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Video di Gianni Godi, voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson, Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫metafisica☼? Nel mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso, Discorso della Montagna, poesie kitchen di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mimmo Pugliese

Video di Gianni Godi voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson

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Oggi, nel 2023, non si può porre mano ad alcuna ermeneutica dell’arte a seguito della Fine della poiesis, di quella che un tempo si chiamava «arte» nel tempo della storia lineare e progressiva; oggi, nel tempo della storialità (cioè della storia non-progressiva), la fine dell’«arte» trascina con sé anche la fine della critica d’arte. E qui il discorso si chiude. La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale»; ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situi all’interno tra le due cornici, nell’intercapedine tra le due cornici là dove si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis ovviamente priva di «essenza» e di qualsivoglia «interiorità».
Quelle interiorità ridotte a palline luminescenti, sfere che rimbalzano e galleggiano all’interno di una macchina celibe dove majorette in reggicalze ballano con scheletri redivivi il tutto accompagnato da spezzoni di triviali musichette marziali e acuti di un melodramma soporoso…

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(Giorgio Linguaglossa)

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Domanda

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della ♫ fine della storia ☼?
–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫ metafisica ☼?
–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi ♫ eventi epocali ☼?

Promenade notturna 1, Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage, 40×40, 2023

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Marie Laure Colasson

Rispondo in breve alla prima domanda di Giorgio Linguaglossa

perché è quella che ritengo fondamentale, le altre sono domande di contorno di cui mi sarà lecito rimandare ad altra occasione l’onere di una risposta.
Con la parola «♫metafisica ☼» di cui si parla nella domanda penso si intenda la legislazione del linguaggio a cui noi tutti storicamente sottostiamo: la grammatizzazione della voce orale che ha fondato la nostra civiltà occidentale con tutti i suoi innumerevoli tropi e figure retoriche. Ma la «metafisica» è l’opera di una gigantesca grammatizzazione, non è un corpo unitario e infrangibile, la si può infrangere togliendo alle parole la loro destinazione di legalità e di utilità, sospendendo, con un atto di deposizione, le parole dal loro significato ordinario.

Nel pensiero di Walter Benjamin la verità si dà solo nei «cocci del pensiero», nelle parole depositate sul fondale marino del dimenticato, sottratte al rimosso e all’oblio dalla rete del «pescatore di perle» e del «pescatore di stracci». Benjamin aveva escogitato una precisa strategia in grado di infrangere l’incantesimo di una tradizione che considerava alla stregua del «bottino di guerra» dei «vincitori della storia». Si tratta di una straordinaria collezione di citazioni, minuziosamente appuntate sui suoi taccuini e della quale il filosofo faceva il contenuto fondamentale della sua speculazione.
La citazione, come forma del nominare, se sradicata dal suo contesto semantico e sintattico originario, consente di ricongiungersi alla potenza del dire prima che intervenga la legislazione del senso e del significato. Le citazioni organizzate dalla tecnica del montaggio recidono i vincoli che le tenevano avvinte alla ♫metafisica☼ del «significato»; qui il principio di autorevolezza dell’enunciato viene soppiantato da quello di libera individualità delle parole liberate dalla sottomissione al significato ordinario socialmente condiviso.

Ha scritto Linguaglossa in un commento postato il 28 febbraio 2023:

“Oggi abbiamo a disposizione la «musica» e le «parole» ovunque: non solo nelle sale concerto, ma, nei teatri, nei cinema, nelle sale d’aspetto dei dentisti, nei negozi di alimentari, nei supermarket… come la «musica» anche le «parole»: siamo invasi da parole di tutti i conii, da quelle bicefale a quelle alto allocate, parole insulse, prometeiche, cafonesche, a quelle prive di significato, parole vuoto a perdere… così non solo negli aeroporti ma anche in spiaggia e finanche nel mare a bordo dei pedalò siamo assediati dalle musichette orripilanti e dalle parole dei bagnini… tutto questo ha cambiato il nostro rapporto con la musica e con le parole; innanzitutto, dobbiamo liquidare una volta per tutte l’ideologema mitico della «voce originaria», come se ci fosse una mitica «voce» nella mitica «interiorità» in grado di affiorare in superficie
(con tanto di duende) e di irrorare di bellezza composita il foglio bianco del poeta intonso. Tutto ciò è un mito! In realtà, non c’è nessuna «voce» originaria e tantomeno «narrante», non c’è nessuna «origine» e nessuna «autenticità» da salvaguardare e quindi non c’è nessuna «duende» originaria, nessuna «nostalgia», non c’è nessuna «autenticità» da liberare nella voce dispiegata. Tutti miti di un bel tempo che fu. E con la scomparsa della «voce» originaria del poeta, abbiamo i suoi sostituti: delle «voci» multilaterali che provengono da ogni dove.”

Il poeta di oggi agisce in modo analogo a quello del «collezionista» di Benjamin, le parole intimamente intrecciate all’origine del loro valore d’uso e di scambio si configurano presso la nuova fenomenologia del poetico, una volta liberate dall’origine, in guisa antisistematica; libere di agire in base al principio di libertà, le parole non sono più soggette alla legislazione di quella «metafisica» (la tradizione) che ne irrigidisce il senso e il significato.
Possiamo considerare il collezionismo di oggetti di Benjamin una procedura analoga al collezionismo di frasari nella poetry kitchen, una procedura che consente di sostituire il valore d’uso e di scambio delle parole con un valore dato dal mero piacere disinteressato del poeta. Così, gli oggetti liberati dalla schiavitù dell’utilità e del significato, vengono «riscattati». Si tratta di un’attività rivoluzionaria governata dal kairos che sconvolge l’ordine imposto dal passato e legittimato dalla tradizione.
Le citazioni anonime, i frasari anonimi costituiscono il nucleo centrale della tecnica compositiva della nuova fenomenologia del poetico, nella quale non vige il principio logico-causale ma un intento azionatorio-predicatorio insito nel linguaggio. Verrebbe da pensare, allora, che proprio il kairos rappresenti la categoria portante della poetry kitchen.
Il kairos che governa il rinvenimento di «perle e coralli» (dizione di Benjamin) perduti, il kairos che culla il passeggiatore, il flâneur, nel reticolo delle strade di Parigi.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”.1

1 Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti

Giorgio Linguaglossa
Discorso della Montagna

Il Presidente del Globo Terrestre alzò la cornetta del telefono
Urlò:
«Il misuratore dei bidet è andato a prendersi un caffè, ha attaccato un cartello alla vetrina del negozio di ortofrutticolo di via Pietro Giordani con su scritto:
“Torno subito”»
E continuò con questi frangenti:

«È in corso la denazificazione della poetry kitchen!
È in corso la saponificazione della formaldeide!
Non dimenticate di prendere un’aspirina, la sera, e una di Lexotan la mattina e dopo i pasti, vi toglie il mal di stomaco
È vietato fornicare con la vicina di ombrellone
Ai nani è vietato indossare gli shorts
È vietato pomiciare con un LGBT
È vietato chiudere i rubinetti del gas prima di uscire
È vietato chiudere i flow cash dei bancomat
È consentito indossare la canottiera solo d’inverno
Non è permesso immergere i savoiardi nel caffelatte
Non dimenticate di assumere il prolettico dopo pranzo
La penicillina è diventata astemica
La majonese è una combriccola milanese
L’alopecia è una torta Sacher con la Lichtung al centro
Il poliptoto è il nome scientifico della medusa mediterranea
Il maggiordomo Camembert ha deglutito per errore la créme caramel di propietà del poeta Michal Ajvaz
Madame Colasson usa sempre il filo interdentale Colgate Control»

Fu a questo punto che Papa Francesco dal Vaticano interloquì in modo appropriato:

«Spolverate più spesso la piramide di Cheope con lo spazzolino da denti Kukident e poi lucidatela con il lucido da scarpe Nugget
Non fidatevi del Mago Woland, è un malmostoso putleriano, un fidejussore, un profittatore
Ogni evento ha il suo contrario ope legis
Il periplo è analogo al peplo
Il contrattempo è in allestimento
Il contraddittorio è in allestimento
Il collutorio contiene la clorexidina
È in allestimento anche il futuro
Per il passato ci incontreremo domani»

Gli ofidi sono ventriloqui, parlano spesso con i T-Rex
Il Velociraptor ha deglutito il pesce Lavrov
Anassagora beve un bicchierino di vodka in compagnia di Prigožin
Il cateto di Pitagora litiga con l’ipotenusa di Aristarco

Così il Parlamento ha votato la fiducia al Governo di unità nazionale
La legge di stabilità contiene l’autorizzazione al termovalorizzatore dell’Urbe
Il pappagallo Totò ha augurato “Buongiorno!”
Achille ha raggiunto la Tartaruga
Un pesce in marsina si sta lavando i denti con Pepsodent anti placca quando il misuratore dei bidet, il Mago Woland, dopo aver masticato un würstel ha continuato con questi frangenti:
«Dio è diventato impotente! Questa è la migliore prova dell’esistenza dell’Essere e del Dasein, lo stigma della sua impotentia coeundi!»

Nel mondo capovolto Churchill va in bicicletta e Fausto Coppi è il primo ministro del Regno Unito
Lo scolapasta andò a picchiare contro la pentola di Chernobyl in ebollizione
Fa ingresso nell’ologramma il Corvo di Salaparuta il quale spedisce una cartolina alla papessa Giovanna con su scritto “Viva l’Italia!”
Nella circostanza, un nano esce da una poesia di Michal Ajvaz, bussa alla porta della abitazione del critico Linguaglossa e non trova di meglio che radersi la barba con una lametta Bic tripla lama
Si guarda allo specchio, sorride, fa dei versacci, dei cilecca e dei princisbecchi e dice:
«Caro Linguaglossa, Lei è il terrore dei poeti elegiaci!»

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken ha dichiarato al G7:
«We’re not going to tell the russians how to negotiate, what to negotiate and when to negotiate»,
con una postilla significativa:
«They’re going to set those terms for themselves»

Marie Laure Colasson

Das Ereignis ereignet (l’evento avviene, Heidegger), L’ultimo periodo della vita di Heidegger è stato dedicato alla nozione di Evento (Ereignis), ma il filosofo non è riuscito a cavare un ragno dal buco. Il concetto di Evento è sfuggente, imprendibile, se fosse prendibile non sarebbe un Evento. Per esempio, la nuova poesia. Bene, se fosse leggibile non sarebbe più un Evento. Per essere Evento non deve essere né leggibile né prevedibile.
La poesia di Linguaglossa è l’unico discorso che Gesù potrebbe pronunciare se tornasse sulla terra. Che altro potrebbe dire? Non c’è nulla da dire di significativo…
L’Evento è in se stesso una Enteignis, («espropriazione»), ciò che eravamo prima dell’evento ora non siamo più. L’Evento è ciò che rivoluziona il nostro «proprio», ci dispossessa delle nostre proprietà e ci restituisce alla espropriazione di noi stessi. L’Evento non è qualcosa di cui pensare ma qualcosa che avviene, che precede il pensiero e lo trasloca. II pensiero post-metafisico che prende dimora nell’evento, non è un atto di fede ma una presa d’atto, una presa di coscienza dinanzi a ciò che si presenta come irriconoscibile, infatti l’Evento è sempre irriconoscibile, si presenta come nuovo linguaggio di cui appropriarsi. Con lo svanire dell’essere nel rapporto di scambio nasce il «nuovo». Heidegger afferma che dell’Evento non si dà una teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’esperienza non è qualcosa che mistico […] ma è il raccogliersi che porta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimento che può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» è già esso stesso esperienza dell’evento.
Al di là dell’alone di mistico che aleggia nelle parole del filosofo tedesco, possiamo tradurre il concetto così: prima della Rivoluzione Francese non c’era nulla tranne l’ancien Régime, nessun Evento, dopo di essa il nuovo evento cambia la storia dell’Europa e del mondo occidentale e le coscienze degli uomini. L’imprevedibile (e l’irriconoscibile) è diventato realtà. Analogamente, una «nuova poiesis» all’inizio è sempre imprevedibile e irriconoscibile, ma dopo di essa la poiesis è cambiata per sempre. Prima del 1954, anno di pubblicazione del libro d’esordio di Tomas Tranströmer, 17 poesie, la poesia europea era diversa, pensava e scriveva ancora in chiave di mimesis, era neoverista nelle sue profondità; dopo quel libro la poesia europea è cambiata, per sempre. Certi Eventi che accadono non tutti li intercettano, e magari i suoi effetti risuonano a distanza di decenni, ma questo risiede nella struttura stessa dell’Evento che si presenta sempre con le caratteristiche della invisibilità e della impredittibilità.

Due parole sul bellissimo video di Gianni Godi. Questo è per me un Evento, inatteso e imprevedibile in quanto Evento. Che Gianni Godi abbia preso lo spunto dalle mie «strutture dissipative» mi dà soddisfazione… le nuoveopere camminano, gli eventi sono in cammino… La nuova poesia è difficile, problematica, irriconoscibile molto più facile è fare le poesie della interiorità e della bellezza sfregiata. Sull’amore non saprei che dire, io che ho molto amato, dinanzi all’amore resto senza parole. E forse questo è la migliore poesia: una poesia senza parole, come una musica senza note… l’ideale per ogni poeta o musicista.

Marie Laure Colasson

da Un masque rouge fait de pétales de coquelicot

1.

Un masque rouge fait de pétales de coquelicot
empeste d’opium les bouches d’égouts de Paris

Un crâne étiré en pain de sucre
boit assidûment le sang des aigles

Un nain et un géant mongol
détectent l’oreille au sol les confessions d’un merle

La blanche geisha cachée derrière un écran de soie noire
entrevoit l’orifice hideux d’un boa chansonnier satirique

Eredia embrasse à coups de poings
et de mitraillette une monstrueuse ventouse

D’une voix timbrée le siège du bus
écrase une meute survoltée dans un étau de charpentier

Des petits riens s’échappent en tous sens
les couronnes des rois flirtent avec le temps

(inedito)

Una maschera rossa fatta di petali di papavero
impesta d’oppio i tombini di Parigi

Un cranio a forma di pane di zucchero
beve con assiduità il sangue delle aquile

Un nano e un gigante mongolo
percepiscono con l’orecchio al suolo le confessioni d’un merlo.

La bianca geisha nascosta dietro uno schermo di seta nera
intravede l’orifizio schifoso d’un boa chansonnier satirico

Eredia bacia a colpi di pugni
e di mitraglietta una mostruosa ventosa

Con una voce altisonante il sedile dell’autobus
schiaccia una muta esasperata nella morsa di un falegname

Piccoli niente scappano in tutte le direzioni
le corone dei re flirtano con il tempo

Mimmo Pugliese

La barca

La barca è finita in cielo
gli elefanti in salopette stordivano tarocchi

Zigomi e seni quadri marciavano in cassaforte
una ruga di cortisone abbraccia pupazzi di neve

Le lampade della sera si inginocchiano alle tonsille
ha fatto boom il promemoria del gelsomino

Le schiene delle bottiglie dirigono il traffico
dalla tana il dentifricio scavalca la cresta dei galli

Sabbia e sale avevano scarpe intrise di occhiali
bighe contromano masticavano aghi

Posacenere demodè inseguivano molluschi
portapenne a transistor affilavano rasoi

Le trame dei tappeti erano aloni di bocche
dal bagnasciuga spuntava la gobba delle piramidi

Il petto sudava tricicli
sulla cima del ventaglio pioveva

Cornicioni resettano metri di caffè
la catapulta diventa dirigibile

Al centesimo mese dell’anno il sirtaki vomita inchiostro
vetri distopici scarnificano la risacca

Gianni Godi  è nato a Monte Porzio nel ’37 (Pesaro-Urbino). GG è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. In un momento di debolezza ha pubblicato a proprie spese il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia.  (Date le dimensioni da lui richieste, 160 x220 cm, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia. È convinto di fare cose bellissime e complicate dalla confusione ed è per questo che da un po’ di tempo ha deciso di dare un taglio sferico alla sua vita museale dove ha finora esposto tutte le sue opere. Alcuni eventi trascorsi: 1985 – Lavatoio Contumaciale – Roma – Sorrisi e Canzoni non stop………2009 – Onishi Gallery – New York – XX WOMEN MADE IN SOUTH OF ITALY- Video e Foto di Donne di San Luca (RC)…2012 Roma – RO.MI. – Videoart – Contamination 5. 2006 FESTA NAZIONALE DELL’UNITÀ – Pesaro – Arti Elettroniche a cura di MM Gazzano – Video-installation Piciedroquadro per single. 2007 Danon Gallery – NY, – THE FLOWER OF BUDDHA Silk and metal carpets from the Forbidden City. Proiezione su parete scura del videoclip Fiore di Loto. 2012 Castelvecchio di Monte Porzio – Pu – 3 GIORNI DI CENERE – rassegna di parole e forme – agosto 2012 – Installazioni e performance in piazza –

2014  Teatro del Lido – Ostia Lido – Con l’Associazione Spazi all’Arte – Proiezione del Cortometraggio TRASH SPLENDOR – https://youtu.be/Y3dswdnVfTM
2015. Un Video inserito nella rappresentazione TEATRALE dell’opera RED ROSES AND DOMESTIC ACID,  di Pilar Castel (Quarzell) andata in scena  nell’agosto 2015 a New York.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e del volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

12 commenti

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Da Mario Lunetta (1934-2017), Poesia di Satana, con video di Gianni Godi, a Davide Galipò passando per la Poetry kitchen, poesie di Giorgio Linguaglossa, Esercizio per violino e tamburo, Mitoglifici, Lettura del romanzo di Céline Menghi, Dire Mu (2019), È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

Giorgio Linguaglossa

Davide Galipò e Charlie Nan sono sulla strada giusta, il loro tentativo è beneaugurante e va salutato con favore… ma il problema della stagnazione della poesia italiana di questi ultimi decenni non può essere risolto facendo riferimento esclusivamente al lavoro del Gruppo 93, quello era un movimento tutto interno alla nicchia del «letterario» e del «poetico» e, inoltre, non possedeva un solido ancoraggio filosofico, non andava al di là del «letterario» e delle forme del letterario, di qui la sua presa insufficiente sullo stesso «poetico» e sul «letterario», i problemi di fondo della poiesis rimanevano esclusi dal loro raggio di pensiero. Il mio invito è andare oltre, procedere in avanti con la riflessione critica, affrontare le questioni che stanno alla base del fare poiesis oggi.

Tempo fa chiedevo :

– Dopo la distruzione delle forme avvenuta nel novecento, siamo arrivati alla distruzione dell’orizzonte di attesa. È stato qualcosa che ha colpito al cuore la poesia del soggetto panopticon, dell’io plenipontenziario. L’io è stato de-fondamentalizzato, il soggetto legiferante è stato de-localizzato e l’ontologia negativa di Heidegger è stata sostituita con una ontologia positiva.

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poiesis dinanzi a questi eventi epocali?

Risposta (indiretta) di Maurizio Ferraris:

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».

(Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 113)

Esercizio con violino e tamburo

K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]

Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.

«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere

e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.

«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.

Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.

«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.

Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.

Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»

(2018)

23 novembre 2022 alle 10:37 

È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

Mettiamo il problema nei giusti termini marxiani e chiediamoci:

Il soggetto scabroso (the ticklish subject) di Zizek è l’altra faccia della medaglia dell’oggetto scabroso (the tickish object)? Sì, o no?

Il rapporto soggetto oggetto è un rapporto dialettico e conflittuale, l’alterità dei due Fattori implica una loro riconoscibilità che è sempre data all’interno di un contesto, ovvero, di una serie di rapporti di produzione e di forze di produzione. È l’equilibrio tra queste forze contrastanti ciò che produce il soggetto e ciò che determina l’oggetto. (L’io che acquista una Fiat Punto è esattamente ciò che la merce Fiat Punto riconosce in me come acquirente. È il Capitale che sovraintende all’intero processo).

Sia il soggetto che l’oggetto sono entrambi scabrosi, osceni, inemendabili, indomandabili. La vera domanda che occorrerebbe porre al soggetto è: Che cosa sono io che compro la Fiat Punto?, o meglio, Che cosa sono diventato io per prediligere l’acquisto della Fiat Punto?

Non diversa è la posizione di un «poeta» che voglia porsi nel mercato pubblico. Il mercato pubblico riconosce in me esattamente ciò che io sono: un venditore di merci. Questo è quanto. Se «io» come «autore di poesia» mi metto sul mercato delle merci poetiche, sarò riconosciuto dal mercato delle merci poetiche esattamente così come io mi sono messo in vendita. Che poi la mia personale predilezione sia verso una nuova avanguardia e verso una nuova retro guardia non fa alcuna differenza. Il nuovo Capitalismo cognitivo queste cose le ha digerite da alcuni decenni, sa che l’io come soggetto, che l’attività del soggetto è quella di sottomettersi alle condizioni poste dal mercato delle idee e dal mercato delle merci, altra via di fuga non c’è, se non nella fantasia.

E allora, chiederà il lettore, quale deve essere la posizione del soggetto nelle attuali condizioni? –

Semplice, rispondo: la posizione del soggetto scabroso sarà quella di tentare di sottrarsi alle condizioni produttive che relegano il soggetto nella soggettità e l’oggetto nella oggettità, cioè porsi Fuori del meccanismo identitario e di riconoscibilità del Capitale all’interno delle quali prospera il processo produttivo e la stessa soggettività.

Davide Galipò
24 novembre 2022 alle 15:44

Caro Giorgio, mi permetto di integrare il tuo discorso con alcune riflessioni. Pasolini scriveva che l’arte è “la merce che non può essere consumata”. A tal proposito, la Neoavanguardia ha riportato, con il Gruppo 63 e l’esperienza del Mulino di Bazzano, l’oggetto-libro e nella fattispecie il libro di poesia alla sua condizione materiale di oggetto, appunto, per decostruirlo attraverso le opere dei poeti neoavanguardisti, che attraverso il collage, la performance e il segno tentavano di fuggire dalla forma-libro. La loro poesia è rimasta comunque merce, così come il loro tentativo di decostruire la narrativa degli anni ’60, ma per lo meno il loro si registra come tentativo in tal senso (leggasi a tal proposito Adriano Spatola, “Verso la poesia totale”, 1978).

Dopodiché ci sono stati gli anni del riflusso, gli anni di Piombo hanno lasciato posto agli anni della Milano da bere, nel 1989 il muro di Berlino crolla e con esso le ideologie, il neoliberismo sembra aver vinto la sua battaglia egemonica sul resto del mondo. Il Gruppo 93 e i suoi seguaci non possono, per forza di cose, contrapporsi con la loro poesia al mercato: poiché solo il mercato esiste, pena la dissoluzione totale o peggio, l’insensatezza del loro agire poetico (rimando all’articolo “Contro il presenzialismo” su Neutopia).

Con la fine del postmodernismo e l’apertura della nostra epoca pre-moderna, che io faccio coincidere con l’11 settembre 2001, anno dell’attentato a Ground Zero, ma a detta di Roberto Bolaño e degli infrarealisti potrebbe risalire benissimo all’11 settembre 1973, anno del golpe americano in Cile e della destituzione di Salvador Allende, con l’instaurazione della dittatura militare di Augusto Pinochet, si potrebbe dire che oggi l’avanguardia abbia assunto una nuova urgenza e una nuova spinta propulsiva.

Ma è un’avanguardia differente dalle avanguardie passate, che parte dalle pratiche e non dai manifesti. Una poesia che voglia essere rivoluzionaria oggi dovrebbe innanzitutto occuparsi di rivoluzionare le forme, poiché ci sono molti modi per scrivere una poesia reazionaria: la prima è nei contenuti, la seconda è nella forma.

Cinque anni fa, con NEUTOPIA e con il gruppo d’azione poetica SALINIKA abbiamo provato a dare alcune risposte in questa direzione, partendo dalle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, costruttivismo russo) per capire quale fosse il senso di una nuova avanguardia nella contemporaneità. Alcuni di noi l’hanno vissuta in chiave più situazionista, altri oggi sono partiti dall’ipertesto e dalla realtà virtuale. per comprendere quale possa essere il terreno sul quale le nostre poesie possano diventare totali, dunque entrare interamente nella realtà per proporre un campo differente da quello del mercato editoriale.

Il Liminalismo, i Mitilanti e la Poetry Kitchen secondo me sono esempi che si stanno muovendo in tal senso. A tal proposito, vi lascio il mockumentary sulla nostra attività poetica, girato a Torino nel 2017. Spero ci sarà presto occasione di approfondire il discorso. Continua a leggere

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Da uno stralcio di Slavoj Zizek, Commenti e glosse di Jacopo Ricciardi, Poetry kitchen di Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Francesco Paolo Intini, Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana

L’Antologia Poetry kitchen in vetrina in una libreria di Peschici

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Vetrina della Libreria di Peschici con la copia della Antologia Poetry kitchen

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Gino Rago

Madame Colasson

Una torta Sacher + biscotti Wafer Saiwa + una porzione di Camembert, paté de foies gras e una bottiglia di Bourbon annata 1997

Brigitte Bardot

Un violino + la somma dei quadrati sui due cateti di un triangolo isoscele + uno Spritz alla albicocca

Francesco Paolo Intini

NEGATIVO

Che vuol dire? La Sindone fa un balzo alla notizia.
-Pericolo scampato di riportarmi a una vita da Dio.

