Archivi del mese: settembre 2019

IL FRAMMENTO È COLMO DI ESSERE.  INTERPRETAZIONE FILOSOFICA DI UN SONETTO DI RILKE di PETER SLOTERDIJK. Una Riflessione di Letizia Leone

Rilke apollo-torso-

perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.

Peter Sloterdijk è un filosofo che nella riflessione estetica pratica un metodo creativo fatto di continui dètours, deviazioni, straniamenti e riconfigurazioni semantiche. L’oggetto artistico diventa il materiale da costruzione di un pensiero originale in grado di interpretare le istanze più complesse della contemporaneità. Vere e proprie esplorazioni in libertà che contemplano tutti i generi: musica, letteratura, poesia, architettura, design o Visual Culture con una profondità storica che va «dall’Antichità fino a Hollywood». Si potrebbe parlare di esplorazione circolare che ha il centro in ogni punto là dove l’architettura (con l’edificio del museo ebraico di Berlino, ad esempio) diventa il centro «di una critica della ragione partecipativa»; oppure la serie di film Terminator avvia considerazioni antropologiche sulla base di «una metafisica del cinema d’azione».

Nella prospettiva di Sloterdijk l’arte assume le sembianze di «forma eterodossa del sapere» senza eludere le domande istituzionali della filosofia dell’arte: l’interrogazione sul valore di autenticità dell’esperienza estetica oggi, il suo destino, la sua capacità di intervento nei problemi essenziali dell’umanità o la valenza della sua funzione critica. Quella dell’Arte resta comunque necessità ineludibile anche in tempi di capitalismo multinazionale e mediatico, anche se nell’esperienza estetica non stimoli più tanto l’aspetto storico di una storia dell’arte, ma l’orizzonte antropologico.  In questo il filosofo, in una acrobazia di prospettiva, auspica una storia dell’arte dei procedimenti, e cioè, «le condotte dell’essere umano storico». E sotto osservazione si pone la «difficile esemplarità dell’esercizio pratico di chi la produce, di chi la rilascia nel mondo».

Questo è un altro modo di guardare all’esperienza estetica.

Esercizio, esercizio, esercizio. Leggere, leggere, leggere. Si tratta di «ruotare il palcoscenico concettuale di 90° gradi» e ad una storia dell’arte delle opere e delle immagini rivalutare una storia dell’arte delle pratiche ascetiche che plasmano l’artista…Questo in fondo è un appello a ritornare a pensare dal linguaggio di una economia dominante che ha divorato ogni ambito del vivere. D’altra parte l’affermazione di Heidegger che l’essere che può venir compreso è linguaggio, implica la tesi per cui il linguaggio abbandonato dall’essere diventa chiacchiera.

Nel saggio di Sloterdijk Il comando dalla pietra la convocazione arriva dall’alto dell’opera d’arte, in questo caso una scultura di Rodin, un torso di Apollo vista dallo sguardo ecfrastico di Rilke. L’opera d’arte viene elevata al rango di «cosa» esemplare e comunicante.

Sotto l’influsso di Rodin, il poeta elabora infatti un pensiero estetico che esalta «la preminenza dell’oggetto», il concetto di Ding-Gedicht, poesia-cosa: «da quel momento tutta l’autorità doveva promanare dalle cose stesse, o meglio, da questa cosa singola di volta in volta presente, che si rivolge a me nel momento in cui esige il mio sguardo interamente. Ciò è possibile soltanto perché adesso l’essere-cosa finisce per non significare altro, di per sé, che avere qualcosa da dire».

Il frammento è carico di informazioni e necessita del poeta «in qualità di decoder e latore».

Allora andiamo a leggere la poesia rilkiana del 1908 dedicata al torso arcaico di Apollo, (una cosa, il resto di una scultura intera, un frammento, una vista incompleta, un torso isolato) nella ermeneutica destabilizzante di Sloterdijk. Il monito del verso di Rilke, Devi cambiare la tua vita, è invito alla tensione verticale di modificare il proprio modo di vivere. Accedere allo statuto del saggio. Chiamata di responsabilità etica ed estetica.

[Frammenti da “Il comando dalla pietra” (in P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina Editore, 2010)]

Foto con quadrato neroReiner Maria Rilke

Il torso arcaico di Apollo

Non conoscevamo il suo capo inaudito
in cui maturarono i pomi oculari. Ma
il suo torso ancora arde come un candelabro,
dove il suo sguardo, ormai scorciato,

si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva
del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata
dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi
su quel luogo centrale cui spettava la procreazione.

Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta
sotto lo spiovere invisibile delle spalle,
e non tremolerebbe come pelo di belva feroce;

e non irradierebbe da ogni suo contorno
come una stella: perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.

Rainer Maria Rilke
Archaischer Torso Apollos

Wir kannten nicht sein unerhörtes Haupt,
darin die Augenäpfel reiften. Aber
sein Torso glüht noch wie ein Kandelaber,
in dem sein Schauen, nur zurückgeschraubt,

sich hält und glänzt. Sonst könnte nicht der Bug
der Brust dich blenden, und im leisen Drehen
der Lenden könnte nicht ein Lächeln gehen
zu jener Mitte, die die Zeugung trug.

Sonst stünde dieser Stein entstellt und kurz
unter der Schultern durchsichtigem Sturz
und flimmerte nicht so wie Raubtierfelle;

und bräche nicht aus allen seinen Rändern
aus wie ein Stern: denn da ist keine Stelle,
die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern.

Lo sguardo del poeta sul corpo mutilo non ha nulla a che fare con il romanticismo del frammento e delle rovine, tipico del secolo precedente, ma indica come l’arte moderna esplori il concetto di oggetto che racconta se stesso con autorità e il concetto di corpo che comunica se stesso mediante un potere effettivo. Continua a leggere

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4° Incontro Internazionale di Letteratura Banja Luka, Republika Srpska 13-17 sett. 2019, Ospite Giorgio Linguaglossa, Dichiarazione dell’ospite per il 4° Incontro internazionale di Banja Luka, La Grundstimmung della poesia nell’epoca della stagnazione dell’Europa

Banja Luka Linguaglossa Duska Vrhovac

Giorgio Linguaglossa e Duska Vrhovac

Associazione degli scrittori della Repubblica Serba

Date: 31st May 2019

Mr. Giorgio Linguaglossa

Subject: Invitation to the 4th International Literary Encounters – Banja Luka 14-16 sept. 2019

Dear Mr. Linguaglossa,

I have the honor of inviting you to our 4th International Literary encounters – Banja Luka 2019. The Encounters will be held within the framework of Banja Luka Book fair lasting from 13th to 17th September 2019.

The program of the Fourth International Literary Encounters assumes for writers to present their works in the cultural center Banski dvor, at the Book Fair, as well as in schools and colleges. It also gives the possibility for the writers to appear on major television and media companies from Republic of Srpska and Bosnia and Herzegovina.

During the Encounters, participants will have the opportunity to visit cultural monuments and national institutions of the Republic of Srpska. The reception by the Minister of Education and Culture of the Republic of Srpska will also be organized.

The Writers’ Association of the Republic of Srpska, as the organizer of the Encounters, will provide you with full board accommodation for four days in a four star hotel. The organizer will also pay to you the maximum amount of 250 Euros for your travel expenses. We suggest that you travel to Banja Luka via Belgrade. In case there is no plane flying on 13th you can reserve your ticket for 12th and we will book you the accommodation for that day as well. The return of the participants is planned for 17th September.

Mrs. Duska Vrhovac conveyed your wish to travel to Banja Luka.

