
Duška Vrhovac
Presentazione
In questo libro dal titolo inequivocabile, Inevitabili note, Duška Vrhovac compie il gesto decisivo: si libera dalla tirannia del pensiero apofantico, sposta lo sguardo dall’oggetto del pensiero all’analisi e alla indagine dei presupposti del pensiero tout court, piega l’interrogare su se stesso. Il principio logico fondamentale, il principio di non contraddizione, non è negato ma limitato e condotto al suo luogo d’origine, il determinato. L’indagine della poetessa predilige l’ambito di ciò che non è ancora determinato, di ciò che non è ancora sedimentato, poiché il determinato non ha alcun valore per tutto ciò che è e resta incognito: per gli stati d’animo, le tonalità emotive, le angosce del quotidiano, gli innamoramenti, i gesti che sfumano e scompaiono, un sorriso che scompare, il sole che tramonta… Scrive la Vrhovac:
«Aprite il cuore, aprite le finestre, allargate le braccia, aprite la porta, chiudete soltanto la porta del male. È questo il modo più semplice per non vivere nella prigione in cui si è tramutato il nostro mondo».
L’attenzione della Vrhovac verte su quanto è «prima» dell’atto di determinazione, quel «prima» che la stessa determinazione logica presuppone, e sul «poi», su ciò che segue. La dislocazione dello sguardo della Vrhovac si sposta dal contenuto del «dire», del logos, all’itinerario del logos. Questo tragitto porta la poetessa serba a scorgere il profilo di quel continente nascosto che Vico chiamò ingens sylva, l’indeterminato, ciò che appare non concluso e non definito. Siamo prossimi a quella problematica, l’angoscia di Sein und Zeit di Heidegger, che apre l’esserCi alla consapevolezza della «possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in generale».
Duška Vrhovac usa il linguaggio forse più inadeguato del nostro tempo, quello della poesia, in senso largo della poiesis, che parla della crisi in cui viviamo con la lingua della crisi. Ma quale crisi se tutto è in crisi? E qui sorge il problema: come fare per scorgere un fondamento nella crisi?, ma non è possibile alcun fondamento, e la riflessione della Vrhovac lo esemplifica chiaramente quando scrive: «Nel cielo il sole, dentro di te il sole, ma tutt’attorno il buio».
Il genere prescelto è il Tagebuch, il diario, il luogo nel quale vengono appuntati i pensieri del giorno, ciò che pone all’“Io” il compito etico di rispondere all’ordine del giorno mediante dei pensieri che rispondono ad una situazione di incertezza e di pericolo.
Se sapere è porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra, scrivere un diario è non sapere ciò di cui si scrive, un tentativo di inoltrarsi tra le ombre dei significati che sono essi stessi nell’ombra e quindi che non possono essere condotti alla piena luce dell’evidenza. Il diario è propriamente questo, un tentativo di gesticolare nell’ombra dei significati ossificati, un tentativo di compiere dei gesti che aprano degli spazi nei significati in ombra.
Scrivere un diario è, letteralmente, storiografare se stessi e il procedere della propria scrittura. Scrivere è osservare. Si tratta perciò di mettere a tema il problema della collocazione storica dell’osservatore il quale sembra essere al di qua della pagina mentre invece è sempre al di là della pagina, nel pieno della luce dei significati già dati. Ed è questa l’aporia del diario, la sua finzione è la sua funzione, il voler dare ad intendere che chi scrive è l’osservatore che osserva la scena, mentre invece è un intruso, un ospite nel teatro dell’esistenza, un ospite che fa parte dell’esistenza che scorre ma che non può vedere dall’esterno come il diario vorrebbe.
Il pensiero poetante deve farsi costellazione di pensieri. Andenken è «memoria», è il pensiero che s’indirizza a ciò che si manifesta, a ciò che si dà come oggetto di conoscenza, ovvero ai significati, ma che nello stesso tempo ne rievoca anche la provenienza; «ricordo» che essi si danno in presenza a partire da un’assenza, da uno sfondo che va a fondo. Rievocare la provenienza non significa rendere presente ciò che è assente, portare a manifestazione ciò che, come tale, non si manifesta, ma esplicita l’attuare un mutamento dello sguardo, una diplopia: vedere ciò che si mostra come ciò che è in presenza, ma guardarlo, in un certo senso, anche dal lato dell’assenza, vederne il limite.
