Archivi del mese: giugno 2015

POESIE di Franco Campegiani sul tema dell’Autoritratto, il Poeta e lo Specchio o sull’Identità con un Commento di Giorgio Linguaglossa

hopkins Autoritratto

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Franco Campegiani vive a Marino (Rm), dove è nato nel settembre 1946. Ha pubblicato nella collana di Mario dell’Arco: L’ala e la gruccia (1975) e Punto e a capo  (1976). Nel 1986 ha pubblicato Selvaggio pallido nelle collane di “Carte Segrete”, con disegni di Umberto Mastroianni. Quindi, nel 1989, Cielo amico, in una collana della Ibiskos inaugurata da Domenico Rea. Del 2000 è Canti tellurici (“Sovera Multimedia”) e del 2012 Ver sacrum (“Tracce Edizioni”). In campo filosofico, ha pubblicato nel 2001, con l’editore “Armando”, un saggio dal titolo: La teoria autocentrica – analisi del potere creativo, prefato dal filosofo Bruno Fabi, dove ha sviluppato un’innovativa teoria dell’armonia dei contrari. Critico d’arte, Campegiani è giurato in alcuni premi letterari e ha curato rassegne e collane per conto di Editrici e Gruppi culturali. Collabora a riviste, a blog letterari e ha promosso manifestazioni artistico-letterarie, nonché eventi multimediali ed iniziative ecologiche. Ha dato impulso a svariati cenacoli culturali e, nel 2005, insieme allo scrittore Aldo Onorati e al sociologo Filippo Ferrara, ha dato vita al Manifesto dell’Irrazionalismo sistematico ispirato all’opera del Maestro Bruno Fabi. E’ antologizzato in L’evoluzione delle forme poetiche (Kairòs 2013), una ricognizione sulla migliore produzione poetica nazionale dell’ultimo ventennio, a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo.

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 In Origen y Epílogo de la filosofía Ortega y Gasset scrive che in ogni filosofia l’ambito dell’apparenza, cioè della parte patente della realtà, viene retto da un trasmundo, termine che non allude a una trascendenza, a qualcosa che sta «trans»: sembra anzi un termine cercato apposta per la sua neutralità, per non contenere nessuna interpretazione pregiudiziale. Tras significa semplicemente «dietro», e trasmundo indica solo ciò che sta dietro l’apparenza, ciò che pur esistendo, attualmente non appare, e dunque va scoperto, dis-coperto, dis-velato: «Tutte le filosofie ci presentano il mondo abituale diviso in due mondi, un mondo patente e un retro-mondo (trasmundo) o supermondo che è latente sotto il primo e nel rendere manifesto il quale consiste il culmine dell’impegno filosofico»11. Questa duplicazione si può già rintracciare nei frammenti di Parmenide, che impostano un cammino successivamente sviluppato con coerenza dalla filosofia.

Ecco, direi che le poesie presentate di Franco Campegiani tematizzano la ricerca della identità, vanno “tras”, dietro l’apparenza, sono alla ricerca di ciò che sta dietro il primo velo della realtà attraverso quel «cordone ombelicale» che ci unisce alla realtà nascosta.

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  Identità

Sfugge e balena nello specchio,
si cela e si rivela,
è mobile e cangiante.

Altra e sempre altra da sé.

Trasmette parole che non conosco
brandelli di sapienza che ignoro
verità lontanissime e vicine
che scopro parte di me.

.
Cordone ombelicale

E’ in fuga quel volto, il mio vero volto
sciolto dietro la maschera e raccolto
nel pozzo, là, d’un mio felice ovile.

Non si rivela, ma effonde
note d’armonia
lungo le segrete vie
che vanno e vengono dal grembo.

Da quell’eldorado espulso un giorno,
dovunque e da nessuna parte vivo
nomade in esilio eppure in patria
sempre fuori e sempre dentro di me.

.
Senza schemi

Non ha schemi la vita
la realtà è senza confini
con tentacoli che sfumano
oltre barriera, con sentieri
che partono dall’isola
e vanno nell’immensità.
franco campegiani

Guerra e pace

Avevo paura di affrontarmi,
così il muro d’ombra si alzava
tra me e me
tra me e i miei simili
che sentivo dissimili
così disuguali.

Borioso angelo
nella landa affocata
io ti scagliavo dardi impietosi
e tu mi colpivi con pietre assassine.
In fin di vita
ci arrotolammo infine
in un solo sangue fuso.
E sono io Caino, io Abele,
io l’angelo e il diavolo di me stesso.

.
A me stesso

I tuoi nembi di luce m’han colto
i cieli ranciati i riposi azzurrini.

Son volato in un guizzo
là fuori all’aperto
nella scia del crepuscolo d’oro.
Nell’eterico grido
ero un corvo
forse un angelo
forse un brivido oppure…

Di qua ora tornato
sulla strada deserta,
soltanto uno schizzo
un misero sputo.

Di qua dal tuo sguardo
la parte colgo di me
confitta nel dolore.

L’ombra

I mostri che si svegliano nell’ombra
con ghigni rabbiosi ed ululati
e stridore sinistro di catene
sono angeli ribelli all’oblìo
bambini imbavagliati e allontanati
che vorrebbero giocare con noi.

In ginocchio allora cadrò
davanti alla materia oscura
alla mia essenza offuscata e lontana.
O mio angelo, mio fanciullino,
antimateria arcana,
altra parte di me che è nella luce
e che io credo buia in questo mio
non-essere mortale, che si incensa,
in questo corpo che credesi radioso!

Al tempo in cui viveva
Caino con Abele
e insieme mangiavano
il pane della gioia e del dolore
era la luce nelle tenebre
e l’ombra nella pancia del dio Sole.
Il tramonto e l’aurora
marciavano insieme
come l’inizio e la fine,
come Ippolito e Virbio, Giano e Diana,
come Adamo ed Eva, il lupo e l’agnello
in un solo respiro.

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IL MINIMALISMO NELLA POESIA ROMANO E MILANESE, LA FORMA-POESIA E LA FORMA-ROMANZO, IL FENOMENO DEL MAGRELLISMO E LA MICROLOGIA – LA DEMOCRAZIA POST-LIRICA: la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io, il cabaret televisivo, la poesia ludica, l’ironizzazione, la tascabilizzazione delle questioni metafisiche, l’istrionismo – di Giorgio Linguaglossa

bello volti in serie

Oggi appare sempre più evidente il disorientamento in cui versa la poesia contemporanea. Presso le nuove generazioni è in vigore una koinè linguistica di stampo pseudo narrativo, una sorta di democrazia del post-lirico che elegge la medietà dei linguaggi tecno-mediatici per la comunicazione del «messaggio poetico». E che si giungesse a un tale miserrimo risultato era ampiamente prevedibile. Durante gli anni Ottanta e Novanta del Novecento un nepotismo sempre più tetragono e asettico si è insediato nelle principali Istituzioni deputate alla elaborazione del linguaggio poetico. Così, dopo la dissoluzione di quello che rimaneva della linea lombarda, sono rimaste padrone del campo soltanto due poetiche: il minimalismo romano-milanese (Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Franco Marcoaldi, Vivian Lamarque oltre una schiera di minori apprendisti stregoni), e l’area che definirei esistenzialismo milanese. Resta il dato incontrovertibile della coincidenza di fatto  tra il minimalismo milanese e quello romano. Il minimalismo consente di scrivere di ogni argomento, in libertà assoluta perché privo di poetica, e in libertà perché adotta una riproduzione mimetica dei linguaggi tecno-mediatici.

In un articolo del mio libro Appunti critici del 2002, che riprende un articolo apparso su «Poiesis» del 1997, scrivevo: «L’arte del Novecento vivrà sempre più neghittosamente nella forbice divaricatasi tra la deprivazione dell’essere ed il dispiegamento progressivo della tecnologia applicata ai linguaggi mediatici. Le tarde post-avanguardie dagli anni Sessanta in poi avranno chiaroveggenza soltanto degli aspetti epifenomenici della crisi. Occorreva una tempestiva comprensione del moto di deriva della forma-romanzo verso la dissoluzione dei linguaggi e l’implosione delle tecniche compositive, occorreva riflettere sulla crisi di de-territorializzazione della forma-poesia che seguiva, a rimorchio, il declino del genere artistico egemone, occorreva una approfondita comprensione del concetto di forma-merce che, nelle economie di mercato globali tende a fagocitare entro i propri parametri ogni tipo di artefatto o manufatto estetico».

Il minimalismo è dunque la tendenza stilistica dominante della nostra epoca, nella misura in cui richiede la riproduzione fotografica del «reale» mass-mediatico mediante un linguaggio tecno-mediatico, una fiducia acritica ed assoluta nella immediatezza, nella forma-merce nel momento in cui la riproduce già feticizzata. L’arcaicità dell’elegia, che si ripropone, ancora una volta, come linea centrale della poesia del tardo Novecento, non deriverebbe soltanto dall’arcaicità del rammemorare, quanto dalla impossibilità di evincere dall’esperienza vissuta il quid di autenticità necessario alla forma-poesia: gli oggetti del ricordo vagano inconsapevoli nel mare della datità come astratti relitti del mondo delle «cose» ormai del tutto infungibili.

L’esistenza dell’opera d’arte, nell’epoca della riproduzione computerizzata dell’iperreale, è divenuta problematica. Il minimalismo è la risposta, in ambito estetico, dell’ampliamento a dismisura del mondo reale: l’iperreale ed il virtuale accrescono sì la dimensione del reale ma, ciò facendo, ne sottraggono sostrato, essenza, profondità. Poiché l’arte non può entrare in concorrenza con le smisurate capacità di creazione del «reale» della macchina gestaltica, essa ripiega nella tellurica micro-entità del mondo, portando alla estrema dissoluzione il fenomeno dell’«aura», che sappiamo essere l’apparizione «di una distanza quantunque vicina essa possa essere» (W. Benjamin).

Il minimalismo, come campo di forze stilistiche, resta stregato ad un’estrema prossimità al «reale» mediatico – il rapporto soggetto-oggetto si presenta come un reciproco star-di-fronte, fronteggiamento d’una estraneità (il magrellismo di tanti magrellisti, al di là della facile ironia, rappresenta un fait social e non soltanto una moda, e precisamente, l’impossibilità per il soggetto di com-prendere il reale, e quindi uno stallo, un alt, che è sociale e storico, prima ancora che estetico); ovvero, come una lontananza d’una autenticità posta magicamente nell’infanzia, prigione del sortilegio, (anche qui della fuga dal mondo) e, quindi, fronteggiamento-rammemorazione dell’eden, con ricaduta nell’elegia, seppur corretta, negli autori più scaltri, con inserimenti di prosasticità. Elegia ed antielegia sarebbero i corni d’una medesima dilemmatica problematicità che l’ambiguità concettuale del minimalismo non consente di risolvere. Il solipsismo rappresenta, sul piano filosofico-concettuale, ciò che tradurrei con micrologia nell’ambito estetico.

Il solipsismo è, afferma Schopenhauer, «una piccola fortezza di confine. Mai può venire espugnata ma anche le sue truppe non possono mai uscire. Perciò si può passarle vicino e lasciarsela alle spalle senza alcun pericolo». Così come la micrologia, con la sua perlustrazione del micron, rappresenterebbe l’ultimo ricettacolo di autenticità nel mondo falso e corrotto. Ma così come stanno le cose, né la micrologia incontra il mondo, né il mondo la micrologia. L’estraneità del rapporto soggetto-oggetto rimane immutata, l’origine è uguale alla meta. Alla base della micrologia (che porta alle estreme conseguenze i presupposti teorici del minimalismo e, in un certo senso, prefigura l’esaurimento di quel campo di forze stilistiche), v’è un rapporto di inimicizia e incomprensione con il «mondo», vi si avverte l’eclissi delle istanze radicali che ogni grande arte ha sempre tenuto ad esprimere pur contro la cultura di cui era espressione, la «tascabilizzazione» delle grandi problematiche della civiltà europea di cui la grande poesia del Novecento è stata espressione. Il minimalismo giustifica ed accetta come un dato di fatto indiscusso l’eclisse delle grandi narrazioni del post-moderno. D’ora in poi sarà possibile parlare in poesia soltanto tramite la teatralizzazione del proprio «io» all’interno della scena domestica, del «privato» (Patrizia Cavalli con Le mie poesie non cambieranno il mondo – 1976), del proprio «album di famiglia»: Renzo Paris Album di famiglia del 1990, in tono ironico e scanzonato.

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L’ironizzazione applicata alla vita domestica e agli affetti familistici diventerà un paradigma stilistico che il minimalismo imporrà quale modello dominante. Non è un caso che il titolo di un’opera che farà scuola, sia Metafisica tascabile (1997) di Valentino Zeichen. Con la tascabilizzazione delle grandi problematiche «metafisiche» il minimalismo proclama con impudenza e orgoglio il proprio trionfo ideologico, il trionfo del proprio scetticismo piccolo-borghese e l’avversione per ogni ipotesi di poesia non minimalista. Nei testi dei minimalisti si avverte l’odore degli appartamenti ammobiliati e politicamente corretti. Ora serrata retinae di Valerio Magrelli è del 1980. È l’inizio del «riformismo» minimalista. È noto il pensiero di Magrelli in ordine al problema dell’interlocutore: la poesia è «libera», nel senso che può svilupparsi liberamente in tante direzioni diverse, e che essa è «l’impronta digitale» di chi la scrive. Senza stigmatizzare il truismo e la tautologia di una tale dichiarazione di poetica, c’è da dire che la poesia di Magrelli, nella sua torsione verso l’utopia della par condicio tra l’io esperiente e il reale, quella che ho definito riforma moderata del minimalismo (una sorta di pareggio tra oggetto e soggetto), diventa una riflessione sull’autoreferenzialità dell’«io», una sorta di par condicio tra l’io e il non-io, dove la problematizzazione dell’io gira a vuoto all’interno della macchina gestaltica della segnaletica mediatica. Il passo ulteriore sarà la micrologia.

roma La grande bellezza fotogramma

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Presso gli epigoni il luogo della poesia diventerà la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show dell’io falsamente teatralizzato dinanzi ad un pubblico falsificato, imbonito di facezie e di trovate spiritose; il luogo della poesia diventerà il commento intellettualistico e ludico; la palestra stilistica sarà caratterizzata da esercizi, didascalie, disturbi del codice «binario», «glosse» della cronaca nera del «giornale», «glosse» del «quotidiano». I titoli delle opere dei minimalisti sono un (inconsapevole?) manifesto di poetica: tracciano il perimetro di una glossematica acritica e aproblematica. Non si capisce dov’è l’«originale», se c’è ancora un «originale», o se il discorso poetico sia nient’altro che didascalia, commento, esercizi di qualcosa d’altro: Esercizi di tiptologia (1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) di Magrelli sono «esercizi» «tiptologia», codice di trasmissione dei dati, appunti didascalici per l’istruzione del pubblico, glosse pseudo intellettualistiche sui disturbi del funzionamento «binario».

Nei minimalisti degli anni Ottanta, come Vivian Lamarque, l’oggetto-poesia diventa l’investigazione della cronaca da lettino psicoanalitico, con conseguente regressione ad un infantilismo posticcio e a un finto buonismo. I titoli dei suoi libri sono eufuismi: L’amore mio è buonissimo (1978), Il signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989), Il libro delle ninne nanne (1989), Una quieta polvere (1996). È evidente che ci troviamo davanti ad una sproblematizzazione di qualsiasi problematica e a una infantilizzazione di qualsiasi tematica di adulti. I quadretti delle sue poesie sono dei finti acquerelli per bambini, finta infantilizzazione di un mondo sproblematizzato. Il libro di esordio di Patrizia Cavalli Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), segna con alcuni anni di anticipo il definitivo riflusso della cultura del ’68. La poetessa romana mette la parola fine ad ogni tipo di poesia dell’interventismo, alla poesia politica, ideologica, civile, comunque impegnata ed apre la strada del disimpegno, dello scetticismo «privato» e del ritorno al «quotidiano». L’andamento colloquiale, i toni da canzonetta più che da canzoniere, il piglio scanzonato e disimpegnato, un certo malizioso cinismo e scetticismo, l’esibizione spregiudicata del «privato», anzi, dell’abitazione privata (nella quale avviene il processo di teatralizzazione dell’io), l’esibizione del certificato anagrafico, del certificato medico, la preferenza per gli oggetti «umili» del quotidiano, l’ironizzazione dell’io lirico, la deterritorializzazione del «pubblico» sono tutti elementi che diventeranno presto paradigmatici e saranno presi a modello dalla nuova generazione di poetanti. La poesia diventa sempre più «facile», ironica e spiritosa, di conseguenza cresce a dismisura la frequentazione di massa di un certo tipo di epigonismo.

Patrizia Cavalli nasce a Todi nel 1947 e vive a Roma dal 1968In altre parole, poeticamente parlando, Patrizia Cavalli è per Roma quello che Vivian Lamarque è per Milano. Entrambe forniscono paradigmi stilistici esemplari. Entrambe aprono la sfrenata corsa in discesa del minimalismo romano-milanese. Un minimalismo acritico, disponibile, replicabile e ricaricabile all’infinito da una smisurata schiera di poetesse e poetanti del nuovo «privato» massificato della società della post-massa mediatica. La poesia diventa un genere commestibile, replicabile in pubblico, nei pub e nei cabaret, nei ritrovi all’aperto e nei teatri. D’ora in poi la poesia tenderà a somigliare sempre di più alle filastrocche dei comici del nuovo genere egemone: il cabaret. È subito un successo di pubblico. È la tipica poesia femminile degli anni Ottanta: finto-amicale, finto-individuale, finto-sociale, finto-intellettuale; dietro questo impalpabile spartito di zucchero filato e banale puoi scorgere, come in filigrana, la durezza e la rozzezza del decennio del pragmatismo e dell’edonismo di massa, il decennio del craxismo, della ristrutturazione industriale e della ricomposizione in chiave conservatrice dei contrasti di classe che erano esplosi nel decennio precedente. È una poesia facile, buonista, igienica, ironica, colloquiale, finto-amicale, finto-problematica, finto-delicata, finto-infantile fatta di un’aria sognante, di piccole gioie e piccole vicende familiari: il «privato» da lettino psicanalitico è squadernato sulla pagina senza alcuna ambascia. Un finto infantilismo (accattivante, disarmante e smaccato che mescola furbescamente il tono da fiaba con lo spartito finto-infantile), è diluito come colla appiccicosa un po’ dappertutto con una grande quantità di zucchero filato e un pizzico di tematica «alta» (la «morte»), così da rendere più appetitoso il menù da servire ai gusti di una società letteraria ormai irrimediabilmente massmediatizzata e standardizzata.

Micrologia. Poesia che è, ad un tempo, il frutto tipicamente italiano della eterna arcadia che ritorna, come il ritorno del rimosso, nella cultura poetica italiana che, da questo momento, conoscerà un lungo momento di oscuramento e di obnubilamento.Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una coincidenza di interessi, di orientamenti letterari e di concezione dell’oggetto-poesia. Una poetica di derubricazione del minimalismo sarà la micrologia, che convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico. La poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una tale impostazione «filosofica». Nel frattempo, durante l’ultimo trentennio del Novecento diventa sempre più manifesta la crisi dello sperimentalismo il quale ha sempre considerato i linguaggi come «neutrali», fungibili e manipolabili, incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, rischia di periclitare tutta la costruzione estetica della scuola post-sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, almeno da Vocativo del 1956 e La Beltà del 1968, fino agli ultimi eredi: Giancarlo Majorino con Prossimamente (2006) Viaggio nella presenza del tempo (2008) e Luigi Ballerini con Cefalonia (2006). Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. Anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E si badi: io dico e ripeto sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010” edito da EiLet di Roma.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si tenta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz alla poesia dell’avvenire.
La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.

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UNA POESIA INEDITA  di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin

Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015

Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946

foto dei miei genitori, Roma, 1946

La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.

La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.

His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.

È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.

È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE

Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre

i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.

Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:

«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero

che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,

non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;

una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,

inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.

Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;

fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.

Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,

sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,

la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,

il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,

lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io

che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato

gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker

parlano alla radio con eloquio forbito.

Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,

il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto

di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,

sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo

un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:

“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.

Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra

La giostra

La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann

c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra

la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:

tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario

eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:

resta il cigolio della giostra illuminata.

Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.

Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;

al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala

ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento

questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.

Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,

le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;

una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.

Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano

a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra

alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;

camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)

“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre

la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)

Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,

esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio

con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.

Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto

immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.

Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,

getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.

Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.

Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio

i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.

Una bandiera bianca prende vita dal mare.

Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano

Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi

è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,

irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,

guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.

«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.

Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo

e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,

prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,

fa lo stesso.

Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna

e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.

Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,

il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.

Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta

verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio

e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;

sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali

reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata

che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità

diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –

una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

pitigrilli Benito_Mussolini

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.

Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,

una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.

Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento

con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?

Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?

Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice

del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –

piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:

il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.

Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:

“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,

replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa

o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,

indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso

ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito

a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,

(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli

e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».

Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco

tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?

Il secolo dei lumi e della tolleranza?

Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein

ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.

Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,

si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi

e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»

(1992-2013)

THREE STILLS IN THE FRAME

The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.

A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

roma donna acconciatura 4

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.

Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.

A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.

A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

roma donna acconciatura 1

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?

A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”

(1992-2013)

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ANTOLOGIA DELLE POESIE di Pedro Pietri (1944-2004) Per Pancho Cruz (nella prigione di Comstock), Strade senza uscita, Tata, Poesia d’amore per la mia gente, Traffic misdirector, Poesia d’amore seria, Cabina telefonica, con un Appunto di Flavio Almerighi Traduzione di Mario Maffi

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Pedro Pietri è nato a Ponce [Portorico] nel 1944 da una famiglia di origini corse, presto trasferitasi a New York. Il nonno si uccise nel 1948, il padre morì di polmonite l’anno dopo. Pietri rimase ferito in Vietnam, fu rimpatriato nel 1968. Trovò impiego come commesso nel 1968 alla Columbia University, dove frequentò i circoli poetici beat e afro-americani. Dopo la prima raccolta Puerto Rican Obituary [New York: Monthly Review Press, 1973], sono usciti Lost in the Museum of Natural History [Rio Piedras Editiciones Huracan Inc., 1981], Traffic violations [Maple Wood : Watherfront Press, 1983]. Due dischi di poesie: Loose Joints [Folkways Records], Pedro Pietri ne Casa Puerto Rico [Coqui Records]. Pietri è stato anche attore e autore di trattati di teatro. Numerose le sue pièce tra il 1975 e il 1990. Nel 1992 è intervenuto al Caribean Poetry Festival di New York. Pietri contribuì alla fondazione del Nuyorican Poets Cafe di Manhattan insieme a Miguel Piñero e Miguel Algarín. Il Cafe è un’istituzione no profit dove si esibiscono numerosi intellettuali portoricani. Pietri scrisse lo spettacolo “El Puerto Rican Embassy“. Il tema era che qualunque isola che non fosse né una nazione indipendente né uno stato degli Stati Uniti, dovesse avere un’ambasciata. Durante l’esibizione, era solito suonare “The Spanglish National Anthem” e distribuire finti “passaporti del Porto Rico”.Nel 2003 a Pietri venne diagnosticato un cancro allo stomaco. Si recò a Tijuana per sottoporsi a un trattamento olistico per un anno, ma morì il 3 marzo del 2004, mentre rientrava a New York in aereo per sottoporsi ad ulteriori cure. Aveva 59 anni. I funerali si tennero a East Harlem presso la storica First Spanish Methodist Church. Fu qui che Pedro lesse per la prima volta in pubblico “Puerto Rican Obituary”. Gli sopravvivono la moglie Margarita Deida, la sorella Diaz, il fratello Joe e i suoi quattro figli.

 Not Vidal Moon 1995

Not Vidal Moon 1995

Appunto di Flavio Almerighi

Ho scoperto Pedro Pietri grazie al comico Paolo Rossi. Oltre vent’anni fa, quando era una star televisiva, durante un’intervista dichiarò che il suo poeta preferito era Pedro Pietri. Evidentemente a quei tempi qualcuno poneva ai vip qualche domanda decente. Mi fidai di Paolo Rossi e comprai Scarafaggi Metropolitani, mi si aprì un mondo. Sono del parere che, dopo aver preso a schiaffi i poeti sedicenti, si debbano amare tutti coloro che con due parole sanno aprirti milioni di prospettive nuove che tu nemmeno immaginavi. Uno di questi per me è stato Pedro Pietri, poeta dell’immigrazione e dell’urbanizzazione delle anime migrate. Argomento che, alla luce dei ultimi fatti di Parigi, assume una dirompente attualità Si muoveva tra tradizione e modernità, tra miti caraibici e leggende metropolitane statunitensi: tra il “jibaro” (il contadino indigeno portoricano) e il “grafitero” (il giovane del ghetto newyorkese). Di qui lo sradicamento: «Che tu comprenda | quant’è disorientante | essere una nuvola in un mondo | senza un cielo lassù». E ancora: «Sono morti | e dai morti non faran ritorno | finché non la smetteranno di trascurare | l’arte del loro dialogo»; «sono morti tutti lavorando aspettando e odiando». Di qui la sensazione di espropriazione, che è la condizione dell’uomo nel mondo: «Tutto quel che posso dire in verità di me stesso | è che dopo il lunedì viene il martedì». Impossibile trascurare l’ironia e il sarcasmo di questo autore, soprattutto verso la religione intesa come istituzione, verso le multinazionali e i letterati. Alcuni suoi pezzi sono semplici trascrizioni di graffiti trovati all’interno di cabine telefoniche, cosa abbastanza difficile oggi vista la pandemia di telefoni cellulari. Buona lettura.

Pedro Pietri

Pedro Pietri

Per Pancho Cruz (nella prigione di Comstock)

vogliono che le nostre donne
partoriscano cubetti di ghiaccio
vogliono che i nostri uomini
abbiano sedie a rotelle
in mezzo alle gambe
hanno inventato i film
per catturarci la mente
con popcorn caldi ricoperti di burro fuso
siamo stati a scuole
che han fatto di tutto per convincerci
che i nostri genitori eran fessi
ci hanno insegnato a leggere
le strisce a fumetti
sul daily news della domenica
in modo da passare
il resto della nostra vita
alla ricerca d’un lavoro decente
con cui pagare le tasse
al loro dio di plastica
che ci ficca gli spot televisivi
giù per la gola
e sbatte dentro chiunque
non sostenga questa
democrazia immaginaria

Strade senza uscita

a distribuir pubblicità
con ubriaconi a tempo pieno
in gelidi giorni invernali
in quartieri
con case di proprietà
vicino a cimiteri raggelanti
con in bocca un cubetto di ghiaccio
al posto della lingua
e a pranzo inghiotti benzina
con un fiammifero acceso
se sei ancora vivo
alla fine della giornata
puoi comprarti vino da quattro soldi
e puntare alla lotteria
con la tua paga invisibile

Tata

mi abuela
ha trascorso
gli ultimi venticinque anni
in questo grande magazzino
chiamato america
ha ottantacinque anni
e non conosce
una parola d’inglese
quando si dice l’intelligenza

Poesia d’amore per la mia gente

non lasciate
che lampade artificiali
disegnino strane ombre
di voi
non sognate
se volete che i vostri sogni
s’avverino
sapevate cantare
anche prima che
vi venisse rilasciato un certificato di nascita
spegnete lo stereo
che questo paese vi ha dato
è fuori uso
il vostro respiro
è la vostra terrapromessa
se volete
davvero sentirvi ricchi
guardatevi le mani
è lì
che si trova
la definizione di magia

Pedro Pietri

Pedro Pietri

Traffic misdirector

il più grande poeta vivente
di new york city
è nato a Portorico
il suo nome è Jorge Brandon
ha più di 70 anni
porta la sua metafora
in sacchetti marrone per la spesa
dentro a un carrello d’acciaio da supermarket
con cui se ne va in giro
per le strade di manhattan
recita le sue poesie
a chiunque ascolti
& se non c’è nessuno in giro
le recita a se stesso
dice la saggezza
di palme mai dimenticate
il vocabolario di noci di cocco
che indossano cappotti
i semafori
delle sue poesie funzionano
senza consigli noiosi
dalla corrente alternata
librerie & biblioteche
sono prive delle sue vibrazioni
per far conoscenza
con questo poeta immortale
devi frequentare
gli angoli delle strade
i gradini d’accesso degli edifici i tetti piatti
le scale antincendio i bar i parchi
le stazioni della metropolitana
le bodegas e botanicas
le Iglesias e i banchi dei pegni
i giochi di carte i combattimenti dei galli
i funerali la panetteria valencia
lo hunts point palace
i locali di bigliardo orchard beach
& i baracchini di cuchifritos
nel lowereastside
l’entrata è libera
la sua presenza è poesia

Poesia d’amore seria

O porta
quel che provo per te
non si può esprimere a parole
per me tu significhi molto di più
d’un litro di barbera
O porta
sei più bella
del pavimento
non ti si deve sempre
spazzare lavare incerare
per farti risplendere
sei proprio il massimo
Quando dentro fa troppo caldo
tu mi fai uscire
Quando fuori fa troppo freddo
mi fai entrare
O porta
chi può chiedere di più?

Cabina telefonica 801

No certo che no
non guardo un uomo
come guarderei una donna
c’è una bella differenza
in un caso mi tira da matti
nell’altro no
ma non ti dico qual è l’uno e qual è l’altro
se proprio vuoi saperlo
comincia a toglierti qualcosa.

Cabina telefonica 900

Se è proprio necessario
salterò dalla finestra
pur di soddisfarti sessualmente
Ma solo se vivi
in un seminterrato.

Pedro_Pietri

Pedro_Pietri

Cabina telefonica 48

cimiteri a sinistra
cimiteri a destra
cimiteri davanti
cimiteri dietro
miglia e miglia e miglia
di mute pietre tombali
è impossibile avere un’erezione
a Long Island.

Cabina telefonica 500

non amare me
come ami tuo fratello
a meno che
tu e tuo fratello
siate amanti

Cabina telefonica 25

tieni giù le mani da me
finché non ho
lasciato questo mondo,
e allora puoi anche fartela con me
se sei davvero così
fuori dal comune
come vuoi far creder
a tutti

Cabina telefonica 2004

Sento un trillo…
sembra un vecchio telefono
di quelli che non li usa più nessuno,
ma squilla.
Pau…pau….pau…sa
trin,trin,trin
pau…pau..pau…sa
trin, trin, trin
Pau…pau…pau…sa
in questo campo deserto,
in cui niente vedo e tutto è presente…
rispondete, per favore!!!
Ma il telefono non c’è,
e allora decido di sollevare la cornetta.
*

una voce non mi dice.
Allora un grande fuoco mi ghiaccia il cuore,
che per il dolore riprende a battere.
La voce che non odo non mi dice

*
Sollevo il piede,
e vedo uno scarafaggio schiacciato
sulla suola delle mie scarpe nuove
che non indosso.
Che in realtà non esistono affatto.
Prendo la sua carta di identità e leggo:
Pedro, commesso viaggiatore,
Mai nato, perciò sempre vivo.
Io posso aggiungere…ora non più morto…..
Feodor La Pira

Pedro_Pietri

Pedro_Pietri

Cabina telefonica 78 (o 707)

che altro posso dirti
sai già tutto
sei stato su
sei stato giù
e adesso sei in mezzo,
prova di là dalla strada
che forse là non ti conoscono
e magari ti danno qualcosa
che ti manda in estasi
§
Il sogno dell’inglese balbettato
Era la notte
prima che arrivasse il sussidio
sedevamo tutti intorno al tavolo
affamati e afflitti congelati e confusi
e incapaci di medicare le ferite
sul vuoto calendario dei nostri occhi
Giornali vecchi e lattine di birra vuote
e Gesù proteggi questa casa
Cornici made in Japan by the u.s.
appese in cucina
che è anche soggiorno
stanza da letto e armadio della biancheria
Cattive notizie da parete a parete
in onda alla radio rubata la settimana prima
da tossici morenti in cerca d’un buco
per dimenticare d’esser mai nati
Arriva il padrone di casa con bombe a mano
nell’alito pesante per riscuotere l’affitto
che non eravamo riusciti a pagare sei mesi fa
e c’informa, noi e tutti i sacchetti
della spesa vuoti di nostra proprietà,
che se non paghiamo subito ci caccia su due piedi
E allora le strade dove vive la notte
e il termometro è sotto zero
trecentosessantacinque giorni l’anno
diventeranno il nostro prossimo recapito
Tutte le lampadine del nostro appartamento
erano finite dimenticate al banco di pegni
dirimpetto all’attacco di cuore
che stavano soffrendo gli edifici diroccati sul retro
Neonati non ancor nati giocavano a nascondino
nel cimitero della loro immaginazione
Inquilini dalla mente accecata pregavano
D’imbroccare i numeri giusti della lotteria
per traslocare e risvegliarsi
con nuovi certificati di nascita
Più numerose delle drogherie eran diventate ormai
le pompe funebri con scritte al neon che dicevano
Clienti cercansi Esperienza non indispensabile
Un negozio di liquori qui
un negozio di liquori ovunque guardi
riempivano l’aria inquinata
con prostitute e magnaccia
alcolizzati e aborti, tutti apprendisti
Bianchi proprietari di negozi
da ordinati quartieri di lusso
puliti e con video-citofono
capaci d’imparar lo spagnolo in sei settimane
scrivevano lettere d’amore ai loro registratori di cassa
Votate per me! diceva l’impresario di pompe funebri:
ho la soluzione giusta per i vostri problemi
Siamo venuti negli stati uniti
Per imparare a storpiare il nostro nome
Per smarrire la definizione d’orgoglio
Per avere la sfortuna dalla nostra
Per vivere dove s’aggirano topi e scarafaggi
in una casa che non è assolutamente casa nostra
Per imparare ad accendere televisori
Per sognare posti di lavoro che non avremo mai
Per riempire moduli dell’ufficio assistenza
Per lasciare la scuola privi di cultura
Per essere arruolati manipolati e distrutti
Per lavorare a tempo pieno ed esser comunque disoccupati
Per attendere la dichiarazione dei redditi
e restare ubriachi e perdere ogni interesse
per il cuore e l’anima della nostra razza
e il clima che produce la nostra faccia
Per dichiarare la nostra fedeltà
alla bandiera
degli stati uniti
dei pagamenti a rate
Una sola nazione
fatta di discriminazione
con cui si regge
e con cui cadrà
con povertà ingiustizia
e plotoni d’esecuzione
teletrasmessi
per chiunque abbia
il sole dalla parte
della propria carnagione
Lapìz = Pencil
Pluma = Pen
Cocina = Kitchen
Gallina = Hen
Chiunque impari ciò riceverà
un diploma equipollente di scuola superiore
una fornitura a vita di agenzie di collocamento
un esattore diverso per ogni giorno della settimana
il diritto di votare per il boia di propria scelta
e due hamburgers a trentacinque cents a times square
Siamo scesi
dal bimotore
all’aeroporto idlewild
(ribattezzato kennedy
vent’ anni dopo)
con tutti i nostri mobili
e oggetti personali
nella tasca posteriore
Abbiamo seguito la scritta
che dice benvenuti in America
ma giù le mani
dalla proprietà
i contravventori saranno fulminati
seguite il camion della spazzatura
fino all’ufficio assistenza
se non parlate inglese
Dunque questa è l’America
terra della libertà
per tutti
tranne che per la nostra famiglia
Dunque questa è l’America
dove ti svegli
al mattino
per lavarti i denti
con il sussidio
il dentifricio più in voga
promesso dall’operazione bootstrap
tutte le volte che compri
una scatola di cereali
attingendo ai tuoi risparmi
Dunque questa è l’America
terra della libertà
di guardare
le avventure di superman
alla tv se conosci
qualcuno che ha un televisore
che funziona
Dunque questa è l’America
sfruttata da colombo
nel millequattrocentonovantadue
con capitan video
e lady bird johnson
la prima miss metropolitana
del nuovo testamento
Dunque questa è l’America
dove ti tengono
occupato a cantare
en mi casa toman bustelo
en mi casa toman bustelo

Cabina telefonica numero 9879

la mia gente ha
camminato sulla luna
prima che le astronavi
venissero messe in commercio
e scambiò rum originale
ad altissima gradazione alcolica
con gli abitanti indigeni
della luna
contro macchine da scrivere manuali
da lasciare sotto gli alberi
di natale e chissà
forse uno dei loro figli
da grande saprà salvare
la tradizione orale
del non mettere punti e virgole

Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue raccolte di poesia: Allegro Improvviso (1999), Vie di Fuga (2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (2007), durante il dopocristo (2008), qui è Lontano (2010), Voce dei miei occhi (2011), Procellaria (2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste italiane.