Obligations of the participants of the Fourth International Literary Encounters – Banja Luka 2019 are to inform us about their arrival at least ten days after receiving this invitation as well as to email us five poems or one or two short stories in their native language and, if possible, translated into Serbian, a short biography, a good resolution photograph, a scanned copy of the passport, and full address with street and number.

In addition, we would kindly ask you to email us one poem about water, if you have one, since at the closing ceremony of the Encounters, all the participants are supposed to write their poem about water on a piece of paper and put it in a bottle which is, later on, thrown in the Vrbas river as a poetic message of peace to be carried to some distant sea or a lucky finder.

Dear Mr. Linguaglossa, your poems will be translated by Mrs. Duska Vrhovac from Belgrade.

While awaiting your positive response, we are confident that you will experience pleasant moments in Banja Luka, meet many interesting persons from the world of literature, and present your literary works in a remarkable way.

Sincerely,

Predrag Bjelosevic, President of the

Writers Association of Republic of Srpska


Dichiarazione di Giorgio Linguaglossa per il 4° Incontro internazionale di Banja Luka

La Grundstimmung della poesia nell’epoca della stagnazione dell’Europa

Non è per caso quello che avviene in Europa: la stagnazione economica e la stagnazione delle forme estetiche. C’è una corrispondenza speculare tra le due stagnazioni. E poi c’è una terza stagnazione, quella spirituale, e avrete chiaro e servito il menu.

Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» delle generazioni dei Milosz, degli Herbert degli Eliot, sembrano scomparsi irrimediabilmente, la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice civile e da perorare con un linguaggio polinomico, un linguaggio «interno» che accenna ad un «metalinguaggio» o «superlingua» qual è diventata la poesia che va di moda oggi. La questione «tradizione» oggi non fa più questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi, prodotto di proliferazione di altri polinomi di linguaggi. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe nulla da dire di questi linguaggi polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia non deve cedere ai linguaggi mediatici.

Il nostro mondo non è «normale», e la poesia deve mostrare la abnorme anormalità del nostro mondo. È che noi proveniamo dalla lunghissima traversata nel deserto di ghiaccio del tardo novecento, dobbiamo resistere in tutti i modi al «riduttore» del minimalismo. Il minimalismo è lo stile del passato, si è trattato di un «riduttore», e niente più. La poesia può sopravvivere solo se si fa chiarezza: il minimalismo è stato un «riduttore» delle problematiche e deve essere abbandonato.

Mi viene il dubbio che la poesia degli autori giovani che hanno meno di sessanta anni sia qualcosa di geneticamente diverso da quella delle generazioni dei poeti sopra nominati. Temo che la tradizione del novecento si sia allontanata irrimediabilmente. Le parole nel frattempo si sono raffreddate, svuotate, e allora un giovane non può fare a meno che tentare di trovare delle scorciatoie, dei bypass, dei trucchi, come quello di adoperare il linguaggio dei linguaggi, il linguaggio mediatico e fare con quello qualcosa in poesia.

Io penso che accettare inconsapevolmente il «riduttore» del minimalismo, come fanno i giovani, sia una illusione e una trappola, e lo dico agli autori di oggi che scrivono poesia e che hanno meno di sessanta anni. Illusione perché la loro operazione si mantiene sulla superficie dei linguaggi, perché loro pensano ancora in termini di manutenzione e maneggiabilità dei linguaggi, pensano al linguaggio poetico come ad un articolo di giornale senza pensare che le parole, tutte le parole, abitano in una patria linguistica; ogni parola è prigioniera in una patria linguistica e di lì non si smuove neanche con la bomba atomica.
E allora, mi direte voi, che fare?

Rispondo: fare tesoro dell’esperienza stilistica della tradizione e rinnovarla radicalmente.

(Giorgio Linguaglossa)

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Mario M. Gabriele, Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento, Retrospettiva storica, da Lirici Nuovi di Luciano Anceschi (1954) a How The Trojan War Ended I Don’t Remember (2019), L’individuazione di una Linea Modernista

Antology How the Troja war ended I don't remember

Mario M. Gabriele

Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento

Retrospettiva storica

Se andiamo a leggere le antologie poetiche italiane, a cominciare da: I Poeti Futuristi, con un Proclama di F.T. Marinetti, Milano, 1912, passando a quelle regionali e alle tante, tantissime pubblicazioni sulla Letteratura italiana, tra repertori e consuntivi, ci accorgeremmo subito di quanti modi, stili e manifesti è segnato il cammino della poesia, assieme al fenomeno delle omissioni, con gravi ripercussioni sull’assenza di molti poeti, condannati dalla storia che procede  per “repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica e quindi per falsificazioni specie quando il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento  sulla contemporaneità”. (Luigi Baldacci-Novecento, Rizzoli, Gennaio 2000, pp.18-19). L’invisibilità che circonda  gran parte di questi poeti ci ricorda vagamente: Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino  dei  Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti repertori, da più di 50 anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, “non si ha il coraggio di farle venire a galla”, né si può sperare in un intervento della critica poiché essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, dopo l’avvento del post-strutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste  e neonichiliste  che annientano la testualità letteraria nella sua specificità”. (Romano Luperini, Breviario di Critica, Guida, 2008, pag. 59).

Molti sono i poeti che hanno percorso vie opposte a quelle della  Tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico con un work in progress di febbrile spinta avanguardista.

Cosicché la scrittura, comprensiva di ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti qui presenti, un rinnovamento della forma  con il rifiuto del riflusso, riscoperto come autentica griffe dall’industria editoriale, sempre alla ricerca di “casi” letterari, con tanti curatori, sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori  di un razzismo  etnico-culturale, simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche le famigerate scritte: ”Non si affitta a meridionale!”. Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe anche confermare, in qualche modo,  la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale  il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti “I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non avere degli altri. Ciò che non sopportano è che gli altri godano di un vantaggio”. (Gunter Anders: Linguaggio e tempo finale. Micromega, 5-2002, pag. 117). Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio  meneghino o lombardo-veneto, che vuole, a tutti i costi, “creare  una brutale scissione degli “italiani al di sopra e al di sotto del Quarantesimo Parallelo”. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001. Non  due ma cinquant’anni di poesia, pag. 12).

La critica di oggi si è creata una propria nicchia, fuori  dalle Grandi Case Editrici, dopo le performance dei Lirici Nuovi di Luciano Anceschi, – Mursia 1954; dei Poeti del Novecento, di Giacinto Spagnoletti –Mondadori 1952; de I Novissimi (poesie per gli anni 60), di Alfredo Giuliani, -Einaudi 1965; di Poesia del Novecento di Edoardo Sanguineti,-Einaudi 1969; de Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli –Lerici 1975; fino alla Parola Plurale, Sossella Editore, 2005 a cura di Andrea Cortellessa con la partecipazione di 8 curatori, tutti serventi dell’ala estrema del linguaggio autonomo, dopo la frattura tra l’Essere e il Nulla. Non è un caso isolato, se dopo la fine di un periodo letterario ne succeda un altro, sostitutivo di forme e scrittura. Tra le tante categorie catalogate non sfugge il concetto di moderno e postmoderno, con valenze diverse, tra incontri culturali, e discussioni accademiche, che hanno  influito sul pubblico dei lettori, indirizzandoli anche nei campi socio-culturali  e filosofici.

