
Nascondergli la tecnologia dell’onnipotenza.

Il miracolo di mettere l’assenza di versi in rima.

Com’è la musicalità delle parole
che comandano coperte e stufe inesistenti?

Le bottiglie voltavano il lato offeso all’ asfalto
Il pavimento si espresse in poetichese

Il suono perfetto della ruggine.
Nervi appesi ai crateri di Bari.

Ci sarebbe stato un getto di noia da un’edicola.
Un altro da un tombino fresco di stampa.


La vita non era tranquilla da benzinaio
Un tale mi puntò la pistola alla gola.

Poi imparai a vendere giornali e a riscaldami
Con banconote sull’esofago.

Capo Giuseppe, svicolò tra i muri
Nacque una colluttazione tra chiese borboniche

Portò le ragioni dei nativi in un tombino aperto
Dentro si scorgevano serpenti di rame e navi verde

La visione del telegrafo fu fatale
Ma non come quella post mortem.

Risalire foibe, prendere tempo, commisurare le forze
All’oro. Non ci sono nemici sul confine.

Cavalli e marce e winchester nessun’ altra memoria
anidride carbonica finalmente e acqua, sterile forse isterica.

(inedito)

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Il polittico è un sistema instabile che fa di questa instabilità il suo punto di forza, Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Talìa

Giorgio Linguaglossa
il «polittico» è un «sistema instabile» in sommo grado

Sia la poesia di Alfonso Cataldi che quella di Giuseppe Talìa, con “Peter Knut” sono degli esempi, riuscitissimi. C’è da dire che la «nuova poesia» è attraversata da forze trasversali e centripete che portano la forma-poesia verso la soluzione del «polittico». Nel «polittico» queste linee di forza possono trovare una co-abitazione non forzosa, una temporanea com-posizione tra dis-equilibri divergenti e dissonanti.

Il «polittico» è un «sistema instabile», formato da una materia verbale e iconica altamente infiammabile, precarizzata dalle forze motrici storiche.

È necessario non cessare mai di problematizzare la soggettività, anche e sopratutto quando gli esiti di questa operazione critica ci conducono lontano da quelle che sembravano le nostre certezze. La soggettività, come le sfere della verità e quella del gioco, sono questioni politiche, costruzioni della polis; ed è ovvia la considerazione secondo cui la soggettività nel «polittico» sia cosa diversissima dalla soggettività della tradizione del novecento, ad esempio della Camera da letto (1984, 1988) di Bertolucci o di Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, una soggettività fondata sulla forma tradizionale della poesia dell’io panopticon. Ogni forma poetica adotta un determinato paradigma della soggettività, quello che consente una migliore omogeneizzazione,  rebus sic stanti bus, delle linee di forza stilistiche di un campo di forze storiche.

In fin dei conti, il «polittico» è un metodo di sovra impressione di segni su un pre-testo che sta dietro il testo visibile. Nella forma-polittico tende a scomparire l’io panopticon, l’io plenipotenziario che governa il logos. Il «polittico» è un sistema di segni che, per apparire, non deve essere affatto visibile. Il trucco c’è ma non deve essere visibile, in tal modo appare alla luce della visibilità come un fenomeno naturale.

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), il poeta francese indica la necessità di impiegare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo super Sapiens.

Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» del poetico, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» (Agamben) ad economia globale; è una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica poetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte, paradossalmente e in modo auto contraddittorio, impegnata, una poiesis della polis per la polis.

La globalizzazione è un processo ancipite e auto contraddittorio in cui agiscono vettori e linee di forza divergenti: non vi è soltanto sconfinamento e apertura al «globo», ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile se si prescinde dalle conflittualità delle forze estetiche: le consonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse operazioni complesse. Non esiste, in questo senso una «poesia europea» in sé, se non  come una poesia che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova unicamente nell’orbita patriottica: dalle Alpi al mare Jonio, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla forma-poesia.

Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardi. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dis-mettere per ri-fondare una nuova Ragione del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico. Oggi è urgente riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

Scrive Giacomo Marramao:
«Sono ancora convinto che il nocciolo duro della concettualizzazione del nostro presente, un presente in cui il tempo-del-mondo sembra essere interamente risucchiato nelle logiche non-euclidee dello spazio globale, rimanga, oggi più di ieri, quello della secolarizzazione. Ma è una categoria che va assunta in un senso radicalmente diverso tanto dalla versione unilineare quanto dalla versione dialettica: essa può funzionare come criterio per evidenziare la compresenza, a un tempo non-lineare e adialettica, delle analogie e differenze, delle congiunzioni e delle disgiunzioni, delle convergenze e dei contrasti, in breve della “sincronia dell’asincronico” che caratterizza la logica e la struttura della modernità-mondo. Muovendo da questo sfondo, penso si possa provare a elaborare un concetto, per usare l’espressione di Bataille, “a-teologico” del politico: su questo e altri aspetti sto scrivendo un libretto per Bollati Boringhieri, nel quale intendo dedicare una parte alla teologia politica e discutere criticamente temi di Esposito e Cacciari. La mia idea è che un’effettiva e radicale secolarizzazione del politico debba essere operata non in senso anti-teologico ma a-teologico: l’anti-teologico è un momento in tutto e per tutto interno al paradigma teologico. Almeno su questo punto, non si può dar torto ad Heidegger: il rovescio di una posizione metafisica resta una posizione metafisica. Ma qui si pone un grande punto interrogativo rispetto alla stessa operazione benjaminiana, alla quale mi sento molto legato per tanti aspetti. Dovremmo forse cominciarea d ammettere che quello benjaminiano è rimasto necessariamente un programma abbozzato, che rischia di sfociare in un pericoloso cortocircuito fra due dimensioni concettualmente e simbolicamente differenti, se non addirittura divergenti: il nesso ‘energetico’ tra il politico e il messianico, ela relazione ‘costitutiva’ tra il politico e il teologico. Si potrebbe a questo punto aggiungere, per inciso, che forse proprio questa incompiutezza carica di suggestioni può gettar luce sul fatto che la resa di conti filosofica con Heidegger sia rimasta in sospeso: malgrado l’appunto in cui si afferma lanecessità di “distruggere” la filosofia heideggeriana, Benjamin non ci dà una chiave per farlo. Per questo, pur facendo tesoro dei suoi straordinari spunti, sui quali non cessiamo di ritornare, si tratta ora di andare oltre. La vera posta in gioco del dualismo occidentale di immanenza e trascendenza consiste in una semplice e drastica formula: secolarizzare la stessa categoria di secolarizzazione».1
1 https://www.academia.edu/9199181/La_differenza_italiana._Filosofi_e_nellItalia_di_oggi_XV_2014_II_?email_work_card=thumbnail

Francesco Paolo Intini

19 dicembre 2019 alle 9:01

A-tomismo

L’intercapedine non si fece attendere.

Un io senza io sventolò lenzuola
e disse che il balcone ci sarebbe stato.

Passavano di sotto,
avrebbe preferito lisciarsi le unghie

Ma ognuno aveva un catena al collo
Le falangi di marmo sul volante

Il flusso in cui affoga il rosso.
L’auto portavoce del verde.

Un rosicchiare e passare indisturbati
per poi organizzare ossa e carne.

Fu salvo da ogni colpa, libero di andarsene
Sbattendo lunghe pinne contro i muri

L’equazione sovrasta le antenne:
tornano nel conto i fili dei pianeti.

Colpi di cemento completano i denti.
Ma poi sorridono guardando lo specchietto.

Se una banca soffoca
un ragno succhia il cuore.

Troppe mischie intorno agli uffici.

Se cola sangue da una crepa
l’ascensore chiede di allargare la sua vena.

Un gruzzolo di numeri guasti
Fa bene all’esattezza dell’oracolo.

Nelle banche depositano i semi
Nascono fichi dalle casseforti

Passano il tunnel sotto il muro
Linea di potenziale in cui scorre il calcare

Poi d’improvviso il vuoto riempie il centro città
Un mucchio di protoni confusi sui segni.

Ruotano gambe scopando orme.
Di fronte la statua di Albanese, martire 1799.

I simboli s’affaticano.

Ergono muri intorno Stalingrado.
Chi le gira attorno sa che non resisterà.

Alesia e Vercingetorige
Bufere di voci, scatenamenti d’incubi.

Il vaticinio scorre il futuro con cavalli di ghiaccio
Si rumina senza abomaso si violenta senza uomo.

Puntò Serse le sue meduse. Toccare di tentacoli
E freddare la gazza nel nido.

In fondo anche Cesare non è mai esistito
Soltanto cellule su una scacchiera

Lewis di polmone e calcolo combinatorio.
Folte schiere nelle trincee senza inizio fine.

….

Alla previsione mancò l’ estate.
Doveva essere vento e mandorlo caldo

Successero Giga con le piume di chioccia
e uova infeconde.

Mezzogiorno mise il sole
in una buca di golf.

Palline in orario
si rincorrevano su un tavolo verde.

Nacquero vecchi col secolo in polmone.

Elettroni rifiutarono la carica
nuclei sostituiti da alveari morti.

La dipendenza dal carbonio
sconfitta per sempre.

Il tritolo aveva scelto dicembre
per competere con il DNA.

Il cupo chiuso di una borsa

Polvere brucherà l’ erba.
Mischia di aggettivi al ferro.

Percentuali esatte navigarono l’Europa.
E dunque nessun testimone oserà cantare.

L’enfasi trasformata in orbitale.
Ogni nascita di Stukas un canto gregoriano.

I vichinghi sbarcarono nel 2020
preceduti da un uragano di nero.

Percorreranno il Volga, cercando ere.
Caricavano bottini e violentavano la Russia.

Bocche e vaticini da prendere agli uncini.
Arrotolarono l’asfalto e ne sparsero il seme.

La vista impedita dai globi.
Nel cavo d’occhi la visione.

D’ora in poi nittitanti senza palpebre
E martellarsi di chiodi nell’ acciaio.

Etica temperata da Efialte.
Finestre obbedienti a un algoritmo.

Giuseppe Talìa
19 dicembre 2019 alle 13:34

Trovo gli aforismi-polittico di Francesco Paolo Intini interessantissimi: ossimori, sinestesie, non-sense, metafore, iperbole… Una vasta e ricca gamma di figure e di bersagli centrati in pieno. Un ottimo esempio di poesia apofantica.

La poesia di Francesca Dono mi ha fatto pensare alla sceneggiata napoletana, Isso, issa e ‘o malamente, dove il personaggio del ‘o malamente è dio che nella sua onniscienza non riesce a soccorrere Lilith, la donna che divide le crepe dal deserto, dai molluschi, dall’uccello strappato che sembra immobile rispetto al movimento della montagna in una sinestesia psicologica che pervade l’intero testo dove gli stimoli sensoriali non sono distinti ma concomitanti: che dio non sappia di bings maps?
Ci sarebbe tanto altro da dire su questo testo liturgico.
Alfonso Cataldi, invece, ci conduce da una aspettativa (intenzioni pre-matrimoniali) ad una realtà molto diversa da quella che ci si aspettava: il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozzago (la poiana), passando tra parole in decantazione, equilibri “sulla trave” e “calce che bolle.” Un pezzo di vita un resoconto tra un ideale e un quotidiano.
Tosi, sceglie, ironicamente “parole d’amore” per “alzare insieme la tapparella”, in uno scambio continuo, un mashup di domande che tolto il punto interrogativo potrebbero benissimo essere delle semplici constatazioni.
In definitiva, tra i quattro, Dono e Cataldi parlano di sé stessi, Mayor e Talìa parlano di altro (?). Da notare, nella poesia a quattro mani, “gli autoreggenti di pizzo…” Chissà quale delle quattro mani, o meglio, “Chi delle quattro mani?”

Carlo Livia

Carlo Livia Immagine 12
Carlo Livia Immagine 11Carlo Livia Immagine 919 dicembre 2019 alle 11:10

Vorrei esprimere la mia sincera ammirazione alla ignita tensione decostruttiva e alla violenza centrifuga e allucinatoria che percorre e organizza, in un codice sommerso, inafferabile, i testi di Cataldi. Ma , se mi è permesso, forse sarebbe necessario un elemento organizzativo, equilibrante, che funga da centro di attrazione e coesione di sintagmi, icone oniriche e frammenti narrativi, che personalmente vedo come un’energia emozionale, aggregante, effusiva di una sorta di logos metarealistico e visionario. In Cataldi questo filo conduttore, forse, si interrompe troppo frequentemente.

Tempo di raccolta

I sessi scuri pregano, indifferenti alla tempesta di bambole.

La gentilezza delle chitarre forma un toro rosa, che illumina la malattia sopra la cattedrale.

Signore, tu hai divorato con noi l’agnello, ora immobile contempli gli universi, i millenni morti.

La sorgente impazzita esporta profeti dilaniati, il nero delle loro anime scende e riempie l’offerta, l’attesa. Nella pausa piena di morti.

Il tuono soffice si schianta nell’alcova, sugli spigoli biondi della dea, in fondo al peccato.

L’amplesso precipita verso l’alto, nell’aria densa di pianoforti a coda.

Io sono l’unico portale senza uscita, la stanza verde mi sogna nell’Eden appena risorto. Un giocattolo gettato via dalla principessa.

Hai troppi desideri, troppi tentacoli – dice il dio vagante nelle praterie – hai la malattia immortale, la stella fissa, l’incendio nel duomo.

Entro nella stanza retrostante. Un intero secolo in rovina. C’è solo la donna- serpente, che si trucca davanti allo specchio. Mi ordina di fermare i risorti.

Cerco il pensiero per spegnere l’incendio. E’ un sogno di lampi immobili, in fila per il bacio di geranio. Della sovrana infedele, che muore sorretta dai suoi celibi.

Il vagone viaggia verso l’Eterno. Ma è fermo in una giungla di metallo. Belve dementi bevono la lacrima immensa. Che è stata Dio.

La sposa-bambina mostra l’ultimo istante. Un macigno di delizie, spesso viola. Lo usano i muri pazzi, per diventare cieli.

Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2019 alle 15:47

Mi sembra che le superfetazioni poetiche di Alfonso Cataldi, Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Paola Renzetti e altri di questa pagina dell’Ombra vadano nella direzione di uno smontaggio dis-articolazione della struttura predicativa e del linguaggio sintattico unilineare. Finalmente, la poesia della nuova ontologia estetica è diventata adulta, si è lasciata alle spalle la struttura predicativa classica: soggetto-predicato-complemento oggetto, per sostituirla con una struttura non-predicativa. È stata sufficiente questa presa di possesso del cardine della nuova poetica per liberare le energie poetiche come un vaso di Pandora.

Scrive Emanuele Severino:
«l’aporia sorge perché dopo aver detto che il significato in un contesto diverso non è più lo stesso, si ripropone a proposito di questo significato la situazione di isolamento che gli conveniva con l’insorgere dell’aporia».

La tautologia è il segreto del linguaggio: dire l’identico in modi sempre diversi. È da qui che ha origine il linguaggio. La tautologia crea la differenza e quest’ultima ripropone la tautologia. La struttura originaria parla il linguaggio della tautologia.

Non posso che complimentarmi con tutti i protagonisti di questa pagina, sono convinto che stiamo scrivendo tutti insieme una nuova pagina della poesia italiana ed europea.

«Entro nella stanza retrostante. Un intero secolo in rovina. C’è solo la donna- serpente, che si trucca davanti allo specchio. Mi ordina di fermare i risorti.»

Questo distico di Carlo Livia, da solo è sufficiente per cancellare migliaia di pagine di pseudo poesia che circola in Italia. È un colpo di scopa che spazza via tutta la pseudo poesia di questi ultimi decenni.

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l’Antipoetismo anipoetico, poesia rigorosamente apofantica e ipofanica, Poesie di Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Giuseppe Talìa, Alfonso Cataldi, Commenti e Dibattito

Foto Il divano bordò

l’Antipoetismo anipoetico, una poesia rigorosamente apofantica e ipofanica

Ripropongo qui parte di un post di qualche tempo fa, copio e incollo da FB, “La scialuppa di Pegaso”, questa poesia di Lucio Mayoor Tosi che trovo esilarante. Con Lucio, siamo davanti ad un nuovo genere del poetico:
l’Antipoetismo anipoetico, una poesia rigorosamente apofantica e ipofanica che mi ricorda qualcosa di Ionesco e qualcosa di Beckett come tradotti e trasmigrati in un’altra lingua.

(Giorgio Linguaglossa)

Lucio Mayoor Tosi

Frasi d’amore

Chi per una partita a due?
Chi per scambiarci il cane?
Chi per due tazze di yogurt con banana?
Chi per mille lire?
Chi per l’andata e due ritorni?
Chi per stonare cantando insieme?
Chi per misurarci la pressione?
Chi per alzare insieme le tapparelle?
Chi per stare fuori dalla Disco?
Chi per non andare in Indonesia?
Chi per un week-end sul lago Washoe in Nevada?
Chi per un solo gelato alla menta?
Chi per due donne che si baciano?
Chi per stare all’ombra di una torpediniera?
Dai, ditemi!
Chi per contare le baionette?
Chi per “non avere paura”?
Chi per metterci le bombe?
Chi per (non) morire abbracciati?

Lucio Mayoor Tosi
6 settembre 2917 alle 11.05

Il punto di domanda è piuttosto raro in poesia. In poesia le domande sono sempre assertive, e non vi è dubbio che si preferisca la grazia delle risposte. Ma è altrettanto vero che gran parte del mistero – e il fascino – di tante poesie sta nell’apertura che si crea con la domanda; è in quella inguaribile sospensione che si affaccia il vuoto, quindi l’attesa: per una risposta che il più delle volte è già implicita nella domanda. Questo strano dialogo, tra futuro e passato, non “cade” ma solleva il vuoto rendendo visibile la sua polverosa sostanza. Nel nulla delle pause non vi è spazio per l’angoscia, la quale deriva nel passato, vale a dire da dove giungono le risposte. Così è nella maggioranza dei casi. Pochi al mondo sanno dare risposte mettendoci il punto di domanda.

Giorgio Linguaglossa
6 settembre 2917 alle 11.42

La tua, caro Lucio, è una poesia di enunciati. La peculiarità della tua poesia è che è difficoltoso distinguere gli enunciati assertivi da quelli interrogativi. Di frequente nella tua poesia, l’assertorio si traveste da interrogatorio, è una forma interrogativa mascherata; la risposta, di frequente, è una domanda capovolta. E viceversa. Questa è una caratteristica peculiarissima della tua scrittura poetica, che pochissimi sono in grado di seguire e apprezzare, in specie chi continua a pensare e a fare una poesia unilineare. La tua poesia ricomincia sempre daccapo, gli enunciati sono aforismi con il collo spezzato, contengono una differenziazione problematologica (H. Meyer).
Gli enunciati aforistici lasciano intravvedere, tra le commessure della sintassi, il vuoto e l’angoscia che trapela e filtra tra le parole compattate e formattate…

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi
1 maggio 2018 alle 17:46

Ringrazio Giorgio per avere dato attenzione a questa poesiola, che vorrebbe essere gioco dolce-amaro, offrendo spunti per 140 caratteri tweet.
In effetti la piena autonomia e la completezza dei singoli versi è per me il modo migliore per frammentare. Migliore rispetto alla semplice interruzione per punti (tutte cose che ho imparato leggendo Tranströmer). Tra verso e verso il tempo fa la sua parte: si tratta di pause reali, interruzioni consapevolmente attuate già nell’atto del concepimento, che hanno finito col diventare tecnica. Come è divenuta tecnica l’adozione di certe “pezze”, ad esempio quando scrivo “titoli” – sia a se stanti che inseriti nel discorso – ma potremmo anche usare un inglesismo e parlare di insert coint (to Continue), ove l’inserimento può essere di un qualsiasi imprevisto. Ma detto così forse può sembrare complicato. Comunque il carattere interrogativo e assertivo potrebbe derivare proprio dal senso completo che si tenta di dare a ogni verso. Non sono il solo, qui, a seguire questa procedura, forse ci sono soltanto differenze di misura e frequenza.

Alfonso Cataldi
1 maggio 2018 alle 18:21

Come dirimere la direzione delle venature
(scritta a quattro mani con Giorgio Linguaglossa)

L’astronauta rovistava fra gli avanzi del pranzo
del giorno prima quando fu sorpreso da certi marziani verdi i quali

erano di stomaco forte e mangiavano delle bistecche di montone crudo
e io ne fui sorpreso perché invece della resina di pino

bevevano cognac con della Cola Cola e Ginger Fizz
e fumavano del tabacco cubano… non saprei dire altro però,

Signor commissario…
no, non erano dell’era glaciale ma di prima, direi del cenozoico, o giù di lì…

– con quella gamba messa male
erano atterrati col paracadute sulla terrazza della Tower Trump at Chelsea, New York

mentre Olga dichiarava il suo amore eterno per Billy the Bud…
tu mi chiedi che fine ha fatto Billy the Bud?, ma che importanza vuoi che abbia!

la stanza era di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
consolidarsi, senza preavviso…

nel monolite apparente del tempo che rimane in sospeso…
La signora Madeleine vende la sua ombra alla casa di riposo

e fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
abbandonate a causa della guerra.

Una giovane insegnante sbagliò ad imboccare il viale dietro il piccolo cancello
e si trovò di colpo su Titano a meno settanta gradi centigradi con il colbacco in testa

e gli autoreggenti di pizzo…
ma forse questi ricordi sono un po’ confusi però spiegano bene

la teoria evolutiva dell’azzardo cosmico quando un bel giorno iniziò il Big Bang… Continua a leggere

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Poesie per il 93mo anno di Alfredo de Palchi (1926), Poesie di Anna Ventura, Gino Rago, Giuseppe Talia, Francesca Dono, Antonella Zagaroli, Marina Petrillo, Riflessioni di Andrea Brocchieri, Giorgio Linguaglossa

 

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Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Giorgio Linguaglossa

Alfredo de Palchi è un uomo che ha abitato e continua ad abitare un solo «luogo»,
la Legnago e Verona della sua infanzia

e della sua precoce adolescenza andata perduta. L’Italia è per lui la Legnago di quando era bambino, piccola cittadina di provincia infatuata di fascismo e, in seguito, anche di ferocissimi atti di assassinio e di vandalismo. Quella è stata per Alfredo de Palchi una esperienza traumatica che lo ha come inchiodato per tutta la vita a seguire. Un poeta è nient’altro che il suo «luogo», e il suo linguaggio sarà nient’altro che l’eterno ritorno in quel «luogo», un maledetto eterno ritorno alle proprie origini.

Alfredo de Palchi è il poeta di questo «luogo» maledetto che la storia poi si è incaricata di interdire e maledire, e con quello anche il giovanissimo uomo Alfredo che ha abitato quel «luogo». La poesia è sempre e soltanto emanazione di un «luogo» soltanto, che diventa «luogo» metafisico e acquisisce una «patria metafisica delle parole». Tutto il resto è letteratura o bellettristica letteraria. Basta leggere le poesie di de Palchi per rendersene conto:

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto

Più in generale, all’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza.
Abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di luoghi, di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è  pensare e pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o travalichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, o aver vissuto in luoghi di guerra sono diverse istanze a cui ciascuno dovrà rispondere mediante il proprio esistere. L’uomo non abita soltanto gli spazi e i luoghi che la ventura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole che nuotano in quei luoghi.

È infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano.
Quando poniamo la nostra esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, lì incontriamo le cose in un altro modo, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, come voci che prendono ad abitare con me la nostra esistenza.

Il discorso poetico depalchiano ruoterà in tutti questi anni, a partire dagli anni cinquanta quando scrive, giovanissimo, la Buia danza di scorpione (scritta dal 1945 al 1951 durante la sua detenzione in carcere), come una trottola intorno al luogo di Legnago e di Verona che diventerà l’epicentro cataclismatico della guerra partigiana e della personale esperienza significativa del giovanissimo de Palchi.

Un’altra caratteristica della poesia depalchiana è che essa mette in scena l’irriducibilità dell’esistenza, il qui e ora, l’indicibile unicità dell’esistenza, i suoi umori, le sue ubbie, le idiosincrasie, le passioni, gli odi profondissimi per l’ingiustizia subita, l’odio per l’Italia del suo tempo che lo aveva condannato all’auto esilio, l’odio per la falsa coscienza, il rancore per la falsa narrazione della sua biografia, l’avversione verso ogni discorso che non tornasse al punto che gli stava più a cuore: l’irriducibilità dell’esistenza umana sub specie della irriducibilità di ogni esistenza. È il primo albeggiare della tematica squisitamente esistenzialistica nella poesia italiana, che verrà poi interrotta dalla ideologizzazione del privato e dalla poesia privatistica che troverà divulgazione dagli anni settanta del novecento.

Essere abitatori del «luogo» significa essere abitatori della civiltà, concepire l’esistenza a partire dall’idea che apre l’orizzonte in cui tale civiltà consiste. Il «luogo» deve esser concepito come spazio spirituale e simbolico in cui l’esistenza si offre in un certo modo e le parole si danno, allora si può pensare che tutti i fatti che solitamente si menzionano come sue proprie cifre caratterizzanti non siano altro che le testimonianze della dimensione in cui tale spazio trova il suo ordine. Acquista improvviso interesse quell’assonanza che esiste tra la parola “civiltà” e la parola “città”, tra civitas e civilista, tra civitas e storia; così come la città è il modo in cui l’uomo impara ad abitare un certo luogo fisico, costruendovi gli edifici e le vie della propria esistenza a partire dalle peculiarità intrinseche di esso, così pure la civiltà è, in origine, quell’archetipo ideale nel quale edifichiamo la nostra esistenza e troviamo, rintracciamo le nostre parole, le parole che cercano un senso dove abitare.

Andrea Brocchieri

«Entschlossenheit

Il fatto è che in Sein und Zeit non c’è soltanto questo linguaggio della possibilità ma esso è in un certo senso superficiale e viene strutturalmente subordinato ad un altro linguaggio, cioè ad altre parole che hanno il compito di far emergere qualcosa di differente rispetto alle modalità dell’ontologia classica. Se ci si limita a lavorare col vocabolario filosofico tradizionale per individuare le occorrenze del discorso sulla possibilità in Sein und Zeit si rischia di non riconoscere nemmeno i luoghi testuali di tale discorso. D’altra parte Heidegger non ci vuole sviare, e basta seguire l’indagine di Sein und Zeit per trovare questi luoghi e quelle altre parole. Solo che – come sempre con Heidegger – bisogna saper leggere le parole diversamente da come siamo abituati.Ci chiediamo dunque: grazie a che cosa l’esserCi è un “poter essere” che rende possibili gli enti come possibilità (d’azione)? – Rispondiamo in una parola: grazie alla
Entschlossenheit.

Questa parola non è affatto semplice, un po’ come Ereignis, di cui in un certo senso tiene il posto, qui in Sein und Zeit.
La parola Entschlossenheit non indica semplicemente una condizione dell’esserCi, ma una dinamica di chiamata-risposta (Ruf-Antwort) che costituisce l’esserCi come una determinata (cioè finita, storica) apertura del “mondo”. Ent-schlossenheit indica che la Erschlossenheit (schiusura) del mondo non avviene “per natura” (φύσει) ma nemmeno per un libero arbitrio (νόµῳ) ma nel gioco tra un “non” (Nicht: un’assenza che reclama risposta) e l’assunzione della responsabilità di questa risposta. L’essere vivente che è capace di ascoltare questo “non” e che se ne prende cura, si assume la responsabilità di dar luogo all’essere al posto di quel nulla. “Al posto di” non significa: mettere l’ente al posto del nulla, assumendosi un compito creativo

– (Sartre: se c’è l’uomo non c’è Dio) –

ma significa: assumersi il compito di fare le veci di quel nulla come fondamento dell’ente; infatti quel“non”, essendo nullo, si presenta come Ab-grund, come un fondamento che non c’è. L’esserCi si chiama così perché esso c’è nel dar luogo all’essere dell’ente al posto del fondamento assente. Il modo in cui l’esserCi c’è non è però un autonomo sussistere ma è un e-sistere, perché c’è solo in quanto è spinto ad esserci come fondamento dall’assenza del fondamento: visto che quest’ultimo non c’è son costretto ad esserlo io.»

https://www.academia.edu/5304733/Heidegger_la_possibilit%C3%A0_nel_pensiero_dellEreignis

Commento

La poesia di Sessioni con l’analista (1967) e di Paradigm (2013) di Alfredo de Palchi ci mette davanti ad una difficoltà: l’irriconoscibilità delle sue parole. È inutile girarci intorno, il problema è che una poesia così diversa dai linguaggi poetici che sono stati in vigore in questi ultimi decenni fa problema, obbliga alla revulsione, al respingimento e alla rimozione. Allora, il problema diventa un altro. Se c’è un problema di irriconoscibilità di ALTRI linguaggi poetici, se poeti (tra l’altro così diversi l’uno dall’altro) come Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anna Ventura, Mario Gabriele vengono tacitati nel dimenticatoio o vengono deiettati dall’arco costituzionale della poesia italiana, ciò significa che c’è un duplice problema di memoria e di arco costituzionale della poesia italiana, che c’è un atto di rimozione di linguaggi non omogenei alla forma-poesia delle istituzioni letterarie.