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POESIE SCELTE di Milo De Angelis da Incontri e agguati Mondadori, Lo Specchio, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere di massima sicurezza. Ha pubblicato Somiglianze (Guanda, 1976); Millimetri (Einaudi, 1983); Terra del viso (Mondadori, 1985); Distante un padre (Mondadori, 1989); Biografia sommaria (Mondadori, 1999); Tema dell’addio (Mondadori, 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010). Ha scritto il racconto La corsa dei mantelli (Guanda, 1979 e poi Marcos y Marcos, 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, Cappelli, 1982). Nel 2008 è uscito Colloqui sulla poesia, dove appaiono le sue principali interviste. Nello stesso anno viene pubblicato un volume che raccoglie la sua opera in versi (Poesie, Oscar Mondadori). Ha tradotto dal francese e dalle lingue classiche.

Milo De Angelis Incontri e agguati Mondadori Lo Specchio, 2015 pp. 70 € 18

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Commento di Giorgio Linguaglossa

Che il tema della «morte» sia un leitmotif e una macrometafora che attraversa tutta l’opera di Milo De Angelis fin dall’opera di esordio del 1976, appare chiaro dai due versi di Bigongiari citati in Poesia e destino: «la morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili», particolarmente apprezzati dal poeta milanese per quella pausa al termine del verso e quella nominazione diretta della «cosa», per quelle spezzature e pause interne ai versi che il poeta milanese adotterà come uno dei cardini del proprio fare poesia fin dagli esordi di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. In quest’ultimo libro il periscopio di De Angelis si è indirizzato su un unico tema, lo mette a fuoco da tre punti di vista corrispondenti alle tre sezioni del libro («Guerra di trincea», «Incontri e agguati» e «Alta sorveglianza»). Il pensiero della «morte» è il tema regnante di questo libro, il dialogo con la «morte» intesa come naufragio, scacco, possibilità interrotta, esperienza del limite, sfondamento del limite.
Recita il risvolto di copertina: «Una ricognizione sulle avventure mentali di un passato ormai remoto e sul loro quotidiano scontrarsi doloroso e frontale con l’idea di un precipizio assoluto, di un risucchiante nulla infinito; e poi il riemergere di giovani volti e figure, di minime vicende, salvate, chissà perché, dalla memoria: e infine il resoconto, condotto con oggettiva esattezza, di un drammatico fatto di cronaca, di un episodio di tenero amore e orribile violenza. Sono questi i tre momenti essenziali, quanto mai ricchi di situazioni e implicazioni interne, della nuova opera di Milo De Angelis».
Con le parole di De Angelis: una serie di «incontri e agguati», una «guerra di trincea», una «alta sorveglianza». È chiaro che un tale tema non poteva venire pronunciato se non con un lessico diretto, spoglio e scabro. Un discorso frontale. L’inizio del libro è eloquente:

Milo De Angelis (Viviana Nicodemo)

Milo De Angelis (Viviana Nicodemo) – Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni

da Guerra di trincea I

Questa morte è un’officina
ci lavoro da anni e anni
conosco i pezzi buoni e quelli deboli,
i giorni propizi, la virtù
di applicarsi minuto per minuto e quella
di sostare, sostare e attendere
una soluzione nuova per il guasto.
Vieni, amico mio, ti faccio vedere,
ti racconto.

*

Tutto cominciò in una cameretta
con i regali e le candeline
che in un soffio spensero mio padre
fermo nella sua giacca per sempre
e un cerchio di puro niente mi assalì
in un solo attimo franò sul tavolo
e mi mostrò cento di questi giorni.

*

………………………………………………
………………………………………………
…… nel 1967, dopo una lunga guerra
di trincea, dopo una guerra di metri
guadagnati e persi, iniziai
una trattativa con la morte.

*

iniziai dunque a trattare, sì, a trattare
ma lei recalcitrava, negava la firma,
si dava per dispersa e riappariva sul più bello
nella vela di una carezza o nella voce
che indicava lassù un’orsa favolosa
era lei con un sapore di mandorle bruciate
iniettava nell’alba il suo buio primitivo.

*

Con la morte ho tentato seriamente
per un po’ è stata buona
ha rinunciato al suo impero universale
ha cominciato a muoversi caso per caso
ha lenito alcuni sussulti con il suo unguento
poi ha cominciato a intonare
una canzone in re.

*

Con la morte ho cercato ancora
un patto, ma lei era astuta e discontinua
appariva nei traffici dell’amore,
diventava giallore e numero fisso
era il respiro e l’artiglio nel respiro
un’ora murata
galleggiava nel fradiciume della vasca.

*

Poi, di colpo, un lunedì di febbraio
tutto è tornato come prima… è uscita
dal suo feudo,
ha fatto incursioni, all’alba,
nella casella della posta, ha ripreso
la sua cerimonia incessante, ha diffuso
un canto di puro gelo
ha cercato proprio noi.

*

E ha cominciato a parlare,
quella figura plenaria,
come il capobranco della nostra fine
soffocava il lievito felice,
affondava con il piede la barca
infantile di due foglie
ci lanciava il suo avvertimento

Milo de Angelis

Milo de Angelis

L’essere si rivela solo nel naufragio dell’esserci. E il naufragio dell’esserci è, con le parole di Milo De Angelis, il suo «destino», che si rivela in eventi del tutto fortuiti («nella punta di questa matita»), senza spiegazione, inspiegabili, non razionalizzabili, imprevedibili «in questo immobile trasloco», dove l’accadimento non può essere registrato da «nessun diario… nessun giornale, cronaca o storia». Così, la poesia di Milo De Angelis è tutta intessuta di accadimenti che brillano solo per attimi che subito dopo si spengono, scompaiono; gli accadimenti sono percettibili solo nell’attimo del loro scomparire, non prima e non dopo, e che si situano tra il prima e il dopo.

XII

Nella punta di questa matita
c’è il tuo destino, vedi, nella punta
aguzza e fragile che scrive sul foglio
l’ombra di ogni fase e scrive
le mura cieche, l’attenuante e il soliloquio
il tuo destino è proprio qui, in questo
immobile trasloco, in questo impercettibile
sorriso che un uomo offre
al mondo prima di sparire.

XIII

Questo destino che nessun diario
raccoglie, nessun giornale, cronaca
o storia, vive nel sibilo
di un ricordo, nel suono
della giovinezza: il frutteto fantastico
e un fruscio negli abbaini,
e poi qualche grammo, il pigolio
del giudice di sorveglianza,
un’edicola notturna, una retata.

copertina milo de angelisCosì risponde Milo De Angelis a una domanda di Claudia Crocco pubblicata di recente su LPLC:

«L’attimo? Sì, una vera e incrollabile ossessione. Anche la mia attenzione alla fotografia (non a caso vivo con Viviana Nicodemo) è legata all’attimo, che non è mai statico, quando è davvero un attimo destinale. Raccoglie in sé le stagioni, fa convergere in se stesso il tempo che precede e quello che segue. E il grande fotografo, come il grande poeta, fissando quell’istante fecondo, crea l’alone di un’altra storia sfiorata, di qualcosa che può essere. È un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il kairòs. Evoca una stagione mentre annuncia la prossima. Ecco, il kairòs è questo congiungersi delle epoche, questo movimento centripeto con cui il passato e il futuro confluiscono nell’attimo. Ricordo e profezia, memoria e promessa, atomo gremito di tempi. Il fatto è che una sola immagine può contenere un tale vigore, una tale attesa, un tale spaesamento da irradiarsi fuori di sé e diventare un mondo. Questo intreccio di singolare e di cosmico è tipico della lirica, dagli antichi a oggi, da Alcmane a Bonnefoy. E infatti la fotografia è sorella della lirica. Potremmo dire così: la fotografia sta alla lirica come il video sta al racconto e come il film sta al romanzo. Al pari della lirica, la fotografia narra ciò che avviene una sola volta. E proprio perché avviene una sola volta, porta con sé l’ombra delle esistenze escluse, che circondano come una moltitudine l’unicità del momento, lo caricano di dinamismo e di forza cinetica. In questo senso fotografia e lirica sono esperienze iniziatiche, ossia esperienze che, mostrandoci un tempo intero nel tempo microscopico dello scatto, tendono all’epifania. Tendono allo svelamento del significato recondito dietro a quello immediato. L’attimo non è fermo, se ci pensi. Tutte le parole che lo esprimono nella nostra lingua sono parole di moto permanente: momento (movimentum), istante (partici-pio presente), e attimo, a-tomo, qualcosa che giunge nudo ed essenziale dopo infinite divisioni, nucleo carico di imminenza da cui scaturisce la vita, come insegna Lucrezio: «Guarda i raggi del sole quando rischiarano l’oscurità della stanza e vedrai un esercito di atomi vorticare nel fascio di luce, ingaggiare una lotta infinita, vedrai scoppiare battaglie, schierarsi truppe e squadroni, succedersi senza tregua scontri e ferite. Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto (De rerum natura II, 117-122)».

copertina milo de angelis somiglianzeLa «morte», dunque, si rivela nell’accadimento, sfugge a qualsiasi tentativo di chiusura del nome, di qui il frequente impiego della figura retorica dell’epanalessi, la problematicità di porre in poesia il tema di un dialogo frontale con la morte, con gli accadimenti, quella condizione che zampilla dal fondo oscuro che sempre si affaccia alla coscienza ma sempre sfugge («chiuso nel quadrilatero della tua voce»). L’essere stesso è accadimento. L’essere rappresenta ciò che l’uomo non può mai abbracciare con un unico sguardo frontale, ma solo avvicinare, come alla ricerca di un qualcosa che giustifichi e chiarisca lo spettacolo del mondo, ma che non potrà mai darsi alla conoscenza dell’uomo nella sua integrità. Proprio per questo, per questa sua inarrivabilità, l’essere è accadimento, ovvero, quell’attimo in cui i personaggi deangelisiani sono se stessi senza saperlo, senza volerlo.

Opera, sei dappertutto ma non so dove sei.

«Opera» è il supercarcere di Milano dove è racchiuso l’autore di un orribile delitto, l’uccisione a coltellate di una giovane donna, sua moglie. Un luogo che si dà e si sottrae insieme alle tracce degli accadimenti trascorsi. Il mondo poetico di De Angelis è un aprirsi di eventi, un ritornare di ciò che è stato sottratto, uno zampillare illogico e senza alcun senso apparente di «incontri e agguati» dal fondo oscuro di una «voce» che ritorna (come amore o incubo) alla coscienza, che va al di là di ogni possibilità di comprensione della coscienza. In questo senso, il mondo intero (il mondo dei «fenomeni») è un «naufragio», non un navigare certo nell’immutabile che da sempre è per la filosofia, consolazione, ma un continuo essere in balia delle onde degli accadimenti. La costruzione dell’«Opera» (poetica) al pari dell’Opera (carcere) è quindi una condizione imprevedibile e non determinabile, una condizione angosciosa, periclitante, instabile, e una condizione metafisica insieme. Un luogo metafisico. La poesia di De Angelis si nutre di questa instabilità (che diventa anche metrica, sintattica, stilistica), ne fa la propria ragione di vita, raccoglie gli echi, le tracce degli accadimenti che sostano per un attimo nella memoria, nell’attimo del loro sottrarsi.
Oserei dire che Milo De Angelis è il primo poeta del nuovo modernismo italiano che utilizza il discorso diretto (facilitato in ciò dalla sua lunga esperienza di docente di italiano nel carcere di Opera), di qui l’impiego continuo di dialoghi… e il discorso indiretto, il correlativo oggettivo con il correlativo soggettivo (cioè lo s-postamento del soggetto, lo s-paesamento del soggetto, la dis-locazione del soggetto).

Milo De Angelis Incontri e agguati copIl naufragio accadimentale sta all’«Opera» come il poeta sta alla poesia. Il «naufragio», com’è noto, è la figura filosofica che Jaspers utilizza per definire il senso ultimo dell’esistenza umana. L’esistenza è il «divenire», ovvero un «naufragio» nel mondo mutevole e accadimentale. Il tentativo di concepire l’immutabile è certamente destinato allo scacco se non negli «attimi» che ci rivelano quel naufragio. La «morte» è costruzione del naufragio, compimento di esso. Al naufragio non si può sfuggire. I personaggi di De Angelis vanno incontro al loro «accadimento». Il loro «destino» è questo andare incontro alla «morte», è questo «andarsene per il buio dei cortili», questo rotolare dal centro alla periferia di se stessi… essere visibili in questo «immobile trasloco».

Il «naufragio» per Jaspers è un naufragio nel tempo, annientamento di tutte le cose e di tutte le certezze, di ogni stabilità e immutabilità. La condizione di vita dei personaggi deangelisiani è «scacco», precarietà, incapacità di diventare padroni del proprio destino, essere sempre in «situazioni» limite, essere sempre «situati», «gettati» entro un orizzonte di eventi possibili. Essere in una situazione significa non poter vivere senza lotta e dolore, dover assumere l’onere della propria colpa, dover morire. Questo orizzonte di eventi è una situazione limite, un muro contro cui i personaggi deangelisiani in ogni loro azione sbattono inevitabilmente senza possibilità di alcuno scavalcamento di questa condizione. Il muro della realtà resta invalicabile.

Per De Angelis, la condizione che la «morte» pone alla verità dell’essere risiede nella condizione del naufragio infinito. Una condizione accadimentale, di attenzione ai dettagli impercettibili, dettagli dell’eccedenza, di ciò che «viene radiato», un rotolare perpetuo dal centro verso la periferia, come ha scritto Nietzsche. Una condizione propria del l’età del nichilismo.

Ero diventato ormai l’incarnazione
di ciò che perdiamo, in me si raccoglieva
tutto ciò che a poco a poco viene radiato
non prendevo più nota del giorno e dell’ora
mi assentavo
dall’antico fenomeno del mondo.

da Incontri e agguati II

Una lama di fosforo ti distingueva
e ti minacciava, in classe terza,
ti chiedeva ogni volta il voto più alto, l’esempio
perfetto del condottiero: sei stato tra la gloria
e il sacrificio umano
e hai scelto di non avere più nulla.

Ma oggi ti è riuscito
l’antico affondo, il pezzo di bravura,
chiamandomi per nome tra la Polfer e i sonnambuli
del binario ventidue “Ti ricordi di me?
Io abito qui”. “Ricordo quella versione
di Tucidide difficilissima. Solo tu… solo tu.”

Hai ancora il guizzo
dello studente strepitoso, l’aggettivo
che si posa sul foglio e svetta, la frase
di una lingua canonica e nuova, quel tuo
tradurre all’istante a occhi socchiusi. Dove sei,
ti chiedo silenzioso. Dove siamo? I frutti
restano dentro e bruciano segreti
in un tempo lontano dalla luce,
in una giostra di libellule o in un sasso.

Milo de Angelis

Milo de Angelis

da Alta sorveglianza III

XXIV

“Una donna così si uccide solo con il coltello
si uccide corpo a corpo in una vicinanza
che zittisce le melodie del suo respiro
e l’ho colpita l’ho colpita con una certezza
vicina all’oblio… poi l’estate
precipitò nella notte
e mi nascosi lì, colpevole e tremante…
… per un intero minuto
l’ho colpita”

*

Il nome, il nome, il nome.
Lo ripetiamo certi o increduli,
in un tremore di pernici, lo incidiamo
nell’urlo, lo salviamo
con lo stupore inconfondibile dell’unico dono
che abbiamo meritato: giunge
dalla nostra alba più remota e ci nomina,
ci attende, ci pretende, ci chiede
la parola e la protegge nel silenzio dei pioppeti.

*

È di tutti la splendida uccisa, la sorridente,
cammina nei corridoi, dea o spettro, cantico
del grande zafferano, si aggira come un oltraggio
alla morte, ritorna puntuale al mattino
nelle battaglie tenebrose del risveglio,
si stende sulla branda, si toglie i sandali,
sorride ancora una volta. Oppure esce nel mondo
e mostra alle strade il nostro errore e la collera
di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata
e ora la tocchiamo, tracciamo per terra
un annuncio oscuro di linee
e parole, barlumi di volti e di città: un disegno
di salvezza, forse, o un’esecuzione.

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POESIE SCELTE di Giovanni Parrini da “Valichi”, Moretti&Vitali, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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 Giovanni Parrini è nato a Firenze, dove vive. Ha una laurea in ingegneria meccanica. Ha pubblicato le raccolte di poesia Nel viaggio (prefazione di Neuro Bonifazi, Lietocolle, 2006), Tra segni e sogni (prefazione di Maurizio Cucchi, Manni, 2006), Nell’oltre delle cose (prefazione di Giovanna Ioli, Interlinea, 2011), Le misure del cielo, in rivista Poesia, n° 285, (Crocetti Editore), Valichi (prefazione di Giancarlo Pontiggia, Moretti&Vitali, 2015).

Sue poesie sono presenti nell’ Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori), e in varie riviste, fra le quali Caffè Michelangiolo (di cui è anche collaboratore), Atelier, Il Ponte.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Commento di Giorgio Linguaglossa

A proposito del precedente libro di Parrini Nell’oltre delle cose  (2012), scrivevo: «Se si dovesse racchiudere in una definizione il lavoro poetico di Giovanni Parrini, si dovrebbe parlare di poesia della disseminazione prosastica in tutte le sue tonalità e modalità stilistiche, da quelle incidentali e laterali così forti da sconfinare nel loro opposto, a quelle, diciamo così, direttrici, alle corsie centrali, che appaiono più limpide, distese, con alternanza di penombre e di chiaroscuri. Da un lato, Parrini preferisce la raffigurazione di un quotidiano dimesso, con illuminazione laterale, direi di transito, temporalità del transito oltre le cose; dall’altro, c’è il progetto di indicare le «cose» come se fossero osservate da un finestrino di un treno in movimento, dove non sai se siano le «cose» in movimento o il punto di vista dell’osservatore. C’è un via vai, un affollamento, un affoltamento delle «cose», un infoltimento delle essenze delle «cose». E qui la gamma stilistica di Parrini mostra una tenuta encomiabile, risponde in modo problematico alle esigenze del canovaccio tematico (mi si passi l’espressione di gergo); a mio avviso, là dove Parrini introduce una maggiore variabilità  sintattica e stilistica con inserti metaforici e polinomi perifrastici la poesia ne guadagna in incisività e mordente. Potrebbe essere questa la direzione da seguire nel futuro dell’autore.Il titolo non casuale Nell’oltre delle cose  vuole richiamare il lettore ad una migliore attenzione, intende richiamarci alla esistenza di ciò che sta oltre le cose del quotidiano e dell’apparenza. Parrini impiega un linguaggio basso-colloquiale, cerca di tracciare un colloquio con il lettore, di metterlo a suo agio senza precludersi però la possibilità di introdurre delle sottili variazioni interne, dei distinguo, delle eccezioni. Il noto assioma secondo il quale «il linguaggio esiste indipendentemente da noi» ha il suo correlativo nell’altro: «le cose esistono assolutamente e indipendentemente da noi, per esse non si pone il problema del senso e neppure quello della significazione», stanno lì, al di fuori di noi. Esse sono. Ecco il punto. Per Parrini una visione trans-oggettuale e trans-soggettuale del linguaggio è il criterio che lo guida in questa ricerca del senso (il significato delle cose); Parrini non indica mai in modi prescrittivi là dove ci sono le cose ma le lascia intendere, le lascia nel luogo dove la loro presenza ne tradisce l’esistenza. Certo la posta in gioco è alta e impegnativa: narrare il quotidiano da un punto di vista che sta oltre le cose significa adottare un linguaggio idoneo alle premesse da cui parte. La scelta del verso libero è in tal senso azzeccata, come azzeccato è l’alternarsi di versi brevi, brevissimi e lunghi come ad indicare quella irregolarità e dis-continuità di cui il «reale» si fa porta-voce e che la poesia deve raccogliere se vuole essere all’altezza del suo compito. Ma è un processo ancora in fieri questo, e vedremo nelle prossime opere la direzione che adotterà l’autore. C’è ancora tempo».

Mi sembra che quanto scrivevo nel 2012 intorno alla difficoltà di oltrepassare questa prosasticità del dettato poetico, valga anche per questa raccolta di Parrini, fermo restando che la via da percorrere per la poesia italiana può essere percorsa non solo da un autore, per quanto dotato egli sia, ma da una continuità di tentativi collettivi.

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Giovani Parrini da Valichi Moretti&Vitali, 2015

Una di queste mattinate qui
dure come l’acciaio
ci sarà l’occasione da prendere al volo
sono certo sarà meraviglioso perdersi noi due soli
io e il navigatore
non avere alcun luogo.
Display grigio
occhi calmi.
Io da una parte che non mi risolvo mai completamente
fra perdita e memoria
da un’altra lui sbadato
radioso senza il software new release che m’ero scordato.
Beffando coordinate andremo a giro assieme
flâneur complici
circuiti e cuore in ascolto
in attesa di niente. Vinceremo.
*

Avevo molto spesso un pensiero. Dicevo, forse è per via del lavoro. Anni dopo anni su cantieri enormi, e quando bucavamo la montagna, guardando nella polvere, pensavo che quando cade l’ultimo diaframma succede al limite dello sconforto, e ti pare che il ferro della talpa pure lui sia sfinito. Ma in un soprassalto di follia, o perché ognuno ha dentro l’infinito, ti dici che non tutto può finire lì, nell’avanzare cupo ora per ora, e poi un crollo finale. Non sai perché ti ritrovi a sognare una via invisibile, parallela e vicina. Eravamo agli ultimi duecento metri, gneiss e calcescisti, distanza piena d’intimo silenzio, di ricordi e sudore. Duecento metri accanto gli uni agli altri e quella montagna col suo corpo umido, fitto di fibre. Io sono uno qualunque, uno dei tanti. Di me, di noi, mi chiedo cosa resterà in questo buio violato: forse la pena, oltre che nostra, quella incomprensibile che sento del monte agonizzante, povero come noi. Mi fermavo ogni tanto – un mezzo lavativo, dicevano – guardando quel tormento di materia, che sembrava sognasse voli e azzurro, e soffrendo spedisse tanta vita in superficie, con una forza timida, settecento ottocento metri sopra, dove tutto scorreva inconsapevole. Tra poco ci sarebbe stata luce improvvisa, un boato, qualche sorriso piegato. Poi avremmo ricominciato altrove, a tracciare altre strade, diverse e tutte eguali, che a volte dentro il sonno si confondono, si sommano, ne fanno una soltanto, che dondola, va su. Va verso l’alto. Dove non lo so.

*

L’inverno è ritornato
sembra diverso però questa volta
quasi da strabiliare
sgominare l’indifferenza.
Fino a qui è arrivato dalla dimora del gelo
che tentano situare col satellite ultimo
quello che vede bene
anche i dettagli di tanta perenne magnificenza
che invece ci resiste
non avrà traduzione
resta nel bianco lascito cui attinge il cielo per rifare la neve
o nel bulino fine del tramonto
che fa i rami gioielli
nudità le montagne
in questo lancinante addio
che natura perdona sempre al fato.
Saremo ancora qui sperduti
mai sicuri
daccapo in questo freddo
che sente tanta povera speranza e ne fa primavera.

Giovanni Parrini

Giovanni Parrini

Alla fine
chi lo direbbe
che le cose che la vicissitudine ha messo insieme
rampicando una vita
qua e là per mura accecate
alla fine
le trovi in un armadio
e a contarle ti ci vuole poco
poche ore
una giornata
non ha importanza l’unità di misura
il nodo non è quello
ma solo che decideremo noi che cosa e come scegliere
buttare conservare quello che ci parla di qualcuno
denudare uno spazio
per fare posto a roba nostra
sempre lo stesso spazio
roba al posto di altra che serviva e non serve
adesso che fa quasi preghiera
religione dimessa
nel vuoto rimbombo del legno.

*

Proprio una bella cena
di quelle dove vola la distrazione
l’evasione dal vivere solito
come il vivere è sempre
portare
consumare
digerire
convivio e trauma creaturale ottuso
chiacchierare scempio
che sale alle alte sfere
mezzanotte ammiccante su piatti e su bicchieri
sulle teste travolte dall’algida bellezza
crudele con il vario armamentario di simboli
nero fondo di grilli
abissale inquietudine
o viola incantatore della lampada per gli insetti
dove vanno a un’orribile morte
oppure scampano
e noi iddii superbi per un po’ di potenza
un niente di presenza
che tra poco uno a uno andiamo via alla spicciolata
una notte qualunque.

*

Anche fosse soltanto per la grandine
che corre pazza sulle soffitte
o per l’aurora che posa le labbra sui monti
varrebbe resistere
non chiedendo che cosa mai significhino questi misteri
cosa vogliano da noi.
Che ci arrendiamo?
Sarebbe bello
così potremmo farcene dimora
smettendo di scavare e costruire
arraffare immanenze
per non rendere vana questa notte stremante
e non fallire l’altro fulgido significato
che ci cerca e ci ama come siamo
deboli e belli
ragazzi innamorati d’un poco di poesia
a cui l’anima va
per trovarsi da vivere.

*

Con miliardi e miliardi d’altre eguali
si fa la pioggia
si evapora.
È un fato concavo di cielo il mio
m’ama un cuore di nuvola
ma voi invece no
nemmeno per la testa
non v’accorgete che sono laguna dentro i fornici
cascata oceano assieme alle altre
io di soli tre atomi
che sopra i finestrini faccio fiumi e delta
in certe sere torve
quando sareste in grado di guardare
in un’altra maniera dal chiuso d’abitacoli
nell’urgere dei clacson.
Poi ecco il tergicristallo
netta ananke di gomma. Finiremo da qualche parte
torrente o nebbia
o gemma sopra il dente d’una benna
come successe a me
e c’era uno che stava a guardarmi.
Non so che cosa avesse
rimase lì con gli occhi da bambino per un bel po’
che mi pareva quasi che piangesse mentre andava via.

edward hopper-office-night

edward hopper-office-night

Allora anche un’occasione così in apparenza grigia
servirebbe a dire grazie
eppure a smozzicarne la pronuncia
rimasticandola fra i denti tutta la vicenda nostra
di dettagli da poco
non sapendo che ci ama
che ci vuole invaghiti qui perfino
col tabellone visite cui tiene dietro il fiato
chi sperso dentro una rivista mezzo spaginata
qualcuno in piedi spalle contro il muro goffrato
angeli immensi tutti
in quel fondo di mani
nella piega d’una bocca cui i pensieri s’arenano
o in quel giocare con il calendario dell’i-Phone
millenni uno sull’altro touch leggero
marzo del 5000
dicembre 7500 un lunedì
agenda da riempire
cosa saremo mai
stessa gloria e angoscia andate a perdersi
opacità dove mulina un polline di preghiere
smarrito intanto il nesso d’ogni cosa
mentre scatta il tuo numero.

*

Ci sono chimici vapori lunghi a sfibrare il sole
che ci si immerge stanco
e noi pure lo siamo.
Dovremo traslocare nuovamente domani
per poi acquartierarci
gettando l’inservibile
che ogni volta è maggiore
quasi tutto alla fine
un divario che colma di trasparenza il diario
d’assenza il sasso dell’identità
dopo molti trascorsi
sembrando che l’attesa abbia perduto il suo significato.
Ma se succede è perché quella è altro di quanto immaginiamo
serve affinché dilaghi l’invisibile nelle nostre evidenze
da starcene come isole
che il mare riassapora rende uguali.

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POESIE SCELTE di Dona Amati da  “Riguardo all’obbedienza Poesie dal corpo” con una nota critica di Letizia Leone, Fusibilialibri 2013

pittura parietale romana epoca pompeiana

pittura parietale romana epoca pompeiana

Dona Amati è nata a Roma nel 1960. Ha pubblicato Il pomo e la mela, Lietocolle, 2006, Emisferi – Al nudo delle voci, Folci, 2006, ed è autrice dei testi de Il Dito del diavolo – Op. 71, poesia musicale del M.° Marco Pietrzela, Ed. Musicali Berben, 2007. Il suo esordio è con l’antologia Ti bacio in bocca, LietoColle, 2004. Suoi testi sono presenti in varie antologie, per le edizioni Lietocolle, La città e le stelle, Lepisma, Le impronte degli uccelli, La vita felice, Perrone, nonché in traduzioni per edizioni straniere come l’antologia serba Cpūcku jyi. Ha ideato e curato i volumi antologici Haiku tra meridiani e paralleli e Caro bastardo, ti scrivo. Storie di male e di miele (con variazioni sul tema), per FusibiliaLibri, 2013.

È cofondatrice della associazione culturale per la diffusione della poesia Le Mele-Grane,  per  la quale ha curato diversi eventi letterari di livello nazionale e internazionale, anche presso diverse ambasciate straniere. È presidente di Fusibilia associazione, di cui cura in particolare la parte editoriale. Nel 2011 e nel 2012 è a Belgrado, su invito dell’Istituto Italiano di Cultura e dell’Associazione nazionale Scrittori Serbi, dove partecipa al 49° Raduno Internazionale degli Scrittori. Unisce l’attività letteraria all’impegno civile per le tematiche di genere.

 gladiatores de Roma

gladiatores de Roma

Commento di Letizia Leone

Le ‘poesie dal corpo’ di Dona Amati, come riporta la didascalia che fa da piedistallo al titolo massiccio di quest’ultima plaquette Riguardo all’obbedienza, testimoniano e ribadiscono la centralità che il corpo ha assunto nelle poetiche contemporanee, non solo letterarie ma artistiche in genere, e si pensi alla body-art e alle manipolazioni estreme di artisti che fanno della carne il proprio ‘teatro operatorio’.

Portavoce di una coscienza femminile silenziosa e invisibile nei secoli, questa  poeta-donna vive empaticamente le istanze sociali e politiche più attuali e, inevitabilmente, coinvolge in questa sua chiamata erotica un coro di donne cariche di solitudine e di lotta.

Non a caso questo canto d’amore e d’erotismo si colloca sotto la stella dell’energia demoniaca di Lilith, il mito millenario di seduzione maligna e notturna, alla quale elargire i propri voti di obbedienza, “l’oscura attrice” portatrice di conoscenza che diventa controfigura e specchio di un ‘io’ in continuo conflitto e tensione desiderante. Un titolo apparentemente sviante dunque, che evoca categorie come trasgressione e divieto, e dove l’obbedienza (parola densa e pesante nella storia del femminile) in una sorta di acrobazia di senso, si piega alla  potenza eversiva dell’amore per diventare infrazione.

Oppure ricapitolazione del rito purificatorio del piacere che vuole liberare il corpo della donna dalle proibizioni più antiche e dalle violenze, assordanti e quotidiane, che come un rigagnolo sotterraneo hanno attraversato i secoli bui mantenendo intatta la loro portata di odio, misoginia e paura.

Allora l’autrice “colmata del canto di Clito” dispiega il suo corpo-scrittura in un doppio richiamo non solo tematico, all’erotismo, ma anche alla fisicità di una parola percettivo-sensuale come quella della poesia. La sottomissione al demone dell’eros viene declinata in tre tempi: Himeros, Photos, Anteros.

Irrompe sul palcoscenico la potenza del desiderio in testi dalle ampie volute metaforiche tese a corrispondere lo stato di alterazione dell’ ‘amor fou’, della passione:

“… è un’altra induzione / alla carne in festa / un losco lessico tabulato in sillabe / sintagmi – appunto – di serra in esplosione / terra di ioni intermittenti / l’accoglienza simultanea di tuoni nel corpo”.

La psicologia ci ha informato abbondantemente sul ‘quadro patologico’ dello stato amoroso che confina con lo squilibrio psichico, si pensi  alla seduzione, ad esempio, dove sperimentiamo una dipendenza totale che ci porta ad abdicare all’altro. Stato sì, di estrema vulnerabilità ma anche potente generatore di immagini, ‘daimones’, forze inaspettate e pulsionali che sono a fondamento di qualsiasi attività artistica.

Per  Rilke  amare è l’occasione di “diventare mondo grazie ad un altro … è qualcosa che lo elegge, lo chiama ad un’ampia distesa”: ecco proprio questa ampia distesa metafisica attraversa la poesia carnale di Dona Amati in un “osanna del pasto fisico” dove la continua rifondazione del corpo va di pari passo con la rifondazione della lingua, lingua sapiente della poesia, di io e mondo reale (oggi costantemente minacciati dallo sfaldamento nel virtuale).

Qui la dimensione energetica dell’erotismo coincide in pieno con la qualità primaria della poesia che è puro piacere della forma, un percepire sensoriale che riporta le parole alla loro dimensione concreta e tattile, sensuale … così come era alle origini il mitico linguaggio degli uccelli, il linguaggio adamitico foriero di una dimensione magica e creatrice.