La vita eccitata da un tocco di virus è un via vai di smentite e conferme
E il risultato finale
Ricade in un pascolo di umanissimo non sense

Il politichese fu inventato prima o dopo il poetichese?

Già vedo l’intervallo: -Tityretupatulaerecubans
Ci vorrà tempo per mungerle e ricavarne un po’ di ricotta
Perché caricarle di colpe e sparare alla gola del vicino?

Non si perde energia tra uno schizzo e l’altro del 2022.
Vuoi sapere che fine ha fatto il Covid?

È queste gazze decisamente Blu,
lontane da ogni peccato commesso nel nome del Rosso.

E più in là dell’hula-hoop un giro di valzer in crociera
O forse d’incrociatore o addirittura di portaerei.

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[Francesco Paolo Intini]

POSITIVO

infin ch’arriva\ colá dove la via\ e dove il tanto affaticar fu vòlto:\abisso orrido,immenso,\ ov’ei precipitando, il tutto obblia.
(G. Leopardi. Canto di un pastore errante dell’Asia. VV 32-36)

Fu così che venne fuori Ottobre Rosso. Bastava fare uguale
che l’avrebbe spuntata sull’argento, senza ferire il Polo

Alle esternazioni si disse non c’è rimedio e tu vedrai le cornacchie battere il ciglio
e farlo a pezzi e dopo essersene nutriti rimetterlo in moto.

Circolarità del cielo, al gusto d’ arancia e ghiaccio secco.

Un osso di Agatocle funzionava da sterno nel petto di Benito
Un frammento di cuore pulsò per ore sul campanile di Milano

Antenne colorate e uno, mille trapezi senza nervi di protezione
La fuga mi ha portato a sfiorare i siluri
Il danno è stato un orco che ha portato gli scatoli di tonno al tiro a segno.

Ebbi in sorte un gruzzolo per Buenos Aires
Dove mi sarei imparentato con le scimmie alberomorfe
E sostenere la lotta per sollevare il morale dell’ Antartide
E stringere la mano al re Pinguino.
La regina Maud non era contenta di tutti quei ghiacciai persi
Dei Sioux e l’immagine di Toro seduto in un’ igloo che si scioglieva

L’argenteria di famiglia dispersa nei Caraibi.
Al merluzzo la parola atlantica
Ai sottomarini che sbuffano e rampognano gli squali
Al vichingo che non sa quel che fa nella mano di bella

Conviene accostare e mostrare il lato peggiore dell’oceano
Riempire di pece lo stomaco, fare di tutto per stuccare il silenzio
E rimpinzarlo di fumo e mostrargli il lato Nord, il Caterpillar nella pancia
Come si avvita una stella a un missile e farlo partire.

La ferita senza rimedio nel fianco.
Oh la coscienza buttata ai porci!

Ancorare nel San Lorenzo con i denti intatti e la spinta del venditore di sandali
Con la disciplina del salmone che indovina la bocca del grizzly
È stato un immane delirio seguire CANOSCENZA e spingere il pulsante del Saturno
Da qui alle colonne d’Ercole non è nemmeno un endecasillabo
Il mare s’è seccato di ragionare e zampillare lampade Davy dal fondo oceanico
Sporchi di lava e fango.

Dov’è finito il neurone ad Est di Capo verde?
Cosa è alla portata di Eric il Rosso?
La voglia di menare le mani e navigare con la cravatta di re e figlio prediletto tra talamo e ipotalamo, mentre il vulcano esplode e una manta colossale sbatte contro le torri gemelle.

Chi osa chiedere un verso santo, immune dal peccato d’invidia
Un trafiletto di messale, un lingotto di settenari e rime baciate
Un trigesimo, un anniversario ripulito da ostriche infette?

Non reggemmo l’assalto del polpo assassino
E tornammo ad ordinare alla carte sull’isola di Sant’Elena
Un refugium peccatorum per aver salvato il mondo dal mal francese
Il sancta santorum dell’olfatto

Un tendone di circo credo con le costellazioni nella gabbia dei leoni
E le scimmie a suonare e Marte ad esporre cartelli di funghi velenosi
e mari tempestosi riservati alle raccolte punti di storione
E gli elefanti a rimescolare le bolle, i santi impietositi,
le guerre e battere il tamburo dei sargassi
i treponemi scandalizzati per i nostri pettegolezzi
Un mostrare traiettorie di postriboli vuoti
Nel bel mezzo dell’ Orsa un raduno di pervertiti e menagramo.

Affondò Atlantide e facemmo rapporto alla compagnia delle Indie
per il grano che mancò all’appello e glu..glu…
per il tiranno che ordinò gli omogeneizzati di vitello
e giocò sul cavalluccio del nipotino col winchester di legno
l’orsacchiotto vinto al baraccone
Glu…glu…

Giorgio Linguaglossa

Come appare evidente in queste ultime composizioni kitchen o kitsch ogni elemento di senso sembra essersi dileguato dall’orizzonte dei significati, Intini impersona il ruolo di un anarco sindacalista che prende sul serio quello che nessuno dei suoi contemporanei prende sul serio: che il Reale appare nel suo deserto, ovvero, che appare il deserto del reale come ossessione, fobia, fantasma, spauracchio, terrore… le parole sono come attratte da un Grande Attrattore, un Grande Vuoto. Mi spiego: il Grande Altro si è convertito in un Grande Vuoto. Un buco grande, un Grande Attrattore, deglutisce tutte le cose e tutte le parole, i nostri sentimenti, le nostre identificazioni, le nostre proiezioni. Di conseguenza, gli oggetti (con le loro parole al seguito) non sono più al loro posto ma si presentano fuori-posto, fuori-luogo; ma il posto è vuoto veramente e questa scoperta è talmente insopportabile che il vuoto assorbe e consuma, letteralmente, ogni parola e ogni oggetto. Una sorta di buco nero (black hole) è in azione al Centro del nostro sistema Simbolico che fa collassare tutta la costruzione edilizia e manifatturiera della realtà. Il Buco del Reale liquefa letteralmente ogni oggetto e ogni parola. Il collasso dell’ordine Simbolico è l’ultimo fenomeno di un Reale che ostinatamente si rifiuta a consegnarsi agli uomini.

Lucio Mayoor Tosi

In diretta su Alfa Centauri.
Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi;
prati che si allontanano, nonni sulla porta; mamme
danzano a piedi nudi, spose attente al vestito giocano
con bambini imbarazzati. Non manca il cane dei vicini.
Il bosco sottratto, Arcangeli registri bollette scadute.

Riposo. La vita inutile. Bella vedetta, spalline, aquilotti,
zeri con faccina. Povera me. A Capri con la mamma.
Silvia ha il vaiolo. Questo scrive, l’altro si mangia
le parole

Olga rimane, abbiamo fatto tanta strada.
– Lista dei cocktail, lista delle pizze, liste
abat-jour, tutte le notti.

*

Chiamò se stesso per potersi catturare.
Grazie. Ma dimenticò il titolo del libro.

Il grande sonno, R. Chandler. Musica per ottoni.
– Un titolo che valga il prezzo di copertina.

I grandi romanzi. Grandi romanzi. Romanzi.
Alberi senza trasporto.

Giorgio Linguaglossa

«Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato» (Adorno, teoria estetica). Anche le parole si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato, le parole irrigidite, raffreddate, iperbarizzate sono quei molluschi dell’aria, quelle meduse dell’atmosfera in rapporto alle quali non possiamo fare altro che disabitarle, abbandonarle, lasciarle cadere; le parole già reificate, una volta costrette e costipate nello spazio neutro della nuova reificazione della scrittura poetica, cessano di parlare, restano mute, non abitano più alcun condominio di parole e se ne vanno ramengo nell’universo silenzioso e rumoroso. Nella poesia di Lucio Mayoor Tosi c’è il Bellosguardo, le pubblicità del Mulino Bianco, c’è la cornice della Buitoni con il quadretto idillico e agreste delle mucche e dei pastorelli felici, cose di un’altra galassia, di un altro pianeta: «Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi». Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga, andare per prati con l’acchiappafarfalle o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie e sublimatorie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana. In un mondo talmente irrigidito bene ci stanno i video di Gianni Godi con gli avatar irrigiditi che perorano parole in rigor mortis.

Lucio Mayoor Tosi

Vivere nella realtà è mortificante. Starò più attento al consumo delle risorse pubbliche. Il mondo incantato di cui scrivo è ben piantato nella mia mente. Non so dove altri piantino il loro. Il mio lavoro adesso consiste nell’inscatolare parole. Le parole mi arrivano col contagocce, e per collaborazione. Non do consolazione, se tento un insegnamento, subito ne rido. Piuttosto bravo nel lasciar perdere. Poeta, se poeta, occidentale.

Slavoj Žižek

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

1 S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine), 2010 pp. 28-29

Jacopo Ricciardi

Mi pare questa descrizione perfettamente calzante per descrivere il quid della Poetry Kitchen. Ma questa descrizione nelle intenzione di Zizek descrive perfettamente il quadrato nero di M. e di seguito Duchamp, opere di 110 anni fa. Allora dove sta il nuovo, ossia dove la Poetry Kitchen fa qualcosa di ulteriore rispetto a quanto detto da Zizek, riferendomi anche alle affermazioni precedenti della Colasson che sostiene che la PK è qualcosa di completamente diverso rispetto alla tradizione (se in arte sono intanto esistiti Paolini, Denominicis e Boetti)? La mia provocazione non sta in questa mia domanda quanto piuttosto nel mio tentare una risposta: la poesia italiana è attualmente indietro di un secolo sull’arte italiana? Possibile? Continua a leggere

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Inedito di Mario M. Gabriele, Poetry kitchen, Svuota poesia? o Svuota cantina?, Ciò che resta lo fondano i poeti, La de-colonizzazione della poiesis dall’apparato metafisico, di Giorgio Linguaglossa

Foto Scampia-scantinato-occupato

Scampia, scantinato occupato

*

Inedito di Mario M. Gabriele

(da mariomgabriele.altervista.org)

Inverno  con Black Friday
tra eventi a sorpresa e Ie foto di Marlene.

Al Max Hotel  c’era un’asta di cucine LUBE,
un album  di 50 Rockstar
e  una  macchina  da scrivere ERIKA
come quella che usava Brecht
in Madre  Courage e i suoi figli.

Nessuno sa quanti  ricambi d’aria
ci porterà la stagione,

Lei senza  più ricami, con cappotto  e guanti cashmer,
si lasciò  andare  ai Sette Peccati Capitali.

Ci fu un accordo sui found  poems e il cut-up
senza impasse.

Guten  Morgen Mein Herr,
Guten Morgen, disse Albert.
Qui restiamo ad attendere il Die Welt
con i capitoli a puntate  su Birkenau.

Condizione  primaria  per il Dichtung
è il linguaggio  ontogenetico.

Non si confonda, Signorina Ellen,
la tristezza è dentro e fuori casa.

Non vorrà mica un’altra Genesi
a quella che già conosce?

Non importa ciò che dice Ruth,
è un passerotto su Airways.

Clara si portò dietro un disappunto
per come se ne andò la giovinezza.

Portnoy è nei Meridiani Mondadori
dopo aver girato  come un cane nei cimiteri.

La seconda volta che incontrammo Marianne
aveva  tra le mani uno chiffon.

il ghostwriter di triller
si aggrappò alla plafoniera  per non farla spegnere.

Abbiamo una shance in Cyberpunk
ed è lo stesso mondo solo un po’ diverso.

Howard  Hughes girò il mondo in tre giorni,
meno di Lindbergh con lo Spirit of  St. Louis
e la mosca ballerina.

“Ci siamo, darling, ci siamo baby….
No, bébé, à Paris. Thanks – no, merci 
Amica mia….ma come
Ti chiami? …. Laggiù! Laggiù!
é Le Bourget, bébé !” (1)

Ti lamenti se rimani a casa.
Non rimarrà una briciola dei tuoi ricordi:
solo  i vestiti outdoor stile Mountain Kaban.
per le feste che non verranno.

Nota n. 1. Sono i versi di Alberto Mario Moriconi da:Il dente di Wells.

Strilli Gabriele2Svuota poesia? o Svuota cantina?

E’ la raccolta più organolettica che si propone oggi al lettore di fronte all’uso lessicale di provenienza psicopatogena, disarticolata, ed embrionale, emporio del disordine, e outlet, Zibaldone di pensieri, e oggettività a tutto spiano di carica virale, messi in atto da chi fa uso di  differenze accumulative, e che forse considera l’infinito una particella minima dell’ultrainfinito, rimettendo in gioco teorie e pratiche scientifiche tali da considerare a favore o contro il principio antropico finale, quello per intenderci di Barrow e Tipler, catalogando cifre e significati policentrici ed espansivi dell’universo, tra teleologia e modello standard del Bing Bang, scendendo alle piccole cose terrene  da utilizzare nella struttura  del verso.

Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno. L’ES è in rotta con la sfera volitiva. C’è chi  predilige forme e oggetti di varia natura, tra cui si annotano materassi, letti, tavoli, armadi, cassettiere, scaffali, divani, poltrone, sedie, carrozzine, girelli, culle, televisori, videoregistratori, lavatrici, frigoriferi, elettrodomestici da incasso, condizionatori, stufe e mascherine Covid, assieme a materiale  chimico ed edile, come amianto, colori, vernici, bombole di gas e ossigeno, provette con idrogeno, elio, litio, boro, azoto, antimonio, argon, bismuto, cobalto, cripto, per creare un polittico? Una pala sacra? O una scuola primaria per poeti del futuro? Ciò significa mettere in scena figure e oggetti apocrifi nel tentativo di creare un camaleontismo linguistico di elevazione così bassa in cui il lettore si perde nel gioco smaliziato di significati e feuilleton. E chi lo pratica non abiura i propri solipsismi, e grovigli letterari e scientifici, che in molti casi si autodistruggono da soli, bloccando la poesia dalla sua funzione d’Arte. Svuota poesia? Sì! Ma anche  svuota cantina!

(Mario M. Gabriele)

Giorgio Linguaglossa

La de-colonizzazione della poiesis dall’apparato metafisico Continua a leggere

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Video di Gianni Godi con musiche di Antonio Amendola, Poesie, Storia di una pallottola di Gino Rago, Al 103esimo KIRK, di Francesco Paolo Intini

[il video di cui al link sopra riportato, è stato costruito utilizzando le notazioni grafiche su fogli di carta di Antonio Amendola e ascoltando il suono da lui creato. Poco prima della fine del video  potrai leggere spiegazioni più dettagliate.
Gianni Godi]

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caro Gianni,
grazie innanzitutto per il tuo lavoro, per noi è importantissimo questo incontro tra arti e poetiche artistiche diverse: poesia, romanzo, pittura, video-art e musica. È questo il nuovo modo di pensare e di condividere la nuovissima pop-arte, pop-poesia, pop-video-art, la poesia non può vivere da sola, non può sopravvivere nel suo «splendido» isolamento che è diventato solipsismo autarchico, la poesia ha bisogno del confronto critico e dello scambio tra tutte le arti e con il pensiero filosofico.
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione; si tratta piuttosto di porre in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
L’altra sera Marie Laure Colasson, dopo aver visionato il video di Gianni Godi, ha riconosciuto la grande capacità dell’autore di reinventare il linguaggio poetico in un altro linguaggio, un linguaggio simulacrale fatto di avatar, emoticon, figure tridimensionali che si avvale della stessa grammatica del web per ricostruire un video secondo un modernissimo concetto di spazio simulacrale-virtuale. Ha fatto un pop-video, se così possiamo dire.
(Giorgio Linguaglossa)
Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)
…lo finisco il pensiero. Il pop pensiero è l’autentico presente che a un certo punto ci siamo dimenticati che per una serie di ingolfamenti temporali torna finalmente a galla. Dalla deriva, dall’esclusione, a cui era stato sottoposto o riapparendo se preferite. Mi vengono in mente le tanto care missive che quell’instancabile di Rago ha inviato a Ewa Lipska, il prototipo delle lettere alla Maria nazionale. Ergo, quindi Ingravallo e li che deve indagare. Madame Colasson ha un gancio perfetto col buona camicia televisivo. (Uno dei miei scrittori preferiti è Sebastiano Vassalli per come riesce ad essere cronista e protagonista in una sua storia è strabiliante. Un teatro tutto suo, grande!). Termino. Cosa voglio dire? Appunto. Che c’è sempre una parte del presente che dovrà diventare futuro, e viceversa, che dovrà diventare passato.
La pop poesia è il presente che affiora.
(Mauro Pierno)

Gino Rago

Storia di una pallottola n. 10

Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.

Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.

Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».

Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».

Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.

Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettili fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.

Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.

Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.

Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.

Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:

«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».

Marie Laure Colasson

Egregio poeta Gino Rago,

innanzitutto prendo le distanze da quel poliziotto in borghese che mi ha pedinato durante tutto il mese di agosto in pieno solleone… il figuro non faceva che sbirciare la mia gonna… e poi sono desolata che in questa triste vicenda con il commissario Ingravallo sia stata investita anche l’Ambasciata di Francia cagionando un incidente diplomatico. Tutto ciò per le intemperanze di un commissario inadeguato e incompetente. Sono contenta che Ingravallo sia stato rimosso dal suo incarico e rispedito a Campobasso, suo paese natale. Questo pettegolezzo mi è stato riferito dal Signor Linguaglossa il quale è un notorio “sovversivo” come bene sanno i servizi deviati di stanza nel bel Paese.
Però devo dirLe che il mio incontro con Catherine al caffè Rosati di piazza del Popolo è stato molto piacevole e con lei ho scambiato due chiacchiere sulle nostre rispettive “nudità”.
Non le nascondo, comunque, il mio apprezzamento franco e disinteressato per la sua Storia di una pallottola n, 10…
Aspetto con impazienza il seguito della Storia malfamata. Ma, per favore, non mi faccia più incontrare con quel buzzurro di Ingravallo!
Affettuosamente,
Milaure

Francesco Paolo Intini

Al 103esimo KIRK

Caricare Kirk di responsabilità.
Metterlo in un quadro e fargli suonare la chitarra
Perché non ha fatto “La strada” e non è entrato nel cast di “ Persona”

Kirk non ebbe scelta, rientrò dai 104 nel 70 a.C.
Fu vera gloria suonare sul monocordo “Libertà o Morte”
E Goya alla cinepresa
-Non è così che si alzano le braccia e si pronuncia “VIVA”.
stai presenziando l’ Oscar o l’Aspromonte?

In un genoma comunismo e critica cinematografica:
a ognuno secondo il sogno.

Mc Carthy? Una funzione di stato.
Il leninismo una vampa di calore.

Uomini e caporali sul campo di battaglia.
Da che parte è la guerra?

La classe operaia impara dai ricci a sotterrarsi.
E dopo i titoli di coda la Via Lattea fino a Capua.

Scartavetrando azzurro cenere
Soltanto un lampo di pessimismo
croce n. 2020 in un campo di papaveri

Si intravede l’etichetta di un pomodoro
Spartacus con le istruzioni di una battaglia 3D.
Michelangelo al rifiuto della Pietà

Poi perde la vita banalmente
per evitare che un ramarro finisca tra le ruote

 

SPARI DI WARHOL

C’è uno sbuffo tra le silver clouds
e dalle inferriate sfugge acroleina.

L’ala del corvo fa un cigolio
-Papà è lo sportello della cinquecento

L’albero della piazza ha dato i fichi in pegno
ma ci ha guadagnato investendo a Singapore.

C’è da credere a quello di Hong Kong.
Ride Ollio della libertà.

Bisogna riscaldare la scena milioni di gradi
per avvicinarlo a Lenin.

Dopo tutto la produzione di un pensiero pulito
richiede che si brucino due cartoon.

È’ scritto che qualcosa si perda nel telecomando.
Partono missili a zig zag. Acqua brucia nei polmoni.

L’accostamento in olio bollente
schiude l’uovo dell’universo.

Bucefalo scaccola le sue narici.
Alessandro ride a quaranta denti.

Totò compra la Cappella Sistina.

 

FIRME DI PRESENZA.

L’uomo di Cromagnon si affacciò con un pacco da firmare.
Chi era Dio tra loro?

L’autentica è scomparsa e duole stare in piedi dal big bang.

La penna è sul muro.
Calcinaccio che conserva gli occhi di cerva
E l’ordine dal più sudato al meno.

L’ odore ha la sua parte proibita.

HAL 9000 dunque e dopo un astronauta.
Palpa la camicia per riconoscere il male al petto.

Graffio di Caino sulla visiera.
Si diede da fare nella metallurgia e scoprì qualcosa che poi gli fruttò ricchezza.

Assomigliava al Neanderthal,
un brav’uomo deceduto durante una rapina in banca.
Ci morirono delle guardie giurate.

Sbrigarono la faccenda all’alba
e si accusarono a vicenda pur di nascondere
un tizio somigliante a Lorca.

La conservazione nell’inconscio è perfetta.
Soltanto di notte esce qualche indizio sulla vera identità.

In sostanza anche i versi furono assorbiti,
caddero giù per il pendio e si fissarono nella foiba.

Una stalattite ride del cobra su Wall Street

 

Giorgio Linguaglossa

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia moderna e contemporanea, questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecentesca, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito; a questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1

Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

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L’epoca del Covid19 e del Roipnol, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Dialogo, La Pop-Poesia,

 

Penso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non ha a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
L’Evento è l’esito di un incontro con un segno. (g.l.)

.

L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica: La pop-poesia
.
I due testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si colloca in una dimensione post-metafisica.
In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio complessiva del sistema amministrato.
La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio veritativo.
La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch.
La pop-poesia non redige alcun senso del mondo e nessun orientamento in esso, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere.
Così è se vi piace.

.

Mario M. Gabriele

Inedito di  da altervista il blog di Mario Gabriele

Andando per vicoli e miracoli
ritrovammo l’albergo e il trolley.

Non si dà nulla per certo, neanche prendere contatti
con il gobbo di Notre Dame per suonare le campane.

Bisognava partire.
Tu non vuoi più le carezze?

Il fatto è che se ci mettiamo a seguire Ketty
non leggeremo Autoritratto in uno specchio convesso.

I Simpson si riconoscono per il colore giallo.
Giulia ne ha fatto una raccolta di figurine acriliche.

Tutto rotola e va in basso. Sale e scende.
Linee nere e linee rosse.Si cerca il punto originario.

Cerca di distrarti! Prova a chiamare
le cugine di Sioux City.

Ti suoneranno l’Hukulele
ricordandoti C’era una volta l’America.

Oh bab, baobab, invocò il nigeriano
alla fermata del Pickup.

Controlla tutto e bene nel trolley.
Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.

Giorgio Linguaglossa 

Proprio nel momento in cui l’erede di Giovanni Agnelli, il topastro John Elkann, ha liquidato il direttore di “Repubblica”, Carlo Verdelli, sostituendolo con un fedelissimo moderato pony express del moderatismo, Maurizio Molinari, e comprato l’asset per un pugno di dollari, possiamo comprendere come il capitale internazionale disdegni le testate giornalistiche «diverse» e comunque «critiche» del sistema-Capitale. Il problema è che si preannuncia in Italia, in Europa e nel mondo occidentale un acutizzarsi della crisi e dello scontro in atto tra i ricchissimi e il nuovo proletariato internazionale che ama visceralmente i Bolsonaro, i Trump, i Salvini, le Meloni, gli Orban, i Putin, i Di Battista… Le democrazie liberali sono a rischio di sopravvivenza, questo è chiarissimo anche in Italia dove l’accoppiata fascista-leghista Salvini-Meloni lancia accuse incandescenti e bugiarde contro un governo parlamentare che sta affrontando la crisi più grave del novecento e del post-novecento.

In questa situazione, alla poesia viene sottratto il terreno da sotto i piedi, le parole diventano sempre più difficili, scottano, non possono più essere maneggiate, i poetini e le poetine alla Mariangela Gualtieri e alla Franco Arminio vengono citati sulle pagine della stampa e dei media per le loro poesiouole sul Covid19 e sull’ambaradam dello sciocchezzaio, mentre un poeta laureato di Milano discetta sulla fine della «società letteraria» d’un tempo, e altri autopoeti parlano di «Bellezza» e altre amenità consustanziali allo stupidario di massa di oggi.

In questa situazione, che cosa può scrivere un poeta che vive nel paese più a rischio democratico d’Europa come l’Italia? Può solo scrivere con sconcertante umiltà:

«Tutto rotola e va in basso»

per concludere:

Controlla tutto e bene nel trolley.
Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.

Mario M. Gabriele

Quanto scrivi, caro Giorgio, non può che accomunarsi a quanto da me riportato nel commento del 24 aprile, a proposito della “divisività”, che ha dominato e domina la poesia italiana di oggi, dove un poeta, con idee nuove, debba rimanere sempre al buio in quanto nemico dell’establishment culturale che si consolida con la politica statica e conservatrice.