In realtà, la poesia, quella «nuova», è sempre diversa da quella egemone o maggioritaria, tutti i poeti che ho citato sopra sono poeti dissimili l’uno dall’altro per lessico, stile e genere poetico prescelto. La «poesia nuova» indica sempre una diversa «possibilità», è bene prenderne atto. Se andassimo a esaminare il lessico impiegato da questi poeti ci renderemmo conto che ciascuno di loro impiega un proprio «determinatissimo» lessico, che implica una «chiusura» e una nuova «apertura», che implica una «cesura» e una «cucitura», uno «stop» e un nuovo «Inizio».

(Giorgio Linguaglossa)

Anna Ventura di lato

Poesie per il 93mo anno di Alfredo de Palchi

Anna Ventura

Storia di un grande amore

Zio Federico era alto un metro e cinquanta, era zoppo e ubriacone.
Era anche strapieno di letture scombinate, di studi confusi e sapeva alcuni canti danteschi a memoria.
La moglie Elvira, sorella di mio padre, era alta e sottile come un sedano, aveva un ricciolo fisso sulla fronte e un gigantesco cane lupo fedelissimo con il quale fu ritratta in una foto che piaceva molto a Federico.
La sera Zia Elvira scendeva nei suburbi a richiamare Federico e, con enorme fatica riusciva a riportarselo a casa.
Lui era convinto di essere un eroe perché durante la guerra spesso aveva scritto invettive ed esortazioni ad osare.
Accattava libri dovunque per cui aveva una biblioteca enorme, tanto che il suo peso fece crollare il pavimento. In quell’epico momento io ero ospite di Zia Elvira e riuscii a salvarmi solo perché la sera prima ero andata a dormire in un’ altra stanza.
Quando Zia Elvira morì il marito non sopravvisse al dolore e dopo un po’ la seguì nella tomba.
Il loro fu un grande amore.

Gino Rago 3

Gino Rago

Gino Rago

Un polittico per Alfredo de Palchi

“Fat Man” su Nagasaki…

Stoccolma, luglio 2019,
dalla cronaca del quotidiano di Svezia:

“Oggi è morto anche il suo cane.
Prima se ne andarono il figlio e la moglie.

La casa. Un museo di cianfrusaglie,
Di rimanenze di ciò che è stato.

Il piastrellista-di-Uppsala va in pensione
Ai margini dell’esistenza.”
[…]
Il Signor A. d. P.* si è ritirato
Ai confini del vivere,

Dichiarata inappartenenza
Alla società, al mondo, alla vita.

«Uomo della possibilità»
Costretto in un mondo di congiuntivi,

di affermazioni precedute da un “forse”
Seguite da un punto interrogativo,

A. d. P.-piastrellista-poeta
Mette il vento nelle vele

Per un viaggio a ritroso
Alla ricerca di come giungere a sé stesso.

In quali luoghi è andato smarrito
Ciò che dava realtà e senso alla sua vita?

Il Signor A. d. P. accetta soltanto lavori in nero.
Nella casa dell’amico da restaurare

Entrano personaggi veri o sognati.
Il piastrellista di Uppsala-Verona li conosce tutti.

«Storia di un uomo della possibilità….»
Storia di un poeta. Di una vita nella estraneazione

Nella rivolta degli oggetti smarriti.
[…]
La sua vita disciolta nei versi…
Ci ha detto:« Con la poesia uccidete la morte.

Fatelo per la libertà di tutti.

Dello sfruttato e dello sfruttatore».
Alfredo ha attraversato un Secolo di orrori,

Il dolore di Vallejo è stato il suo dolore
Nel petto. Nel bavero. Nel pane. Nel bicchiere.

Nei versi ha dato i baci che non poteva dare,
Soltanto la morte morirà

E la formica porterà briciole
Alla bestia incatenata,

Alla sua bruta delicatezza:
«Uccidiamo la morte con i versi, solo la morte morirà».
[…]
Da una e-mail di Alfredo de Palchi
Al Direttore di Il Mangiaparole:

“Caro signor poeta,

Crede ancora al mondo dei miti?
Dal 6 agosto del 1945

Dopo “Little Boy” su Hiroshima
I vincitori e i vinti di Troia

Sono a New York con le loro donne.
Ecuba in cucina prepara marmellate,

Cassandra legge i giornali ogni mattina,
Priamo gioca in borsa.

Paride con i dreadlock
Porta il cane al Central Park.

Presso i Greci si diffonde l’Aids,
Un guerriero travestito da Clitemnestra

sgozza il Re nella vasca da bagno.
Ettore lo incontro sui 10 chilometri della Fifth Avenue

Mentre Andromaca fa acquisti da mille e una notte.
Astianatte gioca col pc. E’ sempre solo a casa.

I miti sono l’inganno d’Occidente,
“Fat Man” su Nagasaki ha cambiato il mondo…

Ma per Lei forse i miti sono l’aria.
Chi vivrebbe senz’aria…”

*A. d. P. è Alfredo de Palchi

Giuseppe Talia Roma 4 marzo 2017 Roma

Giuseppe Talìa

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Per il 93mo compleanno di Alfredo de Palchi (13 dicembre 1926), Eventi terminali, Mimesis Hebenon, Milano, 2019 pp. 90 € 10 a cura di Giuseppe Talìa

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Alfredo de Palchi

Giuseppe Talìa

Alfredo de Palchi e l’Invettiva del secondo Novecento

È sempre esistita, in Italia una grande stagione dell’Invettiva ininterrottamente divisa in due strade maestre e parallele, la prima è quella che fa capo alla linea di denuncia civile, profetica e sferzante che trova origine in Orazio, Giovenale e Dante, la seconda quella goliardica, iperbolica  e comico-realistica, alla maniera di un Cecco Angiolieri, per esempio.

Allo stesso modo, nella seconda metà del Novecento le due strade parallele dell’invettiva sono state percorse indistintamente da autori fortemente diversi per caratura e visione della letteratura, come appunto lo sono Pasolini e Sanguineti. In entrambi i casi le due vie maestre spesso incrociano ai crocicchi diverse forme di vituperium, come in Montale (più nessuno è incolpevole), fino ad arrivare a quello che recentemente è stato considerato come l’ossimoro dell’invettiva stessa, ossia la “rencontre lésionnelle”, dove l’oggetto diretto della invettiva incontra il pubblico che legge, il quale viene “colpito” tramite l’incontro choc nella lettura. Scrive a proposito Marie-Hélène Larochelle: «La violence verbale est en effet postulée comme une rencontre, lésionnelle s’entend, dans la mesure où l’échange comporte en soi un paradoxe puisqu’il repose à la fois sur le désir d’établir une communication et sur son refus»1

Nel quadro appena esposto, la poesia di Alfredo de Palchi si situa in una zona contigua e adiacente rispetto alle due vie maestre sopra riportate, seppure le forme retorico-poetiche che l’autore predilige siano da riportare alla linea profetica e sferzante in cui l’io poetico e l’io narrante trovano una definitiva collocazione a partire dal primo libro di poesia di de Palchi, la Buia Danza di Scorpione, pubblicato postumo rispetto al più conosciuto Sessioni con l’Analista (opera d’esordio del 1967), una esperienza psicoanalitica e sociologica che media e approfondisce il risarcimento narcisistico dell’io, dopo l’esperienza traumatica della prigione e dell’accusa di omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, accusa che venne poi sciolta e che permise a de Palchi di riconquistare la libertà:

Solo in epoche malandrine
Leggi malandrine leggi

[…]

libertà dura uomo duro mattoni duri

[…]2

È da quella esperienza traumatica che prenderà corpo la poesia di de Palchi, non solo come riscatto per una ingiustizia subita, per la reclusione ingiusta di un giovane condannato a pagare per una colpa non commessa:

Il pezzo di pane mi nutre
In una putredine di patria
E traffico di truffatori
-il pane
sa di petrolio
lo mastico con bucce di limone
raccolte nelle immondizie3

giorgio linguaglossa alfredo de palchi 2011

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, Roma, 2011

È lo stesso autore in una lettera inviata Giorgio Linguaglossa il 15 dicembre 2014, e pubblicata sulla Rivista Internazionale L’Ombra delle Parole a definire il tracciato entro cui è nata e ha preso corpo la sua poesia anticipatrice rispetto alle poetiche che si svilupparono in Italia alla fine degli anni cinquanta del Novecento, in particolare  con l’avvento dei Novissimi:

«Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro.»4

Questo mondo non è altro che un abuso, scriveva François Villon. E de Palchi sceglie questo epigramma come calco per sugellare l’invettiva morale che sempre di più caratterizzerà l’opera poetica di de Palchi.

Nei successivi libri i nomi e i cognomi degli attori della storia travagliata verranno resi noti con sempre più corrosiva denuncia:

[…]

mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

Non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci

[…] 5

Scrive a proposito l’autore in una nota a “Le déluge” contenuta in Paradigm:

La voce di questa breve silloge, dà concretezza all’aldilà (se l’aldilà, con il suo inferno, esiste) e senza timori prorompe in accuse definitive verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli uomini grondanti malvagità, e le vicende grandi e piccole che hanno fatto la mia storia.

Dopo oltre sessant’anni di angherie e di ingiustizie politico-legali e politico letterarie, il rigurgito mi è venuto spontaneo […] 6

Giorgio Linguaglossa, nella monografia critica, La Poesia di Alfredo de Palchi (l’anello mancante del secondo Novecento) Progetto Cultura, Roma, 2017, scrive:

«il suo linguaggio è materico, nervoso, muscolare, manifesta una spiccata revulsione per i linguaggi edulcorati del post-ermetismo. Il suo lessicalismo è violentato e scheggiato, vive in un universo simbolico e iconico che proviene da quella antica fissazione dell’io […] L’Io nella poesia di de Palchi svolge un ruolo assolutamente centrale, ma è anche scentrato, espleta una funzione di riparo psicologico, va in contro tendenza rispetto alla visione che dell’io ha lo sperimentalismo italiano». 7

alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Queste affermazioni del critico aprono spiragli diversi rispetto allo “sperimentalismo” di Pasolini, imperniato sull’impegno sociale e politico, rispetto alla vicende depalchiana che negli anni ha sempre tenuto una propria e personale  visione, immutata nel tempo. In de Palchi non c’è traccia, per esempio del poeta drop out, non vi è nessuna recriminazione riguardo ad una sentita lateralizzazione, quanto piuttosto una diretta via di continuazione di un discorso poetico originario e originale che nel trascorrere del tempo non risparmia mai l’invettiva ad personam, non dimidia il filone rivendicativo, ma rivolge lo sguardo verso l’«antropoide», una creatura mitica che nell’aspetto presenta i caratteri somatici dell’uomo, ma che palesa istinti primitivi, crudeli, aggressivi, distruttivi.

Il libro  Nihil, edito da Stampa 2016, a cura di Maurizio Cucchi, per esempio,  rappresenta uno spartiacque. La prima sezione, dal titolo “Ombre” 1998, inaugura l’innesto di prosa e poesia, dove la prosa è propedeutica alla riedizione di poesie degli anni precedenti:

[…]

poesie che informano sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza ; nient’altro, oppure  – perché sono ancora quale mi descrivo ma senza più timidezza – un accenno sparso dove capita per portarvi sulla insincerità dei compagni che tradirono la mia e la loro fanciullezza e adolescenza […] 8

In questa prima sezione siamo nell’ambito della risoluzione e lettura in chiave esplicativa di quello che Giorgio Linguaglossa indica come individualità biologica e singolarità esperienziale.

Nella seconda sezione del libro Nihil, dal titolo “Ombre 2008”, si ricondensa la forma poesia, e riappaiono alcuni temi centrali del precedente libro Foemina Tellus (2005-2009), quest’ultimo tutto incentrato sulla tematica erotica, in cui non mancano gli stilemi propri di un Marziale o di un Catullo: “Ti scrivo con mente pornografica/e corpo pornografico”.9

Dimentichi
che potrei espandere il vortice
dentro l’oceano del tuo corpo smaccato
mosso
tracotante di sbalzi improvvisi
delle verdi vallate che scrosciano
rotolando cupe di acqua
cupa incessante
che ti schiuma la concimaia sterile. 10

Significativa, a pagina 42 del libro Nihil, l’invettiva contro la “folla indegna del bel tempo” in una serie di scatti del parco di Union Square dove il poeta sdegna l’inciviltà dei cittadini che occupano il parco mentre ringrazia “con un cenno di mano” le statue di Lincoln, a nord Washington, a sud, Lafayette, a est, posizionate ai tre angoli del parco, lui, Alfredo, centrale rispetto ai tre grandi Padri degli Stati Uniti d’America, ognuno con un compito ben preciso nel teatro di un quotidiano pomeriggio autunnale: impedire l’accesso nel parco alla marmaglia. A ovest, invece, la statua della Madonna con il Bambino in braccio pare comunichi al poeta una predizione, “preparati per la scalata”; e il poeta a sua volta risponde, “per annunciare il mio discorso dalla montagna.” Ecco, in questo testo è contenuta magistralmente l’intera poetica di de Palchi, la sua totale refrattarietà ad un mondo che l’ha offeso e che continua ancora ad offenderlo; la postura dell’io di de Palchi occupa uno spazio centrale rispetto alla visione del simbolismo, del classicismo lirico moderno, come pure dell’antilirismo di Sanguineti, che come abbiamo visto lo anticipa con il pometto Un ricordo del 1945,  o rispetto alle maschere di Raboni; ecco, Alfredo de Palchi si distingue non solo narratologicamente rispetto al quadro letterario di fine anni cinquanta, in quanto non ha subito i modelli precedenti quali, l’ermetismo, il crepuscolarismo, l’elegia  tout court, bensì situandosi fin dall’esordio in una zona franca dove l’esperienza empirica dell’autore ha un valore di portata generale.

alfredo de palchi legge

alfredo de palchi

Vale la pena riportare interamente il testo poetico di pagina 42 del libro Nihil perché il tema della morte che attraversa l’intera silloge frammentata da ricordi,  dove versi e prosa si alternano in modo vorticoso, ci riporta un de Palchi tenacemente resistente anche con colei la quale nulla può nulla:

Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
Di foglie che spiccano voli
Da raffiche di vento sotto alberi
Che passano accanto tra panche deserte…
In simili giorni abito il parco di Union Square dove

La folla indegna del bel tempo
Mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
Cartocci plastica giornali sputi
Da disgustare i piccioni … e canestri vuoti di rifiuti

A nord su piedistallo Lincoln
È il turista slavato che porge
Grani a uccelli invisibili –
Lo ringrazio con un cenno di mano

A sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
Alla marmaglia nello sguazzo
Strappando le ombrelle –
Lo ringrazio con un cenno di mano 

A est il desolato Lafayette mano destra sul cuore
Con la sinistra indica al suolo la saving bank
Di fronte in greek revival fallita –
Lo ringrazio con un cenno di mano 

A ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
Dallo spicchio d’acqua
“preparati per la scalata”…
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso dalla montagna”. 

Il recente libro di poesie di Alfredo de Palchi, Eventi Terminali, pubblicato da Mimesis Hebenon, 2019, con introduzione di John Taylor è una silloge incisa con la tecnica dell’acquaforte, mordente, nello stile di Albrecht Dürer, diremmo. La scelta della prosa poetica, l’uso delle sigle per indicare gli attori della storia (SQ=Salvatore Quasimodo), nella prima sezione dal titolo: Bellezza versus Bruttezza, Monologo di Eugenio Montale, in cui il transfert consapevole passa da una relazione significante, nel qual caso la conoscenza diretta e frequentazione di Alfredo e di Eugenio, ad una proiezione e conseguente sostituzione,  “lesionelle”, volta a colpire l’oggetto stesso dell’invettiva. In questo caso il termine invettiva trova un punto di riferimento anche nel titolo stesso della sezione, Bellezza versus Bruttezza, Amor sacro versus Amor profano, nella metonimia relazionale tra i due termini del contendere e tra i due attori che ne disputano. Essendo Montale non più vivo, Alfredo de Palchi si sostituisce al poeta degli Ossi di Seppia attraverso l’escamotage dell’immedesimazione: 

… “da quell’avrei voluto sono Eugenio il sosia che non manca a nessun se stessoma       dei due chi si finge poeta…11 

giorgio-linguaglossa-alfredo-de_palchi-serata-2011

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Tutti i poeti del Novecento, a partire dalla data di pubblicazione di Ossi di Seppia del 1925, hanno dovuto fare i conti, prima o poi, con Eugenio Montale: si pensi, ad esempio, alla poesia sardonica di Mario Luzi “Versi scritti per tenere allegro Montale”,12 oppure il saggio nel quale Sanguineti individua in Montale una sorta di “Inettitudine metafisica [che]… sfocia in una Metafisica dell’Inesistenza.”13  De Palchi non si sottrae alla resa dei conti con il premio Nobel scegliendo una struttura complessa al suo Monologo di Eugenio Montale, basando i testi poetici in prosa sul poeta de Palchi, sul poeta de Palchi che presta la sua voce a Montale, su de Palchi il quarantenne che conosceva Montale, e quindi su Montale l’uomo, il poeta e il poeta nel vestito di Eusebio (John Taylor, Prefazione a Eventi Terminali, 2019).

Echi danteschi si rincorrono nella prosodia di questa prima sezione, in una unità linguistica che da sempre ha sostenuto l’impalcatura poematica di de Palchi. E’ noto il suo pensiero critico circa la poesia italiana imperniata nella bella calligrafia petrarchesca, quando, invece, tutta l’opera depalchiana riconosce in Dante il maestro. Si presti attenzione a tal proposito ai seguenti passi:

benché inganni, bellezza ammira se stessa quanto bruttezza non ingannando ammira…

e ancora,

…nel cuore infernale di nero di seppia è Beatrice che mi folgora di eusebiane “Occasioni”…

… e a imitazione dell’adolescente Dante dietro la chiesa appena fuori casa, io ho goduto di ordinarie erezioni […]

L’invettiva non risparmia nemmeno MLS, alias Maria Luisa Spaziani, che viene ricordata per la grande falcata e per l’ostentazione di “insipidi versi” quando il poeta, sempre con mente pornografica, stravede “invano per quella verticalmente slabbrata…” 14

Alla fine AdP fuoriesce dal corpus di Eusebio, come se il transfert dei ricordi necessariamente si interrompe dopo aver visitato i luoghi più cari e riconoscendo la statuità di almeno tre libri di Montale: Ossi di Seppia, La Bufera, Le Occasioni, di certo preferendo quest’ultimo al contemporaneo SQ, alias Salvatore Quasimodo “vanitoso dei suoi baffetti e dei telegrammi Nobel ancora in tasca?

Di certo Alfredo de Palchi non è uno scaramantico, tutt’altro, il numero 13 gli ha sempre portato fortuna nella sfortuna e le ricorrenze del numero 13 hanno inciso nella sua vita momenti di grande sconforto con momenti di liberazione e di riscatto, come il 13 dicembre del 1947 nel carcere di Poggioreale dove con un mozzicone di matita ha iniziato a graffiare i muri di poesia dando vita al de Palchi Poeta.

Che dire di me, malefico metafisico?… nato di venerdì 13 non reggo il destino                     sulla scaramanzia… non cerco ferro o legno da toccare con nocche a pugno per                         scongiuro… che l’evoluzione s’interrompa accomodando accidentalità e                                  colmando l’inefficienza del nulla? … non è il venerdì 13 o il semplice numero la                 sfortuna ma la disarmonia sgradevole dell’ignoranza… 15

L’ambiente “filosofico e dietetico” secondo la dizione di John Taylor, si complica nella linea comico-realistica dell’ultima sezione del libro, dove un Alfredo de Palchi, da leone che era si trasforma sarcasticamente in un Porco de Porci, non solo per via di quella valvola suina che gli fu impiantata, ma come “occasione” per rivedere ancora una volta in chiave catilinaria la storia stessa dell’antropoide che si ciba di cadaveri:

a me Porco de Porci disgusta essere forzato ad ingoiare lordura e vivere nella lordura    come i bifolchi che si credono migliori di me…16

Il finale del libro è apodittico e apocalittico allo stesso tempo, così come lo stesso titolo, Eventi Terminali, suggerisce e con il supporto della bella immagine di copertina dell’opera di Sebastian Stoskopff, Still-Life of Glasses in a Basket, 1644.

Buon compleanno, Alfredo.

(Firenze, 8 dicembre 2019)

  1. M.H. Larochelle, Présentation a Esthétiques de l’invective, in «Études littéraires», 39, 2, 2008, pp. 7-11, p. 9)
  2. Alfredo de Palchi, Sessioni con l’Analista, Mondadori 1967
  3. Alfredo de Palchi, La Buia danza di scorpione (1947-1950)
  4. https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/03/07/poesie-di-alfredo-de-palchi-da-sessione-con-lanalista-1948-1966-e-da-paradigm-chelsea-editions-2013-con-uno-scritto-di-luigi-fontanella-un-dialogo-tra-alfredo-de-palchi-e-giorgio-linguagl/
  5. Alfredo de Palchi, Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, NY 2013 pag. 514
  6. ibidem, pag. 946
  7. Giorgio Linguaglossa, La Poesia di Alfredo de Palchi, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2017
  8. Alfredo de Palchi, Nihil, Stampa 2016  ibidem, pag. 36
  1. Alfredo de Palchi, Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, NY 2013 pag. 380
  2. Alfredo de Palchi, Eventi Terminali , Mimesis Hebenon 2019, pag. 13
  3. Mario Luzi, Tutte le Poesie, Garzanti 1991, pag. 714
  4. SANGUINETI, E. Montale e la mitologia dell’“inetto” (1989) In: _____. Il chierico organico. Milano: Feltrinelli, 2000, pag. 239
  5. Ibidem, Eventi Terminali, pag. 25
  6. Ibidem, pag. 40
  7. Ibidem, pag. 50

Giorgio Linguaglossa

Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco il discorso poetico maggioritario: lo ignora totalmente; applica gli aggettivi e i sostantivi o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione e coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale, in quanto pre-storica. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni semantiche, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi al discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile dopo aver subito sei anni di carcerazione preventiva in attesa di un processo dal quale sarà prosciolto dall’accusa infamante di omicidio). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti di un «luogo». Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

*

Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.

(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Pretendi di essere il falco
che sale in volo
sussurrando storielle infertili
e vertiginosamente precipiti sulla preda
che corre alla tana del campo
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
a brandelli dalla tua preda
io
che ti gioca le infinite porte del cielo
ti eutanasia nella vanità
di barbiere da sottosuolo dove
a bocca colma della tua schiuma
ti strozzi finalmente sgraziato

non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere
gli specchi del vuoto fanno finzione
volando a pipistrello sei dannato
a rasoiarti la gola
a cercare il tuo nulla dentro il nulla

(27 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Che tu sia sotto
in mucillagine di vermi
o sopra
a vorticare nel vuoto
rimani il bifolco delle due versioni
nell’oscurità totale

finalità troppo benigna per te
Nerone Cella seviziatore
rapinatore violentatore

le visioni di troppa madre di cristo
nella tua cella
non ti salvano con i tuoi compagni di tortura
subito spersi nell’Adige
il mio augurio di qualsiasi morte a voi
che vi dànno tra la terra e il primo spazio
mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle
mi spellate

la tua vergogna è alla luce dove
ti conto l’eternità di tempeste drammi nuvole
dove qui sta l’inferno
e tu flagellato alla gogna
designato a seviziare rapinare
e violentare carnalmente i tuoi compagni
di tortura e di malaffare.

(28 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013 )

*

Di poca intelligenza per la commedia dell’arte
Fabrizio Rinaldi
sei la maschera che sa di sapere
solo per sentito dire da chi
ha sentito dire

e scrivi sul giornale dei piccoli L’Arena
le lettere di presunti crimini
avvenuti prima della tua nascita geniale
tra bovari con mani di sputi
nella Legnago
riserva d’ignoranza e bassure

da pagliaccio di paese
ti arroghi di soffiare menzogne
ed io rispondo che ho sentito dire
da chi ha sentito dire che sei
culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo
e non ti diffondo sul giornale
ma in questo lascito

per te i beni augurabili da San Vito
sono i cancelli aperti alla notte
per cercare sulle strade deserte
e tra gli alberi della “pista”
l’invano.

(29 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

E voi bifolchi
eroici del ritorno
sul barcone dell’Adige
mostratevi sleali
e vili quali siete
con il numero ai polsi di soldati
prigionieri
non di civili dai campi di sterminio

siete sleali per tradimento
vili per la fuga verso
battaglie di mulini a vento
spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi
che vi scorreggiano in faccia

ora non scapate
da San Vito dov’è obbligo
narrarvi le stesse menzogne
tra compagni
rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo
criminali comuni all’infinito
e finalmente
spiegare la verità dei ponti antichi
lasciati saltare nell’Adige di Verona

forse anche i defunti avrebbero orecchie.

(30 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

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Domanda: Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?  La storia letteraria fatta a suon di esclusioni e di rimozioni, Poesie e Commenti di Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Giorgio Agamben, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa

Foto Roma cassonetti con sposini

Roma, 2019, cassonetti della immondizia con foto di sposini gettate nella discarica

Francesco Paolo Intini

Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?

È una poesia che nasce ispirata da qualcosa ma finisce nel nulla-Qui è una signora, forse la direttrice dell’ufficio, che mi vieta di prendere due biglietti di prenotazione per lo stesso servizio- ma poi si dissolve cercando un significato non reale. Nessun punto è definitivamente al suo posto, con un senso compiuto definitivamente. Ogni verso respira per proprio conto ma finisce di respirare nel momento che cerca un raccordo. L’ispirazione interagisce con mondi insospettabili. Spesso con quello tragico.
Altre volte con l’ipermoderno. Fa uso di norma di un tempo reversibile che modifica il passato fino a falsificarlo e muove i fenomeni in senso inverso per cui l’entropia non esiste.
E dunque non c’è nulla da comunicare, nessuna lezione da impartire, nemmeno un palcoscenico da commuovere o da coinvolgere o qualcosa che assomigli alla ricerca di un premio, una rivincita, una prestazione dell’Io.
La poesia si svincola dall’etica. Diventa un movimento impossibile da gestire, da finire.
Incontra le contraddizioni che stanno alla vita civile come i teoremi alla geometria. “Qui non arrivano gli angeli \con le lucciole e le cicale …Qui è logico\ Cambiare mille volte idea” (Vasco Rossi – Gli angeli). In questo caso i rappresentanti della metafisica sono gli stessi della razionalità calcolante. I barracuda che inventano le strade per intrappolare i passanti e chiudere le vie di fuga.

Eva degli uffici postali

La scacchiera impose le sue leggi.
Una vipera soffiante il nido postale.

Vestale nel suo tempio.

L’oracolo parlò in pausa pranzo
delle scarpe sfuggite al controllo.

Una polvere le coprì. Libertà va cercando.
Dubbio, anarchismo e rigurgito di peste.

Fiorisce l’algoritmo sullo schermo.
Devia la colonna di cicche dal rigo di mattoni.

Mai più afferrare il frutto dello schermo
Il pensiero scopa le macchine.

Una mantide senza sesso
La vestaglia di lino.

*

Zampilla sangue dal terreno.
Ricaveremo combustibile per accendere Tebe.

Adattamento di carne a trivelle.
Un teatro rinnega la regia.

*

Si ha l’impressione di mani che strappano
E di alberi che lasciano fare.

*

Portarono via gli occhi
il frutto del ventre.

Ifigenia comandò una squadra di Kapò.
Persino l’aria fu divisa in fucili.

Bandito l’ossigeno nel giardino.

Delfi soffiò senza sorprendere.
Vietato ventilare le foglie lievi.

Solo i cartelloni restarono vivi
e risero, attorcigliati ai tronchi.

*

Le radici afferrano nuvole.
Ascoltano il rumore d’ingranaggi.

Una buona digestione anticipa il pranzo.
Eva, padrona dell’Eden, vieta di mangiare la mela.

Scorre l’asfalto sotto le auto.
Barracuda inventano le strade.

Nessuna uscita nella camera da letto.

(inedito)

Giorgio Linguaglossa

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1

Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica»; di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. Da questo momento, la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privatistico. Questo deve essere chiarissimo, è un punto inequivocabile. Che segna una linea che bisogna tracciare con la massima precisione.

E questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi può essere letto come lo sforzo di fare della forma-poesia una questione pubblicistica, di contro al mainstream che ne faceva una questione privata, anzi, privatistica.

La pseudo-poesia privatistica alla Mariangela Gualtieri e alla Vivian Lamarque intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

 

Giuseppe Talìa

Di Mario Lunetta non posso non fare altro che postare la sestina a lui dedicata in La Musa Last Minute, Edizioni Progetto Cultura, 2018.
Recentemente mi è stato detto che con La Musa Last Minute, io avrei in realtà proposto una “Antologia” di poeti contemporanei in versi. Non ci avevo pensato.