Ne nascono versi intessuti sulla stretta relazione tra materia, simbolo e scrittura dove gli elementi corporei della sessualità (lingua, gola, voce, dita, ventre…), vengono elevati ad una pura funzione simbolica e disegnano in crescendo i fantasmi del desiderio. Finché il corpo tutto diventa strumento fonatorio, sonoro, diventa la pagina bianca su cui scrivere, o farsi ri-scrivere, in un movimento di rigenerazione cellulare e spirituale, in una auspicata “Vita nuova”, privata e collettiva insieme:

Dammi un titolo o / chiudimi etèra d’attimo / crocifissa al tuo sudore. / Girami il dorso ritrova la bocca. / Aprila”.

dona amati cop

L’erotismo è una delle basi di conoscenza di sé,
tanto indispensabile quanto la poesia.
Anaïs Nin

Canto d’amore

– Obbedienza a Lilith –

Questi nostri occhi, fermi, ormai impietosi,
accesi al rosso della stessa luna.
Noi sole, acciottolate nei corpi da
trasfigurare in mescolanze lucide
inarcate come un balzo inerte dal sesso sospeso.
Ti cercherò la lingua macchiata d’impudenza
dalle mie dita berrai la sete fausta lasciando
il bisogno caldo punzecchiarti il grembo,
riempirne denso il calice vuoto.
Tu frani vicina, invadi come mente
di seta, pelle di femmina,
maestoso mantello da ricucire.
Del tuo taglio ora schiuso l’incendio
mi specchia donna amante
contendente colmata di canto di clito.
Oltre le note di divinazioni scoperte
infiammate sui tuoi seni di cera.
Sei bella. Offerta nel profilo morbido
che cede, come maleficio d’incanto.
Non è tempo di allentare il movimento
della conoscenza, oscura attrice.
Voglio sciogliere lo sfinimento
impallidirti del respiro tutto
razziarti il fremito
come innaturale preda
che s’abbraccia di me, concessa.
*

I miei amanti lo sanno
che intingo il corpo
in un deserto freddo
e aspiro sabbia e polvere.
Loro fiatano brama dagli occhi grondanti.
Ma nulla mi riempie.
C’è solo polvere che metto addosso
che addosso
stipo.

Ed ho in palude il cuore.

*

Ti chiedo per me un momento
un frutto del tempo che lussureggi
su una storia che mi
preme tempesta

soliloquio di incanti spontanei
un obelisco di sete
incuneato nel cuore e
nella valle avida
alla fine del ventre.

*

Il confine è fittizio
non conta vederlo riempire lento
l’orlo del
rombo geometrico della bocca
in cui spingi
il tocco saprofita della sazietà.

Nell’incavo della gola lì
dove s’annida il primo singhiozzo
(mi)
soleggia il morso d’eros leccando
viscere avvicinate al nuovo gioco
di soffio labiale.

dona amati

dona amati

Senzienti e senza uguali le tue dita
risalire le mie gambe
incastrare l’occhio buio
– la luce non serve alla pupilla
resa umida come
una sentenza irrevocabile –
Ingoio il demone, la mia stella capovolta
i pensieri traboccano peccato originale,
quello che legge la notte
del fuoco acuminato,
che sbatte le ali dentro la pelle,
che mi allunga la schiena
per confinarla alle tue membra
saccheggianti,
anagrammando gesti
intimati dalle nostre dita oltre
l’ultimo possesso del tuo odore
– anche un frammento
può farmi guaire –

(appena accennati i discorsi del cuore).

*

Complice alla mente
quel fuoco che mi vuole
che umido manto
concede appena ti sento
somma marea coniata nel corpo
– del tocco ti vorresti sazio –

Dammi un titolo o
chiudimi etèra d’attimo
crocifissa al tuo sudore.

Girami il dorso ritrova la bocca.
Aprila.

dona amati

dona amati

Le mani infitte al delta del ventre
inizia alle gambe l’intarsio precoce ché
mi domo donarti la bocca al
primo suggello vischioso
che chiedi.
Poi selce di carne
s’offusca al mio vello
l’indizio d’esilio rovente
nell’asilo che cerchi tra il corpo.
Intimamente vinci e
mi sfili la gola
il volo ne è dentro.
Ne frulla il rango del godimento.

.
COITO

L’uomo nella stanza
come scommessa dalle tracce discinte
è un’altra induzione
alla carne in festa
un losco lessico tabulato in sillabe
sintagmi – appunto – di serra in esplosione
terra di ioni intermittenti
l’accoglienza simultanea di tuoni nel corpo.

Quell’uomo nella stanza, dico,
come sa compire,
come replica la matrice laida che
ristora le sfasature delle viscere
lui escogita orazioni circolari sui corpi
tondi come vipere allacciate
alla regola che
osanna il pasto fisico.

*

Quel modo che ho di toglierti dalla mente
strappare pian piano la carne
l’ingordigia del cuore
la memoria ambigua dell’ombra.

E uccidermi l’acqua sterile alla fontana
la vena a questo punto muta
l’essere ingrato del sentimento.
Io, quale modo ho?

Dona-Amati

Dona-Amati

AL MIO MASCHIO DI CASTA ZITTA

Mi monti nel laccio del silenzio.
È così che è. Il lieto fine è fermo al piacere, un soccorso agli istinti.
Sei complice di te stesso, non dell’aria che intorno
gareggia col mio nome. Non vuoi sentirlo, ed è
inutile che io presti la voce.
Un groviglio zitto è la faccia rovescia della medaglia
che ti arricchisce il vanto, il sol levante che t’illumina
circoscritto alla schiena nuda.
Gli occhi li tieni riluttanti alla mia aura, bui e poveri di indulgenza.
Oggi ti incontro. Ho gia ridotto a zero
l’innocenza, trema un tam tam di libidine incompleta,
la tua meta metà, l’irrisoria adorazione del tuo fusto
alto sulla mia obbediente inclinazione.
A darti silenzio solido fino alle ossa.
Nessuno sa che ti sdrai accanto a me, e dovrei anch’io ignorarlo.
Non lasci la testa nel cappio del sentimento
ma il corpo biblico ne ha due, e la mia ne è strangolata.
Esisti, non esisti, mi interroghi, non parli.
Quindi mi resti come io voglio, e non puoi farci niente.
Come una certa morte che si dà, una libertà spenta.

ANDARSENE (DISMESSA)

Il momento è tuo, adesso
mentre addomestico il sangue.
Interrompo la voce se è arrotolata su un silenzio regressivo.
Io contengo.
Sono il tuo nulla non rivelato
l’acqua statica muta
il nocchiere cieco
la nuova deriva del silenzio.
Ora sei tu che scivoli come
un’unghia che ha sacrificato la presa,
non ci salva più la fretta anchilosata sul sesso
i corpi marciscono al primo orgasmo, la voglia
dismette la sua sete, una bancarotta ai sussulti del piacere.
È quella foga di andartene, il soldo di latta del tuo bottino
che pretende pagar d’ufficio la mia rabbia.
Resto, indigente – e illesa – come un dio infame.

*

Non sarò mai io che piango,
ma ciò che mi prende dentro quando
il cuore è divaricato al sale, sollevato
dall’obbligo dell’amore che gira folle

– ogni amore ha un giroflesso prepotente
magniloquente come un verso pingue di parole –

Si tratta di smettere di pensarti
consumare il morso di te che ho dentro.
L’amore non è mai innocente, nemmeno
fatto di tempi morti.
E se scortica l’anima a blandi pezzi,
è risulta di facili bocconi d’eros.
non più giaciglio di sinapsi.

– Dovresti saperlo che
scrivo ancora, forse senti
lo stridio dei sentimenti sui fogli
nuovi.
O la manna della sordità.
L’urgenza delicata del silenzio.
Mio –.

Dona-Amati

Dona-Amati

Dovrei costruirla la cruna dell’ago
per passarci dentro
ostinata al senso andato di un passaggio unico.
Nel tuo giro di bocca, amore
arrotondarti lo spazio con le parole
prima di
fare leva sugli anelli nascenti.
Di carne e delizia.
Solleva bene il caldo del mio ventre.
Cos’hai da pungolarmi dentro?
Io so come fare
a martellarti le tempie e non deluderti.
È ad armi pari la catasta divelta
serrata infine come crisalide.

DI EX BACIO, IL MATTINO D’AUTUNNO

Stamani è il soffio che recita con me
nell’accorgersi che qualcosa è
da tenere stretto.
Perché le luci del mattino più rosse
non claudicano alle solite insofferenze
e ingoiano un altro saluto a
fingere ancora che
l’eco del selciato sia spazio dei tuoi passi.
Si muovono queste foglie sul chiaro dei tuoi occhi?
Si muovono perbene sull’orecchiabilità del vento.
Chissà se l’autunno di un bacio
intristisce anche dell’alba il sottofondo
quello che fa di tutto,
già orfano di verde.

… ché non è solo esile il fuoco
del cuore quando brucia,
è un tormento tolemaico al mio
tempio solitario che caduco
gli sopravvive intorno.
Per aspera ad astra
antica ritorna la stella a venire,
come guscio migrabondo d’armonia.

letizia leone

letizia leone

Letizia Leone è nata a Roma dove ha conseguito la laurea in lettere e il perfezionamento in linguistica. Agli studi umanistici ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Continua a leggere

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TRE POESIE di Luciano Troisio “de imbecillitate mundi”, “perché non conosciamo le avventure straordinarie”, “parentele del calembour” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

bello il vuoto

Luciano Troisio, padovano, studi classici, ha insegnato nelle università di Padova, Pechino, Shanghai, Bratislava, Lubiana. Ha viaggiato molto specie nel Sudest Asiatico. È autore di varie pubblicazioni scientifiche e sperimentali.

Riguardano la poesia: By logos, Lacaita, Manduria, 1979; Folia sine nomine, Seledizioni, Bologna, 1981; La trasparenza dello scriba, Vallardi, Padova, 1982; La poesia nel Veneto, Forum, Forlì, 1985; Ragioni e canoni del corpo, Asefi, Milano, 2001; Linee odierne della poesia italiana, Hebenon, Torino, 2001; Folia sine nomine secunda, Marsilio, Venezia, 2005.

Inoltre ha pubblicato le raccolte poetiche: L’angelo alle spalle, Rebellato, Padova, 1960; Anamnesi in tre versioni, Rebellato, Padova, 1965; Precario, Lacaita, Manduria, 1980; Persistenza del cavallino, L’Arzanà, Alessandria, 1984; I giardini della maharani, Mercato saraceno, Treviso, 1986; Prove di diluizione, Edit, Fiume, 1999; Le poetesse cinesi, Ad Histmum, Padova, 2000; Three or four girls, Signum, Milano, 2002; Parnaso d’oriente, Marsilio, Venezia, 2004, Oriental Parnassus, translated by Luigi Bonaffini, Legas, New York, 2006; Strawberrystop, pref. di Giorgio Linguaglossa, Faloppio, Lieto Colle, 2008; Papera Omnia, Panda, Padova, 2010; Locations, Impermanenza, Cleup, Padova, 2012.

Luciano Troisio con pappagallo

Luciano Troisio con pappagallo

Commento di Giorgio Linguaglossa

È possibile il colloquio in poesia?, direi che è possibile soltanto attraverso una finzione, attraverso la problematizzazione della poiesis. Noi sappiamo, per averlo appreso nel corso del Novecento, che più la problematizzazione investe il pensiero (poetico) più il soggetto esperiente si rivela colpito dal tabù della nominazione. Qui si nasconde una antinomia. C’è una oggettiva difficoltà, da parte del poeta moderno, a nominare il «mondo» e a renderlo esperibile in poesia; c’è una oggettiva difficoltà a scegliere l’«oggetto» della propria poesia; quale «oggetto» tra i milioni di «oggetti» che ci circondano?, e perché proprio quell’oggetto e non altri?. Che l’atto della nominazione si riveli essere il lontanissimo parente dell’atto arcaico del dominio, è un dato di fatto difficilmente confutabile e oggi ampiamente accettato, ma quando la problematizzazione investe non solo il «soggetto» ma anche e soprattutto l’«oggetto», ciò determina un duplice impasse narratologico, con la conseguenza della recessione del dicibile nella sfera dell’indicibile e la recessione di interi generi a kitsch.

Mai forse come nel nostro tempo la dicibilità della poesia come genere è precipitata nell’indicibile. Voglio dire che una grande parte dell’«esperienza significativa» della vita di tutti i giorni (ammesso che ci siano ancora «esperienze significative») è oggi preclusa alla poesia, per aderire al genere romanzesco della narratività. Direi che l’ordinamento borghese del mondo occidentale con il suo semplice prescrivere il «dicibile», bandisce implicitamente tutto ciò che non è immediatamente dicibile nei termini della sua sintassi, del suo lessico e della sua concezione del mondo. L’operazione di Luciano Troisio è semplice: instaurare un colloquio con se stesso. Una volta instradata nel per questa via, la dizione poetica non può più abbassarsi al piano «basso», resta nel piano medio, quale dimensione del meno peggio. Il linguaggio poetico di Luciano Troisio si snoda senza ingessature, senza rigidità.

Certo, non è il piano minimale quello scelto da Troisio per i suoi colloqui, né all’autore interessa porre l’argomento sul piano cronachistico, la tematizzazione del tema non l’avrebbe consentito. La sua poesia parla molto più dell’«oggetto» che non del «soggetto», è attenta al lettore, si indirizza al lettore, suo principio regolatore, ultima istanza regolativa: la fenomenologia del soggetto è qui dipendente dalla fenomenologia dell’oggetto.

Geisha giapponese

Il logos problematizzato e figurato condiziona i modi di espressione della soggettività: ed essa finisce inconsapevolmente nell’imbuto della reificazione delle forme espressive e la formulazione del logos subisce il tabù della nominazione, che è quell’altra forma di dominio in cui si traveste l’ordinamento borghese della rappresentazione secondo i suoi valori e le gerarchie delle sue istituzioni stilistiche. Troisio si sottopone alla verifica di de-reificazione e di de-realismo che la tematizzazione della sua poesia gli richiede. A pensarci bene, è paradossale ma vero: la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico; in mancanza di questi presupposti la poesia dell’io esperiente cessa di esperire alcunché e diventa qualcosa di terribilmente autocentrico ed egolalico: diventa presso a poco la carnevalizzazione di se stesso, esternazione del dicibile sul piano del dicibile: ovvero, tautologia.

Se il senso della poesia manca, manca la poesia il suo bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione del significato. La poesia esprime il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia dei «poeti nuovi» è appunto ricostruire una relazione tra il significato e il significante, ma in termini del tutto diversi rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nel Novecento.

In un mondo in cui i rapporti umani sono diventati un problema tra gli esseri riprodotti come talismani magici e ridotti a vasi incomunicanti di un messaggio che è stato soppresso dalla prassi sociale, resta il problema di come sproblematizzare il problematico, di come figurativizzare il non figurativo, di come liberare le emozioni dalla cella dell’io che racchiude l’inautenticità generale nel mondo degli oggetti semiotici.

Oggi forse, dicono alcuni, è possibile soltanto una poesia dell’inautenticità e del falso. Come il tinnire di una moneta falsa, la poesia la devi lasciare nel suo brodo di intrugli e di piccoli trucchi per poterla rubare agli dèi. Forse è così che la pensa Luciano Troisio.

Luciano Troisio

Luciano Troisio

DE IMBECILLITATE MUNDI

Il mondo è noioso
è sempre quello di Candide
l’unico che abbiamo.

Il mondo è ripetitivo
dobbiamo continuamente reinventarlo perché sia passabile,
capita che si è costretti a fare infinito autodafé
bisogna svenarsi a pulirlo ininterrottamente
a rallentarne il degrado verso l’osceno e lo spaccio
[della Bestia Trionfante].
Una volta palpate le poche bellezze
uno potrebbe perfino averne abbastanza,
e se trovasse gli alberi anelati, ma proprio quelli,
sedersi all’ombra nella Posizione Riflessa,
non muoversi più.

La sopravvivenza è da stupide tartarughe
da idioti strumenti sempre identici
nell’evoluzione il cretinismo è vincente
infinita è la potenza innovante del volgare
(aqui està el busillis)
andirivieni monotono
la ripetizione è un concetto fondamentale
che merita lunghe riflessioni
pornografia madre falba della sterilità,
permessa per la sua elementare stupidità
innocua democratica gratifica il basso
più è volgare più ha successo
(nelle pie intenzioni dovrebbe presto stancare,
già quella di lusso è meno benvista)
non si osa relazionarla al Mondo
nella sua accezione di “bello, santo, pulito”.

Ma poiché sempre nuove necessitano
giovani meraviglie, variatio delectat
(mentre la pendolare saturazione si autoelimina)

infinita è la potenza innovante
dell’immane immune stupidità
che perfino Einstein considerava non relativa.

Tranquilli, ai vostri posti:
è lei che fornisce l’energia
al Mondo bello e santo
onde trasmigrare senza fine.

(Phonsavan, 20 dicembre 2007)

PERCHE’ NON CONOSCIAMO LE AVVENTURE STRAORDINARIE

Le avventure più straordinarie
non furono mai documentate
né su stele né su papiro
tanto meno su feuilleton o sulla “Trivial Literature”
che si occupavano di banali imitazioni per condòmini poverini.
Non si devono raccontare.
Molti dubitano che siano davvero successe.
Rimasero nelle remote memorie delle fanciulle più riservate
belle in modo raro e divinamente timide
in quelle degli erculei trasgressivi marinai
di braccio forte e zigomi vigorosi.

Notti inattese imprevedibili, sospiranti alcove silenziose
doni di incommensurabile lealtà
patti immacolati,
senza mappe rotte segrete
perfezioni inarrivabili
esilaranti burle

tesori per caso rinvenuti e subito sperperati,
negli stessi forzieri (ma altrove) risepolti da altri pirati
segreti arcani d’arcanisti con essi crepati
si ignora se rammaricandosi o felici del vissuto

Notti paradisiache dionisiache danze
tradendo fuori norma Caina e Giudecca
parossistiche plurime pareano senza fine
fortune e pigliate irripetibili

Quali inestricabili contesti di
Giardino misterico lussurioso
senza piante spinose, sur l’erbe soffice aromatica,
ripensato mentre astrattamente si sorbisce
una mediocre fast soup in città dietro l’università
economo ritrovo d’acuti irsuti
ragazze etniche, studenti
del mondo scadenti modificatori
miglioratori indolenti

Apax possibilità che si verifica un’unica volta
cancellata
congruamente consegnata a racconto mitico
a incredibile narrazione:
[olim, once, una volta…
Spartani, non aggiungere fronzoli]

E poi è finita, ognuno se n’è divergendo ripartito
al last minute per il suo giogo
ha richiuso lo zaino della non condivisione
poi ché nulla succede (a patto che nulla venga descritto)
poi ché alla fine dell’attento rettileo ascolto
il ladrone imbelle che vorrebbe far parte di segreti
si lascerebbe sfuggire astutamente, annotando:
-Non ti credo.-

(Luang Prabang, 7 dicembre 2007)

persia hasht-behesht_palace_kamancheh

persia hasht-behesht_palace_kamancheh

PARENTELE DEL CALEMBOUR

L’Escamotage non è affatto parente del Calembour.
Un certo nesso o affinità ci potrebbe anche essere
(per via del progetto) ma il secondo
è istantaneo quando esce da cocca,
l’Escamotage paga lo scotto del mediocre
turpe goal sotteso ruminato
con relative tresche trabocchetti riserve mentali
predisposte a indurre l’ignara vittima nel quasi tranello
quindi l’Escamotage è figura popolare riservata ai mediocri
dominanti il pur attivissimo sottobosco
lussuoso e kitsch

mentre il Calembour si raccomanda per il brillio dell’acutezza
del lazzo improvviso direttamente dall’inconscio
più tremendo aristocratico, a noi stessi ignoto
che fornisce cultura eleganza (se ne abbiamo,
altrimenti è vivamente consigliata l’astinenza),

è lui che fonde il fulminante crogiolo della scienza seria
quando ride di sé,
fornisce un gioco lucido sempre innovante galante
fortemente competitivo elitario
proporzionale al gusto idiolettico dell’autore,
scatena invidia contraddizione
si tratta di un’invenzione
o comunque di un uso soprattutto novecentesco
in sintonia con il suo straniamento sincopato
il sarcasmo, la crasi orgasmatica,
l’iperbole, il singulto.

l’Escamotage è democratico
protetto dalla dea Ananke
il Calembour ha la libertà dell’inutile
è gratuito come il sogno e la poesia
è riservato ai divini perdigiorno.

Una certa corrente di pensiero colloca
la differenza nella pratica conseguenza
perché l’Escamotage raggiunge una meta pratica
per quanto di picciolo affare,
né va sottovalutato il pregio enorme di risolvere
(almeno per chi escogita)
ad es. un garbuglio burocratico una situazione di stallo
un nodo che paralizza.
Non necessariamente l’Escamotage è un imbroglio
(qualche volta lo è).

Nasce da antichissima abilità, dalla forma inferiore dell’intelligenza
dall’astuzia che si trova alla fonte di molte favole di molti
poemi tramandati dalle epoche più remote e quindi
allude alle capacità di sopravvivenza di adattamento
non privo di una certa sua ammaliante elementare sottigliezza
in base alla quale l’uomo si salva, vince il mondo ostile
in un ambiente di estrema competitività
dove è inevitabile che alcuni siano poveri
(proprio perché lo sono rimasti nella testa
per manco d’Escamotage).

Sotto certi aspetti il nostro specchio Bertoldo
gioca in ambedue i campi:
non è affatto facile garantirsi la pelle
riempirsi la pancia di rape e fagioli, far ridere il padrone
e non rinunciare a una propria minima soglia
di saggio quasi acribiaco decoro non soltanto linguistico.

L’Escamotage è arcaico
il Calembour è giovane
perché legato all’apprezzamento
della più recente evoluzione del linguaggio.

Sono dalla fondazione appassionatamente iscritto
al Partito del Calembour
perché come tutti i partiti consiste in mero Flatus Vocis,
ma si pone intatto nella sua gratuità di licenza poetica,
è molto più avanti
(pur essendo caratterizzato da una forte connotazione oligarchica)
tutto sommato illustra la bravura del destinatore
soprattutto sottolinea la sua personale vis comica
quindi si distingue da tutti i partiti seri
che la celano

infine pregio non ultimo fa ridere la donna intelligente
(spesso anche bella, quella che ci piace)
che abbiamo scelto di corteggiare inconsapevolmente
per mettere in mostra la livrea, sondare se ci starà.
Il Calembour è arma potente di seduzione,
e come la ruota del pavone
chi ce l’ha ce l’ha.

(Vientiane, 16 dicembre 2007)

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, critica della poesia

NOVE POESIE di Lino Angiuli da “Ovvero” (nino aragno, 2015 pp. 152 € 10) “preposizioni semplici” con uno scritto critico di Giorgio Linguaglossa

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Lino Angiuli (1946) è nato e vive in terra di Bari. Delle dodici racolte poetiche ad oggi pubblicate,le ultime due sono apparse nella collana “Licenze poetiche”di Nino Aragno Editore. Sulla sua produzione poetica vedasi Dal Basso verso l’alto: studi sull’opera di Lino Angiuli, a cura di Daniele Maria Pegorari (2006). Collaboratore dei servizi culturali della Rai e di quotidiani, ha contribuito a fondare alcune riviste letterarie, tra le quali “incroci”. Molte pubblicazioni sul versante della tutela della cultura tradizionale.

Lino Angiuli cop ovvero giorgio linguaglossa_Dopo il Novecento

Commento di Giorgio Linguaglossa
la poesia di Lino Angiuli  tra modernismo e neomodernizzazione stilistica

Dalla plaquette giovanile di Lino Angiuli, Liriche (1967) fino ad Amar clus (1984), trascorre circa un ventennio durante il quale il poeta pugliese passa da una lirica tradizionale ad una koiné linguistica che ha assorbito gli stilemi dello sperimentalismo coniugandoli con l’abbassamento del registro lirico in direzione di una prosaicizzazione aperta alle tensioni antifrastiche (anche in idioma) e alle inflessioni di ironico disincanto. Campi d’alopecia è del 1979 (l’anno dopo la pubblicazione della Antologia della Parola innamorata, che segna l’inizio degli anni del riflusso); qui siamo dinanzi ad un discorso poetico dove è predominante un vistoso intento metaletterario: locuzioni incidentali si intrecciano a frastagliature frattali; locuzioni parenetiche, parentetiche, ipotetiche, ottative, dubitative, esortative si diramano nel tessuto ritmico-sintattico con tutta una congerie di espedienti retorici: dall’anafora, alla paronomasia, alla metafora per contatto, alla anadiplosi,  alla analogia per dissimmetria che finiscono per conferire al testo un andamento di irrisione convulsa a metà tra la mestizia del grido impotente e la tristizia goliardica della derisione. È un proposito metaletterario quello che governa il dettato poetico di Angiuli; è la sua personale interpretazione dell’eredità della neoavanguardia. Angiuli importa nel suo registro stilistico la più grande estensione di strumenti retorici dello sperimentalismo per piegarlo all’impeto e allo sdegno civile e politico ma anche alla irrisione e alla derisione, al disincanto e all’incanto; quello che ne deriva è un tessuto linguistico composto, mobile, variabile, esuberante di immagini e di moduli sintattici che si sovrappongono e interagiscono in un soliloquio con effetto di lacerante e grottesca ilarotragoedia.

Che a fare l’uovo di colombo
almeno quando si rigonfia l’alluvione
di scatole discorsi a due piazze e scatoloni
scollando significati appena insalivati
dalla carnagione variopinta di amanti occasionali
pascola allora nelle sventrate intercapedini del sole
una razza di muffe ininterrotte allora…

Edward Hopper room in New York.

Edward Hopper room in New York.

È in questi anni che la crisi del discorso lirico si aggrava

Si sta preparando il decennio della «parola innamorata» e del «ritorno all’innocenza»; gli spazi per un discorso poetico aperto e problematico si restringono sempre di più. D’ora in avanti si apre la strada in discesa delle poetiche deboli e deresponsabilizzate. In Angiuli non si riscontra alcun rimpianto per la scomparsa di quel mondo stilistico maturo di cui l’ultimo prodotto è stato il post-ermetismo pugliese di un poeta come Vittorio Bodini. Quello che nel 1952 Anceschi definiva «poesia degli oggetti» nel frattempo ha occupato la piena visibilità dello scenario poetico italiano e il minimalismo è nella sua fase ascendente: non ci sono più i margini per la elaborazione di una poesia che si distacchi dal quadro di riferimento «normativo» nazionale. Forse, una certa nostalgia per quel «mondo stilistico maturo» che è scomparso la si può rinvenire in Amar clus, (1984) in cui le fonti stilnoviste e provenzali vengono reimpiegate per un effetto di straniamento e di distanziamento rispetto alla poesia coeva; nel frattempo, l’impiego di un certo «quotidiano» sta diventando un dogma che non cessa di esercitare sulla quasi generalità un certo effetto, un certo ascendente. Angiuli ha già introdotto, per suo conto, il «quotidiano» in una sorta di registro basso, pur se variegato e mosso. È il quotidiano del registro rurale che convive con il quotidiano della civiltà cittadina. Convivenza in un equilibrio incerto e instabile dal quale il poeta pugliese sa far scoccare le scintille del suo personalissimo trolley linguistico. Angiuli sa che il «quotidiano» che si fa a Milano è un prodotto della latitudine: non è un abbaglio, non un errore di prospettiva, non è un errore ottico o un errore di poetica. Angiuli lo sa ma sa anche che una poesia del Sud modernamente aggiornata non potrà vestire i panni del modernariato né i jeans dell’ideologia modernizzatrice, e corre ai ripari nelle opere successive calcando il pedale dell’acceleratore dei toni ilari e giocosi e del «quotidiano» sudista.

Un certo ascendente, si sa, opera, a ricaduta, entro un cerchio di iniziati e dentro la sfera di competenza di una istituzione stilistica. Di fatto, è così che prende forma una egemonia: una «linea ascendente» della tradizione stilistica permette una «linea discendente» di immediata riconoscibilità. Tutte le opere che si inseriscono nella «linea discendente» appaiono automaticamente riconoscibili a norma della «linea ascendente». Ecco come si forma una tradizione stilistica. L’intento di Angiuli si muove in direzione di una poesia che abbia le sue salde radici iconologiche, coloristiche, fonosimboliche e materiche nel Sud, non può guardare al Nord se non come a un’officina che va derubata e depistata e capovolta ma non può guardare al Mezzogiorno se non nei termini del principio di ironizzazione, del capovolgimento e del ribaltamento dell’iconologia della tradizione post-ermetica del Sud.

Catechismo è del 1998. Libro chiave, di svolta e di stabilizzazione stilistica. «Catechismo» è, un lemma ironico, appunto: catechizzare come sinonimo di ammaestrare. Ormai il poeta pugliese ha messo a punto la direzione della propria rotta: una post-poesia di riflessione metaletteraria sul tema del «paesaggio» («L’orto festeggia l’onomastico del sole / fantasticando d’essere un deserto…»). Libro che alterna composizioni in lingua e in idioma, sospeso tra natura e cultura, ancora una volta tra il piano «basso» del folklore e il piano «alto» della poesia in lingua ma senza mai perdere il contatto con il piano «basso», il pavimento del folklore.

pittura edward-hopper-summertime

Direi che è la latitudine che governa la poesia del poeta pugliese più che la longitudine, e sotto questo aspetto, il percorso della poesia di Angiuli è davvero singolare e significativo: dalla rastremata lirica del 1967 il poeta pugliese giunge, nel secondo ventennio che va dal 1984 al 2010 de L’appello della mano (Torino, Aragno), ad un discorso poetico sostanzialmente dal timbro metaletterario, da dove sono stati espunti i riferimenti polemici al «mondo», (sembrerebbe quasi una ritirata strategica) ma la poesia degli anni Novanta e degli anni Dieci ne guadagnerà in brillantezza e nitore di superficie. Angiuli alleggerisce la chiglia stilistica della sua poesia dei toni più asseverativi e suasori; adesso il tessuto stilistico è più leggero, più arioso, più frizzante ma ha anche perduto lo sfrigolio, l’attrito dell’utopia che spingeva in avanti l’attesa e allungava il futuro. La modernizzazione del Sud non c’è stata, non c’è stata una crescita economica del Sud, non c’è stato sviluppo ma, paradossalmente, il Sud è entrato, in qualche modo, a rimorchio della modernizzazione del resto d’Italia e la poesia più sensibile se ne è accorta. Ecco perché la poesia di Angiuli non si limita a perseguire la modernizzazione linguistica (riflesso acritico della modernizzazione tecnologica) ma si inoltra nell’unica direzione possibile: lo spazio della ilarizzazione dei nuovi linguaggi, della nuova koiné linguistica.

In Amar clus del 1984 Angiuli giunge ad un surrealismo tutto personale, nutrito di calembours e giochi di parole, una poesia scandita in strofe compatte e ariose, anzi, aeree tanto sono leggere che sembrano innalzarsi come palloni aerostatici:

Da bravo galeone fantasma
trasporta santi diavoli e cristiani
insieme a taciturni incubi di calce
da una sponda all’altra della notte
beccheggiando dentro un tempo acquoso
che affila le sue onde a mannaia
contro parole in pietraviva

Un giorno l’altro (Aragno, 2005) è un libro emblematico del, se mi si passa la dizione, «ritorno all’ordine» di Angiuli: qui opera il principio di demistificazione e ironizzazione a tutto campo che non risparmia né il profano né il sacro: è il disincanto della leggerezza e del principio di ionizzazione del reale: «mi faccio un giorno o l’altro come dico io / mi faccio una rima che finisca in dio» (con tanto di scorno delle forzate letture di chi ne fa un autore ligio al Vangelo). Nei testi di Angiuli c’è la piena consapevolezza stilistica della provenienza «dal basso» di certi lemmi e di certi stilemi per confezionare un tessuto materico e stilistico direi conglomerato, rassodato, nella accezione di composto chimico-fisico del discorso poetico, a distanza di sicurezza da ogni suggestione «sacrale» o di banale dissacrazione di ciò che da tempo immemorabile non è più «sacro». La versificazione appare più ordinata, variegata, anche la gamma lessicale è stata sottoposta ad un processo di rarefazione, sottrazione di substantia e alleggerimento; i miasmi della modernizzazione industriale, che in Puglia non c’è mai  stata, sono ormai fatti del passato (recente e remoto), i pensieri brulicano, si assiepano e sgomitano per prendere la forma della poesia:

minutaglia di pensieri senz’arte né parte
crosticine della vecchia ferita
in odore di maltempo
che non s’asciuga e non s’asciuga mai
*
vorrei scovare una parola
svestita senza niente addosso
nemmeno qualche finta foglia
ma non c’è verso d’adocchiarla
forse sarà esistita
in fondo all’antro della voce.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Il discorso poetico da elemento di resistenza  è diventato una condizione di esistenza: «Intanto il capitale impera / coi suoi monili luccicanti», non resta che operare per introdurre quelle innovazioni stilistiche e materiche ad una moderna poesia del Sud;  l’evento imprevisto o sensazionale («intanto s’affatica il mare / su cui galleggia questa storia / come un turacciolo ribelle») fa parte del gioco degli elementi e dei fattori noti e non. Senza contare il severo allenamento alla desistenza operata dal poeta pugliese, che ben si coniuga con la condizione (esistenziale) di chi si trova aldiquà e non può far altro che spedire Cartoline dall’aldiqua (Bari, Quorum, 2004), come frecce appuntite, al mondo di chi si trova sull’altra spiaggia della temporalità e mondalità mediatica. È la strategia della desistenza ludognomica quella messa in atto da Angiuli alla ricerca del «punto fermo» della terraferma dalla quale inviare i segnali di fumo, le «cartoline», le parole leggere sub specie aeternitatis. È la strategia stilistica messa in atto dal poeta pugliese, che può contare sulla desistenza e sulla persistenza del proprio gioco di prestigio, sul gioco serissimo che diventa fuoco d’artificio.

In una recente intervista Angiuli scrive: «nella vivace e variegata situazione contemporanea… la maggioranza azionaria è ancora detenuta dall’io lirico, che tende a riproporre la propria ontologia all’insegna di una resistente, autoriproduttiva, teleologica e forse datata mitologia letteraria». Parole quanto mai in equivoche che gettano un fascio di luce sulla chiarezza della impostazione di poetica dell’autore.

In questo itinerario, non sorprende che il poeta pugliese, una volta ogni dieci anni, sia tentato di sciacquarsi i panni nei fiumi della sua terra: è da qui che nasce la plaquette Viva Babylonia (LietoColle, 2007), una raccolta di cromatiche composizioni in idioma di Valenzano, una boccata di ossigeno dirimpetto alla invasione dei linguaggi della media-sfera che Angiuli tenta in tutti i modi di neutralizzare aprendo le maglie della sua poesia alle contaminazioni lessicali più spurie. Degno di nota è che in questa ricorrente cadenza decennale, in ben quattro raccolte, i testi dialettali sono in condominio con quelli in lingua e si incamminano progressivamente verso un multilinguismo (strategia ben diversa rispetto alla bidimensionalità separata e strabica delle odierne tendenze del neo-monolinguismo della conclamata e invasiva neo-dialettalità).