Ma è a partire dal 1930 che il postmoderno ha mantenuto le fila di un predominio letterario e tecnologico, esercitando un’azione di diffusione estetica, attraverso l’uso linguistico anglo-americano, con diramazione della critica a partire dagli anni Sessanta con punte di diramazione nel campo sociologico e post-industriale, anche attraverso la diffusione di Riviste Il Verri e Officina.-

Habermas, nei suoi indirizzi operativi, ha colto nel postmoderno una forma di tardo capitalismo come pensiero post-metafisico, a cui poi si aggiunge il pensiero debole di Vattimo, corroborato dall’influsso filosofico di Nietzsche e Heidegger, con le esequie alla metafisica occidentale.

Nel settore letterario molto si è sviluppato tecnicamente. Tutte le edizioni, formato stampa, subirono variazioni estetiche differenti. Ma è dal 1968 che la tecnologia agisce sul postmoderno con  l’elettronica e il software, raggiungendo il “Villaggio Globale”. Il testo poetico subisce variazioni di ogni tipo diventando soggetto-oggetto del poeta, il quale ha anche la libertà di optare per il selfpublishing e le Case Editrici Minori senza alcuna certezza di successo. “Fine ultimo della letteratura è la creazione sintattica, lo stile, il divenire della lingua. Non c’è creazione di parole, non ci sono neologismi che valgono al di fuori degli effetti  di sintassi in cui si sviluppano. Sicché la letteratura presenta giù due aspetti, in quanto opera una decomposizione o distruzione della lingua materna, ma anche l’inversione di una nuova lingua nella lingua attraverso creazione di sintassi” (G. Deleuze. Critica e clinica, Milano 1996). È ciò che un po’ accade nella Nuova Ontologia Estetica la cui prima datazione risale, con molta probabilità nel 2017.

                

Riflessioni sulla poesia

A conti fatti, quello dei critici, è un resoconto linguistico sulle opere esaminate, senza dubbio notevole, con un elettrolux che ha illuminato alcuni spazi, oscurandone altri. Qualsiasi previsione sulla morte della poesia è temporanea, in quanto le proposte linguistiche si  alternano come  ricambi nel tempo. La parola poetica finisce con l’essere particella organica, per diventare separatista e intoccabile con la forza espressiva di un postmodernismo telematico, e l’agglutinazione delle figure retoriche, tra le più diverse come, ad esempio l’allegoria, l’allusione, l’anacoluto l’anafora, per non parlare poi delle diafanie e disfanie, integrate ai testi poetici, e riscoperte ultimamente.

Passato e presente si annullano e si dicotomizzano nella forma, secondo le macerie e le ricostruzioni esaminate dalla linguistica e dallo strutturalismo. C’è stata, col passare dei decenni, una ermeneutica di diversa angolatura, che ha emulato categorie extranazionali, fino ai suggerimenti di altri modelli attraverso le esplorazioni dell’inconscio volute da Freud e da Jung.

Moltissime sono state le ricerche sul piano ontologico, filosofico ed esistenziale,  con distinzioni politiche alla Sanguineti e alla Pasolini, come ultima tappa di alternanza linguistica, dove non sono mancate le esternazioni positive e negative. Si è provato di tutto: dalla Pop Art, alle accumulazioni narrative, tra reviews, fin de siécle, e oggettologia: una sorta di Nouveau  francese.Questa intercomunità culturale ha retto per decenni, a prescindere dallo stato di apnea delle nuove generazioni poetiche, che si sono alternate non pensando più agli strumenti umani e alla comunicazione. Ne sono una dimostrazione le zone d’ombra e gli orrori della lingua “cannibal” degli anni Novanta, con Aldo Nove e  Niccolò Ammaniti.

Tutto questo ha coinvolto, anche se per breve tempo,  “l’architettura moderna con le sue convenzioni, i suoi dogmi, le sue grandi esperienze, il grande modello archetipo, corrotto e tradito nella interpretazione, come una sorta di sacra scrittura, ma pur sempre seguito e obbedito nella letteratura- e sotto processo da lungo tempo-, ma gli attacchi subiti a ondate successive, continua a opporre una barriera fatta di indifferenza e garantita da una  alleanza con il potere.” (P.Portoghesi, Dopo l’architettura moderna).

Le strade della poesia, viste nella loro topografia sono   diverse. Non sappiamo se si debbano considerare chiuse, tanto che “l’umanità ne potrebbe fare benissimo a meno”, come ebbe a dire Montale nel suo Discorso tenuto all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975. Tuttavia, come Egli ebbe a dire: “non sempre la poesia è cancellabile dalla mente e dal cuore dell’umanità”, essendo espressione di sentimenti dichiarati tra fobie e nevrosi del nostro Tempo, con un linguaggio prevalentemente psicosomatico ed esistenziale, parapsicologico e metasperimentale. Ed è ancora Montale ad affermare che  “La poesia è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi diversi come Croce storicista-idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una Storia della poesia”.

A conti fatti, la poesia di oggi è alla ricerca di nuovi segni verbali mettendosi in ginocchio a raccogliere i frammenti con una nuova gestione del linguaggio in forma di distici, peritropè e polittici. Qui ne cataloghiamo gli esiti, diversi ed espressivi, come volontà del ricambio della forma e del verbum da parte dei poeti antologizzati. Tuttavia, nonostante queste apprezzabili opportunità estetiche e stilistiche, c’è un ramo nel giardino della poesia, che pur mancante di clorofilla alle foglie, sopravvive e si ripropone come se in questo lasso di tempo tutto fosse rimasto in stand by.

 Oggi siamo di fronte ad una manovalanza estetica che immette nel mercato una poesia mercificata come pannolini da China Town. Ognuno  può scrivere ciò che vuole, pensare come crede, narcotizzarsi ad ogni occasione, tentare perfino di scrivere poesie come favolette per i bambini iperpiretici per farli addormentare. Non c’è più un luogo sociale, esistenziale, storico, pluriculturale dove connettersi. Continuare col Novecentismo linguistico è operazione di enorme spreco, che non ha mai cessato di esistere. Oggi ci troviamo di fronte ad un concerto demagogico e populistico della poesia come fenomeno sempre più diffuso anche nelle diverse categorie generazionali.

È evidente che tutto questo non può che decretare la crisi della poesia, incapace di albeggiare.  Si rischia di rimanere nella stagnazione scivolando nella sciatteria, dimenticando  la progettualità considerata eversiva, proprio perché ritenuta un attacco all’establishement linguistico, dimenticando che ci vuole tanto di senso autocritico del proprio lavoro.

È chiaro che in questi termini la critica ufficiale non può che assentarsi, uniformandosi al culto del replay. Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi, Paperbacks poeti- New Compton Editori, 1981, pag. 17 della Introduzione:

”Bisogna operare per la professionalità che non è puro e semplice professionismo, realizzando nel massimo dell’arbitrio il massimo del rigore, operando insomma per e con una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi”.

Quali siano i frutti di un rinnovamento linguistico non si sa. Ma intanto è lecito proporli salvaguardando le aspettative di un pubblico in attesa di un nuovo panorama storico e linguistico. Il lettore silenzioso, che non esprime giudizi, è un critico che si autoesclude da una dialettica oziosa e ostativa, in attesa di documenti e tempi migliori. Il Novecento ha indubbiamente il suo peso maggiore, senza escludere chi si attiva con le alternanze linguistiche. C’è una idea di come va rifondata la poesia. Ma anche questa va proposta nei limiti della persuasione estetica, badando ad armonizzare il tutto con un impianto pluricostruttivo attraverso i sistemi collaborativi e interdisciplinari.                           Continua a leggere

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Livio Cinardi, Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci, Poesie di Carlo Livia, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo – Giorgio Linguaglossa, Perché la spazzatura?