Che cosa dunque rievoca il pensiero poetante? Esso «rammemora» l’Evento. Rievoca quella zona d’ombra che è l’accadere stesso della luce; l’andare a fondo in quanto far emergere qualcosa non al fine di gettare luce sull’ombra e cancellarla come ombra, ma al fine di «sospendere» la cogenza dei significati.
Si tratta di mostrare che quei significati che vengono alla presenza non sono verità assolute nel senso di ab-solutum, sciolto, svincolato da un contesto, ma appartengono sempre a una cornice, sono figure che appaiono in primo piano a partire da una condizione che, subito, retrocede sullo sfondo. Rammemorando questa condizione, i significati vengono «storicizzati», mostrati nel loro limite, ossia nella loro contingenza storicamente determinata e nella loro dipendenza da un orizzonte.
Heidegger ha ragione quando afferma che il corpo umano è affatto diverso da tutte le altre cose del mondo perché è un corpo, cioè il corpo di un soggetto che dice di sé di essere un “Io”, e di conseguenza di avere un corpo.
Homo sapiens è questa separatezza. E come l’umano è separato dal suo stesso corpo così è separato dalle cose e dal mondo. L’ecologia non risolve questa frattura interna all’umanità dell’umano, può al più mitigarne e dilazionarne gli effetti. Heidegger parte da questa constatazione antropologica. Si tratta ora di capire fino a che punto, questo strano vivente che nega il suo stesso essere corpo,che è questa stessa negazione, può spingersi verso il mondo delle cose, fra cui c’è anche il ‘proprio’ stesso corpo che gli è estraneo quanto una galassia distante miliardi di anni luce.
La poetessa serba aprendo l’“Io” al mondo scopre una galassia dentro l’“Io”, questa complessità inestricabile fatta di tempo, di spazio, di eventi e di storia; il suo è un pensiero riflettente che pensa intimamente il reale, e il diario è la cronografia di questo singolarissimo pensiero riflettente.
Duška Vrhovac scrive di «inevitabili note» che rispondono ad un imperativo categorico. Esige di entrare nel mondo del senso, spinge per entrarvi. La vita umana non si nutre solo di oggetti, non è solo fatta della sostanza del godimento, del carattere acefalo della pulsione, ma esige di entrare nell’ordine del senso. Il genere diario è questa procedura di accesso al senso, senza questo accesso, la vita si disumanizza, resta vita animale, cade nello sconforto provocato dall’assenza di risposta.
(Giorgio Linguaglossa)
Invece del Prologo
Stanotte la pioggia mi ha svegliata. Il vento ha gonfiato la tenda e gocce d’acqua sono cadute fino al letto, fino sul mio viso. Mi sono alzata e ho chiuso la finestra. All’alba mi sono risvegliata, il giorno stava appena nascendo. Mi sono alzata e per prima cosa ho spalancato la finestra. È vero, può entrare qualche insetto, ma un insetto lo puoi cacciare, buttar fuori senza ucciderlo. Anche quando lavoro tengo aperto almeno un vetro della finestra. Così sto contemporaneamente fuori e dentro. Percepisco il mondo mediante il fluire dell’aria. I suoni rivelatori della città disturbano il mio innato silenzio. Non recepisco il cinguettio degli uccelli, ma mi arrivano echi di risate, richiami, passaggi di automobili.
Ieri sera a passeggio per la città non ho visto una finestra aperta. Mentre mettevo a letto mio nipote, mia figlia mi raccomandava di chiudere la finestra. Anche adesso, che sto seduta al computer a scrivere queste parole, la finestra dietro le mie spalle è aperta. Una finestra aperta è come un cuore aperto. Aprite il cuore, aprite le finestre, allargate le braccia, aprite la porta, chiudete soltanto la porta del male. È questo il modo più semplice per non vivere nella prigione in cui si è tramutato il nostro mondo. Nonostante tutte le facilitazioni, i confort, le esaltazioni della libertà, le compagnie, i viaggi, le nostre vite non sono che prigioni. Non arrendetevi alla prigione. Aprite le finestre. Aprite i cuori.