In questa lucida strategia della assimilazione della contaminazione  rientra sia l’istituto dello spostamento semantico, sia il lavoro sui suffissi e i prefissi («orto» che diventa «risorto», «dente» accostato a «per-dente» in Catechismo del 1998), degli scambi semantici tra parole diverse dove il «catechismo» del perbenismo della piccola borghesia pugliese viene catechizzato e sottoposto a dissolvente ironizzazione. È l’iconologia (anche religiosa) piccolo borghese della Puglia che viene marionettizzata e ludicizzata, con tanto di quel «dio» popolare: «nel nome di un dio come si deve / un padremadre di tutte le virgole / compreso il destino sonoro della calandra / il karma buono di un dentedileone…» (da Cartoline dall’aldiqua, 2004).

Colored Folks Corner

Colored Folks Corner

Siamo arrivati a L’appello della mano (Aragno, 2010), una sorta di metanarrazione della propria posizione di poetica, una derisoria riflessione (capovolta) sull’epoca della globalizzazione («Le mani hanno cento occhi / gli occhi cento mani /inutile chiudere sotto chiave tutto / quello che svolazza (…) ho ben altro da fare / con i cinque sensi»); il poeta pugliese ha compreso che il «lasciapassare dell’aria», la comunicazione universale, ha sottratto al discorso poetico le antiche sicurezze: le «tematiche», gli «interni», gli «esterni», il «paesaggio» rassicurante della poesia elegiaca, il linguaggio rassicurante dello sperimentalismo, i punti cardinali sui quali si fondava la scrittura poetica nel vecchio Novecento. Ormai si apre un’era nuova e si chiude il vecchio mondo stilistico.

Di un monastero abitato da respiri medievali
vado tuttora in cerca con bisaccia a tracolla
certo che lui un giorno mi spunterà davanti
proprio nel mezzo di una geometria vegetale

perciò apprendo la filosofia dal lazzeruolo che
abita nel paese più remoto dell’occhio mentre
dal percoco imparo a pigliare il sole in fronte
o puramente a non farmi la barba tutti i giorni

parolerò coi monaci che mi hanno anticipato
con le sagome loro svolazzanti intorno al pozzo
di un’acqua da sorseggiare nelle mani a coppa
domanderò come introdursi in una passiflora

uscendone con una pozione di salmi terrestri
adatti a mettersi a tu per tu con la roba celeste
poi basterà alzare gli occhi oltre il nono cielo
per fare alle malombre disumane il contropelo.
*

A quel convento cimato in capo a una collina
bussa ribussa il pensiero per domandare i voti
e andarsene appresso alla radice quadrata che
porta lì dove molti avverbi finiscono in mente

una pezza di marrone manufatto basta e avanza
un cordone lungo quel tanto che possa servire
ad abbracciare il mondo con fare meridiano e
i sandali per poter viandare a piedi nella testa

al buon convento della terraferma mi raggiunge
l’anima in persona per spalancare porte portoni
da molti secoli non la guardavo in faccia ma lei
mi riconosce subito a prima vista e primo udito

appesa al collo porta una cartapecora sgualcita
dove sta disegnata la parola d’ordine silentium
un mare di silentium da risciacquarci la lingua
in modo tale che il suono vero non si estingua.

*

Da un chiostro accampato nella murgia aperta
ai famosissimi cinque sensi più quello di scorta
con cui misuro le muraglie di pietre muricciole
ci sono chilometri di spighe ballerine e tramonti

in un minuto secondo passa lungo l’orizzonte
una sorta di ripensamento che non dice niente
eppure traccia una striscia di cose d’altro mondo
la controfirma di quello che da noi si chiama dio

passa anche un odore di stalla migrata nell’altrove
tra la lagna di una casedda ruminata da malerbe
e due querce stravecchie da sempre imparentate
col fantasma di un volpino squagliatosi nel giallo

se poi compare la ferma essenza di un pio bove
allora sì che faccio terno nel suo occhio incantato
in cui sparisce la differenza tra ieri oggi domani
sì da poter slegare il cuore con entrambe le mani.

Lino Angiuli

Lino Angiuli

In questa cella vive una specie adriatica di alba
sbucata dall’acqua marina a due passi dal piede
fino ad allagare tutti i tabernacoli della mente
dopo aver sbarcato ossa di miracoli color caffè

quelle di sannicola e di sangiorgio per esempio
insieme alle milleunanotte di storie e patorie ai
contrabbandi di vite agli smerci di carne umana
alle malarie che combina l’homo qui dove però

vennero altre anime a raschiare l’umore del tufo
con il tantumergo rimasto impigliato al cappero
basta spegnere la radio dell’estate per ascoltarne
le note insieme alla ronda di api attorno attorno

basta una branda di sabbia circoscritta dal timo e
una grotta scarrassata dal sole verso mezzogiorno
per mantenere a cuccia la frescura d’ombre sante
tra cento viavai di un’onda galoppata dal levante.

*

Con l’abbazia d’un cielo fatto a cielo me n’esco
a pascolare il mio grillo canterino voglioso di
sviolinare la stella che da sempre lo allatta e di
salmeggiare a modo suo in onore della lunanova

gli passano così le brutte insonnie del malincuore
i calvari della grasta in terracotta tra vasi di ferro
gli inverni con le sue mazzate di coltello amaro
le gelature che gli stutano la parlantina in gola

meglio farsi un quartino o una quartina solitari
abbandonarsi alla notte come fosse l’ultimora
giocare con il buio a mosca cieca senza la paura
del giorno che pianta bombe per cogliere tombe

malemale domani mattina sposerà una zucchina
col fiore aperto a strombazzare le lodi pacchiane
lei non sa se potrà farcela a vedere un’altra sera
eppure in cuor suo sa che la propria vita è vera.

*

Su l’eremo di settembre veleggia una boccata d’aria
festeggia l’onomastico delle prugne color prugna
quelle ricevute in dono dal Qualcuno appostato
sopra l’altalena di una foglia eterna e passeggera

lì dentro c’è un sacco di roba che manco sappiamo
come una chiocciola mi ci chiudo da dietro e godo
questa brezza madrina di mandorle e ozoni strani
e di nostalgie giallognole scampate a un temporale

mi vengono incontro i fichi a mano disarmata ma
ripiena di fruttosio con cui provare ad addolcire
l’ombra scaraventata a terra dal fumo dei cannoni
inutili e scemi che fanno soltanto gridare peccato

peccato quei bambini che non possono fare poesia
peccato quelle donne col seno pendulo e vacante
peccato questi ulivi uccisi su un altare di cemento
peccati contro la vita che chiede un altro accento.

*

Per la cattedrale del sogno vado scolpendo origani
e rucole che si danno il cambio sul portale della
notte accogliendo un popolo di ombre pellegrine
tumefatte dall’assenza di luce e da vuoti di carne

a rimpolpare le loro lentezze accorrono i ricordi
accorrono i perdoni a tagliargli le unghie per bene
cosicché possano guarire dall’italico maltempo
e riuscire a incamminarsi sul tratturo del giorno

piano piano ecco si muovono in fila per quattro
per riempirsi la bocca con una manciata verde
c’è un cotogno che le aspetta proprio all’incrocio
tra l’autunno e una congrega di nubi pensierose

seminano nella testa la semenza di altri desideri
capaci di riempire le tasche di ortaggi consacrati
e accucciare tra parentesi quadre l’eterna fame
di sciocchezze che imbambalisce l’umano reame.

*

Tra me e la cappella della pioggia maestra di grigio
si stende una sera enorme quanto il lago maggiore
biodegradabile al centopercento più o meno come
le lacrime e tutto ciò che mi inumidisce l’ossario

allorquando anche il cielo si abbassa le mutande
così da acchiapparlo con un pensierino rasoterra
resuscitato dalla muffa come un cavolo a merenda
eppure buono a trasportarmi altrove tutto intero

è forse questo il tempo giusto per ridare la corda
ai sorrisi arrugginiti che fanno capolino dalle foto
ai memoriali che salgono su una scala senza pioli
e scendono con una cesta di frasi infreddolite

il tempo giusto per farmi amico quel cipresso lì che
ogni giorno mi fa buongiorno con la mano mentre
m’invita ad adacquarla bene la mia beata solitudo
perché cresca tanto da far rima con sola beatitudo.

*

Fra un migliaio di nicchie abitate da mille madonne
cerco quella incassata in fronte a una casa vacante
quella da cui fu sfrattato un qualche santo eremita
allergico alle messe cantate ai ceri e agli incensieri

voglio abitare lì in compagnia di calce alla buona
per contare i minuti della mia eternità giornaliera
senza vetrina fermo dentro una canottiera di lana
dieci parole al giorno cinque scritte e cinque orali

dimodoché venga un silenzio a dire uffa e poi uffa
a quelle moine terrene che non cambiano mestiere
e venga l’edera giustiziera che campa di campagna
a tinteggiarle di verde a botta di ramaglie e foglie

avrò tutto il tempo per farmi perdonare dal carrubo
giacché è dal secolo scorso che non l’ho più potato
purtroppo la testa è caduta dentro la rete dei casini
e solo ’sta nicchia può restituirmi i puntini puntini.

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Marco Onofrio legge LA GRANDE BELLEZZA di Roma in un libro fotografico di Franco Spuri Zampetti

Roma CopertinaConcepire un libro su Roma (un altro, dopo le migliaia di pubblicazioni uscite) è come affrontare un oceano della conoscenza che dà le vertigini. Ci vuole coraggio e un pizzico di incoscienza. La città della “grande bellezza” è praticamente inesauribile: ed è perciò quanto di più arduo e affascinante gestirne le irradiazioni, tentando invano di contenerla o di venirne a capo. Roma non entra negli schemi, non si lascia prendere: sfugge da ogni parte, come l’acqua dal cavo di una mano. La gioia di guardare studiare fotografare scrivere Roma può talvolta ombrarsi di sbigottimento, di sconcerto. Si raggiunge così il sentimento che Gabriele d’Annunzio, in quel capolavoro liberty che è il romanzo Il Piacere – ambientato nella Roma salottiera e mondana di fine ‘800 – definisce «l’oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara».

Roma Palazzo della Consulta - Quirinale

vista sulla piazza del Quirinale

Come gestire il mare senza sponde di questi 2768 anni di Storia? Trasformando appunto la Storia (con la “s” maiuscola) nelle storie infinite che la compongono: parcellizzandone, cioè, il blocco monolitico che ci intimorisce, nella possibilità di saggiarne frammenti significativi. Perché ogni frammento parla dell’insieme di cui fa parte. Ecco dunque l’idea vincente di Roma in particolare, lo splendido libro fotografico dell’architetto romano Franco Spuri Zampetti (ISBN 9788890722141, pp. 226, Euro 49). Scrive Iosif Brodskij (Premio Nobel per la letteratura 1987), a chiusa della dodicesima e ultima delle sue Elegie romane (1981):

«Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come / può soltanto sognare un frammento! Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina. / Basta per tutta la lunghezza della tenebra».

 L’assemblaggio delle oltre 200 fotografie che compongono il volume di Zampetti configura una sorta di traduzione iconografica delle parole di Brodskij. Immaginiamo Roma come un sole, e il sole come archetipo dell’oro: l’occhio di chi fotografa Roma è chiamato a darci “spiccioli di luce”, cioè monete sonanti e vive, ciascuna rappresentativa della sua grande e inestimabile ricchezza. L’inconoscibile essenza di Roma è nell’oro che resta impresso sulla rètina, dopo aver guardato. Roma è una città che, nella dimensione sublime della sua bellezza, inonda la mente di luce: vive come un sogno, negli spazi sterminati dove parla – ad ogni uomo – le verità dell’anima. La suggestione di Roma svela nel silenzio i confini senza tempo dell’infinito. Per capirlo basta sprofondare con lo sguardo e con il cuore nella luce dorata di certi suoi crepuscoli, che ammantano le cupole di eternità. Ogni frammento, allora, è una goccia nel mare di questa luce. Roma è la totalità ideale che eternamente sogna ogni suo frammento. L’idea di base è appunto questa: Roma tutta è in ogni luogo che singolarmente la compone. Anche nel dettaglio in apparenza più banale, più insignificante. Che poi la banalità e l’insignificanza – a dire il vero – sono, o non sono, non nelle cose in sé ma dentro l’occhio di chi guarda.

 Autunno a Ponte Milvio

Autunno a Ponte Milvio

La grande bellezza di Roma si svela (più che attraverso visioni oleografiche dei suoi “loci deputati”, rimasticati e noti, ormai, in tutto il mondo) attraverso particolari epifanici, aperti e quasi scontornati, nell’immensità storica e simbolica che li contiene, e li rivela, e ci vibra dentro. Occorre dunque partire dallo scacco amaro della totalità impossibile per risalire al contrario le vie d’acqua dolce che ad essa conducono: dal mare ai fiumi ai ruscelli ai rivoli alle sorgenti. Si individuano dei “tagli” particolari di lettura della facies policentrica e stratificata, e si usano come calamite di aggregazione del significato, a mo’ di tracciati di attraversamento della complessità; che risulta così scorporata nei suoi elementi semplici: ma non ridotta o semplificata, proprio perché in ogni parte si riverbera il tutto. Enucleare un particolare sugli altri, dal contesto “Roma” (praticamente infinito negli echi delle sue millenarie stratificazioni), significa porre l’accento su una dimensione simbolica che da quel particolare riconduce al contesto, e dal contesto a sua volta riconduce al particolare, come in un gioco di specchi. Ecco il fascino meraviglioso di queste fotografie, che concentrano il focus di una ricerca ontologica, e in un certo senso metafisica, nei dettagli più “insoliti” della facies urbana acquisita, o negli aspetti meno noti dei “soliti” luoghi, anche quelli più conosciuti e rappresentativi. Tutti i grandi fotografi del ‘900 – da Man Ray a Robert Capa, a Henry Cartier Bresson, a Ferdinando Scianna, a Gianni Berengo Gardin – hanno contribuito a definire la fotografia come grande “arte ontologica”. Si recupera a distanza di secoli il potere irradiante della claritas tomistica: il fotografo bracca le cose e attende con pazienza il momento epifanico in cui, per un misterioso ineffabile animarsi dei loro connotati, aprono la loro scorza e confidano il loro segreto essenziale, il loro senso.

Palazzo del Quirinale

Palazzo del Quirinale

Leonardo Sciascia parla di ritratto fotografico come “entelechia”, cioè destino necessità e rivelazione del personaggio. Questione di “aura”, fin dai dagherròtipi. Il fascino infinito della luce: l’apertura cosmica del mondo catturata, nei suoi fondamenti invisibili, dallo scatto che interrompe la continuità unica del divenire. Un istante irripetibile è fermato per sempre, congelato in una forma che lo uccide come vita ma lo salva dall’evanescenza. Scrive Walter Benjamin in Piccola storia della fotografia:

«Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo».

Zampetti respira le aure di Roma: acque, luci, pietre, cupole, scorci, quadri viventi. E alla fine del volume si diverte a incastonare un sonetto romanesco inedito (“Aria de Roma”), da lui composto, dove si parla di aria che «amminestra, tutto ner turchese», di sinfonia del «venticello» che accarezza i platani e increspa il Tevere, di «ponentino» serale che però è «difficile a stana’ co’ l’obbiettivo». Zampetti, in altre parole, avrebbe voluto fotografare anche il vento, portando cioè alla luce le dimensioni nascoste e invisibili della realtà ordinaria. L’uso stesso del verbo “stanare” è significativo della sua volontà di utilizzare la macchina fotografica come strumento di indagine conoscitiva, e scavo nel segreto di ciò che si nasconde.

Fontana a Piazza del Popolo

Fontana a Piazza del Popolo

Ma Zampetti va ancora più in là: si diverte ad accoppiare le foto, facendole “baciare” a libro chiuso, con la cerniera di una libera interpretazione, a partire dai loro addentellati. E in tale processo di associazione si scatena la creatività del fotografo, che mette in campo gli stratagemmi retorici più efficaci e persuasivi, tra cui si riconoscono facilmente – anche in seno alla stessa immagine – le figure classiche della similitudine, dell’analogia, della metonimia, della sineddoche e, più rara da trovare, dell’antitesi. Ne esce un labirinto straordinario di visioni tra le quali perdersi, senza smarrire il “filo d’Arianna” della bellezza, col suo fascino infinito, e dove continuare a trovare, riconoscendosi in ciò che la pagina “apre”, la carezza calda di quella luce profonda e antica, ma sempre nuova, che è Roma – agli occhi di ogni uomo che la “vede”. Una Roma storica, eterna, perenne, conosciuta e misteriosa, consueta e irripetibile. La città “de noantri” insieme alla nuova metropoli multiculturale. Zampetti insomma ci fa capire meglio ciò che già sappiamo: che la Città Eterna, nell’universalità del suo “particolare”, è patrimonio di tutto il mondo: basterà sfogliare le pagine di questo libro per averne ulteriore e grandiosa conferma.

Riflesso a Vicolo della Volpe

Riflesso a Vicolo della Volpe

Santa Maria della Vittoria - La Morte.

Santa Maria della Vittoria – La Morte.

Dioscuri del Quirinale

Dioscuri del Quirinale

Aracoeli

Aracoeli

Stadio dei Marmi - Il calciatore

Stadio dei Marmi – Il calciatore

Bruma mattutina a Ponte Milvio

Bruma mattutina a Ponte Milvio

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in centinaia di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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POESIE SCELTE di Tadeusz  Różewicz (1921-2014) Presentazione e traduzione a cura di Paolo Statuti “Sono nessuno”, “Elpenore”, “Canto della gabbia”, “Il testimone”,”Chi è il poeta”, “Che bello”, “La spina”, “Le forme”, “Angolini”

Polonia assedio del Ghetto di Varsavia

Polonia assedio del Ghetto di Varsavia

 Poeta, drammaturgo, novelliere e saggista, Tadeusz Różewicz (1921-2014) – da qualcuno definito “specchio e sismografo della realtà contemporanea” – è senza dubbio il più illustre scrittore polacco della generazione cui la guerra tolse la prima giovinezza. E’ nato il 9 ottobre 1921 a Radomsko. Durante il periodo dell’occupazione si mantenne dando lezioni private e lavorando saltuariamente come operaio e corriere. Nel 1942 terminò la scuola clandestina per sottufficiali. Negli anni 1943-44 combatté nei reparti partigiani dell’Armata Nazionale.

Il primo volume di poesie, uscito nel 1947,  è intitolato non a caso “Niepokój” (Inquietudine, 1947). E’ l’inquietudine dell’uomo scampato allo sterminio, che lotta affinché le atroci esperienze che ha vissuto non si ripetano più. Ancora più incisive, da questo punto di vista, sono le due successive raccolte “Czerwona rękawiczka” (Il guanto rosso, 1948) e “Pięć poematów” (Cinque poemi, 1950). Il poeta penetra sempre più profondamente nelle questioni che lo travagliano, e sempre più faticosamente cerca la salvezza nell’osservazione dei mutamenti che avvengono nel suo paese. L’inquietudine morale continuerà a tormentare il poeta anche nei poemi “Równina” (La pianura, 1954) e “Srebrny kłos” (La spiga d’argento, 1955), nonché nel successivo volume “Rozmowa z księciem” (Colloquio con il principe, 1960). Il moralista non può permettere alla sua coscienza di quietarsi davanti a un mite quadretto della natura o in un pacifico idillio. Różewicz risveglia incessantemente le coscienze, perché la coscienza inquieta determina la ricerca della verità, e la ricerca della verità porta alla ricerca del bello. Różewicz è concreto e misurato. Cerca di cogliere l’essenza di un fatto, di un fenomeno, mette a fuoco ciò che vede e ne evidenzia gli elementi essenziali.

polonia fucilazione

Negli anni ’50 lo scrittore, pur continuando ad esprimersi nella poesia, iniziò la sua attività di novelliere e di drammaturgo. Sono apparse così le sue raccolte di racconti “Opadły liście z drzew” (Sono cadute le foglie dagli alberi, 1955), “Przerwany egzamin” (L’esame interrotto, 1960), “Wycieczka do muzeum” (Gita al museo, 1966) e “Śmierć w starych dekoracjach” (Morte tra le vecchie scene, 1970). Caratteristica specifica delle novelle di Różewicz è l’ostinata ricerca dell’umanità in ogni frammento di vita. E’ una prosa incredibilmente condensata, dai molti sottotesti, che scava il realismo dalle vicissitudini umane. Lo scrittore diventa maestro di una nuova prosa, che si può definire realismo poetico. Spesso intreccia elementi occasionali, brandelli di conversazione, il balbettìo di un ubriaco, annunci, frammenti di trasmissioni radiofoniche e televisive, di giornali e di libri. Tutto gli serve come materiale da costruzione, tutto si amalgama nel crogiolo della sua arte.

Altrettanto inquietante e originale come la poesia e la prosa, è la drammaturgia di Różewicz. Lo scrittore, giustamente definito un classico vivente, è sempre fedele a se stesso, alla sua visione del mondo, alle sue ossessioni e alla sua poetica. “Kartoteka” (Cartoteca, 1960), è il dramma di tanti uomini vissuti nel mondo della seconda metà del XX secolo, un mondo in cui lo scrittore scorge molti sintomi di caos e di crisi dei valori tradizionali.

Nei suoi drammi Różewicz è riuscito magistralmente a “spiare” lo stile di vita di certi gruppi sociali, il cui obiettivo è soltanto l’arricchimento e le cui aspirazioni sono esclusivamente di natura consumistica. Ad esempio in “Akt przerywany” (Atto interrotto, 1970), bersaglio dello scrittore diventa il livellamento, l’appiattimento dei costumi, che riguarda non solo la sfera dei problemi quotidiani, ma si imprime anche nella psiche dell’uomo contemporaneo, impoverendone la vita interiore.

tadeusz rozevicz

tadeusz rozevicz

Różewicz – drammaturgo ha creato una nuova forma teatrale, nella quale trovano posto la vita concreta, l’iperbole poetica, l’ironia e il grottesco. Il dramma “Pułapka” (La trappola, 1982), ritenuto da molti un capolavoro, è basato sulla figura di Franz Kafka. Vi si ritrovano fatti della vita di questo scrittore e alcuni echi dei suoi diari. Meditando su Kafka, Różewicz scrive anche di se stesso e un po’ anche di tutti noi, delle nostre paure, del destino dell’uomo – “animale immolato” del XX secolo, “intrappolato” dalla metafisica. La prima trappola di ogni essere umano è l’esistenza stessa. “Sono una trappola, il mio corpo è una trappola in cui sono caduto dopo la nascita”, dice Kafka nel dramma di Różewicz.

Scrive il drammaturgo: “Cosa mi lega al teatro? Al teatro mi lega il desiderio di scrivere un dramma veramente realistico e al tempo stesso poetico. Non è una cosa facile, perché non so in cosa si differenzi il teatro poetico da quello realistico. Considero tutta la mia creazione come un’incessante polemica con il teatro contemporaneo e con le recensioni teatrali.

Nel suo libro “Il teatro della comunità” il regista Kazimierz Braun scrive: “Dopo Wyspiański e Witkacy, dopo Gombrowicz e Mrożek, proprio Różewicz, a mio avviso, è il più autorevole drammaturgo del teatro polacco contemporaneo. Attualmente proprio lui traccia l’indirizzo delle ricerche più importanti”. E’ inutile dire che i drammi di Różewicz sono rappresentati sulle scene di tutto il mondo, inclusa  l’Italia.

Tanti anni sono dovuti passare, prima di riuscire a capire che lo scrittore poeta non ha il diritto di disprezzare, ma ha soltanto il diritto di amare” – ha scritto Różewicz nel volume di saggi “Przygotowanie do wieczoru autorskiego” (Preparazione a una serata d’autore, 1971), e forse in questa affermazione  risiede la verità sull’evoluzione di questo scrittore, la cui creazione ha sempre reagito vivacemente sia alle grandi crisi politiche del nostro tempo, sia a tutti i fenomeni della sfera esistenziale, culturale, di costume, attraverso i quali un umanista del rango di Różewicz non può passare indifferente. Giustamente ha detto Konrad Górski che “non si diventa umanisti per caso. La passione del conoscere in un umanista nasce da un’esigenza istintiva, per capire il senso della vita, per scorgere il legame tra l’enigma del mondo e il destino morale dell’uomo”. Queste parole si adattano alla perfezione a tutta l’opera di Tadeusz Różewicz.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Da tanti anni mi occupo di letteratura polacca e conosco bene questo scrittore. Ma c’è una cosa che continua a stupirmi: che cioè non abbia ricevuto il Nobel per la Letteratura, al pari di Henryk Sienkiewicz (1905), Wladyslaw Reymont (1924), Czesław Miłosz (1980) e Wisława Szymborska 1996). In ogni caso ormai è troppo tardi, perché questa grande figura della letteratura polacca è scomparsa il 24 aprile del 2014.

                                                                                                         Paolo Statuti

 Tadeusz Różewicz   1979

Tadeusz Różewicz
1979

Altre opere di Tadeusz Różewicz:

Poesia

“Czas, który idzie” (Il tempo che va, 1951)
“Wiersze i obrazy” (Versi e immagini, 1952)
“Nic w płaszczu Prospera” (Il nulla nel mantello di Prospero, 1962)
“Duszyczka” (Piccola anima, 1979)
“Płaskorzeźba” (Bassorilievo, 1991)
“Recycling” (Recycling, 1998)
“Nożyk profesora” (Il coltellino del professore, 2001)

Teatro

“Grupa Laokoona” (Il gruppo del Laocoonte, 1961)
“Śmieszny staruszek” (Il vecchietto ridicolo, 1965)
“Wyszedł z domu” (Se n’è andato di casa, 1965)
“Spaghetti i miecz” (Gli spaghetti e la spada, 1967)
“Przyrost naturalny” (Incremento demografico, 1968)
“Na czworakach” (Carponi, 1972)
„Białe małżeństwo” (Matrimonio bianco, 1974)
“Odejście Głodomora” (La partenza del morto di fame, 1976)
“Do piachu” (Morto e sepolto, 1979)
 

Poesie di Tadeusz Różewicz tradotte da Paolo Statuti

Sono nessuno
the dogs leap on Actaeon
Fu condotto
al luogo di pena
il 24 maggio 1945
alle ore quindici
Ich bin Niemand
Mein Name ist Niemand
lo riconobbi dagli occhiali
e dai peli sulla faccia
aveva allora 60 anni
portava una rozza uniforme
scarponi militari
cintura e lacci
si toglievano alle persone
rinchiuse in gabbia
nei giorni afosi
sfoggiava verdi-oliva
mutande e maglietta
le stecche della gabbia furono rinforzate
diceva che dalla pazzia
lo salvava un’antologia di liriche
che aveva trovato nella latrina
that from the gates of death,
that from the gates of death:
Whitman or Lovelace found
on the jo – house seat at that
in cheap edition!
Whitman liked oysters
stringo alleanza con te
Walt Whitman
Ti ho detestato
troppo a lungo
vengo da Te
come bambino adulto
che aveva un caparbio
padre
sono Nessuno
conoscete Nessuno?
il poeta è una bestia
affogata nel mondo
per questo è così insicura
di fronte al mondo
und schritt im Käfig
auf und ab
ohne einen Blick
nach draussen zu werfen

poi lo lasciarono andare
nel serraglio

calcò nell’erba
un sentiero circolare
che non conduceva
all’abbeveratoio

il ballo dell’intelletto
tra le parole

trovò il manico
di una vecchia scopa
il manico si trasformò
nelle sue mani
in spada
racchetta da tennis
stecca da biliardo
bastone da passeggio

Interrogatorio
nel tribunale di stato
del distretto di Columbia
13 febbraio 1946

Mister Pound è qui
Voglia alzarsi e mostrarsi
Alla corte
Grazie

– Qualcuno conosce Mister Pound?
– Io lo conosco
– La poesia che lei ha letto era buona?
– Penso che quello che ho letto fosse in regola
– Il fatto che avesse mania di grandezza
e una buona opinione di sé
è una cosa singolare, anormale?
– Non nel caso di un poeta
– Ed egli è uno dei più illustri
poeti
– Sì
– Capisce egli di aver commesso un tradimento?
– L’accusato ritiene di possedere la chiave
della pace mondiale
tramite la comprensione e la spiegazione di Confucio
– Soffre di psicosi?
– Sì. Penso che soffra di mania di grandezza
e di manie di persecuzione…
Entrambe tipiche degli stati
Paranoici

Dalla cella della morte
fu trasferito
alla “Gorillakäfig”

il poeta è una bestia
affogata nel mondo
per questo è così insicura
di fronte al mondo

the dogs leap on Actaeon
stava nella gabbia
delle bestie feroci
di giorno
accucciato in un angolo della gabbia
di notte
nella luce dei riflettori

i guardiani tacevano

a volte un soldato passando
si fermava
osservava il curioso esemplare
poeta bestia traditore
“padre della letteratura contemporanea”

gettava nella gabbia
sigarette coccolata frutta
passava oltre
il vecchio bofonchiava
Usura usura usura
Rothschild Roosewelt Morgenthau
Usura usura usura
lodava le stragi hitleriane
il miglior fabbro

Ich bin Niemand
mein Name ist Niemand

the dogs leap on Actaeon

l’amore verso il prossimo lo praticavano Quelli
che respingevano la lettera della legge

sempre ho commesso soltanto errori
le parole per me non avevano più senso
risvegliato
mi stupisco

*

Elpenore come hai raggiunto questa buia riva?
Sei venuto a piedi? Precedendo i Naviganti?
Ed egli in risposta:
Triste sorte e molto vino. Dormivo nel focolare di Circe…
Uomo senza fortuna e senza nome.

Tadeusz Różewicz

Tadeusz Różewicz

CANTO DELLA GABBIA

Chi può Kto może
non vuo’ nie chce
Chi vuo’ Kto chce
non può nie może
Chi sa Kto wie
non fa nie czyni
Chi fa Kto czyni
non sa fare nie umie
e così la vita se ne va!

I sipari nei miei drammi

I sipari
nei miei drammi
non si alzano
e non calano
non coprono
e non mostrano

arrugginiscono
marciscono stridono
lacerano

il primo di ferro
il secondo di straccio
il terzo di carta

cadono
a pezzi

sulle teste
degli spettatori
degli attori

i sipari nei miei drammi
pendono
sulla scena
sulla platea
sul guardaroba

ancora dopo
la rappresentazione
si appiccicano alle gambe
frusciano
pigolano

(1967)

Tadeusz Różewicz

Tadeusz Różewicz

Il testimone

Tu sai che ci sono
ma non entrare all’improvviso
nella mia stanza

potresti vedermi
tacere
su un foglio bianco

E’ mai possibile scrivere
sull’amore
sentendo le grida
degli ammazzati e dei disonorati
è mai possibile scrivere
sulla morte
guardando le faccine
dei bambini

Non entrare all’improvviso
nella mia stanza

Vedrai un muto
e confuso
testimone dell’amore
l’amore vinto dalla morte

(1952)

Chi è poeta

poeta è colui che scrive versi
e colui che i versi non scrive

poeta è colui che si toglie le catene
e colui che le catene si mette

poeta è colui che crede
e colui che credere non può

poeta è colui che mentiva
e colui al quale hanno mentito

poeta è colui che mangiava dalla mano
e colui che mozzava le mani

poeta è colui che ha la bocca
e colui che ingoia la verità

poeta è colui che cadeva
e colui che si rialza

poeta è colui che va via
e colui che andar via non può

(1962)

Angolini

Autunno
le piogge dietro le finestre passano volando
le castagne si spaccano
saltellano
i ragazzi dalla scuola corrono
con un allegro grido
frantumano l’acqua

le cicogne sono volate via
soltanto un passero
col pelo rizzato nero
come un piccolo spazzacamino
aspetta le briciole
di pane del sole

la sera le nebbie si trascinano
per le strade

un uomo
va
sul globo terrestre
con la testa immersa
nell’universo

i ragazzini
non mettono nelle bottiglie
gli spinarelli argentati
e i neri girini

le ragazzine non intrecciano ghirlande
di calta palustre
e di azzurri nontiscordardimé

viene l’inverno

05.10.2002 WROCLAW TEATR POLSKI TADEUSZ ROZEWICZ URODZINY POETY FOT. BARTLOMIEJ SOWA / AGENCJA GAZETA

05.10.2002 WROCLAW TEATR POLSKI TADEUSZ ROZEWICZ

La spina

non credo
non credo dalla fine
all’inizio del sonno

non credo da una sponda all’altra
della mia vita
non credo in modo franco
profondo
come profondamente credeva
mia madre

non credo
mangiando il pane
bevendo l’acqua
amando il corpo

non credo
stando nei suoi templi
tra i suoi sacerdoti e segni

non credo stando sulla strada della città
in un campo sotto la pioggia
nell’aria
nell’oro di un annuncio

leggo le sue parabole
semplici come una spiga di grano
e penso al dio
che non rideva

penso a un piccolo
dio sanguinante
nei bianchi
pannolini dell’infanzia

alla spina che lacera
i nostri occhi la bocca
adesso
e nell’ora della morte

Le forme

Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse

si gettano sul loro creatore
lo lacerano e trascinano
per lunghe strade
nelle quali un tempo sfilarono
tutte le orchestre le scuole le processioni

la carne che ancora respira
piena di sangue
è il nutrimento
delle forme perfette

convergono così ermeticamente sulla preda
che perfino il silenzio non filtra
all’esterno

(dicembre 1956)

Che bello

Che bello Posso cogliere
i mirtilli nel bosco
pensavo
non c’è il bosco né i mirtilli.

Che bello Posso sdraiarmi
all’ombra di un albero
pensavo gli alberi
non danno più ombra.

Che bello Sono con te
il cuore batte così forte
pensavo l’uomo
non ha il cuore.

(1948)

Paolo Statuti

Paolo Statuti

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).

   Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.

   Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.

   A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska.

   Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

Traduzioni pubblicate di Paolo Statuti  dal polacco in italiano:

Baterowicz, Marek  “Canti del pianeta” Roma, Ed. Empirìa, 2010
Brzechwa, Jan   “Una giornata tutta da ridere con il prof. Kleks”  (Akademia Pana Kleksa)  Roma, Città Nuova, 1992
Brzechwa, Jan   “Avventure di viaggio con il prof. Kleks”   (Akademia pana Kleksa), Roma, Città Nuova, 1996
Broniewski, Wladyslaw   “La Comune di Parigi”  Roma, Ragionamenti n.180-181 gennaio-febbraio  1989
Dobraczynski, Jan   “L’invincibile armata”  Casale Monferrato, Piemme, 1994 (ristampa Milano, Gribaudi, 2011)
Dobraczynski, Jan    “La spada santa” (Storia di s. Paolo) Milano, Gribaudi, 2002
Dobraczynski, Jan    “Il fuoco arde nel mio cuore” (santa Teresa d’Avila)Milano, Gribaudi, 2004
Dobraczynski , Jan    “Ho visto il Maestro!”  (Maria Maddalena)  Milano,Gribaudi, 2005
Dobraczynski, Jan    “Il cavaliere dell’Immacolata” (s. Massimiliano Kolbe) Milano, Gribaudi, 2007
Ficowski, Jerzy       “Poesie”  Stilb n.7  gennaio-febbraio  1982
Ficowski, Jerzy        „Il rametto dell’albero del sole”  Roma, Edizioni e/o, 1985
Galczynski, K. Ildefons   “Visioni di san Ildefonso ovvero Satira sull’universo” Roma, La Fiera letteraria n.3   2 gennaio 1973
Grzesczak, Marian    “Poesie”  Roma,  Tempo presente  n. 9-10  giugno- Agosto 1981
Małgorzata, Hillar     20 poesie, Edizioni CFR, ottobre 2013
Iwaszkiewicz, Jaroslaw    “Poesie”  Roma, La Fiera letteraria n. 27  7 luglio 1974
Urszula, Kozioł    20 poesie, Edizioni CFR, marzo 2014
Lesmian, Boleslaw   “Poesie”   Roma, La Fiera letteraria  n.20   20 maggio 1973
Ewa, Lipska    20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014
Milosz, Czeslaw    “Poesie”   Roma, Tempo presente  n.6   dicembre 1980
Mrozek, Slawomir   “Un caso fortunato”   Sipario: rassegna mensile dello
Spettacolo  n. 315-316  agosto-settembre 1972  (tradotto
in collaborazione con Zbigniew Chotchowski)
Norwid, Cyprian k.   “Il pianoforte di Chopin”  Roma, Ragionamenti, n.183 aprile 1989
Pomianowski, Jerzy   “Guida alla moderna letteratura polacca, con annessa
antologia di poeti polacchi contemporanei” Roma, Bulzoni
1973  (traduzione di 62 poesie di poeti diversi)
Poświatowska, Halina  “50 poesie scelte”, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, 2014
Statuti, Paolo    “Viaggio sulla cima della notte: racconti polacchi dal 1945 a oggi”  Roma, Editori Riuniti, 1988  (questo lavoro è stato molto apprezzato da Herling-Grudzinski. Nell’antologia sono presenti
55 autori con un totale di 55 racconti)
Stryjkowski, Julian    “Austeria”  Roma, edizioni e/o  1984  (tradotto in collaborazione con  Aleksandra Kurczab)
Wojtyszko, Maciej    “Bromba e gli altri  e la saga dei Claptuni”  Effelle di Marino Fabbri   Roma 1986

Przygotowane do druku: K.I. Gałczyński   20 poesie, Edizioni Joker

  1. Kamieńska 50 poesie, Edizioni Joker
  2. Świrszczyńska 41 posie, Edizioni Joker

Dużo wierszy umieściłem w moim blogu musashop.wordpress.com

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OTTO POESIE di Eugenio Lucrezi, da NIMBUS (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Patrick Caulfield (1936-2005)

Patrick Caulfield (1936-2005)

Eugenio Lucrezi, otto poesie da NIMBUS, 100 esemplari numerati con interventi a mano dell’autore sulla copertina di ciascun esemplare, collana “Centodautore” a cura di Rossana Bucci e Oronzo Liuzzi, EUREKA Edizioni, Corato, Bari, 2015
 

eugenio Lucrezi nimbus coverCommento di Giorgio Linguaglossa

 A proposito del penultimo volume di Eugenio Lucrezi mimetiche (Salerno, Oèdipus, 2013 pp. 112 € 10.00) citavo Cesare Segre: «Un’opera letteraria è un prodotto semiotico che si realizza attraverso il codice-lingua». Direi che questa plaquette di Eugenio Lucrezi è una sorta di metalinguaggio che riflette sulle sorti della poesia. Di solito gli scrittori e i poeti sono alieni dall’indicare chiaramente quali siano i riferimenti testuali espliciti e impliciti di un’opera letteraria; ma quello che importa, in sede di lettura, non è tanto individuare tutti i possibili e probabili riferimenti intertestuali ed extratestuali contenuti in un’opera quanto le stratificazioni  di significati che sotto stanno alla superficie linguistica del messaggio. In realtà, la letteratura è una cosa che parla alla letteratura per mezzo della letteratura, è anche questo aspetto che legittima in parte il circolo ermeneutico. Il critico può ricostruire o no la storia di questa stratificazione ma ciò non porterà alcun sostegno determinante alla valutazione di valore di un’opera letteraria. Questo come preambolo. Sta di fatto che il libro di poesia di Eugenio Lucrezi già dal titolo vuole richiamare l’attenzione del lettore sulla relazione mimetica che lega gli enunciati del testo ad altri enunciati che l’autore si premura di farci conoscere. «Esercizi mimetici» (con le parole dell’autore) come esercizi di stile, confezionamento di un messaggio intertestuale con rimandi ad autori esterni e interni al testo: Kafka, Properzio, Amelia Rosselli, Sergio Solmi, Ovidio, Tommaso Landolfi e alla musica come ad esempio John Cage.

Dal computo della declinazione dei verbi degli enunciati notiamo subito una enorme preponderanza del presente, attorno ad essi non c’è né è importante uno sviluppo di azioni; c’è sì azione ma «mimetica», cioè imitazione e replica di un’altra azione; nei testi di Lucrezi le azioni verbali sono «mimetiche» di altro, stanno per altro e in luogo di altro; sono azioni alienate da una interna condizione di alienazione: nessuna cosa è così come viene detta (e ridetta) e nessuna cosa è così come appare ri-scritta. Nessuna cosa è in quanto detta e ripetuta e nessuna cosa è perché la parola «manca», anzi, la «mancanza» direi che si situa all’interno della parola nominante la quale è nient’altro che una nomenclatura che cita un’altra nomenclatura. Direi una parola-neutrino in grado di attraversare i tempi e gli spazi e le civiltà per approdare nei testi di Lucrezi. La «mancanza» è un quid costitutivo direi della nomenclatura frastica di questa poesia. Nel nomen non v’è omen. In questo quadro poetico-concettuale è chiaro che la poesia di Lucrezi non è tanto un labirinto di strade (il che presupporrebbe già una qualche direzione di senso e di significati) quanto una «radura» linguistica di un circolo linguistico ed ermeneutico. Il lettore che si inoltri in queste poesie perde la bussola, non ha orientamento. Analogamente, l’io del testo non ha più il ruolo guida del testo, il quale si dirama (e si dissolve) a secondo delle esigenze testuali e intertestuali, a secondo delle occasioni che la «mimetica» del testo suggerisce. L’«io» non ha più un luogo nel tempo e nello spazio, si è dissolto, o meglio, neutralizzato. E così anche la scrittura si «neutrifica» in un eterno presente che non contiene più un «io» legislatore ma una organizzazione quantica dell’«io», una dissoluzione, una presentificazione oscurata dell’«io», dove ci sono «solo pensieri freddi», tenuti a bassa e bassissima temperatura stilistica.

eugenio lucrezi con la moglie paola nasti

eugenio lucrezi con la moglie paola nasti

da NIMBUS
Da te la piuma, il ciuffo…

Da te la piuma, il ciuffo
che funziona da radar, e l’aspetto
avventato, sabbioso del vestito
che ti tiene e che indossi, se cammini
su sandali celesti. Lo scompiglio
che ti aggrotta le ciglia. Se non pensi
al peccato, solo vanto di questo
nostro volerci qua, tra fili e fili
d’erba che sbatte sotto file e file
di lampioni ingialliti, troveremo,
nel fioco della luce che va e viene,
un abbraccio da re, senza che il vento.

.
Fratelli
a Bernardo Kelz
La fratellanza aggiunge alla rinfusa,
se fosti tolto fu per dare terra
a una nuova radice, non fa niente
se la voce che parla dice forte
di stare al posto tuo. Qui, riparato
da te, il vento mi travolge. Abilitato
dal debito degli anni, prendo tempo,
convoco folle nuove al tuo cospetto.
Ma dare non è un dono, è la ventura
di chi nell’ecatombe chiude gli occhi.
Il tempo che mi prendo non mi è dato
da te, solo sfiorato nell’oscuro
dei sangui e delle lacrime. Nessuno
volle unirci nell’abbraccio. Ciascuno
per l’altro inconosciuto. Poco meno
di Dio, praticamente.

.
Icarico ( Franco Cavallo )

Essendo la poesia la disciplina
princeps dello scibile rispetto
alla filosofia, branca minore
dell’immaginativo delirare
che fa dell’uomo la piuma e lo svolazzo
di un alato destino,
chiedo che tu, nell’arco di un mattino,
insorga icarico e spicchi un presto volo
su nella mesosfera del palazzo
boreale del mondo, e poi, veloce,
mentre mantieni la dovuta altezza,
vada ad ispezionar, con l’emisfero
secondo della mente, pure l’altro
emisfero, a fianco della stella
del Sud, nell’australe emiciclio;
tanto per tuo dovere esplorativo
di dicitore ricognizionale;
e che poi caschi, tu, beneaugurale,
a capo fitto dentro all’accogliente
sorriso del pianeta disvelato:
che ti prende e ti tiene,
perché galoppi come a te conviene.

pittura-born-in-mexico-city-in-1963-moises-levy-prefers-achitecture-in-the-light

pittura-born-in-mexico-city-in-1963-moises-levy-prefers-achitecture-in-the-light

Paradiso

Il gran ristoro di cui parli, vuoi,
senza che veda il vento lanciasassi
di ghiaccio, punteruoli che trapassano
angeli inconsistenti che trattengono
bave di carne, se la neve sfrangia
bandiere di nazione paradiso.

Desolazione di cui parli, vuoi,
in questa notte di buio abbagliante.

Inizia la visione dove cessa,
per eccesso ipotermico di luce,
la febbre figurale del racconto.

Non sai che farne, sconfino dello sguardo.

Sai che non puoi tentare una ventura
con animo di volpe che leggera
lascia sul manto passi inapparenti.

Fuggono ad una ad una, le figure,
anche quelle viziate dalla luce
in una posa illogica, di affanno.

Anima su due zampe che saltella,
t’inoltri, bianca lepre senza manto,
sulle coltri sottili.
In fondo, dove
non c’è niente da fingere, ti aspetta,
mite, la dedizione ad una carne
di quelle che non mangi per rifiuto
di chi non ti appartiene, e che non vuoi.

.
Livia

Essere un angelo ha un costo, le ali,
con l’esistenza che pesa e non vuole
saperne di levarsi, fanno solo
rumore, un fastidioso
frullare con affanno inconcludente.

Fare l’angelo costa, a te hanno dato
l’intera paga, il soldo del soldato
celeste. Raramente
ti sei mossa da terra, la tua grazia
cozzava sul soffitto della stanza.

Il soldo lo hai tenuto in un cassetto,
la luce che emanavi rifletteva
raggi infiniti contro la parete
trasparente della finestra.

Frullare d’ali nella cameretta.
Sorella lieve raggiungi la tua schiera.

Mater, secuta es, te sequor, mater

roma La dolce vita Fellini

roma La dolce vita Fellini

Bambina folgorata, ante senza
lo spessore del legno, ante di luce
che trafigge e non supera gli ostacoli
che si frappongono tra te che sei piccina
e la statua statura, e non di marmo,
ma di carne finita, miserabile
e per ciò proprio cosa che fa piangere,
e tuttavia si apre ed è accogliente
non sapendo che no, che tu rifiuti,
che lei stessa non è che un gran rifiuto
flessuoso e malinconico.
Malinconia imponente che non passa,
splendore opaco di stelle mai formate,
mater, secuta es, te sequor, mater.

*

Dopo che sei cresciuta non si stacca
la presa, mano mano
l’anta socchiusa smagra, e disodora
il legno esposto al vaglio di intemperie
come fiumi di lacrime, rimedio
stretto tra braccia secche di crisalide.
Ora, ad altezza d’uomo, occhi di donna
senza trastullo d’onda e senza culla.
Non c’è tempo di dire, ed un sospiro
certifica l’evento d’esser nate
l’una di retro all’altra, e il carnevale,
duro, da inverno triste, per il non
aver giocato insieme per un pelo.

*

Tu non ci sei riuscita. Ed io neppure
per un istante ci ho provato a muovere
la liana inestricata degli abbracci.
Non c’è vita nei corpi, la speranza
avidamente si nutre di digiuni.
Se socchiudi la porta, sento i cardini
lamentarsi di notte degli spifferi.
Invece dell’intrìco, avrei gradito
battere insieme a te la prateria.
Non ci siamo riuscite. Così sia.

Spoglia-frumento (Maria)

Lamina d’oro la spoglia della madre.
Semisepolto a calce il crocifisso,
non è polvere d’oro, ma terriccio,
il tuo letto di piume.
T’immagino frumento destinato
a una falce remota, siderale.
Raccolto inattingibile, in un’orbita
lontanissima dal missile che sei,
nel tuo letto di stelle.
Làscito è l’astrolabio per il calcolo
di quel sacco di juta. Tengo fame
di chicchi congelati, che mi nutrono
come latte di te, bambina madre.

.
Nimbus

Nimbus water pregnant
standing in the sky.

It’s going to rain.

Between the nimbus
and solid ground
drops and drops
of sound.

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CINQUE POESIE E CINQUE POETI SUL TEMA DELLA MORTE O DELLA QUASI MORTE- L’ULTIMA GENERAZIONE: Valerio Gaio Pedini, Matteo De Bonis, BSA, Ambra Simeone, Mariano Menna, Daniela Guarnaccia a cura di Ambra Simeone e con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il tema della morte è un classico della riflessione poetica e filosofica. Ne Il mito di Sisifo Camus dice che una filosofia che non sa liberarci dalla paura della morte è una filosofia inutile. Heidegger ontologizza la morte e ne fa una destinazione dell’esserci, la sua forma costitutiva in-der-Welt-sein. Spinoza, Adorno, Ortega y Gasset e molti altri filosofi hanno violentemente protestato contro questa invasione dell’ontologia della morte ed hanno parlato dell’essere-per-la-vita quale forma costitutiva dell’ente umano, quell’ente autoprogettantesi, che progetta, getta i ponti dei propri progetti sopra l’abisso della morte e di là costruisce la città-della-vita.

Che il gruppo dei giovani dell’ultima generazione scriva poesie sul tema della morte era quasi inevitabile, da sempre i giovani hanno un rapporto privilegiato con la morte, la considerano con condiscendenza, con sussiego, anche con sarcasmo, magari con ironia, spazzano il campo dalla facile analogia morte-immortalità, dichiarano la loro aperta diffidenza verso ogni teoria che addomestichi la morte in ideologia per essere utilizzata contro i vivi e la vita. Mi sembra che in queste scritture ci sia una sana antiretorica avversa alla falsa retorica della morte di cui abbonda tanta non originale poesia dei nostri giorni.

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Gloria te o morte: monologo mortuario

Asfissia: una parola complessa, penso: ché poi mica tanto complessa è
La NATURA del mio precipizio UMANO:
ora, non è per fare il filosofo: la filosofia è un’accozzaglia di ipocriti: di uomini soli:
di uomini e basta: LA CRITICA DELLA RAGION PURA: ma quale RAGION PURA.
“Gloria Teo Morte!”
Riecheggia nell’Alba, che è solo un Tramonto, nel tramonto, che è solo un’alba!
Sfiorire è nascere, nascere è sfiorire:
perire lentamente.
No, no, no, no, no, no, no, no, no, no, merda, merda, merda, merda, merda
Non credete alla sanità delle parole! Alla ragione!
La terra è rimpianto, pianto isterico: nostalgia: i fiori appassiscono nascituri
Com’io mi sgretolo nella mia tirannia psicologica:
fatto, disfatto
Mai cercai Morte
Gloria Teo Morte
È la morte che vive dentro di me, di noi, di tutto: là dove c’è vita c’è morte: è solo il principio di un equilibrio cosmico:
“Non incontrerai mai la morte” profetizza Epicuro, filosofo del giardinaggio.
Nooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo! La morte vi è poiché esisto, poiché nacqui, poiché fui generato: senza la vita, non vi è morte, senza la morte non vi è vita
È tutto uno sfiorire lento
Calpestato dai nostri piedi:
l’uomo? È un suicidio: un suicidio permanente che deve essere terminato, perché io sono uomo che supera l’uomo e che non vuole esserlo
come nessuno mai, consapevole delle proprie debolezze, del proprio dolore, della propria disarmonia!
Assuefatti a scomparire siamo cadaveri mangiati dai vermi, ma almeno nutriamo i vermi:
dalla cenere può nascere ancora qualcosa, oh uomo:
ascolta Eraclito, era più profeta di Cristo: Tutto Scorre, Tutto Muta: un sasso sarà pur un’altra vita, perché darà vigore alla Terra: finalmente.
Dove sarà quell’unico corpo di VITA, lì troverò SPERANZA nella FINE DEL TEMPO: la fine del VACUO.

matteo-de-bonis

matteo-de-bonis

Matteo De Bonis

Morte di un lirico ideale
a Salvatore Toma

Attraverso
le diroccate rovine di un
ponte carnale a voi
fluiscono ora,
purché siano rigonfie,
coorti di rose immaginose che
auliscono.

Mentre
la penna danzante avanza
su fogli puntellati col sangue,
piombavano
e vincevano nerborute
fisicità.
Un lirico ideale è stramazzato in terra,
colpito da ventitre coltellate. Ahimè!
Attraverso le voci singolarmente
affettate per voi
s’impennano ora, che sommuovano
almeno,
coorti di rose immaginose che
occhieggiano.

Bsa

Bsa

BSA
Morte

Insopportabile sarà
la Vita per colui che
la Morte non ha accolto nel suo cuore.
Nascere, morire, nascere,
morire, nascere. Questa la Natura
dei Vivi. Nascer non puoi senza
Morte, Vita mai sarai così bella
togliendo la precarietà. Zeus stesso
questa c’invidiava.

io io io io io io io io io io
sono Immortale finché non penso.
Ma gl’Immortali sono i soli già morti.
Rinunci a pensare alla Morte,
Rinunci a migliorare ed accettare ciò
che non ti piace. Morto in vita per
la Morte evitare. Ipertrofico l’IO
rende stupido, impreparato e banale.

Finalmente morrò, il mio zainetto
di carne lasciato a biodegradare, finalmente
dopo tanti pasti uno abbondante
lascerò al microscopico
mondo batterico, sempre attivo, sempre cangiante.

Dei rimanenti 21 grammi non so, non m’interessa.
Troppo difficile cercare una risposta, che
se esiste mi sarà data al giusto momento.
Ripeto senza sosta:

Morte ti amo, perché parimenti
amo la Vita.

Ambra Simeone

Ambra Simeone

Ambra Simeone
alcune indicazioni utili da ricordare in caso di morte

in caso di morte violenta per guerre o genocidi sulla striscia di Gaza
ricordarsi di postare su facebook tutte le foto più orribili, così che qualcuno le veda
e rimanga sconvolto un minuto e poi scriva sì mi piace oppure lasci un commento,
in caso di funerale di parente, di amico o conoscente che dir si voglia,
ricordarsi di applaudire e di mettere sulla bara la bandiera della squadra del cuore,
che poi si potrebbero portare anche una o due trombe da stadio, che fanno colore,
in caso di suicidio di poeta sconosciuto ricordarsi di scrivere più articoli sui blog
che parlino di lui, del suo sfortunato destino e di come non se lo cagava nessuno,
perché adesso, adesso ci sta davvero a cuore e quel che scriveva ora ci piace,
in caso di morte dell’autore più noto, ricordarsi quanto meno di ristampare
tutto ciò che lo riguarda, biografie, prime uscite, vecchie lettere e cartoline
poi ricordare a tutti che è stato importante e vendere tutto quel che è possibile,
in caso di morte di muratore o minatore, dirlo in tv una volta sola e poi basta
in caso di morte di dittatore o d’imprenditore ricordarsi di dirlo più volte,
scrivere libri sulla loro vita e ingaggiare opinionisti che ce ne parlino tanto,
in caso di morte di bimbo, investito da ubriaco, ricordarsi di avviare il processo
in caso di morte accidentale di un cane sotto l’auto di uno che non lo aveva visto,
non dimenticare di chiamare un po’ di gente, che ci aiutino a farlo un poco a pezzi,
in caso di morte per droga di un cantante o di un attore, non vogliamo mica non
glorificarlo, si ci facciano su un paio di film, una serie di quadri e tre reportage,
insomma casomai vi doveste scordare, alcune indicazioni utili in caso di morte.

mariano menna

mariano menna

Mariano Menna

La ballata del suicida
Troppe, lunghe ore, io passo ad aspettare
la fine di una vita che non ha più altre trame.
Chiuso nel mio buio, nella mia paura,
appeso ad una corda rendo a Dio la sua fattura.

Questo suo regalo che voi chiamate vita,
non è che una bestemmia ormai finita.
Penso ai miei tre figli che sto per lasciare,
perché nel mio corpo l’aria no, non ci può stare!

Diventerò un suicida quando il gallo canterà,
non ho saputo reggere allo stress della città
in cui venuto al mondo, già stanco per natura,
mi sono condannato a tanti debiti d’usura.

Tanti i fallimenti che ho dovuto sopportare,
troppe le ferite che ho tentato di guarire,
ora lascio il mondo e voi lasciatemi morire,
solo, in questa stanza, l’esistenza terminare.

Rido mentre piango, è scoccata la mia ora,
un ultimo consiglio lascio udir dalla mia gola:
“Non ripudiate il mondo perché, pur pentito, adesso
capisco questo errore, ma dovrò morire lo stesso…”

schimdtt, volti

schimdtt, volti

Ambra Simeone

geografia del verso

verso sud sempre verso sud ché
se ognuno è a sud di un nord è anche
per questo verso che scende e slarga
giù lungo questa pagina e nel bianco
che la seppellisce parola definitivamente
e la marchia nel vuoto per restare

così l’incontro questo pensiero
in un posto dove si nasce e si cresce
e lo si annoda alla penna ago di bussola
che verte in fondo e punta nel profondo
e chino seguendo leggi gravitazionali

ché nell’assenza della carta affiori
un discorso la sostanza dell’inchiostro
come dal mare un fogliame d’alghe
come cibo d’acqua rinfoltito al sole
non pioggia ma mare sacca di vita
a scandire il verso che cade in fondo
sotto sotto a sud in un altro solco

qui la parola resta in fondo alla pagina
come a forzare l’inizio e il principio
un rigo che viene per cadere e chiede
di essere ascoltato scavato a nostra immagine
e chiuso in limite in chi confida nel finale


Valerio Pedini

TRAMONTO

Mi acceco
Di ribrezzo.


SPERANZE

Siam come nel cimitero
I cadaveri
Nel ventre dei vermi.

.
Mariano Menna

Il giardino dell’Io

Adagiato su un manto di fiori,
osservo l’azzurro ed il bianco:
le ore mi assalgono in branco
e offuscano lo spazio di fuori.

La mente è alienata dal mondo;
si è chiusa in sé come un riccio,
ma l’esilio non è un capriccio:
è una morte che cela lo sfondo.

Incombono gli eventi sull’Io,
lo disintegrano senza ritegno:
il suo giorno è amaro destino.

Lieta dimora è questo giardino;
non v’è tempo di cui esser degno
perché l’uomo qui è il proprio Dio.

.
Daniela Guarnaccia

RECLAME

Semmai v’era da porre un rimedio
tosto che Dio col suo dito medio,
cercar lo si doveva nella rima
e nelle belle parole di prima.
L’etterno dolor è il presente
non si ritrova la perduta gente

Ma adesso: pubblicità
un po’ per non vedere
dove si va
un po’ per non capire
ciò che
non si fa.

PER LA TERZA VOLTA

Non m’importa ch’il sol abbia scelto
d’accorciarsi, non è questo
che muta del tempo la coscienza.
Ma quei mille e novantacinque giri suoi
che sono men d’uno
se tu lo vuoi.

BSA, Oudeis, Anam sono tre nomi usati dal “poeta”. Classe 1989, mai laureato, ha pubblicato i suoi scritti nella raccolta Viaggi diVersi (Poeti e Poesia), e varie volte con deComporre edizioni, in diverse antologie a cura di Ivan Pozzoni.

Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se potete, Rigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicala, Essence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme Liquide, Scenari ignoti e Glocalizzati.

MARIANO MENNA è nato a Benevento nel 1994. Ha conseguito la maturità scientifica presso l’istituto Polispecialistico Gandhi di Casoria. É iscritto al primo anno del corso di laurea in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2012 è risultato vincitore del Concorso Nazionale “Scrittura attiva” di Tricarico, nella sezione giovani, con la poesia La ballata del vagabondo; nel 2013 sono uscite due raccolte di poesie La grande legge e La pagina bruciata, entrambe edite da Marco Del Bucchia. É stato inserito nelle antologie: Poesia per Dio (La Ziza) e Fondamenta instabili (deComporre Edizioni). Alcune sue poesie sono apparse su blog e riviste online come “L’ombra delle parole” di Giorgio Linguaglossa, “Alla volta di Leucade” di Nazario Pardini, “La distensione del verso” di Sandra Evangelisti, “Le Reti di Dedalus” di Marco Palladini e “Poetrydream” di Antonio Spagnuolo. É membro cofondatore della corrente artistico-letteraria del Labirintismo.

AMBRA SIMEONE è nata a Gaeta il 28-12-1982 e attualmente vive a Monza. Laureata in Lettere Moderne, ha conseguito la specializzazione in Filologia Moderna con il linguista Giuseppe Antonelli e una tesi sul poeta Stefano Dal Bianco. Collabora con l’Associazione Culturale “deComporre”. La sua prima raccolta di poesie Lingue Cattive esce a gennaio del 2010 per i tipi della Giulio Perrone Editore di Roma. Del 2013 è la raccolta di racconti Come John Fante… prima di addormentarmi per la deComporre Edizioni. La sua ultima raccolta di quasi-poesie esce quest’anno per deComporre Edizioni con il titolo “Ho qualcosa da dirti – quasi poesie”. È co-curatore de “Il Gustatore – quaderni Neon-Avanguardisti” che hanno ospitato Aldo Nove, Giampiero Neri, Peppe Lanzetta, Giorgio Linguaglossa, Paolo Nori e molti altri. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e internazionali tra le quali l’albanese Kuq e Zi, la belga Il caffè e l’americana Italian Poetry Review e su antologie; le ultime due per Lietocolle a cura di Giampiero Neri e per EditLet a cura di Giorgio Linguaglossa.

MATTEO DE BONIS è nato a Cosenza il 27 Giugno 1991; è laureando in Filosofia e Storia presso l’Università della Calabria. Nel 2008 ha partecipato al premio letterario ‘Federica Monteleone’ nella sezione dedicata alla narrativa, figurando tra i vincitori. Nel 2011 ha partecipato e vinto la selezione regionale delle Olimpiadi di filosofia. Ha collaborato con numerose riviste on-line di cultura e filosofia. Attualmente s’occupa di tematiche quali i rapporti tra poesia e ontologia e la riabilitazione del sapere estetico. È uscito nell’antologia Fondamenta instabili (deComporre Edizioni).

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Aldo Onorati, dal nuovo libro “La voce e la memoria. Interviste a personaggi del Novecento” (EdiLet, 2015) – Intervista a Dario Fo (1978), con una nota introduttiva di Marco Onofrio

San Remo 2009 la pornostar Laura Perego ha fatto irruzione sul palco in perizoma e bodypainting

San Remo 2009 la pornostar Laura Perego ha fatto irruzione sul palco in perizoma e bodypainting

nota di Marco Onofrio

 Pubblicando questo volume di interviste e conversazioni, Aldo Onorati approfondisce la sua analisi dello “sfacelo umanistico” in atto nella società contemporanea. Come si è arrivati alla situazione che stiamo vivendo? Attraverso quali passaggi decisivi? Come e perché si è trasformato il mondo? Onorati raccoglie le analisi e le riflessioni elaborate, tra il 1960 e il 1989, a colloquio con una trentina di intellettuali italiani di rilievo. Le cose sono riportate nell’alveo della loro essenza e all’origine della loro aberrazione: gli articoli riconducono agli anni in cui, parallelamente al boom economico, cominciava a diffondersi la percezione reale, attraverso una coscienza critica acquisita, degli scenari già preconizzati dalla Scuola di Francoforte negli anni Trenta, ovvero il prezzo che la gente comune avrebbe pagato, in termini sociali e culturali, per la via intrapresa dalla politica, improvvida sostenitrice di uno “sviluppo” che in realtà mistificava logiche particolaristiche di profitto economico, appannaggio delle solite oligarchie.

   Onorati sollecita gli intervistati a confrontarsi; e lo fa con la visione ampia e olistica di un dibattito “aperto”, chiamando a interloquire persone distanti fra loro sia nelle idee sia nella prassi della vita, per cui la risultanza dei colloqui dipinge un quadro complesso, a 360°, degli scenari evocati. Sono conversazioni di particolare importanza testimoniale, poiché raccolte dall’interno stesso di una prospettiva di cambiamento, nello snodo nevralgico che articola la frattura tra il “non più” e il “non ancora”, tra un mondo che si allontana irrevocabilmente e un altro che comincia a manifestarsi. Dalla cartina di tornasole delle domande porte da Onorati, catalizzatrici di risposte rivelatorie e talvolta profetiche, si coglie il passaggio decisivo che porta alla luce della coscienza critica italiana il primo apparire dell’età “postmoderna”. Il mondo stava cambiando per sempre: dopo secoli di continuità, nulla sarebbe stato più come prima.

aldo onoratiSono interviste preziose per ricostruire lo Zeitgeist di questa grande trasformazione epocale, nella misura in cui riescono a catturare il clima ideologico e morale di alcuni decenni cruciali per la storia del nostro Paese, inquadrata nel più vasto ambito dell’Occidente: soprattutto gli anni ’70. I dibattiti suscitati dal confronto generatore delle idee si muovono dunque come sipari trasparenti e sovrapposti, sul palcoscenico dove la cronaca inscena la commedia della Storia: è un libro che occorre leggere tra le righe, nei suoi intrecci, nei suoi sviluppi, nelle sue pieghe nascoste, tra le spinte delle sue mille istanze propulsive.

Aldo Onorati Interviste copParticolarmente notevoli e ricchi suggestioni sono gli interventi di Dario Fo (qui riportato), Roberto Rossellini, Giorgio Bàrberi Squarotti, Diego Fabbri e Don Franzoni. L’intervista a Diego Fabbri è stata raccolta poco tempo prima della sua scomparsa e può quindi considerarsi una sorta di testamento spirituale. Quella a Dom Franzoni è stata raccolta pochi giorni prima della sua riduzione allo stato laicale, a causa delle divergenze ideologiche con le linee politiche del Vaticano. Di grande rilievo storico e culturale anche gli interventi di Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Giorgio Petrocchi, Gabriele Baldini, Domenico Rea, Sergio Quinzio, Goffredo Petrassi, Giulio Carlo Argan, Armando Armando, Giacomo Manzù, Leonida Repaci, Giorgio Saviane, Domenico Rea.

Aldo Onorati, La voce e la memoria. Interviste a personaggi del ’900, a cura di Marco Onofrio e Fabio Pierangeli (Roma, EdiLet, 2015, pp. 224, Euro 22)

  

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Intervista a Dario Fo (luglio 1978)

 Le stragi e il Potere – Il padrone e l’operaio – Il PCI e la cultura – I borghesi – Padova e Galilei – La scuola e le radici contadine e operaie – Il rito dionisiaco e il mito della dea madre – Il teatro – La droga

Domanda – La paura ricorrente dopo ogni strage si riallaccia alle sensazioni che ci sconvolsero al tempo dell’eccidio alla Banca dell’Agricoltura. Ormai è scoperto che la provocazione reazionaria orchestra un dramma che ci coinvolge tutti. Che cosa legge in questa trama così fosca?

Risposta – Quella provocazione, che pure fu gestita con abilità dai cosiddetti moderati, non funzionò solo perché le si opposero una classe operaia consapevole della sua forza e un’opinione pubblica attenta e culturalmente molto più matura di quanto non si aspettasse il potere, perché – sia chiaro – la provocazione di allora era la provocazione del potere. Uscì La strage di Stato, un testo che noi del circolo “La Comune” non solo leggemmo, ma divulgammo. Riuscimmo a venderne 25000 copie. C’era il processo “Lotta Continua-Calabresi” e noi, contemporaneamente, recitavamo la sera Morte accidentale di un anarchico. Lo avevo scritto – è ovvio – qualche tempo prima. C’era il problema di informarsi attentamente su quello ch’era successo. Ricordo che ebbi la possibilità di leggere, in via del tutto eccezionale, documenti importantissimi. Era sorto “Soccorso Rosso” e avevamo, quindi, contatti con decine e decine di avvocati, con gli stessi avvocati difensori di Valpreda e dei compagni messi in galera. Non mancarono neppure i giornalisti. Dunque, c’era il processo e noi, montando lo spettacolo, cercavamo di andare pari passo con quello che avveniva nell’altro teatro, quello della giustizia borghese. E venivano i compagni a sentire quei commenti, quelle informazioni di primissima mano. Fu allora che sentii per la prima volta un giudice parlare in pubblico. Era un giudice democratico che svelava come con quella grossa catena di delitti – le bombe sui treni, la strage, il gioco degli anarchici, etc. – si volesse in realtà constatare cosa succedeva e valutare la reazione.

Domanda – E quale fu la reazione del PCI e degli altri partiti di sinistra?

Risposta – Si affrettarono a prendere le distanze, partirono sulla difensiva, non capirono che bisognava invece attaccare subito e non permettere alla DC e alla sua polizia di orchestrare la caccia all’anarchico…

Domanda – Comunque, proprio a sostegno degli anarchici si manifestò un forte movimento di opinione…

Risposta – Il movimento si sviluppò in una forma, diciamo, spontanea. Da parte del PCI e del PSI (più del PCI che del PSI) si dava credito, con un atteggiamento rinunciatario, che potevano essere stati gli anarchici a provocare la strage, nonostante che l’indicazione di una manovra provocatoria del potere apparisse sempre più palese. Noi facemmo, due anni dopo, lo spettacolo Pum! Pum! Chi è? La polizia!, nel quale indicavamo i responsabili di quelle morti, del tentativo di colpo di Stato, del gioco della provocazione; denunciavamo come si cercasse di sbattere all’aria i giudici democratici, come li si incriminasse, etc. Era veramente una grossa manovra che vedeva implicati i ministri della DC, uomini di governo, lo Stato insomma nelle sue strutture fondamentali.

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Domanda – E oggi? È ancora possibile al potere inscenare manovre provocatorie?

Risposta – È ovvio che la gente è disincantata, ha imparato da dove vengono le provocazioni, sa leggere nella trama delle manovre contro, per esempio, certe frange estremistiche di sinistra: il gioco sulle Brigate Rosse, sulle carceri che si ribellano (certe azioni velleitarie, spropositate e senza senso) la gente sa bene da dove viene e dove va a finire. A mio avviso, bisogna distinguere bene. C’è una frangia che viene dal carcere, i NAP per intenderci, gente che ha maturato un’idea politica e una disperazione, che ha sperato nella sinistra cosiddetta extraparlamentare e poi si è vista abbandonata, che ha seguito come unica indicazione del movimento delle Brigate Rosse il gesto clamoroso, l’azione allo sbaraglio. È tutta gente che spesso viene astutamente adoperata per fini ormai scoperti, come recentemente al processo per la strage di Brescia, dove si è abilmente tentata una specie di contaminazione tra estrema sinistra ed estrema destra. Non è casuale questo. Il gioco richiama quello degli anarchici. Brigate Rosse e Avanguardia Nazionale: gli estremi si toccano, si è detto.