Foto monna lisa pop

ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino?

Carlo Livia

… ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino? Perché solo Burri e non Chagall? L’inconscio non è una discarica di materiali rifiutati dall’istanza morale, come credeva Freud, ma semplicemente l’infinito che trascende e alimenta l’io, di cui in sogno afferriamo brandelli, echi, lampi, riflessi. Noi non sogniamo ciò che vogliamo, ma ciò che dobbiamo, e quando ripercorriamo coscientemente il labirinto onirico, siamo pervasi da una libertà smisurata, insostenibile, che coincide con la necessità di dare vita e forma all’emozione che sentiamo all’origine del percorso iconico, che alimenta e orienta l’espressione, dandole concretezza e densità icastica.

Recitare nel nascondiglio

Sono nella quinta rassegnazione, con lo sciame in collera e la testa di sonno.

Lei mi guarda col vassoio pieno di secoli. La vergine irreale e l’istante pazzo che si getta dalla scogliera.

La bestia della provvidenza si dondola dalla vetrina in fiamme, ornata di lunghe psicosi.

Quando cadono, c’è un brivido che unisce i risorti all’erba stregata, gonfia di occhi induriti dai farmaci.

Allora fa buio nel miracolo, e chi crede di esistere entra nell’omicidio dell’acqua santa.

La prigione allucinogena fugge dalla madre triste. È un esilio in sol minore, biondissimo. Cresce dall’umido della sposa.

Respiro il sax del mostro verde, morto alle fanciulle. Le antiche vaniglie non mi lasciano risorgere.

È solo uno specchio, altissimo e confuso – dicono.

Giuseppe Talìa

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse
Personale. Il vulnus della legge lo trovi in ogni supermercato

nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli
e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato
in…

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.
Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

È il sottovuoto il vero problema. È l’involucro il vero esantema.
Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;
diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica
e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati
fanno da colonna sonora ai gladiatori che sono degli influencer
di fama.

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia
alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;

Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart,
un pomp rock.

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla,
ma si può condire.

Marina Petrillo

Si accende in distonia celeste,
pira di combusta legna arsa in epoca remota.

Indugia ogni terra a varcare la sua soglia se, a seme inverso, oblitera i sensi.
Siamo forse giunti in estremo limite.

Essere o naufragare.
Traccia di linea assente il buio nel miracolo.

Deve aver lasciato tracce troppo lievi per affondare sulla neve.
Le sillabe stropicciano al sole e la dimora sussulta il giudizio finale.

Del proprio abito rinviene l’antica forma sino a tacitare l’inascoltato suono.
Era vento o acqua a giacere tra rovi e rose…

Trascorso in attimo, la luce rifrange l’esilio.
Devoto fiore sospeso tra nembi dal cui nitore erge capo l’indicibile.

Fummo elementi del Tutto, a lui affini,
poi in dimenticanza sorse un idioma a cui porgemmo inchino.

Poeta, la cui vacuità declama versi.
“Anima lucente che doni spazi di umide stelle, o luna, in antico candore involta.

Linea di perfezione cosmica, sede di intelletto,
ove Astolfo sostò per Orlando, pazzo d’amore.

S’io fossi in altro tempo viva, di te, o dea, stupirei i contorni
di fasi e inclinati assi.

Coglierei erbe mediche e studierei il tuo profilo di madre.
Poiché questo tu sei.”

Scrivo, carissimo Carlo Livia, dall’ultimo sogno mai giunto a destinazione. Dai minuti negati che in silenzio creano una piccola ombra. Scrivo in dolce sintassi mentre il cuore piange un ricordo svanito.
Esilio la parola, Giorgio, ove sostare. Combustione. Etere. La ferita del tempo nel ventoso orizzonte degli eventi ove tutto converge: scorie, lamine d’oro e zolle di terra, lamentazioni agli dei. Umano in assenza di tempo, Virtuoso neologismo dal cui sconfitto fronte, nasce rugiada.

Giorgio Linguaglossa

caro Carlo Livia,

è che noi viviamo in mezzo alla spazzatura ogni istante del nostro giorno: lessico salviniano, parole prossime alla betoniera, parole del museo delle discariche, parole dei cartelloni pubblicitari quali sono Istagram, Twitter e Facebook et similia… come possiamo pensare di avere a che fare con degli «echi celesti»?

Il polittico, nel quale siamo impegnati tutti noi, chi più chi meno, è la frontiera più avanzata di una poesia difficile, sempre più problematica, ma il polittico presuppone una grandissima distanza tra il sé e l’ego, presuppone una Gelassenheit dalle cose e alle cose, un rivolgimento del piano del quotidiano. So che queste mie osservazioni ti sono familiari, anche la tua poesia è protesa verso quest’obiettivo, ma è difficile, oltremodo problematico avanzare lungo queste frontiera, occorrono lunghissimi sforzi, reiterati tentativi. Costruire un polittico non lo si può fare con il semplice ausilio di una tecnica versificatoria come quella che vediamo spesso impiegata oggi nella poesia epigonica, quello è mestiere, nient’altro.

La mia e la nostra poesia si nutre della spazzatura, dei rifiuti urbani, del ciarpame. Ed è un ottimo menù, perché questo è il mondo di oggi, non spetta al poeta abbellirlo, semmai spetta al poeta mostrarlo per quello che è.

Livio Cinardi

Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci

L’esserci è già sempre, afferma Heidegger, situato. Manifestazione del suo “ci” è l’essere-nel-mondo, l’essere situato in esso il donde e il verso dove sono petizioni non concernenti l’ontologia fondamentale. Come fenomeno, vive il proprio esser-situato come gettatezza, e proprio perché è vita e non teoria, ne fa esperienza, l’esserci ne va del proprio essere.
Come fa esperienza del proprio “ci”, della propria gettatezza l’esserci è già sempre situato, emotivamente.
L’esserci è situazione emotiva, sentirsi situato emotivamente. La Befindlichkeit  è il come, il modo in cui l’esserci si trova aperto nei confronti del puro e semplice fatto di esistere: rispetto al nudo «che esso è»1. Non più solo semplice-presenza, persa nel mondo: l’esserci si scopre, svelato, come semplice-esistenza. L’esserci è ex-sistenza, è essere-oltre ciò che il quotidiano sguardo dell’esserci, errabondo, ha del proprio essere. In quanto ex-sistenza, è pro-getto: esistenza progettante.

La situazione emotiva è struttura dell’esserci, il quale, in quanto situato, gettato, rimesso, è emotivamente intonato. Ogni situazione emotiva, ogni essere-situato dell’esserci è già fenomeno. Nella fenomenologia ontologica, o ontologia fenomenologica heideggeriana (ovvero, fondamentale: fondamento è il fenomeno, la cosa stessa), manifestazione del fenomeno dell’esserci in quanto essere-emotivamente-situato è la tonalità emotiva, ovvero, “lo stato d’animo”. Precisa il filosofo: vi sono tonalità emotive sorgive dall’autenticità dell’esserci, e tonalità emotive sorgive dall’inautenticità dell’esserci. L’esserci percepisce l’autenticità o l’inautenticità dell’essere del proprio esserci già sempre secondo le tonalità emotive che vive: la vita, l’esserci, è già sempre tonalità emotiva. A tal guisa, Heidegger riporta due exempla, dai quali appunto comprendere cosa egli intende per tonalità emotive: la paura e l’angoscia. Molta è la confusione intorno a tali stati d’animo, ragionevole data l’ambiguità caratteristica di entrambi. L’indagine attorno alle tonalità emotive dell’esserci costituirà il corpo centrale del presente elaborato.
Avanzeremo così nella “notte” dell’esserci: non più perso nel mondo ma preso, assalito dall’angoscia, proprio dentro il più familiare dei mondi circostanti, l’esserci non si trova più a casa, neanche nell’ambiente più vicino e fidato. Allora, si scoprirà come possibilità: scoprirà il proprio essere, l’autenticità del proprio essere, come possibilità. Una possibilità massima solo apparentemente contradditoria: l’essere-per-la-morte dis-vela all’esserci il proprio essere, come ni-ente, come non-ente. Per l’appunto, oltre l’ente, ovvero ex-sistenza. In una parola: leben.