Mi duole se nel trolley dobbiamo portarci il Roipnol per dimenticare tutto ciò che la classe dirigente e i comandamenti che ogni anno provengono da Davos, unificano la classe sociale e culturale, dove basta un semplice agente patogeno, il Covid19 a fare piazza pulita di tutto il sistema collettivo dove si frantuma un corpo sociale in mille pezzi costruito da una cultura di comunicazione virtuale dove prevalgono le Fake News e i continui attacchi dell’opposizione alla classe dirigente di oggi che si trova a dover allontanare il Default come la nube di Chernobyl.

Se c’è qualcosa che ci accomuna è la nostra fragilità, l’essere una massa enorme e impotente all’interno di un mondo diviso. Ma ciò che più determina il nostro disagio è la degenerazione culturale di tipo fascista, che tipografa sui muri le svastiche o incendia le lapide dei partigiani.

Alla luce di quanto finora detto non possiamo permettere come normalizzazione e appiattimento l’idea di una Nazione, la nostra, che diventi ancella della Merkel, e della Troika che hanno fucilato la Grecia.

La poesia è anche un Kit di pensieri e azioni, rispetto al nostro mondo desacralizzato dalla pandemia, che ha rimesso tutto in campo, facendo rinascere una società in cui ciò che conta è la capacità di reinventarsi nuove occupazioni lavorative, anche se il Capitale sta a guardare e ad operare come un bodyguard.
Ti ringrazio, caro Giorgio, per aver ospitato un mio testo, da te rivelato nelle sue parti più essenziali.

Giorgio Linguaglossa

Il Signor F. frugò nel taschino del gilet e saltò fuori il nano Proculo,
con la giacca a quadretti azzimata, un pantalone liso e sdrucito
e un cappello a cilindro.

Il quale scrisse una lettera al Presidente del Consiglio Conte,
per riavere indietro i trenta denari dati in prestito e ancora insoluti
per via del precoce decesso del legittimo proprietario.

Si accomodò in poltrona dal barbiere François, accavallò le gambe
e si fece radere il mento.
Poi sputò nella sputacchiera e si diresse all’angolo della tosse

dove i liberi erano in quarantena.
Spalancò la finestra.
«Aria! Aria! Cambiate l’aria!», gridò.

[…]
Chiese uno stuzzicadenti.
Il Coronavirus saltellò qua e là e decise di uscire
a prendere un po’ di aria fresca.

Il poeta di Milano fece un gran fracasso.
Gridava che la «società letteraria» era scomparsa e altre quisquilie.

Inutilmente il direttore d’orchestra intimò il silenzio.
La grancassa riprese a fare fracasso.

[…]

Come prima. Più di prima.
Il direttore disse: «Ti amo» alla prima violinista.

Un gran numero di topi di fogna presero il largo
dicendo che in democrazia anche i topi erano liberi.
Accadde tutto così di fretta che il commissario non intervenne.
Un altro poeta gridò:

«La bellezza salverà il mondo!», e scomparve.
Dei turisti giapponesi si accalcarono per vedere il Prof. Tarro con il virus nell’ampolla.

Scattavano fotografie dappertutto, entravano anche nel bagno.
Dicevano ai bambini: «State zitti, contegno, state in casa del prof. Tarro!».
Poi le cose periclitarono, l’Italia fu dichiarata «zona rossa»

e venne bannata dalle guide turistiche.
Nadeche Hackenbusch, la bella presentatrice di un reality show
scorrazza per il lager con la sua jeep zebrata,

la accompagna la sua devota biografa, la redattrice della rivista “Evangeline”,
Astrid von Roëll, entrambe in minigonna e tacchi a spillo,

intervistano gli africani del lager.
Lui, anzi Lei, la loro amante, ribattezzata Lionel perché il nome tedesco
è troppo difficile, le asseconda.

Ursula Andress prende il revolver di Marie Laure Colasson,
dice che ha licenza di uccidere, e spara un colpo in aria
e un altro nella testa di Azazello

il quale crolla all’istante, e così Bulgakov non trova più il suo personaggio
che nel frattempo si è insinuato nel romanzo di Gadda
dove c’è il commissario Ingravallo che svolge le indagini.

Interviene il cardinale Tarcisio Bortone portando i buoni uffizi del Vaticano
ma non ci fu niente da fare, le cose tornarono a posto da sole.

[…]

Il nano Proculo si diresse verso la botola e riprese il suo posto.
Il Signor F. disse che aveva scherzato.
E si ritirò nella fogna.

Ursula Andress ritornò all’isola dei Caraibi,
sulla spiaggia, in bikini, nella famosa scena del film di Jan Fleming.

Un cormorano passò di lì.
E salutò.

 

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Poesia di Mario M. Gabriele, Promenade in Zelia Nuttal Gallery,  Video di Gianni Godi, Video di Diego De Nadai, Poesie di Mario M. Gabriele, Marina Petrillo, Giuseppe Gallo, Mauro Pierno

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Giuseppe Gallo

Pane al pane e vino al vino

Il Padre cullava l’idea di essere anche poeta.
Ogni tanto scriveva fiordaliso e poi sorriso.
Bruma ed aprico, rinfocola e sestante.
Una volta scrisse asfodèlo senza averne l’immagine negli occhi.
L’asfodèlo se la prese a male e protestò vivacemente.
-Perché non dici pane al pane e vino al vino?
Il Padre, allora, vide Jerry e gli scrisse Figlio sulla fronte.
Incontrò Mary nel corridoio e le scrisse Moglie sopra i seni.
Si guardò allo specchio del bagno e scrisse Padre sopra il suo riflesso.
Quando Jerry si accorse d’essere solo Figlio
se ne andò di casa a cercare una Moglie per essere Marito e Padre.
E quando Mary pensò d’essere solo Moglie
abbandonò la casa per cercare la Figlia ch’era stata
e trovare la Madre ch’era ancora.
Così, il Padre, ormai solo e poeta, tornò di fronte allo specchio del bagno,
inumidì il vetro con il proprio respiro e scrisse la parola Ombra
sulla sua Ombra.

caro Giuseppe Gallo.

la tua poesia mi ha fatto venire in mente questa frase di Giorgio Agamben: «il sottouomo deve interessarci assai più del superuomo. Questa infame zona d’irresponsabilità è il nostro primo cerchio, da cui nessuna confessione di responsabilità riuscirà a tirarci fuori».1 La poesia deve andare a sondare quella realtà del sottouomo, come tu scrivi: «Ombra sulla sua Ombra». Che cosa c’è sopra e dietro l’Ombra? Un’altra Ombra. Cosa c’è dietro il fondo? Un altro s-fondo. E così via. Fino a giungere all’Ereignis (l’evento). Con le parole di Heidegger: «l’essere svanisce nell’ Ereignis».2 Con il che la storia giunge al termine, e con essa la metafisica. L’Evento indica il punto cieco della ragione, ciò che non può essere portato a “significato” essendo lcondizione che precede e rende possibile ogni significato. Penso che la nuova poesia sia un aspetto della problematica dell’evento che si configura sotto i nostri occhi, emblematicamente rappresentato dalla perturbazione indotta nel nostro mondo dall’insorgere del Covid19.

(Giorgio Linguaglossa)

1 da http://ariliterature.org/forum/wp-content/uploads/2019/03/AGAMBEN-Quel-che-resta.pdf

2 M. Heidegger,  Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969; trad. it. a
cura di E. Mazzarella,  Tempo ed essere, Guida, Napoli  1980, p. 123

 

Mauro Pierno

In un’altra casa spingendo carrelli a vapore
un variopinto dipinto variegato al cioccolato. Senza panna.

Corresse subito la mira, la stessa ripartenza.
Suvvia i versi potrebbero misurarsi a metri, non ne avremmo difficoltà a srotolarne i nastri!

Ho fatto a meno dei decalitri questo sbottò.
Si portò la mano alla fronte, era totalmente sfebbrato.

A guardarlo non si direbbe. Colavano dal naso alternativamente i gusti cacao e fior di fragola.

Sono qui a dipingervi! Non potete, non potete ogni volta inventarne
di nuove e astruse! Questa volta sbatte forte la cella.

Sulla tavolozza le macchie correvano lungo le arterie, svoltarono.
Mirò il virus si attenne all’ordine.

Misurò la profondità del menù e svenne.

Mario M. Gabriele

L’unica cosa che Orlock disse fu: Gratia vobis et pax-
facendo frullare le ali delle rondini sul sagrato.

Giuda attese che lo chiamassero al Palazzo di Giustizia
dove c’era un bodyguard con la tagliola in mano.

Avete mai visto un uomo crescere nel pantano?
domandò Padre Cruz ai missionari nel Wuhan.

-Abbiamo bisogno di un sofà con lenzuolo di seta
e almeno 10 bicchierini di Gentleman Jack.

Il tuo viso non necessita di Chanel.
Ti toccherà tornare al passato rubando Le Illuminazioni.

Le cose come sono viaggiano a tradimento.
Ne parleremo con il Giudice al Processo.

Ci ha pensato anche Ian Bruegel, il Giovane,
con il Paradiso Terrestre alla Gemaldegalerie di Berlino.

Qualcuno si fermò nel concerto dei Pink Floid
dopo aver scritto: Liebe Christa wie geht es dir?

Si arrivava a piedi all’abbazia di Fra Petrarca
l’unico che sapeva dove fosse il Santo Graal.

I falchi passavano da un ramo all’altro
come pensieri senza sponda.

Niente più veniva alle porte del mattino
se non l’ombra del verbasco su un futuro da epitaffio.

Su tutto echeggiavano le parole di Franz Wertmuller
Oh, la soupe à l’Oignon Gratinée! –

(inedito)

Non saprei dire se questa sia una poesia post-pop o una pop-poesia, così come c’è oggi una philosophy kitchen si dà anche una poetry kitchen. Mario Gabriele sonda le possibilità della nuova poesia accostando e facendo fibrillare la Gemaldegalerie di Berlino con il Santo Graal, Wuhan e l’abbazia di Fra Petrarca, Franz Wertmuller e la soupe à l’Oignon Gratinée… mischiando il sacro col profano, reperti del museo della storia e ologrammi, fragili algoritmi poetici con assiomi e aforismi diserbati di significato. È il nostro tempo di Covid19 che richiede una poesia siffatta, né derisoria né irrisoria, che si sottrae alle categorie della critica del testo perché in realtà non c’è più nessun testo da interpretare, qui l’ermeneutica fa cilecca, mostra tutta la propria inanità. Qui c’è un testo che non si dà più come un testo, qui c’è un testo che bara con il lettore e con l’autore, e così facendo mostra che le regole del gioco sono state cambiate durante la partita, e che quindi non c’è più nessun gioco che si gioca, che la partita è finta, è frittura di pesce marcio… Continua a leggere

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In una zona periferica di Roma Capitale, tra l’EUR e il mare, sta la Zelia Nuttal Gallery, Foto di Gianni Godi, Poesie inedite di Mario M. Gabriele

La vasta area è facilmente visibile dal cielo tramite l’app Google Earth

(https://www.gogle.it/earth/download/gep/agree.html ).

È un luogo adatto alla meditazione.

Per qualche tempo e fino a poco fa l’area sottostante il grandioso quadrivio era abitata da Popoli nomadi che contrariamente a quanto si possa pensare, usavano come giaciglio di riposo i comuni materassi forse rottamati dal popolo degli stanziali. I giacigli abbandonati sono ben visibili tra le ampie arcate del viadotto.

La contemporaneità appare in tutta la sua grandezza.

L’insegna Mc Donald in fondo al viottolone certifica, non più l’avvento, bensì il completamento del nulla poetico.

Mi sono recato in Galleria Zelia Nuttal qualche settimana fa. Ho camminato quasi robotica mente in mezzo ai rifiuti urbani fra decine di murales, per un’ora, forse più. Confermo di aver provato l’effetto di inquietudine e respingimento forse simile a quello che prova Paola Renzetti! Ho pensato anche all’esistenza di luoghi ben peggiori di quanto stava davanti ai miei occhi. Il video che poi ho prodotto e che non mi sembra un granché eccezionale, tenta di figurarci la gran massa di collegamenti e stimoli a cui senza interruzioni è sottoposto il nostro cervello costretto a robotizzarsi contro natura umana. I computer in uso, pur essendo iper veloci, eseguono freddamente un’istruzione alla volta. Le istruzioni provengono singolarmente dai più disparati “luoghi”. Il “coordinatore” decide la precedenza senza peraltro “sapere” il significato dell’insieme prodotto.

Mi è sembrato di intravedere nella poesia di Mario Gabriele una simile disumana descrizione. Anche io, come Mario Gabriele, con il quale mi complimento a tutto cuore per l’audacia dei suoi scritti, integro il “cibo normale” con compresse di estratto da Biancospino e Olivo.

Un vero robot non riesce a piangere. Ecco. Almeno per ora.

Grazie a voi tutti per la disamina competente e accurata del prodotto pubblicato dall’Ombra delle Parole.

(Gianni Godi)

*

Ringrazio per questo nuovo excursus sulla mia poesia e di quanto scrive e riporta in immagini Gianni Godi dalla ”zona periferica di Roma Capitale”. Non sempre la Street Art produce effetti di meraviglia, e quando lo fa si rimane incantati per l’eccezionale riproduzione di immagini e cose.

Le facciate delle case  acquistano un’altra estetica. “La contemporaneità”, scrive Gianni Godi, “appare in tutta la sua grandezza”. Nessuno se ne sta accorgendo ma il concetto di Arte sta veramente cambiando forma fuori dalle Pinacoteche.

 Quello dell’Arte è un linguaggio potente e storico, così come avviene in poesia. Si slarga negli occhi con tutta la gigantografia scenica, cogliendoci di sorpresa attraverso la trasposizione di soggetti e cose. E’ il nuovo clima culturale a cui andiamo incontro e che determina una testimonianza dell’Arte nel rapporto diretto con la nostra sensibilità. Un esempio lo ha portato proprio Gianni Godi in un suo  video con i suoi spettacolari Speech Reader  mentre leggono un mio testo poetico.

(Mario M. Gabriele)

Due poesie di Mario M. Gabriele

1

Una casa di soli ologrammi.
Rimettiamo a posto le lettere da Londra.

Milly ha le allucinazioni.
Le dico che non sono né Piero, né Francesca.

Torno a cercare Elizabeth
per una serata tranquilla a bordo di kayak.

Un palazzo esotico lo vorrei con la scritta Hollywood.
C’era un grappolo di sogni nel torchio di novembre.

Maggy ha provato tutti i colori,
tranne il giallo di Klimt.

La Misericordia ha smarrito la strada.
Anaruddha ogni anno si strucca nel Gange.

Mare calmo, mare agitato.
Cerchiamo l’equivalente della tristezza.

Figura senza luce e ripiano.
Così è rimasta nonna Eliodora.

All’alba vennero turisti,
coriandoli di ragazze e black power.

Gli stagisti si fermarono alle citazioni.
Un oratore aprì il Convegno.

– Lasciate i documenti negli scaffali – disse.
– Domani, li bruceremo in un unico Fahrenheit. –

Il cellario fu preso dai gesti assolutori
dei Santi sui Cartelloni.

Gridò: – hanno sequestrato la casa.
La casa era tutto quello che avevamo! –

Caro Mister John, da questo luogo di paese-città
alla tua Portsmouth ce ne sono di storie secolari.

Passeremo le vacanze a Disneyland
o in qualche altro pezzo di questa terra.

Ti piace fare la gita?
oh yes, it’s my dream!

E nessuno ebbe più a formulare sentenze
e avvisi di warning.

2

La tua storia è passata come la Pop Art.
Mutazioni colorate esprimono il tuo volto.

Le collezioni autunnali nelle passerelle di Milano
mi riportano alla Ragazza Carla.

Ritrovo la retrospettiva del 65
e un asset-based economy.

Oggi, a fare da transfert è il Sedatol,
come sonno pseudobiologico.

I nostri nomi li ha ridotti il tempo
per economia di lessemi.

Il granturco si è messo da parte
e le Melinde tardano a riempire il mercatino.

Un penny e un nichelino
sono il tributo che vuole questa vita.

Mi rischiara l’autunno il pensiero fossile
come foglia di frassino ai bordi delle ciminiere.

Una generazione dietro l’altra
trova posto nel giardino di Spoon River.

Un certo modo di sentire le parole
passa per Evergreen e le Guerre Stellari.

Abitudine di July è rifare il viso di Marilyn
come nella serie colorata di Warhol.

Mi distruggo se penso a te sul far della sera.
Ci vuole solo un distico per scrivere un epitaffio.

Foto di Gianni Godi

Galleria Zelia Nuttal 6

Galleria Zelia Nuttal 5

Galleria Zelia Nuttal 2

Galleria Zelia Nuttal 4

Galleria Zelia Nuttal 3

Galleria Zelia Nuttal 1

Galleria Zelia Nuttal 7

Galleria Zelia Nuttal 8

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Le conseguenze sulla Poiesis della ontologia positiva, Peter Sloterdijk, La microsferologia, Mikrosphärologie, lo sviluppo degli spazi dell’intimità e dell’interiorità, La poesia posiziocentrica dell’io, Poesie di Milaure Colasson, Francesco Paolo Intini

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, L’essere è ciò che si dice

Può sembrare una annotazione minimal, laterale. Avevo letto quella definizione di «ontologia negativa di Heidegger: “l’essere è ciò che non si dice”», tanti anni fa. E non ero riuscito a capire tutta la portata che conteneva. Poi, leggendo alcuni filosofi di oggi e, in particolare, L’aporia del fondamento (2009) di Massimo Donà, mi sono reso conto che la scoperta di essere giunti ad una ontologia positiva: «l’essere è ciò che si dice», ha conseguenze rivoluzionarie anche sui linguaggi artistici. È stato come un fulmine.

Allora, ho ripensato a tutti i miei tentativi poetici di questi ultimi 35 anni, e tutto mi si è fatto chiaro: la ricerca di un nuovo modo di espressione, che sia sul piano delle arti figurative, musicale e letterario, non può non poggiare su questo punctum fermissimum: l’ontologia positiva.

Mi meraviglia che questo piccolissimo assunto sia sfuggito ai commentatori della rivista, ma qui siamo veramente alla presa di coscienza di una rivoluzione copernicana delle pratiche artistiche.

– l’Essere è ciò che si dice

– è la Circolarità Ermeneutica che presiede il dialogo;

– è il dialogo che apre alla soluzione problematologica;

-il dialogo è l’essenza della poiesis;

– l’incontro è sempre un incontro con l’Altro, l’Altro e l’alterità sono componenti essenziali della poiesis;

– “θεραπεύεσθαι δὲ τὴν ψυχὴν ἔφη, ὦ μακάριε, ἐπῳδαῖς τισιν, τὰς δ’ ἐπῳδὰς ταύτας τοὺς λόγους εἶναι τοὺς καλούς” “L’anima, o caro, si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli” Platone nel Carmide – 157/a;

– “Il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo”, Martin Heidegger;

– “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”, H.G. Gadamer;

– la relazione è fatica ed implica che “dire è u-dire”, Umberto Galimberti.

Foto selfie Jack NicholsonMilaure Colasson

Vert de l’ eucalyptus
Rose pale de la rose
Dans la transparence
D‘ un petit verre d‘ eau de vie
Sous l ‘ éclairage d ‘ une lampe de chevet
Sérénité

Oiseaux noirs des campagnes
Leurs cris étranglés
Les corbeaux

La mélancolie sonore
D‘ Erik Satie
Te vide de toute pensée
………………écoute

Une bande de rats
Vêtus de jeans troués
Fumaient des havanes
………pas des prolétaires

Perdre la vue
Michel Onfray
Comment dormir
Comment……………
Comment………………….. 

*

Verde dell’eucalipto
Rosa pallido della rosa
Nella trasparenza
d’un bicchierino  di acquavite
sotto la luce della lampada accanto al letto
Serenità

Uccelli neri delle campagne
le loro grida soffocate
I corvi

La malinconia sonora
D’Erik Satie
Ti svuota di ogni pensiero
….. ascolta

Un branco di ratti
vestiti di jeans bucati
fumavano degli avana
……..non proletari

Perdere la vista
Michel Onfray
Come dormire
Come………..
Come………..

(Traduzione di Edith Dzieduszycka)

Francesco Paolo Intini

[Le visceri di Cartesio]

                                   (a proposito della poesia di Marina Petrillo)

Rimase immobile tentando di mangiarsi le visceri
Non s’era mai visto una bottiglia prendere sul serio

La dannazione della propria anima
e rigirarla a perfezione,

Il tempo fa giochi di concia
poi passano le condanne a lasciare

Argomenti che diventano Si o No.
Essere cristallo, una risposta semplice al nulla.

Lo sguardo impietrito di Dio dal cielo di Michelangelo
l’immortalità e la damnatio del lavoro.

Si va per catene di montaggio fino al quarto cielo
Qui si attendono istruzioni su come interpretare le fondamenta.

Alzano la mano i poveri di spirito. Paolo è atterrito.
Gli altri rimangono nella contestazione.

Questa volta non c’è nulla da trasformare
Gli esperimenti dunque non hanno senso.

Azzerare tutto è improbabile
Si viaggia per teoremi su come eliminare la memoria.

La termodinamica non sbaglia un colpo.
Rimane solo l’osservatore dunque e il gioco fittizio di parole.

Ricostruire le possibilità dopo averle divorate
dove c’era lo spazio si metta il tempo.

Tra le quattro forze se ne trovi una
che dia impulso ad un istante

Essere uguale Nulla
Nulla che diventa Essere.

Facciamo un accenno al filosofo tedesco Peter Sloterdijk il quale svolge un discorso in molteplici excursus attingendo alla letteratura, alla psicanalisi e alle diverse forme d’arte figurativa, guardando all’arte non come qualcosa di omogeneo e fondato, non più possibile per la nostra epoca, ma come ciò in cui può ritrovarsi un atteggiamento autopoietico che non si lasci invischiare nella transitività dell’azione produttiva e del pensiero rappresentativo e dia mostra di sapersi convertire in una prassi esemplarmente decentrata e oblativa.
Il discorso di Sloterdijk è importante perché fornisce una sponda filosofica alla ricerca della nuova ontologia estetica per un’arte che non corrisponda più alla classica convenzione di una forma d’arte rappresentativa.
La poesia italiana, se vuole rinnovarsi, non può non prestare ascolto alla filosofia di oggi.

«Sloterdijk sostiene che in ambito estetico «l’opera d’arte può ancora dire qualcosa perfino a noi, che abbiamo disertato la forma, perché essa, in
maniera del tutto palese, non fa propria l’intenzione di opprimerci».1
I titoli dei volumi mostrano fin dall’inizio un’attenta sensibilità per le immagini materiali discusse nell’analisi psicanalitica del filosofo francese Gaston Bachelard, le cui opere vengono citate direttamente da Sloterdijk come una delle fonti principali dell’immaginario da cui vengono estratti i concetti psichici e filosofici di sfere. 2

La matrice dell’immagine è il fondamento del pensiero con cui Sloterdijk sviluppa il suo discorso, e lo accompagna per tutta la sua opera. Dalle immagini archetipiche, Sloterdijk ritrova un tesoro di espressioni da cui il pensiero attinge mantenendo sempre una visione d’insieme mediata dal vissuto psichico della dimensione inconscia. Sloterdijk attinge in diversi modi e tempi a tutta l’esperienza umana e non, contraddistinta, nel suo aspetto
essenziale e più accademico, da una ripresa ed estensione del volume heideggeriano Essere e tempo, per completare quel lavoro di ricerca del dove, che a detta dell’autore Heidegger ha interrotto bruscamente, preferendogli un chi. Sloterdijk quindi si preoccupa prima di tutto di fondare un
Essere e Spazio, e di farlo non solo attingendo alla filosofia e alla poesia, ma anche, tra gli altri, alla psico-ontologia di Jung. 3

Il suo scopo risulta nella presentazione di una filosofia ibrida alla ricerca di un fondamento archetipico oggettivo comune a tutti gli uomini, che ricalchi allo stesso tempo tutta la storia dell’Homo Sapiens, intesa come storia degli spazi psico-ontologici, dai primi sussulti di vita dell’embrione nell’utero materno ai grandi eventi cosmologici, trasformatori dei luoghi umani.

Il filosofo di Karlsruhe riprende l’immagine della sfera introducendo la sferologia (Sphärologie): lo studio di tutta l’esistenza umana, (pre-)individuale e collettiva, intesa come forma psicoantropologica sferica. Nella sferologia vengono distinte tre aree di studio, una per ogni volume.