Domanda – È l’eterna politica della DC…

Dario Fo

Dario Fo

Risposta – … cui fa comodo confondere tutto. Esiste una democrazia di centro, che vuole l’ordine, la pace sociale, etc., e ci sono le estreme: tra queste… l’una vale l’altra. A confortare queste interpretazioni c’è, purtroppo, la complicità e il tacito consenso della sinistra, del PCI e del PSI. Ormai la gente è scaltrita, ha capito tutto, sa che i grandi giochi di matrice mafiosa, le rapine in serie, i sequestri hanno un’origine comune che, gira e rigira, è sempre legata al potere. Parlando spesso con la gente semplice, con l’uomo della strada, mi sono reso conto che ha grandi intuiti e non si lascia più sorprendere né stupire. Sì, c’è quello che bofonchia, che dice basta; l’operaio, no, l’operaio ha capito: questo credo sia un fatto importante.

Domanda – Il senso della sua commedia L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone, trova puntuale conferma nella scuola, dove il figlio dell’operaio si trova in grave imbarazzo rispetto al figlio del padrone. Vogliamo parlarne?

Risposta – Allora presi spunto dalla Lettera a una professoressa. Il discorso dei ragazzi di don Milani era provocatorio. Quali sono le 300 parole che conosce l’operaio? Sono 300 parole del linguaggio del padrone, ed è perciò svantaggiato rispetto al padrone che ne conosce 1000. Ma l’operaio ha un suo linguaggio, di cui il padrone non conosce nemmeno una parola. Era questo il senso della commedia.

Foto del calciatore Balotelli insieme a due fans del Costa Rica 2013

Foto del calciatore Balotelli insieme a due fans del Costa Rica 2013

Domanda – A proposito esplose una grossa polemica col PCI su cosa significasse “cultura”.

Risposta – Il PCI esalta una cultura unica, interclassista. Noi dicevamo: no, il contadino e l’operaio hanno tutto un loro linguaggio, fatto di immagini, di conoscenze, di onomatopeiche estranee alla cultura del potere. È nella sua cultura che l’operaio deve riconoscersi, e quella deve sapere, e sapere la sua storia. Ripetevamo una frase di Gramsci: «Se noi non conosciamo da dove siamo venuti, non riusciremo mai a capire dove dobbiamo arrivare».

Domanda – Quale obiettivo proponeva, quindi, con quella commedia alle classi subalterne?

Risposta – La cultura del potere è il risultato di una rapina continua alla cultura popolare dei contadini, degli artigiani, dei movimenti operai. Questa è grande, è vasta, è piena di indicazioni. Bisogna riappropriarsi anche di questa cultura per poter diventare una classe. La borghesia, quando è diventata egemone, s’è dovuta fare in fretta la sua cultura, qualcosa strappando all’aristocrazia e molto ai contadini. Chi erano, infatti, i borghesi? Erano una classe completamente nuova. E da dove veniva? Veniva dagli strati intermedi della società, veniva anche da quegli artigiani che si erano emancipati e che, grazie alla circolazione del denaro, allo scambio delle merci, alla nascita delle banche, agli interessi, etc., vedevano moltiplicarsi guadagni e profitti. Il capitalismo non è nato nel ‘700. È nato prima, nel ‘500, ed è legato alle Repubbliche Marinare; è nato nei grandi mercati come Genova, Venezia, Milano, Ancona, Pisa, etc., in Italia. La grande organizzazione dell’imperialismo capitalista di conquista non è sostenuta dai prìncipi, ma dalle banche, che facevano una specie di contratto-premio a chi dava denaro per sovvenzionare le spedizioni di conquista di territori immensi. Nel ‘500 Venezia diventa una città capitalista e distrugge tutto il mercato europeo immettendovi derrate alimentari che provenivano dal Medio Oriente, dall’Africa, etc., senza preoccuparsi di gettare sul lastrico migliaia di contadini, gli zanni della commedia, costretti a sradicarsi dalle loro terre e a cercare lavoro in città.

Domanda – In questo quadro di crescita di una nuova classe, come si inserisce il discorso della nascita di una nuova cultura?

Risposta – Questa nuova classe, con enormi risorse finanziarie a disposizione, vuole imporre la propria egemonia attraverso dei gesti. Ecco la nascita delle grandi cattedrali del periodo comunale italiano, ecco i palazzi fastosi, ecco i Palazzi della Ragione. Quello di Padova, per esempio, il più grande spazio coperto che esista al mondo, non fu voluto da un principe. Lo volle, invece, proprio quella comunità nuova che aveva bisogno di imporre il proprio prestigio per affermare il proprio potere contro Venezia, ancora guidata dai nobili. Il conflitto tra Venezia – una falsa repubblica, in fondo oligarchica – e una repubblica democratica come Padova è, in realtà, di vasta portata. Investe persino le università: la grande scienza padovana contro quella di Venezia. Il Ruzzante opera a Padova e ha la possibilità di vivere grazie a un cardinale esiliato da Venezia per le sue idee politiche, che a Padova raccoglie e sostiene i fermenti democratici vivi e nuovi. È colpa di Venezia se il conflitto diventa massacro, il massacro di un’opposizione. Inoltre, proprio a Padova maturano i grandi movimenti rivoluzionari del tempo. Galilei non a caso si trova a Padova. Se fosse rimasto lì, nessuno lo avrebbe toccato. Quando va a Fiorenza, cade nella trappola: è lì che lo arrestano; è da lì che va a finire a Roma, dove l’incastrano. L’obiettivo allora è chiaro: a proposito della cultura, dobbiamo capire quanto la borghesia progressista ha preso a piene mani dal patrimonio fertile del semiproletariato e del proletariato. E una volta capite le cose, riproporle al proletariato stesso. È quanto ho tentato di fare col Mistero buffo e altre opere.

Riparte il Chiambretti Night con Eto'o... e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto'o

Riparte il Chiambretti Night con Eto’o… e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto’o

Domanda – Come può, la scuola, recuperare certe radici contadine e operaie?

Risposta – Credo che lo sforzo più grosso la scuola debba farlo per una verifica soprattutto del linguaggio. L’indagine sulle origine delle lingue è affascinante. La lingua che parliamo e che si impone a scuola è la lingua del potere. Manifestiamo i nostri pensieri attraverso una lingua che è falsa. Subiamo continuamente censure di mille modi espressivi, di forme dialettali, di termini onomatopeici legati al gesto. C’è tutta una lingua legata all’origine del gesto. Il dialetto ha tutta una serie di modi figurativi che possono bene essere introdotti nella lingua. Lo ha dimostrato Rabelais, in Francia. Rabelais ha un linguaggio vivo, straordinario, pieno di invenzioni e di centinaia di modi di dire popolari, del popolo minuto addirittura, ch’egli aveva inserito nella sua prosa scandalizzando la gente di allora. Lo stesso Dante, nel De Vulgari eloquentia, con una paziente ricerca di moduli diversi, vari e infiniti, costruisce uno strumento espressivo che servisse alla borghesia nascente. C’è, al proposito, una frase di un poeta provenzale: «Noi dobbiamo annodare i versi, el vers, adoperando i modi e i termini del volgo, ma annodarli in modo che il popolo stesso non li riconosca. Così, dopo averlo defraudato, glieli imponiamo per farlo sentire ignorante». Ecco un’indicazione di come si muove il potere. Il potere non ha bisogno solo del mercato o del denaro. Ha bisogno di appropriarsi di tutto, del modo di scrivere e di parlare, del modo di costruire e di fare teatro, del modo di addobbare, di camminare, di vestire, etc. Tutto gli è necessario, per imporlo e imporre il proprio prestigio.

Domanda – Quindi la scuola…

Risposta – La scuola deve scoprire queste cose e smascherare l’accorta violenza del potere ma, soprattutto, deve ridare al popolo quello che il popolo ha costruito, fabbricato e inventato.

Domanda – L’animazione e la drammatizzazione, che ruolo pensa possano avere nella scuola?

Risposta – Alla base del problema c’è un equivoco. Il teatro è nato come momento di aggregazione della gente. In alcune grotte pirenaiche, sul versante francese, è dipinto un uomo vestito da capro che danza in mezzo a dei capri. L’esigenza di prendere atteggiamento risale molto indietro nei secoli. Riuscire a entrare nel branco, imparare movenze e atteggiamenti degli animali e imitarli voleva dire per il cacciatore non solo procurarsi più facilmente cibo per sopravvivere, ma anche, allo stesso tempo, ingraziarsi la divinità che sovrastava quei capri e ottenerne il viatico per uccidere. Rito, dunque, e imitazione, ma anche patto collettivo. Il rito dionisiaco, nella sua matrice, è presente dappertutto. Oltre che in Grecia lo troviamo in Scandinavia, in Africa e persino in Cina: al fondo c’è sempre un rapporto uomo-divinità fondato sulla richiesta-concessione del permesso di sopravvivenza. Chi ci dà la vita? È la terra coi suoi prodotti e i suoi animali che, se c’è siccità e manca l’erba, muoiono subito. La terra è la madre di tutti. Nasce, così, il mito della Dea Madre, il cui figlio addirittura si sacrifica per l’uomo: muore, rivive e si offre come carne da mangiare, come sostegno vitale. Del resto, la stessa parola “tragedia” vuol dire “canto del capro, sacrificio del capro”, il capro espiatorio. La prima forma di teatro è questo rito dell’uomo di mangiarsi Dio che è entrato in un capro.

bello donna truccataDomanda – Anche la religione cristiana, nel rito della comunione, mi sembra conservi questo motivo.

Risposta – Certo, il “prendete e mangiate: questo è il mio corpo” è il momento cruciale del rito, nel quale tutti mangiano Dio e si sentono figli di Dio e, come tali, impegnati a legarsi l’uno all’altro e a fare comunità. Ma quel rito, nella sua forma originaria, non era liberatorio; era anche altamente scurrile. Per fare certe azioni, bisognava liberarsi da inutili pudori, eccitarsi, fare l’orgia. Allora si beveva e ci si sbronzava fino a gettarsi alle spalle risentimenti, livori, pregiudizi e complessi. Nel rito dionisiaco le baccanti diventavano terribili: erano quelle che sbranavano il capro, lo facevano a pezzi, lo mangiavano crudo; erano quelle che uccidevano l’uomo. La stessa danza era un complesso di gesti liberatori per ritrovare una comunanza. In essa certe donne non abbastanza affascinanti abbandonavano complessi ed esasperazione, venivano applaudite e abbracciate, si compiacevano di se stesse e si esaltavano. Poi c’era l’orgia, sentita come il momento nel quale tutti gli elementi di una società potessero procreare, e non soltanto i migliori o i più ricchi che avevano una, due, tre capre da vendere o da offrire per potersi sposare: così, tutti indistintamente, uomini o donne che fossero, bevevano a sazietà, menavano le danze e si lasciavano andare lanciandosi parolacce, frizzi salaci e battute spiritose. Questa è la nascita del teatro.

Domanda – Dov’è, e in che cosa consiste, l’equivoco di cui parlava prima?

Risposta – Il teatro, rispetto alla letteratura, ha sempre determinato nel racconto e nell’azione un pensiero chiave. Non a caso Omero era un teatrante; era uno che raccontava nei ritmi, nei canti; raccontava accompagnandosi con lo strumento. Era un fabulatore: che fosse uno solo, o due, o dodici, o un popolo intero, è un altro discorso. E fabulatore è sicuramente quello che ha raccontato Orlando, come tutta la tradizione del popolo non è letteraria. Pensiamo, invece, a Shakespeare. Brecht ha detto una cosa stupenda: “Peccato che Shakespeare sia bello anche da leggere!”. La rappresentazione, insomma, fa parte di una determinata chiave culturale, mentre la lettura è un’esigenza che nasce da un determinato modo politico di imporre al popolo una chiave culturale. Due cose molto diverse, dunque. Rappresentazione significa gesto, tempo, pausa, respiro, risata; significa improvvisazione; significa azione. Invece, se leggi Shakespeare, ti trovi spostato in una chiave che non è quella per cui è nato. Allora, che vuol dire drammatizzare? Purtroppo, nella scuola attuale è falso il discorso della drammatizzazione, perché nasce sempre da una chiave letteraria. Da anni vorrei riuscire a impiantare una scuola per far capire cosa significa, per esempio, il rapporto tra una frase e la pausa. Ma non ho tempo; il lavoro che faccio non mi dà tregua. Una frase io posso dirla in cento modi diversi e la pausa che vi faccio è determinata dal ritmo: se io sono rapido, sviluppo nell’intenzione della pausa. Se poi io, nella pausa, faccio un gesto, determino un’altra chiave che arricchisce il discorso. Le parole sono, quindi, determinate dal gesto, dal ritmo, dal tempo. Inoltre, la frase posso dirla camminando, o scherzando, o gridando: allora, vuol dire che ho venti, cinquanta modi di esprimere lo stesso fatto. Ecco perché il teatro è qualcosa di ben più importante della forma letteraria. Il teatro mi permette di cantare; il teatro smuove attraverso la luce, il buio, uno strumento, il suono; il teatro offre mille suggestioni attraverso la dimensione: posso recitare in piedi, seduto o sdraiato; posso recitare in un capannone, alla Scala, al Palazzo dello sport, in piazza. Tutta questa infinita gamma di possibilità espressive sono negate alla forma scritta. Non esiste ancora una disciplina culturale che abbia approfondito per intero tutto il complesso discorso sul teatro. Il teatro è un’arte con un fondamento scientifico che è zero rispetto a quello di cui avremmo bisogno per conoscerne tutti gli aspetti, tutte le potenzialità, tutta la prodigiosa ricchezza.

bello trucco-nero-delle-labbra-rosseDomanda – Dopo le note polemiche con i dirigenti televisivi, le è stata finalmente data la possibilità di presentare alla massa dei telespettatori alcune delle sue migliori commedie. Che cosa pensa della TV? Quali possibilità offre il mezzo televisivo a chi voglia fare del lavoro politico?

Risposta – La TV è un mezzo di comunicazione straordinario, come il teatro del resto, e, come il teatro o la canzone o l’opera, può essere reazionario o rivoluzionario. Dipende dall’uso che se ne fa. Non è mai la chiave di un’espressione, che poi è tecnica soprattutto, a determinare la funzione del mezzo, ma è l’ideologia che sta dietro al mezzo stesso. No, non c’è dubbio: la TV è uno dei mezzi di comunicazione più belli che esistono. È un mezzo, però; e non si può parlare di mezzi più o meno rivoluzionari e catalogarli. È il loro impiego che conta, e li qualifica o squalifica. È un mezzo, stupendo, che può essere adoperato in chiave reazionaria o in chiave rivoluzionaria. Perché fare le classifiche? È sempre il potere che inventa i livelli, le graduatorie. Che senso ha distinguere qualitativamente fra rivista e opera? Che senso ha dire che la tragedia è migliore della commedia? I Greci hanno sempre guardato con molto disprezzo la commedia, ma, a un certo punto, hanno dovuto accettarla e l’hanno messa in secondo ordine rispetto alla tragedia. Ma è il potere che ha bisogno di questo! Il guaio è che, purtroppo, la TV non l’abbiamo noi in mano. L’avessimo, potremmo cercare di imporre il discorso politico, di inserirci nelle contraddizioni di questo nostro sistema, di stimolare l’anima popolare a una riappropriazione dei valori suoi più tipici.

Domanda – Un’ultima domanda sulla droga. Quale messaggio intende proporre con la sua commedia “La marijuana della mamma è la più bella”?

Risposta – Ho cercato di partire dalla chiave storica, perché la droga è, prima di tutto, un fatto culturale. Dicevo di Dioniso e dei riti orgiastici e liberatori. Il vino è una delle più grandi droghe: dà euforia, appaga e distende. Il pensionato, che non ha più lavoro né interesse alla vita, si aliena, cerca di stordirsi per non pensare. La casalinga frustrata oggi beve Fernet Branca: ne hanno fatto uno apposta per le donne, aromatico e meno amaro, più delicato e più alcolico. In Inghilterra la media delle alcolizzate fra le casalinghe ha superato quella dei camionisti. In Svezia e Norvegia hanno imposto leggi speciali per frenare il bere. In Italia ci sono ventimila morti di cirrosi epatica all’anno per alcolismo. Nei manicomi il 30% sono alcolisti. Ma il potere non si preoccupa di queste cose, gli va bene, ha il mercato buono: sono miliardi che entrano ed escono. Il potere inventa e prende le chiavi che gli servono. Nello stesso tempo la droga è un fatto di classe. Così, mentre è il ricco che consuma la droga, è la droga che consuma il povero. Il ricco beve whisky e si droga, ma riesce sempre a gestirsi; ha incentivi, ha interessi, per cui non fatica a staccarsene. Il povero che si avvicina alla droga lo fa per alienarsi, per dimenticare, per superare la propria disperazione, i disagi, la solitudine, la mancanza di rapporti, l’assenza di prospettive. Ma il discorso ha un altro aspetto. Infatti, per avviare a soluzione il problema – cosa che sembrano volere tutti –, non servono ospedali, né cliniche, né leggi. Gli esclusi vanno recuperati ribaltando il rapporto politico ed economico che condiziona e degrada il tessuto sociale. In Cina si è debellata la droga in pochi anni – ed era ai limiti massimi nel mondo –, perché è cambiato il rapporto fra la gente, il rapporto di interesse e il rapporto di produzione…

bello volto truccatoDomanda – D’accordo, ma non si può aspettare la rivoluzione per frenare il fenomeno…

Risposta – Secondo me, la lotta si può e si deve fare subito, ma in un’altra direzione. Bisogna strappare soprattutto i giovani alla solitudine, interessarli e coinvolgerli aprendo per loro quelle prospettive di lavoro e di vita che oggi mancano, annullare il rischio dello sradicamento sempre sospeso sulla loro testa. Non a caso, da noi, l’alcolismo si sviluppò attorno al 1850, quando furono aperte le prime tessiture, le prime grandi officine, etc. E si sviluppò al Nord, non al Sud: fu proprio lo sradicamento della gente dalla propria terra, dagli affetti e dagli interessi, a costringere il bracciante o il contadino immigrato a darsi all’alcool per dimenticare momentaneamente la precaria condizione della propria esistenza. Allora come oggi passano gli anni e il vecchio operaio torna al Sud e, come d’incanto, guarisce: non beve più; non ha più interesse a bere; tra i suoi trova altri incentivi, altri interessi, altri fatti. È il potere che inventa il discorso della droga, tanto è vero che già nel 1600 arrivavano nelle Asturie navi piene di coca da distribuire gratis ai minatori. La marijuana veniva data a pacchetti ai raccoglitori di cotone per aiutarli a resistere alla fatica, e in quantità tale che oggi si andrebbe in galera. Nell’America del Sud e in Somalia poveri disgraziati si sobbarcano, ancora oggi, turni di sedici ore di lavoro e, per farcela, prendono una droga ricavata da un’erba locale. Dunque, la droga c’è e il potere se ne serve: ne favorisce l’uso, poi pensa di scaricarsi delle gravi responsabilità, andando alla caccia del drogato e punendolo.

(intervista raccolta in collaborazione con Raffaele Di Paolo)

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VENTICINQUE POESIE di Giampiero Neri da L’aspetto  occidentale del vestito (1976), Liceo, Armi e mestieri (2014), Dallo stesso luogo  a cura e con una Lettera di Meeten Nasr, Commento di Giorgio Linguaglossa

Herbert List - Mannequin - Vintage Gravure 1935

Herbert List – Mannequin – Vintage Gravure 1935

Giampiero Neri è nato a Erba il 7 aprile 1927, attualmente vive a Milano. Neri è un nome d’arte. Il fratello è il più famoso scrittore Giuseppe Pontiggia. La madre sostiene ruoli importanti nella compagnia filodrammatica del Teatro Sociale di Como. Il padre, funzionario di banca, è un grande appassionato di libri. Nella sua biblioteca il giovane Neri è attirato dai Ricordi entomologici del naturalista francese Jean-Henri Fabre. Frequenta con scarso profitto l’Istituto Magistrale “Carlo Annoni” di Erba. Pochi mesi dopo la dichiarazione dell’armistizio (8 settembre1943), e nel caos che ne deriva, il padre muore nel corso degli inizi della guerra civile nell’area comasca. Alla fine della guerra, dopo diversi traslochi, si trasferisce a Varese, dove completa il Liceo, conseguendo il diploma di maturità scientifica. Trasferitosi a Milano, si iscrive alla Facoltà di Scienze Naturali. Nel 1947, la mancanza di risorse finanziarie lo inducono ad abbandonare gli studi e a cercare un lavoro. Sempre nel 1947 è assunto dalla banca in cui ha lavorato il padre; e in banca, rimane fino alla pensione. Nel 1952 si sposa con Annamaria Bianchi, da cui ha due figli. Nel 1955 la sorella ventenne Elena si suicida. Comincia a scrivere avendo come principale interlocutore il fratello Giuseppe Pontiggia, già narratore affermato. Neri approfondisce lo studio dei grandi storici antichi e moderni. Superata un’iniziale diffidenza, si appassiona all’opera di Beppe Fenoglio, di cui ammira l’epicità dello stile essenziale, volto a descrivere gli orrori della violenza attraverso l’esperienza della nostra guerra civile (1943-1945). Sulle orme di Fenoglio si reca ad Alba nel 1983, dove ha un lungo colloquio con la madre di lui, Margherita Faccenda. Neri pubblica per la prima volta i suoi versi nel 1965, sulla rivista «Il Corpo», diretta dal poeta Giancarlo Majorino. Seguono altre pubblicazioni su riviste letterarie, come «Almanacco dello Specchio», «Paragone», «Resine», fino al 1976, anno in cui esce a Milano la prima raccolta di poesie edita da Guanda, L’aspetto occidentale del vestito. Del 2009 è l’opera Paesaggi inospiti, del 2012 è Il professor Fumagalli e altre figure sempre con Mondadori, Lo Specchio.

Giampiero Neri

Giampiero Neri

 Lettera di Meeten Nasr 

Caro Giampiero,

verso la metà di giugno, immaginando che tu preparassi la tua partenza per Erba, avevo progettato di venire nell’ormai famoso piazzale Libia per salutarti e anche per parlarti di varie altre cose. Ma il diavolo, si sa, non fa i coperchi e così la combinazione dei miei abituali ritardi e della disinfestazione delle piante intorno a casa tua non ci ha fatto incontrare. Poi ai primi di luglio ho lasciato anch’io Milano per la Sardegna. Una settimana dopo mia figlia, che tiene d’occhio la mia casella postale in mia assenza, mi ha letto al telefono il contenuto verbale della tua cara e gentile cartolina di cui ti ringrazio.

Mentre gli argomenti da trattare nella lettera che io non avevo ancora scritto aumentavano, è arrivata l’ondata del caldo tropicale che in Sardegna, dove tutti sono viziati dalla fresca presenza del Maestrale, è stata questo anno particolarmente violenta e insopportabile. La mia casa, alta sul paesaggio marino, si è trovata come una nave ateniese nel mirino degli specchi ustori di Archimede.

Così, tornato a fine luglio a Milano bene arrostito, ho preso in mano la tua cartolina e non ho potuto che ammirare lo stile del tuo messaggio non solo per l’inimitabile brevitas (che mi fa sentire un vero chiacchierone), ma anche per il pregnante sigillo dell’immagine nitida e solitaria del Licinium, che proprio tu ci hai fatto scoprire. Non è certo un caso – ho pensato – se il cuore della tua opera poetica si è condensata nel nome di “teatro naturale”! Anche in una semplice cartolina, nella sua coerenza ed essenzialità, si confermano i caratteri sostanziali del tuo lavoro di scrittore e di poeta. Ma proprio questo binomio mi spinge a tornare finalmente all’argomento di cui volevo scriverti circa due mesi fa, a partire dall’intervista che ti ha fatto Alessandro Rivali e pubblicata sul N° 39 di Atelier. Ti confesso che il genere un poco usurato dell’intervista mi aveva messo piuttosto sul chi vive.. E invece tu l’hai trasformato in qualcosa di travolgente, un vero coup de théatre specialmente quando riferisci i tuoi colloqui con la moglie e la madre di Fenoglio. Ma personalmente ho trovato molto importante ciò che riveli sulla genesi della tua poesia dedicata a Fenoglio e sull’intreccio – che ignoravo – fra il tempo narrativo in cui Fenoglio portava su di sé quell’orologio e il tempo reale, l’ora, il minuto che esso segnava quando tuo padre subì l’attentato. E’ una vera discesa nel sottosuolo del dramma che si chiama guerra, là dove poesia e storia sono ancora indivise, fanno tutt’uno. Tu te lo inventi e subito l’accoppiamento dei due eventi diventa reale. Diciamo meglio “fatale”. Anche il colore azzurro del fazzoletto, icona dei badogliani, è uno di quei tocchi magici  di cui ti sappiamo esperto: tanti sono infatti, nella tua poesia, i particolari, spesso coloristici, che fondono insieme, come in un lampo accecante, elementi, tempi e spazi diversi e distanti, dal giallo e nero delle api fino alle varie forme del mimetismo aggressivo o difensivo. In tal modo nella tua poesia vengono coinvolti nella tua argomentazione e resi partecipi e pensosi gli autentici oppure ipotetici testimoni, i viandanti e i passeggeri (di stampo classico), i casuali osservatori.

Ciò si ripete anche qui nell’intervista, nei dialoghi con Rivali e con i familiari di Fenoglio, dove la vita è anche “teatro” e dove la presunta razionalità del comportamento umano è istinto, aggressività, “natura”.  Proprio come in Hobbes e – giustamente da te fatto notare – in Machiavelli dove la storia è guerra di tutti contro tutti, e spietata coerenza. Penso al trauma che devi appunto aver provato – ma qui finalmente ce lo riveli – arrivando a leggere l’argomentazione del prof. Cocito (nomen omen).

Ho anche compreso come tu abbia dovuto interrompere la prima lettura de “Il partigiano Johnny” (strano ma vero, a me è successa la stessa cosa, ma non mi avevano bloccato la crudeltà o la pietas, bensì il bilinguismo del testo, il disagio di quella incredibile eruzione semantica). Il fatto che tu abbia poi ripreso la lettura testimonia  – a mio parere – il tuo destino ineluttabile di scrittore e di poeta assieme, cioè in un unico atto creativo. In questo senso tutta l’intervista – apparentemente così antiletteraria – rivela a che grande e quindi oscura profondità è collocato, nella tua opera, nel tuo scrivere e finanche nella  tua conversazione, il  punto di divaricazione fra prosa e poesia. Qui c’è ancora molto da scavare. E fra i dieci interventi pubblicati su Atelier, il tuo è di gran lunga il più chiaro, profondo, incisivo, e merita di entrare a far parte della tua biografia.

Per concludere ti comunico poi che io e Aman abbiamo elaborato un progetto di venire insieme a trovarti lì a Erba un bel mattino, per esempio in uno dei giorni subito dopo Ferragosto (il 16 oppure anche il 17, in barba alla jella). Fra qualche giorno ti telefoneremo e contiamo sulla tua adesione. Tanti cari saluti alla tua consorte e a te anche un forte abbraccio.

   (Milano, 7 agosto 2006, Meeten Nasr)

Giampiero Neri, un maestro in ombra

Giampiero Neri

Giorgio Linguaglossa

la «disparizione» del soggetto nella poesia di Giampiero Neri

La poesia del minimalismo degli anni Ottanta non sarà interessata alla riflessione sui rapporti tra la poesia e il mondo, alla riflessione sulla «funzione» poetica e, tantomeno, alla riflessione sulle prospettive della poesia nelle nuove condizioni poste dal mercato globale. I poeti della generazione del minimalismo sono tutti dei poeti «puri», alieni da ogni forma di teorizzazione e di speculazione, si dedicano alla «poesia» senza altare, con un approccio laico e scettico, consapevoli della situazione di marginalità della «poesia» nella nuova società mediatica, hanno una attenzione tutta «interna» al fatto poetico. Nessuno di questi poeti nutre interesse all’aspetto critico-militante verso la poesia del Novecento o è realmente interessato all’apertura di un dibattito critico ampio sulla funzione della poesia.  In quegli anni viene, di fatto, messa a punto la tesi storiografica di una presunta «superiorità» della poesia di marca minimalista romano-lombarda rispetto alla restante poesia nazionale. Viene anche canonizzato il «piccolo canone» della linea lombarda come dato di fatto indiscusso, con tanto di ascendenze e discendenze, padri nobili ed epigoni al fine di instaurare una precisa egemonia tematica e stilistica. La poesia di Neri è sintomatica di un generale clima di «riduzionismo» del grande canone della poesia del Novecento, che vede per intenderci, la poesia del primo Montale in posizione «centrale», con a fianco la grande stagione ermetica e, a lato, le forze stilistiche delle avanguardie. Neri riduce la funzione centralistica del primo Montale (scriverà che la poesia di Montale può essere paragonata al flusso dell’acqua di un rubinetto in un fiume in piena), occupando quello spazio «centrale» rimasto vacante con una poesia tutta incentrata su un «riduzionismo» stilistico e un «mimetismo» di matrice narrativa.

Dalla cosiddetta linea lombarda Neri sa trarre lo spunto e l’idea per l’assemblaggio di una scrittura ridotta al minimo comun denominatore, denaturata e de-soggettivata, uno stile cosmopolitico nel senso della sua agevole traducibilità in altre lingue per via della sua narratività riflessa, attingendo un tipo di scrittura che, grazie alla riduzione ai minimi termini degli espedienti retorici, della sintassi e del lessico, è giunta, dopo un tragitto trentennale, alla stazione di una compiuta leggibilità, quasi che quella scrittura non sia stata creata da un soggetto ma che il soggetto l’abbia trovata già pronta. Giampiero Neri giunge a far perdere al testo l’orientamento del testo, nel senso che chiunque e nessuno potrebbe essere l’autore dei suoi componimenti. La tematica e l’oggettistica di Armi e mestieri del 2004 non è mutata da quella del primo libro; di più, replicano la formula originaria con pedissequa fedeltà, giungono a rasentare la labirintite semantica a seguito di due ben distinti procedimenti: a) il procedimento per sottrazione, cui abbiamo poc’anzi accennato; b) procedimento di disparizione del “messaggio”. Di che si tratta? Il testo non contiene alcun messaggio. Rectius, il testo contiene un «finto» messaggio. Il procedimento è centrato sulla «finzione» di un messaggio (preesistente) o di una sospensione del messaggio (preesistente); in realtà, la fraseologia del messaggio è tratta da un «macrotesto », ovvero, un testo di storia, un testo di divulgazione scientifica, di botanica, di cronaca etc. al quale vengono amputate le parti conclusive, o le proposizioni prodromiche, in modo tale che l’alterazione del «testo» base venga recepito come testo in sospensione semantica.

 Ora, ragionando in termini logici, se è assente il messaggio risulteranno altresì assenti sia il trasmittente che il ricevente. La conseguenza di questa strategia della «disparizione» comporta l’abolizione del messaggio e, parimenti, l’abolizione di tutti quegli espedienti retorici, di tutti quegli istituti stilistici che presiedono il registro del testo letterario. Non è un caso che il discorso indiretto e la coniugazione dei verbi al riflessivo e alla terza persona, costituiscano la quasi totalità dell’infrastruttura dei testi; il discorso diretto, che per eccellenza è considerato dagli istituti retorici, quale dimostrazione di autenticità del mittente, viene invece a configurarsi come mero esercizio incidentale, come mera fraseologia intertemporale di una soggettività che si sottrae e che il testo fa di tutto per nasconderla. Grazie a questa «finzione» della «disparizione» la soggettività si è tramutata in intersoggettività, è diventata neutrale. Sarà la citazione implicita che fungerà da fonte di autenticità del testo, relegando la sostanza egolalica del soggetto poetante in un ruolo secondario e trascurabile. Il testo letterario viene così ad essere deterritorializzato (ovvero de-soggettivato e de-oggettivato) di senso e rimarrà privo di orientabilità entro le coordinate di un contesto sintattico e di significato. Non è più incentrato nel soggetto poetico, né perimetra il soggetto poetico, e quest’ultimo viene a perdere la collocazione spazio-temporale, il testo resta in sospensione in uno spazio semantico atopico e acronico. I personaggi di questi testi sono anonimi e indifferenziati: entrano nel testo in tralice, ed escono silenziosamente, come sono entrati, da un pertugio laterale della scrittura poetica.

 Prendiamo una poesia che inizia così: “Era venuta fuori dal suo negozio”; il soggetto non c’è, il soggetto è innominato, succede una ipotiposi che il testo seguente lascia intuire, immaginare, ma l’autore non dà al lettore alcuna indicazione in proposito: c’è qui un problema? Sì, si trata della disparizione del soggetto. Il verso finale della composizione, che è introdotto da una particella avversativa, non aggiunge nulla, né scioglie il dilemma ermeneutico nel quale ci troviamo: “ma erano Tedeschi in ritirata”, lascia il lettore in una situazione di sospensione semantica. Che i tedeschi siano in ritirata o in avanzata è una proposizione interrotta. In un’altra poesia, degli attanti astratti e indeterminati stanno per intraprendere un’azione (“guardavano sorridendo le fotografie”); nei quattro versi che seguono, accade anche qui una ipotiposi; il finale invece di fornirci una qualche indicazione, accentua lo spaesamento complessivo che ingenera il testo che contiene frasi che discordano con le frasi che precedono (“passavano senza fretta da una stanza all’altra”). Il testo non intende significare, non rimanda ad altro significato tranne che alla propria «letteralità». Altrove, sono suggerimenti tratti dalla botanica a dettare al poeta i testi, oppure è un dato di cronaca riportatoci da uno storico antico: «’Si accinsero a costruire la torre’ scrive Flavio Giuseppe / nelle Antichità giudaiche, ‘ed essa sorse con una velocità inaspettata’’». Il lettore si arresta sorpreso e sconcertato da queste sospensioni, medita un senso, ad esempio sul perché la Torre venga costruita con «velocità inaspettata», o quale insondabile significato si celi nel fatto riportato dalle fonti. Da questi pochi cenni appare chiaro che nell’opera poetica di Giampiero Neri il significato viene de-territorializzato, la storia viene appiattita su una superficie unidimensionale.