Ciò che nella domanda è in domanda è l’essere che avverto, ex-per-isco come Stimmung, come tonalità emotiva, come stato d’animo, come vibrazione. Io sono toccato da ciò che cerco, ovvero gettato nel cercare. Per questo lo cerco. La gettatezza è allo stesso tempo pro-getto. È una co-struttura. L’esserci è quell’ente che in quanto è gettato nel mondo, gettato in ciò che è, si lascia toccare da questo getto (che è dell’essere dell’esserci) e in questo getto che lo tocca e lo riguarda, progetta se stesso. Questo pro-gettare se stesso,questo gettare-innanzi se stesso, è trascendenza, è esistenza. Essere già sempre oltre. Non in senso religioso: non è verso dove, ma è oltre, in senso ontologico, costitutivo: fenomenologico. L’esserci ontologicamente non è già, lo ripetiamo, de-finito (non ha una essenza che lo determini). l’esserci è in quanto poter-essere, in quanto possibilità. Continua a leggere

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Mario Gabriele, How The Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 $ 20.00, Poesie di Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo

Antology How the Troja war ended I don't remembercaro Giorgio,

non appena mi è pervenuta la tua antologia How the Trojan War Ended I Don’t Remember, mi sembrava di aver ricevuto un regalo da Santa Claus, dopo la lunga attesa per la pubblicazione.

Mi sono sentito tra i pochi fortunati a ricevere il volume in quanto gli altri autori antologizzati hanno dovuto attendere non poco, prima di venirne a conoscenza.
Ebbene, come fa il cane quando annusa il padrone, ho voluto captare subito l’odore tipografico, passare la mano sulla prima e quarta di copertina, sfogliando le pagine una ad una, ipotizzando la grammatura della carta e tutta la tecnica della pubblicazione.
La curiosità di leggere le poesie, ma credo l’abbiano fatto anche gli altri autori, mi ha portato a trovare subito la Sezione Contents dove si citano i nomi e le opere dei poeti presenti.

La prefazione di John Taylor mi ha sorpreso per la sinteticità espressiva, senza creare altarini e Hit Parade.Ne è un esempio la sezione che mi riguarda,dove il prefatore così si esprime: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Teniche sviluppate da T.S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C.P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.
Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola».

Certamente, per redigere queste frasi, il prefatore è stato un attento lettore dei testi. La sinteticità e l’acuta impostazione critica fanno del lavoro di John Taylor, un esempio di scrittura estetica che non è storiografia o eccesso di intrattenimento, – no stop -, come è accaduto per certi nostri antologisti del Novecento. Qui non ci sono limiti culturali e metodologici o infrazione critica. Tutto è ben ponderato e circoscritto.
Altro aspetto singolare è la traduzione in Inglese dei testi fatta da Steven Grieco Rathgeb, molto rigido nella misura dei versi e nelle rettifiche.

Strilli Lucio Ho nel cervelloOgni antologista ha di fronte a sé un compito difficile, trattandosi di selezionare opere e autori per tracciare una storia o un segmento della poesia italiana.
Scrive Giacinto Spagnoletti nella sua introduzione in La letteratura italiana del Novecento, Grandi Tascabili Economici. Newton (1994): «Se di -un sentimento- e non di un metodo – ha bisogno fortemente il critico di oggi, esso consiste nel far parlare i più interessati, gli scrittori e i suoi lettori». È ciò che hai fatto tu, caro Giorgio Linguaglossa, nel redigere questo lavoro che rimarrà un anello di congiunzione con il futuro.
Le eventuali omissioni di altri autori in questa Antologia non sono da considerare repressione, oppure ostinata invisibilità e indifferenza. Si è trattato di un dossier, di un eccellente patentino poetico in work-progress, in terra americana, cioè di un percorso estetico e linguistico che sicuramente sarà ampiamente pubblicato nella prossima antologia linguaglossiana verticalizzata sulla NOE.

“Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno) così come si fanno i codici di giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque della loro utilità. Sempre che non diventino operazione politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio” (Giuseppe Zagarrio) Ma il “frenaggio” qui non esiste, diciamolo francamente!

(Mario M. Gabriele)

Strilli RagoPrefazione di John Taylor tradotta in italiano da Mario Gabriele

Il titolo dà il tono a questa vivace antologia. I versi dei quattordici poeti inclusi in – Come la guerra di Troia è finita, non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2017)– evoca l’Eredità greco-romana in vari modi, attraverso il reale, il leggendario e le mitiche figure che vanno da Ulisse ad Apollo, da Medea e Ecuba a Gaio Cornelio Gallo, per non parlare di alcuni prolungamenti greci moderni di questa cultura ad esempio quelli di Maria Nefeli di Ulisse Elytis (riportato da Chiara Catapano).

La raffinata poesia di Steven Grieco-Rathgeb è presente anche qui, torna ancora più in profondità nel nostro crogiolo culturale e filosofico, facendo apparire il concetto sanscrito di “jaagriti”. La parola significa, come spiega, “essere sveglio (di solito associato con gli altri due stati mentali umani, dormire con sogno e sonno profondo).

È stimolante estendere la similitudine e affermare che qualcosa come “jaagriti” è forse l’obiettivo, o la motivazione, della poetica espressa da tali poeti attenti alla presenza del passato nel presente. In altre parole, una specie di visione onirica o immaginativa unita a veglia – un gioco avventuroso, un”sognare ad occhi aperti” pieno di risorse, per così dire, durante il quale il poeta afferra il presente come tessuto, non essenzialmente con ricordi personali, ma anche e soprattutto con aspetti della mitologia e della storia (e della storia delle idee) per estendersi ben oltre il sé individuale. Gli elementi archetipici sono stati scavati dal poeta di questo vasto passato, registrato o immaginato, con la funzione di illuminare il presente, anche se a volte in modo bizzarro, fantastico o comico.

Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C. P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoDetto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con “In viaggio con Godot” o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola”.

Per non dire altro. Ad esempio la poesia ludica tiene a bada la serietà. Antonio Sagredo imposta allo stesso modo “Farcical” a Roma, in cui il narratore confessa di trascorrere le sue “notti”nelle taverne / lungo la strada rossa di Scipione, / simile a un prete sotto quelli indifferenti lampioni, / con il tasso di mortalità di Roma ancora lontano dall’essere decente “, per riassumere la sua vita attuale in questo modo: “Oggi celebriamo il saggio: / Ho letto i Cantici ripetutamente / e come i Cesare sono stato ucciso mille volte!”
A sua volta, Letizia Leone, la cui lunga poesia è stata tratta dal suo libro La calamità di base si concentra su Marsia il Satiro, forgiando il satirico con la mescolanza di immagini che raccontano le apparenze del passato e del presente: “. … un peloso satiro / con un nuovo flauto luccicante, tirò fuori da una dea, / un sex toy, / un dispositivo per magia amatoriale!”