IL MONDO
La fine del mondo avverrà certamente, ma nessuno la può prevedere, come del resto non ha potuto prevedere la nascita del mondo. Alcune civiltà sono ormai scomparse. Anche la nostra scomparirà quando verrà il suo momento cosmico. In questo sistema l’uomo è ancora e probabilmente continuerà ad essere soltanto una pagliuzza al vento dell’eternità.
Le promozioni di tutti tipi di prodotti, letterari, igienici, della buona cucina, dell’abbigliamento e via elencando cominciano allo stesso modo: i migliori, i più grandi, meglio di quanto prodotto finora, magnifico, irripetibile. Se fosse proprio così, il mondo sarebbe del tutto diverso. Pertanto cercate di essere solo migliori, più sinceri, più diligenti: è sufficiente.
Il meglio assoluto non esiste. Se esistesse il più grande e il migliore, il nuovo non avrebbe alcun senso.
I Balcani sono il buco nero del cosmo, in cui non c’è chi sia d’accordo con chi tranne i criminali con i criminali, di qualsiasi nazionalità, fede e professione siano.
Disgraziato il paese in cui siano i criminali a stabilire ordine e leggi.
Non è cambiato niente da prima di Cristo. Per lo più il mondo oggi è tale quale non dovrebbe essere. Solo che le strategie dei creatori di questo mondo sono più perfette, più perfide e più prive di scrupoli.
Dato che il commercio della droga è, in effetti, un cosciente omicidio premeditato, l’unica giusta punizione per gli smerciatori di droga dovrebbe essere il carcere a vita senza possibilità di grazia. La medesima pena sarebbe adeguata anche per gli stupratori e i pedofili, giacché le conseguenze del loro agire distruggono in modo duraturo le vite delle loro vittime. In seconda istanza sarebbe adeguata la pena di morte.
Un tempo, dovunque nel mondo, la modestia era la sublime allegoria dell’uomo nobile, mite, pacato e dignitoso, dotato di misura. Purtroppo, oggi, un uomo siffatto non ha alcuna prospettiva di sopravvivenza.
Da sempre il mondo è stato guidato o da geni (che sono folli) o da folli che si presentano come geni. A tutt’oggi non c’è in questo alcun cambiamento.
Dicono che sia necessario adeguarsi ai tempi nuovi e ai nuovi fenomeni. Io, però, non desidero adeguarmi alle persone e ai fenomeni che rendono peggiore e disumano l’essere umano. Non accettare non è la stessa cosa che non adeguarsi.
La società in cui viviamo è come un folto bosco. Finché non ne abbiate percorsi i sentieri e voi stessi non ne abbiate aperti nuovi non potete averne conoscenza.
In che mondo viviamo? Com’è possibile che l’evoluzione si trasformi in distruzione? Che la fede nel trionfo, almeno finale, del bene e della verità sia un’inutile autodifesa? Le domande si moltiplicano, ma le risposte continuano a diminuire.
LA POESIA
Il detto “parla che ti veda” in poesia è letteralmente un esperimento. Pertanto scrivere poesie
è tutt’altro che un lavoro futile.
La lingua è parte dell’identità e la vera patria del poeta.
La lingua è la nostra biblioteca più importante, l’istituzione più importante, l’archivio e il museo meglio conservati, in cui ogni parola è monumento culturale. Ricordatevi di questo monito e fatelo vostro, non è importante chi lo abbia detto, conta che lo sappiate!
I poeti, gli artisti e tutti coloro che basano il sistema dei valori sulla spiritualità non dovrebbero accettare che i riconoscimenti per le opere migliori siano denominati secondo un criterio manifestamente materiale: Penna d’oro, Coppa di cristallo, Letteratura aurea, Cavaliere d’oro…
Il poeta è in accordo con se stesso quando la sua etica è in armonia con la sua estetica e la sua poetica.
La poesia di ciascun poeta si fonda su due illusioni: l’illusione della vita e l’illusione del poetare.
L’ironia non è derisione, scherno delle cose e dei fenomeni che non approviamo e non accettiamo. L’ironia è un tono più elevato con cui, in forma letteraria, si esprime la contestazione dell’autore del quale si enuncia la verità. Purtroppo nella letteratura serba, ce n’è poca di questa ironia, abbonda piuttosto un sarcasmo spropositato e una prepotente derisione.
Il vero poeta può rinunciare al canto, ma non potrà mai rinunciare alla verità e alla libertà.