La microsferologia (Mikrosphärologie) è lo sviluppo degli spazi dell’intimità e dell’interiorità, chiamati bolle, ricercati a partire dall’unità originaria prenatale tra embrione e grembo materno, precedente la costituzione di un vero e proprio soggetto. Sloterdijk si concentra qui brevemente sul noggetto (Nobjekte), una nuova classe ontologica di oggetti introdotta dal collega Thomas Macho, per indicare il rapporto mediale e bipolare che interessa il soggetto non ancora formatosi. Una relazione archetipica che va oltre la fenomenologia, esplorata attraverso la mistica indiana e la psicologia prenatale, che offre la struttura originaria su cui si modellerà poi la costituzione psichica dell’individuo e la sua esistenza nel mondo.
[…]
La prerogativa dell’immaginale è particolarmente rilevante qui, dato che Jung, Bachelard e Sloterdijk, ma anche Nietzsche e Heidegger, parlano e raccontano con immagini non nel senso di metafore o allegorie, ma di realtà effettive che formano direttamente l’esperienza del mondo del soggetto.
L’immagine è incorporazione del reale, nella propria I interiorità come nel mondo esterno.5
[…]
Tra le immagini dell’archetipo del Sé legate alla terra, si vedrà che in particolare sono i motivi materni a sorgere. Questo perché, come già sosteneva
Jung, l’archetipo si sviluppa nello spazio attraverso il comportamento animale, come pattern of behaviour , una delle definizioni che ha sviluppato in particolare la collaboratrice e psicanalista Jolande Jacobi.
In perfetto parallelismo con Sloterdijk, che riprenderà lo stesso discorso, l’uomo riceve l’impressione archetipica del rotondo a partire da reminiscenze inconsce prenatali.
Dall’utero materno, esperito attraverso l’unione mistica e il processo di individuazione, si ricava la forma originaria per organizzare l’abitare umano.
Il tutto viene esposto sulla base dell’unus mundus, cioè la corrispondenza psichica tra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, una medialità di completa co-interdipendenza e relazione estetica tra singolo, paesaggio e mondo, microcosmo e macrocosmo. Continua a leggere

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Carlo Del Nero, Poesie, con una Dichiarazione di poetica,  Giorgio Linguaglossa, Verso un nuovo paradigma poetico?

Carlo Del Nero. Sono nato a Massa il 27/10/1955 e vivo a Massa. Sono un autore inedito. Sono appassionato di musica, ho scritto anche qualche canzone, e di pittura.

Dichiarazione di poetica sulla poesia «ingenua»

caro Giorgio, mi chiedi dunque una «dichiarazione» sul concetto di «poesia ingenua».

Già la richiesta è stupenda, perché «dichiarazione» mi porta subito alla mente una affermazione d’amore. La dichiarazione ad una donna, ma in questo caso una dichiarazione d’amore all’ingenuità.

L’ingenuità è una privazione positiva. L’ingenuità l’abbiamo alla nascita, quando non abbiamo sovrastrutture, non abbiamo limiti, ancora non abbiamo segreti né sappiamo cosa siano. Dura poco. Sopra questa ingenuità si costruisce gran parte di ciò che siamo. Ovvio che non è possibile e neppure auspicabile tornare a quel punto, però è possibile “ripulire”, depurare dal superfluo, togliere dal blocco il marmo in eccesso che nasconde la figura (si vede che vivo da questa parti!! ).Non è l’ingenuità dell’infanzia, quello è solo un richiamo, è invece molto più umilmente l’onestà.

Quando si incontra una persona sconosciuta e per motivi apparentemente incomprensibili, si raccontano cose mai raccontate ad alcuno e che mai avremmo pensato di mostrare.

Dopo tutto è l’onestà di essere quel che siamo. Mica un lavoro da poco!

Insomma, bisogna credere nelle persone nude, che se tutti lo fossimo ci sarebbe solo pace. In questi giorni che scopriamo così tanto odio, tanta vigliaccheria, tanta violenza (in questi giorni come in tanti altri giorni passati), vediamo in realtà solo maschere ammaestrate che probabilmente mai hanno fatto lo sforzo di “scoprirsi” a sé. 
E poi, come già ti dissi, l’arte è una fede. Non sappiamo dove nasce, non sappiamo come, e non sappiamo neppure davvero distinguere con assoluta libertà, precisione e certezza. Però sappiamo vedere, ascoltare e meravigliarci anche senza la formula chimica dell’arte. Esattamente come per chi ha fede: sentire una certezza senza averne alcuna certezza.

E’ una fede che è fiducia, ma non può esistere senza una fiducia nell’individuo nudo che ne è il costruttore. Una fiducia beffarda, perché persiste anche nel più pessimista, deluso, arrabbiato e maledetto dei poeti. Gli infonde l’ottimismo di prendere una penna per descrivere il suo pessimismo. Beffarda davvero, non trovi!
Cercando i contrari di ingenuità, troviamo astuzia, furberia. tra i sinonimi troviamo sincerità, freschezza, purezza. Non tutti questi sono i sinonimi e i contrari, ma questi sono quelli che danno il senso al mio modo di utilizzare il termine. Nell’ammirare una maestosa cattedrale gotica, anche il più “furbo” trova un attimo di ingenuità, e dunque proprio questo sia uno dei compiti dell’arte?

Probabilmente non è questo che chiedevi, ma io non sono all’altezza di scriverti un trattato su alcunché, ti dovrai accontentare.

carlo del nero (13)

PS: una piccola nota sul quadro che ti ho allegato all’inizio della discussione.

il 24 maggio ricorreranno i 100 anni dalla nascita di mia madre. Per commemorarla abbiamo deciso di riunire per una cena i cugini (da parte di madre appunto).  Il quadro che ho allegato l’ho dipinto per l’occasione ed è composto di 15 tavolette di legno della misura 20×30 che tutte insieme compongono l’immagine che vedi. In quella occasione ad ognuno dei 15 cugini (me compreso) consegnerò una foto dell’intero ed una tavoletta. Quel quadro intero non si vedrà più. Nel mio piccolo a me sembra un po’ una poesia anche questa.

Giorgio Linguaglossa

         Verso un nuovo paradigma poetico?

Credo che un poeta completamente inedito, e quindi «vergine» come Carlo Del Nero, e per di più non più giovane – quindi non appartenente alle nuove generazioni le quali sono tutte protese verso le radiose praterie della visibilità – abbia qualcosa da dirci, e ce le può dire proprio perché se ne è restato in disparte per decenni a ruminare la cosa chiamata poesia che tanto non interessa a nessuno, tanto meno agli addetti ai lavori (come si diceva una volta con pessima terminologia). Il titolo è un avverbio, e sta ad indicare la modalità esistentiva dell’esserci, di noi, il nostro modo di approcciare le «cose» con indaffarata superficialità e sordità. Possiamo immaginare che Del Nero abbia dovuto anche lui attraversare il deserto di ghiaccio degli anni ottanta, novanta e dieci del nuovo millennio, abbia scontato sulla propria pelle la deriva epigonica e prosaicista della poesia italiana del novecento e abbia meditato su tutto ciò. Ebbene, Del Nero nulla sa della nuova piattaforma denominata «nuova ontologia estetica», però penso che qualcosa abbia letto se ci ha mandato le sue poesie, ciò vuol dire che abbiamo riscosso quantomeno la sua fiducia. Carlo Del Nero fa poesia perché non ha nulla da chiedere alla poesia, nulla da perdere, fa poesia senza atteggiarsi a poeta (leggo frequentemente degli scriventi che si dichiarano «poeta» e «poetessa» senza tema di apparire ridicoli) e senza infingere o indulgere negli e con gli strumenti retorici e, soprattutto, non fa mai riferimento all’Ego e alla sua profilassi poetologica. Carlo Del Nero preferisce il discorso diretto, non conosce altro che il discorso diretto all’interlocutore. Il discorso testamentario potremmo definirlo:

Amico,
mi piacerebbe tu preparassi
una bella orazione funebre
per la mia notte,
tu

Credo che possiamo tranquillamente annoverare Carlo Del Nero quale ricercatore di «nuova poesia», al pari degli autori della «nuova ontologia estetica», lui che scrive: «mi affascinano i quaderni bianchi,/ le scatole vuote»; «Quanto è vecchio dio!/ neppure si è accorto/ che ha le tasche bucate/ …e quante stelle/ gli sono cadute». Si avverte una disillusione quasi senza amarezza per tutto ciò che è andato perduto, in lui non c’è nulla dello scetticismo, del cinismo e del disincanto del minimalismo post-moderno romano/milanese, il disincanto c’è ma senza ombra di scetticismo piccolo borghese e di cinismo pariolino. Del Nero ha una postura minimale, un lessico minimo, un tono minimo anch’esso, eppure la sua poesia non è minimalismo ma rientra nella poesia a corredo metafisico, quella che va verso le cose e si tiene a distanza dalle cose. Istintivamente intuisce qualcosa sulla differenza tra gli «oggetti» e le «cose».

cambiamento di paradigma

Tempo fa discettavo intorno alla ipotesi che si stesse profilando nella poesia italiana un cambiamento di paradigma, dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza, espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, è ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo. E questa è senz’altro una buona notizia.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (in La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck:

«Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

si è concluso il Post-moderno

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il Fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili e mi riferisco ad una recentissima scoperta scientifica: è stato individuato un cristallo che ha una struttura atomica mutante, cioè che muta nel tempo!) ed il Fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un certo concetto di reale e di finzione), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio» (per dirla con un termine del lessico mediatico).

 

Poesie di Carlo del Nero

In questa stagione non si appendono più
panni all’attaccapanni

L’ingresso è nudo e tagliato
dalla finestra assolata che ribolle il passo

L’Arlecchino nudo è in tinta unita
in tinta erotica Colombina

Ma l’amore stenta nel sudario
regalando l’imbarazzo di un’inutile attesa

Questo silenzio ci insegna
il traffico là fuori

Questo tempo ci indica stanchezza
serena di bastarsi almeno per adesso. Continua a leggere

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Massimo Donà, La struttura aporetica del reale e del linguaggio poetico La struttura a polittico, La nuova poesia italiana, Poesie di Francesco Paolo Intini, Milaure Colasson, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Tomas Tranströmer

Giorgio Linguaglossa

Credo a questo punto sia opportuno verificare il significato del termine «interferenza» che sta avendo un grande ruolo nella costruzione della nuova poesia e del polittico in particolare:

il Sabatini Coletti
Dizionario della Lingua Italiana

Significato di «interferenza»
[in-ter-fe-rèn-za] s.f.
1 fis. Sovrapposizione di fenomeni; nelle telecomunicazioni, azione esercitata da una comunicazione su un’altra con conseguente disturbo || figure d’i., quelle formate per interferenza delle radiazioni ottiche

2 ling. Influenza esercitata da una lingua su un’altra

3 fig. Intervento indebito, intrusione: interferenze della politica nell’informazione.

Ecco cosa c’è scritto nella Treccani:

interferènza s. f. [dal fr. interférence, che è dall’ingl. interference, propr. «incrocio, conflitto (di interessi, ecc.)», der. di (to) interfere: v. interferire]. –

  1. Nel linguaggio scient. e tecn., il sovrapporsi di due fenomeni cooperanti e il conseguente sommarsi o elidersi dei loro effetti. In fisica, con riferimento a fenomeni vibratorî e ondulatorî: i. costruttiva, o positiva, quando gli effetti consistono in un reciproco rafforzamento; i. distruttiva, o negativa, quando si ha una riduzione reciproca dei singoli effetti (con questa accezione, anche assol. interferenza, senz’altra determinazione: i. della luce, o i. luminosa; i. di particelle).

In partic.: figure d’i., le figure luminose formate per interferenza delle radiazioni ottiche; frange d’i., v. frangia, nel sign. 4. Con sign. specifici, in altre discipline:

  1. Nella tecnica delle telecomunicazioni, qualsiasi azione che venga esercitata su una comunicazione da un’altra comunicazione o da un segnale estraneo, dando luogo, in conseguenza, a disturbi e ad alterazioni varie nella comunicazione che interessa. b.

In farmacologia, caso particolare di antagonismo, che interessa organismi molto semplici (unicellulari) e consiste nella inibizione alla penetrazione di un farmaco per la presenza di un’altra sostanza. c.

 In virologia, inibizione della crescita di un virus in cellule infettate da un altro virus. d. In genetica, il fenomeno per cui, nei cromosomi omologhi, non si verificano nei punti prossimi a uno scambio (crossing-over) altri scambî o si trovano con frequenza molto inferiore a quella teoricamente prevedibile. e. In matematica, la parte comune a due o più insiemi, detta anche intersezione. f.

In ottica cristallografica, colori d’i., figure d’i., colori, figure prodotti da sostanze cristalline birifrangenti osservate al microscopio polarizzatore con luce, rispettivamente, parallela e convergente. g. I. aerodinamica, lo stesso che induzione aerodinamica (v. induzione, n. 3 a). h. Con sign. analogo, ma più concreto, nelle costruzioni meccaniche, la compenetrazione dei due profili di una coppia di ruote dentate; anche, la differenza tra le dimensioni delle due parti di un accoppiamento fisso (le dimensioni della parte interna sono infatti sempre superiori a quelle della parte esterna per realizzare il forzamento). 2. estens. In semantica, una delle cause delle trasformazioni di significato d’una parola, consistente nel sovrapporsi d’un secondo significato a un primo in connessione con etimologie popolari o semidotte: per es., l’uso di inedia con il sign. di «tedio, noia» è dovuto prob. a una sovrapposizione di inerzia (un altro esempio di interferenza semantica è lo stesso verbo interferire).

Più generalmente, in linguistica, l’influenza che in singoli casi e come fenomeno individuale una lingua può esercitare su un’altra lingua in contatto, spec. in soggetti bilingui, portando a modificazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche o lessicali; così, per es., a un italiano potrà accadere di dire art nouvelle per art nouveau, dando al fr. art il genere femminile dell’ital. arte; o di dire, per un erroneo calco, ma machine per ma voiture. 3. fig. Incontro di azioni, iniziative, interessi, idee diverse, per lo più discordanti, o che tendano comunque a influire l’una sull’altra determinando spesso un contrasto; più genericam., intromissione, inframmettenza: il potere giudiziario dev’essere sottratto a ogni i. del potere esecutivo; interferenze tra Chiesa e Stato, tra fatti politici e fatti economici; non tollero interferenze nei miei affari privati; la vita … era troppo oziosa perché non vi proliferassero il pettegolezzo e l’i. negli affari altrui (Primo Levi).

Massimo Donà

 La struttura aporetica del reale e del linguaggio poetico

Spezzo un giavellotto in favore della categoria dell’interferenza nel linguaggio poetico. Portiamo ad esempio il concetto dell’uno come uno che, in quanto posto come uno, si duplica in due… e così via di rinvio in rinvio ad altro e, quindi, di duplicazione in duplicazione, essendo la struttura della duplicazione la medesima della struttura dell’uno, al modo che l’identità dell’uno viene confermata nel suo duplicarsi immediato in due e in numeri infiniti. Così, non possiamo che concludere che nell’uno c’è l’infinito, ovvero, nel finito c’è l’infinito. È questa la struttura aporetica del reale che risuona anche nel linguaggio e nel linguaggio poetico in particolare.

(Giorgio Linguaglossa)

«Si pensi al circolo dell’interpretazione infinita (che ancora oggi tanti adepti e continuatori guadagna alla propria causa) – tanto per fare un esempio particolarmente significativo di tematizzazione della questione del “linguaggio” – e al suo teorizzatore: Hans Georg Gadamer.

Egli avrebbe voluto riconsegnare al logos quella ampiezza e quella realità che sembravano destinate a un irresolubile irrigidimento; di contro a un incontrastato dominio della filosofia del “concetto” (si pensi all’enorme influenza dell’hegelismo ottocentesco).

Ma, in realtà, anche questo tentativo doveva essere seriamente inficiato dalla sua vera e propria infondatezza teorica. Il circolo ermeneutico è quello che è solo in quanto per esso “identità definitoria” e “proliferazione delle differenze”, non sono in alcun modo coincidenti – anzi, solo in quanto formalmente separati, si ritiene possano costringere qualsivoglia forma di “unità” a ridefinirsi all’infinito, in corrispondenza alle sempre nuove modalità che la differenza di fatto produce (indipendentemente da ogni troppo prevedibile rispetto verso nomoi già esistenti).

Per Gadamer, infatti, “le possibilità finite della parola sono messe in rapporto con il senso che si manifesta come qualcosa che indica nella direzione di un infinito…”.1

Un esempio particolarmente significativo di tale destino sembra essere rappresentato, agli occhi di Gadamer, dalla parola poetica.
Già Hölderlin ha mostrato che l’invenzione del linguaggio di una poesia presuppone la dissoluzione totale di tutte le parole e le formule linguistiche consuete”.2

Ma, se, davvero, di contro alla dialettica del concetto (e qui il referente polemico è Hegel, ossia la sua concezione dialettica), l’esperienza ermeneutica comporta che “lo sviluppo del significato totale, che è l’obiettivo della comprensione, ci mette nella necessità di formulare un’interpretazione e di ritirarla subito di nuovo”3 – se non altro in quanto, “nell’evento del linguaggio, non ha la sua sede solo ciò che permane, ma anche il mutamento delle cose”4 -, allora, sempre nell’ottica gadameriana, il compito dell’interpretare (e dunque del linguaggio da cui il medesimo è reso in qualche modo possibile), espresso in termini logico-formali, si costituirà nell’incessante ridefinizione di un inesauribile rapporto tra identità (di fatto rinviante al senso in cui l’interpretante di volta in volta si ri-troverebbe ad essere – da cui il suo esser così com’è) e differenza (eccedenza “mai esauribile” del significato – perciò strutturantesi come modo dell’in-finito -, che differenzierebbe, ab alio, quello stesso senso unitario di cui sopra… e per effetto di un’originaria azione destituente da quello costitutivamente insussumibile e dunque illegiferabile).

Da ciò l’originarietà dell’azione reciprocamente determinante di una unità e di una molteplicità sempre non-contraddittoriamente concepite.
Che è proprio quanto abbiamo visto venire ab origine “negato” dall’aporeticità originariamente caratterizzante la struttura del linguaggio tout court; la stessa che mai ci consente una reale esperienza di libertà (libertà, se non altro, rispetto al contesto mondano) – magari fondata sul fatto che “il rapportarsi al mondo richiede che si sia staccati da ciò che nel mondo ci viene incontro al punto da poterselo rappresentare come esso è”.

la posizione gadameriana ha insomma ben poco a che vedere con l’aporia da noi messa in luce; anche perché, a costituirsi, in essa, è invero una palese oscillazione tra affermazioni che ribadiscono l’originaria linguisticità dell’esperienza umana, ovvero l’intrascendibilità del linguaggio (“né si può pensare di guardare dall’alto il mondo del linguaggio, giacché non c’è un punto di vista esterno all’esperienza linguistica del mondo, dal quale tale esperienza possa essere guardata oggettivamente”6) – dominio dell’identità! – e a critiche assunzioni di quella che viene riconosciuta come “apparenza immediata naturale” o “evidenza intuitiva”, e in quanto tale contrapposta all’artificiosità della costruzione linguistico-intellettuale; e valevole quindi come fonte d’esperienza tanto reale quanto quest’ultima
[…]
Si tratterà di sottolineare piuttosto, e nel modo più risoluto, come interrogarsi intorno alla questione del “linguaggio”, non significhi affatto porsi un problema metodologico e dunque preliminare rispetto alla vera e propria ricerca metafisica od ontologica che dir si voglia – quasi ci si dovesse interrogare dapprima sulle condizioni di dicibilità, e solo in un secondo tempo (e quasi indipendentemente dagli esiti di questa indagine preliminare) porsi il problema della “verità” o del “fondamento”… magari dimentichi del fatto che i risultati della prima parte della nostra ricerca dovrebbero valere anche per quel linguaggio che, solamente, consente di esprimersi in termini di fondamento, verità ontologia, identità e differenza.

Insomma, decidere del significato e della realtà del linguaggio è già un decidersi intorno all’essere di ciò che è, e, per quanto detto sino a questo punto, intorno al rapporto linguaggio mondo – e ciò è vero per il semplice fatto, appena ricordato, che la verità può essere detta solo nella misura in cui e nei limiti in cui il linguaggio “dica” davvero qualcosa (la verità non può essere tale se non anche in relazione a quella determinazione che chiamiamo “linguaggio” – il linguaggio, infatti, se è, è, come un tutto, secondo verità).

Ecco, da dove la necessità di un’analisi del linguaggio in grado di concepire il linguaggio medesimo come problema eminentemente filosofico – e l’importanza dei risultati sin qui conseguiti.

Una cosa è certa, comunque: stante che “il carattere di segno esiste qui solo connesso con qualcosa d’altro, che valendo come segno è anche qualcosa di per sé e ha quindi un suo autonomo significato, diverso da quello che ha come segno”8, allora il linguaggio (che, per quanto detto sino ad ora, coincide con ogni determinatezza, in quanto originariamente costituentesi come “significato”) non si configura come semplice struttura di “segni” (né di simboli o immagini che dir si voglia – la struttura del rimando è infatti sempre la medesima, di là dalla precisione o dalla sua più o meno consolidata univocità).
Nessuna “relazione”, infatti, riuscirebbe a giustificarne la supposta potenza indicatoria.

D’altro canto, l’aporia non può certo venire indicata o in qualche modo significata; per quanto non si celi né si ritragga in qualche misteriosa ascosità. Ma da sempre si articoli piuttosto nel di-segno proposizionale in cui, solamente, il non-esistere di quel che esiste può annunciarsi e palesarsi per quello che esso veramente ‘non-è’.»*

* M. Donà, L’aporia del fondamento, Milano, Mimesis, 2008 pp.529 e segg.
1,2,3,4,5,6,7, cit da H.G. Gadamer, Wahreit und Methode, Tubingen, 1965 pp. 444, 446, 441, 425, 419, 429, 425

 Gino Rago

Nel corso di un colloquio-intervista con un poeta, assai noto al pubblico de L’Ombra delle Parole, mi è stata posta anche la:

Domanda

In poche parole come presenteresti un “Polittico poetico in distici”…? 
Ho provato dare questa:

Risposta 

In estrema sintesi direi:

Fisica quantistica+ Civiltà musicale+ Arti Figurative+ Cronaca+ Storia+ Misticismo Barocco+ Arti plastiche+ Scontro di dive (Lisi-Dietrich) come urto fra Cinecittà e Hollywood+ Compressioni ed Espansioni dell’universo+ Letteratura+ Personaggi-poeti vivi + Personaggi-poeti non più vivi+ Tempo dilatato + Tempo compresso+ Spazi-geografie nell’indefinito e nel familiare+ Fono-prosodie con al centro immagini+ Parole entanglate come protoni nell’entenglement+ Rottura delle associazioni sostantivi-aggettivi a favore dei sostantivi+ Soppressione definitiva del piccolo Io narcisistico e perdente come illusoria misura della storia e del mondo+ Valorizzazione del sostantivo+Immissione del parlato ( in forma di monologo o di dialogo) + Altro = Polittico (o meglio, tentativo di polittico, così come lo sto intendendo).

E’chiaro che non si approda al Polittico in distici senza l’attraversamento consapevole della esperienza poetica per “frammenti”.

Per ora il Polittico in distici (Religione-Arte-Letteratura-Poesia) mi pare il max che si possa chiedere alla Parola di poesia se si vuole, per me, andare più in là e un po’ più in alto di dove hanno fin qui osato e ancora osano… le quaglie.

E per non correre più il rischio in poesia di continuare a sentire dappertutto ruggiti… di agnelli, rischiando di annegare nella profondità … di una pozzanghera. Continua a leggere

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Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio? Poesie di Carlo Livia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Commenti di Michel Meyer, Lucio Mayoor Tosi, Nunzia Binetti

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Fondare una oggettoalgia della Memoria e dell’Oblio?

 

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

Non vedo l’ora di avere al governo una miss

in gabardine, che sappia il fatto suo. Una che pare uscita
dal fon ma decisiva sull’orientamento dei social. Come farsi
venire il cancro e quali rimedi.

Scrive Alfonso Cataldi:

Una cuspide infantile conficcata nel polpaccio
chiede ancora
«Tamburi, giochiamo a guardia e ladri?».

Scrive Carlo Livia:

La madre obliqua tiene al guinzaglio due amanti vegetali, oscillanti.

Scrive Mauro Pierno:

È tornata una psoriasi in cammino. Un corteo instabile con andamento lento.

Francesco Paolo Intini nel suo brillante commento nel post di oggi [n.d.r., leggi ieri], scrive:

«Si comunica per interferenze. Il pensare è costituito da figure d’interferenza.»