Mario Lunetta

“Muoiono anche i grandi poeti.”
C’è una lunetta perfetta stanotte.
Una lunetta comunista, anti-arrivista
Che non baratta la contraddizione
Col ghigno marxiano degli accalappiacani
Con la lingua funginosa di villi&villani.

Approfitto per chiedere agli interlocutori, qual è la differenza tra l’io lirico e l’Io narrante?

Gino Rago

Recensendo di recente le Poesie di Carlo Michelstaedter per la Piccola Biblioteca Adelphi, a un certo punto della recensione meditavo cosi:

“[…] Quali fenomeni linguistici possono proporsi o semplicemente affacciarsi nel far poesia allorché una più o meno lunga tradizione letteraria e anche un intero sistema stilistico cadono d’un tratto in frantumi determinando un vuoto?
Tale vuoto nasce da un qualcosa dentro la letteratura o al di fuori di essa?

Questo vuoto può dar luogo all’avvento di nuovi linguaggi?

Dalla critica più agguerrita e competente abbiamo appreso che al mutamento della società cambia anche la vita stessa delle persone. La conseguenza più diretta ed inevitabile è la rottura di quello che viene indicato come “patto comunicativo” fra poeta e pubblico: cioè, allo sgretolarsi di questo patto si assiste alla rottura di quella sorta di intesa, di accordo fra autore e pubblico.

Ciò è quanto si è verificato anche nel Novecento letterario-poetico europeo e anche italiano dopo la scomparsa di coloro che vengono definiti
Autori-Evento, Autori cioè che con la loro opera (per esempio Baudelaire, Whitman, Dostoevskij, Rimbaud, Nietzsche, Freud) spezzano l’accordo preesistente letteratura-pubblico e niente più, romanzo, estetica, filosofia, poesia, rimane come prima.
Per esempio, in Italia, Dino Campana (morto in manicomio) è il poeta che segna l’interruzione della continuità del “patto comunicativo” cui si è fatto cenno.
Con Carlo Michelstaedter (morto suicida ad appena 23 anni) questa interruzione si rafforza e diviene definitiva[…].”

Oggi, rileggendo questi due inediti di Mario Lunetta, a proposito del pensiero di Linguaglossa al centro della sua nota sulla non presentabilità né rappresentabilità del mondo in cui Lunetta cercava di operare, e riferendomi ad alcuni versi dei 2 inediti, a versi come questi:

“[…] il supposto immortale
non sa allora trovare altro conforto che pronunciare
a voce alta, specchiandosi in un olio di Cagli
tanto simile a un oscuro geroglifico gremito
di spazi inenarrabili, questo SOS che ha tutta l’aria
di un help pronunciato un attimo prima del naufragio:
Via, tenera amica, guarda ancora l’immortale
che conosci così bene: sì, proprio lui che a stento
ricorda il suo nome[…]

credo che Mario Lunetta poteva essere, aveva tutte le carte in regola per essere nel suo tempo un “Autore-Evento” in grado di spezzare il patto comunicativo preesistente fra poesia e pubblico del suo tempo, in modo che nulla fosse più come prima, filosofia, estetica, poesia.

Ma le superpotenze delle massonerie editoriali meneghine, anche sabaude e anche in parte dello stato pontificio glielo hanno impedito, a favore dell’esangue minimalismo…

I 6 versi di Giuseppe Talìa condensano felicemente, nella sua Antologia in versi di poeti contemporanei, il sentimento di Mario Lunetta sulla sua collocazione nel mondo con quella rasoiata “lunetta comunista, anti-arrivista…”

Giorgio Linguaglossa

 La storia letteraria fatta a suon di esclusioni e di rimozioni

Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, e compito della critica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni estetiche da interessi di parte. In tal senso, la rimozione e la cancellazione di un poeta come Mario Lunetta dalla scena poetica della seconda metà del novecento fino ai giorni nostri, è una operazione strategica: si vuole cancellare un intero settore della nostra storia letteraria recente in modo che chi resta sul proscenio della scena siano soltanto i sostenitori di gruppi di interesse editoriale.

Altra cosa è la individuazione della linea che naturalmente segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica (del tipo di quella sostenuta da Mario Lunetta) su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e acritiche che continuano inconsapevolmente la grammatica epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco.

Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si è definitivamente conclusa. E che occorra aprire una nuova pagina della poesia italiana. Con una sola parola: sono convinto che occorra discontinuità, imboccare con decisione la strada che ci conduca verso la nuova poesia, verso una nuova ontologia positiva, verso una nuova ontologia estetica.

Giorgio Agamben

Riporto il brano di Giorgio Agamben sulla  vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca (g.l.)

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114 Continua a leggere

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Una missiva di Tallia a Germanico, Risposta di Germanico, Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere, Filosofia del frammento, Poesie e Riflessioni di Giuseppe Talìa,  Ágota Kristóf, Durs Grünbein, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa, Renè Char, Paolo Tamassia, Martin Heidegger, Gino Rago, Paola Renzetti,

Gif Gladiatore 2

Giuseppe Talìa

Missiva di Tallia a Germanico

Caro Germanico,

è inutile scrivere ai vivi e per i vivi, scrivo a te perché
so che puoi capirmi essendo morto. Tu sei morto.

Io, invece, sono mezzo morto, dunque mezzo vivo:
I morti respirano la polvere, i mezzi morti la masticano.

Lavoro in un enorme cimitero a Ossulston Street
con milioni di lapidi che continuo a chiamare

libri, dalle 8 alle 15.
Poi torno a casa e fingo di essere vivo

e scrivo a quei morti, ai miei morti ricordi,
al mio morto bambino, a tutti i morti morti

che ho conosciuto.

roma Il-GladiatoreRisposta di Germanico

Giorgio Linguaglossa

caro Tallia,

mi ripugna l’idea di essere considerato morto
da un «mezzo morto» come tu ti sei definito.

Ebbene, sì, io sono morto. Sono caduto a Idistaviso.
Così, almeno, ho fatto credere a Cesare.

In realtà, sono vivo e vegeto, e presto tornerò nell’Urbe.
Il cialtrone di Cesare tremerà. Lui sta già tremando.

Il Prefetto del Pretorio ha triplicato le guardie,
ma io sono qui, con i miei fidati legionari.

Sono vivo, Tallia, unisciti a noi, ce lo chiede il popolo bue,
quel popolo che ha acclamato il Cesare di turno,

Acclamerà anche noi, stanne certo, inneggerà a Germanico,
il vincitore di Idistaviso e il vendicatore di Teutoburgo.

Unisciti a noi, Tallia, ce lo chiede la plebaglia di Roma,
verremo incensati e innalzati alla gloria, alla folta schiera dei cesaricidi,

E vivremo felici. Felici.

«L’observation et le commentaire d’un poème peuvent être profonds, singuliers, brillants ou vraisemblables, ils ne peuvent éviter de réduire à une signification et à un projet un phénomène qui n’a d’autre raison que d’être».

(René Char)

Già all’epoca di Essere e Tempo (1927), per Heidegger, si era reso evidente il fatto che il linguaggio della filosofia occidentale non consentiva, e non avrebbe consentito in alcun modo, di uscire dalla metafisica. Nel tentativo di dire la «Differenza ontologica», di dire l’«Essere», che non rinvia a un ente né a un concetto, ma a un evento, all’«Evento» che rende possibile ogni ente, il filosofo si rende conto di non poter utilizzare un linguaggio predicativo, logico, apofantico, e avverte perciò la necessità di ricorrere a un linguaggio totalmente diverso: un linguaggio che non sia mero strumento di espressione della cosa, come avviene per il pensiero rappresentativo e calcolante

Sarà dunque il linguaggio della poesia a poter dire ciò che tale pensiero tace, in quanto i poeti «arrischiano l’essere stesso e si arrischiano nella regione dell’essere», in-vece di limitarsi al commercio dell’ente: i poeti, evidentemente, per i quali il linguaggio non può essere considerato solo un mezzo di comunicazione, perché l’essere della cosa è nella parola che la nomina.

(Paolo Tamassia)

«Mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il framezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due, nel framezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco.L’intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del framezzo, è nella dif-ferenza (Unter-Schied)».1

1 M. Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, 1994, Mursia, p. 37.

«Comunque sia, certo è che poetare e pensare corrono su strade quanto mai divergenti. / Noi vorremmo tuttavia familiarizzarci con l’ipotesi che la vicinanza fra poetare e pensare si celi in questo amplissimo divergere del loro dire. Questo divergere è il loro vero essere l’uno difronte all’altro. / Dobbiamo liberarci dall’idea che la vicinanza tra poetare e pensare si esaurisca in una confusa, intrinsecamente vuota mescolanza di entrambe le forme del dire, in una maldestra mutuazione di elementi, che l’una faccia dall’altra. Può darsi che qua e là debba sembrare così. In realtà, in forza della loro natura, poetare e pensare sono tenuti distinti l’uno dall’altro, ciascuno entro la propria oscurità, da una differenza sottile ma chiara: due parallele – in greco
παρὰ ἀλήων – che corrono l’una accanto all’altra e di cui ciascuna supera a suo modo l’altra in questo starsi di fronte».1

1 M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, p. 154

Pasolini al Rosati Roma

Gino Rago

Filosofia del frammento. l’Arte contemporanea verso una nuova Estetica

– I segni dello sfacelo sono la cifra di autenticità dell’arte moderna.

– Dalla ‘morte di Dio’ e dalla crisi della visione platonico-cristiana, l’arte contemporanea registra la fine del “centro” e della verità dogmatica, con la conseguente deflagrazione del senso.

– L’arte contemporanea assume il ‘frammento’ come il sigillo del mondo contemporaneo e della moltiplicazione della prospettiva.

– Il ‘frammento’ è l’intervento della morte nell’opera d’arte.

– La filosofia del ‘Frammentismo’ non è una tecnica ma è la visione del mondo dell’Artista.

– Il ‘frammento’ quindi è nella nuova estetica la Weltanshauung dell’artista, da tradurre in opera d’arte.

– Il “Tutto” è ormai frantumato, disperso. Può essere ritrovato soltanto in forma di frammento.

– Il frammento, dunque, come parte del “Tutto”, ma come parte compiuta e finita.

– Pertanto, spostando nell’opera su una tela un frammento da una posizione a un’altra, l’economia estetica generale dell’opera rimane intatta, inalterata.

– L’Opera nell’arte contemporanea fondata sulla ” filosofia del frammento” annulla l’effetto d’ogni dislocazione sulla tela d’un frammento da un punto a un altro e conserva inalterata tutta la sua resa estetica poiché tale filosofia assume l’assioma che “ogni frammento contiene in sé il tutto disgregato”. Da qui il dolore che irrompe nell’arte moderna frammentata.

– Non l’arte moderna è in crisi ma è la crisi nell’arte contemporanea.

giovanni testori agguato-via-fani Roma

panoramica dell’agguato-via-Fani Roma, 1978

Letizia Leone Continua a leggere

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Chiedo ai lettori: C’è un nesso e qual è se c’è, che lega la nostra odierna forma-di-vita  alla struttura dissipativa e al polittico tipici della nuova ontologia estetica? Uno stralcio da un’opera di Giorgio Agamben, Poesie Letizia Leone, Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Paola Renzetti, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa

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Che cosa sono le cose? Si chiese Talete di Mileto (Letizia Leone)

Letizia Leone

Due miei inediti da un libro in costruzione:

Che cosa sono le cose? Si chiese Talete di Mileto
e inaugurò il pensiero. Sotto un platano.
Ma la natura non era ancora natura, era Erba.
Verde accecante.

La magnificenza di una rosa nella mano sinistra,
quanta inguaribile superiorità dell’umano.

In cucina è stata crocefissa una gallina.

*

Talete. Già questo fatto del domandare
Là sotto il platano altissimo lo riportò indietro.
Di nuovo povero e scalzo.

Stamattina a tre euro hai comprato una rosa.
Una rosa filosofica.

Per ciò che riguarda la metafora (“una picciola favoletta”) sarebbe utile anche ricordare il pensatore della “Scienza nuova” che sta all’origine dell’estetica moderna, Giambattista Vico, il quale delega alla metafora una funzione generativa del linguaggio ( !) oltre che conoscitiva: “Poiché i primi motivi che fecero parlare l’uomo furono passioni, le sue prime espressioni furono tropi. Il linguaggio figurato fu il primo a nascere, il senso proprio fu trovato per ultimo”.
Tanto che Cassirer considerò il Vico il fondatore della moderna filosofia del linguaggio.
L’uomo primitivo “poeticamente abita” il mondo, lo stare tra le cose del mondo si configura come atto poetico originario, prodotto dalla percezione e dall’immaginazione, da “vivido senso” e “corpolentissima fantasia” per dirla con Vico. Questo atteggiamento mitopoietico, spiegherà la logica poetica del pensiero, la poesia come modo fondamentale del conoscere, una modalità della coscienza…
Qui solo qualche accenno da approfondire data la vastità della questione

Marie Laure Colasson Abstract_gris

Marie Laure Colasson, Abstract, monocolore, La struttura dissipativa

Giorgio Linguaglossa

Penso che la struttura dissipativa e il polittico siano i corrispondenti speculari della nostra odierna forma-di-vita. Leggiamo una pagina di Giorgio Agamben.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/10/21/la-nuova-poesia-la-poesia-come-struttura-dissipativa-sulla-metafora-che-precede-il-linguaggio-sulla-tribalizzazione-della-verita-commenti-vari-una-pagina-di-giorgio-agamben-sulla-forma-di-vita-p/comment-page-1/#comment-59848

Giorgio Agamben

Ho tra le mani il foglio di un giornale francese che pubblica annunci di persone che cercano di incontrare un compagno di vita. La rubrica si chiama, curiosamente, «modi di vita» e contiene, accanto a una fotografia, un breve messaggio che cerca di descrivere attraverso pochi, laconici tratti qualcosa come la forma o, appunto, il modo di vita dell’autore dell’inserzione (e, a volte, anche del suo destinatario ideale).

Sotto la fotografia di una donna seduta al tavolo di un caffè, col volto serio – anzi decisamente malinconico – poggiato sulla mano sinistra, si può leggere: «Parigina, alta, magra, bionda e distinta, sulla cinquantina, vivace, di buona famiglia, sportiva: caccia, pesca, golf, equitazione, sci, amerebbe incontrare uomo serio, spiritoso, sessantina, dello stesso profilo, per vivere insieme giorni felici, Parigi o provincia».

Il ritratto di una giovane bruna che fissa una palla sospesa in aria è accompagnato da questa didascalia:

«Giovane giocoliera, carina, femminile, spirituale, cerca giovane donna 20/30 anni, profilo simile, per fondersi nel punto G!!!». A volte la fotografia vuole dar conto anche dell’occupazione di chi scrive, come quella che mostra una donna che strizza in un secchio uno straccio per pulire i pavimenti: «50 anni, bionda, occhi verdi, 1m60, portiera, divorziata (3 figli, 23, 25 e 29 anni, indipendenti). Fisicamente e moralmente giovane, fascino, voglia di condividere le semplici gioie della vita con compagno amabile 45/55 anni». Altre volte l’elemento decisivo per caratterizzare la forma di vita è la presenza di un animale, che appare in primo piano nella fotografia accanto alla sua padrona:

«Labrador gentile cerca la sua padroncina (36 anni) un padrone dolce appassionato di natura e di animali, per nuotare nella felicità in campagna». Infine il primo piano di un volto su cui una lacrima lascia una traccia di rimmel recita: «Giovane donna, 25 anni, di una sensibilità a fior di pelle, cerca un giovane uomo tenero e spirituale, con cui vivere un romanzo-fiume».

L’elenco potrebbe continuare, ma ciò che ogni volta insieme irrita e commuove è il tentativo – perfettamente riuscito e, nello stesso tempo, irreparabilmente fallito – di comunicare una forma di vita. In che modo, infatti, quel certo volto, quella certa vita potranno coincidere con quel corsivo elenco di hobbies e tratti caratteriali? È come se qualcosa di decisivo – e, per così dire, inequivocabilmente pubblico e politico – fosse sprofondato a tal punto nell’idiozia del privato (corsivo mio), da risultarne per sempre irriconoscibile.

Nel tentativo di definirsi attraverso i propri hobbies emerge alla luce in tutta la sua problematicità la relazione fra la singolarità, i suoi gusti e le sue inclinazioni. L’aspetto più idiosincratico di ciascuno, i suoi gusti, il fatto che gli piaccia così tanto la granita di caffè, il mare d’estate, quella certa forma delle labbra, quel certo odore, ma anche la pittura di Tiziano vecchio – tutto ciò sembra custodire il suo segreto nel modo più impenetrabile e irrisorio.

Occorre sottrarre decisamente i gusti alla dimensione estetica e riscoprire il loro carattere ontologico (corsivo mio), per ritrovare in essi qualcosa come una nuova terra etica. Non si tratta di attributi o proprietà di un soggetto che giudica, ma del modo in cui ciascuno, perdendosi come soggetto, si costituisce come forma-di-vita. Il segreto del gusto è ciò che la forma-di-vita deve sciogliere, ha sempre già sciolto e esibito – come i gesti tradiscono e, insieme, assolvono il carattere.1]

1] G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014, pp. 293-294

[Lucio Mayoor Tosi, Compositions]

Chiedo ai lettori: c’è un nesso e qual è se c’è, che lega la nostra odierna forma-di-vita alla struttura dissipativa e al polittico tipici della nuova ontologia estetica?

È la metafora che fonda il linguaggio. È la Figura che fonda la poesia. È il nome che «chiude» il linguaggio, che lo arresta, perché non si può andare oltre il nome. Il nome è la barriera contro cui si infrange la significazione.

Non ci sono vie di mezzo, non si può essere diplomatici su queste questioni, altrimenti si fa poesia mimetico-neorealistica, poesia memoriale-realistica o sperimentalismo post-moderno.

Marina Petrillo

Irraggiungibile approdo tra diafanie prossime alla perfezione.
Digrada il mare all’estuario del sensibile
tra risacche e arse memorie.

Si muove in orizzonte il trasverso cielo.
Fosse acqua il delirio umano perso ad infranto scoglio…
Sconfinato spazio l’Opera in Sé rivelata.

Conosce traccia del giorno ogni creatura orante
ma antepone al visibilio il profondo alito se, ingoiato ogni silenzio,
ritrae a sdegno di infinito, il brusio della spenta agone.

E’ nuovo inizio, ameno ritorno alla Casa della metamorfosi.
Saprà, in taglio obliquo, se sostare assente o, ad anima convessa,
convertire il corpo degli eventi in scie amebiche.

Un soleggiare lieve, di cui non sempre appare l’ambito raggio.

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera
.
Per struttura dissipativa (o sistema dissipativo) si intende un sistema termodinamicamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia. I sistemi dissipativi sono caratterizzati dalla formazione spontanea di anisotropia, ossia di strutture ordinate e complesse, a volte caotiche. Questi sistemi, quando attraversati da flussi crescenti di energia, materia e informazione, possono anche evolvere e, passando attraverso fasi di instabilità, aumentare la complessità della propria struttura (ovvero l’ordine) diminuendo la propria entropia (neghentropia). 
Il termine “struttura dissipativa” fu coniato dal premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine alla fine degli anni ’60. Il merito di Prigogine fu quello di portare l’attenzione degli scienziati verso il legame tra ordine e dissipazione di entropia, discostando lo sguardo dalle situazioni statiche e di equilibrio, generalmente studiate fino ad allora, e contribuendo in maniera fondamentale alla nascita di quella che oggi viene chiamata epistemologia della complessità. In natura i sistemi termodinamicamente chiusi sono solo un’astrazione o casi particolari, mentre la regola è quella di sistemi termodinamicamente aperti, che scambiano energia, materia e informazione con i sistemi in relazione e, grazie a questo scambio, possono trovarsi in evoluzione.
Fra gli esempi di strutture dissipative si possono includere i cicloni, la reazione chimica di Belousov-Zhabotinskyi, i laser, e – su scala più estesa e complessa – gli ecosistemi e le forme di vita.
Un esempio molto studiato di struttura dissipativa è costituito dalla cosiddette celle di Bénard, strutture che si formano in uno strato sottile di un liquido quando da uno stato di riposo ed equilibrio termodinamico viene riscaldato dal basso con un flusso costante di calore. Raggiunta una soglia critica di temperatura, alla conduzione del calore subentrano dei moti convettivi di molecole che si muovono coerentemente formando delle strutture a celle esagonali (ad “alveare”). Con le parole di Prigogine:[1]
«L’instabilità detta “di Bernard” è un esempio lampante di come l’instabilità di uno stato stazionario dia luogo a un fenomeno di auto-organizzazione spontanea».

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Livio Cinardi, Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci, Poesie di Carlo Livia, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo – Giorgio Linguaglossa, Perché la spazzatura?

Foto monna lisa pop

ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino?

Carlo Livia

… ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino? Perché solo Burri e non Chagall? L’inconscio non è una discarica di materiali rifiutati dall’istanza morale, come credeva Freud, ma semplicemente l’infinito che trascende e alimenta l’io, di cui in sogno afferriamo brandelli, echi, lampi, riflessi. Noi non sogniamo ciò che vogliamo, ma ciò che dobbiamo, e quando ripercorriamo coscientemente il labirinto onirico, siamo pervasi da una libertà smisurata, insostenibile, che coincide con la necessità di dare vita e forma all’emozione che sentiamo all’origine del percorso iconico, che alimenta e orienta l’espressione, dandole concretezza e densità icastica.

Recitare nel nascondiglio

Sono nella quinta rassegnazione, con lo sciame in collera e la testa di sonno.

Lei mi guarda col vassoio pieno di secoli. La vergine irreale e l’istante pazzo che si getta dalla scogliera.

La bestia della provvidenza si dondola dalla vetrina in fiamme, ornata di lunghe psicosi.

Quando cadono, c’è un brivido che unisce i risorti all’erba stregata, gonfia di occhi induriti dai farmaci.

Allora fa buio nel miracolo, e chi crede di esistere entra nell’omicidio dell’acqua santa.

La prigione allucinogena fugge dalla madre triste. È un esilio in sol minore, biondissimo. Cresce dall’umido della sposa.

Respiro il sax del mostro verde, morto alle fanciulle. Le antiche vaniglie non mi lasciano risorgere.

È solo uno specchio, altissimo e confuso – dicono.

Giuseppe Talìa

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse
Personale. Il vulnus della legge lo trovi in ogni supermercato

nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli
e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato
in…

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.
Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

È il sottovuoto il vero problema. È l’involucro il vero esantema.
Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;
diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica
e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati
fanno da colonna sonora ai gladiatori che sono degli influencer
di fama.

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia
alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;

Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart,
un pomp rock.

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla,
ma si può condire.

Marina Petrillo

Si accende in distonia celeste,
pira di combusta legna arsa in epoca remota.

Indugia ogni terra a varcare la sua soglia se, a seme inverso, oblitera i sensi.
Siamo forse giunti in estremo limite.

Essere o naufragare.
Traccia di linea assente il buio nel miracolo.

Deve aver lasciato tracce troppo lievi per affondare sulla neve.
Le sillabe stropicciano al sole e la dimora sussulta il giudizio finale.

Del proprio abito rinviene l’antica forma sino a tacitare l’inascoltato suono.
Era vento o acqua a giacere tra rovi e rose…

Trascorso in attimo, la luce rifrange l’esilio.
Devoto fiore sospeso tra nembi dal cui nitore erge capo l’indicibile.

Fummo elementi del Tutto, a lui affini,
poi in dimenticanza sorse un idioma a cui porgemmo inchino.

Poeta, la cui vacuità declama versi.
“Anima lucente che doni spazi di umide stelle, o luna, in antico candore involta.

Linea di perfezione cosmica, sede di intelletto,
ove Astolfo sostò per Orlando, pazzo d’amore.

S’io fossi in altro tempo viva, di te, o dea, stupirei i contorni
di fasi e inclinati assi.

Coglierei erbe mediche e studierei il tuo profilo di madre.
Poiché questo tu sei.”

Scrivo, carissimo Carlo Livia, dall’ultimo sogno mai giunto a destinazione. Dai minuti negati che in silenzio creano una piccola ombra. Scrivo in dolce sintassi mentre il cuore piange un ricordo svanito.
Esilio la parola, Giorgio, ove sostare. Combustione. Etere. La ferita del tempo nel ventoso orizzonte degli eventi ove tutto converge: scorie, lamine d’oro e zolle di terra, lamentazioni agli dei. Umano in assenza di tempo, Virtuoso neologismo dal cui sconfitto fronte, nasce rugiada.

Giorgio Linguaglossa

caro Carlo Livia,

è che noi viviamo in mezzo alla spazzatura ogni istante del nostro giorno: lessico salviniano, parole prossime alla betoniera, parole del museo delle discariche, parole dei cartelloni pubblicitari quali sono Istagram, Twitter e Facebook et similia… come possiamo pensare di avere a che fare con degli «echi celesti»?

Il polittico, nel quale siamo impegnati tutti noi, chi più chi meno, è la frontiera più avanzata di una poesia difficile, sempre più problematica, ma il polittico presuppone una grandissima distanza tra il sé e l’ego, presuppone una Gelassenheit dalle cose e alle cose, un rivolgimento del piano del quotidiano. So che queste mie osservazioni ti sono familiari, anche la tua poesia è protesa verso quest’obiettivo, ma è difficile, oltremodo problematico avanzare lungo queste frontiera, occorrono lunghissimi sforzi, reiterati tentativi. Costruire un polittico non lo si può fare con il semplice ausilio di una tecnica versificatoria come quella che vediamo spesso impiegata oggi nella poesia epigonica, quello è mestiere, nient’altro.

La mia e la nostra poesia si nutre della spazzatura, dei rifiuti urbani, del ciarpame. Ed è un ottimo menù, perché questo è il mondo di oggi, non spetta al poeta abbellirlo, semmai spetta al poeta mostrarlo per quello che è.

Livio Cinardi

Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci

L’esserci è già sempre, afferma Heidegger, situato. Manifestazione del suo “ci” è l’essere-nel-mondo, l’essere situato in esso il donde e il verso dove sono petizioni non concernenti l’ontologia fondamentale. Come fenomeno, vive il proprio esser-situato come gettatezza, e proprio perché è vita e non teoria, ne fa esperienza, l’esserci ne va del proprio essere.
Come fa esperienza del proprio “ci”, della propria gettatezza l’esserci è già sempre situato, emotivamente.
L’esserci è situazione emotiva, sentirsi situato emotivamente. La Befindlichkeit  è il come, il modo in cui l’esserci si trova aperto nei confronti del puro e semplice fatto di esistere: rispetto al nudo «che esso è»1. Non più solo semplice-presenza, persa nel mondo: l’esserci si scopre, svelato, come semplice-esistenza. L’esserci è ex-sistenza, è essere-oltre ciò che il quotidiano sguardo dell’esserci, errabondo, ha del proprio essere. In quanto ex-sistenza, è pro-getto: esistenza progettante.

La situazione emotiva è struttura dell’esserci, il quale, in quanto situato, gettato, rimesso, è emotivamente intonato. Ogni situazione emotiva, ogni essere-situato dell’esserci è già fenomeno. Nella fenomenologia ontologica, o ontologia fenomenologica heideggeriana (ovvero, fondamentale: fondamento è il fenomeno, la cosa stessa), manifestazione del fenomeno dell’esserci in quanto essere-emotivamente-situato è la tonalità emotiva, ovvero, “lo stato d’animo”. Precisa il filosofo: vi sono tonalità emotive sorgive dall’autenticità dell’esserci, e tonalità emotive sorgive dall’inautenticità dell’esserci. L’esserci percepisce l’autenticità o l’inautenticità dell’essere del proprio esserci già sempre secondo le tonalità emotive che vive: la vita, l’esserci, è già sempre tonalità emotiva. A tal guisa, Heidegger riporta due exempla, dai quali appunto comprendere cosa egli intende per tonalità emotive: la paura e l’angoscia. Molta è la confusione intorno a tali stati d’animo, ragionevole data l’ambiguità caratteristica di entrambi. L’indagine attorno alle tonalità emotive dell’esserci costituirà il corpo centrale del presente elaborato.
Avanzeremo così nella “notte” dell’esserci: non più perso nel mondo ma preso, assalito dall’angoscia, proprio dentro il più familiare dei mondi circostanti, l’esserci non si trova più a casa, neanche nell’ambiente più vicino e fidato. Allora, si scoprirà come possibilità: scoprirà il proprio essere, l’autenticità del proprio essere, come possibilità. Una possibilità massima solo apparentemente contradditoria: l’essere-per-la-morte dis-vela all’esserci il proprio essere, come ni-ente, come non-ente. Per l’appunto, oltre l’ente, ovvero ex-sistenza. In una parola: leben.