Senza la poesia la vita è più rozza, troppo materiale e alquanto manchevole. Introducendo la poesia nella propria vita, sia come scrittori sia come lettori, la rendete più ricca e più potente nel suo senso essenziale.
L’autobiografia del poeta sono le sue poesie. Il resto non sono che note a pie’ pagina.
Le parole della mia poesia sono potenti se sommuovono l’anima del lettore (ascoltatore), stimolandone il pensiero con la propria forza, senza l’aiuto del mio consumato sorriso, del mio abbigliamento volutamente trasandato o all’ultima moda, senza l’aiuto degli eminenti ospiti, di una buona scenografia e dei contributi elargiti dagli amici rappresentanti dei media.
La poesia è una delle espressioni artistiche più intime. Per me offre l’occasione di indagare il mio spirito anche a livello d’inconscio, e inoltre di stimolare il vostro spirito e la vostra mente a pensare e a creare.
La poesia nasce dai sentimenti, non dall’intelligenza, dall’istruzione e dalla bravura.
Il presentimento è la creatività che tenta di comunicarvi qualcosa.
Quando è vera, l’arte come la poesia, suscita sempre emozioni.
La semplicità, nella grande poesia, non è il punto di partenza, ma lo scopo.
Nel poetare il poeta non è necessariamente determinato dal sangue e dal suolo, ma lo è sempre dalla lingua. Questa patria reale, la lingua, contiene dentro di sé le cosiddette immagini innate legate all’ eredità genetica; è quindi naturale che il poeta ami la sua terra, la sua patria anche quando non ne è riamato.
La questione del patriottismo in poesia è falsa. Non si può essere il poeta cosmopolita che ama tutto il mondo, senza amare la propria terra e il proprio popolo.
Il discorso del patriottismo in poesia per lo più va a toccare, anzi a sostituire il discorso ideologico. Ma a questo punto non si tratta di poesia, ma di politica e dell’uso che i politici fanno dei poeti e della poesia.
Un grande poeta è contemporaneo di passato, presente e futuro.
La poesia parla naturalmente, la poesia è essenza, e l’essenza si esprime con i propri mezzi, senza l’aiuto degli amici e dei mercanti.
Nelle cose letterarie il giudice più importante e più grande è il tempo. È incorruttibile e giusto, se ci sono prove sufficienti che il corrotto presente non riesca a distruggere.
LE PAROLE
Le parole vanno scelte con particolare cura perché una sola parola può talvolta darci o sottrarci più di quanto possano amici e nemici insieme.
Per lo più le persone reagiscono alle nostre parole, non alle nostre intenzioni. Perciò conviene scegliere accuratamente le parole a prescindere dalle nostre intenzioni.
A te stesso non c’è cosa che possa nasconderti. Le parole che avresti dovuto pronunciare, ma non l’hai fatto, non importa perché, rimangono dentro di te e aprono un vuoto che gradualmente si impossessa del tuo spirito e del tuo corpo. E così, a poco a poco, al posto dell’amore cresce il vuoto, mentre tu ti chiedi: cos’è che non va, dove ho sbagliato? Non hai sbagliato, solo che non hai fatto niente, e questo è più fatale dell’errore.
La chiarezza e la potenza della nostra parola determinano la forza e l’importanza della nostra azione.
La via della parola pubblicata non conosce ritorno. Tutto quanto avrete pubblicato sarà interpretato a prescindere da voi, secondo quello che capirà colui che avrà letto.
Un proverbio serbo suona: “Parla che ti veda!” Quello che dici e il modo in cui lo dici danno un’immagine di te. Pertanto fai attenzione a quello che dici e a come lo dici, perché più delle parole dicono solamente le azioni che compi senza parlare.
Quanto più le parole sono grandi tanto più le anime sono vuote, perché le anime si riempiono con i gesti semplici e le parole comuni, il cui significato non dipende dai cambiamenti secondo la moda.
Sopra tutti mi piace il saluto dei muratori, così semplice e tanto espressivo: BUONA FORTUNA! Lo capiscono benissimo quelli che sono scesi almeno una volta nelle gallerie, profondamente sotto terra.

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac, Steven Grieco Rathgeb e Rita Mellace Roma giugno 2015, Isola Tiberina
LUCE A ME STESSA
Tanto è grande il buio attorno a noi che devo fare da lampada a me stessa.