Prendo lo spunto da quest’ultima osservazione di Francesco Paolo Intini per osservare che per il 95% del nostro essere nel mondo noi siamo esposti continuamente alle «figure di interferenza». Quando guardiamo il televisore, ascoltiamo la radio, guardiamo lo smartphone in metropolitana, quando siamo in un autobus a Roma o a Torino o a Canicattì, quando ci troviamo in un bar affollato, quando stiamo dal barbiere a farci tagliare i capelli, quando siamo in una sala d’aspetto di uno specialista in cardio chirurgia, o nelle sale d’aspetto di un aeroporto o di una stazione ferroviaria, quando andiamo ad ascoltare un terrificante slam poetry, quando andiamo a fare la spesa al mercato, e via di questo passo, noi siamo esposti di continuo alle «figure di interferenza»; innumerevoli interferenze avvengono anche quando siamo rinserrati nella nostra solitudine negli anonimi palazzi romani a dodici piani, attraverso i muri, come ben rappresentato nelle poesie di Donatella Giancaspero. In realtà, nella nostra vita quotidiana siamo esposti a innumerevoli «figure di interferenza» e continuare a pensare la forma-poesia come un monologo di un Robinson Crusoe in un’isola deserta (come avviene nella poesia di Cucchi), è una finzione e una falsificazione del mondo reale nel quale viviamo. La poesia di uomini solitari che monologano intorno alla propria solitudine ad interrogare le stelle, è una finzione, anzi, peggio, è kitsch. La nuova poesia non può continuare ad avallare questa ridicola insulsaggine, la nuova poesia non può non accettare le condizioni poste dalla nuova civiltà telematica e globale ed assume le «figure di interferenza» come una categoria ineliminabile dalla nuova poesia e come un dato di cui non ci si può sbarazzare con un atto di bacchetta magica. Il mondo è cambiato, e, di conseguenza, anche la forma-poesia è cambiata, e la NOE non può che rappresentare, con mezzi poetici, questi cambiamenti storici ed epocali.

Scrive Michel Meyer:

«nei manuali sul linguaggio e la semantica, si studiano le proposizioni come entità logicamente autonome, e ciò è evidente. L’autonomia, tutta relativa come si è visto precedentemente, è anch’essa un prodotto, il frutto di una dinamica. Di conseguenza, non si può affrontare la questione del senso al di fuori dell’idea di discorso, e anche, per completezza, del discorso detto di finzione, Quale test migliore della letteratura, per verificare una teoria del linguaggio che vuol essere totalizzante? Allora troveremo forse nei teorici della letteratura la concezione del senso generalizzato che cerchiamo? La risposta è sfortunatamente negativa, e questo per un’eccellente ragione. Molto spesso coloro che si occupano di letteratura procedono – in nome della scienza, e dunque del rispetto dell’empirico, beninteso – analiticamente, come i nostri linguisti del capitolo precedente. Studiano delle opere isolatamente,. o degli autori. Non c’è affatto bisogno di una visione filosofica del linguaggio per operare in questo modo, no? E sempre in questo ambito, si presupporrà una metodologia della lettura che non si dovrà esplicitare, e ancor meno giustificare. Le opere non parlano forse da sé? Le cose sono senza dubbio un po’ cambiate, appunto con l’autoreferenzializzazione della letteratura di cui abbiamo già parlato prima. La letteratura si è presa sempre più come proprio oggetto e ha messo il proprio linguaggio alla ribalta della critica letteraria. E qui, è sorto un altro scoglio: quello di una teoria del linguaggio modellato sul linguaggio della finzione. Come Frege aveva in mente l’univocità e l’oggettività del linguaggio matematico-sperimentale quando parlava di logos, Derrida, a esempio, ha una concezione letteraria del logos, fondato sulla non-referenzialità del linguaggio, sulla sua natura non univoca, retorica, tropologica; figurativa, in una parola. Ma si tratta di una retorica argomentativa: i segni si rimandano indefinitamente gli uni agli altri…».1]

1] M. Meyer, De la problématologie. Philosophie, science et langage, Bruxelles, 1989, trad it. Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 199i p. 317

Gif Vogue cover

Non vedo l’ora di avere al governo una miss/ in gabardine, che sappia il fatto suo. Una che pare uscita/ dal fon

Lucio Mayoor Tosi

17 maggio 2019 alle 12:12 

Di fatto, nella poesia NOE, e forse particolarmente nel polittico, il discorso poetico che si compie – tramite reportage, missiva, telefonata, o quant’altro – costituisce un artificio. L’intero discorso è un artificio, la cui funzione consiste nell’unire tra loro elementi casuali, distanti e discontinui. Le «interferenze».

Resta una parvenza, traccia od ombra dell’idea di discorso.

Giorgio Linguaglossa
17 maggio 2019 alle 12:15

Stanza n. 27

Sulla borchia di ottone c’è scritto:

«Girone dei morti assiderati». Entro.
Ombre bianche sono alle prese con dei simulacri.

Altissimi soffitti, corridoi ciechi, corridoi curvi,
tante lampadine appese ai fili della luce.

Un travestito cammina su alti trampoli
in giarrettiere e calze velate in compagnia di un trampoliere.

Sonnambuli camminano e si vedono camminare.
Ridono. E tornano in sé.

[…]

Simulacri prendono congedo dagli abiti.
Un Re senza testa è seduto sul trono.

Un dio raccoglie la testa del Re.

Una Regina cavalca con il cavaliere di coppe.
Un fante raccoglie la testa del Re.

Uomini entrano dentro gli specchi,
e ne escono bambini.

[…]

Gli oggetti della mia infanzia.
Lo sgabello che pensavo fosse un trono.

L’ombrello che pensavo fosse uno scettro.
L’esercito dei bottoni di madreperla.

La stanza dei giochi infantili. La finestra aperta.
La finestra chiusa.

Dalla finestra della stanza n. 27
qualcuno spara un proiettile,

il quale attraversa il muro, esce dalla porta
e colpisce alle spalle mia madre che raccoglie la cicoria.

Nunzia Binetti

17 maggio 2019 alle 17:14

Una NOE realizzata in modo lodevole. La lateralità del sé, in stanza n.27, ha prodotto versi importanti e addirittura coinvolgenti , in cui si affacciano frammenti di memoria, che definirei, sussultori. Ciò che mi domando, Giorgio, è se una forma- poesia così nuova, come la NOE, possa incontrare un gruppo di lettori in grado di comprenderne l’efficacia e la filosofia che ha contribuito a fondarne il metodo, metodo per il quale ci battiamo contro un esercito di infedeli, per non definirli ancor peggio, disseminati ovunque si volga lo sguardo. Complimenti per questi tuoi versi.

Gif Beyoncé

La Regina-dei-cartoni

Gino Rago

17 maggio 2019 alle 18.51

La Regina-dei-cartoni a Via Marsala dialoga con Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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Poesie di Donatella Giancaspero, Maurizio Cucchi, Marina Petrillo, Lorenzo Pompeo, Commenti di Gino Rago e Giorgio Linguaglossa, L’impalcatura del pensiero poetante e l’economia monetaria dello stile

Donatella Giancaspero

Alla fine di aprile

L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana.
Attraversando un flash, tocca il fondo.
Una lesione sul bordo per gli anni a venire.

A pranzo, in cucina, la sedia occupa il posto estraneo.
Sfilano i bar di passaggio. Le arance spremute nei vetri opachi.
Da un isolato all’altro, le parole sbirciano vetrine

– “per caso, senza l’idea di comprare qualcosa.
Cercando, magari una volta soltanto
e fuori stagione, un gelato al limone…”

Alla fine di aprile, i gabbiani qua intorno. Tanti.
Sui tetti. In cima ai comignoli. Appollaiati.
Chi punta il dito, in un ritaglio tondo di cielo.

*

Tre colpi dal piano di sopra

Tre colpi dal piano di sopra. Il quarto
fa vacillare uno studio del Gradus ad Parnassum*.
Insieme, qualcos’altro, ritratto
nell’intercapedine fra l’intonaco e un’eco di scale.

Chiodo su chiodo, gli sconosciuti
si cercano dentro il sentore delle stanze.
Nell’insistenza delle macchie sul soffitto.

Un intervallo di quinta discendente alla finestra.
Ci domandiamo che ora sarà da qui a trent’anni,
nelle smart home di risorti edifici.

Intanto, i treni cittadini irrompono nel rombo del temporale.
Un refrain senza indicazione di tempo replica in verticale
la sequenza del pianoforte sbalzato sul selciato.
Sotto gli occhi delle facciate, sospinto a mano.
Da una persiana all’altra.

*

Copio e incollo da Nuovi Argomenti le poesie di Maurizio Cucchi tratte dal suo ultimo libro, Sindrome del distacco e tregua, Mondadori, Lo Specchio, 2019.

(Giorgio Linguaglossa)

Maurizio Cucchi

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

*

Ma poi, e basta qualche ora,
dopo l’orrore della massa accodata,
ecco la tregua benefica che scioglie
la sindrome sinistra e pervasiva
del distacco.

Che paesaggio, piano, indifferente,
serenamente bigio nell’oceano,
nelle sue piccole bianche casine silenziose
e io, la spuma tranquilla alle mie spalle,
in appoggio, slittavo in un sorriso nel vento
di improvvisa adesione. Non totale
adesione, ma quasi.

*

da Il penitente di Pryp’jat’

Nella foto di Kostin lei è di spalle, avanza
con un bastone e un sacchetto nero,
curva, ingobbita nella sua veste scura
e un fazzoletto in testa in una strada
solitaria, di terra e ciuffi e sassi.
Vecchissima arranca verso un dove
di patria, un dove di pace e morte.

*

Su tutto spicca la grande insegna
bianca sul prato, a sovrastare
quasi trionfale, la desolazione:
Припять 1970, l’anno
della sua edificazione. C’erano
la via dell’amicizia dei popoli,
la via degli entusiasti, una città
privilegiata di tecnici e maestranze,
l’idea del futuro nei palazzi, nelle menti
delle famiglie, dei bambini
nei parchi e nelle scuole.

Lo spettacolo fu quello
di una luminescenza strana,
meravigliosa, dissero. I pompieri
accorsero, si tolsero le tute,
tutto. E morirono tutti.

*

Ma solo dopo 36 ore
l’intero popolo della nuova città
fu finalmente evacuato.

Cesio-137. La nube
seccava le mucose nella bocca
e tonnellate di materia radioattiva
furono sparse nel vento, portate
dal vento verso nord. Un rilascio
pari a duecento volte Hiroshima
e Nagasaki messe assieme.

Nel caos dell’esito attivo
si annusava l’odore della carne marcia,
si andavano moltiplicando orrori vari
al sistema osseo, al connettivo, al sistema
nervoso e circolatorio.

Videro galline dalla cresta nera,
il latte si rapprendeva in polvere
bianca, nacquero sette ermafroditi.
Una moria di animali negli orti
diventati bianchi, nella foresta
rossa. C’era chi sollevava
strisce di pelle dal suo corpo con le mani.

Una quiete sinistra e irrevocabile.

*

Ci si abitua, è… normale. Si gode
di una sopravvivenza minuziosa,
in un farcela giorno per giorno, strappando
ogni giorno come un frutto, come
un regalo in più da far fruttare.
Prezioso, inestimabile, ed è solo un giorno
sottratto al proprio nulla.
In una città deserto per filosofi.

*

Spostavo lento il dito sulla mappa,
sul colore verde chiaro del paese
così labile e remoto. Leggevo i nomi
strani delle oblast, delle città. Ecco
Rivne, Žytomyr, Ovruč, che cercavo,
e le venature di azzurro più a nord.
Così, mentre ero al tavolo, la carta
si ingigantiva, si ingigantiva, a un tratto,
a dismisura e diventava terra, diventava
un intrico di terra, boscaglia e di palude
che quasi mi inghiottiva nel suo verde
e ocra. Iniziava lì la corsa in gruppo
nel bosco, preceduto, io, da due figure
femminili, alte, rapide e in nero.

Fino a trovarmi solo, in superficie, tra la sabbia bianca e le sterpaglie, proprio di fronte a quella specie di trapezio bianco, con la scritta in cirillico e la data, in nero, 1970. Lì, di fronte, si è di colpo aperta una via di campagna, miserabile, poche baracche ai lati, e lei, la vecchia che avanza, solo in apparenza sopraffatta.

Io l’ho seguita, fino alla cittadina
storica e infestata, verso la casa
dell’architetto. Qui mi hanno cantato
la leggenda del fantasma
il penitente che si aggira
solitario dietro una chiesa e appare
di notte, le lunghe dita bianche, la faccia
piatta, l’occhio sformato, i lunghi capelli
biondi arruffati, nerovestito dalla voce
roca, traslucido e urlante.

*

L’epilogo quale che sia non conta. Mai.
Così il meccanismo, la banale trama. Conta
l’insistere virtuale sulla scena,
la rapsodia sparsa e sempre minuziosa
delle circostanze. Poi

perdo l’orientamento, senza paura,
certo, ma deluso, e il dito,
d’improvviso impaziente, torna
curioso a muoversi, a grattare,
prima di depositarsi ormai stremato sull’atlante.

*

Giuseppe, per gli amici “El Pinìn”, e un desiderio di ruvida serenità, per qualcuno rudimentale o selvaggia. Non so perché, ma comincio a infastidirmi di tutto ciò che
è lì per niente, che non ha, insomma, una stretta utilità concreta. E che, s’intende, non ha neppure un requisito di bellezza. Perché, dopo tutto, proprio la bellezza… la bellezza disinteressata… Ma asciutta, ardua, priva di leggiadre soste ornate, decorate. Sì, homo aesteticus, se si può dire, e non il solito infelice homo oeconomicus.

Perché non è economico il reale,
mentre cerchiamo in un estremo
patetico conato di ricrescere
verso l’abisso, ottusi, scossi
dalla sacra idiozia della moneta.
Mi basta, minimale e individuo
come sono, la più modesta
resilienza del soggetto.

*

Osservo dalla mia finestra la chiave di volta della casa di fronte e subito penso a un ritmo scandito perfetto, a una musica, insomma, a un movimento, un movimento del corpo. E insieme penso a una provvisoria matematica esattezza, e soprattutto a un campo più vasto, un campo aperto di possibilità molteplici, o forse infinite, un campo intrecciato di corrispondenze sottili e di rimandi, di percezioni sensoriali diverse, leggibili, appunto, come “foreste di simboli” ai più sconosciute, dove “profumi, colori e suoni” portano in sé il progetto compiuto di un pensiero nascosto.

*

Clairoir

Sono pronto, finalmente, a scivolare
in pace indietro, ma è sempre poco,
verso ciò che è stato e che non so,
che è, permane, pur senza visibile traccia
e mi ha generato anonimo, nei passi
anonimi, nell’anonimo circolare
nel mondo innumerevole in appellativi
e umili viscere di terrestre terra
remota e ovunque come in quell’anno,
in quel numero inciso lassù,
sotto i ferri ingegnosi del clairoir,
dov’è la croce, forse alchemica,
aerato e ancora nitido: 1721,
i Brandeburghesi. Quando le storie ricordano:
la famiglia reale britannica s’inoculò il vaiolo.

*

Ma qui,
in questa rugosa e fresca Europa,
delle infinite, sottili differenze,
che la lingua rivela nei fantastici
nomi – Bilbao o Oxford, Tallinn, Roma
o Trondheim, Timişoara o Brno
o Murmansk, è ancora il vasto,
inimitabile, storico territorio,
ideale e reale, autentico
nostro mutante habitat.

*

La materia si erge, si protende,
ed è insieme fitta, ottusa e acuta
e in queste forme di impeccabile
eleganza misteriosa, per noi,
labirintica e leggera.
Il suo corpo tende a ricomporsi,
nelle costruzioni sottili dell’arte,
come una scrittura musicale
antica o d’avvenire e sempre
da scoprire, perlustrare e amare.

Marina Petrillo

Una poesia inedita

(9 maggio 2019, alle 13.35)

Ci si sente forse sul ciglio
dell’immortalità tradotta ad effigie
o un pallido ciclo compone rinascite.

Donate una zolla di terra
al pauroso fragore del ciclo terrestre
in palpito di foglia morta al suo fiore.

Non soggiace Amore a spento atomo se
il nucleo trasale in ascensione inversa.
Chiamate i bambini a gran voce.

L’istante sconfigge ogni temporalità.
Indimostrabile teorema a diadema posto,
milizia in difesa di Bellezza.

Un albero attraversa lo sguardo.
Cauto, dilegua in rosei fiori e, a richiamo,
celebra del padre la memoria.

Non fui mai. Solo intrattenni dialogo
con l’anima in veste di luce abbagliata
da origami diurni graffiati a fosforo.

Così vedo allontanarsi la notte. Continua a leggere

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La Poesia-polittico, Franco Intini, Gino Rago, Un dialogo in distici a distanza, Poesie di Mauro Pierno, Marina Petrillo, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Anna Ventura, Franco Intini

«5 giugno 1977. 

Vorrei scriverti, così semplicemente, così semplicemente. Senza che mai niente interrompa l’attenzione, a parte unicamente la tua, e ancora, cancellando tutti i tratti, anche i più inapparenti, quelli che marcano il tono, o l’appartenenza ad un genere (la lettera per esempio, o la cartolina), affinché la lingua rimanga segreta all’evidenza, come se essa si inventasse ad ogni passo, come se bruciasse all’istante, non appena un terzo vi mettesse gli occhi (a proposito, quand’è che accetterai di bruciare realmente tutto ciò, noi stessi?). È un po’ per banalizzare la cifra dell’unica tragedia che preferisco le cartoline, cent cartoline o riproduzioni nella stessa busta, piuttosto che una sola “vera” lettera.»1]

1] J. Derrida, trad. it. La carte postale, Mimesis, 2015, p. 37

Un esempio di una mia «poesia-polittico»:

bello angelo androgino

Albert scrive una cartolina alla sua amante/ sul retro c’è un angelo femmina con ali nere e giarrettiere/ che si volta verso il passato

Giorgio Linguaglossa

La lettera scarlatta

Madame Hanska scrive una lettera al suo amante,
Albert Montgomery tra le file degli inglesi. E passa ai tedeschi le notizie.

C’è scritto che ha disonorato la sua esistenza,
che lo detesta, lo odia…

Sigulla ha trovato il cofanetto dei bottoni
di madreperla della sua infanzia

nascosto in un pertugio della libreria di quercia
proprio dietro l’abbecedario. Ed è felice.

«Se ne può parlare – dice – là, dietro il sipario
c’è il Dieci di spade in attesa».

[…]

Albert scrive una cartolina alla sua amante
sul retro c’è un angelo femmina con ali nere e giarrettiere

che si volta verso il passato… Le scrive: «mia cara,
ho tanto da dirti, ma tutto è niente, più di tutto,

meno di niente – dirti tutto quello che ho, quello che non ho,
quello che forse avrò, e non avrò… tu sola, nuda…

con le ali nere dietro le spalle… ho tanto da dirti,
ma tutto dovrà stare qui nello spazio di questa

cartolina…»

[…]

Sigmund ha messo su una bottega delle bambole,
ripara occhi di madreperla, sottovesti ricamate, paltò.

Andrea recita il ruolo dell’androgino,
è diventato l’Otto di spade, indossa i pantaloni da cavallerizza

mentre il cavaliere di coppe smonta da cavallo,
assume le vesti di un umile fante…

[…]

Nietzsche si innamora di Andrea, diventa pazzo,
si trasferisce a Torino con una sua controfigura muliebre…

È che nel frattempo Hanska sbaglia destinatario,
la lettera la riceve un bellimbusto che la getta nel cestino

delle immondizie di via Gaspare Gozzi in Roma
dove abita lo scrivente che redige questa nota

il quale la recupera, la salva dalla pattumiera e la spedisce
al mittente, ma trent’anni dopo quando si è perduta

finanche la memoria di quell’amore infelice.

[…]

Adesso è il suo amante, il principe di Homburg,
che scrive una lettera ma ha perso l’indirizzo di Madame Hanska

la quale ha stabile dimora presso la casa di cura Villa Margherita,
ha dimenticato il suo amore e le ragioni del suo odio,

e finanche il proprio nome, non sa più chi sia
o non sia, o se mai sia stata…

gif tacchi a spillo single

Col nulla./ Con tre prese ben assestate,/ la terza al collo.

Mauro Pierno

Col nulla.
Con tre prese ben assestate,

la terza al collo.
Al limitare della stagione. Tra osso e osso.

Una recensione secca.
Una cravatta in tinta

fuoriuscita dal comò. Quella lingua mostrata
su i gradini di un altare, tra l’incedere

di una fessura cupa. La tortora dal verso fragile,
due gocce che di soprassalto

riconciamo a rigare,
il portellone di un auto

con un portabagagli
ancora più grande.

*

Franco Intini-Gino Rago
Dialogo in distici a distanza

Franco Intini

“Caro Rago
Nello studio di un tizio che conosco

apparve improvvisa una scritta:
“il dottore dalla mano tremante scrisse una ricetta che nessuno

sa decifrare ma la calligrafia si riconosce…”
Un verso di Tranströmer

incise la Tavola periodica
-Ogni chimico ne ha una appesa alle spalle

Il suo crocifisso-
Irruzione credo o entanglement nella sua vita

che si svolgeva altrove.
Era l’agave che cresceva sulla Murgia

o quella sincrona sul lungomare di Bari?
Il mio amico si chiedeva cosa c’entrasse

Mendeleev con Hegel.
Né l’uno né l’altro avevano mai sentito parlare di protoni

In quanto a proprietà invece
La pistola della legge dice il primo

Ma si potrebbe giurare sul secondo.”
[…]

Note: in cantina gira e rigira l’elettrone. Nel piccolo anello rimugina il protone. Sul letto di gelo assoluto si ascolta il suo gemito. La Boxe è vietata, non è ammesso lo scontro tra cani, galli, gladiatori, luci. Si scommette però. La probabilità è di casa. Si giura sul successo di vedere uno spettro. Quelli che giravano per l’Europa nessuno più li accelera e giacciono pesanti ai margini delle strade, segnati d’ oblio, di piombo le ossa. Questi invece sono snelli, di mente lucida, parlano in codice che il mio amico intende.

Franco (Intini)

gif tacchi a spillo

«Ma lasciamolo giocare, in fondo che male c’è»/ Insiste Bohr

Gino Rago
(Le parole… Uno sciame di protoni)

“Franco Intini mette in cantina
Il bosone di Higgs.

Con l’entanglement quantistico verso lo Zero assoluto
Un nuovo stato della materia è possibile?

Einstein rimprovera Rutherford e Bohr
per l’azione fantasmatica a distanza.

Non vuole che Dio continui a giocare
Ai dadi con l’universo.

«Ma lasciamolo giocare, in fondo che male c’è»
Insiste Bohr.

Einstein gli lancia un posacenere di latta
O di un metallo pesante in lamine sottili.
[…]
Nell’entanglement quantistico
L’azione su un atomo entangled si riverbera sugli altri…

In un polittico poetico in distici entanglati
L’atto su un verso si propaga su altri versi.

Le parole… Uno sciame di protoni di rubidio.
[…]
“Amleto è morto.”
Ne dà l’annuncio Lorenzo Pompeo dall’Ungheria.

Ma da Cracovia Lorenzo invia a Giorgio Linguaglossa
versi di Ewa Lipska tradotti in italiano.

Virna Lisi e Marlene Dietrich entrano con Kafka
nello studio di Sabino Caronia,

Tre ombre nella consolazione della sera.
Faber Nostrum canta Il Bombarolo…
[…]
Pino Gallo arringa da Roma la Fata Morgana,
Sotto gli affacci di Scilla il mare si fa di olive acerbe.

Pino Talìa porta un Mattia Preti
Da Taverna a Firenze. Botticelli si inchina.

Francesca Dono da Biffi regala bergamotti,
Davanti alla Scala tutti si mettono in fila…

Una poesia di Mauro Pierno sul Corriere della Sera.
[…]
Visioni mistiche a san Francesco a Ripa.
Marina Petrillo davanti a Ludovica Albertoni.

Marmo. Drappeggio. Diaspro. La beata in estasi.
Verso l’altare della cappella

Marina abita parole d’amore.
Un raggio di sole sul marmo.

Le visioni. La tela di Gaulli. La finestra.
Bansky-street-artist: « How the Troian War Ended

I don’t Remember…
Edited by Giorgio Linguaglossa»

Letizia Leone a Mario Gabriele:
«Chelsae Edition. Miracolo.

Bellissima la cover della copertina»
[…]
Nello stencil sul muro a Spaccanapoli
Bansky dice a Benedetto Croce:

«So perché Ludovica è in estasi.
So anche perché ha le visioni … Junk food »

Il Mattino di Napoli in terza pagina:
«Al San Carlo torna Toscanini».

Dal palco al centro del teatro
Wagner evita lo sguardo di Verdi.

Sigfrido o Falstaff? Le Valchirie o Nabucco?
La Tebaldi litiga con la Callas.

Onassis va a letto con Jacqueline Kennedy.
L’isola greca è il centro del mondo.
[…]
Toscanini posa la bacchetta:
«A questo punto muore Liù.

Turandot finisce qui. Pechino è a lutto.
Il cancro alla gola ha ucciso il Maestro».

Creatura che crea nella luce sul mare
Marina Petrillo va incontro a Puccini.

Marina Petrillo

Gino Rago va incontro al mare
[…]

Si spoglia a tratti il mare
del suo profilo assente.

Non un alito di vento spira
tra le frastornate rocce .

Tacciono i bagliori del meriggio perduto
al fascino tardivo di uno sguardo.

Una foglia ondeggia precoce all’estivo viaggio
in sinfonia d’autunno.