Inutile dire che queste e molte altre poesie sono piene, zeppe di allusioni culturali, sardoniche, beffarde, spoofing, con indicazioni serie a questioni filosofiche.
Anna Ventura, ad esempio, evoca Trimalchio, la tartaruga etrusca di Volterra”, Torquemada, e infine Barbablu, di cui presenta se stessa come la “terza moglie, quella / che ha osato prendere la chiave / e spalancare la porta dell’orrore “, aggiungendo che questo non deve essere detto a Cartesio il quale “giace / dentro la sua tomba piatta, all’ombra / di una chiesa poco illuminata, / ma la sua luce abbaglia ancora / la sua follower: gli illuminati, disprezzati / in un mondo che fa altrettanto /senza motivo.”
In realtà, le stesse questioni della ragione – le sue carenze e conseguenze, per non dire pericoli e catastrofi: spuntano piuttosto spesso. Un altro modo di leggere questa antologia è chiedersi come decriptarla, o come la mancanza o abuso di ciò, giochi rispetto alla condotta umana così come è stata mostrata nel corso dei secoli.

Strilli Busacca è troppo tardiGiuseppe Talia solleva espressamente questa domanda in “Paradossi” che unisce scienza (o, più precisamente, logica formale) e storia: “Le teorie di Frege sono quasi un fallimento / perse nel predicato che non puoi prevedere / quando il paradosso dell’assioma / non è altro che una contraddizione: “Cesare conquistò la Gallia. “Ma in che modo? / Con un carattere sintetico a priori diresti / in relazione allo spazio operativo / e alle semplici proporzioni analitiche/ al numero di soldati usati e civili morti/.
“Nella sua poesia” Aspetta e guarda cosa succede”, Renato Minore decolla da uno degli spettacolari risultati del ragionamento tecnologico: pixel. Mentre la poesia si svolge per mezzo di linee permutate, altre possibilità interpretative lampeggiano di tanto in tanto, anzi come i pixel, suggerendo metafore legate direttamente ai nostri tempi: “Esiste il comodo ritorno della specie / continua a rannicchiarsi nella testa di uno spillo / Ma noi sogna ciò che abbiamo interpretato / E danno quel poco che è ancora richiesto di loro “. E se siamo consapevoli di” sognare ciò che abbiamo interpretato “, non è una specie di stato “jaagriti” ancora una volta? In ogni caso, chiediamolo: dove sta andando l’umanità della nostra umanità?

Sebbene ci siano eccezioni, tra cui poesie di alcuni dei suddetti poeti (cioè pezzi che dissezionano le “affiliazioni”, come quelle tra poeta e genitore, tra poeta e fratello, o esplorando altre chiavi personali eventi), l’antologia tende a mettere in luce versi che sono molto più massimalisti che minimalisti. Raggruppando le sue poesie sotto il titolo Dovrei tornare a Caesar’s Court?, “Giorgio Linguaglossa (che ha messo insieme questa antologia) sfida implicitamente i poeti contemporanei a rispondere alla stessa domanda. Si hanno pochi problemi a percepire che ci si rivolge in particolare ai poeti orientati verso i particolari modesti della vita quotidiana in sé o verso le loro vicissitudini, le proprie esistenze attuali, anziché verso quelle storiche, mitiche, scientifiche, e sfondi filosofici rovistati dalla maggior parte dei poeti in questa antologia. Tale, ovviamente, è solo una delle linee di battaglia che possono essere tracciate tra poeti contemporanei in Italia o altrove.

Le differenze radicali che possono esistere tra i tipi di soggetti considerati, sono visibili anche nella poesia di Gino Rago: titolo generale per i suoi pezzi interconnessi. “We are Here for Hecuba” sicuramente suggerisce l’intenzione di aprire una prospettiva più ampia di quella delimitata nel bene e nel male da un’ispirazione strettamente autobiografica o da un oggettivismo del genere “niente idee ma nelle cose”.
In una delle sue poesie, Donatella Giancaspero sottolinea: che “nulla di ciò che siamo / mostra la superficie. ”L’osservazione definisce appropriatamente il non autobiografico orientamento di questa antologia.

Eppure, come dovrebbe anche essere chiaro, le variazioni di questa poetica generale sono molte. Anche la poetica contrastante viene prodotta, sebbene essa non sia necessariamente rappresentativa di tutto il lavoro del poeta in questione.

Antonella Zagaroli, che ha citato teorie scientifiche in alcuni suoi testi precedenti, aspira ad essere “Saffo crudo e ribelle” (al contrario di”Emily”) e offre un’immagine personale toccante alla fine della stessa poesia dichiarando: “Io sono il raccolto, poi appeso indietro la mela / nel giardino appartato.”Altrove, dichiara, in modo evidente riguardo al contesto generale di questo antologia: “A chiunque cerchi ancora una voce con risposte / il passato insegna niente ”. Alcuni dei pezzi più stravaganti di altri poeti raggiungono o rappresentano la stessa conclusione: nemmeno il passato può aiutarci a capire cos’è il presente. Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ”— come un’epigrafe, a condizione che le sue parole solenni siano stati seguiti da diversi punti interrogativi.

E poi c’è Alfredo de Palchi. Nato nel 1926, è il poeta più anziano selezionato e autore di un’opera che è allo stesso tempo tematicamente coerente e variata. Le poesie qui scelte appartengono ai suoi pezzi relativamente recenti, e costituiscono un angolo autobiografico piuttosto diverso da quello espresso in alcuni dei suoi primi scritti, che raffigurava la sua sofferenza durante le conseguenze della seconda guerra mondiale. Eppure anche allora, come ora, le analogie sono presenti nel suo lavoro. Qui, in una poesia del 2009, scrive: “Se solo io potevo rivivere l’esperienza / l’inferno sulla terra dentro / la fisica dell ‘”oscurità” la materia “sta crollando / in un buco pieno di vuoto / finché non diventa” energia oscura ” in qualche altro / universo in qualche altro vuoto / dove / la sequenza di la vita si ripeterebbe. “La poesia procede verso una conclusione tipicamente tonica, per non dire altro, ma non bisogna trascurare l’immagine di Alfredo De Palchi della sequenza di vita che viene “ripetuta” e che individua ordinatamente uno dei punti centrali di questa antologia. La necessità di una ripetizione, per così dire, è formulata in vari modi, implicitamente o esplicitamente, a seconda del poeta, e la domanda di fondo che tende a unificare molte delle loro singole poetiche è quindi questo: per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo prima di tutto cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o attraverso alcuni paralleli ingannevolmente inverosimili?

Renato Minore 1

RENATO MINORE Continua a leggere

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Dopo gli ultimi post sulla Antologia di poesia italiana contemporanea How the Trojan War Ended I don’t Remember, (Chelsea Editions, New York, 2019), torniamo per un momento al capostipite della nuova poesia europea, a Tomas Tranströmer (1931-2015), Commenti di Francesco Paolo Intini, Gianna Chiesa Isnardi

foto-ombre-sfuggenti

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Scrive Tomas Tranströmer

nel risvolto di copertina del libro di esordio 17 poesie (1954):

«Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, cultura e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha lì’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati e concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una contro tendenza nei confronti di questo processo. Le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare».