Ciò che nella domanda è in domanda è l’essere che avverto, ex-per-isco come Stimmung, come tonalità emotiva, come stato d’animo, come vibrazione. Io sono toccato da ciò che cerco, ovvero gettato nel cercare. Per questo lo cerco. La gettatezza è allo stesso tempo pro-getto. È una co-struttura. L’esserci è quell’ente che in quanto è gettato nel mondo, gettato in ciò che è, si lascia toccare da questo getto (che è dell’essere dell’esserci) e in questo getto che lo tocca e lo riguarda, progetta se stesso. Questo pro-gettare se stesso,questo gettare-innanzi se stesso, è trascendenza, è esistenza. Essere già sempre oltre. Non in senso religioso: non è verso dove, ma è oltre, in senso ontologico, costitutivo: fenomenologico. L’esserci ontologicamente non è già, lo ripetiamo, de-finito (non ha una essenza che lo determini). l’esserci è in quanto poter-essere, in quanto possibilità. Continua a leggere

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Mario Gabriele, How The Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 $ 20.00, Poesie di Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo

Antology How the Troja war ended I don't remembercaro Giorgio,

non appena mi è pervenuta la tua antologia How the Trojan War Ended I Don’t Remember, mi sembrava di aver ricevuto un regalo da Santa Claus, dopo la lunga attesa per la pubblicazione.

Mi sono sentito tra i pochi fortunati a ricevere il volume in quanto gli altri autori antologizzati hanno dovuto attendere non poco, prima di venirne a conoscenza.
Ebbene, come fa il cane quando annusa il padrone, ho voluto captare subito l’odore tipografico, passare la mano sulla prima e quarta di copertina, sfogliando le pagine una ad una, ipotizzando la grammatura della carta e tutta la tecnica della pubblicazione.
La curiosità di leggere le poesie, ma credo l’abbiano fatto anche gli altri autori, mi ha portato a trovare subito la Sezione Contents dove si citano i nomi e le opere dei poeti presenti.

La prefazione di John Taylor mi ha sorpreso per la sinteticità espressiva, senza creare altarini e Hit Parade.Ne è un esempio la sezione che mi riguarda,dove il prefatore così si esprime: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Teniche sviluppate da T.S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C.P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.
Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola».

Certamente, per redigere queste frasi, il prefatore è stato un attento lettore dei testi. La sinteticità e l’acuta impostazione critica fanno del lavoro di John Taylor, un esempio di scrittura estetica che non è storiografia o eccesso di intrattenimento, – no stop -, come è accaduto per certi nostri antologisti del Novecento. Qui non ci sono limiti culturali e metodologici o infrazione critica. Tutto è ben ponderato e circoscritto.
Altro aspetto singolare è la traduzione in Inglese dei testi fatta da Steven Grieco Rathgeb, molto rigido nella misura dei versi e nelle rettifiche.

Strilli Lucio Ho nel cervelloOgni antologista ha di fronte a sé un compito difficile, trattandosi di selezionare opere e autori per tracciare una storia o un segmento della poesia italiana.
Scrive Giacinto Spagnoletti nella sua introduzione in La letteratura italiana del Novecento, Grandi Tascabili Economici. Newton (1994): «Se di -un sentimento- e non di un metodo – ha bisogno fortemente il critico di oggi, esso consiste nel far parlare i più interessati, gli scrittori e i suoi lettori». È ciò che hai fatto tu, caro Giorgio Linguaglossa, nel redigere questo lavoro che rimarrà un anello di congiunzione con il futuro.
Le eventuali omissioni di altri autori in questa Antologia non sono da considerare repressione, oppure ostinata invisibilità e indifferenza. Si è trattato di un dossier, di un eccellente patentino poetico in work-progress, in terra americana, cioè di un percorso estetico e linguistico che sicuramente sarà ampiamente pubblicato nella prossima antologia linguaglossiana verticalizzata sulla NOE.

“Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno) così come si fanno i codici di giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque della loro utilità. Sempre che non diventino operazione politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio” (Giuseppe Zagarrio) Ma il “frenaggio” qui non esiste, diciamolo francamente!

(Mario M. Gabriele)

Strilli RagoPrefazione di John Taylor tradotta in italiano da Mario Gabriele

Il titolo dà il tono a questa vivace antologia. I versi dei quattordici poeti inclusi in – Come la guerra di Troia è finita, non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2017)– evoca l’Eredità greco-romana in vari modi, attraverso il reale, il leggendario e le mitiche figure che vanno da Ulisse ad Apollo, da Medea e Ecuba a Gaio Cornelio Gallo, per non parlare di alcuni prolungamenti greci moderni di questa cultura ad esempio quelli di Maria Nefeli di Ulisse Elytis (riportato da Chiara Catapano).

La raffinata poesia di Steven Grieco-Rathgeb è presente anche qui, torna ancora più in profondità nel nostro crogiolo culturale e filosofico, facendo apparire il concetto sanscrito di “jaagriti”. La parola significa, come spiega, “essere sveglio (di solito associato con gli altri due stati mentali umani, dormire con sogno e sonno profondo).

È stimolante estendere la similitudine e affermare che qualcosa come “jaagriti” è forse l’obiettivo, o la motivazione, della poetica espressa da tali poeti attenti alla presenza del passato nel presente. In altre parole, una specie di visione onirica o immaginativa unita a veglia – un gioco avventuroso, un”sognare ad occhi aperti” pieno di risorse, per così dire, durante il quale il poeta afferra il presente come tessuto, non essenzialmente con ricordi personali, ma anche e soprattutto con aspetti della mitologia e della storia (e della storia delle idee) per estendersi ben oltre il sé individuale. Gli elementi archetipici sono stati scavati dal poeta di questo vasto passato, registrato o immaginato, con la funzione di illuminare il presente, anche se a volte in modo bizzarro, fantastico o comico.

Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C. P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoDetto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con “In viaggio con Godot” o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola”.

Per non dire altro. Ad esempio la poesia ludica tiene a bada la serietà. Antonio Sagredo imposta allo stesso modo “Farcical” a Roma, in cui il narratore confessa di trascorrere le sue “notti”nelle taverne / lungo la strada rossa di Scipione, / simile a un prete sotto quelli indifferenti lampioni, / con il tasso di mortalità di Roma ancora lontano dall’essere decente “, per riassumere la sua vita attuale in questo modo: “Oggi celebriamo il saggio: / Ho letto i Cantici ripetutamente / e come i Cesare sono stato ucciso mille volte!”
A sua volta, Letizia Leone, la cui lunga poesia è stata tratta dal suo libro La calamità di base si concentra su Marsia il Satiro, forgiando il satirico con la mescolanza di immagini che raccontano le apparenze del passato e del presente: “. … un peloso satiro / con un nuovo flauto luccicante, tirò fuori da una dea, / un sex toy, / un dispositivo per magia amatoriale!”

Inutile dire che queste e molte altre poesie sono piene, zeppe di allusioni culturali, sardoniche, beffarde, spoofing, con indicazioni serie a questioni filosofiche.
Anna Ventura, ad esempio, evoca Trimalchio, la tartaruga etrusca di Volterra”, Torquemada, e infine Barbablu, di cui presenta se stessa come la “terza moglie, quella / che ha osato prendere la chiave / e spalancare la porta dell’orrore “, aggiungendo che questo non deve essere detto a Cartesio il quale “giace / dentro la sua tomba piatta, all’ombra / di una chiesa poco illuminata, / ma la sua luce abbaglia ancora / la sua follower: gli illuminati, disprezzati / in un mondo che fa altrettanto /senza motivo.”
In realtà, le stesse questioni della ragione – le sue carenze e conseguenze, per non dire pericoli e catastrofi: spuntano piuttosto spesso. Un altro modo di leggere questa antologia è chiedersi come decriptarla, o come la mancanza o abuso di ciò, giochi rispetto alla condotta umana così come è stata mostrata nel corso dei secoli.

Strilli Busacca è troppo tardiGiuseppe Talia solleva espressamente questa domanda in “Paradossi” che unisce scienza (o, più precisamente, logica formale) e storia: “Le teorie di Frege sono quasi un fallimento / perse nel predicato che non puoi prevedere / quando il paradosso dell’assioma / non è altro che una contraddizione: “Cesare conquistò la Gallia. “Ma in che modo? / Con un carattere sintetico a priori diresti / in relazione allo spazio operativo / e alle semplici proporzioni analitiche/ al numero di soldati usati e civili morti/.
“Nella sua poesia” Aspetta e guarda cosa succede”, Renato Minore decolla da uno degli spettacolari risultati del ragionamento tecnologico: pixel. Mentre la poesia si svolge per mezzo di linee permutate, altre possibilità interpretative lampeggiano di tanto in tanto, anzi come i pixel, suggerendo metafore legate direttamente ai nostri tempi: “Esiste il comodo ritorno della specie / continua a rannicchiarsi nella testa di uno spillo / Ma noi sogna ciò che abbiamo interpretato / E danno quel poco che è ancora richiesto di loro “. E se siamo consapevoli di” sognare ciò che abbiamo interpretato “, non è una specie di stato “jaagriti” ancora una volta? In ogni caso, chiediamolo: dove sta andando l’umanità della nostra umanità?

Sebbene ci siano eccezioni, tra cui poesie di alcuni dei suddetti poeti (cioè pezzi che dissezionano le “affiliazioni”, come quelle tra poeta e genitore, tra poeta e fratello, o esplorando altre chiavi personali eventi), l’antologia tende a mettere in luce versi che sono molto più massimalisti che minimalisti. Raggruppando le sue poesie sotto il titolo Dovrei tornare a Caesar’s Court?, “Giorgio Linguaglossa (che ha messo insieme questa antologia) sfida implicitamente i poeti contemporanei a rispondere alla stessa domanda. Si hanno pochi problemi a percepire che ci si rivolge in particolare ai poeti orientati verso i particolari modesti della vita quotidiana in sé o verso le loro vicissitudini, le proprie esistenze attuali, anziché verso quelle storiche, mitiche, scientifiche, e sfondi filosofici rovistati dalla maggior parte dei poeti in questa antologia. Tale, ovviamente, è solo una delle linee di battaglia che possono essere tracciate tra poeti contemporanei in Italia o altrove.

Le differenze radicali che possono esistere tra i tipi di soggetti considerati, sono visibili anche nella poesia di Gino Rago: titolo generale per i suoi pezzi interconnessi. “We are Here for Hecuba” sicuramente suggerisce l’intenzione di aprire una prospettiva più ampia di quella delimitata nel bene e nel male da un’ispirazione strettamente autobiografica o da un oggettivismo del genere “niente idee ma nelle cose”.
In una delle sue poesie, Donatella Giancaspero sottolinea: che “nulla di ciò che siamo / mostra la superficie. ”L’osservazione definisce appropriatamente il non autobiografico orientamento di questa antologia.

Eppure, come dovrebbe anche essere chiaro, le variazioni di questa poetica generale sono molte. Anche la poetica contrastante viene prodotta, sebbene essa non sia necessariamente rappresentativa di tutto il lavoro del poeta in questione.

Antonella Zagaroli, che ha citato teorie scientifiche in alcuni suoi testi precedenti, aspira ad essere “Saffo crudo e ribelle” (al contrario di”Emily”) e offre un’immagine personale toccante alla fine della stessa poesia dichiarando: “Io sono il raccolto, poi appeso indietro la mela / nel giardino appartato.”Altrove, dichiara, in modo evidente riguardo al contesto generale di questo antologia: “A chiunque cerchi ancora una voce con risposte / il passato insegna niente ”. Alcuni dei pezzi più stravaganti di altri poeti raggiungono o rappresentano la stessa conclusione: nemmeno il passato può aiutarci a capire cos’è il presente. Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ”— come un’epigrafe, a condizione che le sue parole solenni siano stati seguiti da diversi punti interrogativi.

E poi c’è Alfredo de Palchi. Nato nel 1926, è il poeta più anziano selezionato e autore di un’opera che è allo stesso tempo tematicamente coerente e variata. Le poesie qui scelte appartengono ai suoi pezzi relativamente recenti, e costituiscono un angolo autobiografico piuttosto diverso da quello espresso in alcuni dei suoi primi scritti, che raffigurava la sua sofferenza durante le conseguenze della seconda guerra mondiale. Eppure anche allora, come ora, le analogie sono presenti nel suo lavoro. Qui, in una poesia del 2009, scrive: “Se solo io potevo rivivere l’esperienza / l’inferno sulla terra dentro / la fisica dell ‘”oscurità” la materia “sta crollando / in un buco pieno di vuoto / finché non diventa” energia oscura ” in qualche altro / universo in qualche altro vuoto / dove / la sequenza di la vita si ripeterebbe. “La poesia procede verso una conclusione tipicamente tonica, per non dire altro, ma non bisogna trascurare l’immagine di Alfredo De Palchi della sequenza di vita che viene “ripetuta” e che individua ordinatamente uno dei punti centrali di questa antologia. La necessità di una ripetizione, per così dire, è formulata in vari modi, implicitamente o esplicitamente, a seconda del poeta, e la domanda di fondo che tende a unificare molte delle loro singole poetiche è quindi questo: per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo prima di tutto cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o attraverso alcuni paralleli ingannevolmente inverosimili?

Renato Minore 1

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Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sulla pubblicazione della Antologia della poesia contemporanea italiana, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions di New York, pp. 330 $ 20.00

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan war Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura di Roma, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Strilli RagoIntervista  di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa

Domanda:

La prima domanda è molto semplice, anzi, ingenua: Perché una Antologia della poesia contemporanea italiana?

Risposta:

Era necessario mostrare un percorso significativo della poesia italiana contemporanea, indicare alcune radici, da dove si viene: dal modernismo europeo, e dove si va: verso un nuovo modernismo. Il mio intento è quello di mostrare come certe linee di forza che hanno attraversato e fermentato l’area della poesia del modernismo europeo agissero, fossero presenti da lungo tempo anche in Italia.

Domanda:

Nei tuoi scritti critici ripeti di frequente che la poesia italiana dal 1971, anno di pubblicazione di Satura di Montale, non ha prodotto poesia di alto livello. E allora, ti ripeto la domanda: Perché una Antologia della poesia italiana contemporanea?

Risposta

Riformulo in altro modo la mia precedente risposta. Perché uno o due poeti di altissimo livello possono trovare terreno fertile per svilupparsi soltanto quando il terreno della koiné linguistica e stilistica è stata messa a punto da un lavoro a monte, quando è stata preparata dal lavoro di almeno due, tre generazioni di poeti, quando sono state messe a punto quelle condizioni filosofiche di poetica, lessicali e stilistiche che soltanto possono consentire la nascita e lo sviluppo di una poesia italiana di alto livello.

Strilli Gabriele2Domanda: Qual è il progetto culturale che ti ha guidato?

Risposta: Detto con parole semplicissime, trovare la via verso una nuova ontologia estetica nell’orbita della poesia modernistica che si è sviluppata dopo la fine del Moderno, dopo la fine della Metafisica. Rispondere in qualche modo alla domanda: Quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?

Domanda: Come si pone la tua Antologia? Voglio dire: immaginiamoci la poesia come un Parlamento, un emiciclo che va dalla destra alla sinistra, la tua Antologia come e dove si colloca? A destra?, a sinistra?, al centro?

Risposta: La poesia di una comunità nazionale trova le condizioni favorevoli per la sua espressione soltanto quando si pone «al centro» del fare estetico, quando la «nuova poesia» si pone strategicamente «al centro». L’opera di «opposizione», come tu la definisci, alla fin fine finisce per impoverire l’opzione della «nuova poesia», perché la relega in una funzione ideologica, strumentale agli altri interessi in competizione.

Domanda: Cosa intendi con «altri interessi in competizione»?

Risposta: Voglio dire che nel secondo e tardo novecento, diciamo, dagli anni sessanta in poi, le petizioni di poetica sono diventate posizioni di poetica, in quanto erano il prodotto di interessi di parte di certe aree di letterati (Roma e Milano); si è trattato di petizioni ed attività auto promozionali, prive di retroterra culturale, filosofico. Si è fatta della agitazione, della propaganda, della comunicazione. I più esperti hanno puntato sulla auto storicizzazione.

Strilli Busacca Vedo la vampaDomanda:

È noto che tu sei da tempo il sostenitore di una linea che va dalla poesia modernista europea che fa capo a Tomas Tranströmer di 17 poesie del 1954 alla «nuova poesia» della «nuova ontologia estetica». In questo tragitto, meglio sarebbe chiamarlo ventaglio di possibilità espressive, quale è il percorso che tu hai tracciato con questa antologia?

Risposta:

È in questo nuovo orizzonte culturale che lentamente si fa largo anche in Italia che nasce la «nuova poesia», preannunciata da libri  stilisticamente innovatori come Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, ripubblicato con tutte le poesie inedite nel 2018 con Progetto Cultura di Roma, Stige. Tutte le poesie (1990-2002), e Altre foto per album (1996) di Giorgia Stecher la cui opera completa è in corso di stampa per Progetto Cultura.

Loquor ergo non sum, può essere questo il motto da cui partire per il posizionamento della nuova ontologia estetica. Al di sotto e dietro del loquor non c’è nulla, non c’è un «io» se non come costellazione di significanti inconsci. E così cade la stessa opposizione tra il letterale e il figurato che ha retto la poesia tradizionale del novecento. Con la caduta di quell’opposizione è caduto anche un certo «modello» di forma-poesia che implicava un certo modo di considerare i problemi di natura estetica. Con il libro di Tranströmer del 1954 quel «modello» va in disuso, ma da noi lo si è iniziato a capire con quaranta anni di ritardo, quando sono comparse le prime traduzioni in italiano del poeta svedese. La poesia del «nulla» di Tranströmer era in realtà «pieno» di cose, solo che non lo sapevamo e non lo potevamo immaginare.

Così, tra essere ed ente si è aperto un abisso incolmabile. Si è scoperto che l’ente non rimanda all’essere se non da un luogo lontanissimo qual è il linguaggio. È da qui che parte la nuova ontologia estetica di cui il padre nobile lo rinveniamo in Tranströmer.

Nella poesia, diciamo così, tradizionale, il letterale e il figurato funzionavano come categorie proposizionalizzate proprie della differenza problematologica (e ontologica). All’interno di questo quadro concettuale si cercava sempre «altro» rispetto ad un significato-significante e in quell’«altro» si cercava il contenuto di verità; in quello che si era detto si cercava il non-detto, nell’espresso l’inespresso. Si cercava insomma il «senso».

Nella nuova ontologia estetica siamo fuori di questo orizzonte culturale che vede le categorie come proposizionalizzate, nell’ottica della NOE il letterale e il figurato sono sinonimi, sono sovrapponibili, è questa la grande rivoluzione che riesce arduo comprendere da parte dei letterati digiuni di letture e di riflessioni filosofiche.

Strilli Tranströmer 1Domanda:

A tuo parere la poesia italiana del secondo novecento è all’altezza della più alta poesia europea?

Risposta: È dagli anni settanta, dall’anno di pubblicazione di Satura (1971) di Montale che la poesia italiana ha cessato di produrre poesia di alto livello; si è invece prodotta una «discesa culturale» dalla quale la poesia degli anni seguenti non si è più ripresa; le generazioni più giovani si guardavano bene dal mettere in discussione i risultati raggiunti da quella precedente. E così via, a catena. Il risultato è stato che per trenta anni la poesia italiana ha vissuto una situazione di stallo. Ed è evidente che in queste condizioni lo sviluppo di una nuova poesia e di una nuova poetica sia stato oggettivamente reso difficoltoso.

Domanda: Hai scritto di recente questa frase sibillina: «Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci». Vuoi spiegarci meglio cosa intendi?

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaRisposta: C’è nella nuova ontologia estetica quello che possiamo indicare come una intensa possibilizzazione del molteplice. Continua a leggere

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Francesca Brencio, Il confine del silenzio, Estetica e Ontologia. Poesie di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Talia, La poesia che si può scrivere oggi dopo la Fine della Metafisica

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Fellini, fotogramma di film

Francesca Brencio

IL CONFINE DEL SILENZIO
ESTETICA E ONTOLOGIA NEL “POETICO” PENSARE DI MARTIN HEIDEGGER

Il linguaggio del poeta non è solo il linguaggio della parola; esso è anche il linguaggio dell’immagine, è un linguaggio cioè fatto di immagini che permette di “lasciar vedere qualcosa”. L’immagine “lascia vedere l’invisibile, lo configura in un materiale che […] ne salvaguarda l’estraneità ossia la trascendenza”. Il poeta parla per immagini, “a fronte del cielo e a partire dal cielo, egli prende la misura della terra, l’orienta, ne orienta la vita su di essa e fa questo “misteriosamente attraverso quei segnavia che sono i Bilder”40. Attraverso questa operazione non si ha una sdivinizzazione del Sacro, ma anzi esso viene recuperato sottraendosi “all’obiettivazione e alla reificazione nel momento stesso in cui si consegna senza riserve alla cosa”. Preservare, conservare e custodire il divino e la dimensione del Sacro dall’esautorazione della metafisica e della teologia cattolica è l’ultima promessa che la poesia può mantenere. Il linguaggio poetico è“polisenso […]

La polifonia del poema […]

proviene da un punto unificante, cioè da una monodia, che in sé e per sé, resta sempre indicibile. La molteplicità dei significati propria di questo dire poetico non è l’imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere”.
Nel suo essenziale accennare, la parola poetica rinvia all’ulteriorità che la metafisica non ha saputo cogliere della domanda sull’essere: “La poesia è istituzione in parola [worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”. Come suggerisce Gianni Vattimo, “quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”.

La poesia e, più in generale, il “poetico” pensare di Heidegger vogliono rimanere fedeli alla differenza, evidenziando la reciproca appartenenza del differente al pensiero della differenza, la quale è stata cancellata dalla metafisica nei termini di oblio dell’essere e di oblio della differenza:

“La stessa traccia primitiva della differenza è cancellata perché l’essere-presente appare come un essere presente la cui origine è riposta in un essente-presente-supremo”.

La differenza ontologica si configura all’interno della Seinsfrage heideggeriana come l’autentico discrimen che permette l’emancipazione del pensiero filosofico dall’impasse della metafisica tradizionale, cioè dalla riduzione dell’essere ad ente operata dal pensare rappresentativo “ego fondato” e la sua conseguente interpretazione come ente semplicemente presente. La differenza ontologica rimarca la necessità del procedere heideggeriano verso una comprensione dell’essere che sia libera dal retaggio metafisico e dalla rappresentazione tradizionale del soggetto, quale è stata compiuta da Descartes ad Hegel. L’oblio della differenza quale giunge a noi dalla metafisica è iscritto nella storia dell’essere: è essenziale per la metafisica occidentale, nel senso di iscritto nella propria essenza, non pensare la differenza, dimenticarla. Solo così essa può giungere al punto estremo del suo compimento, esautorandosi dall’interno, in quanto in essa si consumano tutte le figure che mostrano l’essere e le sue epoche: l’apparire, il ricordo, l’oblio, l’oblio dell’oblio. Il “poetico” pensare permette l’accesso diretto ed autentico alla differenza: “E’ l’originario che, nella sua differenza dall’ente semplicemente – presente nel mondo, costituisce l’orizzonte del mondo, lo be-stimmt, lo determina, lo intona, lo delimita e squadra nelle sue dimensioni costitutive”. In tale accesso, si realizza la parola poetica inaugurale, quale può scaturire solo dal silenzio.
[…]
“La poesia è istituzione in parola [worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”43. Come suggerisce Gianni Vattimo, “quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”44

https://www.academia.edu/8564952/IL_CONFINE_DEL_SILENZIO._ESTETICA_E_ONTOLOGIA_NEL_POETICO_PENSARE_DI_MARTIN_HEIDEGGER

40 S. GIVONE, Heidegger e la questione romantica, in “Aut-Aut”, n°. 234, 1989, p. 53.
43 M. HEIDEGGER, La poesia di Hölderlin, cit., p. 50.
44 G. VATTIMO, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in AA. VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, p. 293

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Fellini, fotogramma di film

Francesco Paolo Intini

D’ESTATE

[Sogno sul Ticino]

Scrittura su massa d’impotenza.
Dominano formiche.

Scudiscio di protoni contro tigre.
Faust chiama Mefistofele per una metastasi.

Sogno sul Ticino.

Tuttavia la “Questio” rimane:
nascerà tecnologia da un verso?

[Il grande vecchio]

Roma si alza, incenerita.
Uncini verdi trafiggono i pini.

A tratti, lottando con l’autostrada-nascere è altro-
si affaccia il sole.

Uccelli col dorso argento dei gorilla
Svegliano il grande vecchio.

Sonnacchioso dubitare che la luce sia luce.
E dunque nessun Matteo è chiamato.

Ad agosto scenderà l’incantamento
Per addizione al non pensiero.

Sapore d’artato.
Una sofisticazione nel vino novello.

[Elea ]

Cubi di Essere salgono Elea.

Volontà di un Faraone.
Grumi di corteccia immortale.

Maria Carolina contro Eleonora Pimentel.
La dimenticanza non ce l’ha fatta.

Tra l’una e l’altra scorrono lazzari.
Figli, padri.

I campi ingrassano ogive di pomodoro.
Nessun appezzamento coltiva il pieno.

Arrivano in cima alla torre.
Parmenide guarda discreto la piramide.

La luce che scende una faccia
Risale perfetta da un’altra.

Stuprano, sgozzano, applaudono.
Ruffo assolve.

Ciò che chiudono nella geometria
è il Tempo.

Una sfera e nel cuore, a gusci concentrici,
proprio niente.

(…)

[Agosto]

Il colombo ha l’occhio obliquo dell’aereo atterrato sul campanile
Non c’è stato un muro da abbattere, un Giappone da piegare.

Enola Gay in fuga davanti ad una scia.
Gli ulivi in avvitamento nel terreno.

L’Altro è ritornato al suo posto con piedi uncinati.
Le gazze a caccia di colombini.

Alta tensione intorno al cranio.
Passano crociati.

Il campo visivo si allarga ai parrocchetti.
Raggi gamma nei pini.

Mettono curve dove c’erano triangoli. Trincee di bouganville attorno ai nidi.
La sostituzione del nero ai pieni di rosso nelle vie di Stalingrado.

In termini di papavero appare un sottomarino affondato
Che alza il periscopio quando l’oceano si riassorbe.

La mancanza di idee è bilanciata dall’abbondanza di sputi.
L’arenaria s’ingrossa. Gru affogate nel tufo.

Bracci carichi, DNA operativo.
I palazzi galleggiano su schiume di piombo.

(…)

I raggi alfa delle librerie
entrano ed escono da mazzi di banconote.

Basta metterle in un bankomat
per rincorrere il branco.

Il frammento riprende a splendere sul totale.
combaciano raggi X e onde radio.

Dopo aver disposto su un vetrino la via lattea
si parla di attività sociale.

I neuroni strisciano sotto i piedi.
Strappi sull’asfalto corrispondono a ferite letali.

Una piega di gravità e dentro
un crepaccio di tempo. Farmaco retard.

(…)

Non ci sono frammenti negli scorrevoli delle banche
E nemmeno il gestore capisce il tutto o niente.

I sotterranei non comprendono il dubbio
Soltanto i debitori hanno chiara la mandata fondamentale.

I soldi volano in alto. Non si avvede
Che i colombi sono reduci dello spread.

(…)

L’ultimo a scomparire
è l’orizzonte.

Da questa parte continua il gioco
di biglie tra le onde.

Sul biliardo i secoli rincorrono i secoli
li colpiscono e sbattono sulle sponde.

Oscure creature entrano ed escono dalla rena.
Montano tubi, scene.

Del tutto uguali al primo game.
Tocchi di Michelangelo sull’intonaco rosso.

Arriva inaspettata la notizia di una vincita record.
Prima o poi.

Il sole sorge da Gibilterra
E l’Io, tra le stelle è la Polare.

Lucio Mayoor Tosi

Sia come sia, se queste di Franco Intini abbiano o no la qualità di essere concettuali. A me sembra che sia tanto l’annegamento – l’acqua inquinata che (ci) attraversa – , dove ogni cosa è lasciata scorrere.
Fredda esposizione, ma di ogni sorta di fantasticherie; a tratti con sentita partecipazione visiva, come:

Da questa parte continua il gioco
di biglie tra le onde.

Sul biliardo i secoli rincorrono i secoli
li colpiscono e sbattono sulle sponde.

Versi che perforano le pareti di una sala giochi, dove “Oscure creature”… Abbracciare frantumi di realtà; parole come palline impazzite, ognuna con all’interno una sorpresa. E’ come un pesciolino che si dibatte, la nuova poesia.

Linguaggio, più che raffreddato, ibernato. Demandato ai posteri. Ma perché sono versi concettuali, che ogni tanto ancora vorrebbero dire. In questo senso, a mio modo di vedere, alcune metafore le volterei in diretti proclami. Vero è che la realtà è di per sé un tabù, ma si vorrebbe.

Grazie, Franco
anche per queste riflessioni su una poesia che sento autenticamente NOE. – Spero di non aver scritto troppe cavolate.

Antonioni 2

Antonioni, Fotogramma di film

Giorgio Linguaglossa

Faust chiama Mefistofele per una metastasi.