A tratti torna a sbiadire una piccola onda
in lieve spumeggiare,

di cui la sparuta tellina, tornata al suo giaciglio,
coglie carezza.

gif due gambe due tacchi

Strano, strano è il polittico. Pare che i versi, piuttosto che darsi con stile, preferiscano incasellarsi

Lucio Mayoor Tosi

Strano, strano è il polittico. Pare che i versi, piuttosto che darsi con stile, preferiscano incasellarsi. E tutto ciò a me arriva freddo; anche se vi è la bizzarria, questo sì, di legare nello spazio bianco dei pixel (carta, addio) passato – immagini e lettere – come in vago ricordo, come (quasi) non-ricordo, e per non dire… Come se invece dello stile si preferisca l’applicazione di un metodo (soggetto-verbo: Onassis va… Toscanini posa… Turandot finisce, ecc.), con poche, ma sentite necessarie, interruzioni, o variazioni – oasi del lettore: ecco siamo alla resa dei conti; che però non arriva.. e chissà quale effetto sortisce nella sua mente, alla lunga. Davvero, non so. Epperò “Marina Petrillo va incontro a Puccini”, che è tutto dire da poeta, diviene un traguardo. Difficile, molto difficile. Bisogna essere buoni e attenti lettori, perché la prima non basta mai: questi a me sembrano casi in cui la lettura, abituata al tradizionale, fallisce. Anche Pierno, in prima lettura si rende enigmistico. Poi no, la stessa poesia… se non vedi non capisci. E questa potrebbe essere la regola.
E io che ieri sera, per distrarmi dagli orrori del vivere, mi davo ai boschi di Hölderlin…

Gino Rago

Fisica quantistica+Musica+Arti Figurative+Cronaca+Storia+Misticismo Barocco+Arti plastiche+Scontro di dive (Lisi-Dietrich) come urto fra Cinecittà e Hollywood+Compressioni ed Espansioni dell’universo+Letteratura+Personaggi-poeti vivi e personaggi-poeti non più vivi+tempi dilatati e tempi compressi+spazi-geografie nell’indefinito e nel familiare+fono-prosodie con al centro immagini+protoni entanglati come parole nell’entenglement+Altro=Polittico (o meglio, tentativo di polittico).
Per ora mi pare il max che si possa chiedere alla Parola di poesia se si vuole, per me, andare più in là e un pò più in alto di dove… osano le quaglie.

Giorgio Linguaglossa

moltissima poesia romano milanese, di Pordenone e Mantova e altre località della villeggiatura poetica disseminate in Italia è una poesia che un tempo si definiva “onesta”, cioè una poesia turistica, si parla del corpo (proprio) delle relazioni amorose, delle relazioni topografiche, di quelle toponomastiche, degli alberi, delle targhe delle automobili, delle gambe della Minetti nel migliore dei casi. Si tratta di una poesia «onesta», nel senso che ciascuno fa quello che può e che crede, ma l’onestà non basta a fare una poesia, così come l’onestà non basta a fare dei politici capaci, come vediamo nei 5Stelle, però è già qualcosa.

Ho scritto a un mio amico che mi aveva inviato una sua raccolta per un parere, che ero imbarazzato, molto, perché si notava che aveva cessato di fare ricerca, e che quello era il suo peggior libro di poesia, e lo sconsigliavo di darlo alle stampe, anzi, lo consigliavo di riprendere seriamente la ricerca espressiva e linguistica. Si trattava di una poesia low cost.

Esemplificando un po’ potremmo dire che c’è una poesia low cost che si può acquistare in ogni buon supermercato dello stile narrativo, in specie in epoche di saldi e compri tre paghi due: abbassando il registro stilistico, lo schema prosodico, espungendo le metafore, le metonimie, le anadiplosi, le catacresi, le anafore etc., desertificando la tradizione, succede che alla poesia non rimanga altro da fare che registrare, come succede in alcuni autori contemporanei, le ubbìe della vita quotidiana: una sorta di cronachismo borderline del tipo: “al mattino quando si alza a mio marito gli puzza l’alito”, oppure una sorta di iperrealismo ingenuo del tipo: “fontana, finestra, albero, mare”.

Si tratta di un vero e proprio deposito di «tecniche» stilistiche a buon mercato ampiamente provate e assimilate dal corpo sociale della piccola comunità letteraria, e in tal senso queste tecniche sono ampiamente leggibili e digeribili. Per il vero, il problema della costruzione di una «nuova» poesia richiede un investimento di pensiero molto più elevato e una gestazione molto più complessa che gli autori del minimalismo e dell’iperrealismo non si sognano neanche nella anticamera del cervello di tentare.

Penso che sia vero quello che scrive Lucio Mayoor Tosi, in questi nostri tentativi poetici sembra che le parole si siano raffreddate e così anche lo stile, non c’è nessuno sbalzo emotivo, non si rinviene alcuno stato emozionale, tutti i testi sono integralmente assorbiti nella linguisticità di uno stile che non concede spazio alcuno ad alcuna emozione. Possiamo dire che la nuova linguisticità ha decapitato la facile emozionalità. Mi sembra un ottimo risultato. Continua a leggere

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Il «soggetto-polittico» della Nuova Poesia, Il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, Poesie di Donatella Giancaspero, Gino Rago – Commenti di Giorgio Linguaglossa

Donatella Giancaspero

Alla fine di aprile

L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana.
Attraversando un flash, tocca il fondo.
Una lesione sul bordo per gli anni a venire.

A pranzo, in cucina, la sedia occupa il posto estraneo.
Sfilano i bar di passaggio. Le arance spremute nei vetri opachi.
Da un isolato all’altro, le parole sbirciano vetrine

– “per caso, senza l’idea di comprare qualcosa.
Cercando, magari una volta soltanto
e fuori stagione, un gelato al limone…”

Alla fine di aprile, i gabbiani qua intorno. Tanti.
Sui tetti. In cima ai comignoli. Appollaiati.
Chi punta il dito, in un ritaglio tondo di cielo

Commento di Giorgio Linguaglossa

Anche Donatella Giancaspero costruisce per polittici le sue poesie.  È un «soggetto-polittico» che qui ha luogo. Si va per audaci scorci e scorciatoie, per abbreviazioni, per fulminanti asimmetrie ed ellissi come nella poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non si era mai visto. La poetessa romana preferisce al distico, i gruppi, strofe ben nutrite, complesse e compresse; in questo modo ottiene effetti di profondità e densità spazio temporali. Frequentissimo è il punto, impiegato per spezzare, frantumare lo strofeggiare pallido e assorto dei frequentatori della poesia narrativa di oggidì. Direi che la «nuova poesia» la si può riconoscere dall’impiego, dalla frequenza e dalla dislocazione del punto; più frequente è il punto, più la poesia assume la connotazione sintattica della interruzione, della marcatura, della dissimmetria. Ogni emistichio e ogni singola tessera del verso ha un proprio peso specifico differente da quello di ogni altro emistichio e di ogni singola tessera frastica.

Anche la sineddoche, la metonimia e la procedura straniante vengono impiegate frequentemente però in momenti strategici, in particolari luoghi delle singole strofe a sottolineare la forte morfologia della costruzione sintattica (la sedia occupa il posto estraneo./ …. Le arance spremute nei vetri opachi).

La poesia tratta della descrizione di uno scorcio di Roma invasa dai gabbiani che ormai passeggiano tranquillamente in mezzo ai pedoni e al traffico della capitale alla ricerca del cibo delle pattumiere. Ma è anche la descrizione di una Stimmung, di una tonalità emotiva. La poesia non è una descrizione di un paesaggio, ma è la rappresentazione con mezzi poetici e tecnica da NOE della Stimmung della persona che sta là fuori e osserva tutto questo degrado. Eppure, c’è della bellezza in questo degrado, anzi, il degrado del nitido quadretto alla Pisis, ha qualcosa di accattivante, di emolliente e di repellente. Gli interni sono tutti disadorni (elemento questo tipico della poesia giancasperiana), per non dire squallidi, ma di uno squallore ricco di vita trattenuta, deflorata, consumata, violata, inautentica, sordida, felice…

La Giancaspero non indulge mai ai buoni sentimenti, non alletta il lettore, non lo illude… è sempre oggettiva e disadorna nelle sue rappresentazioni. Nelle sue poesie non c’è mai un Inizio, come non c’è mai un Finale. Il Finale di partita è che non c’è, non si dà mai nessun Finale di partita, perché non c’è partita. Ovvio.

Tarkovskij Nostalghia (2)

fotogramma del film Nostalghia di Tarkovskij

Donatella Giancaspero

Cari amici,

per prima cosa, voglio ringraziare Giorgio Linguaglossa per aver pubblicato la mia poesia “Alla fine di aprile” e per averla commentata così bene. Inoltre, condivido moltissimo il pensiero del filosofo Andrea Emo citato qui nel post. E tengo a evidenziarlo:

«Non è vero che la poesia sia pura fantasia, pura immagine, che la filosofia sia puro pensiero. L’immagine senza pensiero è vuota, il pensiero senza immagine è muto. Ciò che non si saprà mai è questo: quale dei due sia l’origine o la speranza dell’altro. Ma questo è forse necessario. Poiché se il pensiero, guardandosi non vedesse in sé, come suo fine, l’immagine, e l’immagine, guardandosi, non vedesse in sé, come suo fine, il pensiero, forse all’uno e all’altra potrebbe sembrare di essere fondamento, costruzione o conclusione del tutto. Ma questo loro reciproco esser fondati sull’altro fa a noi intendere come pensiero e immagine siano la forma umana della contemplazione, che muta volto e delude se stessa».

Credo che questo discorso possa applicarsi alla mia poesia.
Proprio in questi giorni, dopo un lungo (e direi estenuante) lavoro di ricerca e di riflessione, ho composto un testo. La mia ricerca si è incentrata sulla storia urbanistica e sociale di un luogo della periferia romana, sulla filmografia che lo descrive (principalmente quella di Pier Paolo Pasolini), nonché su alcune tecniche cinematografiche essenziali. Ma non solo. Nella scrittura mi sono trovata ad affrontare proprio quella stretta e misteriosa connessione tra pensiero e immagine di cui parla Andrea Emo. È stato in funzione di questa che ho stabilito la mia ricerca lessicale e sintattica. I dati oggettivi derivati dal lavoro teorico preparatorio si sono mescolati con i frammenti di una mia vaga memoria personale: più che di veri, coscienti ricordi, si tratta di flash, di echi, in certi casi soltanto di sensazioni: tutto ciò che la mente è stata in grado di recuperare, sollecitata anche dalla visione delle immagini reperite nel web.

*

Lungo piano sequenza

Nel colore digitale, la sfocatura dello spazio:
gente, alberi, automobili. Le scritte e i murales dei writers.
Un software smonta i semafori, i parcheggi lungo il marciapiede…

Sulla sponda destra dell’asfalto, una landa sbiancata.
E un accenno nero di arco, tra gli sterpi, oltre il senso della Storia.
Di contro, la campata vuota del Boomerang. I monoliti stellati.

Su Google Maps, via Lucio Sestio evoca il mercato rionale.
Lungo piano sequenza di luce, col cinquanta* che sfonda.
Il bianco e nero sui volti. La fissità del moto.

Antonietta, dietro le verdure. Il coltello nella tasca ruvida
e l’offerta consueta per la bambina di passaggio:
non si spiega il filo teso dei palloncini oscillanti al vento.

Tra i banchi, se ne veste un vecchio ragazzo con la faccia da ladro,
la maglietta bucata. Ne stacca uno per due lire…
Un punto bianco, nel bianco: sopra la torre di largo Spartaco.

*Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Tutte le Poesie, vol. I (Mondadori, 2003)

 

Scrive Pier Aldo Rovatti:

«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?

Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.

Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 2]

2] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7

Scrive Jacques Lacan:

«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

Giorgio Linguaglossa

Qualche considerazione sul «soggetto-polittico»

Ciò che mi costituisce come soggetto, ecco la questione centrale. Non è dal soggetto che dobbiamo partire, ma dall’esterno, da ciò che ci rende soggetto, che sono gli Altri e l’Altro. È da qui che dobbiamo ripartire per una perlustrazione del cosa è il soggetto.
Questo esercizio di porre da parte il soggetto è una vera e propria «iniziazione» come dice Rovatti. Il soggetto è veramente soggetto soltanto quando si sdoppia, si triplica, si quadruplica; quando il soggetto abbandona se stesso, prende le distanze dal se stesso, quando è impegnato a costruire una nuova soggettività, quando lateralizza se stesso, si decentra, quando subentra un altro soggetto che prende il posto del primo e lo mette tra parentesi, lo spiazza, lo decentralizza.
Quando tutto ciò accade, allora il soggetto diventa pienamente se stesso in quanto è Altro e di Altri.
Allora, da questa molteplicità di soggetti, da questo indebolimento del soggetto, proprio da qui può nascere un soggetto fortificato, un soggetto invincibile. Un soggetto nuovo. Un «soggetto-polittico».
Il soggetto che si riappropria del soggetto non finisce mai di essere soggetto ma lo diventa sempre di nuovo. E qui il problema della «identità» sa di calcolo combinatorio, calcolo stocastico. Gli enunciati analitici non li si può ridurre alla formula A è B. Ogni volta il soggetto ricomincia daccapo, riapre lo scarto con il proprio mondo pulsionale e rappresentativo.
Con le parole di Giorgio Agamben, diremo che il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, cioè dal punto di vista musicale è eminentemente cacofonico, la cacofonia è la legge segreta che muove il «soggetto-polittico». Continua a leggere

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Poesie e Commenti di Andrea Emo, Donatella Giancaspero, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Alfonso Cataldi, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

 

Donatella Giancaspero

Alla fine di aprile

L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana.
Attraversando un flash, tocca il fondo.
Una lesione sul bordo per gli anni a venire.

A pranzo, in cucina, la sedia occupa il posto estraneo.
Sfilano i bar di passaggio. Le arance spremute nei vetri opachi.
Da un isolato all’altro, le parole sbirciano vetrine

– “per caso, senza l’idea di comprare qualcosa.
Cercando, magari una volta soltanto
e fuori stagione, un gelato al limone…”

Alla fine di aprile, i gabbiani qua intorno. Tanti.
Sui tetti. In cima ai comignoli. Appollaiati.
Chi punta il dito, in un ritaglio tondo di cielo

.

Letizia Leone

Epopea di cose solide e impermeabili al canto.
Le scale al buio fino al terzo piano. L’interruttore della luce del 1944.

Ecco la stanza. È una notte a pendolo di lampadina nuda e fogli di quaderno
Non numerati con la fossa in un rigo. Se leggi:un pensiero ti cade dall’occhio.

Alla parete un segno, un rosso, il tocco vermiglio di un frutto
Illividito tra le pere. La stagione della semina dei morti…da mano a mano

Da esiliato a esiliato.

.

Andrea Emo

Il pensiero e l’immagine

Non è vero che la poesia sia pura fantasia, pura immagine, che la filosofia sia puro pensiero. L’immagine senza pensiero è vuota, il pensiero senza immagine è muto. Ciò che non si saprà mai è questo: quale dei due sia l’origine o la speranza dell’altro. Ma questo è forse necessario. Poiché se il pensiero, guardandosi non vedesse in sé, come suo fine, l’immagine, e l’immagine, guardandosi, non vedesse in sé, come suo fine, il pensiero, forse all’uno e all’altra potrebbe sembrare di essere fondamento, costruzione o conclusione del tutto. Ma questo loro reciproco esser fondati sull’altro fa a noi intendere come pensiero e immagine siano la forma umana della contemplazione, che muta volto e delude se stessa.

(Q. 7, 1929)

Ogni immagine è immagine del nulla. E in questo senso l’immagine è ontologica.

(Q. 214, 1959)

In principio era l’immagine, e per mezzo di essa tutte le cose furono fatte. L’immagine è in principio (creatrice e creatura della propria negazione) quale può essere la causa dell’immagine? Forse soltanto la sua negazione; tutto ciò che è originato dalla sua negazione (come l’individuo, l’attualità) è originario, è in principio, ed è un principio. L’espressione non può essere poetica quando è originata da una causa o da un’intenzione. L’espressione deve essere originata soltanto dalla rinuncia ai suoi fondamenti, ad ogni fondamento, ad ogni causa e ad ogni effetto.

(Q. 288, 1965)

L’immagine è per definizione pallida, diafana, trasparente, ma essa non è astratta.

(Q. 306, 1967)

L’immagine, come la vita, è Ifigenia e Fenice – è sacrificio e resurrezione – un mistero che celebriamo in ogni istante con la respirazione, con il fuoco interiore che ci brucia. (Q. 319, 1968/1969)

Andrea Emo, In principio era l’immagine (A cura di Massimo Donà, Romano Gasparotti e Raffaella Toffolo), Bompiani, 2019.

 Gino Rago

“Se vuoi sapere
qualcosa dei pini –
vai dai pini.”

Era solito dire Matsuo Bashō; così è mi pare per i versi di Mauro Pierno.
Se vuoi sapere qualcosa della poesia di Mauro Pierno devi andare nei suoi intimi interstizi fra silenzio primordiale e parola di poesia, silenzio e parola che nelle spighe e nei papaveri rossi dell’ultimo distico trovano i loro simboli o meglio i loro eliotian-montaliani correlativi oggettivi. Il tutto, ha pienamente ragione l’amico Linguaglossa quando lo sottolinea nella sua ermeneutica,
confrontato, misurato con un tempo proposto sempre come ‘presente’.
Se Mauro Pierno decidesse infine di eliminare i numeri, da 1 a 10, questo suo lavoro che riproposto in distici ha una resa estetica travolgente potrebbe essere letto come un poema per omogeneità di lingua, di ritmi, di sillabazione stessa dei versi. Un poema, per omogeneità fono-prosodica dei distici. Se vuoi sapere qualcosa dei pini vai dai pini…

.

Giuseppe Gallo

Il problema, carissimo Gino Rago, è che io non voglio più “sapere qualcosa dei pini…”, e ritengo che nemmeno a Pierno interessino, in prima istanza, né la “Primavera!”, né le “spighe… accorte” e tanto meno i “papaveri rossi”… ma solo il loro lato oscuro: il loro “esaurimento”. Segnalo una serie di sintagmi tratti dai versi di Mauro: “Improponibile”, “Stento la
mia”, “Sbarramenti”, “Poco sangue”, “Saranno rimasti in dieci…”, “Liberi di frenare”, “un vortice di consolanti nubi”, “un antefatto”, “Un apriscatole che gira nelle mani e non affonda…” e così via di seguito. In ogni concetto e in ogni immagine c’è qualcosa di non concluso… il vuoto si restringe sempre di più, ma il cerchio non si chiude mai! Né nell’Essere, né nel nichilismo. C’è sempre una percentuale di “residua commutazione”. Direi di più… Mauro Pierno afferma che di questa “batteria esausta”, che è l’uomo, e questa metafora sì, che mi interessa, sopravvive “solo l’8 %”. Soltanto un elemento fuoriesce dall’ambiguità, la pulvis, di cristiana memoria, la polvere… soltanto questa è “esattamente” quello che è, sia nello scorrere che nel diventare: il presente dell’uomo!
Grazie, Pierno! Continua a leggere

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Mauro Pierno, poesia in distici,  La polvere esatta, con Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Penso da tempo che ogni nuova poesia porti con sé una propria Grundstimmung (per Heidegger, una «tonalità emotiva fondamentale») che dà alla poesia non soltanto una tonalità dominante ma anche una individualità tono-fono-simbolica individuale e inimitabile. Però è paradossale che i singoli modi di fare poesia siano incomunicabili proprio in quanto trattasi di individualità assolute, vasi in comunicanti, asimmetrici; di qui la estrema problematicità nell’individuare le singole Grundstimmung. Di solito accade che quando sei nella nuvola tonale di una Grundstimmung non riesci ad uscirne se non a prezzo di ostacoli molto grandi e con grandissima fatica; più grande di tutti è la difficoltà di superare il proprio gusto pregresso, abbandonare le confidenze musicali acquisite, l’accordo musaico della tradizione. La «tradizione», da questo punto di vista, è il repertorio delle «voci» che hanno parlato musaicamente, ovvero, musicalmente, ma che oggi non ci parla più se non come un repertorio di voci morte. Di qui la necessità di rivivificare la tradizione come Ueberlieferung, come trasmissione della tradizione.

In tutte le epoche, ma nella nostra in particolare, si assiste al fenomeno dell’epigonismo di massa per cui un certo linguaggio poetico che, a detta dei più, contiene una «tonalità emotiva fondamentale», tenda ad essere replicato all’infinito dalle tecniche di riproduzione di massa ma al punto più basso, quello raggiungibile appunto dalle masse e quello consentibile dalle istituzioni pubbliche e private che veicolano quel linguaggio musaico e musicale. Penso che le moderne democrazie dell’Occidente non si distinguano in nulla, da questo punto di vista, dalle demokrature di stampo putiniane, orbaniane, salviniane e trumpiane. Lo scarsissimo livello «musaico» delle democrazie occidentali trova il suo equivalente nello scarsissimo livello «musaico» della poesia che esse producono. Il fenomeno è fisiologicamente diverso da quello che filosofi come Horkheimer e Adorno tratteggiavano negli anni cinquanta quando parlavano di «industria culturale» e di «società di massa», oggi le nostre demokrature si avvalgono in larghissima scala della pessima musica che si veicola nel loro ambito, in tal modo trovano più agevole imporre una pessima politica demagogica e una demagogia millantatoria. Il decadimento del linguaggio «musaico» in auge nelle nostre democrazie occidentali è e sarà, presumibilmente, un fenomeno stabile indispensabile per la stabilizzazione e la standardizzazione delle democrazie al loro livello più basso, al livello appunto delle demokrature.

 

Questo per dire che la cacofonia che serpeggia come un virus in questi dieci pezzi di Mauro Pierno è l’espressione di quella a-musicalità che caratterizza la fase attuale della civiltà occidentale. Già Adorno negli appunti della Teoria estetica metteva in guardia contro la «pacchianeria» e il Kitsch di coloro che vogliano produrre eufuismo; le opere «finite» finiscono inderogabilmente nel contenitore della spazzatura, sono spazzatura, sosteneva. Le opere autentiche invece cercano la loro fine senza finalità ma con ferrea intenzionalità, tra ironia e disinganno, auto ironia e auto straniamento. Ma già parlare di autenticità dell’arte nella fase attuale della civiltà occidentale è una contradictio in adiecto, l’unica autenticità che un poeta può mettere nelle proprie opere è la vernice dell’imbianchino, può verniciare la pagina bianca con delle parole non tranquillizzate, traumatizzate da ciò che c’è là fuori, parole interrotte, inquiete, che si ritirano nel loro guscio come le lumache nel loro carapace. Le parole si sono intimidite, fuggono via a chi le voglia apprendere. Le Muse si sono intimidite, si sottraggono al valore d’uso come anche al valore di scambio. Le parole non sono fatte per lo scambio, sono simboli, con loro si può fare soltanto uno scambio simbolico, ma un simbolismo senza metafisica è un falso simbolismo. Ed è questo quello che ci racconta Mauro Pierno con queste sue quisquilie, con questi suoi bisbidis.

In una certa misura la problematica del Fattore T. (tempo) è anch’essa centrale nella «nuova poesia». Qui Mauro Pierno si arrischia a scrivere una poesia fatta tutta nel «presente», una poesia irriflessiva, estemporanea, casuale… si badi, non affatto parole in libertà quanto parole del presente, che galleggiano solo nel presente. Cosa affatto semplice. Incredibile. Anche questa è una modalità per catturare il Fattore T.

Io, invece, adotto un’altra strategia. Lascio le mie poesie per molti anni sempre vive, nella memoria del computer (Fattore T.) e nella mia mente (due modi di esistenza del fattore T.); in questo modo la poesia resta aperta come sul tavolo dell’obitorio, dissezionata. All’improvviso, accade durante gli anni che varie esperienze di letture e di vita mi portano nuovi stimoli, nuove idee, nuove frasi che mi chiedono di entrare in quella o in quell’altra poesia. Così le mie poesie crescono e concrescono, come foreste tropicali, grazie all’ausilio attivo del Fattore T.

In questo lavoro di attivo coinvolgimento del Fattore T., il Tempo interviene attivamente, si introduce nella casa linguistica come un padrone; io, il mio Ego, si è nel frattempo fatto da parte, anzi, è stato fatto sloggiare. Adesso la casa linguistica è abitata solo dal Fattore T., è esso che guida la composizione verso il suo sviluppo. Proprio ieri, ascoltando delle canzoni jazz della cantante svedese Gunhild Carling con la sua band straordinaria, ho avuto in regalo la visita del Fattore T.: molti spezzoni di frasi hanno bussato alla porta delle mie case linguistiche e sono entrate, alcune sono entrate di prepotenza senza neanche bussare o chiedere permesso, sono loro, mi sono detto, i veri padroni delle mie case linguistiche!.

Invece, Mauro Pierno procede in modo opposto, vuole abitare esclusivamente il «presente». Ma, caro Pierno, il «presente» assoluto non esiste! Questo lo sappiamo da Agostino di Ippona e da Derrida i quali hanno fatto una disamina precisissima della inesistenza del «presente»; anche Husserl ha precisato che il «presente» in sé non esiste, che il «presente» è fatto di un «non-presente»… E allora cosa dovremmo dedurne? Che la poesia di Mauro Pierno non esiste? In effetti è così, la poesia di Mauro Pierno nei suoi momenti più riusciti, è fatta di presente e di non-presente, di presenza e di assenza.