C’è nella poesia di Neri un movimento di mimetismi, di cinetismi, di «tagli», di finzioni, di artifizi, tali da rendere interlocutorio il messaggio. Il soggetto non comunica più con l’ oggetto. Non ci sono strade che conducano verso il sentiero di un senso o di un significato soprastante: “una varietà di mimetismo/ l’immaginario occhio di Dio che guarda”.

da: L’aspetto occidentale del vestito

1.
L’aspetto occidentale del vestito

A Giancarlo Majorino

Corso Donati, il metrò
scava diverse gallerie ai giardini
radici che non dissero inutilmente
le ossa di qualche romano in provincia
e una valigia di fibra
la ferrovia della stazione Nord,
ora non ricordo tutti i particolari
un tempo passato corre via dietro gli alberi.

*
2.

La Pavonia maggiore o Saturnia
la farfalla Atropo ed altre specie notturne
sono un notevole esempio di mimetismo.
Si adattano in parte all’ambiente
per il colore più scuro e intenso
grigio bruno sulle ali
ma anche per i continui segni
che vi ricorrono in forma di cerchi
e nel modo uguali.
All’origine di questi ornamenti
si incontra una simmetria,
uno schema fissato in anticipo
muove insieme chi cerca
e chi ha interesse a non farsi riconoscere,
una corrispondenza alla fine.

*
3.

Il cattivo tempo è alle porte e consiglia la prudenza, come comanda nostra madre Chiesa.
In concreto il temporale minacciò di far volare un numero straordinario di carte.
Risultava sempre più difficile incontrare il professore, costantemente impegnato nella correzione di qualche compito.
E avendolo visto per caso:
“Il dottor Livingstone, suppongo” disse, mentre gli tendeva la mano attraversando vasti deserti di tavolini rossi e sedie impagliate.

*
4.

L’osservatore si orienta su alcuni particolari. Il colore delle foglie o la presenza di effimere sulle rive dei torrenti. Strani insetti che hanno breve vita, come dice il nome.
Verso il centro della riserva sta il falco rosso, cacciatore notturno. Durante il giorno è nascosto, ma qualche volta attraversa una valletta o una radura, molestato dai passeri.

Giampiero Neri

da: Liceo

5.

Villa Nena

La facciata era sicuramente liberty.
Come onde apparivano i balconi
verso il lago,
in parte nascosti dagli alberi.
Nella casa che è stata abbandonata
cigola la porta non chiusa,
della vecchia proprietà
non si hanno notizie da tempo.
E’ rimasto nel quadro alla parete
un documento del ’43,
un attestato che la signora è cittadina straniera
sotto la protezione del Consolato.

*
6

Due tempi

La civetta è un uccello pericoloso di notte
quando appare sul suo terreno
come un attore sulla scena
ha smesso la sua parte di zimbello.
Con una strana voce
fa udire il suo richiamo,
vola nell’aria notturna.
Allora tace chi si prendeva gioco,
si nasconde dietro un riparo di foglie.
Ma è breve il seguito degli atti,
il teatro naturale si allontana.
All’apparire del giorno
la civetta ritorna al suo nido,
al suo dimesso destino.

*

7

Pesce d’acqua dolce

Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell’acqua scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.
Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie.

*

8

Capitolo ottavo, VII

Lo scrittore di provincia soffriva d’insonnia. Si dedicava a ricerche di interesse storico ma non aveva abbandonato i vecchi progetti letterari.
Stava leggendo il finale del capitolo ottavo “anche tu valoroso Casca, le tue lucertole sul muro”.

*

9

Delle misure, dei pesi, III

Del declinante mondo di Maria Signaroli
che abitava da noi in campagna
non si poteva domandare.
Oscillava fra le finestre della stanza,
qualche volta in giardino,
finché cadde sul pavimento.
Era una mattina se ricordo bene,
l’anno il ’32 o il ’33.

*

10

Sovrapposizioni, I

Piegando indietro la testa, l’ospite imitò il verso di un gufo.
Una nota breve, simile a un abbaiare, a un colpo di tosse.
Aveva una barba rada, gli occhi grandi, giallastri.

*

11

IV

Del gufo reale o Sminteo, distruttore di topi, si può dire che è raro. Vive nei boschi abbandonati ma
imbattersi nel suo sguardo severo, nelle sue penne arruffate, può turbare.

*

12

VI

Del suono kiok, kiok, del verso teck, teck.
Procedono dalla forma originaria, senza mutamenti. Segnali di un mondo scomparso.
Qualche volta si sente nella notte un richiamo stridulo, una voce alterata.

Giampiero Neri

Giampiero Neri

da : Dallo stesso luogo

13

Dallo stesso luogo
alla memoria di Edoardo Persico
(Napoli 1900 – Milano 1936)

Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontana dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti.

*

14

Dove il fitto bosco
scendeva con avvallamento profondo
verso un luogo nascosto
a un tratto gigantesco,
appariva mutato l’aspetto degli alberi
in quel punto
prendeva nome di orrido
.
*

15

Quella strana colonia
di rari villeggianti
era dispersa.
Dei loro campi di tennis
e vani conversari
era rimasto un eco di saluti notturni
di biciclette che si allontanavano
.
*

16

Viaggi I

Era una trappola per talpe
che aveva progettato, una tagliola
per la loro sortita allo scoperto
e del fumo insufflato nei cunicoli.
Ma era passato il tempo
si svolgeva un diverso avvenimento
anche noi diventati talpe
per il variare delle circostanze

*
da: Altri viaggi

17

Segnali

Dei vari colori
pericoloso è il giallo
accompagnato al nero
nella forma dell’ape
e di altre specie più rare,
e la diversità dei grigi
dei bianchi specialmente.

*

18

si era fermato e lasciato cadere la bicicletta
sulla strada, l’amico di mio padre
“se tutto doveva finire…” mi aveva detto abbracciandomi,
era stato il commento.

*

19

Variazione

Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.

*

20

Figura

In quella parte del campo
vicino al deposito di legna
si era levata una figura indistinta,
come una macchia più scura
nel buio della sera,
sembrava un cane che volava sopra i tetti.

*

21

Tracce

Presa fra i sassi dove si nasconde
la lumaca fa udire un breve suono
unico segno manifesto
della sua muta esistenza.
Del suo andare solitario
si vede qualche volta una traccia,
come una scia luccicante nell’erba.

Giampiero Neri

Giampiero Neri

da: Armi e mestieri

22

Da un camminamento
sotto la volta degli alberi
si arrivava a un recinto.
Si erano alzati due vitelli
dal loro letto di paglia
una strana luce
passava tra le foglie.

*

23
a Sossio Giametta

Da quell’intrico di rami
si tendeva il germoglio di un kiwi
incontro al ramo di una betulla.
Si formava un nuovo viluppo
come un piccolo arco di trionfo
che vede il kiwi prevalere
la betulla vicina a soccombere
e l’ospite a meditare nel giardino.

*

24

Mimesi

Delle figure e dei fregi
si osservano sulle ali delle farfalle
e in altre specie diverse
ornamento e difesa insieme,
simili a cerchi e disegni
detti anche macchie ocellari,
sono una varietà di mimetismo
l’immaginario occhio di Dio che guarda

*
25

Di quel teatro all’aperto
delle sue figure disperse
era difficile ritrovare i fili.
Rimaneva il nome di qualche negozio
qualche angolo di strada somigliante
e i pesci a nuotare sotto riva
nelle acque morte del lago

Meeten Nasr

Meeten Nasr

Meeten Nasr Nato a Pesaro da madre sefardita, ha fatto studi di filologia greco-latina,  epistemologia e storia della scienza. Traduttore e saggista è autore di una versione poetica degli Epigrammi di Callimaco tratti dall’Antologia Palatina. Nel 1998 ha vinto il Premio Montale per l’inedito e quindici suoi componimenti sono stati pubblicati nel volume “7 Poeti del Premio Montale” (Scheiwiller, 1999). Nel 2001 Book Editore pubblica Dizionario. Nel 2004  sette sue poesie, illustrate da incisioni e litografie di Simonetta Ferrante, sono pubblicate da Giorgio Upiglio Impressioni Originali di Milano col titolo Il solco del pennino. Queste poesie con altre hanno poi formato nel 2005 la raccolta Atlante del nomade (LietoColle). La sua più recente raccolta Al traguardo di Malaga (LietoColle, 2009) contiene anche le quindici poesie del Premio Montale, oggi introvabili. Ha diretto fino al 2012 la rivista di poesia e di ricerca “Il Monte Analogo”. Scrive di poesia su riviste letterarie quali “Il Segnale”, “La Mosca di Milano”, “Smerilliana”, “Le Voci della Luna” e altre. Nel 2013 ha pubblicato presso Excogita Editore un testo diaristico in prosa intitolato La mosca di Rousseau.

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Roma, 12 giugno ore 17.30 sede della FUIS p.za Augusto Imperatore, 4 Presentazione del libro di poesia del poeta albanese Faslli Haliti – Interventi di Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa e Marco Onofrio sarà presente l’autore – POESIE SCELTE di Faslli Haliti  Cura e traduzione di Gëzim Hajdari da Poesie scelte (1969-2004) EdiLet pp. 150 € 16 (Parte II)

Faslli Haliti copertinaRoma, 12 giugno ore 17.30 sede della FUIS p.za Augusto Imperatore, 4 Presentazione del libro di poesia del poeta albanese Faslli Haliti – Interventi di Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa e Marco Onofrio sarà presente l’autore

Presentazione di Gëzim Hajdari

Il poeta albanese Faslli Haliti credeva come Majakovskij ed Esenin in un socialismo dal volto umano. I due poeti della Russia sovietica hanno cantato e sublimato con grande fervore, seppur per breve tempo, la rivoluzione bolscevica e il compagno Lenin. Sulle orme di Majakovskij e di Esenin iniziò il suo cammino poetico anche il giovane poeta albanese di Lushnje. Erano gli anni ’60 quando Haliti scriveva: «Per voi, Partito ed Enver Hoxha[1], noi dormiamo anche sul ghiaccio / per voi noi ci copriamo con lenzuola di neve». Il poeta di Lushnje ha amato molto nella sua gioventù i cantori della madre Russia e, dopo la tragica fine del comunismo nella sua Albania, Haliti diede la ‘colpa’ proprio ai suoi maestri sovietici perché aveva creduto ciecamente in loro. Così come Majakovskij ed Esenin, anche il poeta Haliti, pur in una dimensione assai diversa, rimase ‘vittima’ dell’utopia marxista, che fece decina di migliaia di morti in Albania seminando in tutto il Paese terrore, morti, sangue e distruzione di massa.

Faslli esordisce nel panorama poetico albanese alla fine degli anni ’60. Proprio nel 1969 venne pubblicata la sua prima raccolta, Sot (Oggi). I suoi versi portano un nuovo respiro poetico nel panorama del realismo socialista, l’originalità, la sobrietà del pensiero, nonché un forte senso critico nei confronti della burocrazia del regime. Il suo linguaggio è lapidario e tagliente. L’intensità del verbo e la particolarità dello stile, fecero attirare l’attenzione dei lettori e della critica ufficiale. Questa silloge vinse il secondo premio nazionale per la poesia. Haliti è di origine contadina, e come tale, portava nei suoi testi la musicalità della campagna, le voci della vita e l’angoscia del vivere quotidiano. Profumi campestri, stagioni, colori, simboli e figure mitologiche percorrono la geografia del suo io poetico, come sfida alla retorica della cultura ufficiale del regime. Fermezza e ribellione convivono nel suo messaggio poetico.

Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano senza pietà il cuore della burocrazia del regime comunista. Si può dire che la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi: «Lui aspetta che tiri vento / Non per vedere gli alberi spogli / Non per veder cadere le foglie gialle / Ma per far alzare il lembo della giacca / E far vedere la pistola nella cintola. / Lui aspetta che venga la primavera / Non per mietere e falciare / Ma per togliere la giacca / E far vedere sotto la giacca / La pistola[2]». Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista, e aspramente criticato durante il IV° famigerato plenum del PCA, nel ’73. Che condannò in prigione decine di intellettuali e scrittori accusandoli di essere influenzati dall’arte borghese dell’Occidente.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Erano gli anni in cui la critica ufficiale insisteva perché nell’arte si rispecchiassero ancora maggiormente gli insegnamenti e le idee del Partito; gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione dell’uomo nuovo del socialismo, plasmato dal partito e forgiato sotto l’incudine della classe operaia e contadina; “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigila, giorno e notte, per difendere le vittorie e la patria dai nemici. Nelle opere letterarie, i temi esistenziali e metafisici, come per esempio il sentimento di oppressione e di incertezza quotidiana, erano proibiti. Persino le parole ‘amore’, ‘morte’, ‘buio’, ‘freddo’, ‘angoscia’ venivano considerate pericolose. Coloro che osarono rompere col ‘pesante silenzio’, che aveva cancellato memoria e sogni di libertà, lo pagarono a caro prezzo. Il valore di un’opera si misurava rispetto alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe», motto che proveniva ovviamente dalla letteratura madre dell’Unione Sovietica.

Il terrore continuo e sistematico del regime nei confronti degli uomini di cultura soffocò gli spazi e l’energia della Parola. Sul palcoscenico insanguinato della poesia albanese si recitava la più fosca tragedia del tempo. Di fronte a questa tragedia umana, a questa oppressione costante, per sopravvivere spiritualmente e artisticamente i poeti rivolsero lo sguardo alle tradizioni e alla poesia del passato. Così la linfa della loro ispirazione diventò la tradizione orale e l’epica. Per sfuggire alla censura, Haliti si rivolge al mito e all’allegoria per esprimersi. La sua parola affonda le radici nel mito classico greco-latino per rileggere la realtà; la sua poesia divenne quasi un gioco fiabesco, in cui s’intrecciano il reale con il surreale. Ma i censori del regime vigilano, non si fanno sorprendere per fermare in tempo il poeta ribelle.

La macchina inquisitoria di Hoxha praticava mille forme diverse di repressione per stritolare i “nemici della nazione” e del comunismo. All’occhio vigile dei guardiani del regime nulla poteva sfuggire. Decine di poeti e scrittori vennero allontanati, mandati nelle periferie o nelle campagne per la rieducazione ideologica. Certi furono imprigionati e i loro libri messi al bando. L’elenco dei poeti perseguitati dal regime è lungo e tragico. Le milizie di Enver Hoxha controllavano ogni angolo della vita culturale del Paese. Per il dittatore, lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Il marxismo divenne l’unico principio estetico della poesia e dell’arte.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Al poeta Haliti venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi: fu mandato in campagna per essere «rieducato», in quanto persona indesiderata dal Partito. Per diversi anni, pur essendo professore di italiano e di francese, lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore e indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Costoro organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista. / Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine / con il pugno della classe operaia / spezzate i denti / ai compagni. / Per spezzarli ci vogliono pietre / che non abbiamo[3]». I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale «Shkëndija» (La scintilla)[4], organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e Tahsin Xh. Demiraj. Tahsin, dal ‘74 all’89, fu regista presso il teatro della città di Lushnje, ma venne licenziato su ordine del Partito. Per 15 anni lavorò in un’azienda di Durazzo che produceva materiali plastici. In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha per protestare contro la condanna del poeta Haliti; Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino[5].

L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella  rivista che curava, «Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».

Manifestazione a Tirana

Manifestazione a Tirana

Nonostante tutto questo, il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia, e altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo), e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola «una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria»[6]. Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» («Il percorso del Partito»), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola)[7]. Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi. Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La lunga condanna al silenzio ha fatto pesare molto sul suo futuro e sul destino della sua poesia. La presentazione del nuovo libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Rammento come oggi quel pomeriggio. Alla presentazione partecipava il segretario del Partito Comunista, Rudi Monari, il quale, insieme allo ”pseudo-poeta” M. Nezha, mise alla berlina il poeta e il suo nuovo libro. I testi che abbiamo scelto per il lettore italiano in questa antologia raccolgono il meglio del poeta, che va dal primo libro Sot (Oggi) 1969, fino alla raccolta Iku (Se n’è andato) 2004. La scelta di proporre questo poeta al lettore italiano, non è casuale ma fa parte di una missione culturale ben precisa, quella di costruire la memoria storica e culturale della mia Albania, come parte integrante della memoria della cultura europea. Faslli Haliti e Besnik Mustafaj (Leggenda della mia nascita, Edizioni Ensemble 2012, cura e traduzione dal sottoscritto), fanno parte di quei poeti che, pur vivendo e scrivendo sotto il canone del realismo socialista, sono riusciti a creare valori letterari di portata internazionale, che resistettero anche dopo il crollo la dittatura di Enver Hoxha, uno dei regimi sanguinari più spietati dell’Europa del secolo scorso.

(Gëzim Hajdari )

[1] Enver Hoxha (1908-1985): il dittatore comunista
[2] In «Nëntori 4», pp. 154-159, Tiranë 1972.
[3] Idem.
[4] In «Shkëndija», Lushnje, 25.1.1973.
[5] In «Zëri i popullit», Tiranë, 2. 8. 973.
[6] In «Zëri i popullit», Tiranë, 26. 7. 1973.
[7] In« Revista Rruga e Partisë», Nr. 3. p. 41. Tiranë 1974.

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

NË FËMIJËRI

Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit,
E lemerisshme,
Tmerr.
Në vend të këngës së saj pranverore
Dëgjoja të qarat e saj tragjike në pranverë.

Dëshira ime është:
Të thyeja krahë skifterësh egërsisht.
Në fëmijëri,
Pa e ditur këshillën e xha Hygoit:
«Kush shëron krahun e skifterit
Përgjigjet për kthetrat e tij…»

Ǒlemeri,
Ǒtmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
Dhe mos të t‘i thyeja krahët ty, skifter!

QUANDO ERA FANCIULLA

Quando era fanciulla
mia madre partecipava con affetto ai fidanzamenti
e chiedeva alle amiche:
chi è intervenuto a quel fidanzamento?
Chi si è fidanzato?
Chi si è sposato ?

Quando è divenuta sposa,
mia madre partecipava con affetto alle nascite
e chiedeva alle amiche:
Chi ha partorito?
Com’è andato il parto?

Ora
in vecchiaia, partecipa alle morti
legge le necrologie
e chiede:
Chi è morto?
Quanti anni aveva…?

(1972)

KUR ISHTE VAJZË

Kur ishte vajzë
Nëna ime interesohej për fejesat,
Pyeste shoq let fshehtas:
Kush ishte në fejesë,
Kush u fejua,
Kush u martua.

Kur u bë nuse,
Kur u martua,
Nëna ime interesohej për lindjet,
Pyeste shoqet rregullisht:
Kush ishte në lindje,
Si ishte lindja,
E vështirë ish?

Tashti
Në pleqëri,
Nëna ime interesohet për vdekjet,
Shikon nëpër shtylla lajmërime vdekjesh,
Pyet
(Sidomos fëmijët)
Biro,
Kush ka vdekur,
Ishte i madh ai qyq
Kur vdiq…?

(1972)

Faslli Haliti

Faslli Haliti

NOTTE DI MAGGIO

La luna come anello nelle mani della notte,
i neon abbagliano con luce di neve.
Noi parliamo sotto una mimosa bionda
come in una luna terrena.

Accanto a noi passano due lucciole
che sembrano fiammiferi.
E si perdono nel buio della notte
gioiose del nostro amore.

(1984)

NATË MAJI

Hëna varet si vath në veshin e natës,
Neonët ndriçojnë me dritë dëbore,
Ne bisedojmë nën një mimoze bjonde
Si nën një hënë tokësore

Pranë nesh kalojnë dy xixëllonja
Dy buqeta dritash na dhuron
Dhe ikën nëpër natë e gëzuar,
E gëzuar nga dashuria jonë.

(1984)

RICORDO CON NOSTALGIA

Ricordo con nostalgia il primo viaggio a Tirana,
era il 1946,
nella capitale sono andato scalzo
e ho dormito all’aperto.

Ricordo il mio gesto
che non ha disonorato
né me, né la città.

Non c’era un motivo preciso,
sono andato solo per vedere la capitale.

Ero piccolo,
avevo dieci anni
nel 1946.

A Tirana sono andato scalzo
e ho dormito all’aperto.
Sogno ancora quel gesto infantile.
E mi commuove la povertà di allora.

(1988)

NJË KUJTIM I PËRMALLSHËM

Unë kam lënë nam dikur në Tiranë.
Ishte viti 1946.
Së pari,
Në kryeqytet vajta zbathur,

Së dyti,
Fjeta jashtë.
Asnjë nam s’kam lënë në të vërtetë në Tiranë.

E kujtoj fare mirë tani,
As mua,
As Tiranën
Nuk e turpëronte ajo zbathëri.

Asnjë punë nuk kisha në Tiranë.
Shkova vetëm për të parë kryeqytetin.

Isha i vogël
Dhjetë vjeç
Në vitin
1946.

Në Tiranë shkova zbathur dhe fjeta jashtë
Ajo zbathëri
Më shfaqet në ëndërr,
Më “turpëron” dhe tani.

(1988)

IL PANE

Mia madre sfornava il pane
e lo riponeva nella madia;
il volto del pane era madido di sudore
come la fronte di mio padre quando lavorava.

Il calore del pane evaporava
il pane era giallo,
la fragranza c’inondava,
io ne volevo rubare un pezzo
mia madre mi fermava dicendomi:
«No,
perché il profumo del pane
non è arrivato in campagna…»

Noi bambini credevamo vera
la fiaba del profumo del pane,
che doveva arrivare in campagna
stranamente,
anche se eravamo affamati
ci fermava la mano come magia.

Con la scusa che il pane doveva raffreddarsi,
mia madre ci ingannava
e con la fiaba
il pane risparmiava.

BUKA

Nxirrej buka nga tepsia,
Vendosej përmbys mbi hambar
Faqja e bukës me pika djerse
Si balli i babait në arë.

Avullim buke.
Bukë e verdhë.
Avuj të bardhë.
Unë shkoja të thyeja një copë.
Zëri i nënës:
“Mos…
Prit të shkojë avulli në arë njëherë
Në arën e Sheqit të sosë…”

Përrallën e avullit të bukës
Që duhej të shkonte patjetër në arë,
Ne e besonim si të vërtetë.
Kjo përrallë
Për çudi
Edhe pse të uritur
Na e ndalte dorën si për magji.

Që të ftohej buka
Nëna na gënjente
Duke na gënjyer me përrallën e avullit
Bukën e shkreta
Kursente

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

ARRIVEDERCI

La direzione:
A sinistra!
Io
dritto.

La direzione:
A destra!
Io
dritto, avanti.

L’ordine:
Dietrofront!

Io
sempre avanti.

Arrivederci miei capitani!

(1994)

LAMTUMIRË

Drejtimi;
Majtas!
Unë
Drejtë.

Drejtimi.
Djathtas!
Unë,
drejtë përpara.

Urdhëri:
Prapakthehu!

Unë
Përpara, përsëri

Lamtumirë kapedanët e mi!

(1994)

LETTERA
a Majakovskij
ed Esenin

Caro Majakovskij,
caro Esenin,
siete stati voi
a farmi entrare nel cuore come genio,
come vero,
come umano,
il compagno Lenin.
Lenin
è diventato un criminale,
un terrorista, un farabutto,
dite qualcosa:
perché tacete?
sto chiedendo:
datemi una risposta,
è stato umano Lenin
o un genio criminale?
uno psicopatico,
un pazzo,
un farabutto?
Voi l’avete guardato negli occhi,
e forse l’avete incontrato,
dandogli la mano,
gli avete parlato
e Lui vi ha ascoltato.
Forse avete parlato del comunismo con Lui:
avete discusso, polemizzato.
Parlami apertamente
Majakovskij,
come sai parlare tu.

LETËR

Majakovskit
dhe Eseninit

I dashur Majakovski,
I dashur Esenin,
Ju ma futët në zemër
Si gjeni,
Si tokësor,
Si human,
Si njerzor, shokun Lenin …
Lenini
Doli kriminel,
Terrorist, horr, venerian.
Flisni:
Pse heshtni,
Ju pyes,
Përgjigjmuni,
Lenini ka qenë njerëzor:
Apo ka qenë kriminel gjeni,
Psikopat
I çmendur
Horr…?ju e keni parë Leninin me sy.
Mbase jeni takuar me të.
I keni dhënë dorën,
Keni biseduar
Ju ka dëgjuar,
E keni dëgjuar:
Mbase keni folur për komunizmin me të:
Mbase keni debatuar, polemizuar…
Folmë
Hapur
Majakovski,
Fare hapur,
Siç di të flasësh ti.

Tirana square

Tirana square

ROVESCIO

Dio
si adirò,
e decise di cambiare il mondo

trasformò il cielo
in mare,

gli uccelli nuotarono nel mare,
i pesci
volarono nei cieli.

Le stelle divennero fiori
e i fiori stelle,

i fiori emanarono luce,
le stelle diffusero profumo.

Il sole diventò
l’occhio di Polifemo
e l’occhio di Polifemo sole,

Ulisse accecò il sole con il tronco infuocato,
mentre l’occhio del Gigante ancora brilla e brucia.

Gli uccelli divennero
aerei
e gli aerei uccelli,

gli uccelli lanciarono bombe,
gli aerei sterchi,

gli animali divennero
uomini
e gli uomini animali.

MBRASHT

Zoti
U mërzit,
Vendosi ta rikrijojë botën sërish

Qielli e bëri det
Detin qiell

Zogjtë notojnë në det
Peshqit
Fluturojnë në qiell

Yjet i bëri lule
Lulet yje

Lulet rrezatojnë dritë
Yjet përhapin aromë

Diellin
E bëri sy Polifemi
Syrin e Polifemit, diell

Diellin e verboi Odisea me urën zjarrit
Syri i Polifemit ndriçon edhe djeg

Shpendët
I bëri avionë
Avionët shpendë

Shpendët hedhin bomba
Avionët lëshojnë glasa

Kafshët
I bëri njerëz
Njerëzit kafshë.

 Gëzim Hajdari, è il massimo poeta albanese vivente e uno dei maggiori poeti contemporanei. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. E’ vincitore di numerosi premi letterari. E’ presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale.

Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

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Il colloquio telefonico tra Boris  Pasternàk e Stalin nel 1934  a cura di  Antonio Sagredo avente ad oggetto il destino di Osip Mandel’štam

Stalin

Stalin

Corso monografico dell’anno accademico 1972-73 di Angelo Maria Ripellino

 (commento e traduzione di A. M. Ripellino – pgg. 30-31)

(note 127-128-129-130  di Antonio Sagredo – pgg. 30-31)

Il I° Congresso degli scrittori sovietici esaltò Boris Pasternàk come uno dei principali poeti dell’epoca: questo si spiega col fatto che nel 1934 Pasternàk era all’apice del successo e godeva dell’appoggio di alcune figure del partito, benché fosse un poeta in disparte. È nel ’34 che iniziò quel suo andare verso la semplicità, che caratterizzerà  la seconda parte della sua vita.

   Verso il regime sovietico si comportò bene e con coraggio. Cercò di aiutare Mandel’štam[1]27, quando questi fu arrestato nel ’34, e si recò dal poeta Demjan Bednyj che godeva della protezione di Stalin. Ma nel 1934, quando Pasternàk si recò da lui, Bednyj era appena caduto in disgrazia, perché aveva scritto nel suo diario che non voleva più prestare i suoi libri a Stalin in quando vi lasciava delle ditate di unto. Il segretario per farsi bello con Stalin, si affrettò a riportare il brano al dittatore e Bednyj fu ridotto alla fame con tutta la famiglia[2].

  Nel ’37 Pasternàk si rifiutò di firmare una lettera di approvazione di una delle tante fucilazioni di nemici del popolo, sebbene la moglie in cinta volesse che egli firmasse, ma non accadde nulla per questo rifiuto. Dopo essere stato da Bednyj si recò da Bucharin, sempre per aiutare Mandel’štam arrestato; Bucharin andò da Stalin esponendogli il fatto, e Stalin telefonò a Pasternàk e gli disse che il caso Mandel’štam era in corso di revisione e che tutto sarebbe finito per il meglio.

boris pasternak

boris pasternak

 La telefonata di Stalin a Pasternàk.

Stalin :

Ma perché voi, Boris Leonidovic non vi siete rivolto alle organizzazioni degli scrittori, o a me, per intercedere per Mandel’štam? Se io fossi un poeta e ad un mio amico fosse capitata una disgrazia, mi arrampicherei sui muri per dargli una mano.

 

Pasternàk :

 Le organizzazioni degli scrittori non si occupano più di ciò dal 1927; se io non mi fossi dato da fare, voi non sapreste nulla della faccenda. Del resto Mandel’štam non è proprio mio amico.

 

Stalin :

Ma è un vero artista questo vostro Mandel’štam?.

 

Pasternàk :

Questo non ha importanza.

 

Stalin :

E che cosa ha importanza?.

 

Pasternàk :

Vorrei incontrami e parlare con voi.

 

Stalin :

Di che cosa?.

 

Pasternàk :

Della vita e della morte 129[3].

 pasternak 5 Fu concesso a Pasternàk di rendere pubblica la telefonata, perché si capisse quanto fosse buono il tiranno e quanto amasse gli artisti, mentre in realtà lui stesso li mandava a morte.

   Pasternàk stesso si infervorò ad un certo punto per Stalin, personaggio strano, appartato. Sembra che anche Stalin avesse un debole per Pasternàk, perché avendo per caso udite alcune sue poesie, il suono di esse gli aveva evocato qualcosa di magico, per cui pensava a Pasternàk come ad uno sciamano, uno stregone: il che affascinava la sua figura di meridionale un po’ superstizioso.

   Pasternàk si è quindi salvato da Stalin per un prodigio, mentre la più gran parte degli scrittori, poeti e letterati del tempo, finirono nei lager.

   Pasternàk nel  1935 partecipò, a Parigi, al Congresso internazionale degli scrittori (antifascista) con la delegazione guidata da Erenburg, a cui solo all’ultimo momento fu permesso a lui e a Babel’ di partecipare130[4].

   Parigi gli servì per incontrare la Cvetàeva che viveva a Meudon, per visitare i luoghi dove aveva vissuto Rilke e l’albergo Istria dove aveva abitato Majakovskij

[1]27  – Notizie in questo senso anche nel Corso monografico del 1974-75 su Osip Mandel’štam di  A.M. Ripellino.p. 50

1[2]8  –  Preziosa  testimonianza di  Demjan  Bednyj (1883-1945). Nel maggio del 1934 Demjan e Pasternàk si incontrano: sono in auto e parlano. Il primo riferisce al secondo che: “ Molti dei nostri  pezzi  grossi sparano contro la poesia russa senza mancare un colpo e ricordò Majakovskij che era morto perché aveva voluto entrare in un campo dove lui, Demjan, si sentiva a casa propria, ma che a Majakovskij era del tuto estraneo”, in Nadežda Mandel’štam, L’epoca e i lupi, Mondadori 1971, p. 31.

129[3]—  Idem  notizie pgg. 50-55. [In una intervista di qualche anno fa Andrea Zanzotto così si esprime – più o meno – a proposito del rapporto che un despota ha con la poesia:” I dittatori amano la poesia, sa. La poesia, i suoni delle parole hanno effetto come di calmante, sono come una ninna nanna che li addormenta per uscirne rigenerati dalle forti tensioni a cui sono sottoposti”. È la medesima cosa che afferma Ripellino, più sotto (nota 12, p. 5), quando afferma che Stalin vedeva in Pasternàk uno sciamano; e gli sciamani, si sa, danno importanza ai suoni delle parole che pronunciano, al  loro ripetersi ossessivo come una cantilena che tranquilla e t’assopisce. Forse fu questo, uno dei motivi, perché il poeta sopravvisse al dittatore! ]

130[4]   Durante  i giorni che videro lo svolgersi del Congresso a Parigi il suo atteggiamento fu distaccato, anche verso alcuni intellettuali russi che incontrò. Da una lettera alla moglie si evince che il poeta è estremamente  sofferente, anche per  i disagi materiali che nella capitale dovette sopportare. Qui conobbe la figlia della Cvetaeva,  Ariadna, con cui più tardi imbastì  un carteggio; il poeta premiò la fedeltà di Ariadna verso di lui  inviandole, forse per prima, il Dottor Živago. Durante un giorno del Congresso, il poeta ceco Nezval narra che vide Pasternàk, il quale lo riconobbe subito e che lo salutò “mandandogli  un bacio con le dita”. (in V. Nezval, Memorie dell’avanguardia praghese nella rivista Europa letteraria… op.cit. p. 150).

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo A. Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.

Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (Alberto Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (Alberto   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. Alberto Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. Alberto Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche.

Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. Alberto. Di Paola e Kateřina Zoufalová.

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LA POESIA di PABLO PICASSO E LA QUESTIONE DELLA METAFORA nell’interpretazione di Valerio Gaio Pedini con una scelta di poesie di Pablo Picasso

picasso donna seduta

picasso donna seduta

 Rileggendo  le poesie di Pablo Picasso ho fatto mentalmente una panoramica della poesia italiana del ‘900 e mi sono reso conto di una vistosa lacuna stilistica. Soprattutto nel secondo Novecento è mancata la capacità di utilizzare le qualità comunicative della metafora, anzi, quest’ultima è stata indicata come un corpo estraneo da estirpare dalla poesia, come un orpello, trattata alla stregua di un abbellimento lessicale, un retorismo da evitare a tutti i costi. Ritengo questo fatto un errore grave che ha inciso sulla poesia italiana privandola di un elemento insostituibile del linguaggio poetico. Pregiudizio grave che sarà gravido di conseguenze negative sul piano stilistico per la poesia italiana.

Picasso, da pittore, non ha pregiudizi verso l’immagine, anzi, lui vede il linguaggio poetico come una funzione dell’immagine. Per il pittore spagnolo la metafora è ragguagliata alla immagine, ed entrambe sono impiegate come «fotogrammi» degli «oggetti», alla stregua di una macchina da presa che inquadra gli oggetti e li duplica nel fotogramma; la poesia è vista da Picasso come uno scorrimento di fotogrammi nel montaggio. È una procedura poetica che mette al centro la rappresentazione, la sovrapposizione, il montaggio delle immagini.

La responsabilità maggiore di questa incapacità della cultura poetica italiana ad intendere la funzione e la natura della «immagine» e della metafora è da rinvenire, a mio avviso, nella egemonia che la poesia del Pascoli ha esercitato sulla poesia italiana del primo e secondo Novecento, nel Gruppo 63, nello sperimentalismo di Zanzotto e nella  poesia della linea lombarda. La poesia italiana si avvierà in una via poetica epigonica di matrice lineare-fonetica di derivazione dalla poesia pascoliana. Privata della metafora e dell’immagine che, notoriamente, si sottraggono o mal si adattano ad un pentagramma sonoro di matrice lineare e unidirezionale, la poesia italiana del secondo Novecento si avvierà su un pedale basso lessicale e stilistico che finirà per appiattirla su un piano esclusivamente «comunicativo». La ricerca della «comunicabilità» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. Nemmeno con il primo emetismo si viene a capo di questa vistosa omissione; una poesia come quella di Ungaretti è intuitivo-epifanica ma non riesce a creare una metafora dell’immagine. E tuttora il vuoto è vistoso. Questo vuoto della metafora e dell’immagine ci pone degli interrogativi. Mi chiedo se la poesia italiana sia in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro «patologico». Per il momento, la risposta non può che essere negativa. La più totale omissione è sotto i nostri occhi. E la poesia italiana, a parte eccezioni di pregio che pur ci sono, conserverà una matrice  fonosimbolica unilineare .