Questo verso di Francesco Paolo Intini lo sceglierei come titolo della sua prossima raccolta.
Dice bene Lucio Mayoor Tosi quando scrive «l’acqua inquinata che (ci) attraversa – , dove ogni cosa è lasciata scorrere.
Fredda esposizione, ma di ogni sorta di fantasticherie».

Nella poesia di Intini non c’è alcun pilota automatico, le parole affiorano da una profondità che non è profonda, dalla superficie che noi siamo già da sempre. Siamo esseri superficiari, che ci accomodiamo alla superficie e prendiamo dalla superficie ogni sorta di oggetti, e di parole, e le acconciamo secondo i nostri usi e consumi. E la poesia non può che rendere evidente, anzi, evidentissimo questa relittuosità superficiaria delle parole, il loro essere amebatico, parassitario… le parole vivono in modo parassitario nel nostro universo linguistico. E la poesia non può che tradirle, rendere manifesto questo loro essere parassitario, essere ameba. Sarebbe sciocco e presuntuoso cercare un senso in questi versi. Forse sarebbe più giusto eliminare la parola «senso» dal vocabolario di Intini. È che le parole sono scomparse.

Analogamente avviene per  i colori di Marie Laure Colasson, dove è evidente, guardando i suoi quadri, rilevare che i colori sono scomparsi, che quello che vediamo sono la rammemorazione di ciò che erano un tempo i colori, o meglio, non il ricordo ma la ricostruzione dei colori nella mente del la pittrice. Un tempo erano i colori che fondavano lo spazio, adesso, non lo fondano più ma lo sfondano, ne mostrano il carattere di sipario spento; lo spazio nelle sua pittura non è mai tridimensionale e nemmeno bidimensionale ma, direi, quadridimensionale, è lo spazio che resta quando scompare lo spazio e ne resta un ricordo brumoso, caliginoso, che sfuma via. È lo spazio della rammemorazione quando le cose sono già scomparse e ne restano le tracce, le ombre…

Intini a suo modo risponde alla grande domanda che avevo posto ai poeti qualche giorno fa:

Quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?

Ecco, direi che questa di Intini è la poesia che è possibile oggi scrivere dopo la fine della Metafisica. Come la pittura della Colasson ci dice che questo è un tipo di pittura che è ancora possibile dopo la fine della Metafisica.

Oggi ho scritto questi versi. Non saprei dire che cosa significhino:

Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.

Le parole non dette scavano la galleria del nostro destino.
Le parole bianche sono oscene, non meno delle nere.

La Dama Bianca e la Dama Nera sul Ponte di Rialto si scambiano il testimone:
la forbice, la clessidra e il dado.

Dall’oscuro canale sbucò un nano gobbo, sulla zucca cilindro rosso e nacchere,
sgambettò, cincischiò con lo spartito di Vivaldi,

fece un inchino, uno sberleffo, uno slalom attorno alla Dama Bianca
con la maschera nera sul volto,

farfugliò qualcosa di indistinto che al momento non afferrai,
poi prese sotto braccio il gattaccio del mago Woland

e scomparvero nella nebbia veneziana…

Ma penso che anche questi versi, scritti senza l’ausilio di alcun pilota automatico, siano la sola poesia che è possibile scrivere dopo la fine della Metafisica.
Il fatto è che l’uomo è «un animale metafisico» (dizione di Albert Caraco), e non può che riprodurre la metafisica anche dopo la fine della metafisica. È un meccanismo infernale che non può arrestarsi mai.
Ecco perché la «nuova poesia» assume a proprio tema centrale il perché della poesia, se abbia ancora un senso la poesia. Poiché la crisi è in poesia la poesia reagisce diventando meta poesia, ricusando la vecchia metafisica per una meta ontologia della metafisica del poetico in base alla assunzione che il poetico non è uno spazio separato dal non-poetico, quanto che esso sia la stessa meta ontologia che diventa indagine metafisica. La meta ontologia verte su ciò che è al di fuori della ontologia, fuori dell’ontico e, precisamente, sul niente che costituisce le cose, sulla nientificazione che sta all’origine di tutte le cose e dell’esistenza.
Non c’è altro da aggiungere.

Giuseppe Talìa

Per essere un buon Governante non devi amare lo Stato.
Per essere un virtuoso Papa non devi credere in Dio.
Per essere un bravo Poeta non devi bramare la Poesia.

Germanico, le fronde interne mugugnano, il malcontento
Serpeggia tra i Generali e i Tenenti giocano con le ossa rotte.

Solo gli assassini amano le vittime. Solo i ladri adorano Dio.
Solo i poetastri smaniano per la passione riluttante delle Muse.

 

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Francesco Paolo Intini, Dedalo, il Minotauro, Guantanamo, Giorgio Linguaglossa su una poesia di Giuseppe Talìa, Due poesie inedite di Giorgio Stella

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Marie Laure Colasson Abstract

 Francesco Paolo Intini

Dedalo, il Minotauro, Guantanamo

Percorrere la via della poesia ha senso solo se ci si mette in ascolto del nuovo che affiora dalla società di cui si è figli.
La bambina di fronte al quadro di Picasso crescerà col sospetto che qualcosa nel bel racconto di mamma e papà non funziona.

Gli occhi fuori posto evidentemente stravolgono le regole comuni e collocano l’autore tra i pazzi abitatori di questo pianeta.
La follia di gruppo però non è la stessa del singolo che pensa di essere Napoleone Bonaparte.

Come spiegare infatti, la pletora di artisti che fa squarci nella tela o allunga il collo oltre ogni misura o il ready made che annienta d’un colpo qualunque accomodamento al piacere retinico e punta invece alla mente.

La partecipazione ai fatti della mente dunque, il cui modus operandi assomiglia a quello di Dedalo. Da par suo il costruttore di labirinti non dà alcuna chance alla bestia ospite.

Che altra immagine per il linguaggio?
Quante porte apre una parola?

Tutto per intrappolare il Minotauro, figlio di una passione inconfessabile che rigetta i protagonisti nella bestialità della forza bruta.
Chernobyl e Minotauro soggiornano nel fondo dell’umanità ma le cautele della ragione sono anche le sue conquiste.

E questo poter distruggere ogni cosa non sa che farsene di Icaro che gli si oppone con un volo imprudente, troppo vicino al Sole, che rappresenta il livello altissimo delle forze in gioco.

Le stesse che bisognerà affrontare e comprendere non con le ali della fantasia ma con quelle dell’immaginazione, della misura e dell’ingegno.
Tutto ciò impone la creazione di modelli, le teorie da confermare o falsificare, il lavoro ostinato alla catena di montaggio degli specialisti del calcolo scientifico.

Lo sforzo è titanico ma probabilmente pone la mente al servizio della Natura per accelerarne il decorso e superare i limiti delle leggi del caso.
Quanto tempo è occorso per sintetizzare l’Uranio? Quanto invece per un atomo di Darmstadio?

Se la tavola periodica è il DNA dell’universo, l’ultima parte di essa rappresenta la differenza tra l’operare secondo le leggi del caso e quelle dell’immaginazione scientifica.

In questa ottica Dedalo continua a costruire i suoi labirinti.
Il poeta crea nuove possibilità, tirandole fuori dal fuoco dell’intuito, complica sempre di più il tracciato per essere all’altezza di una bestia che talvolta si fa tirannia e campi di sterminio, ma sempre più spesso utilizza le armi del mimetismo per starci addosso e persuaderci che questo è l’unico modello di società possibile.

Auschwitz e Guantanamo, campi libici e Pinochet stanno accanto alle ragioni del mercato.

Mentre Icaro vola con la sua fantasia inutilmente spiegando ali senza futuro se non per una malinconica impotenza contro il dolore o la dolcezza di un ricordo, di quando sembrava possibile commuovere le pietre scagliate per uccidere il suonatore di cetra.

Il riemergere costante della bestialità, la sua onnipresenza invasiva mette invece all’ordine del giorno il bisogno non di cera che impasta le ali ma di nuovi materiali a base di ciò che nel frattempo è entrato nell’universo.

E dunque è il livello di scontro ad imporre la ricerca dell’indicibile che nasce dagli oggetti stessi, come qualcosa che si può ascoltare a condizione che il proprio Io si faccia da parte in quanto già compromesso, già solleticato in mille modi dai processi di reificazione e dunque non pìù credibile.

Gif Gladiatore 2

Giorgio Linguaglossa

Su una poesia di Giuseppe Talìa

 Vorrei dire qualcosa sulla indubbia genialità della poesia di Giuseppe Talìa, anzi, sulla lettera che il personaggio Talìa invia a tale «Germanico». Per informazione del lettore diremo che questa fa parte di un gruppo di poesie inviate da tale Talìa al generale Germanico Comandante delle legioni del Nord.

 Ma qual è il punto? Di che cosa qui è questione? Si tratta di una poesia di carattere storico? Si tratta di una allegoria? Di un pastiche? O che altro diavolo non so, non saprei, ma so per certo che qui Talìa ha messo in atto in modo brillantissimo l’idea della de-soggettivazione del soggetto e dello spostamento-collisione dei piani di elocuzione. Il soggetto non c’è, o meglio, il soggetto che legifera sulla poesia e nella poesia c’è e non c’è, è, in verità si tratta di una finzione. Quel soggetto che scrive a Germanico è una finzione, un falso, ecco il punto. E preso atto di questo assunto, la composizione prosegue senza offrire al lettore alcun appiglio di sicurezza intorno a ciò di cui si dice. O meglio: ciò di cui si dice lo si dice in modo tale da smentire ciò di cui si dice, e smentire anche il modo con cui si dice. Doppio effetto di straniamento, quindi, ma trattato in modo nuovissimo, da farlo sembrare un gioco o uno scherzo.

 È che tutta la composizione ha l’aria di prendere in giro il lettore, e invece si tratta di una cosa serissima, la vera questione è che ciò di cui si dice non corrisponde affatto al modo con cui si dice, si verifica qui uno scollamento, una distanza tra i due fattori del discorso poetico, e la poesia contiene in sé i due piani del discorso facendoli friggere e collidere l’uno contro l’altro, il fattore serioso e il fattore derisorio.

La composizione assume la forma di una lettera ad un destinatario. Facciamo un passo indietro. È accaduto questo, che nel corso di questi ultimi decenni le «forme» sono scomparse, inabissate, frantumate, e chi voglia scrivere una poesia deve fare i conti con questo semplice problema: quale «forma» adottare con la mia poesia se tutte le «forme» sono inutilizzabili e sono state fatte affondare? È ovvio che per dire qualcosa di nuovo in poesia si deve individuare una «forma» con la quale dirla, una «forma» superstite, una sopravvissuta, magari un fantasma di «forma» o una finzione di «forma». Avviene così che Talìa, in mancanza di meglio, è costretto a rivolgersi alla forma più antica da quando esiste la scrittura: le forma-missiva. In tal modo risolve il problema della «forma».

Ma c’è anche un secondo problema che Talìa deve affrontare, e non piccolo: in quale stile si deve scrivere? Ecco. Un poeta meno dotato adotterebbe la forma-non-forma narrativa del raccontino con gli a-capo, e farebbe quello che tutti hanno fatto e fanno in queste ultime decadi, cioè scriverebbe una prosetta con degli a-capo. Talìa no, adotta il distico, che gli impone però una gabbia abbastanza stretta. Alla fine di ogni distico ha solo due possibilità: mettere il punto o rinviare al distico successivo la prosecuzione del discorso poetico. Non è affatto un elemento secondario, anzi, si tratta di una costrizione che il distico impone all’autore. E allora chiediamoci: come fa Talìa a risolvere il rebus? Leggiamo la poesia:

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare

assomigliare a San Carpoforo.

Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.

Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.

Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

Talìa adotta il tropo dell’iperbole, cioè rilancia ad ogni distico il discorso su un piano sempre più assurdo ed estremo, seppur mantenendo inalterato il tono serioso di un discorso verosimile o para razionale. L’apparenza di voler mantenere un discorso razionale e verosimile cozza e si scontra con l’assurdità di tutta una serie di nuove condizioni nelle quali il discorso serioso e razionale va ad impantanarsi. È qui il salto di fantasy decisivo. Talìa mostra che il senso e il non-senso del nostro mondo e anche della poesia sono entrambi destituiti di contenuto veritativo, il senso equivale al non-senso del tutto, poiché il Tutto è un Totem e il Totem è falso, posticcio. Non c’è alcun senso (così come non c’è alcun Totem) che la poesia possa mostrare perché il senso non c’è. La mondità del mondo non contiene alcun senso e che anche la parola «senso» è sbagliata, un inganno, una parola truffaldina che è stata foriera di conseguenze nefaste.

Giorgio Stella

 […]

L’altra parte dell’alveare è a schema la riga è fatta per gli aspiranti
dello scudo universale – problema da dilettanti -, burle da sommarsi ai [capitelli della capitaneria di porto, l’orto [non urto]

[…]

d’attrito splendente le capsule in fiore il coccio del loto ma chi ha frodato
la banchina con la conchiglia della fondazione? chi per primo ha richiesto [doppia razione di campi di cotone?

[…]

‘d’altra parte Signor […] non si riprese mai del tutto dalle percosse subite, sanguinava pure quando era curata la ferita…’ -.

– “Egregio Lei […] le solennità delle belle parate non portano santi nei calendari tantomeno quei faretti accesi quando si risale dagl’abissi con termometri di scorta contando le uova di riserva…” – […].

[…]

Per arrivare alla spiaggia ci vogliono cinque minuti a piedi dall’Hotel, senza macchina! Certo per chi cammina di meno ce ne vorranno dieci.

I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna; li hanno fotografati Dolce & Gabbana, sul Duomo di Milano una [volta ci salirono i Beatles. Continua a leggere

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Si va verso la costruzione della forma poesia a polittico: Poesie di Marie Laure Colasson, Carlo Livia, Giorgio Stella, Francesco Paolo Intini, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Anche il multiverso è ragguagliabile a una costruzione a polittico, La questione del finito e dell’infinito nella nuova poesia

Gif Donna di cuori

«Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito»

Intorno alla costruzione della forma-poesia a «polittico»

La costruzione a «polittico» è un assemblaggio di «finiti». Ogni immagine, ogni personaggio, ogni icona è un «finito». «Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito». Parlare e pensare quindi la poesia come «colonna sonora» di significati e di significanti, di «composizione chiusa» o «aperta» è, dal punto di vista del «polittico», un non senso; quella è stata la poesia del novecento, che si è chiuso in un brusio generalizzato e insignificante, un rumore di fondo postruista. Sembrerà ovvio dire che per afferrare la «nuova poesia» occorrono nuove categorie, ed è quello che sta cercando di fare la nuova ontologia estetica. Andiamo alla ricerca delle nuove categorie del pensare ermeneutico.

Il problema è: parlare e pensare la forma poesia come collezione e collazione di «finiti». Considerare una parola, un nome, una immagine come figurazione di un «finito». Finora invece la poesia ha considerato il «nome» (cioè il «finito») all’interno di una colonna sonora che lo portava con sé, lo faceva viaggiare dentro la carlinga del discorso sintattico semantico unidirezionale. Ma, è ovvio che questa è una convenzione, un patto di solidarietà tra il lettore e un emittente, secondo il quale il ricevente accoglie il «nome» come facente parte di un discorso tenuto da un io plenipotenziario che sta sul podio e stabilisce le gerarchie dei significati e dei significanti. Questo, detto in breve.

Ebbene, la nuova ontologia estetica infrange questa convenzione pattizia, ci dice che quella convenzione non è più in vigore e che la nuova poesia ne farà a meno. Penso che sia legittimo. Nessuno ci potrà negare la facoltà di pensare e operare in costanza di caducazione di questa convenzione.

Se non si comprende questo assunto di base, non si comprende nulla della «nuova poesia» NOE, e si continua ad operare secondo quel rispettabilissimo patto che è stato in vigore nell’era copernicana dell’io governatore che arriva dall’inizio del Novecento con il deflagrare delle avanguardie fino ai giorni nostri postremi ed epigonici.

Adesso, con l’ontologia positiva, ne siamo fuori. La poesia dell’ontologia negativa di Heidegger ha dato risultati brillanti ma, quella ontologia fa parte ormai del passato, un passato glorioso, ma passato.

Il «finito», ogni volta che lo nominiamo, è già nell’«in-finito». E già qui siamo fuori della ontologia negativa, siamo entrati in un altro demanio concettuale. Il discorso poetico richiede la predicazione del «finito», una predicazione che non avrà mai fine e che pone stabilmente il «finito» nell’«infinito». Se riusciamo a pensare il discorso poetico in questi termini, non potremo mai più fare poesia come lo si è fatto nella tradizione poetica occidentale.
Sono stato chiaro?

E con questo penso di aver risposto in qualche modo ad Antonio Sacco che mi chiedeva lumi sulla NOE, il tempo, interno, il tempo esterno, lo spazio, la tridimensionalità, la quadri dimensionalità, la disfania, la diafania etc.

Il «non dicibile» abita la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito. Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica ad esempio della poesia di Mario M. Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi.

Nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tra-dizione filosofica occidentale.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

[Milaure Colasson (Marie Laure), nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie].

Le miroir jaloux
De leurs ébats
Comme chante Oscar
Se brise
En mille éclatements

Au travers des paupières
L’écume des jours
Sa bouche ouverte
Un naufrage

Sur quatre couches
De tulle superposées
Un magma savamment coloré
Aéré de plages vides
Renato peint sa magie inventée

Autour de la table
En haute voltige excelle le protagonisme
Chacun se conjugue
À la premiére personne
Exister à tout prix

Les cris stridents des mouettes
À ciel ouvert
Semblent menacer la ville
Putréfaction

“ et moi et moi et moi
Et des millions de petits chinois “
Chantait Jacques Dutronc
La suite en devenir.

*

Le specchio geloso
Dei loro trasporti
Come canta Oscar
S’infrange
In mille frammentazioni

Attraverso le palpebre
La schiuma dei giorni
La sua bocca aperta
Un naufragio

Su quattro strati
Di tulle sovrapposti
Un magma sapientemente colorato
Alleggerito da spiagge vuote
Renato dipinge la sua magia inventata

Volteggia alla grande
intorno al tavolo ed eccelle
il protagonismo
Ognuno si coniuga alla prima persona
Esistere ad ogni costo

Le grida stridenti dei gabbiani
A cielo aperto
Sembrano minacciare la città
Putrefazione

“… e io e io e io
E dei milioni di piccoli cinesi…”
Cantava Jacques Dutronc
Il seguito in divenire.

(trad. di Edith Dzieduszycka)

Carlo Livia

Cenere

È grigio eterno. La macchina dura, malata al posto del cielo. La furia di metallo al posto di Dio. Mia madre si affanna a salire, lasciando un solco di pena. I morti prendono alloggio nella pausa, fitta di pugnali femminili.

L’Essere si lacera sul fondale scosceso. Grida: fuori dallo specchio! C’è l’orfano che uccide. La rosa inesorabile fuggita dal duomo. Che non ricordo più.

Affilate le colpe del deserto. Dice il profeta vestito di arida pace. Col vento della scure come preghiera. Il padre intoccabile. Il suo sonno nero. Ritratto in lacrime che oscura le marine.

L’estranea col peccato entra ed esce dal sogno. La musica dell’amata diventa verticale. Mi chiede l’ombra delle navate. O il viale dei quindici anni. Nella gabbia delle chitarre, con l’embrione infelice.

Sono nel terzo silenzio. Senza promessa. Una vecchia macchina fruga nel mio cuore. Per addormentarmi nel lunario rosa. Passa un morbo triste. L’angelo che non mi ama.

Carne rosea e riccioli d’oro. L’apparenza viziosa. Si accartoccia subito al vento degli ulivi. Dall’alto non ci vedono. Troppo nudi nel ripostiglio. Col lume votivo che piange nel millennio.

Senza bambini. La giostra desolata.

Aspettando il tuono

Entro nello sguardo della bambina. La sua tristezza mi dissolve. L‘anima resta sola. Mi prende per mano e mi porta nel bosco. E’ Il corpo dell’antica Signora. Cresce e s’inazzurra. Dalla sua testa si staccano tre grandi uccelli. Sono orfani. Pregano il quadro vacillante.

Ho ucciso una favola di fonti. Lascia che risorga in me – dice il fiume. Fuggo nel cielo malato, con l’amante in pena. La notte sacramentale mi avvolge, travestita da eclissi contagiosa. La danza dei pianeti piange rugiada di fanciulla.

Il cielo dimagrito per le nozze. Dai più lontani luoghi di sepoltura, al ripostiglio dell’Enigma. L’algebra defunta nell’estasi d’alabastro. Il profumo della Dea langue sugli spalti. L’angelo implacabile è la sposa. Perduta nell’immenso tabernacolo.

Porta un sogno verde sulle spalle. Non sa quanto pesa. Mettilo giù – le dice il cielo. E’ un’arpa folle d’amore. Mi abbraccia nella pioggia nuda. Triste di non essere qui. Con l’addio che cambia forma ad ogni vento.

La donna che amo nasconde in sé il segreto. Cammina davanti a me nella pioggia triste, circondata dagli angeli sterminatori. Non mi consentono di raggiungerla, minacciandomi con le lingue infuocate.

Seguo la processione dell’aborto infelice. Il branco mi attraversa per copulare con la reliquia. Perdendo la vita entro nel cerchio di luce. E’ la radura boschiva da cui nasce l’apparenza. La statua senza testa decreta il mio destino: uno stuolo di manichini che parlano ma non capiscono. In fondo la foresta di sogni senza sguardi.

Dal cielo malato cadono estasi di corallo. Il ragno che inghiotte la notte fa infuriare le ombre. L’addio è troppo timido per abbracciare la sua particola. La curva paranoica cresce inglobando terribili sagrestani.

Un suicidio disadorno oscilla nella cella. Un tentacolo dell’enigma esce dal confessionale. L’eclissi contaminata si confonde col roveto ardente. L’angelo sigillato rovescia la clessidra. Nella città appena risorta preparano il giudizio.

Giorgio Stella

Il Conte Beppe Salvia è a cena con la
Marchesa Amelia Rosselli…

Entrambi hanno deciso di tenere
le finestre aperte per volarci per primo

ma tra Salò e Bètlemme il miele rosso
del piccione da caccia ha il tappo in

bocca… Guarda bene di non poter volare
male la lingua che ha dovuto rinnegare

tra le rovine del panforte e altre
lucurnie del proprio paese –

– all’altro capo dello stesso –
è rotta la macchinetta delle foto

per il censimento del primo dell’anno
mille quando la Florida fu invasa da Cuba

ed Hernry Miller si chiedeva se Tropico del
cancro fosse superiore a Tropico del capricorno:

Una veggenza in piena regola come
Il Tallone di ferro di London o Sotto il Vulcano

cantava: ‘strano il destino, arde la terra mentre un
fiume è in piena’

ma al nono piano del civico 27. di Centocelle
alle 17 del pomeriggio, morte nel pomeriggio,

la vecchia ballerina impartiva lezioni di danza
a giovani ragazze che aspettavano i genitori…

dal vetro pare che l’anziana donna parli da
sola e che all’orologio non sia stata

cambiata apposta la batteria in maniera
tale che la retta stabilita sia saldata

per la festa d’OGNI SANTI.

(Roma,1 luglio, circa le 11.00 del 1, luglio, 2019)

.

Giuseppe Talìa

L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
E lava il mondo nottetempo, dice Celan.

In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
E Kant, di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.

Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.

Spesa settimanale: un po’ populista un po’ liberista.
Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.

Grammi di differenza. La psicologia giustifica:
Nuova esperienza, porta pazienza contano i residui

Del vissuto: la buccia, la polpa e il seme, la tridimensionalità
Del frutto. Quel che è fratto è fratto dice A. L. Lohman. Attrice.

Lucio Mayoor Tosi

In tempo

– Cosa si dovrebbe mai trovare nel nulla,
se proprio lì ogni cosa sparisce. Che vai cercando?

Seguì un concerto di dromedari. Le vacche
avevano da ridire. Eravamo capitati in un gorgo di tempo.

– Se invece che il nulla, covassi l’ambizione di poterlo
attraversare. Magari a costo di restarci secco…

E il nulla fu: lo sferragliare del tram (Primavera, nel segno
di Botticelli), l’alpino tosato, e tutte quelle… parole,

come essere in convento. A pochi metri dal mare, gente
che va su e giù per le scale mobili. – Che esista anche

un nulla virtuale? – Sarebbe il benvenuto. Nulla lo spaventa.
Il nulla è sia qui che lì.  Tiene in vita le cose, le sostiene.

– Nel nulla-spazio si muore. Nel tempo dimensionale,
è pieno di tamerici in fiore. La freccia è ormai scoccata. Continua a leggere

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16 – 18 giugno 2019, Dialoghi e Commenti di Vari Autori sulle 4 Domande del 1996,  Poesie di Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Mauro Pierno, C’è una Domanda Fondamentale che muove la poiesis?, Che cosa salvare del ‘900? di Tzvetan Todorov

Gif Fellini

Gino Rago

Che cosa salvare del ‘900? Ho pensato di mettermi a camminare, per un breve tratto con Tzvetan Todorov per una storia delle idee su e di un secolo alla ricerca della

MEMORIA DEL MALE nella TENTAZIONE DEL BENE

“Mi ricordo del primo gennaio 1950: avevo undici anni, e poiché la data rappresentava già una cifra abbastanza tonda, mi domandavo con qualche inquietudine, seduto ai piedi di un albero di Natale che allora si chiamava albero di Capodanno, se avrei raggiunto quella data altrimenti più tonda che è il primo gennaio 2000. Era talmente lontano, mezzo secolo ancora da attendere! Sarei sicuramente morto prima. Ora ecco che un batter d’occhio più tardi quest’altra data è arrivata, e mi incita, come tutti, a pormi la domanda: che cosa bisogna conservare di questo secolo? Dico proprio secolo, anche se si cambia contemporaneamente di millennio: quest’ultimo non si lascia afferrare, l’altro sì.

Il «Times Literary Supplement», periodico letterario londinese, ci sollecita ogni anno a scegliere il «libro dell’anno»; alla fine del 1999 chiedevano anche il «libro del millennio». Ho giudicato la questione così futile che non ho mandato alcuna risposta. Il secolo, invece, produce senso: è la nostra vita più quella dei nostri genitori, tutt’al più dei nostri nonni. Un secolo è il tempo accessibile alla memoria degli individui.

Non sono uno «specialista» del ventesimo secolo, come può esserlo uno storico, un sociologo, un politologo, né voglio diventarlo adesso. I fatti, almeno nelle loro grandi linee, sono noti; oggi, come si dice, li si trova in tutti i buoni manuali. Ma i fatti in sé non rivelano il loro senso, che è ciò che m’interessa. Non vorrei sostituirmi agli storici, che già fanno bene il loro lavoro, ma riflettere sulla storia che essi stanno scrivendo. Il mio sguardo sul secolo è quello non di uno «specialista», ma del testimone interessato, dello scrittore che cerca di capire il proprio tempo. Il mio destino personale determina in parte il punto d’approccio che scelgo, e ciò in duplice modo: per le peripezie della mia esistenza e per la mia professione. In due parole: sono nato in Bulgaria e ho vissuto in questo paese fino al 1963, mentre era sottomesso al regime comunista; da allora abito in Francia. Per un altro lato, il mio lavoro professionale concerne i fatti della cultura, della morale, della politica, e pratico, più particolarmente, la storia delle idee. La scelta di ciò che vi è stato di più importante nel secolo, di ciò che quindi permette di costruirne il senso, dipende dalla vostra identità. Per un africano, per esempio, l’avvenimento politico decisivo è sicuramente il colonialismo, e poi la decolonizzazione. Anche per un europeo – e qui mi occuperò essenzialmente del ventesimo secolo europeo, facendo solo brevi incursioni negli altri continenti – la scelta è ampiamente aperta. Alcuni direbbero che l’avvenimento maggiore, sulla lunga durata, è ciò che è chiamato la «liberazione delle donne»: la loro entrata nella vita pubblica, la loro presa di controllo della fecondità (la pillola) e, al tempo stesso, l’estensione dei valori tradizionalmente «femminili», quelli del mondo privato, sulla vita dei due sessi. Altri privilegeranno la diminuzione drastica della mortalità infantile, l’allungamento della vita nei paesi occidentali, gli sconvolgimenti demografici. Altri ancora potrebbero pensare che il senso del secolo è deciso dalle grandi conquiste della tecnica: dominio dell’energia atomica, decifrazione del codice genetico, circolazione elettronica dell’informazione, televisione.

Sono d’accordo con gli uni e con gli altri, ma la mia esperienza personale non mi dà nessun chiarimento supplementare su questi temi; essa mi orienta piuttosto verso una scelta diversa. L’avvenimento centrale, per me, è la comparsa di un nuovo male, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato buona parte del mondo; che oggi è scomparso in Europa, ma per nulla in altri continenti; e i cui strascichi restano presenti fra noi. Vorrei quindi interrogare qui, innanzitutto, le lezioni dello scontro fra il totalitarismo e il suo nemico, la democrazia.