È proprio questa l’aporia della «cosa» di cui dicevo in un precedente commento, la «cosa» che esiste soltanto nel «presente», o che addirittura è scomparsa dal «presente» perché si è persa, è andata distrutta, è stata rubata etc… Ecco, dicevo, quella «cosa» misteriosa costituisce una insopprimibile aporia del mio pensiero, sta qui e non sta qui, è nella mia memoria e non più nella mia memoria… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà…

 

Mauro Pierno

La polvere esatta (inediti)

Batteria esausta, primavera in esaurimento, solo l’8 %
da pretesa residua commutazione.

 

Ancora pochi baci. Il solletico che soffri sotto le radici dei piedi, improponibile. Primavera! Stento la mia, lo strofinio di labbra accorte.

 

Fa lo stesso. Scorri pure lievemente dal finestrino
accanto, verde, inafferrata.


Spingeva il limite sparso. Il luogo fisso, quel tramonto
bloccato alla parete, ovunque nelle strade quei divieti.

 

Gli sbarramenti. L’abitudine di sedere sull’uscio inconsapevoli.
Pendeva la folla. Ridevamo pure. Nelle piazze,

 

alle pareti scorrevano le nostre vite.
Poco sangue, soltanto a tratti esploso.


Semplice. Sulle spalle gli zaini colorati, in fuga
i cervellini negli smartphone.

 

Saranno rimasti in dieci sul terrazzo,
nel bel mezzo di una scuola.

 

Semplice a quell’affaccio desiderato.
Liberi di studiare. Una versione che scagiona tutti.


La terza fornitura li trovò piazzati, attesi al punto d’incontro,
all’ora prestabilita, al buio inesploso.

 

Nella tenebra allegra, si apprestarono in tanti
soltanto con Peluche e Mascotte. Ed i cani sorrisero. Si leccarono anche.

 

Ridevano i musi, mostravano i denti, cosa offrivano in cambio?
E loro incalzarono, “Peluche e Mascotte!”

 

E allora sbraitarono.
Fuggirono, fornitori e mercanti.


Della scomparsa.
Della stessa distesa che una metamorfosi incontra.

 

Quella è una risalita, questo intendi? Un acquietarsi,
un riscontro di eternità. Sulle foglie intendo non ragionare

 

ma limitarne e distinguerne la forma,
il ripudio di una intera esistenza.


Un tempo, quale tempo, se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge, se nella mano

 

un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire che non dovrai riscrivere mai.

 

Un cielo sereno, sgombro di nuvole, profondamente sereno.
Un antefatto. Inquietante.


Presumo un apriscatole
usato fino all’alba, che gira nelle mani

 

e non affonda. Le macchie hanno un calibro distinto.
Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.


Intravede l’ozio delle parole la propaganda dei nostri sguardi.
Tra nuvole filiformi di batteri incompresi che attraversano le mani.

 

Questi mostri di discorsi. Nei gesti le estenuanti nude dichiarazioni.
Questi fumi di vento hanno un volto perso.


Ecco l’occhio indiscreto che coglie il fallo, l’ascesso furibondo
l’oriundo cigolio dell’ ombra.

 

Ecco accingersi tra le sinapsi del vento quella soave intermittenza delle idee
quello che dolore onora

 

e fa da stimolo agli inventari della memoria.
Ecco, la seconda martellata fu letale.


L’incudine molle
non assorbe le grida lontane e spesso nel vuoto dei colpi si avverte un dolore.

 

Nel ricordo si ammala la polvere esatta. Le spighe volentieri risponderebbero assorte e la sorte ingannare vorrebbero i papaveri rossi.

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Michel Meyer, La questione del logos è la questione fondamentale, con i Commenti del 24 aprile 2019, Poesie e Commenti di Giuseppe Gallo, Gino Rago, Donatella Giancaspero, Mario M. Gabriele, Nunzia Binetti, Giorgio Linguaglossa, Edoardo Nannipieri, Edgar Degas

 

La questione del logos è la questione fondamentale

 Scrive Michel Meyer:

«Si tratta di pensare cosa bisogna intendere per logos. Una tale esigenza può sembrare superflua in un’epoca che ha visto fiorire tanti lavori sul linguaggio: Il logos è un’altra cosa: è il linguaggio della ragione, e della ragione che si apprende in tutta la sua ampiezza, e non secondo questo o quell’aspetto particolare. L’inflazione delle ricerche consacrate al linguaggio ne rivela piuttosto l’assenza di unità. Quanto è ricchezza per la scienza, che moltiplica analiticamente i ritagli di oggetti, si rivela povertà per la filosofia, che cerca il principio e la totalizzazione: Ma non è possibile che, dopo tutto, la questione sia falsamente una questione filosofica e che si debba lasciare questa riflessione nello stato di dispersione che le conosciamo? Tuttavia, neppure la scienza ha molto da guadagnarci. L’infinita diversità dei fenomeni linguistici ha dato luogo a numerosi studi parziali che mascherano il logos, proprio mentre vogliono mettere in evidenza la realtà che gli è propria.

La molteplicità degli approcci e dei punti di vista – li si chiami sintassi o grammatica (generativa o no), ci si rivolga piuttosto alla semantica, alla pragmatica o ancora alla logica – non ha alla fin fine risposto alla questione di sapere cosa significa parlare. Rivolgersi a questo o a quell’altro fatto linguistico, scelto a caso in base agli interessi del ricercatore, non ha nulla di condannabile: è soltanto arbitrario. Per giustificare la sua scelta, egli deve ricorrere a una teoria del linguaggio, ma è proprio questa che egli pretende di scoprire o di validare, rivolgendo la propria attenzione ai fenomeni particolari che egli prospetta. Una teoria scientifica può certo privilegiare i fatti che vuole, senza che questo escluda altre scelte. Così facendo, essa non potrà pretendere di aver catturato la realtà del linguaggio in quanto tale. I suoi risultati saranno proporzionali alle sue scelte: limitati…

Questa sommatoria operata a partire dalla scienza mira a raggruppare il parziale per farne qualcosa di generale, ad addizionare i fatti particolari per ricondurre il logos ad un’immensa empiria di linguaggio. Proprio questo presuppone una concezione del logos, della ragione… Egli rifiuta la filosofia per i fatti, come se proprio ciò non tradisse già una certa filosofia, non fondata, sul comportamento da adottare nei confronti del linguaggio, su ciò che bisogna apprendere e su ciò che bisogna evitare, in breve su ciò che determina e definisce la ragione parlante. Il linguaggio sarebbe con piena evidenza a immagine della scienza, anzi che dico, la scienza sarebbe il linguaggio, al di là della sua inevitabile razionalità analitica?…

Le proposizioni che affermano che il linguaggio è dell’ordine del risultato, e forse anche, a razionalità giustificativa come la scienza, sfuggono anch’esse a questa definizione o, piuttosto, a questo a priori. Quest’ultimo si distrugge se si dice. Il che prova che il linguaggio non è ciò che esso afferma, e che non può affermare, benché il linguaggio possa esprimere anche i risultati della scienza… Ne va del pensiero del linguaggio, nella misura in cui esso è il linguaggio del pensiero… Pensare il linguaggio significa prima di tutto aprire il pensiero al proprio linguaggio. Il pensiero del linguaggio mette in atto un linguaggio specifico che è quello del pensiero. È in ciò che risiede il carattere fondamentale della meditazione sul logos. Senza questa meditazione, come possiamo sperare di trovare uno spazio proprio del pensiero, che non lo releghi a forme abusate del linguaggio, e nelle quali esso si perderebbe inevitabilmente? Forme abusate, dunque uso delle forme, le stesse di cui si tratta di render conto e che le analisi contemporanee presuppongono affermando, vietando, contestando.

Ma è possibile procedere altrimenti? Senza il pensiero del linguaggio, il linguaggio del pensiero si dissolve di fatto, se non implicitamente di diritto, in forme e in usi che rendono il pensiero estraneo a se stesso. L’alienazione che inghiotte il pensiero si basa sull’uso di un linguaggio che non è il suo.

La questione del logos è posta come domanda fondamentale del pensiero. Fondamentale, perché non poggia su nessuna risposta preliminare e, per questo, su nessuna domanda più prima ancora. E fondamentale altresì, perché essa si vuole fonte della risposta prima. Fondamentale, dunque filosofica, cioè esente da presupposti e da asserzioni esterne che non discendano dall’interrogazione sul logos…

[…]

Come interrogare il logos senza dover presupporre proprio ciò che occorre mettere nella risposta? Quale domanda è necessario precisamente rivolgere al linguaggio? Come formulare questa domanda senza già orientare la ricerca su di una strada particolare e arbitraria, che ci condannerebbe a errare. Il linguaggio ci sfuggirebbe a causa della particolarizzazione alla quale saremmo abbandonati. Come sapere esattamente la domanda particolare da porre, senza cadere nel tranello dell’anticipazione di una risposta? […] Così, perché la questione del logos sia considerata come tale, occorre non soltanto non presupporre niente oltre ad essa, ma, in più, non è legittimo formularla come se chiedesse questo o quello, questo piuttosto che quello.

[…]

Affermando tutto ciò che abbiamo appena detto sulla questione del logos, sul fatto che essa sola deve e può concludere la ricerca iniziale, noi non siamo più a livello della domanda iniziale. Facciamo agire una discorsività che non è la domanda ma parla di essa. Parlare così della questione del linguaggio è qualcosa che si aggiunge alla semplice posizione della domanda. Così facendo, abbiamo preso atto, nell’atto linguistico che consisteva nel porre e nell’elaborare la questione, del fatto che c’è un’esigenza da rispettare, nella fattispecie quella delle domande e delle risposte. Dalla questione del logos scaturisce una risposta: il logos è fatto di domande e di risposte, e questo è essenziale al logos, ed è anche un’esigenza dal momento che le domande sono considerate in quanto tali. f»1

1 M. Meyer, Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 1991 pp. 267 e segg.

Letizia Leone 4 frasi Viola norimberga

Giorgio Linguaglossa

mi trovo un po’ in difficoltà a commentare singolarmente le poesie dei vari autori dei due ultimi post perché il livello molto elevato di introiezione dei segreti della NOE è ormai così consolidato che mi lascia addirittura sorpreso. Non credevo che autori che si sono accostati alla rivista da relativamente poco tempo, come Franco Intini, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Petronelli, Francesco Gallieri e altri abbiano potuto assorbire così rapidamente i principi guida della nuova poesia. Evidentemente, erano già per proprio conto indirizzati in questa direzione, cercavano, magari a tentoni, qualcosa che galvanizzasse la propria scrittura. Questo è senz’altro un buon segno, un segno di vitalità della nuova poesia. Non occorre essere in centinaia, è sufficiente una piccola ma agguerrita (stilisticamente) pattuglia di interpreti. In particolare vorrei dire qualcosa su questa poesia di Giuseppe Gallo.

.

Giuseppe Gallo

 Lilli

Lilli sorrise alle macchie sul muro,
aveva intravisto il colbacco di Lenin.

Elena per scendere scelse i gradini più comodi.
Ormai dipingeva in grigio solo scale in salita.

La primavera era sopraggiunta in treno.
E i papaveri si vergognavano di rosseggiare in città.

– La morte non sa che può fare male,
ha ancora i calzoni corti e la minigonna di Mary Quant!-

Oggi non è più oggi.
…attenda in linea…

Le carpe d’argento assalivano le barche dalle sponde.
Se non hai parole non puoi avere fantasmi.

Si scrive soltanto il passato
per sorreggere la potestas e l’auctoritas.

La voce è un gesto: la bocca mi baciò tutto tremante…
ma dopo, quando si spara…

Intorno alle acacie si agita la luce,
il pappagallo la sfoglia come un libro.

Ha imparato a leggere lungo la traversata.
…è un’inchiesta sulla qualità del servizio…

La morte è una scavezzacollo… deve fare esperienza.
Ha ancora i calzoni corti e la mini gonna di Mary Quant. Continua a leggere

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La nuova Poesia in Distici, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Franco Intini, Edith Dzieduszycka, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, con Commenti di Mario M. Gabriele e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

cari amici,

qui ormai stiamo fuori del «timbrificio tipografico» come si esprime con brillantissima espressione Mario Gabriele:

«c’è un apposito sportello [ndr. la NOE], dove trasferire nella rete fognaria il bel verso, la retorica, la mitologia, l’iperbato, il soggetto, la continuità,la retorica ecc., come timbrificio tipografico.

“Il distico”, con parole nostre o di autorevoli filosofi,” istituisce visivamente il nulla. Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere un distico soltanto chi ha questa percezione singolarissima”».

E Lucio Mayoor Tosi:

«Gianni Godi esce dal tempo, e sembra provenire dal futuro – indietreggiando, rivolto al nostro presente. Però sembra non avere memoria, tanto del presente, quanto del futuro. Di conseguenza, un po’ ne soffre la comunicazione. Anche perché i testi sono portati all’estremo della sconnessione… sconnessi ma, se riuniti, arrivano a comporre in mosaico…».

Sia chiaro che la brillantina tipografica della poesia dei nostri giorni con iperbato fondato sull’io è roba da timbrificio tipografico, da dentifricio fono simbolico… noi qui stiamo facendo una cosa davvero nuova e rivoluzionaria. Ad esempio, prendere cognizione e possesso di un concetto elementare che in filosofia circola da almeno duecento anni, che «le parole sono ponti interrotti», che la procedura della colonna sonora di voler dare loro un senso con una colonna fono simbolica ben costruita come ha fatto il più grande poeta del novecento, Montale (almeno il primo Montale), è da archiviare con sollecitudine. Tutta la poesia riepilogativa ed epigonica che oggi come ieri continua acriticamente a confezionare confetti e confetture dell’io, è roba da indirizzare nella pattumiera della storia stilistica, roba da passatisti in vacanza colliquale. Pensare che il poeta possa o debba dare un senso alla poesia per il tramite dei suoi alambicchi fonosimbolici e tipografici è davvero una pia illusione di professorini innocui e vanagloriosi.

Come scrive Lucio Mayoor Tosi, qui siamo in un «cantiere aperto», c’è chi afferra dal passato e dalla memoria frammenti di significato, come fa Donatella Costantina Giancaspero, e chi invece recupera dal non-tempo degli spezzoni, delle zattere linguistiche un tempo significative come fa Gianni Godi nelle sue poesie volumetriche, e chi come Gabriele riutilizza e rimette in circolo lacerti e sintagmi dei cartelloni pubblicitari della cultura occidentale ridotti ad elementi frastici non più significativi. La sostanza della NOE è varia e ampia, ciascun poeta può scandagliare i propri strumenti espressivi in piena libertà. Aver paura del «nulla» che ci si trova di fronte, indietreggiare, come fa Claudio Borghi, respingere il «nulla» accusandoci di «nichilismo», implica una fuga dalla realtà del nostro tempo e una fuga dalle proprie responsabilità stilistiche e formali. Lo spirito umano conosce soltanto le idee, demonizzare le idee significa demonizzare il mondo.

Il «frammento» compare all’improvviso, nell’immenso disordine degli oggetti, è esso stesso un prodotto di quel disordine, ma, affinché vi sia «frammento» esso deve sortire fuori da una marcatura del tempo. È il tempo il demiurgo del «frammento», suo capostipite e suo padrone. Nel «frammento» c’è tutta la potenza detonante del significante, ma come raggelato e immobilizzato, ed esso ci appare estraneo (Unheimlich), chiuso nell’ambra di un milione di anni millimetri e sepolto nella memoria. E l’assurdo è che il «frammento» ci guarda. Dal lontano passato sembra osservarci e, una volta libero dal nostro sottosuolo, esso ci domina dalla profondità della sua Contingenza.

Giuseppe Gallo

Lilli

Lilli sorrise alle macchie sul muro,
aveva intravisto il colbacco di Lenin.

Elena per scendere scelse i gradini più comodi.
Ormai dipingeva in grigio solo scale in salita.

La primavera era sopraggiunta in treno.
E i papaveri si vergognavano di rosseggiare in città.

– La morte non sa che può fare male,
ha ancora i calzoni corti e la minigonna di Mary Quant!-

Oggi non è più oggi.
…attenda in linea…

Le carpe d’argento assalivano le barche dalle sponde.
Se non hai parole non puoi avere fantasmi.

Si scrive soltanto il passato
per sorreggere la potestas e l’auctoritas.

La voce è un gesto: la bocca mi baciò tutto tremante…
ma dopo, quando si spara…

Intorno alle acacie si agita la luce,
il pappagallo la sfoglia come un libro.

Ha imparato a leggere lungo la traversata.
…è un’inchiesta sulla qualità del servizio…

La morte è una scavezzacollo… deve fare esperienza.
Ha ancora i calzoni corti e la mini gonna di Mary Quant.

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Alfonso Cataldi

 “Pratiche da niente” in fila indiana dentro il dormiveglia.
Il contabile richiude il guardaroba.

– Le adozioni bruciavano alle spalle del convento
gli americani impararono gli orari delle prove corali.

Philomena interpreta il destino da una foto-testamento
nulla può aggiungere l’indagine di un serial killer.

Il corpo è sepolto al punto di partenza.

«Nessun riflesso ha inciso le pupille della Virgin Morena»
conferma l’entourage di Rafael Torija.

Due ex continuano a studiare i dettagli dell’abbronzatura.
Al presidio scarseggiano i mantelli taglia XXL.

È sufficiente un’altra notte di scampoli cuciti
a una madonnina che sta nel palmo d’una mano.

Giuseppe Talìa

                                   A Mario M. Gabriele e Godi

“Ehi dude! Close to me.”
“No, se non sei tra i miei contatti!”

Io sono un gi pi esse, non sono più un essere.
Il re è morto. Lunga vita ai microcip.

Arriva il vento. Il vento. Il vento.
Anemossssssssss… Kathorosssssssss…

Il freddo di ponente. Il caldo di levante.
Il vento morente. Il vento emergente.

Arriva. Arriva. Arriva.
Sfarina i fondali.

Un doppio vincolo ci unisce.
Earls Court è un amore barbaro.

Nel medioevo tecnologico,
Era u
Ora i.

Questi doni ho in tasca per gli ospiti:
fiori freschi e frutta secca, qualche tribolo.

A Fontainebleau il fantasma di Gurdjieff
impastava cocci dell’essere con smalti di vita.

Mi viene facile incollare i pezzi Ikea e Brico.
Braco (non dovrei cercare alleanze foniche).

Le gengive di Sanguineti mi masticano.
Mario M. Gabriele mi possiede.

Le parole sono pietre e vivo circondato da un muro a secco.

Mario Gabriele

caro Talia,
sei un vero professionista della parola, moderna e mai atavica. I termini commerciali come Ikea, Brico, e del mondo tecnologico riferito ai micro cips e gi pi esse, fanno parte di una discontinuità ideologica e lessicale all’interno della poesia, che estirpa tutte le radici fonologiche connesse con i vecchi paradigmi. Non c’è dubbio che con queste libere coesistenze linguistiche, si possa andare oltre certi regimi estetici già consolidati, ma è da accogliere con piacere l’uso prevalentemente nuovo che fai del verso, come idealità nuova, dal tratto verbo-iconico.

.

Gino Rago

 Una foto di Degas

Vicino a un grande specchio
Nella foto di Degas si vede Mallarmé.

E’ in piedi contro il muro.
Renoir è sul sofà.

Nello specchio (come fantasmi)
Lo stesso Degas ( con la sua camera )

E la moglie di Mallarmé (con sua figlia).
Paul Valery entra dopo lo scatto.

Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:
“Il prezzo di questa opera d’arte?”

Nove lampade a gas
E un istante di completa immobilità.

Donatella Costantina Giancaspero fotagrafa
La foto di Degas.

Pone sulla stessa linea di mira mente,occhi e cuore.
Trattiene il fiato e scatta.

Nella foto della foto di Degas
Donatella Costantina ha messo tutto.

I libri. I viaggi. Gli amori.
Gli appuntamenti mancati, le promesse mantenute.

.

Donatella Costantana Giancaspero

Grazie, Gino Rago,
fra tante foto che ho qui, non ricordavo più di averne scattata una anche alla “Foto di Degas”. Oppure, l’avevo smarrita, vai a capire… Ma vedo che tu l’hai ritrovata. Molto bene, ti ringrazio! La metterò insieme alle altre mie foto di viaggi, di amori, di promesse e appuntamenti mancati. Istantanee di istanti. Frantumi di vita. Vita in frantumi. Lampi al magnesio.

Une bonne soirée à toi, à Degas, à les amis…

 .

 Lucio Mayoor Tosi

Monsieur Gurdjjieff

« Fanculo, mi diverto. Georges
Ivanovič.». La notte si avvicina.

Il popolo è affamato. Esce il Re sul balcone.
Prende il pane; lo spezza, e dice:

«Tenete…».

Più delinquente, che bravo ragazzo.
Superpiù della poesia.

Liberi, solo se pazzi. Allucinati.
Ma liberi. Sole del Nord.

Portami a casa. Disse Georges.
Ma rideva sotto i lunghi baffi.

Ho la sifilide.

Edith Dzieduszycka

 Ricordava il cicaleccio futile da vecchia bambina viziata
della donna stravaccata sul sedile di fronte.

Dialogo quotidiano fatto di piccoli dettagli insignificanti,
di banalità cronaca silenzi. Destino insieme unico e universale.

Miliardi di corpi già sprofondati e altri destinati a sprofondare.
Senza nemmeno pensarci. Anche loro. Inesorabilmente.

Tutti quei corpi in movimento frenetici aggressivi
pronti ad affrontarsi e a combattersi,

a sopprimersi a vicenda anticipando i tempi
per ubbidire a chi sa quale oscura legge?

Di quale peso d’ossa, di quale massa di polvere
caricano una terra indifferente?

Quella terra sempre più gravida e sempre più pesante?
Fino a quando reggerà un tale carico?

Attraversò la strada, rialzò il collo del suo giaccone
e guardò in alto la facciata di casa sua.

Vide il rettangolo illuminato della finestra del soggiorno.
Gli sembrò di vedere il muoversi di una tenda.

e il passar dietro di un’ombra.
Ma forse era la finestra dell’appartamento vicino?

[Estate 2017 – Estratti sparsi dal romanzo Intrecci – Genesi – 2016]

.

 Franco Intini

METTERE I BAFFI ALL’ IO

1-INFER
RIATE

Salme:
Si muovono navi verdi. Di olio la pioggia

Donne irriducibili alle inferriate.
Un punteruolo rosso in ceppi. Due proconsoli di Cesare.

Socrate assorbito dalle cicute.
vendono palme a Barabba

La banda delle cinque fa a meno degli orologi, borghesi per giunta.
Il tempo lo è.

La legge invece è capitalista.
Una centuria suggerisce a degli ulivi di far largo alla xylella.

dal Salento a Gerusalemme.
Le successioni sanno di catena alimentare

dov’è Gesù?

Dio è morto
Io è morto.

Un pianoforte perde i denti. Musica di Schubert nelle vie di Bari.
Negli uffici stampano registri in codice binario.

Faber. L’asino, il muro del ‘61
sulla via del mare omaggiano la carovana del re.

Giuda in su.
Il Duce in giù.

.

2-CE N’È PER TUTTI.

la motozappa crea il dopoguerra
Berlino 1945, campo di sterpaglia

Su Hiroshima cresce l’ailanto
pianta alleata

scrivere la storia
con la matita di un pipistrello

senza spiegazioni
appendersi a un filo d’erba

e poi quali sono le ragioni
del contadino?

il motore vale
una pompa peristaltica

quanti figli ha fatto per la guerra?
Tanti che nessuno li conta a pranzo

Bios ci sa fare con queste cose
L’arte è un fatto mentale

Leonardo morto
Vale un colombo su Monna Lisa

.

3-MIRACLE

Premessa:

Francesco d’Assisi
Albert Einstein

Difficile camminare sull’acqua
Come viaggiare in un buco nero

l’acqua inghiotte luce
Un buco nero la mortalità

Cos’ è singolare?

.

NELL’ANNO 2100

Fu costruito il primo Santo robot
Lo chiamarono Francesco

perchè parlava con gli uccelli, un effetto
dell’Elio II che scorreva nelle sue vene

progettato per fare miracoli
invertiva la freccia degli eventi

tornò ad Assisi
abbracciando stimmate e povertà

l’italia ne rimase sconvolta,
nessun ministro della lega

fu visto il duce sotto la pensilina
piazzale Loreto tornare vuota

a Dongo non successe nulla
Claretta ricomposta

Bambina innamorata
del suo principe

Praga rifiorì nel nulla
il patto di Varsavia dissolto

molti mali ritornarono nelle ortiche
Compreso Himmler che mai nacque

Né si vide Mengele
Operare sui bambini

La tecnologia del miracolo
Rimise in piedi il palazzo vescovile

Francesco è senza sacco, ora
dinnanzi a Bernardone

Le ricchezze, i sontuosi panni
La mercanzia donata ai poveri

Da qualche punto però si torna
Anche il tempo è onda

il calore va e viene
l’ istante si conserva

se inverti la rotta il cancro sparisce
la radiografia non ha più traccia

solo la Memoria
rimane intatta

risorge
muore

Mario M. Gabriele

cari Amici,

non esiste in questo post, all’interno del distico e del frammento, una sola poesia che sia in distonia con i testi presentati. Sembra un teatro di voci dove la vocalità si articola su linguaggi quasi pre-futuri.