Foto fuga nel corridoio

Così chiosa Gianna Chiesa Isnardi

«Per corrispondere a questo intento occorrerà dunque un approccio completamente diverso, una diversa capacità di osservare il mondo. Non si dovrà partire dunque tanto da tecniche e strategie comunicative, quanto, piuttosto, da stimoli esterni – trascurati dalle strutture convenzionali e spesso all’apparenza incoerenti – che siano capaci di destare impulsi interiori: frammenti che infondano una ispirazione. Un atteggiamento di sostanziale passività, di ascolto e ricezione cui solo in un momento successivo seguirà l’elaborazione poetica nella quale coscienza, capacità analitica e intelletto saranno chiamati a operare. La difficoltà (il lavoro segreto del poeta) consiste in questo: far emergere questi frammenti, rivestirli di immagine, di suono, di ritmo, in una parola di poesia. Il che significa anche, forse soprattutto, creare un insieme senza falsificare ciò che in questi frammenti portatori di ispirazione vi era di originario o di poco chiaro… Il testo poetico si pone dunque come luogo d’incontro in cui si congiungono sul piano dell’accostamento orizzontale e su quello dell’intersecazione verticale da un lato le immagini e dall’altro tutto ciò che esse simboleggiano o evocano.

La poesia dunque piuttosto che un centro statico in cui gli elementi convergono verso una definitiva collocazione, è un luogo dinamico nel quale essi possono, nella loro intrinseca fragilità e mutevolezza, manifestarsi e interagire per esprimere intuizioni, visioni, illuminazioni, squarci di verità ma anche, ma anche e contemporaneamente, riflessioni sempre nuove, incertezze, ambiguità e non da ultimo, dubbi. Nella poesia di Tranströmer l’uomo sta al centro di un mondo nel quale non è più capace di orientarsi e con il quale ha perso il contatto… Una poesia dunque ‘aperta’, un’arte che si sforza di indagare l’ininterrotto fluire della vita…

Estrema semplicità significa in Tranströmer estrema concisione. la prima impressione che scaturisce dalla lettura dei testi di questo autore è infatti quella di un perfetto nitore delle figure poetiche proposte cui fanno da immediato contrappunto le riflessioni che ne scaturiscono. Pressoché totale è l’assenza di elementi non direttamente aderenti all’immagine e alla sensazione evocata e la concentrazione – che egli stesso ha definito come essenza del parlare poetico – è massima. precisione nelle scelte lessicali e strutturali, prevalenza delle frasi affermative e della struttura lineare, relativa povertà verbale, laconicità, ricorso in misura minima agli elementi connettivi del discorso, frasi talora apparentemente frammentarie, costruzioni ellittiche, uso misurato della ripetizione con l’unico scopo di ricondurre l’attenzione del lettore al punto focale della riflessione poetica, attrazione reciproca fra elementi contrastanti, ossimori, associazione (seppure non immediatamente percepibile) di immagini e conseguentemente di idee, forza espressiva della parola portata all’estremo: un’arte della concisione che risle, almeno in parte, a grandi modelli del ‘900 come, soprattutto, Ezra Pound, T.S. Eliot o il grande Harry Martinson.»*

Si tratta di un documento assai importante perché ci rivela una concezione della poesia molto distante da quello in auge negli anni cinquanta in Italia. Ancora oggi queste parole del poeta svedese suonano come un invito a cambiare la prospettiva dalla quale consideriamo il linguaggio e il mondo. È da queste semplici osservazioni di Tranströmer che nasce la nuova sensibilità che condurrà alla nuova poesia della nuova ontologia estetica.

foto donna con ombrello

Ancora Tranströmer

«…la musicalità delle parole nel senso che uno sperimenta con vocali e consonanti in un certo modo, non è mai stata una attrattiva particolare per me». Tuttavia, nella stessa occasione, parlando del proprio desiderio giovanile di divenire compositore, rivela: «… ma poi ci sono sempre taluni impulsi musicali, che mi arrivano e a volte ciò succede in relazione a una poesia, così c’è come una sorta di ombra della poesia che si fa avanti sotto forma di esperienza musicale. Il che io non registro ma resta là in qualche modo nella coscienza». Inoltre, il poeta svedese precisa che la musica è da lui considerata comunicare direttamente e ispirare in modo straordinario.

In un’altra occasione, dice: «Io sono stato influenzato dal linguaggio della musica, il linguaggio della forma, è difficile dire in quale modo». Qualche tempo dopo, a chi gli domandava se sentisse le limitazioni imposte dalla lingua, il poeta rispondeva così:

«Le sento in modo straordinariamente forte – e forse la mia poesia è una sorta di compensazione per ciò che in realtà andrebbe espresso in musica. «La musica mi dà sempre forti emozioni. Senza musica non posso vivere. Tuttavia io non credo che si possano trasporre automaticamente le forme della musica nella lirica… Spesso forse c’è una sorta di orchestrazione nelle mie poesie. La musica ha questo in comune con la poesia, che è uno spazio di tempo, con un inizio e una fine, a differenza delle arti figurative.»

La musica. E io resto prigioniero
nel suo arazzo

*

La musica è una casa di vetro sul pendio
in cui le pietre volano

*

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

* Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003, p 58 e segg.ti

La Lugubre gondola, composizione per violino e pianoforte. In visita a Venezia presso la figlia Cosima e il marito di lei, Richard Wagner, nell’inverno 1882-1883, List si era ispirato al passaggio di gondole funebri dirette al cimitero, e aveva tentato d di riprodurre in musica l’impressione che ne aveva ricevuta. Trauergondel fu, secondo una dichiarazione dello stesso autore, una sorta di composizione profetica in quanto qualche tempo dopo (il 13 febbraio del 1883) Wagner moriva.

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

Tomas Tranströmer

da La lugubre gondola (1996)

I
Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida
quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner.
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.

Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata. Continua a leggere

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Antologia bilingue How the Trojan War Ended I Don’t Remember (Chelsea Editons, New York, 2019, pp. 330 $ 20, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Fine della dicotomia tra la linea innica e la linea elegiaca di Gianfranco Contini, Giorgio Linguaglossa Inaugurazione della linea modernistica della poesia italiana, con un brano di Giorgio Agamben

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926 anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura il cui primo libro è del 1978 Brillanti di bottiglia, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

cari amici e interlocutori,

penso che l’idea forte di questa Antologia sia la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è cambiato e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza. Voler fermare la nascita di nuove proposte è, ripeto, un atto di cecità, un atto di conservazione faziosa di posizioni istituzionali.

In tal senso, il mio personale sforzo di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica, dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anna Ventura, Roberto Bertoldo, Luigi Manzi, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero indebitamente trascurati e intenzionalmente dimenticati e rimossi. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, e compito della critica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni estetiche da interessi di parte.

Altra cosa è la individuazione della linea che naturalmente segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e acritiche che continuano inconsapevolmente la grammatica epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana è definitivamente terminata. E che occorra aprire una nuova pagina della poesia italiana. Con una sola parola: sono convinto che occorra discontinuità, imboccare con decisione la strada che ci conduca verso la nuova poesia, verso una nuova ontologia positiva, verso una nuova ontologia estetica.

Strilli Dono

Strilli Talia la somiglianza è un addioRiporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

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Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sulla pubblicazione della Antologia della poesia contemporanea italiana, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions di New York, pp. 330 $ 20.00

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan war Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura di Roma, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Strilli RagoIntervista  di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa

Domanda:

La prima domanda è molto semplice, anzi, ingenua: Perché una Antologia della poesia contemporanea italiana?

Risposta:

Era necessario mostrare un percorso significativo della poesia italiana contemporanea, indicare alcune radici, da dove si viene: dal modernismo europeo, e dove si va: verso un nuovo modernismo. Il mio intento è quello di mostrare come certe linee di forza che hanno attraversato e fermentato l’area della poesia del modernismo europeo agissero, fossero presenti da lungo tempo anche in Italia.