Presentare il secolo come dominato dalla lotta fra queste due forze implica già una distinzione di valori che non tutti condividono. Il problema deriva dal fatto che l’Europa non ha conosciuto un totalitarismo ma due, il comunismo e il fascismo; che questi due movimenti si sono violentemente opposti, sul terreno dell’ideologia e poi sui campi di battaglia; che ora l’uno ora l’altro si sono visti avvicinare agli stati democratici. I tre raggruppamenti possibili fra questi regimi sono stati tutti praticati una volta o l’altra. In un primo tempo, i comunisti considerano insieme i loro nemici (tutti dei capitalisti!), le democrazie liberali e il fascismo distinguendosi come forma moderata e forma estrema del medesimo male. A metà degli anni Trenta, e più ancora durante la seconda guerra mondiale, la distinzione cambia: democratici e comunisti formano allora un’alleanza antifascista. Infine, qualche anno prima dello scoppio della guerra, e soprattutto dopo la sua fine, è stato proposto di considerare fascismo e comunismo come due sottospecie del medesimo genere, il totalitarismo, parola rivendicata all’inizio dai fascisti italiani. Tornerò più avanti sulle definizioni e sulle delimitazioni; ma è già chiaro, dall’articolazione globale che scelgo, che questa terza distinzione ai miei occhi è la più illuminante.

La scelta dell’avvenimento maggiore restringe sensibilmente il mio tema. Non solo mi limiterà per l’essenziale a un unico continente, il mio, ma il secolo stesso si abbrevia un po’: il suo periodo centrale va dal 1917 al 1991, anche se bisognerà risalire indietro e, per altro verso, interrogarsi sul suo ultimissimo decennio. Fatto più importante, mi limito a un solo avvenimento della vita pubblica, lasciando nell’ombra tutti gli altri, come vita privata, arti, scienze o tecniche. Ma la ricerca del senso ha sempre un prezzo: essa procede per scelta e messa in relazione – che avrebbero potuto essere altre. Il senso che credo di intravedere non esclude quello degli altri – vi si aggiunge, nel migliore dei casi. Il mio punto di partenza, la duplice affermazione secondo cui il totalitarismo è la grande innovazione politica del secolo e che esso è anche un male estremo, comporta già una prima conseguenza: bisogna rinunciare all’idea di un progresso continuo, al quale credevano alcuni grandi spiriti dei secoli passati. Il totalitarismo è una novità, ed è peggio di ciò che lo precedeva.

Ciò non prova affatto che l’umanità segua inesorabilmente una china discendente, ma solo che la direzione della storia non è sottomessa ad alcuna legge semplice né, forse, ad alcuna legge tout court. Lo scontro fra totalitarismo e democrazia, come quello fra le due varianti totalitarie, comunismo e nazismo, costituisce il primo tema della mia inchiesta. Il secondo ne deriva per il fatto stesso che questi avvenimenti appartengono per l’essenziale al passato e sopravvivono fra noi solo grazie alla memoria. Ora, quest’ultima non è affatto assimilabile a una registrazione meccanica di ciò che accade; essa ha forme e funzioni fra cui è obbligatorio scegliere, la sua istituzione conosce fasi che possono subire perturbazioni specifiche, essa può essere assunta da attori differenti e condurre ad atteggiamenti morali opposti.

La memoria è sempre e necessariamente una buona cosa, e l’oblio una maledizione assoluta? Il passato permette di capire meglio il presente o serve il più delle volte a nasconderlo? Le memorie del secolo saranno dunque, a loro volta, sottoposte a esame.

Infine, anche se si tratta innanzitutto di riflettere sul senso di questo avvenimento centrale, mi vedo obbligato a prendere conoscenza anche del passato più immediato, quello posteriore alla caduta del Muro di Berlino, per interrogarlo alla luce degli insegnamenti scaturiti dall’analisi precedente. Una volta vinto il totalitarismo, sarebbe sopravvenuto il regno del bene? O nuovi pericoli incombono sulle nostre democrazie liberali? L’esempio che scelgo qui è tratto dall’attualità recente, poiché si tratta della guerra in Iugoslavia e, più specificamente, degli avvenimenti nel Kosovo. Il passato totalitario, il modo in cui si perpetua nella memoria, infine le luci che getta sul presente formeranno dunque i tre tempi dell’inchiesta che segue.

Ho scelto di mescolare a questa riflessione sul bene e sul male politici del secolo un richiamo di alcuni destini individuali fortemente segnati dal totalitarismo, che tuttavia hanno saputo resistergli. Gli uomini e le donne di cui parlerò non sono del tutto diversi dagli altri. Non sono né eroi né santi, e neppure dei «giusti»; sono individui fallibili, come voi e me. Tuttavia hanno seguito tutti un itinerario drammatico; hanno tutti sofferto nella loro carne, e al tempo stesso hanno cercato di far passare il frutto della loro esperienza nei loro scritti. Costretti a vedere da vicino il male totalitario, si sono mostrati più lucidi della media e, grazie al loro talento come alla loro eloquenza, hanno saputo trasmetterci ciò che avevano imparato, senza tuttavia mai diventare dei perentori distributori di lezioni. Queste persone provengono da paesi diversi, Russia, Germania, Francia, Italia, e tuttavia qualcosa li accomuna. Da un autore all’altro (anche se ci sono sfumature) si ritrova lo stesso sentimento, quello di uno spavento che non conduce alla paralisi; e anche uno stesso pensiero, per il quale trovo una sola etichetta appropriata, quella di “umanesimo critico”. I ritratti di Vasilij Grossman e di Margarete Buber-Neumann, di David Rousset e di Primo Levi, di Romain Gary e di Germaine Tillion sono lì per aiutarci a non disperare.

Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo? Sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori. Gli si darà il nome degli scrittori e dei pensatori che erano da vivi i più influenti, che suscitavano più entusiasmo e controversia, quando a cose fatte ci si accorge che si sono quasi sempre ingannati nelle loro scelte e che hanno indotto in errore i milioni di lettori che li ammiravano? Sarebbe un peccato riprodurre nel presente gli errori del passato.

Per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo.”

Alla fine della passeggiata saluto Todorov all’ombra di un pioppo tremulo e su sua richiesta lo lascio con sé stesso, anche per il suo desiderio di riprendere fiato. In me, un senso di leggerezza inconsueta al termine del monologo di Todorov per tutta la camminata: i dubbi sovrastano qualche sparuta anguilla di certezza. E mi sento più vivo. Nel dubbio mi ricarico. Fatte le debite proporzioni e stabilite le necessarie differenze, il dubbio è in me ed è nell’economia generale della mia vita ciò che Sciascia è stato per Camilleri, su ammissioni reiterate dello stesso Camilleri:

“Quando sento le mie batterie scariche leggo o ri-leggo Leonardo Sciascia…”

Giorgio Linguaglossa

cari Francesco Paolo Intini e amici e interlocutori,

non vi nascondo che all’epoca le risposte dei letterati a queste Quattro Domande [ndr leggi precedente post] furono, dal mio punto di vista fortemente insoddisfacenti e riduttive. A quel tempo, siamo nel 1996, cominciai a prendere coscienza che era pleonastico e anzi controproducente sollevare questioni o istanze che avrebbero potuto insospettire ed irritare le istituzioni stilistiche. Infatti, di lì a poco ricevetti una cartolina postale di Andrea Zanzotto il quale mi comunicava che «non sono interessato alla direzione presa dalla rivista» [ndr, il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, che a quell’epoca coordinavo]. Quello fu il suggello, l’imprimatur della sentenza: alle istituzioni stilistiche vigenti non interessava e (non interessa) che si mettano sul tappeto questioni «allotrie», e comunque, non formulate secondo le convenzioni chiesastiche della ortodossia culturale. Ne presi atto.

Sono passati 23 anni e la situazione di cultural lag non è cambiata, anzi, sembra peggiorata. il conformismo nazional-elitario delle istituzioni stilistiche ha raggiunto l’apice. E la riprova ne è che sull’articolo sulla poesia e la storia culturale di Mario Lunetta, nessuno dei suoi amici o estimatori ha sentito la necessità di scrivere un commento anche di due righe per ricordare le battaglie del poeta romano degli ultimi cinquanta anni, battaglie che si possono anche non condividere (e infatti il sottoscritto non condivideva affatto molte sue posizioni culturali e di poetica), ma il rispetto e la riconoscenza per un poeta intellettuale come Mario Lunetta dovrebbe essere fuori discussione anche da chi non la pensava come lui.

Penso che le 4 Domande del 1996 andavano al cuore delle questioni del fare poesia, ieri come oggi. L’Interrogazione fondamentale, di che cosa si tratta? Ma, esiste veramente?, o è una fandonia inventata da un poetucolo? Ecco, qui, proprio su questo punto ci si gioca il testimone del passaggio dalla generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Bigongiari, dei Sanguineti a quelle che hanno occupato le posizioni delle cosiddette istituzioni stilistiche. La caduta del tasso di intelligenza delle questioni teoriche e filosofiche presso le generazioni che sono seguite è stata perpendicolare e catastrofica. Gli autori educati ed edulcorati di oggi non sono in grado di dire niente di significativo sulla questione della Interrogazione fondamentale, non hanno né la competenza (non essendo poeti), né la cultura filosofica necessaria per affrontare un tale argomento.

Lucio Mayoor Tosi

L’accusa di «metempsicosi» si spiega solo in riferimento al fantasma, e ho idea che accada per il modo in cui talvolta viene esplicitato. Nelle poesie NOE vi sono esempi innumerevoli. Per questa e altre questioni d’accusa, il fatto è che sembra mancare il lettore creativo-attivo a cui queste poesie sono rivolte; un lettore capace di non prendere tutto alla lettera, al quale anche la categoria della metafora sia venuta a noia. Non ci si accorge dell’apertura che si crea grazie all’uso del frammento; che probabilmente viene inteso come ennesimo escamotage strutturalistico, mentre invece è l’esatto contrario, in quanto la “nuova” struttura serve esattamente a de-strutturare, creare varchi, consentire dissonanze altrimenti impossibili. Si dirà che ne va del “senso”, evidentemente. Già, come se il senso fosse un uccellino da tenere in gabbia…
In effetti, caro Giorgio, sembra un paradosso, quello di de-strutturare ricorrendo a una nuova, seppur labile e soggettiva, strutturazione. Ma questi sarebbero tecnicismi; e arrivo a dire che sembra un parlare da pittori (quello che tu dici del ciabattino), come faceva De Chirico quando recensiva una qualche mostra d’altri: l’impasto, la scelta del colore (tutto quel «bitume» in Caravaggio); epperò è necessario: più fisica che metafisica.

Mauro Pierno

L’agorà ha una fuga, un
cortocircuito riconoscibile. Un

gusto memorabile. Una cialda.
Un passo double che arricchisce

la sintassi, la pagina labile di un pensiero,
questo profumo di nocciola.

La gelateria noe
in fondo la trovi sempre all’ombra. Continua a leggere

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Questionario di 4 domande del 1995 sulla Interrogazione e la poiesis ai poeti di ieri e di oggi, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Plotino, Heidegger

Gif Donna sedutaGiorgio Linguaglossa

13 giugno 2019 alle 16:49

Trascrivo qui un Questionario di 4 domande che nel 1995 inviai ad alcuni autori; le risposte poi apparvero quel medesimo anno su un numero del quadrimestrale di letteratura Poiesis che a quell’epoca facevo con alcuni amici.

1) Vorrei porre la seguente domanda: se è vero che oggi la poesia è «libera», nel senso che non deve nulla a nessuno e che non deve rispondere a nessuno in quanto non v’è interrogazione o, detto in altri termini, mandato, se comunque è vero che la poesia sia soltanto l’impronta digitale di chi la scrive, e quindi un fatto «privato», ritiene che questa situazione storica sia favorevole o sfavorevole alla sopravvivenza della poesia?

2) Un tempo la poiesis (da poiéo= faccio) fu azione che, unita al canto divenne incantesimo, e unita alla mimica divenne dramma (drama da drao=faccio) rituale, cioè operazione magica, rappresentazione destinata a realizzare una presenza sacrale.

Oggi, nel laico mondo tecnologico, cosa è divenuta la poesia che ha ormai compiuto il divorzio dall’incantesimo, dal dramma rituale e dalla rappresentazione?

3) Il problema dell’interrogazione appare strettamente unito al quesito sull’ispirazione; se noi diamo a questa parola il significato etimologico, essa ci indica che la poesia sia qualcosa che nasce non dentro lo «spirito individuale» (formula infelice, lo ammetto) dell’uomo ma come qualcosa, un soffio, uno spirito? – che viene dal di fuori e si impadronisce dell’uomo; se noi riconosciamo al termine entousiasmos, entousiastes un significato affine a quello dell’ispirazione, cioè un qualificativo riferito alla Pizia vaticinante, «plena deo», non possiamo non riconoscere che l’essenza della poesia risieda fuori della poesia stessa, cioè nel mondo.

4) Ora, vorrei porre un problema, e precisamente: il legame che unisce il dentro con il fuori, cioè il mondo e la poesia, ovvero, il tempo e la temporalità della poesia, è un legame che vorrei chiamare istanza radicale o istanza temporale, che altro non è che quella problematica che il proprio tempo pone all’artista, come anche allo scienziato (anche se in modi differenti).

Quale è il Suo pensiero?

Un cordiale saluto. Giorgio Linguaglossa

Francesco Paolo Intini

14 giugno 2019 alle 22:34

domande interessantissime soprattutto l’ultima, caro Giorgio. La temporalità dello scienziato e dell’ artista che si confronta con il tempo secondo lo scienziato e l’artista. Da quello che posso arguire il tempo per il primo è qualcosa di misurabile, una delle sette grandezze fondamentali, una coordinata come quelle dello spazio. Per l’artista invece cos’è? Possiamo averne un’idea confrontando le loro opere?

Lo scienziato ha fiducia nella ripetizione dell’esperimento. Se le condizioni sono le stesse, il risultato finale sarà lo stesso.

Il tempo come successione di istanti uguali è garanzia di una successione di eventi uguali ad altri passati o futuri.

Si può dire lo stesso di un artista?
Come dire che se la Gioconda venisse dipinta oggi avrebbe i baffi.
Perché questa disparità?
E’solo perché la ripetibilità non è un concetto che appartiene all’arte o c’è qualcosa che riguarda la diversa concezione del tempo?

A parer mio è il concetto di successione di istanti tutti uguali a non avere a che fare con l’opera d’arte dove a c’entrare invece è il concetto di temporalità, ossia della problematica dell’epoca, ciò che emana dallo spirito del tempo.

Cosa c’è allora nella mente dell’artista se il tempo così concepito non gli lavora dentro? Probabilmente nulla, nient’altro che far zero il tempo a cui corrisponde un pensare per idee assolute come quelle della simmetria, valide nel definire i canoni di bellezza, per l’attrazione sessuale ma altrettanto valide in cristallografia e nella formazione dei legami chimici e in svariati altri campi. Il poeta non si discosta da questa linea di ricerca di entropia alla rovescia.

Se il tempo non esiste ogni epoca è uguale alle altre ed è legittimo, ultra attuale pensare in termini di polittico o di Commedia e di versi senza un verbo. Pensa tu allora cosa debba girare per la testa di uno che abbia abitudine per poesia ed esperimenti!

Alfonso Cataldi
15 giugno 2019 alle 15:12

Con lo studio del mondo subatomico, il concetto di tempo ha costretto a rimettere tutto in discussione, fino ad arrivare a descrivere fenomeni con equazioni in cui non esiste più la variabile tempo. Il tempo così come noi abbiamo imparato a conoscerlo e a misurarlo forse è un’illusione? Nei miei testi scrivo ormai quasi esclusivamente al tempo presente, anche azioni che la mia memoria o la memoria collettiva pone in tempi passati, superando così la convenzione che ci fa usare il tempo come classicamente ce lo hanno insegnato per meglio organizzare la nostra vita pratica. tutto esiste contemporaneamente? Ieri leggevo un’intervista dell’artista Mimmo Paladino, che fa “apparire frammenti di figure, mani, teste, elementi di una poetica che fonde spazi e epoche diverse, definendo un alfabeto di segni molto riconoscibili, che però non hanno un significato di senso univoco. Per Paladino l’artista dà vita a una materia informe che preesiste a lui. E’ un demiurgo, un essere dotato di capacità creatrice e generatrice, senza la quale “è impossibile che ogni cosa abbia nascimento”. Il demiurgo per eccellenza per Paladino è Don Chisciotte: “colui che vede cose che altri non vedono”.

Gino Rago

13 giugno 2019 alle 18:18

Benché avverta il peso ( in grado persino di schiacciarmi) delle 4 domande che Giorgio Linguaglossa srotola sul panno verde del piano inclinato del nostro tempo, tempo umano e tempo poetico, non posso sottrarmi all’invito impegnativo, sì, ma ineludibile e anche attraente dell’amico Linguaglossa se non altro per le questioni etico-estetiche ma anche tematico-stilistico-formali che le 4 domande linguaglossiane in sé contengono.

Vecchio Testamento

[contro il «no» che dentro mugghia]

La bella pittura postcubista?
Il nobile medium dell’olio?

Rimarrebbero forse le frasi piu turpi
Contro il «no» che dentro mugghia.
[…]
Nuove immagini da materiali nuovi.
Materiali eterocliti. Materiali poveri.

Il poeta del nuovo paradigma
Lascia in eredita lamiere malamente saldate.

Legni combusti. Cenci.
I segni d’amore o d’affinita per epoche remote.

I materiali effimeri. I materiali rozzi.
Le altre parole.
[…]
Le parole che negano
Sensazioni e idee della durata eterna.

I cenci. Gli stracci. Le velature.
Gli impasti. Le ombreggiature.

I sacchi vuoti
Ma pieni più di uomini vuoti.

[…]

Il ritorno an den Sachen selbst del poeta nuovo
Lascia in eredità l’arte del «no» libero

Contro il «sì» obbligato di Ferramonti e Belsen.
Viaggio incompiuto. Sorriso amareggiato.

E Milton che urla dal Paradiso Perduto: «E’ inferno.
Ovunque vada è inferno. Io stesso sono inferno.

Nessun uomo è un’isola».
[…]
Nuovo Testamento

[Vi lascio parole senza suono]

Vi lascio le schegge. Vi lascio il sole.
Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.

Vi lascio i cascami delle fonderie,
Le scorie radioattive,

La ricchezza del mondo in poche mani,
Le macromolecole di veleni.

Vi lascio le vernici, la plastica, i trucioli.
E il grafene.

Vi lascio parole senza suono,
I sentieri del dolore,

Le vie della mano sinistra,
Il catrame, le maschere, le colle,

L’alluminio in lamine per le scodelle dei cani,
Le limature, la calce viva, le polveri sottili.

Vi lascio il sorriso del prigioniero.
L’ansia d’azzurro di madri nel nero.

Vi lascio.
Vi lascio le stelle che brilleranno

E le schegge di quest’uomo nel fango.
Vi lascio il fango.

Vi lascio il canto d’un nuovo Big Bang.
E il Nulla che è tutto lo Spazio.

Vi lascio l’energia centripeta del Grande Scoppio,
L’estensione, l’esplosione, l’espansione dell’uomo

Nella Parola “altra” di Poesia.

Gino Rago

13 giugno 2019 alle 18:49

Una sintetica meditazione sulla parte finale della nota critica di Giorgio Linguaglossa sui versi che seguono:

[…]

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

Scrive Linguaglossa:

“Se si legge con attenzione questa composizione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere della decrescita felice del soliloquio plenipotenziario che è sito in un angolo remoto della mente; una ruminazione che non dice niente, che non parla al lettore, una composizione che si allontana dagli oggetti e si avvicina alla ruminazione interiore. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…”

E’ per me la certificazione della irreversibilità del coma etilico di un tipo di poesia che per anni abbiamo letto e visto scorrazzare da libro a libro, di antologia in antologia, di rivista in rivista…

Nelle vesti di medico legale Giorgio Linguaglossa ha poi fatto l’autopsia sul cadavere di questa poesia decretando la morte del cadavere freddissimo all’obitorio delle case editrici potenti dell’impero di creta della nostrana poesia.

Giorgio Linguaglossa

13 giugno 2019 alle 19:47

Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine». Premesso che amare il mondo non significa accettarne le diseguaglianze e le ingiustizie ma amarlo nonostante le disuguaglianze e le ingiustizie, qui è in questione un prius, una cosa che sta prima della divisione dell’etica dall’estetica e dello stesso politico, si intende la disposizione all’apertura verso il mondo.

Il disprezzo del mondo proprio dello spirito giudaico-cristiano nutre in sé l’idea della rottura della temporalità. Il mondo esisterebbe non in sé ma in un per noi, in quanto soggetto a passiva subordinazione alla potenza del dominio sulla physis. La temporalità del dominio è la temporalità del dominio e del disprezzo.

Di contro alla concezione greca della «pienezza del Tempo», l’escatologia giudaico-cristiana piega il Tempo al «compimento del Kairos», fin alla palingenesi in un altro tempo, il tempo della redenzione e della resurrezione. La macchina calcolante della tecnica prende posto nella temporalità giudaico-cristiana come temporalità del dominio e annichilamento della physis.

Il pensiero di Heidegger intende questo quando scrive che occorre attraversare «la storia del nichilismo e della metafisica» per potere arrestarsi dinanzi alla ineffabilità dell’essere. Il perché dell’essere sarebbe intraducibile con i mezzi del logos.

Il concetto moderno di rappresentazione presuppone l’esperienza del cogito che dà forma e sostanza agli enti. Il principio pratico-produttivo del concetto di rappresentazione riduce il mondo a «immagine» (Bild) della cosa e a oggetto che sta di fronte (Gegenstand).

Il concetto classico di Teorein significa corteo, processualità che si dispiega. La nozione moderna di rappresentazione pone in termini invalicabili la distanza del punto di vista in quanto esterno all’ente, insomma, come cogito. E il concetto di arte che ne consegue sarebbe l’immagine esterna dell’oggetto che si forma sulla superficie retinica dell’occhio.

L’arte del Moderno sarebbe quindi un’arte dell’impressione o, al massimo concedibile, dell’espressione ma mai di penetrazione del mondo, si arresterebbe alla prenotazione di una immagine. L’arte del Moderno è sostanzialmente cartesiana da almeno tre secoli, e la psicologizzazione del cogito che ne fa il freudismo si configura come una variabile dipendente, un adattamento alle nuove circostanze storiche con le quali si presenta il cogito. L’epoca della psicologizzazione del cogito verrebbe a coincidere con l’epoca dell’attraversamento della metafisica.

Le recenti tendenze dell’arte del Dopo il Moderno sembrerebbero accentuare il processo di psicologizzazione dell’arte moderna, con il che si ha il trionfo dell’estetica da oreficeria e della diffusione dell’estetica fuori dal concetto dell’estetico. Così che se tutto è estetico, nulla è estetico. E l’arte non può che defungere.

«Le ispirazioni che non fanno anticamera vanno in fumo impotenti».

«Le opere parlano come le fate nelle favole: tu vuoi l’incondizionato, ti sia concesso l’irriconoscibile».

«L’estetica non può capire le opere d’arte se le tratta da oggetti ermeneutici. Mundus vult decipi».

(T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970 p, 231 e segg.)

Lo sguardo che cade dalla poesia sul lettore deve essere come lo sguardo cifrato d’un marziano.

La poesia per essere vera, deve essere irriconoscibile.

L’arte che si sottrae al principio del montaggio è kitsch. L’arte è montaggio elevato all’ennesima potenza

Giuseppe Talìa

13 giugno 2019 alle 23:52

Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine».

Il vero cambio di paradigma sarebbe, non tanto “tutti dobbiamo morire”, quanto, invece, “tutti dobbiamo vivere.”

Celso, Il discorso vero, Adelphi

Risvolto del libro

Questo libro è una testimonianza decisiva dello scontro dottrinale fra Pagani e Cristiani. Celso, filosofo medioplatonico del II secolo, sferrò con Il discorso vero un attacco radicale contro lo scandalo della nuova religione che veniva dalla Palestina e pretendeva di sostituirsi a culti immemorabili. Col gesto di un aristocratico cosmopolita, lo osserviamo reagire all’invadenza della pìstis, della fede, là dove dovrebbe regnare soltanto la conoscenza. E insieme rivoltarsi contro la boria antropocentrica dei Cristiani, che gli appaiono simili «a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole». Dalla parte cristiana, Celso incontrò, dopo qualche decennio, l’avversario più temibile: Origene. E, per un’ironia della storia, mentre Il discorso vero, nella sua interezza, andò perduto, ciò che sopravvisse furono i frammenti che Origene ne citava nella poderosa opera di confutazione che gli dedicò. In essi, qui presentati per la prima volta in edizione italiana, possiamo riconoscere, in tutto il suo vigore, la voce di una grande civiltà su cui incombe il declino, ma che non vuole rinunciare a se stessa.

Giuseppe Talia

Cari Germanico e Mario M. Gabriele,

Ho ritrovato una traccia che credevo perduta nella prosodia.
Una traccia audio di sovrapposizioni e interruzioni dialogiche.

Una speculazione arbitraria. Una disfluenza. Una violazione.
Qualcosa o qualcuno si è introdotto. Ho chiamato il 118.

Gli esiti contradditori e la loro durata temporale preoccupano.
Non sto bene. Non sta bene. Non si sta bene. La violazione

Degli spazi interlocutori, anomalie tecniche, interruzioni,
Rare presenze regolamentari, conversazioni polifunzionali.

Pre-occupano le hit estive problematiche/non problematiche
Tra intoppi e perturbazioni, lapsus linguae e calami stratiformi.

Una meteora pre-termine. Audioregistrazioni sub-corpus.
La pragmatica descrittiva di Geoffrey Leech che attribuisce enunciati.

Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza intenzionale.

Durata breve e violenta: i muscoli involontari, all’unisono,
Supportano il parlare corrente e le variazioni di tono e di volume.

Ascoltate (mi)

Alfonso Cataldi

Cari amici dell’Ombra,

Ho problemi temporanei di vista, ho dovuto fare un laser d’urgenza per problemi alla retina di un occhio. Posso leggere poco. Volevo riallacciarmi alla riflessione di Gino Rago sulla “bontà curiosa della nostra indole animale” e sulla necessità di dominio che siamo chiamati ad esercitare nei confronti della natura, dal grado di civiltà raggiunto, che non mettiamo in discussione, con un mio testo:

“Quel monile sciamanico…”
direbbe chi osserva il polso della maestra Milena.

«I suoi alunni e tutto il corpo insegnanti erano gli unici assenti»
comunica il collaboratore scolastico.

Tra i piatti da sparecchiare
Francesca termina l’ultima stesura sulle origini della 3a C.

A Pripyat gatti selvatici di ogni forma e dimensione
hanno occupato le abitazioni abbandonate.

Un gruppo di alieni in tuta e maschera antigas
prende appunti il sabato sera:

  • l’equilibrio del disastro nucleare.
  • Le bugie allungano il naso

Dopo mille peripezie
Pinocchio scopre che il segreto della vita è nell’amore. Umano?

Troppo umano confidarsi con il legno
sradicare silenziosi di fronte alla luna.

[a dx Donatella Giancaspero, Roma, San Paolo, 2017)

Giorgio Linguaglossa

14 giugno 2019 alle 16:46

L’articolo n. 1) del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica, pubblicato sul n. 7 del quadrimestrale di letteratura “Poiesis” nel 1995 si apre con il precetto, in consonanza con la massima di Plotino, di amare l’esistenza del mondo:

1) Dobbiamo amare l’esistenza del mondo più del mondo stesso e l’esistenza dell’uomo più dell’uomo stesso. L’arte vera raffigura l’uomo intero al centro delle tre dimensioni. Il Senso abita l’intero, la totalità. La nostra casa è il mondo e la lingua che lo delimita. Ampliare la lingua ai limiti dell’indicibile significa ampliare il mondo e la nostra integrale umanità.

L’articolo ricalcava testualmente il primo articolo del terzo manifesto dell’acmeismo vergato da Osip Mandel’stam, il quale invitava ed ammoniva ad amare il mondo.

Ecco, dall’acmeismo mandelstamiano del terzo manifesto del 1919 ad oggi, siamo arrivati alla «poesia polittico» e alla «nuova ontologia estetica». C’è un filo rosso che comunica attraverso i secoli ed i millenni, e questo filo rosso è l’amore per il «mondo» inteso come esistenza delle cose che sono in esso.

Il mio pensiero è che con la «nuova ontologia estetica» e la «poesia polittico» siamo usciti fuori dalla poesia della tradizione giudaico-cristiana, che in questi ultimi secoli qui in Occidente si è sviluppata sulla matrice petrarchesca, per aderire ad una visione più antica, e quindi più attuale: la visione della poesia come Commedia, ovvero, in termini moderni, come «polittico» in grado di abbracciare tempi e spazi plurimi e diversissimi.

Giorgio Linguaglossa

15 giugno 2019 alle 17:04

Scrive Alfonso Berardinelli nel libro Poesia non poesia, Einaudi, 2008:

«La poesia in una certa misura cambia storicamente (ammettiamo per un momento che la storia esista), cioè non è sempre uguale a se stessa e va quindi descritta di nuovo quasi a ogni generazione (o epoca o periodo). Compito specifico dell’attività critica è appunto descrivere, registrare e valutare questi cambiamenti.