Comunque, tornando a Picasso, bisogna dire che la sua poesia è incentrata sul principio del contrasto. Cito Picasso, “l’arte deve trovare, non cercare”, e se l’arte non trova allora vuol dire che la ricerca è fallita. Leggiamo una poesia di Pablo Picasso:

IL CIGNO

Il cigno sul lago a modo suo fa lo scorpione

 Che sorpresa. Solo un verso, un piccolo verso, un miserrimo verso, eppure che immagine, che parallelismo e, come dire, che trovata! Lo si vede il cigno nel lago con il collo inarcato, che si  riflette nell’acqua e appare come uno scorpione pronto a pungere la preda, ad attaccarla e farla soccombere. In questo modo l’aspetto paradisiaco del cigno diventa un’immagine di una incredibile virulenza estetica. E qui si trova una esemplificazione del principio del contrasto nella sua essenza. Eppure non ci sono ribaltamenti bruschi, c’è soltanto un’immagine fotografica.

Picasso  era pittore anche nella poesia, fa pittura in poesia. Ecco, se dovessi indicare una debolezza della poesia italiana del secondo Novecento, direi che essa non ha saputo fare poesia mediante la pittura. Non ha imparato nulla dalla pittura del secondo Novecento. Non ha imparato nulla dalle scoperte della fisica dei quanti. Nel secondo Novecento è sì operato esclusivamente su una piattaforma descrittiva e narrativa sostanzialmente quantitativa, ma è restato fuori dell’interesse della poesia italiana il problema della metafora e dell’immagine.

La poesia di Picasso invece è un esempio vistoso di una poesia che fa perno sulle stratificazioni architettoniche delle immagini. Arriva per una sua via tutta particolare, allo «sguardo sincipitale» teorizzato da Osip Mandel’stam. Una sorta di caleidoscopio in miniatura, un brillante gioco di illusionismi. La poesia di Picasso è ricca di decostruzioni. Osserviamo:

OFELIA

Ofelia cade in un bicchier d’acqua e annega

 

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

Gnomismo del paradosso. Picasso utilizza uno gnomismo tipico e lo smonta, e lo rimonta a suo piacimento, tratta le immagini come dei meccani, tratta l’assurdo come normalità. Ma non vi è nulla di assurdo, poiché l’annegamento di Ofelia è trattata come un dato realistico. Oppure:

IL PARTO

La donna che partorisce grida come i vetrai

 Si procede su parallelismi apparentemente sconnessi: cigno-scorpione e via discorrendo, fino ad arrivare a questa che è l’apice della poesia di Picasso. Cosa significa? Che corrispondenza vi è tra una donna che partorisce ed un vetraio? Ce lo dice Picasso: l’urlo. Sì, ma cosa significa? Penso alla rottura delle acque e della forma originaria del vetro. Eppure no, è lo sforzo genetico, lo sforzo della creazione. E allora lì si vede la madre e il vetraio paonazzi che si sforzano di dare origine, di dare vita: compiere un’opera. Questa è una metafora visiva che ci collega subito all’anima dell’arte poetica.

In Italia non avviene nulla di così forte. Ungaretti s’illumina d’immenso ma manca della metafora visiva! E una poesia senza metafora visiva rischia di essere scipita, piatta. L’ermetismo fa una poesia contestualizzata, chiusa dentro i propri asfittici confini stilistici, non riesce a cogliere l’importanza di una metafora visiva (e sonora). Picasso, di origine genovese, è l’unico poeta-pittore ad aver elaborato una poesia delle immagini. Una poesia deve contenere uno sguardo che osserva un oggetto, e l’oggetto viene trasposto e decontestualizzato dagli altri oggetti. Come disse Picasso: “l’artista è anzitutto un uomo politico del suo tempo”.

La poesia italiana del Novecento (compresi il futurismo e il crepuscolarismo), farà deliberatamente a meno della metafora. Ma è nel secondo Novecento che i risultati estetici di questa lacuna saranno visibili: la poesia italiana risulterà canonica, istituzionale, volontaristica, lessicalmente impoverita. Alcuni poeti isolati tenteranno uno sviluppo della metafora visiva, penso a Dino Campana e ai suoi Canti orfici (1914), ma si tratterà di casi isolati. Oggi il mio riferimento va alla poesia di un Antonio Sagredo, questa sì, «inclassificabile» secondo gli schemi di una poesia undirezionale lineare; penso alla poesia del «frammento simbolico» di Giorgio Linguaglossa, alla poesia «rallentata» di Steven Grieco-Rathgeb, alla poesia di «citazioni» e di «frammenti» di Mario M. Gabriele, ma anche alla poesia di Francesca Diano, a quella di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi etc. In questi poeti del tardo Novecento e di questi anni, la metafora visiva non è solo un atto di resistenza alla visione cloroformizzata, normalizzata, ma anche e soprattutto una «nuova visione» degli «oggetti» e del «mondo».

A mio avviso, solo con l’idiosincrasia verso la visione cloroformizzata degli oggetti e con la belligeranza stilistica si potrà fare una poesia esteticamente non educata.

 (Valerio Gaio Pedini)

picasso Sogno

picasso Sogno

(Poesie tratte da Scritti di Pablo Picasso, a cura di Mario de Micheli, SE)

IL MIRACOLO

Il miracolo che il torero frigge
nella piazza del peperone
la precisione del volo attraverso la nuvola
che il cristallo infrange
con la sua cappa.

ESTATE

Passa l’estate
fetta di melone che la cicala accende
e trascina nella sua ferita
la cappa dell’espada.

Il VESTITO DEL TORERO

Al torero
con l’ago più sottile che la nebbia inventò
cuce un vestito di lampade
il toro.

IL TABACCO

Il tabacco avvolto nel sudario
vicino a due banderille rosa
spira i suoi disegni modernisti
sul cadavere del cavallo
e al fuoco del suo occhio
scrive sulla cenere
l’ultima sua volontà.

picasso quote

LA PERSIANA

La persiana sbattuta dal vento
uccide i cardellini in volo
i colpi macchiano di sangue
la spalla della stanza
ascolta passare il candore
la morte porta in bocca aroma d’armonium
e la sua ala tira la corda del pozzo.

I CARDELLINI

I cardellini sono l’aroma
battente con la sua ala il caffè
che riflette la persiana nel fondo del pozzo
e ascolta l’aria passare
nel silenzio della candida tazza.

L’AROMA

L’aroma ascolta passare i riflessi
che il cardellino sbatte giù nel pozzo
e offusca nel silenzio del caffè
il candore dell’ala.

LA FANCIULLA

Fanciulla
bel falegname che inchiodi le assi
con le spine delle rose
non piangere una sola lacrima
se vedi sanguinare il legno.

Picasso quote 1

PREPARATIVI

Lo facciano pure dove vogliono il loro festino i topi
purché non mangino il piccione nel nido
purché non mettano bandiera e lampioncini nelle piaghe
purché il mattino dopo non sia tutto un pianto
quello che si deve fare
è sguinzagliare i cani perché li uccidano
e al punto in cui siamo comprare mobili
non fa niente se l’allegria non nasce
nello stesso momento
in cui s’avvolgono nacchere in risate
e colori di festa in motivi di chitarra
quello che si deve fare
è coronarsi di rose ed esser felici
di vedere le cose laide belle così come sono
e gettar loro la cappa e vestirle di complimenti
e portare la tavola già imbandita di fiori
e cantare e gridare che arriva
e preparare il letto che tra le lenzuola
nasconde l’arcobaleno.

*

lingua di fuoco sventaglia il suo viso nel flauto la coppa
che cantando corrode la pugnalata dell’azzurro
così grazioso
che seduto in un occhio del foro
iscritto nel suo capo adorno di gelsomini
aspetta che gonfi le vele il pezzo di cristallo
che ammantellato nel fendente a due mani
gocciolando carezze
divide il pane fra il cieco e la colomba color lilla
e assale con tutta la sua cattiveria le labbra del limone in fiamme
il corno contorto
che spaventa coi suoi gesti di addio la cattedrale
che sviene fra le sue braccia senza un olé.
mentre scoppia nel suo sguardo la radio di prima mattina
che fotografando nel bacio una cimice di sole
si mangia l’odore dell’ora che cade
e trapassa la pagina che vola
distrugge il rametto che porta infilato nell’ala che sospira
e la paura che sorride
il coltello che salta dalla gioia
lasciando ondeggiare ancora oggi come vuole e in qualsiasi modo
al momento esatto e opportuno
sull’orlo del pozzo
il grido della rosa
che gli getta la mano
come un’elemosina.

(28 novembre 1935)

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se poteteRigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicalaEssence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme LiquideScenari ignoti e Glocalizzati.

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DIECI POESIE di Domenico Alvino da “Thauma Donna Domina Domus Prima” Loffredo Editore, Napoli 2014 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

  Commento di Giorgio Linguaglossa

Domenico Alvino è nato a Luogosano (Avellino) nel 1934, vive a Roma. Nel 1992 pubblica Il suono d’ombra e, nel 1996, Dove si formano le piogge (Amadeus, prefazione di Maria Luisa Spaziani). E’ autore di numerosi saggi sulla poesia contemporanea ed è’ stato redattore diPoiesis”. Domenico Alvino è poeta del disincanto, ovvero, della indirezione. Ma tra indirezione e disincanto v’è una relazione evidente nella misura in cui la perdita dell’orientamento, e quindi della direzione, produce quella particolare attitudine psicologica e gnoseologica al disincanto. L’aria inorientata (Roma, Scettro del Re 2002) è il titolo di un’opera che porrà stabilmente Domenico Alvino tra i poeti più promettenti degli ultimi anni. Tenterò di spiegarne le ragioni. Il disorientamento è una condizione psicologica dell’uomo nel mondo moderno, non soltanto un privilegio del poeta; diciamo che il poeta ha anche a che fare con il problema delle parole instabili, anche le parole hanno perduto il loro luogo, non sanno più dove abitare e sono divenute instabili; ne segue che il poeta che voglia conquistare il suo linguaggio deve meditare per forza di cose sopra queste problematiche. Alvino tenta di dare una risposta mediante la costruzione di una poesia modernista, cioè prende le mosse dall’inizio del Novecento, dal linguaggio eburneo  del D’Annunzio, lo travasa nel magma linguistico del parlato quotidiano dell’Italia degli anni Novanta, lo agita e lo ricompone, come per magia, in un dettato asciutto e scombiccherato, dalla sintassi claudicante ma lampantemente chiaro ed efficace. Poeta modernista, Alvino abita il Moderno con la consapevolezza di un argonauta dello Shuttle. Cosciente di essere un epifenomeno dell’interminabile linea epigonica delle poetiche degli ultimi vent’anni, Domenico Alvino reagisce con vigore, descrive con inaudita circospezione la deriva fenomenica del disincanto, proprio quando il sortilegio universale imperversa, costretto e spintonato entro la linea di demarcazione dell’esaurimento delle poetiche post-sperimentali e post-orfiche del tardo novecento. Tra ironia e disincanto, dopo il diluvio dell’ipocrisia i suoi personaggi vanno avanti e indietro, vagano, si interrogano, chiedono ma tutto è chiuso, sprangato, le saracinesche abbassate, i fili tagliati. Leggiamo una sua poesia:

E’ scuro, non si vede niente qui./ Non entra mai nessuno. La vita / si svolge nelle stanze basse./ Accendi. Ma che cosa./ Hanno tagliato i fili. Tanto/ non serviva. Una finestra almeno./ Me le hanno chiuse. Murate./ Ma quando. Mah, sarà un anno / o due, o venti. Non ricordo./ Furono quelli delle tasse

  Non c’è dubbio che la sintassi franta, la composizione paratattica, le unità di articolazione quasi del tutto assenti costituiscono gli elementi fondamentali dello stile. La punteggiatura fitta ed irta, divide e taglia le unità della proposizione determinando quel caratteristico moto a singhiozzo, stop and go, l’andirivieni continuo ed asfissiante tra la retromarcia innestata dalla punteggiatura e la spinta inerziale della sintassi; senza dimenticare che il linguaggio svaria da neologismi di impianto dialettale di Luogosano a lessemi di un italiano colto ormai caduto in disuso. Il senso di disorientamento che coglie il lettore dinanzi a questo stile è del tutto giustificato. Alvino vuole rendere tattilmente, lessicalmente evidente questo spaesamento generale del linguaggio, privo ormai delle coordinate giustificatrici della tradizione. I suoi “interni” sono tutti disturbati da eventi atmosferici e da una sismografia generalizzata del lessico così da generare uno smottamento sotterraneo dei significati senza ricorrere all’ausilio di alcun gioco dei significanti. E questo è importante da sottolineare per tracciare una sicura linea di demarcazione tra le operazioni di matrice post-sperimentali e quella portata avanti da Alvino. Inoltre, gli “interni” di Alvino sono costruiti giustappunto con la tecnica del “giallo”. Il poeta di Luogosano dissemina il testo di trappole semantiche, di sviamenti, di nascondigli lessicali, di divagazioni e di sospettosità: qualcosa deve avvenire, c’è il presagio, c’è l’iter del delitto avvenuto o che sta per essere compiuto (ma da chi?). Il testo è straordinariamente tattile e duttile e straordinariamente incerto ed ambiguo. In questo compito Alvino non concede quasi mai nulla al lettore, non indulge mai alla seduzione del testo, non consegna mai laccature o cromatismi, disdegna eufuismi ed eufemismi e preferisce sempre indicare chiaramente le cose, le sue proposizioni sono dichiarative; proprio come il linguaggio giudiziario procede mediante enunciati dichiarativi quello di Alvino si dipana mediante microcitazioni dichiarative, le quali  assemblate ed assiepate le une accanto alle altre, invece di generare un testo normativo, produce, con somma sorpresa, un messaggio sommamente ambiguo proprio per l’incidentalità e la molteplicità delle informazioni in esso contenute. Qua e là affiorano relitti dello stile gnomico: “Il deserto è inoltre improvviso e violento/ e spiana foreste nel sangue e accumula pietre nell’occhio” 2), ma si tratta appunto di reperti archeologici e, per forza di cose, proprio in questi frangenti il linguaggio dell’autore si arricchisce di metafore come per  dissimulare la nostalgia per un linguaggio pienamente significante oggi inattingibile. Leggiamo ancora una poesia inedita intitolata Il banco dei pegni:

Adesso andiamo, aspetta, un momento / Solo che smetta di piovere./ Quasi non c’è più vento. E poi chi ti dice che chiude / Il Banco. Asciugati le guance. Aggiusta i capelli // Ecco. Faremo a tempo. Ha già spiovuto. C’è solo qualche goccia./ Il guaio sono le pozzanghere. Devi andare da una pietra all’altra./ Scegli le più lisce. Questa forse… o l’altra lì. Hai suole sottili (…) Vieni. Si vendono calosce, qui all’angolo. Fa piano t’inzaccheri./ Adesso è bello il tempo. Vieni. Il Banco è vicino./ Sotto quell’insegna al neon./ Spenta.

Questa retorizzazione è il prodotto del carattere non vincolante degli enunciati legati/separati dalla categoria dell’inferenza. Ogni enunciato porta con sé l’alterità, si presenta come flusso in divenire del sistema degli enunciati. Essi rimandano, in ultima istanza, mimicamente e mimeticamente, annunciano, sornionamente e lacanianamente al fatto che anche l’inferenza finirà un giorno per indebolirsi a causa della presa d’atto della non-identità e della propria costitutiva paradossalità. Poesia intimamente drammatica questa di Alvino per questa invasione della paratassi, per questo azzoppamento sintattico e semantico, per questa deglutizione del flusso dichiarativo dentro il buco nero della significazione.

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

 Indice

Tra ombre annunziando l’alba
Di notte incontra una sconosciuta. 17

Con qualche filo di nebbia
case forse o frantumi
silenziosi precipitavano
restando fitti in piedi:
mi sorpresi a camminare in fretta
sotto le stelle impallidite
tra ombre annunziando l’alba
venivi piccola da parere altra
cosa ammantata d’alba
o del risveglio di luci
assopite per le vie del sole:
ma eri chioma e mantello
neanche un po’ di volto
lontano
avvicinandoti poi
sotto le ciglia candore
che solo uno sguardo feriva o filo
di sospetto forse:
ma io raccoglievo frantumi
di desiderio
intorno all’ambio sinuoso
non altro in quell’ultimo lembo
di notte che moriva
e di cielo.

.
(Anni Sessanta).

Tu eri
Per la stessa: nostalgia. 27

Oh, dove
sei
tu eri e le cose no
la strada, il silenzio del vento
sotto il mio essere quel momento
tu
eri in quel mentre lì d’allora.

Mercoledì 27 ottobre 2010.

 by the meg-booby Tura Satana. I love how she looks in the film - all huge tits, huge arse with teeny wee waist, clad in black high waisted jeans and leather gloves.

by the meg-booby Tura Satana. I love how she looks in the film – all huge tits, huge arse with teeny wee waist, clad in black high waisted jeans and leather gloves.

Fulmine e lampo perduto
Di Adamo ed Eva, appena lì nell’Eden,
che si dicono di sé. 28

Che c’eravamo
un cercare l’un nell’altro
un tempo
vuoto
da compiere dell’altro
l’uno
e nessuno
c’era in quel noi
lì assetato di presenza
per anni
il pensiero s’era calato in alture
altre da quelle dove noi
lampi
ci eravamo
nel nostro fulmine
accesi
che ancora
Mnemosine protraeva
nel mare del possibile
tenuto aperto
in noi.
Eccolo di nuovo ora
che
l’un venuto all’altro
l’uno è dell’altro il lampo
e siamo
unicamente siamo
un solo eterno lampo
sopra il nulla
sùbito…
e…
spentosi
forse l’un nell’altro
non ci quieteremo
nella nostra voglia eterna
inadempiuta
ché avrà la nostra carne
senza il pensiero attinto
e perduto
ch’è un lampo
la vita.

Roma, 25 giugno 2011.

Lontananze
Tra sogno e dicerie. 34

Ci sono luoghi
a Bologna o altrove
ristoranti o salotti o sale di conferenze
o di ballo o spiagge
anche lì fra terra e luce
dove arrivando una donna
manda intorno un po’ di sguardo in cerca.
E trova
che l’aspettava
uno come un cieco smarrito
una mano
che lo indirizzi.
Vi lega una ministoria
fatta di cenni e sguardi
una stretta, un sorriso
un affaccio l’uno dentro l’altra
un annuso d’incavi,
di secrete
come una volta da ragazzo
nella falegnameria
stando al buio
e lei tutta offerta in luce
d’una ministoria
portata via dall’ombre
come altre poi
fatte miseramente
cadere.

I presenti intanto
se ne sono andati uno ad uno.
Il locale sta per chiudere.

Roma, 26 gennaio 2006

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer's cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards' trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection  Rex Features Everett Collection

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer’s cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards’ trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection Rex Features Everett Collection

Tra i capelli ritinti
De bicodulis femininis. 110

Un vento è
tra i capelli che tingi
pezzi di buio ne cadono
d’attorno i sorrisi al serpe che sorride.
Come può succedere
che metta un piede
sul capo di chi le onora
come
lo accarezzano mentre
dicono amore
a chi di coltello cercano nelle viscere
il punto della vita
come
così ridenti che
angeli prigionieri
vi svolazzano e poi ecco
la loro letizia smuore
e vogliono la fuga…

Novembre 2011

Dolore
Parole da dirsi dall’innamorato all’amata che lo ricusa. 131

Questo dolore
edificato
un me edificato
con un terrazzo senz’aria
finestre appena murate
e oblò che dicono di mare chiuso
con l’aria che si chiude il respiro appresso
questo dolore calotta
esposta
alla canicola
questo dolore con fondamenta
dure
sale rampe ripide
poi di lassù s’insacca quale
anima di ferro
in cemento
in cemento
questo dolore
di te.

Roma, 6 ottobre 2011.

Domenico Alvino

Domenico Alvino

Amore che presta ali
Idem eidem de eodem. 132

Se lo fai uscire poi
tutto crolla
sta un po’ in caduta
sospeso
altissimo
e poi precipita che non lo raccogli
di secolo in secolo che sarai
pensiero
d’uno o di alcuno
maculato di tale desiderio,
di te stesso
abbandono a tale
reiezione…
Ma quale
crepuscolo di idee ora ti abbruna
verso quale buio
che non vedi o riconosci più
amore
che ci presta ali.

Roma, 6 ottobre 2011.

.
Il giorno dei morti
È lei che attiva e disattiva la vita. 158

È finito il tempo
disse al mattino seduta sulla sponda
è finito
il tempo. Io
non dissi niente
mi alzai e me ne andai
e smisero gli uccelli
mi uscirono dalle vene
dei morti
mi morivano ancora
nei polsi
i vivi non avevano un respiro
solo
morti nomi giù
nei tèndini
me ne andai
alla deriva
per dimenticanze.

Roma, 26 aprile 2004

domenico alvino

Sotto il biancore di pelle

Dov’eri
che non ti vedevo
sotto il biancore di pelle
il lampo d’occhi azzurri
o neri
sotto
i fianchi melodiosi
i capelli, la bocca
dove morivo
annebbiandomi in tremori.
Dunque eri lì nascosta che non
ti vedevo
e fuggivo via
e nessuna mi trovava.
Ora sono qui orfano e
vedovo e
monco e fiato senza
un getto.
E invece tu ancora
dove sei
forse su una stella persa
che non mi senti.
Anzi la voglia ti è passata
e punti a un Dio
che si cancella
e ti cancelli.

Roma, 25 dicembre 2007

Sera sul piede
Dante, in sospetto, a Beatrice, o Petrarca a Laura, 168
come fosse Nino a Semiramis, “che a vizio di lussuria fu sì rotta…”

Io e te da soli mai
fu che avvenne l’alba
e poi giù sera
sul piede
oltre la soglia
era il cuore oltre il muro
tu nel chiuso lì
lontana
quanto stella persa
tra satelliti
cupidi
rantoli
io ne sentivo
di parole e gemiti…
Negli occhi
mi si alzava grande
un letto
in uno specchio
nudi
diavoli
proni
avanti altri a battere ad arieti
e tu maestra indotta
a ridere sotto i colpi
o da parte lì schiusa
al tuo rantolo
fino
al culmine lancinante.

Roma 29 ottobre 2011.

Domenico Alvino nativo di Luogosano (AV), ha insegnato lingua e letteratura italiana e latina nei licei della Capitale, dove risiede, ed ora svolge attività di poeta, scrittore, saggista e critico letterario. Ha fatto esperienze teatrali da studioso, autore, interprete e regista. Nel 1973 è stato recensore letterario del quotidiano «L’Unità». Ha elaborato un dispositivo di analisi critica, denominato “critica operazionale”, il cui saggio fondativo, col titolo Poesia e riscrittura di poesia: un modello teorico, è pubblicato su «Aufidus», rivista di scienza e didattica della cultura classica, anno XIII, n. 39, Kepos Edizioni, Roma, dicembre 1999.Ha tenuto conferenze in varie sedi universitarie italiane ed estere su problemi di teoria, storia e critica letteraria, di politica scolastica e di didattica applicata agli studi classici.
Da critico militante, è stato redattore della rivista “Pòiesis”. Suoi testi (recensioni, saggi e opere di poesia) sono altresì apparsi su diverse riviste e quotidiani, quali «Otto-Novecento», «Critica letteraria», «Gradiva», «Riscontri»; «La Mosca di Milano»; «Galleria»; «Fermenti»; «Cartevive», «Ambra», «Altro Parnaso», «Atene e Roma», «Nuova Secondaria», «Il Tempo». Oltre a vari componimenti apparsi occasionalmente su riviste, i libri di poesia pubblicati sono: Il suono d’ombra, Ragusa, Cultura Duemila Editrice, 1992, con prefazione di Concetta Fiore; Dove si formano le piogge, Cittadella (PD), Nuove Amadeus Edizioni, 1996, con prefazione di M. L. Spaziani; L’aria inorientata, Roma, Lo Scettro del Re, 2001; Thauma Donna Domina Domus Prima, Loffredo Editore, Napoli 2014, prefazione di Giangiacomo Amoretti. Dei critici che si sono occupati della sua produzione letteraria si segnalano: G. Capocefalo, M. Petrucciani, D. Pisana, S. Saluzzi, F. Ulivi, S. Gros Pietro, G. Gangemi,L. Nanni, Giorgio Linguaglossa e Donata De Bartolomeo. Membro del Cenacolo dell’Associazione culturale Rossella Mancini, nel 2004 ha tenuto un corso sulla critica operazionale, di cui ha dato conto in due saggi, Concetti base della critica poetica operazionale e Critica operazionale: prove applicative sull’elocutio, pubblicati sul sito dello stesso Cenacolo. Ivi è possibile leggere anche uno studio su Intelletto ed emozione in poesia, ed un altro dal titolo Il problema del linguaggio in poesia. Molti suoi componimenti, in lingua e in dialetto, sono apparsi in rete, dove sono tuttora leggibili.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, Domenico Alvino, Loffredo editore, Thauma

SEI POESIE di MICHAL AJVAZ (cura e traduzione di Antonio Parente) da Autori vari, da “Sembra che qui la chiamassero neve. Poeti cechi contemporanei”, Hebenon-Mimesis, Milano 2004 con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

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Giorgio Linguaglossa

Michal Ajvaz si riallaccia a quella grande tradizione filosofico-fantastica che fa capo a Borges, Calvino, Perec. Il suo è un viaggio fantastico attraverso un futuribile, modernissimo e improbabile mondo quotidiano di Gulliver. I personaggi che intervengono nelle poesie di Ajvaz sono persone qualsiasi, i nostri vicini di casa, magari un po’ stralunati, che sembrano venuti da un altro pianetaAjvaz presenta delle situazioni dove personaggi improbabili attraversano il nostro quotidiano come fosse una dimensione onirica, e attraversano la dimensione onirica come fosse il nostro quotidiano. Ajvaz tratta il quotidiano alla stregua di una dimensione onirica e farsesca, con tutto ciò che ne consegue in termini di svalutazione della Storia e delle ideologie. Non si dimentichi che Ajvaz proviene da quella generazione che ha vissuto il 1968 praghese, i carri armati sovietici, la restaurazione e la fine violenta della Primavera di Praga, il gelo della nuova guerra fredda, la fine del comunismo e l’inizio di una nuova era capitalistica, il liberismo sfrenato e una sfrenata liberalizzazione dei mercati. Una vera ecatombe della semiosfera e della ecosfera politica e antropologica del popolo praghese. E che cosa poteva fare la poesia praghese dinanzi a questi eventi macrostorici? Che cosa poteva fare Ajvaz se non rispondere con una carica energetica notevolissima, con un nuovo «realismo onirico», come è stato chiamato o «irrealismo onirico», come io lo chiamerei? Forse, la poesia reagisce come la coda di un rettile: si ritrae istintivamente di fronte alla crudeltà della storia. Se il «realismo» rientra in quella grande ideologia della semiosfera che crede che il «reale» stia lì e noi qui a rappresentarlo, l’irrealismo di Ajvaz parte dal presupposto opposto, che il «reale» è scomparso e che noi dobbiamo ricreare il «reale» ogni volta che gettiamo uno sguardo su di esso. Ha scritto Boris Groys: «La vittoria del materialismo in Russia portò alla totale scomparsa nel paese di qualsiasi materia».1  Verissimo. Potremmo dire, parafrasando Groys, che la dittatura staliniana, la fine prematura della primavera di Praga del ’68, ha finito per far scomparire presso la poesia ceca i concetti di «reale» e di «materia», ha decretato la scomparsa di tutte le ideologie che peroravano la bontà  e l’eternità di quel «reale» e di quella «materia». Ecco la scaturigine profonda dell’«irrealismo» post-surreale di Ajvaz. Perché un certo tipo di poesia «realistica» consegue sempre da un certo concetto di «reale», è un atto di formazione estetica di quel «reale», un rafforzativo di una certa visione del mondo, rientra, insomma, in un determinato concetto della semiosfera e della sua utilizzazione in chiave conservativa. Ecco, a me sembra che la poesia di Ajvaz ci dica che non c’è nulla che valga la pena di conservare, che non c’è un «tutto», e che esso «tutto» è soltanto una costruzione ideologica che serve di «rinforzo» di una certa visione di un certo «reale». «Le relazioni verticali in poesia / sono fittizie», scrive Ajvaz. Appunto, un concetto di «relazione verticale»  in poesia ha cessato di essere stilisticamente propulsivo, vitale; ciò che resta di vitale è tutto ciò che non rientra in questo tipo di concetto di «relazione verticale», gerarchica.

L’autore ceco non pensa più di disporre del potere di regolare il «reale» e di «dominare» il materiale poetico, concetto questo tipico delle avanguardie novecentesche, in Ajvaz il testo è una relazione orizzontale non gerarchica. È una poesia che si affida alla procedura metonimica. Ecco, leggiamo: la mattina dei turisti giapponesi entrano nella stanza dove il poeta vive, ecco quello che accade:

I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale 
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

Oppure, ecco un nano che strimpella su un pianoforte allo Slavia caffè dove il caffè «costa otto corone e quaranta», e succede un gran parapiglia con i clienti del bar, perché «i clienti e i nani si odiano»… Ed ecco che all’improvviso irrompe «una mandria di renne», e, subito dopo compaiono dei koala che litigano con gli avventori del bar, e poi ecco «un animale bianco» che non sa cosa fare… etc. È un tipo di poesia dove l’organizzazione sintattica ha smesso di funzionare come relazione razionale verticale, dove il «dominio» ha cessato di esercitare le sue qualità taumaturgiche e le sue bontà razionali, dove l’unica regola ferrea è quella della orizzontalità di tutto quanto noi designiamo con l’antiquato concetto di «reale» e quant’altro.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia.

Vorrei richiamare la classificazione di Cesare Segre, delle posizioni del «narratore» rispetto al «testo», procedura che può essere adottata anche in poesia, anzi, che mi sembra calzare a pennello per la poesia di Michal Ajvaz. La sottopongo alla attenzione dei lettori. Si tratta di una procedura di «irrealismo onirico»:

1) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

2) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che però analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico);

3) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

4) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico).

La caratteristica della poesia di Michal Ajvaz è che egli utilizza un po’ tutti questi punti di vista insieme secondo una procedura multicentrica e poliprospettivistica.

 I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

*Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato

La grande qualità di Ajvaz è quella di saper inserire nello scorrimento del «verosimile» delle sue poesie delle deviazioni di senso, delle proposizioni incidentali e parentetiche che sospendono e sviano il senso, i significati delle poesie per convogliarvi un sopra senso, un sotto senso, dei sensi obliqui, significati diagonali, spostati, ellittici. È una procedura sconosciuta alla poesia italiana del secondo Novecento, perché noi in Italia non abbiamo avuto una scuola poetica surrealista e siamo rimasti orfani, orfani di un approccio squisitamente «realistico» al problema del «reale». Abbiamo avuto delle ottime manifatture di bottega (la cd. linea lombarda è una di queste) che hanno però prodotto risultati estetici prevedibili e, in qualche modo, programmabili e programmati. In Ajvaz invece abbiamo un poeta che ha fatto tesoro della procedura surreale o surrazionale di costruzione del testo poetico, senza dubbio Ajvaz ci presenta dei testi che esulano dagli stilemi realistici della nostra tradizione letteraria,  il nocciolo di questa procedura è costituito dalla deviazione.
Nel brano riportato è davvero bizzarra quella invenzione dei turisti che entrano ed escono dall’appartamento mentre fotografano tutto, e quel treno espresso internazionale che passa per la camera da letto. Si tratta di inserti a metà tra il surrazionale e l’assurdo che ci svelano un nuovo rapporto con il «reale» cui siamo abituati.
Se lo stile di un autore è individuato dal sistema delle deviazioni (deviazioni dalla langue, dal linguaggio letterario, dai cliché e dai modelli letterari invalsi in un sistema letterario), dobbiamo riconoscere che i testi di Ajvaz risultano avere uno stile di eccellente fattura.
Credo che da Ajvaz ci sia molto da imparare.

  1. Groys Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti, 1998 p. 28
onto ajvaz

Michal Ajvaz, grafica di Lucio Mayoor Tosi

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Michal Hajvaz copertina

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

Fiume sotterraneo

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia. Il foglio bianco dopo l’ultima lettera del rigo
ancora indistintamente espira parole insabbiate (ora piuttosto
soltanto il loro profumo), di tanto in tanto si solleva
nel candido vuoto un frammento di frase, un’immagine indistinta
come l’allucinazione di un esploratore polare sulla distesa di neve.
Sono immagini di sogno di porti pullulanti di gente sul molo,
immagini di una giungla dove sui ruderi del tempio sorge un sole rosso,
nei sui raggi rilucono roride statue d’oro, gli uccelli stridono.
Riusciremo a seguire l’orma del verso che svanisce?
Non annegheremo nella pagina bianca,
avremo abbastanza coraggio da lasciare la riva sicura del nero tipografico?
Sembra che se non impariamo ad ascoltare la confidenza della pagina vuota,
non capiremo neanche il senso delle parole stampate.
Il senso delle parole si alimenta delle linfe del tutto, che si estende
fino alla foresta vergine e fino alla riva. L’oceano è vicino.
Quando vi troverete alla fine del verso,
dimenticate la stupida abitudine di tornare all’inizio
del seguente e continuate, superate finalmente il confine.
Non abbiate paura di perdervi nel giardino di immagini che maturano.
Andate finalmente per una volta fino alla fine del cammino,
verso l’inferriata argentea: già da anni vi aspettano pazientemente.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

hebenon

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

Parchi

Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Passando per la tavola calda illuminata con pareti piastrellate,
ci avviammo verso gli estesi parchi, da dove da anni e anni
trasudavano febbri, nebbia, il vizio molesto della germinazione
all’interno di guardaroba serrati, tra pagine di libri,
dove poi iniziarono a crescere i lattari. Non leggevamo più,
raccoglievamo funghi in biblioteca. Le malattie di mobilia
si infiltrarono nei nostri sistemi filosofici, accumularono
i loro succhi nel garbuglio di frasi condizionali e causali,
dai concetti alitò il respiro dell’erba imputridente. Cristalli di veleno estraneo,
che interessano solo alle malvagie statue di malachite, che si avvicinano,
adesso già definitivamente, lungo le cupe rampe delle case
in stile liberty, tutto ciò che è rimasto dagli anni passati.
Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Fummo insigniti della sconfitta, fredda e radiosa
come luci di locomotive negli spessi specchi della prima repubblica
nelle camere estranee con la luce spenta vicino alla ferrovia,
la porticina si apre verso uno strano paradiso, in foglie bagnate
oltre la macchia di umidi cappotti maleodoranti di dolciastro.

(In E i ligli tarri, 2002)

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