Tutto questo lo si deve agli esiti poetici di Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Donatella Costantina, Guido Galdini, Carlo Livia, Silvana Palazzo, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Franco Intini, Lucio Mayoor Tosi, Edit Dzieduszycka e Francesca Dono: un vero e proprio Gruppo NOE, senza sbaragli irreversibili, anzi, devo dire di non trovare debolezze estetiche, ma approvvigionamenti linguistici di singolarità tecnologica.

A questo approdo concorrono, evidentemente, consensi unanimi, fuori da ogni composizione artificiosa e lirica; e penso pure ad una opzione meta letteraria che non va abbandonata.

Ciò lo dico perché ci stiamo lavorando da tempo, per proporre un nuovo modo di fare ricerca sotto un’unica sigla, che può incontrare anche pareri discordi, senza ricorrere a giudizi Keep Out, che avviliscono ogni fare poetico. Grazie e Buona Pasqua a tutti.

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Poesie ipoveritative in Distici postate il 20 aprile 2019 di Mario M. Gabriele, Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Guido Galdini, Silvana Palazzo con un video di Gianni Godi

(Video di Gianni Godi, oh come eravamo felici quando eravamo ubriachi)

Giorgio Linguaglossa

caro Mario Gabriele,

«Riassumendo, direi che è l’asseribilità della ragione che si è globalmente impossibilizzata. La contemporaneità si è talmente sforzata di trasformare il negativo in positivo, di fare di quest’handicap storico una caratteristica costitutiva: la mancanza di principio è così diventata una posizione di principio, la disseminazione una ricchezza, il soggetto una traccia; il linguaggio metaforico e vago l’essenza stessa del logos. Non è forse necessario far buon viso a cattivo gioco? Ma quest’impostazione mal nasconde la contingenza sulla quale pretende di erigersi. Essa vuol far passare per tratti essenziali ciò che è accidentale, ciò che proviene da uno stato di cose superato e negato, come se tale negazione fosse un aspetto costitutivo del nostro essere. Così, il fatto che l’antico principio del pensiero, l’uomo, sia morto in quanto tale, non significa né che il pensiero del principio sia vano o impossibile, né che l’uomo sia una traccia, una casella vuota, una mancanza. Questi termini traducono astoricamente un certo divenire, e non quel che in realtà siamo.

È sullo sfondo del cartesianesimo che sono nati tali concetti, concetti la cui apparente positività rimuove piuttosto un’impossibilità di superare ciò che è superato, di riempire ciò che è diventato realtà vuota, se non facendo del vuoto il pieno stesso che occorre recuperare, un vuoto del principiale che sarà positivizzato in realtà effettiva. Ma è paradossale continuare a operare con categorie che sappiamo non pertinenti, volendo fare di questa non-pertinenza un tratto pertinente di sostituzione. È paradossale dire che una certa realtà concettuale non ha più corso, e perpetuare in vuoto questa realtà con l’affermazione che il vuoto è appunto la realtà. Come possiamo contemporaneamente sostenere che il soggetto fondatore è indicibile in quanto tale, e fare di questo indicibile il senso stesso del discorso antropologico, se non della realtà umana stessa? Non si continua in tal modo a pensare a partire dagli stessi termini, ma invertiti? La traccia dell’origine, in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e diventa effetto; lo spostamento qui è produzione. La non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un logos dell’originario è daltronde una vecchia idea del proposizionalismo che si trova già in Descartes, poiché la ratio cognoscendi non può porre in primo luogo ciò che è realmente primo; di qui il ritorno analitico all’origine, innato o a priori, che non possiamo mai delineare se non con uno scarto e un’eterna inadeguazione.»1

1 H. Meyer, Problematologia, Pratiche editrice, 1991 pp. 181-182

Donatella Costantina Giancaspero

Cari lettori e amici della rivista,
a voi tutti giungano i miei auguri più sentiti per una Pasqua serena e una altrettanto distensiva Pasquetta. Con gli auguri, la dedica di questi miei versi.

Un soir, l’âme du vin chantait dans les bouteilles…
(Charles Baudelaire)

Il vinaio

Il vinaio accanto alla stamperia
è il primo cliente della sua bottega.

Nelle mattine fredde, spunta una riga
di pigiama, dal maglione indurito.

Il sesso colposo gli ha tatuato un’ameba
sotto l’occhio; altre anneriscono in segreto.

Imbratta kleenex con latte condensato:
li semina per terra, a mezza luce,

tra il letto e il comodino
– per lui, che lo tradisce con uno più giovane –.

Salite, sabato sera, che vi faccio la trippa!

Da molti anni, il coltello del pane
è stato rimpiazzato.

Le coppette di vetro per la macedonia
sono rimaste in cinque

– quella sbreccata è finita nella spazzatura –.

La bottega è un buco. Una crepa
a misura di scalpello.

(Maggio 2018)

 Guido Galdini, Quattro poesie ipoveritative
Durante una visita alla mostra di Antonello da Messina (Milano, Palazzo Reale, Aprile 2019)

„Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro. La moda è il ritorno del sempre eguale nel nuovo.“

(Walter Benjamin)

In un certo senso, il distico segna il ritorno del sempre eguale nel nuovo distico che segue il precedente, il ritorno del revenant, è una spinta che segue ad una controspinta.

(g.l.)

San Gerolamo

il manto scende ad ondate
s’increspa sul pavimento

il leone passeggia nell’ombra
fuori c’è un cielo da oltrepassare

qualche uccello in planata
si avvicina all’azzurro

troppi libri e altri oggetti
ingombrano le mensole

il pavone non ha nessuna voglia
di esibire la ruota.

L’Annunciata

la mano destra si stacca
dal piano della tavola

è protesa per arrestare
la vicinanza di uno sconosciuto

l’altra mano trattiene il mantello
gli occhi hanno smesso di guardare.

Pietà (dal Museo Correr, Venezia)

il tempo ha sgretolato i volti di Cristo
e degli angeli che lo sorreggono
con le ali che pungono il cielo

il minuscolo teschio d’Adamo
è posato accanto all’albero rinsecchito

in piazza non c’è ancora nessuno
il mare è deserto di navi

un angelo si appoggia alla guancia
la mano di Cristo
che pende inerme dal polso

il costato ha una breve ferita.

.

Ritratti

bocche chiuse socchiuse
quasi aperte al sorriso

le guance in penombra
sono recise da pieghe verticali

i riccioli aggrovigliati
delle sopracciglia del volto di Torino
concludono l’ipotenusa dello sguardo.

Una poesia in distici di Carlo Livia dal libro in corso di stampa con Progetto Cultura, La malattia del cielo:

Carlo Livia

La prigione celeste

Dalla finestra di Mozart vedo la donna nuda che beve lacrime
divine in un cielo di astri divelti

e un vecchio bambino pazzo che trascina ridendo l’anima del
Grande assente.

a forza di dormire sull’orlo del precipizio, la mia anima si è
mutata in sette serafini ciechi

che baciano in sogno l’infelice sposa dell’Ultradio.
Ho attraversato tutto l’universo, cercando quella fessura del

tempo da cui affiora la morte
ma ho trovato solo lo splendore delle madonne silenziose

votate al blu.
Tutti i tabernacoli sospesi in alto mare s’inclinano lottando

contro un vento di frasi fatte
e versano in cielo una musica di carezze e desidèri di fanciulla,

tristi come la voce che mi sfiora in sogno
per dirmi che non è più qui.

(testo Carlo Livia:Layout 2 19/04/2019 20:23 Pagina 20)

gif tacchi a spillo.gif

Il movimento ritmico dei piedi in cammino si può ragguagliare al distico quale struttura binomiale che si muove nel tempo e nello spazio

Poesie nella versione in distici di Silvana Palazzo dal libro in corso di stampa con Progetto Cultura, Il poeta descrive la vita

Silvana Palazzo

Può un pensiero diventare poesia?
ed il pensare

divenire poetare?
Quali qualità deve avere il poeta

per essere reputato tale?

*

Ma che valore hanno le poesie?
Scriverle non è un mestiere e

fingere di farle non conviene
visto che nessuno le compra…

*

La poesia nessuno la vuole
fa fatica finanche a camminare

non sta in piedi perché
nessuno la vuol capire

anche se è la massima espressione
dell’essere umano…

*

La poesia?
troppo inconsistente

breve ma perturbante
ti ferisce dolcemente

anche con un carico pesante..

*

Cos’è necessario a che le parole
diventino poesia?

L’abilità nel costruirla o
la forza del cuore?

*

Se la poesia è un’apertura d’anima
al mondo…
basta aprirsi per essere poeti?

*

Sono entrata in una poesia,
ho camminato a lungo tra le parole,

ho sostato tra le righe,
per capire rigo per rigo,

per lasciarmi imbrattare d’inchiostro e di parole e
per sapere quello che il poeta

voleva comunicare…
ma forse, ciò che voleva dire

era qualcosa d’altro…

Mario M. Gabriele

Ti parlo, ma non mi ascolti.
Come è andata con Omar? Si è innamorato di Salomè?

Allora si spiega tutto
perché ha ucciso il serpente a sonagli.

La signora Hanna odia i positivisti
dopo aver letto la Pontificia Opera Cristiana.

Ogni giorno cerco nella cassetta
una piuma dal cielo.

Piqueras e Sweneey
non attendono le donne di Michelangelo

All’ultima curva della strada aspetto Milena
con Panetti e Shoppers.

Guardo il vestito, la maglietta a pailettes.
Controllo i Covered Bonds e le fake news.

Tommy è venuto a potare la siepe
per lasciare il posto al ruscus di Settembre.

Mark Strand si è rifatto ai quadri di Edward Hopper
diventando spiritualista.

Guardando la camera da letto di Van Gogh
sono riuscito a dormire senza EN.

Il Servizio urbano si è rinnovato
inaugurando vicoli con l’insegna: La tomba è il bacio di Dio.

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Le installazioni ipoveritative e i video di Gianni Godi, Due poesie inedite di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Nota a margine sulle istallazioni ipoveritative di Gianni Godi

Il 17 aprile 2019 sono andato a visitare la installazione ipoveritativa di Gianni Godi al Macro di Roma, in via Rebbio Emilia e sono entrato all’interno di un cubo cilindrico luminescente denominato dall’artista «Viaggio cilindrico nella materia». Alle pareti c’erano i manifesti della video-poesia o poesia volumetrica di Gianni Godi in bianco e nero. Sotto ai piedi uno specchio, sopra la mia testa un altro specchio. Due specchi che specchiavano il vuoto di sotto e di su. Una esperienza fun, ipoveritativa, surrazionale. Poi Gianni proiettava su uno schermo questo e altri video da lui prodotti. Ho trascorso il tempo a ridere di gusto. Commentavo con Gianni che trovato i suoi video divertenti e inesplicabili, un mix di truismo e di magia. E dicevo che oggi si deve accettare un certo tipo di arte che prende lo spunto dalla «superficie» del reale, che oggi sembra coincidere con il reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè un’arte che assume come incontrovertibile che le parole e le immagini siano libere rispetto alle cose, che le interpretazioni possano essere infinite e che l’arte diventa sempre più leggera, fino a diventare evanescente, perdere gravità fino a che le cose scompaiono dall’orizzonte degli eventi percepiti. Secondo il filosofo italiano, partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1

Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo, si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 Le istallazioni di Gianni Godi, accettano una visione non veritativa del discorso artistico, quest’ultimo non corrisponderebbe più ad un referente che non sia se stesso. Ed entriamo a vele spiegate nella liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso del tradizionale discorso artistico che conservava un valore veritativo critico ed entriamo in un nuovo demanio secondo il quale l’istallazione cessa di contenere un valore veritativo tout court.

In tal senso, le istallazioni di Gianni Godi sono il proseguimento e la conclusione di quella parte della cultura artistica del secondo novecento che è approdata ad una pratica di non verità del discorso artistico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità».

Scrive un filosofo del nostro tempo, Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3

Direi che il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-artistica come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.

1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2 Ibidem p. 122
3 Ibidem pp. 115,116

Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta, in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio, è Figura del presente. La impossibilità del linguaggio ad ospitare tutto il dolore del mondo coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguito da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.

Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.

L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.

Il distico istituisce visivamente il nulla.

Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.

1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

Due poesie inedite di Giorgio Linguaglossa

Disse che aggiustava le ombre

La bellissima Dama attraversa il Ponte di Rialto,
crinolina, paillette e ventaglio.

Avenaius si presentò con due doberman, al guinzaglio,
mi disse che avrebbe patteggiato la pena con il rito abbreviato,

che trattava con le ombre, del passato
e del futuro,

farfugliò qualcosa di indistinto in quella sua lingua di eptaedri,
disse che aggiustava le ombre, e gli ombrelli.

«È questo il mio mestiere».
In quel frangente uno scroscio di tormenta si abbattè sul ponte.

«La felicità sono i suoi fogli vuoti».

«Le sue parole, caro Signor poeta, sono ponti interrotti
i ponti delle parole che nessuno

sa dove condurranno».

Poi, per soprammercato, aggiunse delle frasi sconnesse,
del tipo:

«Ella accoppia sublime e immondizie
sigizie di correaltà, apparenta

Storia ed eoni, platonismi e crudeltà.
Storialità…»

.

inserisco qui una mia poesia, fatta con gli scampoli e gli scarti di altre mie poesie, frutto di spazzatura della spazzatura, quindi spazzatura di seconda mano. Non ho alcuna pretesa di fare il Bello, come tanti letterati illustri intendono, né di fare il Brutto. Assemblo semplicemente degli scarti in rigorosi distici. Scarti di scarti di altre mie poesie già fatte di scarti. Non voglio apparire né rivoluzionario né conservatore, né innovativo o altro di che… Non intendo provocare né apparire ingegnoso.

Giocatori di golf impugnano il bastone da golf

Un prato verde. Persone in tweed fumo di Londra
camminano in fila,

si tengono stretti alle spalle di chi precede.
« …….»

Avenarius suona il campanello di casa Cogito,
ha litigato con il Signor Retro.

Il Signor Google fuma un sigaro di Sesto Empirico
e il filosofo va su tutte le furie.

Persone in casacca gialla e pantaloni bleu giocano a golf,
giocano a golf.

Una pallina bianca rotola di qua e di là.
Un valletto percuote il gong.

Una folla tra la ghiaia, il prato verde e lo specchio.
Un pappagallo verde. Un orologio giallo.

Hockey in casacche striate, pantaloni bleu.
Palline bianche che rotolano sul tappeto verde

di qua e di là.
Giocatori di golf impugnano il bastone da golf.

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Gianni Godi – Viaggio cilindrico nella materia – Poesia volumetrica in 15 tavole – Videopoesia – La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica – Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Gianni Godi

Gianni Godi è nato a Monte Porzio (Pesaro-Urbino), è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. Ha pubblicato il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia (date le dimensioni da lui richieste, 160×220 cm e forse anche per altri motivi, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia.

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica

La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica… è possibile che sia la poesia del prossimo futuro, un tipo di scrittura sganciata e slegata dalla necessità del supporto cartaceo, una poesia che si libera nello spazio virtuale di un universo ologramma. Sono convinto che la ricerca iconica e poetica di Gianni Godi sia di questo tipo, l’artista romano che si dichiara «totale» si è liberato della «totalità», una categoria che anch’io usavo trenta anni fa ma che adesso è caduta nel dimenticatoio; forse oggi ha poco senso parlare di «totalità delle cose» in un universo inflazionario che, si calcola, tra ventimila anni luce sarà talmente diradato e freddo che le luci delle galassie si saranno spente del tutto e i pochi atomi rimasti galleggeranno nell’etere a distanza di milioni di chilometri l’uno dall’altro, allora, a quel punto, di tutto ciò che conoscevamo come il nostro universo non rimarrà che un immane buio e un immane freddo, e un altro universo giovane prenderà il posto del vecchio. E tutto ricomincerà di nuovo in un orribile e spettrale eterno ritorno.

Tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto

Nella grafia di Gianni Godi tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto, il non detto; qui si rende evidente che l’essere si differanza nel  linguaggio, l’essere si aliena nel linguaggio e nel linguaggio diventa altro da sé, si rende presente e assente in un medesimo tempo; diventa segno, traccia, vuoto tra i segni dei grafemi; la verità si trasforma in traccia, si contamina, si incide nel linguaggio che è segno. Non c’è nessun linguaggio che possa vantare un privilegio ontologico sugli altri linguaggi tantomeno quello poetico. Pensare alla verità del linguaggio è già un porsi nella dimensione del tempo, è già un temporalizzarsi e uno spazializzarsi del tempo; ci sono solo tracce, dei grafemi, di qua e di là che però non conducono ad alcuna verità, c’è una differance  e una moltiplicazione di grafemi che si insinuano tra l’essere e il linguaggio. Il grafema è tutto ciò di cui possiamo essere certi ma di una certezza che non ha nessun punto di contatto con la verità. La verità (l’essere) è differantesi-differente nel-dal linguaggio, è lei il vero errante della nostra epoca. Noi sappiamo  ciò che il linguaggio dei segni ci dice ma la verità non la conosceremo mai per via della struttura aporetica di essa, l’essere è il non detto del linguaggio, sta tra gli interstizi del linguaggio.

Nella spazializzazione dei grafemi di Gianni Godi l’essere diventa visibile proprio in quanto inghiottito dai vuoti interstiziali. In queste spazializzazioni grafematiche il tempo sembra essersi volatilizzato, non c’è più, o meglio, le sue tracce sono i grafemi, simulacri di originali mai avvenuti, mai pervenuti.

Adesso possiamo dire che questo «Viaggio cilindrico nella materia» di Gianni Godi altro non è che la traccia dell’erranza della verità che si dà nella configurazione del tempo in quanto il tempo è il venire a manifestazione della struttura aporetica della verità.

 La verità-essere non è nel «testo scritto» ma  «tra le righe», «nell’interlinea» del testo, nel «non detto» del testo di cui esso testo è la «traccia», il grafema. Il grafema non è niente, è un non-niente, ma non è nemmeno la cosa, è una presenza che si dilegua e rimane il niente… L’IO è liquidato, scomparso tra i flutti del vuoto, e con esso la «materia». Non è un caso che l’ultimo grafema suoni «e lasciaci in pace nel morchio limaccio».

 Gianni Godi

Breve nota sulla Poesia Volumetrica in relazione al manufatto Volume “Viaggio Cilindrico nella Materia”.

Mi sembrava di avere esaurito tutte le parole. O perlomeno credevo di aver esaurito tutte le combinazioni del mio miserrimo bagaglio di parole adatte a far poesia. Ritenevo che la maggioranza delle parole in uso fossero irrimediabilmente logorate dalla pubblicità per finire nelle osterie e nei bar del mondo. Si era all’inizio degli anni ‘90 e la voglia di sperimentare era rimasta intatta. Per esempio non sopportavo le parole bidimensionali distese sul foglio di carta. Di 3D si parlava ancora poco, però pensavo ad una possibile fuga in altra dimensione del testo piatto…e le voci da ogni luogo che si sovrapponevano mi fecero capire che l’esposizione lineare di un concetto era indubbiamente vantaggioso per indicare le regole e le procedure costruttive di un qualsiasi manufatto seriale però inadatta all’innovazione, specialmente nell’espressione artistica in senso lato. Se hai la pretesa di fare qualche cosa di nuovo, devi cercare di conoscere, per quanto ti è possibile, “tutto” quanto hanno fatto gli altri per cercare di non rifarlo. Da qualche parte avevo letto che Claudio Monteverdi, lo ripeteva spesso ai suoi allievi.

La scrittura della prima poesia volumetrica segue una logica non lineare. Le parole e la grafica si susseguono in modo spontaneo, credo, sulla base del “mio totale sapere”. Al posto dei mezzi tradizionali (penna o matita) usai un desk top PC munito di un generico programma di scrittura tradizionale e di un potente programma di creazione e manipolazione grafica. Un anno di immersione mattutina nel caos cerebrale, forse con l’intento di dare un senso alla nebbia intellettiva. Ne uscirono poco meno di 50 paginette piatte quasi totalmente incomprensibili. Però ero io. Nessuno avrebbe comunque “letto” il mio lavoro. Non mi sembrava giusto. Al fine di rendere comunque visibile il “mio pensare”, decisi in modo stavolta razionale, di trasformare in un volume la mia fatica. La forma cilindrica mi sembrò la più adatta. Oltretutto un cilindro vuoto e di adeguate dimensioni avrebbe potuto catturare l’attenzione e “ospitare” all’interno un possibile lettore. Mentre procedevo in modo razionale con il pensiero, mi resi conto della fatica che avrebbe dovuto fare l’ipotetico lettore nel cercare di carpire il significato di una simile scrittura. Nacque così l’idea di distrarre il futuro malcapitato utente indirizzandolo verso concetti immediatamente fruibili. Stampai le pagine su fogli A3. Dopo un’accurata plastificazione le incollai fra loro ottenendo un lenzuolo lungo più di 4 metri. Preparai due piattaforme circolari di 160 cm. Sulle piattaforme furono incollati due specchi. Una piattaforma specchiata divenne il pavimento l’altra il soffitto. Arrotolai il lenzuolo attorno alla struttura, fissai una lucetta alogena al centro in alto e subito mi recai all’interno. Rimasi per un po’ senza fiato. Avevo ottenuto un “libro” che moltiplicava se stesso e il lettore verso l’infinito inferiore e superiore. Non mi passò minimante l’idea di leggere l’illeggibile da me creato. E così fecero tutte le persone che ebbero l’opportunità di entrare nel libro-cilindro.
In sintesi il manufatto si presenta come una sorta di libro tutto aperto. L’ultima chance della parola scritta pronta a migrare dal supporto cartaceo verso nuovi mezzi espressivi. Entrato all’interno del cilindro, il lettore privo di scarpe (nudo sarebbe meglio) si trova “sospeso” a mezz’aria tra gli infiniti sopra citati. Illusione dovuta ai due specchi paralleli. Il “viaggiatore” resta fermo, però s’accorge che la sua materialità resiste alla frantumazione e che frapponendo il suo corpo fra il pensiero e l’infinito gli viene preclusa la vista estrema del punto di convergenza. Per intravedere un possibile infinito deve necessariamente rimuovere il suo corpo.
Per i curiosi posso aggiungere che in effetti la mia intenzione iniziale era quella di raccontare l’avventura di un individuo che via via si trasforma in coppia e che senza volerlo si ritrova ad un convegno di fisici su di un grattacielo a New York. I fisici discutono della materia e di come afferrarla e possibilmente possederla. Al convegno è presente Dio. Durante il cocktail si straparla e tutti si ubriacano. Vengono inventate le parole per spiegare l’inspiegabile. A piedi nudi i fisici cercano di frantumare la materia. I due partecipano attivamente alla sbornia collettiva e credendo di aver afferrato il senso del convegno si eccitano un po’ troppo e per una distrazione materiale sporgendosi oltre misura dal grattacielo cadono sull’asfalto di New York. Dopo vari rimbalzi finiscono nella zona Infernetto-Ostia.
Ridotti in frantumi infinitesimali, hanno la possibilità di vivere la natura biologica risalendo le radici delle piante verso le foglie e i fiori o vivere la natura inorganica dei cristalli di sabbia-silicio e ritrovarsi come parte fisica in qualche schermo televisivo o agitarsi freneticamente nel luminoso buio di componenti microelettronici o rimanere in apparente quiete in attesa di imprevedibili eventi.
Qui finisce l’avventura a noi narrata con un linguaggio fortemente influenzato/storpiato dai discorsi orecchiati durante il convegno.

 

Gianni Godi CILINDRO

Gianni Godi, Cilindro

Gianni Godi

Viaggio cilindrico nella materia

Poesia volumetrica

 Tudela appare giovane. Quando Tudela entra nei pensieri i familiari preoccupati si fermano a guardare i suoi occhi; credono stia male. Di fatto, in pochissimi anni ha subito diversi trapianti di memoria perdendo quasi del tutto il senso del tempo. Ad alta voce dice di aver detto più volte nel passato, di voler andare libera da vincoli ad acquistare varie concretezze da cerimonia (fra l’altro, un paio di scarpe con tacchi a spillo). Non specifica di quale cerimonia si tratti e tutti affermano concordi di non averla mai udita fare simili affermazioni. Tudela non sa in quale anno, mese, giorno si trovi e pare aver perso anche il senso di spazio. A dire di Tudela, Fiacre, intimo suo amico, di cui fra l’altro è dubbia l’esistenza (non essendosi mai visibilmente presentato ad altri) condivide il desiderio di incamminarsi verso acquisti concreti. L’equivoco sul vero scopo del viaggio non potrà mai essere chiarito per deficienza dei mezzi di comunicazione. Così il giorno xx T&F decidono di partire entrando nel cilindro dell’arte riflessa. Continua a leggere

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