Ma d’altra parte la poesia conserva una sua identità di principio, se non di fatto. È interessante notare che almeno da un quarto di secolo la continuità fra oggi e ieri sembri stare a cuore agli autori più di quanto avvenisse (per esempio) negli anni sessanta, decennio apocalittico e presuntivamente rivoluzionario, quando la nozione, l’identità, la tradizione della poesia venivano contestate e sottoposte a un giudizio radicale in termini di critica marxista (e avanguardista) della società borghese».

Il ragionamento salomonico di Berardinelli è qui vistosamente ironico verso questi anni di stagnazione e recessione del pensiero critico sulla poesia, il critico romano dice cose ovvie, tanto ovvie da non poter essere confutate: che oggi nessuno o quasi si occupa di critica, anzi, la stessa parola è caduta in disuso e in dispregio. Io di solito se qualcuno mi chiama critico, interloquisco subito dicendo che non sono un critico, ma un calzolaio della poesia e che i miei strumenti sono i chiodi e il martello, oltre, naturalmente, l’incudine. Anzi, lo strumento più importante è l’incudine, lo strumento immobile contro il quale il martello può battere.

Sembra incredibile lo stupore e la meraviglia di quanti dinanzi alla nuova ontologia estetica gridano metempsicosi e apocatastasi, questo fattore dovrebbe farci venire l’orticaria per la stupida ottusità che rivela una mentalità che manifesta orrore verso un pensiero critico dell’esistente. Come spiegare a questi signori che la nuova ontologia estetica non è nulla di definito ma è un percorso, un cammino in una certa direzione…

Ho saputo che è corsa voce a Milano e in certi ambienti romani, di non dare troppo credito alla ricerca intrapresa dall’Ombra, di non farne parola o menzione per nessun motivo, di erigere una barriera di silenzio. Buffo vero? Soprattutto meschino oltre che auto liquidatorio, ma che rivela bene con che tipo di personaggi abbiamo a che fare oggi, con quelle persone che hanno le mani in pasta… come tanti Lotti che maneggiano e maneggiano al CSM per le prebende e le nomine politiche…

Per fortuna questa sembra essere la tegola definitiva per Renzi e i renziani i quali adesso possono andarsi a fondare un partitino personale…

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La fine del Progetto culturale egemonico-accademico di Le Parole e le Cose e la nascita della Nuova Ontologia Estetica. Commenti di Giuseppe Cornacchia, Mario M. Gabriele, Anna Ventura, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Nunzia Binetti, Sabino Caronia

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Giuseppe Cornacchia

Il poetico invece della poesia 2019

http://www.leparoleelecose.it/?p=35516
https://poesiafutura.wordpress.com/2019/05/01/il-poetico-invece-della-poesia-2019/
http://www.leparoleelecose.it/?p=34560

“Le Parole e Le Cose” versione 1 ha in effetti ricollocato la competenza specialistica in cima, a mo’ di classe col professore dietro la cattedra ed i banchetti in fila zitti ad ascoltare, travasando in rete parte della cultura scritta negli anni Dieci per la carta e da lì espulsa, devitalizzando di conseguenza la partecipazione della classe fino ad estinguerla. Ha in sostanza subito il mezzo più che cavalcarlo come fece “Nazione Indiana”, motivo per cui la vivacità si e’ trasferita sui social, anche per narcisismo ma essenzialmente come playground. La pretesa fondativa del tecnico competente abilitato a parlare rispetto all’onesto incompetente che deve solo ascoltare, oggi divenuta identità politica e sociale di massa, non ha aiutato ad indagare perché tanti competenti, seppur meglio equipaggiati degli incompetenti, sbaglino puntualmente le previsioni sul futuro esattamente come questi ultimi. Probabilmente il settarismo e la malafede bilanciano verso il basso la competenza, così come l’onesta’ bilancia verso l’alto l’incompetenza, facendo pari e patta nei fallimenti predittivi? Anche dal punto di vista teorico, il contributo vitalistico e’ stato qui marginale, anzi anti-vitalistico proprio nella visione di Guido Mazzoni e repressivo in quella di Gianluigi Simonetti. Nazione Indiana si chiuse sostanzialmente con la farsa a tavolino del New Italian Epic ed il miglior contributo teorico-letterario internettiano degli ultimi tempi arrivi dalla Nuova Ontologia Estetica di Giorgio Linguaglossa & sodali su L’”Ombra delle Parole”, un blog di vecchi che ha progressivamente affinato e reso presentabile la frustrazione mentre qui infuriavano Erinni e si proponevano come novità epigoni trentenni e quarantenni di epigoni cinquantenni e sessantenni, tutti ancora fermi al 1975 ed immersi nel rimpianto nostalgico. Siete stati pompieri ma la biblioteca in fiamme era forse vuota, i libri erano stati trafugati e portati altrove mentre qui si discuteva cenere?

Gif labbra occhi

Giorgio Linguaglossa

caro Giuseppe Cornacchia,

“Le parole e le cose” nasce come progetto culturale egemonico: impartire lezioni di letteratura e altro da una cattedra, dove ovviamente i cattedratici sono loro, i possessori della cultura «alta», i sacerdoti culturali, i quali si concedono al pubblico della rete internet per educarlo ed emanciparlo alla cultura d’élite. Impostazione tipica di una supernicchia culturale che intende la cultura come Verbo da non mettere in discussione e come Autenticità della lezione impartita agli sprovveduti utenti della rete. Le conseguenze di questo progetto sono state ovvie: l’esaurirsi di una esperienza fallimentare, quella supernicchia si è rivelata una scatola vuota dove non soltanto le previsioni sul «futuro» erano saccenti ed erronee, ma anche le diagnosi sul presente e il passato culturale erano stantie e accademiche, prive di alcuna capacità di elaborare una piattaforma di pensiero critico alternativo a quella elaborata nelle accademie e negli uffici stampa degli editori maggiori.

 L’unica volta che il blog si è trovato di fronte ad un intervento critico che non rientrava nei suoi schemi (un mio commento di alcuni anni fa nel quale sollevavo una domanda di metodologia critica), la discussione si è infilata subito in un tunnel di muro contro muro, il blog, nella persona della signora Claudia Crocco, si è dichiarato altezzosamente non disponibile a fornire alcuna spiegazione sulle questioni che avevo sollevato. La discussione che ne è seguita tra lo scrivente e gli avvocati d’ufficio della Crocco è andata a finire in un insulto scritto rivolto alla mia persona con conseguente mandato da parte mia al mio legale di fiducia per procedere a querela avverso le offese ricevute ai sensi dell’articolo del codice penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

Esempio probante della incapacità culturale del blog di sostenere una discussione di livello critico elevato quando si profilava un interlocutore capace di mostrare le contraddizioni e le debolezze della sua impostazione culturale arroccata su una dogmatica intangibilità e superiorità di principio.

In un’altra occasione, ho sollevato alcune problematiche circa la poesia di Mario Benedetti; anche quella volta il blog decise di chiudere unilateralmente la discussione che stava prendendo, a suo parere, una direzione che non aveva preventivato.

Questo per dire della incapacità culturale e non volontà da parte della direzione del blog a sostenere una discussione su una posizione di pari dignità intellettuale, sulla presupposizione del dogma della superiorità della cultura chiericale di cui i suoi detentori si ritenevano possessori esclusivi e intangibili.

La posizione dell’Ombra delle Parole è tutt’altra, è un luogo di ricerca letteraria e filosofica e di libero confronto intellettuale, e sicuramente la rivista si è sempre resa disponibile a fornire ampia delucidazione delle proprie posizioni a chiunque le abbia rivolto delle questioni o considerazioni.

Anna Ventura

8 maggio 2019 alle 16:40

Mi piace tanto, questa frase: ”Siete stati pompieri ma la biblioteca in fiamme era forse vuota “Mi fa pensare a questo nostro continuo correre dietro alle parole, come il criceto intorno alla sua ruota: un lavoro apparentemente inutile, eppure importantissimo. Non sottovalutiamo il dono della parola,che distingue l’uomo tra tutte le creature della terra. Come tutti i doni, la parola nasconde più di un pericolo, Perciò dobbiamo conoscerla a fondo, meditare sulle possibilità varie che offre; è un delta immenso, ma navigarci dentro può essere esaltante.

giF 1975

Ecco qui un sonetto in romanesco di

Sabino Caronia

 A Linguagro’, ma va a magna’ er sapone,
nun me scoccia’, nun me sta a rompe er cazzo,
è da ‘na vita che me faccio er mazzo
pe resta’ sempre er solito fregnone.

Passi pe quelli che nun so pippette,
pe Gino Rago, Steven ed Arfredo,
passi pe tutti, puro pe Sagredo,
ma che c’entreno mo ste suffraggette.

Fossi ‘n’omo, vabbè! ma ‘na sciacquetta
ha da venicce a smove li sbadijj
a furia de libbracci e paroloni!

Fili, fili, lavori la carzetta,
lassi perde de dà boni conzijj,
abbozzi, e nun ce scocci li cojjoni.

Giorgio Linguaglossa

7 maggio 2019 alle 12:20

Se leggiamo una poesia di Mario Gabriele ci rendiamo conto che si tratta di fraseologie, spezzoni di dialoghi intersoggettivi tra un mittente, un destinatario e un terzo (che è l’occhio del lettore). La parola aspetta sempre di essere validata (autenticata) dall’Altro; è questa autenticazione che rende adeguata la parola a se stessa, la rende significante, e non l’oggetto; o meglio, l’oggetto viene identificato per il mezzo dell’Altro che convalida e autentica la parola come proveniente da un soggetto e diretta ad un oggetto. La parola è un atto, e in quanto tale presuppone un soggetto, il quale a sua volta per essere validato deve presupporre l’autenticazione dell’Altro.

La poesia di Gabriele, la struttura frastica impiegata in realtà vive in una gabbia sintattica che rende manifesto come la comunicazione sia semplicemente una finzione, un allestimento del discorso tra interlocutori estranei ed estraniati e che da questa gabbia non sia possibile sortire fuori in nessun modo.

Il messaggio ritornerà dall’Altro al mittente locutore sì, ma in forma invertita, con un segno meno. E così via. Continua a leggere

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La nuova Poesia in Distici, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Franco Intini, Edith Dzieduszycka, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, con Commenti di Mario M. Gabriele e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

cari amici,

qui ormai stiamo fuori del «timbrificio tipografico» come si esprime con brillantissima espressione Mario Gabriele:

«c’è un apposito sportello [ndr. la NOE], dove trasferire nella rete fognaria il bel verso, la retorica, la mitologia, l’iperbato, il soggetto, la continuità,la retorica ecc., come timbrificio tipografico.

“Il distico”, con parole nostre o di autorevoli filosofi,” istituisce visivamente il nulla. Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere un distico soltanto chi ha questa percezione singolarissima”».

E Lucio Mayoor Tosi:

«Gianni Godi esce dal tempo, e sembra provenire dal futuro – indietreggiando, rivolto al nostro presente. Però sembra non avere memoria, tanto del presente, quanto del futuro. Di conseguenza, un po’ ne soffre la comunicazione. Anche perché i testi sono portati all’estremo della sconnessione… sconnessi ma, se riuniti, arrivano a comporre in mosaico…».

Sia chiaro che la brillantina tipografica della poesia dei nostri giorni con iperbato fondato sull’io è roba da timbrificio tipografico, da dentifricio fono simbolico… noi qui stiamo facendo una cosa davvero nuova e rivoluzionaria. Ad esempio, prendere cognizione e possesso di un concetto elementare che in filosofia circola da almeno duecento anni, che «le parole sono ponti interrotti», che la procedura della colonna sonora di voler dare loro un senso con una colonna fono simbolica ben costruita come ha fatto il più grande poeta del novecento, Montale (almeno il primo Montale), è da archiviare con sollecitudine. Tutta la poesia riepilogativa ed epigonica che oggi come ieri continua acriticamente a confezionare confetti e confetture dell’io, è roba da indirizzare nella pattumiera della storia stilistica, roba da passatisti in vacanza colliquale. Pensare che il poeta possa o debba dare un senso alla poesia per il tramite dei suoi alambicchi fonosimbolici e tipografici è davvero una pia illusione di professorini innocui e vanagloriosi.

Come scrive Lucio Mayoor Tosi, qui siamo in un «cantiere aperto», c’è chi afferra dal passato e dalla memoria frammenti di significato, come fa Donatella Costantina Giancaspero, e chi invece recupera dal non-tempo degli spezzoni, delle zattere linguistiche un tempo significative come fa Gianni Godi nelle sue poesie volumetriche, e chi come Gabriele riutilizza e rimette in circolo lacerti e sintagmi dei cartelloni pubblicitari della cultura occidentale ridotti ad elementi frastici non più significativi. La sostanza della NOE è varia e ampia, ciascun poeta può scandagliare i propri strumenti espressivi in piena libertà. Aver paura del «nulla» che ci si trova di fronte, indietreggiare, come fa Claudio Borghi, respingere il «nulla» accusandoci di «nichilismo», implica una fuga dalla realtà del nostro tempo e una fuga dalle proprie responsabilità stilistiche e formali. Lo spirito umano conosce soltanto le idee, demonizzare le idee significa demonizzare il mondo.

Il «frammento» compare all’improvviso, nell’immenso disordine degli oggetti, è esso stesso un prodotto di quel disordine, ma, affinché vi sia «frammento» esso deve sortire fuori da una marcatura del tempo. È il tempo il demiurgo del «frammento», suo capostipite e suo padrone. Nel «frammento» c’è tutta la potenza detonante del significante, ma come raggelato e immobilizzato, ed esso ci appare estraneo (Unheimlich), chiuso nell’ambra di un milione di anni millimetri e sepolto nella memoria. E l’assurdo è che il «frammento» ci guarda. Dal lontano passato sembra osservarci e, una volta libero dal nostro sottosuolo, esso ci domina dalla profondità della sua Contingenza.

Giuseppe Gallo

Lilli

Lilli sorrise alle macchie sul muro,
aveva intravisto il colbacco di Lenin.

Elena per scendere scelse i gradini più comodi.
Ormai dipingeva in grigio solo scale in salita.

La primavera era sopraggiunta in treno.
E i papaveri si vergognavano di rosseggiare in città.

– La morte non sa che può fare male,
ha ancora i calzoni corti e la minigonna di Mary Quant!-

Oggi non è più oggi.
…attenda in linea…

Le carpe d’argento assalivano le barche dalle sponde.
Se non hai parole non puoi avere fantasmi.

Si scrive soltanto il passato
per sorreggere la potestas e l’auctoritas.

La voce è un gesto: la bocca mi baciò tutto tremante…
ma dopo, quando si spara…

Intorno alle acacie si agita la luce,
il pappagallo la sfoglia come un libro.

Ha imparato a leggere lungo la traversata.
…è un’inchiesta sulla qualità del servizio…

La morte è una scavezzacollo… deve fare esperienza.
Ha ancora i calzoni corti e la mini gonna di Mary Quant.

.

Alfonso Cataldi

 “Pratiche da niente” in fila indiana dentro il dormiveglia.
Il contabile richiude il guardaroba.

– Le adozioni bruciavano alle spalle del convento
gli americani impararono gli orari delle prove corali.

Philomena interpreta il destino da una foto-testamento
nulla può aggiungere l’indagine di un serial killer.

Il corpo è sepolto al punto di partenza.

«Nessun riflesso ha inciso le pupille della Virgin Morena»
conferma l’entourage di Rafael Torija.

Due ex continuano a studiare i dettagli dell’abbronzatura.
Al presidio scarseggiano i mantelli taglia XXL.

È sufficiente un’altra notte di scampoli cuciti
a una madonnina che sta nel palmo d’una mano.

Giuseppe Talìa

                                   A Mario M. Gabriele e Godi

“Ehi dude! Close to me.”
“No, se non sei tra i miei contatti!”

Io sono un gi pi esse, non sono più un essere.
Il re è morto. Lunga vita ai microcip.

Arriva il vento. Il vento. Il vento.
Anemossssssssss… Kathorosssssssss…

Il freddo di ponente. Il caldo di levante.
Il vento morente. Il vento emergente.

Arriva. Arriva. Arriva.
Sfarina i fondali.

Un doppio vincolo ci unisce.
Earls Court è un amore barbaro.

Nel medioevo tecnologico,
Era u
Ora i.

Questi doni ho in tasca per gli ospiti:
fiori freschi e frutta secca, qualche tribolo.

A Fontainebleau il fantasma di Gurdjieff
impastava cocci dell’essere con smalti di vita.

Mi viene facile incollare i pezzi Ikea e Brico.
Braco (non dovrei cercare alleanze foniche).

Le gengive di Sanguineti mi masticano.
Mario M. Gabriele mi possiede.

Le parole sono pietre e vivo circondato da un muro a secco.

Mario Gabriele

caro Talia,
sei un vero professionista della parola, moderna e mai atavica. I termini commerciali come Ikea, Brico, e del mondo tecnologico riferito ai micro cips e gi pi esse, fanno parte di una discontinuità ideologica e lessicale all’interno della poesia, che estirpa tutte le radici fonologiche connesse con i vecchi paradigmi. Non c’è dubbio che con queste libere coesistenze linguistiche, si possa andare oltre certi regimi estetici già consolidati, ma è da accogliere con piacere l’uso prevalentemente nuovo che fai del verso, come idealità nuova, dal tratto verbo-iconico.

.

Gino Rago

 Una foto di Degas

Vicino a un grande specchio
Nella foto di Degas si vede Mallarmé.

E’ in piedi contro il muro.
Renoir è sul sofà.

Nello specchio (come fantasmi)
Lo stesso Degas ( con la sua camera )

E la moglie di Mallarmé (con sua figlia).
Paul Valery entra dopo lo scatto.

Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:
“Il prezzo di questa opera d’arte?”

Nove lampade a gas
E un istante di completa immobilità.

Donatella Costantina Giancaspero fotagrafa
La foto di Degas.

Pone sulla stessa linea di mira mente,occhi e cuore.
Trattiene il fiato e scatta.

Nella foto della foto di Degas
Donatella Costantina ha messo tutto.

I libri. I viaggi. Gli amori.
Gli appuntamenti mancati, le promesse mantenute.

.

Donatella Costantana Giancaspero

Grazie, Gino Rago,
fra tante foto che ho qui, non ricordavo più di averne scattata una anche alla “Foto di Degas”. Oppure, l’avevo smarrita, vai a capire… Ma vedo che tu l’hai ritrovata. Molto bene, ti ringrazio! La metterò insieme alle altre mie foto di viaggi, di amori, di promesse e appuntamenti mancati. Istantanee di istanti. Frantumi di vita. Vita in frantumi. Lampi al magnesio.

Une bonne soirée à toi, à Degas, à les amis…

 .

 Lucio Mayoor Tosi

Monsieur Gurdjjieff

« Fanculo, mi diverto. Georges
Ivanovič.». La notte si avvicina.

Il popolo è affamato. Esce il Re sul balcone.
Prende il pane; lo spezza, e dice:

«Tenete…».

Più delinquente, che bravo ragazzo.
Superpiù della poesia.

Liberi, solo se pazzi. Allucinati.
Ma liberi. Sole del Nord.

Portami a casa. Disse Georges.
Ma rideva sotto i lunghi baffi.

Ho la sifilide.

Edith Dzieduszycka

 Ricordava il cicaleccio futile da vecchia bambina viziata
della donna stravaccata sul sedile di fronte.

Dialogo quotidiano fatto di piccoli dettagli insignificanti,
di banalità cronaca silenzi. Destino insieme unico e universale.

Miliardi di corpi già sprofondati e altri destinati a sprofondare.
Senza nemmeno pensarci. Anche loro. Inesorabilmente.

Tutti quei corpi in movimento frenetici aggressivi
pronti ad affrontarsi e a combattersi,

a sopprimersi a vicenda anticipando i tempi
per ubbidire a chi sa quale oscura legge?

Di quale peso d’ossa, di quale massa di polvere
caricano una terra indifferente?

Quella terra sempre più gravida e sempre più pesante?
Fino a quando reggerà un tale carico?

Attraversò la strada, rialzò il collo del suo giaccone
e guardò in alto la facciata di casa sua.

Vide il rettangolo illuminato della finestra del soggiorno.
Gli sembrò di vedere il muoversi di una tenda.

e il passar dietro di un’ombra.
Ma forse era la finestra dell’appartamento vicino?

[Estate 2017 – Estratti sparsi dal romanzo Intrecci – Genesi – 2016]

.

 Franco Intini

METTERE I BAFFI ALL’ IO

1-INFER
RIATE

Salme:
Si muovono navi verdi. Di olio la pioggia

Donne irriducibili alle inferriate.
Un punteruolo rosso in ceppi. Due proconsoli di Cesare.

Socrate assorbito dalle cicute.
vendono palme a Barabba

La banda delle cinque fa a meno degli orologi, borghesi per giunta.
Il tempo lo è.

La legge invece è capitalista.
Una centuria suggerisce a degli ulivi di far largo alla xylella.

dal Salento a Gerusalemme.
Le successioni sanno di catena alimentare

dov’è Gesù?

Dio è morto
Io è morto.

Un pianoforte perde i denti. Musica di Schubert nelle vie di Bari.
Negli uffici stampano registri in codice binario.

Faber. L’asino, il muro del ‘61
sulla via del mare omaggiano la carovana del re.

Giuda in su.
Il Duce in giù.

.

2-CE N’È PER TUTTI.

la motozappa crea il dopoguerra
Berlino 1945, campo di sterpaglia

Su Hiroshima cresce l’ailanto
pianta alleata

scrivere la storia
con la matita di un pipistrello

senza spiegazioni
appendersi a un filo d’erba

e poi quali sono le ragioni
del contadino?

il motore vale
una pompa peristaltica

quanti figli ha fatto per la guerra?
Tanti che nessuno li conta a pranzo

Bios ci sa fare con queste cose
L’arte è un fatto mentale

Leonardo morto
Vale un colombo su Monna Lisa

.

3-MIRACLE

Premessa:

Francesco d’Assisi
Albert Einstein

Difficile camminare sull’acqua
Come viaggiare in un buco nero

l’acqua inghiotte luce
Un buco nero la mortalità

Cos’ è singolare?

.

NELL’ANNO 2100

Fu costruito il primo Santo robot
Lo chiamarono Francesco

perchè parlava con gli uccelli, un effetto
dell’Elio II che scorreva nelle sue vene

progettato per fare miracoli
invertiva la freccia degli eventi

tornò ad Assisi
abbracciando stimmate e povertà

l’italia ne rimase sconvolta,
nessun ministro della lega

fu visto il duce sotto la pensilina
piazzale Loreto tornare vuota

a Dongo non successe nulla
Claretta ricomposta

Bambina innamorata
del suo principe

Praga rifiorì nel nulla
il patto di Varsavia dissolto

molti mali ritornarono nelle ortiche
Compreso Himmler che mai nacque

Né si vide Mengele
Operare sui bambini

La tecnologia del miracolo
Rimise in piedi il palazzo vescovile

Francesco è senza sacco, ora
dinnanzi a Bernardone

Le ricchezze, i sontuosi panni
La mercanzia donata ai poveri

Da qualche punto però si torna
Anche il tempo è onda

il calore va e viene
l’ istante si conserva

se inverti la rotta il cancro sparisce
la radiografia non ha più traccia

solo la Memoria
rimane intatta

risorge
muore

Mario M. Gabriele

cari Amici,

non esiste in questo post, all’interno del distico e del frammento, una sola poesia che sia in distonia con i testi presentati. Sembra un teatro di voci dove la vocalità si articola su linguaggi quasi pre-futuri.

Tutto questo lo si deve agli esiti poetici di Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Donatella Costantina, Guido Galdini, Carlo Livia, Silvana Palazzo, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Franco Intini, Lucio Mayoor Tosi, Edit Dzieduszycka e Francesca Dono: un vero e proprio Gruppo NOE, senza sbaragli irreversibili, anzi, devo dire di non trovare debolezze estetiche, ma approvvigionamenti linguistici di singolarità tecnologica.

A questo approdo concorrono, evidentemente, consensi unanimi, fuori da ogni composizione artificiosa e lirica; e penso pure ad una opzione meta letteraria che non va abbandonata.

Ciò lo dico perché ci stiamo lavorando da tempo, per proporre un nuovo modo di fare ricerca sotto un’unica sigla, che può incontrare anche pareri discordi, senza ricorrere a giudizi Keep Out, che avviliscono ogni fare poetico. Grazie e Buona Pasqua a tutti.

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Poesia polittico di Gino Rago e Letizia Leone con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

13 aprile 2019 alle 9.24

Un polittico in distici

[Il gesto estetico in Leone-Linguaglossa-Matusali-Ortona
nella fermezza di uno sguardo storico-socio-antropologico]

Emanuele Di Porto sul 404 con una scatola da 6

16 ottobre 1943 (al Ghetto di Roma la caccia agli Ebrei).
1024 anime. Senza strepiti. Senza perché.

Per alcuni neanche il tempo di cominciare a vivere.
Tornano in sedici dall’inferno dei forni.

15 uomini e una donna soltanto. E non parlano.
Tacciono per anni. Preferiscono guardare il Tevere.

Non odono da tempo voci umane.
Risentono cani che abbaiano. Soltanto cani. Nelle divise.

Dentro le svastiche. Negli stivali sempre tirati a lucido.
Non dimenticano i fili di fumo. Il cielo tagliato in due.
[…]
I migliori colori. Gli argenti sotto gli arazzi.
I ritratti. I paesaggi. Le nature morte.

Le tele di lino del Belgio alle pareti sono ricordi.
Un mondo muore quel giorno con loro.

Lasciano in eredità non oggetti senza vita ma cose.
Le cose dell’io frantumato. La coscienza calpestata.

La memoria umiliata. L’identità derisa.
La spoliazione. La musica forzata sulle fosse.

La babele di lingue.
[…]
Lasciano alla ruggine dei fili spinati brandelli di carne.
Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.

Segatura impastata con colla di pesce.
Stoppa. Smalti. Vernici.

Lenzuoli sovrapposti. Federe incollate.
Stoffe di tappeti. Sacchi. Cortecce. Reti di metallo.

I cenci cuciti alle intelaiature della Storia.
I materiali della disperazione. Il disastro.
[…]
Ripartono da qui l’Arte e la Poesia.
Da nuove parole di resti di stoffa.

Questi versi di scampoli,
Questi nuovi colori di scarti … I grumi di un Evento.

Su queste parole-immagini di stracci e vinavil
Pioveranno daccapo i fiori dai ciliegi.
[…]
30 settembre. Domenica. Dalle 10 alle 19
Arrivano quasi tutti, l’uno dopo l’altro.

Da Turcato a Paladino a Cascella,
Da Ontani a Guttuso a Rotella.

Allo Spazio espositivo di Piazza San Pancrazio,
Verso Villa Pamphili, N. 7,

Si appendono da soli alle pareti
Afro, Cucchi e Schifano.

Pizzi Cannella, Enotrio e Dorazio
Attendono Warhol, Capogrossi e Baj.

La fenomenologia dell’arte non tollera i ritardi.
Gillo Dorfles in un angolo al buio

Parla di Kandinsky, di Estetica, di Klee,
Di verde verticale a qualche grattacielo.
[…]
Uno schianto sull’asfalto. L’ultimo pino di Respighi,
Giosetta Fioroni bacia Goffredo Parise.

«A Via Flaminia … Stasera. Prima da Rosati,
Poi dai Fratelli Menghi. Tutti a cenare a sbafo …

Domani dalla De Donato. Al Ferro di Cavallo
Burri ed Emilio Villa regalano cartelle.

I volti narrano l’Io nei vapori,
Le storie dei momenti solitari».
[…]
A Santo Stefano del Cacco
Il dottor Ingravallo pasticcia con le lingue,

Carlo Emilio Gadda fa lo sciopero della fame,
Un vestito blu sul Piè di Marmo.

A Norimberga. Letizia Leone si veste di viola.
Un solo colore per tutto il dolore.

Il sangue. La carne. Il midollo.
I capricci di pochi. La morte del mondo.

Piazza dei Quiriti. Nei panni di Rugantino
Giulio Cesare Matusali intreccia le sue maglie,

Puro atto estetico, il gesto prima del progetto,
L’antilingua, la parola del Papa, il sonetto, il Belli.
[…]
Giorgio Linguaglossa getta monete nel Fontanone.
Cattura ombre e sole nel cavo della mano.

Wittgenstein dall’acqua:
«Gli oggetti semplici contengono l’infinito…»
[…]
Al Prenestino. Giorgio Ortona
Al tridimensionale aggiunge la Memoria,

La fermezza dello sguardo
Sugli orizzonti mobili del gusto,

Le visioni oltre il percettivo,
L’arte del giudizio, i fatti sui fattoidi.

L’Evento. L’Opera. Le mappe …
L’atto che ri-crea

Emanuele Di Porto sul 404 con una scatola da 6.