Non sono una collezionista di premi e riconoscimenti, non sono top, e non sono nemmeno in. Io scrivo poesie e i miei lettori mi amano a causa di queste mie poesie.
Non c’è nessuno che mi possa sostituire il mondo intero, perché io ho il mio mondo, dentro di me, senza il quale non potrei essere quella che sono, come sono. Quelli che mi amano, in realtà amano anche questo mio mondo.
La vita mi ha insegnato a leggere i libri ma a leggere bene anche le persone. Forse sarebbe stato più facile e meglio non avessi imparato a leggere le persone.
Io sono dedita, a tutto quello che faccio mi dedico completamente, dando tutta me stessa, senza risparmiare né tempo né fatica.
Incapace di essere una gallina, ho scelto di essere il gallo che col suo canto precoce sveglia i dormienti. E così per tutta la vita. Che vita difficile e che sensazione magnifica!
Il mondo è sempre piccolo, stretto, incapace di capire, ma il mio cuore è vasto, l’anima mite, il pensiero luminoso.
Non so da dove sia venuta, ma per lo più mi sembra veramente di non essere di qua.
Non ho l’ambizione di cambiare il mondo con la mia poesia, ma la mia poesia ha l’ambizione di cambiare te, ciascuno di voi che legga le mie poesie, ma, considerato che ciascuno di voi è un mondo a sé, l’ambizione della mia poesia è enorme: cambiare i mondi.
Per lo più il perfezionismo viene considerato un difetto piuttosto che una virtù. Ma io credo che senza aspirazione al meglio, al più perfetto, quanto meglio sia possibile, e il relativo impegno, non ci può essere progresso né miglioramento di alcun tipo.
La mia ombra me la porto dentro, nessuno la può misurare col sole.
Non accendo una vecchia luce a finestre nuove. Tutto quanto passa non può ripetersi né ritornare.
Come invecchio è incredibile quanto presto mi passino i giorni, come volessero fuggire da me! Io, invece, all’incontrario, credevo che in gioventù passassero più rapidi che nell’età avanzata.
La mia anima non ha desiderio delle lontananze ma della profondità e della sostanza, che sono in tutte le cose attorno a noi, dobbiamo soltanto trovarle e riconoscerle.
Mi piacciono le feste. Non mi piace lo shopping ossessionante ma quella trepidante emozione, il bisogno di pensare agli altri, quelli a noi vicini, di rallegrare in qualche modo quelli che amiamo. Nel contempo, però, l’atmosfera festaiola risveglia in me anche una sottile nostalgia per quello che è stato e che non c’è più.
La mia vista è molto peggiorata. Non vedo più nemmeno il luminoso futuro.
Tutte le volte che prevale il grigiore, il buio, fuori e dentro, comunque sia, io mi dico: su, muoviti, c’è di nuovo bisogno di afferrare un raggio di sole, afferrare la luce con le proprie mani.
Tutto quanto è passato per la mia vita ha lasciato polvere su di me, uno strato sottile della sua vita nella mia vita.
Mi appartiene solo quanto si è stabilmente insediato nei miei sogni.
Alfonso Cataldi
Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.
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La kermesse delle ampolle da riempire
Le albicocche in offerta hanno il verme con la sindrome di Asperger.
All’OVS sono andate a ruba le t-schirt “Save the planet”
Il National Geographic ci ha stampato il logo sopra
ma “visto mai?” prosegue ad esplorare il piano B. Mars. Seconda stagione.
L’impatto umano sul pianeta rosso dopo la colonizzazione.
I Benetton serviranno una cameriera ?
Bombe di testosterone neutralizzano bombe d’acqua
la pazza gioia è alle costole dell’uomo scimmia.
«A quindicianni non ho mai salvato un pomeriggio dalla noia.»
I vicini carteggiano la voce per un karaoke tenebroso.
«La matricola 249, nome in codice Clara, è appena fuggita dai concetti basilari.»
I pappagalli gracchiano sugli alberi di Roma Est.
Christine Granville spunta tra i rami consapevole della missione
deve convincere i volatili a disertare la kermesse delle ampolle da riempire
prima che Sheldon Cooper li minacci col bazooka spaziale.
Ma Van Gogh si uccise veramente?