Poesie di Letizia Leone da Viola norimberga, Progetto Cultura, 2018 pp. 100 € 12

Letizia Leone 1 frase Viola nrimberga

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Colloquio sulla nuova poesia con Poesie tra Mauro Pierno, Giuseppe Gallo, Lucio Mayoor Tosi, Guido Galdini, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa

 

foto-ombre-sfuggenti

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri

Giuseppe Talìa

7 aprile 2019 alle 0.33

Di cellulite non ne soffro,
di cellulosa sì.

Acido glicolico la sera,
acido ialuronico la mattina:
stabilizzano gli acidi gastrici
e mettono ordine.

I pori si richiudono, la grana
della pelle si ricompatta.
L’aspetto generale risulta luminoso.

Tisane, thé, qualche caffè.
I carciofi depurano il fegato.

La curcuma colora di arancione la lingua:
lingua spirituale, lingua come spada o lecca lecca.

Check up completo. Il corpo regge.
La mente ondivagante, invece, mente.

Oggi bianco e domani nero.
Frammenti di ricordi.

Qualche frammento manca.

La prova costume è un disastro?
Nessuna paura, abbiamo una soluzione.

Cambia utente. Prodotti farlocchi.
Sotto un cavolo firmato Guttuso
mentre si aspetta una ecografia prostatica
con la vescica piena.

Gli unici amici che ho sono i mei cani.
Segue foto; cani e una pecora in giardino.

Quanti like tra gli animalisti e opinionisti
di seconda o terza categoria.

E con il reddito di cittadinanza…
croccantini a volontà.

 

Mauro Pierno

14 febbraio 2019 alle 18:13

L’albero socchiuso ha la palpebra accennata
tollera in eterno questa alternarsi di funi

per parità affine al giorno ed al buio.
Questo che addomestichi Eva sono lo scontrarsi

di particelle elementari, nelle autostrade sfitte,
così come nelle elegie elementari; la casa che tendi

ha un giardino meraviglioso, la vita scrostata dalle statue, che scendi,
evidenzia polvere colorata.

Indossa una cintura nell’atto di spazzare.
Adamo attorciglia il prato con le stelle.

 

Guido Galdini
20 febbraio 2019 alle 11:19 

da Appunti precolombiani:

per corazza indossavano il chauapilli,
una veste spessa di cotone,
che, intrisa d’acqua salata,
acquisiva una durezza leggera e sgusciante,
e aderiva alla pelle come le squame di una sirena

potevano allora, madidi del suo canto,
immergersi nell’oceano delle frecce,
risalire la corrente, sfuggire
incolumi al richiamo, più subdolo, del silenzio.

Postilla armigera:
anche gli spagnoli hanno apprezzato
l’utilità di quest’armatura,
sostituendo la pesante ferraglia
che indossavano all’arrivo nei porti:
ma, per loro, le sirene
non si sono degnate nemmeno di tacere.

Giuseppe Gallo

16 febbraio 2019 alle 8:07

 Ecco una risposta di qualche rilievo di Massimo Donà ad una domanda altrettanto importante:

«Una delle caratteristiche dell’arte – e con essa la poesia – possiamo dire essere la sua capacità di rompere quei legami semantico-sintattici che danno forma al mondo così come noi lo conosciamo e grazie ai quali noi attribuiamo significato alla realtà.

In quale rapporto stanno l’arte e la filosofia? Possiamo dire che l’arte da sempre è anche filosofia nella misura in cui il suo rappresentare e manifestarsi costituiscono una reale provocazione per il pensiero e la riflessione, rivelando ciò che muove dal fondo l’agire dell’uomo?

Certo, la poesia e l’arte “pro-vocano” da sempre i filosofi – e proprio per i motivi che ho appena indicato. È pur vero che ogni forma dell’agire umano è mossa da un fondamento che non ha ragione alcuna (in quanto fondamento di tutto); e che proprio a partire da questa irragionevole ragione muovono anche le parole del poeta, o più in generale le forme dell’arte. Ma queste ultime mai dimenticano – come capita invece a tutti noi, nel quotidiano –, il fondamento di cui sono espressione. Quello stesso che, in quanto tale, non può tollerare finalità che non si esauriscano nel semplice dispiegarsi di forme artistiche che non muovono mai un passo in avanti. Ecco perché le parole della poesia e le forme dell’arte in generale non significano propriamente “nulla”; appunto perché, in esse, a dirsi e dispiegarsi, è appunto un fondamento (o arché) che, in quanto “in-condizionato”, finisce per dire sempre e solamente se medesimo. Ossia, nulla di de-terminato. Facendosi semplice “negazione” di ogni determinatezza, e dunque di ogni significato, e di ogni finalità; quelli stessi che la vita, invece, mai può fare a meno di darsi e proporsi. Perché la vita quotidiana non sa del fondamento che la rende possibile, ma riconosce le cose e le persone solo in relazione a fini e scopi sempre ancora da raggiungere, e soprattutto non ancorati ad alcun incondizionato, ma liberi di essere raggiunti  o mancati – anche perché, ai nostri occhi, si danno come semplicemente “altri” da quel che le cose tutte sarebbero, in quanto semplici significati, in quanto parzialità ritenute vincolate ad un “negativo” ridotto a mera “alterità” (secondo il dettato del Sofista platonico)».

Lucio Mayoor Tosi

16 febbraio 2019 alle 18:12

Vorrei conoscere il parere di Giorgio Linguaglossa, in merito a un aspetto della nuova poesia di cui si è parlato ancora poco: chi è il lettore della nuova ontologia estetica, come legge e cosa apprezza di questa poesia?

Ho riletto le due poesie postate nei commenti, quella di Giorgio e quella di Mauro Pierno. Più volte. Il tono alto e l’andamento epico della prima, contrasta con l’enigma di alcuni versi contenuti nella poesia di Pierno. La prima avrebbe potuto benissimo reggere il verbo al presente, è una metafora stralunata, inconscia, fatta della materia dei sogni, inquieta come a me sembrano spesso le poesie di Giorgio; la seconda, se letta con occhiali di vecchia ontologia, corre il rischio di passare inosservata… Ma non è così: sia il primo verso “L’albero socchiuso ha la palpebra accennata” che l’ultimo “Adamo attorciglia il prato con le stelle” hanno preziosità, che a un lettore NOE non dovrebbero passare inosservate. Non sembrano derivare da T. Tranströmer ma si potrebbe dire che sono di quella scuola – Tranströmer scriveva poesia piegando il ferro della prosa…

Giorgio Linguaglossa

16 febbraio 2019 alle 18:55

caro Lucio,

è vero, la mia poesia potrebbe essere messa con i verbi al presente, non so, ci devo pensare… è una possibilità… è una mia vecchia poesia che non mi soddisfaceva, ho eliminato molte perifrasi inutili che appesantivano il già pesante clima di dramma incombente. Non so, vorrei sapere il parere dei lettori.

La poesia di Pierno la trovo esilarante. In lui c’è un virtuosismo che fa deragliare il senso delle singole frasi, che sorprende l’attesa del lettore… sì, Pierno ha subito il fascino di Tranströmer, ma come non subirlo? soltanto i non-poeti possono non subirlo, Tranströmer ha cambiato il DNA della poesia occidentale, e chi non lo capisce e non lo ha capito finora non lo capirà mai.

Quanto ai lettori di poesia, che oggi sono scomparsi, penso che la nuova ontologia estetica debba semplicemente crearselo il nuovo lettore. Un compito tremendamente difficile. Del resto continuare a fare poesia alla maniera di Roberto Carifi (tanto per fare un nome) è ormai inutile, a che servirebbe? E non solo perché è stata già fatta, quanto perché quella è una via che la storia ha sbarrato con del filo spinato. Quelle poetiche si sono esaurite da tempo immemorabile, e chi non se ne è accorto dorme sonni tranquilli…

La poesia di Pierno la trovo brillante, fresca, frizzante. Ecco, lui fa una poesia frizzante, tutta sul presente, che si esaurisce nel presente, proprio come le bollicine dell’acqua frizzante… Pierno riesce benissimo a fare bollicine di gas elio…

E poi c’è la questione gigantesca della poesia narrativizzante che si è fatto in questi ultimi decenni che, letteralmente, fa morire di noia gli eventuali sparuti lettori di poesia…

Guido Galdini

17 febbraio 2019 alle 8:01

E perché non al futuro, semplice o anteriore, o al congiuntivo presente, a qualche condizionale, all’imperativo…

Potrebbe essere una modalità (solo elettronica) in cui il lettore sceglie, in cima, il tempo, e tutta la poesia si adegua.

Giorgio Linguaglossa

17 febbraio 2019 alle 10:19

Forse hai ragione tu, Guido, si potrebbe mettere in internet un testo che preveda la possibilità di modificare i verbi a piacimento del lettore; sarebbe un ottimo modo per coinvolgere i lettori di poesia e dar loro una parte attiva nella costruzione di una poesia. Una sorta di ipertesto.

Caro Giuseppe Gallo, le parole del filosofo Massimo Donà che tu hai citato sono quanto mai pertinenti, bisogna ragionarci sopra, la poesia, come ogni altro manufatto dell’universo, non ha alcun senso né alcun fondamento. Non c’è da stupirsi o da disperarsi per questo, dio è morto da un pezzo, per fortuna oserei dire, le ragioni ce le diamo da soli, i fondamenti ce li diamo da soli… ma guai a quelle organizzazioni di partito o quei movimenti culturali che hanno preteso di dare delle ragioni o dei fondamenti alla praxis degli uomini.

Qualcuno, mi spiace dirlo, mi scrive ogni tanto o mi dice che la nostra proposta di poetica, diciamo così, sarebbe costrittiva perché il distico ingabbia e altre parole consimili, qualcun altro ci accusa di scrivere tutti allo stesso modo etc. Ovviamente io respingo al mittente queste accuse e le ribalto contro i mittenti dicendo che è la poesia che si scrive in miliardi di esemplari ad essere irriflessa e inconsapevole in quanto adotta dei metri e uno strofeggiare che si rinviene in miliardi di esemplari! È vero proprio il contrario! Come non capirlo? Qui noi stiamo soltanto investigando nuovi modi di interpretare quei luoghi retorici che sono sempre lì e che non debbono essere ripetuti alla cieca se non si vuole ricadere nell’epigonismo di massa.

Un aneddoto. Tempo fa, un editore rifiutò di pubblicare una mia raccolta scrivendomi che la mia poesia «era spiccatamente teatrale». In questo giudizio si può misurare tutta l’incompetenza di chi lo ha emesso. Come se la poesia tutta non fosse una cosa eminentemente orale e teatrale che si presta non solo alla lettura ottica ma anche alla recitazione!

Sottoscrivo in pieno quanto affermato dal filosofo sulla poesia come «archè», la poesia è un atto «incipitario» che non ha in sé alcuna «finalità», alcun «senso», ha soltanto un «inizio»… e questo sia detto con tranquillità, chi cerca il senso può comporre delle preghiere, degli epitalami, degli epitaffi, degli aforismi, dei romanzi veristi, delle illustrazioni… il campo è ampio…

Giorgio Linguaglossa

21 gennaio 2019 alle 10:50

Qualche giorno fa un lettore mi ha chiesto quali siano i punti qualificanti della «nuova poesia» denominata «nuova ontologia estetica». Beh, penso che la riflessione odierna di Steven Grieco Rathgeb sia un contributo fondamentale sulla «nuova poesia», si tratta di una indagine a campo aperto sulla «nuova poesia», sui concetti fondamentali di «tempo interno», «tempo esterno», sul «montaggio in cinematografia e in poesia», sulla «pressione del tempo interno», sulla spazializzazione del tempo e la temporalizzazione dello spazio in poesia, sui concetti fondamentali di «disfania» e «distopia» (in poesia), sul concetto di «immagine» in poesia con i riferimenti doverosi all’haiku, a Tranströmer e Celan…

Perché sia chiaro che una «nuova ontologia estetica» implica un diverso concetto sulla «ontologia pratica vigente», che si tratta di un atto rivoluzionario, nel senso che sconvolge le regole cui ci eravamo assuefatti, indicandone nuovi sensi, nuove significazioni, indicando nuove apertura politiche, nuove pratiche esistenziali, nuove esperienze…

Una «nuova ontologia estetica» indica sempre un nuovo modo di indicare la «cosa», nominare il mondo, abitare la terra, abitare il divino, abitare tra le parole, sostare nella disfania, misurare la diafania delle parole, perché le parole sono importanti, in sé e per sé, e per noi, per la comunità, per contrastare la deriva verso quelle che un filosofo italiano, Maurizio Ferraris,1] chiama le «postverità», le «mesoverità», le «ipoverità» e le «iperverità» «documediali», quelle zattere linguistiche che si moltiplicano nelle civiltà del post-immaginario di massa dell’Occidente, nel cosiddetto post-contemporaneo che si nutre di fake news, di twitter, di facebook, di instagram, di sms…

Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in tempi non sospetti, in Dialettica dell’Illuminismo (1947):

“La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”. Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti agli scrittori e ai poeti di oggi, che sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri.
È lui il primo uomo che impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica»; infatti, chiama se stesso «Udeis», che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini strumentali, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa», una ambiguità, una falsità. Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa direttamente) ma il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».

La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.

1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017 pp. 182 € 13

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Stralci di  Giorgio Agamben, un Appunto di Giorgio Linguaglossa, l’artista è l’uomo senza contenuto che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla, Poesie di Edith Dzieduszycka, Mauro Pierno, Giuseppe Talia, Marina Petrillo

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L’artista è l’uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla

Scrive Giorgio Agamben:

«Ciò di cui l’artista fa esperienza nell’opera d’arte è, infatti, che la soggettività artistica è l’essenza assoluta, per la quale ogni materia è indifferente: ma il puro principio creativo-formale, scisso da ogni contenuto, è l’assoluta inessenzialità astratta che annienta e dissolve ogni contenuto in un continuo sforzo per trascendere e realizzare se stessa. Se l’artista cerca ora in un contenuto o in una fede determinata la propria certezza, è nella menzogna, perché sa che la pura soggettività artistica è l’essenza di ogni cosa; ma se cerca in questa la propria realtà, si trova nella condizione paradossale di dover trovare la propria essenza proprio in ciò che è inessenziale, il proprio contenuto in ciò che è soltanto forma. La sua condizione è, perciò, la lacerazione radicale: e, fuori di questa lacerazione, in lui tutto è menzogna.

Messo di fronte alla trascendenza del principio creativo-formale, l’artista può, sì, abbandonandosi alla sua violenza, cercare di vivere in questo principio come un nuovo contenuto nel generale declino di tutti i contenuti, e fare della sua lacerazione l’esperienza fondamentale a partire dalla quale una nuova stazione umana diventi possibile; egli può, come Rimbaud, accettare di possedersi soltanto nell’estrema alienazione, o, come Artaud, cercare nell’al di là teatrale dell’arte il crogiolo alchemico in cui l’uomo possa rifare il proprio corpo e conciliare la propria lacerazione; ma, benché creda di essersi così portato all’altezza del proprio principio, e, in questo tentativo, sia realmente penetrato in una zona dove nessun altro uomo vorrebbe seguirlo, in prossimità di un rischio che lo minaccia più profondamente di qualsiasi altro mortale, l’artista resta tuttavia ancora al di qua della sua essenza, perché ha ormai definitivamente perduto il suo contenuto ed è condannato a dimorare, per così dire, sempre a fianco della propria realtà. L’artista è l’uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla dell’espressione ed altra consistenza che questa incomprensibile stazione al di qua di se stesso».1

1] G. Agamben L’uomo senza contenuto, Quodlibet, 1994, pp. 83-83

Appunto di Giorgio Linguaglossa:

L’affermazione di Agamben dell’artista come «l’uomo senza contenuto» si attaglia in maniera mirabile alla poesia della nuova ontologia estetica che ha convertito la «mancanza di contenuto» in forza propellente. Nella poesia kitchen vengono riciclate le situazioni rigorosamente pop, le parole ibernate, gli stracci, i bottoni delle divise da netturbino, le tessere dell’Atac, i biglietti dell’autobus, minutaglie, rigatterie… i poeti kitchen sono dei rigattieri, commercianti del bric à brac, chirurghi di fasullerie, trafficanti di opzionerie, di reperti; pongono nella rigatteria dei bottoni demodé anche l’«io» con tutto il repertorio di pessima metafisica e dei suoi corollari servizievoli; riutilizzano i cimeli come carta assorbente, incartapecorita, carta da tappezzeria invecchiata e fuori uso. La poesia kitchen parla del nulla al nulla, sa di nulla, totalmente occupata dall’inessenziale, ingombra di masserizie, di referti, di cadaveri, di scarti, di isotopi dismessi e radioattivi, composta di superfluità; poesia effimera, melliflua, antimetafisica, situazionale, posizionale, che manca di essenza e aborrisce qualsivoglia essenza, qualsiasi posizione privilegiata o punto di vista altometrico o altolocato; poesia composta da attrezzerie inutilizzabili, infungibili, oggettistica da Buster Keaton. Poesia impermeabile alle lusingherie delle poetiche impegnate sul senso o sul decoro, sulle soperchierie da guida Michelin della ricerca del «fare anima» e del «fare senso» con tanto di stellette dei ristoranti à la page.

Gif Moda

una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere

Giorgio Linguaglossa:

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»?. Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Meister Eckhart ci ha parlato del «vuoto» quale esperienza interiore essenziale per accedere alla dimensione spirituale, ovvero, fare «vuoto» come distacco dai propri contenuti personali per poter accedere ad una dimensione più vera e profonda.

È da qui che ha inizio la riflessione poetica dei poeti nuovi dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica, dal punto di congiunzione tra temporalità e memoria. Quel punto opaco, insondabile dove hanno avuto luogo gli eventi significativi, paradossalmente opachi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci.

La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

I grandi poeti lavorano incessantemente per tutta la vita attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. In questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

perché istituisce una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere, dove l’assurdo della denotazione collima con il rigore del pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza intuitiva l’eterogeneo e il contraddittorio che permea l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa, assunto che viene invalidato dal pensiero della communis opinio ma che è inverato dall’esperienza della metafora nella poesia, dove essa si rivela essere un concentrato di impossibilità drasticamente verosimile ed immediatamente intuitiva.

T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42

gif donna in corridoio

L’esistenza ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente

Domanda di Giorgio Linguaglossa:

L’esistenza ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente

La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse sono lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza «credenze», ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue «credenze».

Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. L’esserci ha terrore del vuoto, e cerca di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi, di esorcizzarlo e lo sostituisce con le credenze (Trump, Orban, Putin, Salvini, papa Francesco, Cristianesimo, Islam, Lega, 5Stelle, PD, Unione europea, Cina, Russia, Mondo etc… una infinitudine di «credenze» che costituiscono la sostanza della civilizzazione)

Oggi, nelle società post-democratiche dell’occidente l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa, biologica, e il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici dell’Occidente fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori, è la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Per esempio, ciò che si legge nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita». Continua a leggere

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Roberto Carifi, Poesie da Amorosa sempre Poesie (1980-2018), La Nave di Teseo, 2019 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

 

Foto Selfie uomo

Roberto Carifi è nato nel 1948 a Pistoia, dove risiede. Le sue raccolte di poesia: Infanzia (Società di Poesia, 1984), L’obbedienza (Crocetti, 1986), Occidente (Crocetti, 1990), Amore e destino (Crocetti, 1993), Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, 1993), Casa nell’ombra (Almanacco Mondadori, 1993), Il Figlio (Jaka Book, 1995), Amore d’autunno (Guanda, 1998), Europa (Jaka Book, 1999), La domanda di Masao (Jaca Book, 2003), Frammenti per una madre (Le Lettere, 2007), Nel ferro dei balocchi 1983-2000 (Crocetti, 2008), Madre (Le Lettere, 2014), Il Segreto (Le Lettere, 2015). Tra i saggi: Il gesto di Callicle (Società di Poesia, 1982), Il segreto e il dono (EGEA, 1994), Le parole del pensiero (Le Lettere, 1995), Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, 1997), L’essere e l’abbandono (Il Ramo d’Oro, 1997), Nomi del Novecento (Le Lettere, 2000), Nome di donna (Raffaelli, 2010), Tibet (Le Lettere, 2011), Compassione (Le Lettere, 2012). È inoltre autore di racconti: Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, 1996), Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, 2001), Destini (Libreria dell’Orso, 2002); e traduttore, tra l’altro, di Rilke, Trakl, Hesse, Bataille, Flaubert, Racine, Simone Weil, Prévert, Rousseau, Bernardin de Saint-Pierre; Amorosa sempre. Poesie (1980-2018) (La nave di Teseo, 2018).

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Adesso che abbiamo sotto gli occhi l’ampia antologia delle poesie di Roberto Carifi, possiamo tracciare la linea di sviluppo che ha percorso la sua poesia che compendierei così: dalla poesia neo-orfica degli inizi del 1980 alla compiuta narrativizzazione della forma-poesia delle ultime raccolte che si andrà accentuando a far luogo dagli anni novanta fino ai giorni nostri. Perché sia accaduto proprio questo, perché la parabola della poesia italiana dagli anni settanta ad oggi  sia defluita nell’ampio delta di una poesia narrativa o narrativizzante, resta a tutt’oggi un problema aperto, ed è il vero problema cui la poesia italiana più consapevole si trova di fronte. Il dato di fatto di questa parabola resta indubitabile ed ha le sue ragioni storiche e stilistiche che potremmo individuare in questi termini: nell’esaurimento delle poetiche propulsive che sono state messe in campo durante gli anni ottanta e novanta dalla compagine dei «nuovi» poeti: da Giuseppe Conte e Milo a De Angelis, che ha preso il nome esaustivo di «poesia neo-orfica» che ben tratteggia lo spettro (da destra a sinistra) della nuova poetica messa in campo. Le figure carifiane della madre, dell’angelo e dell’infanzia perduta («Caduta angeli d’infanzia» è il titolo di una sua raccolta), è la ternità da cui si dipana una poesia fortemente accentuata sul piano anti sperimentale con corto circuiti semantici, intensificazioni linguistiche e scorciatoie di una lessicalità che puntava alla nuda dizione memoriale («un luogo qualunque dell’infanzia»; «l’infanzia chiede di entrare nel fuoco degli anni») con slittamenti nell’elegia compositiva («i volti prosciugati dell’amore»; «ognuno ha una madre che trafigge»), con la percussiva presenza del tema dell’«esilio» e del «mistero» («Ciascuno ha un mistero, un ago/ che lo ricuce al nulla»); con il tema della maternità trattato mediante catacresi di tipo elegiaco («Madre scolpita nel dolore, forestiero al tuo ventre»). È un universo stilistico aurorale che si esprime mediante un linguaggio povero e umile.

Annota Andrea Temporelli:

«Le prime esperienze poetiche di Carifi, tuttavia, si muovono su un più duro terreno fonosimbolico: siamo del resto nella seconda metà degli anni Settanta e in zone dell’esperienza creativa in cui sperimentalismo e orfismo si intersecano (oggi, credo sia rimasta solo la rivista “Anterem” a portare avanti il discorso da questo limen). L’opacità della lingua che si muove pastosamente sulla pagina, creando ingorghi, scivolamenti, catturando insomma una tensione espressiva da liberare magari improvvisamente con tmesi e improvvisi enjambements, è evidente per esempio nella poesia che porta lo stesso titolo della raccolta d’esordio, Simulacri:

carnet d’incauti appuntamenti
la trova assente come
di lusso e miseria la vide figlio
eccitato e regredito la
consumò e rimase
quando di stucco l’altro (benché impossibile)
rispose (amico finché la membrana vischiosa)

tra angelo e bestia stanco dis
seminare mancanze crudele e bianco
di notti bianco biancore abiterò
mistico e poeta gridando
la la lalangue è questo
peregrinare angelico

amore di doppio corpo amore di
corpo di doppio al mercato
del bimbo stupendo amore di bête
amore di bêtise:
l’amore l’azzurro sacrale di Uno
l’icona di marmo
l’amour

Il procedere della scrittura con passo surrealista e tono incandescente già si avvale di un ricco patrimonio culturale (Rilke, Lacan) per proclamare la propria anfibia condizione di “mistico e poeta”, ben inserito in una cosmologia che lo vuole esiliato in un regno intermedio “tra angelo e bestia”, intento a ricostruire sulle rovine del linguaggio la lingua dell’in-fans, legata all’effigie materna e ancora partecipe della figura del doppio (l’angelo androgino) che precede il formarsi dell’ordine simbolico e desiderante del pensiero adulto.1]

Strilli Busacca è troppo tardi“L’angelismo è il mio télos”, dichiara il Carifi»; «la tecnica è violenza, ontologia senza segreto»,2] scrive Carifi che interpreta in modo personale un pensiero heideggeriano, un pensiero spinto alle  estreme conseguenze fino alla rinuncia alla «tecnica». E questa rinuncia indubbiamente segna lo stile del primo Carifi fino agli anni novanta quando interverrà una naiveté, l’abbandono del tono oracolare e incipitario della raccolta d’esordio e un comportamento prosastico che, sì, fungerà da correttivo dell’elegia e della impostazione neo-crepuscolare che stavano al fondo della poesia del suo periodo aurorale degli inizi, ma tenderà a determinare uno stile che espunge dal proprio demanio la radicalità della metafora, la dissonanza, qualsiasi cacofonia o distonia puntando invece sulla confluenza delle lessicalità e dei ritmi in un unico contesto compositivo.

«I topoi della poesia di Carifi sono allo stesso tempo metafore letterarie e filosofiche: esilio, erranza, evento, destino, caduta, vuoto, cenere, rovine, disastro, debolezza, tracce, simulacri, distanza, infanzia e luogo, angelo e dimora, viandante e straniero, viaticità ed abitare. Sono metafore che si radicano al colloquio tra parola filosofica e parola poetica, all’Heidegger che legge Hölderlin, Rilke, Trakl e George, al Celan della “via creaturale” e dell’evento, allo Jabès dell’interrogazione e del silenzio, al Nietzsche che inaugura il pensiero del “sospetto”. Richiamano l’angelo caduto, della custodia o maledetto, l’angelo di Baudelaire, di Hölderlin o di Artaud, la casa e l’infanzia: Hölderlin, Novalis e Trakl; l’Empedocle sempre di Hölderlin: il pensatore e il cantore, la vicinanza tra pensiero e poesia. Le metafore di Carifi nascono da questa vicinanza e da Rilke a George, i poeti prediletti sono pensatori che parlano poeticamente e da Nietzsche a Heidegger, i filosofi sono quelli che parlano attraverso le immagini dei poeti».3]

In Viaggi d’Empedocle, appare chiara la tendenza ad un disboscamento dei topoi retorici  con conseguente infoltimento dell’universo simbolico e una intensificazioni di «voci» esterne che pronunciano misteriose sentenze apodittiche; ritornano le tematiche dell’infanzia il tutto in un clima avvolgente di dramma imminente. Si avverte un infoltimento  di sintagmi oscuri, di colpe non espiate, oscure, la presenza del mondo dei morti, il senso di perdita, un universo monocromo, una suggestione per le tinte cruente, per le visioni minacciose.

Questa drammatizzazione scenografica, viene intensificata nel successivo libro, Infanzia (1984),  nel quale Carifi trova il suo linguaggio più delicato ed equilibrato. Non a caso il lessico e lo stile si riaggancia in qualche modo a quello di Luzi:

Il posto dei ciliegi, l’erba minuta
quando era in un luogo
qualunque dell’infanzia, solo
con le mille azioni
scaraventate nei cortili e tutti,
anche l’albero del noce,
danno un sentiero
che non risparmia nulla…
nessuno,
nessuno si salverà
nel giusto di questi anni
che strappano il viso
e basterà annientarsi, invecchiare
per essere in quel punto
terribile,
prima della tua nascita.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaGiunto a metà degli anni novanta, balugina in Carifi la consapevolezza che la povertà del lessico non è più sufficiente, che uno spettro si aggira nella poesia italiana, che la poesia del Dopo il Moderno è un tipo di produzione che testimonia l’invecchiamento e la deperibilità come fattori positivi che consentono sempre nuove aperture di senso, che la poesia è una forma di produzione che si presenta in termini ostili alla organizzazione del consenso cui invece soggiacciono tutte le altre forme di produzione. Si tratta ancora di un pensiero che albeggia, non ancora percepito forse nella sua chiarezza e nella sua interezza («la carie che rode la parola/ è questo ronzio dietro le tende»), una intuizione che avrebbe potuto condurre ad uno sviluppo diverso e ulteriore la poesia carifiana («c’è un muto che prende la parola»), sviluppo che però si arresta sull’orlo dell’io, con conseguente ricaduta nel pendio elegiaco («sto con le cagne e i contagiati/ non so più nulla di chi amo»).4]

La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Durante gli anni novanta, agli inizi di un periodo di crisi economica e stilistica, avviene in Italia una riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto. Si scopre che l’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante. La poesia carifiana, come del resto tutta la poesia italiana di quegli anni