Domanda:

Nei tuoi scritti critici ripeti di frequente che la poesia italiana dal 1971, anno di pubblicazione di Satura di Montale, non ha prodotto poesia di alto livello. E allora, ti ripeto la domanda: Perché una Antologia della poesia italiana contemporanea?

Risposta

Riformulo in altro modo la mia precedente risposta. Perché uno o due poeti di altissimo livello possono trovare terreno fertile per svilupparsi soltanto quando il terreno della koiné linguistica e stilistica è stata messa a punto da un lavoro a monte, quando è stata preparata dal lavoro di almeno due, tre generazioni di poeti, quando sono state messe a punto quelle condizioni filosofiche di poetica, lessicali e stilistiche che soltanto possono consentire la nascita e lo sviluppo di una poesia italiana di alto livello.

Strilli Gabriele2Domanda: Qual è il progetto culturale che ti ha guidato?

Risposta: Detto con parole semplicissime, trovare la via verso una nuova ontologia estetica nell’orbita della poesia modernistica che si è sviluppata dopo la fine del Moderno, dopo la fine della Metafisica. Rispondere in qualche modo alla domanda: Quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?

Domanda: Come si pone la tua Antologia? Voglio dire: immaginiamoci la poesia come un Parlamento, un emiciclo che va dalla destra alla sinistra, la tua Antologia come e dove si colloca? A destra?, a sinistra?, al centro?

Risposta: La poesia di una comunità nazionale trova le condizioni favorevoli per la sua espressione soltanto quando si pone «al centro» del fare estetico, quando la «nuova poesia» si pone strategicamente «al centro». L’opera di «opposizione», come tu la definisci, alla fin fine finisce per impoverire l’opzione della «nuova poesia», perché la relega in una funzione ideologica, strumentale agli altri interessi in competizione.

Domanda: Cosa intendi con «altri interessi in competizione»?

Risposta: Voglio dire che nel secondo e tardo novecento, diciamo, dagli anni sessanta in poi, le petizioni di poetica sono diventate posizioni di poetica, in quanto erano il prodotto di interessi di parte di certe aree di letterati (Roma e Milano); si è trattato di petizioni ed attività auto promozionali, prive di retroterra culturale, filosofico. Si è fatta della agitazione, della propaganda, della comunicazione. I più esperti hanno puntato sulla auto storicizzazione.

Strilli Busacca Vedo la vampaDomanda:

È noto che tu sei da tempo il sostenitore di una linea che va dalla poesia modernista europea che fa capo a Tomas Tranströmer di 17 poesie del 1954 alla «nuova poesia» della «nuova ontologia estetica». In questo tragitto, meglio sarebbe chiamarlo ventaglio di possibilità espressive, quale è il percorso che tu hai tracciato con questa antologia?

Risposta:

È in questo nuovo orizzonte culturale che lentamente si fa largo anche in Italia che nasce la «nuova poesia», preannunciata da libri  stilisticamente innovatori come Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, ripubblicato con tutte le poesie inedite nel 2018 con Progetto Cultura di Roma, Stige. Tutte le poesie (1990-2002), e Altre foto per album (1996) di Giorgia Stecher la cui opera completa è in corso di stampa per Progetto Cultura.

Loquor ergo non sum, può essere questo il motto da cui partire per il posizionamento della nuova ontologia estetica. Al di sotto e dietro del loquor non c’è nulla, non c’è un «io» se non come costellazione di significanti inconsci. E così cade la stessa opposizione tra il letterale e il figurato che ha retto la poesia tradizionale del novecento. Con la caduta di quell’opposizione è caduto anche un certo «modello» di forma-poesia che implicava un certo modo di considerare i problemi di natura estetica. Con il libro di Tranströmer del 1954 quel «modello» va in disuso, ma da noi lo si è iniziato a capire con quaranta anni di ritardo, quando sono comparse le prime traduzioni in italiano del poeta svedese. La poesia del «nulla» di Tranströmer era in realtà «pieno» di cose, solo che non lo sapevamo e non lo potevamo immaginare.

Così, tra essere ed ente si è aperto un abisso incolmabile. Si è scoperto che l’ente non rimanda all’essere se non da un luogo lontanissimo qual è il linguaggio. È da qui che parte la nuova ontologia estetica di cui il padre nobile lo rinveniamo in Tranströmer.

Nella poesia, diciamo così, tradizionale, il letterale e il figurato funzionavano come categorie proposizionalizzate proprie della differenza problematologica (e ontologica). All’interno di questo quadro concettuale si cercava sempre «altro» rispetto ad un significato-significante e in quell’«altro» si cercava il contenuto di verità; in quello che si era detto si cercava il non-detto, nell’espresso l’inespresso. Si cercava insomma il «senso».

Nella nuova ontologia estetica siamo fuori di questo orizzonte culturale che vede le categorie come proposizionalizzate, nell’ottica della NOE il letterale e il figurato sono sinonimi, sono sovrapponibili, è questa la grande rivoluzione che riesce arduo comprendere da parte dei letterati digiuni di letture e di riflessioni filosofiche.

Strilli Tranströmer 1Domanda:

A tuo parere la poesia italiana del secondo novecento è all’altezza della più alta poesia europea?

Risposta: È dagli anni settanta, dall’anno di pubblicazione di Satura (1971) di Montale che la poesia italiana ha cessato di produrre poesia di alto livello; si è invece prodotta una «discesa culturale» dalla quale la poesia degli anni seguenti non si è più ripresa; le generazioni più giovani si guardavano bene dal mettere in discussione i risultati raggiunti da quella precedente. E così via, a catena. Il risultato è stato che per trenta anni la poesia italiana ha vissuto una situazione di stallo. Ed è evidente che in queste condizioni lo sviluppo di una nuova poesia e di una nuova poetica sia stato oggettivamente reso difficoltoso.

Domanda: Hai scritto di recente questa frase sibillina: «Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci». Vuoi spiegarci meglio cosa intendi?

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaRisposta: C’è nella nuova ontologia estetica quello che possiamo indicare come una intensa possibilizzazione del molteplice. Continua a leggere

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Letizia Leone, Le ragioni di una antologia americana di poesia italiana contemporanea, How the Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 & 20.00, Poesie di Chiara Catapano, Alfredo de Palchi, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, (Edited by Giorgio Linguaglossa, Preface by John Taylor, Translated from the Italian by Steven Grieco-Rathgeb)

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926 anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura il cui primo libro è del 1978 Brillanti di bottiglia, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Letizia Leone

Le ragioni di una antologia

Un lettore forte americano che si trovi tra le mani questo elegante volume di 330 pagine rifletterà inevitabilmente sul fatto che in Italia la poesia non è un ‘vuoto a perdere’ ma, erede della più nobile tradizione dantesca, sia ancora in grado di armarsi di una forte autoriflessività filosofica e critica. Insomma, anche nel post-moderno o tardo-moderno l’arte della parola, «l’anello più debole della catena dei linguaggi» (1), riesce ad esprimere una densità gnoseologica tracciando un solco invalicabile con l’atmosfera politico-culturale del paese che la esprime. Naturalmente questa sarà una prospettiva distorta dalla mancanza di informazioni. In Italia si potrebbe morire per intossicazione da scrittura consolatoria e minimalista. Tante piccole e usurate cronache emotive dell’io come pacchetti vuoti di sigarette compilano le collane degli editori storici. Il target promozionale è precostituito. Libretti di stagione, foglie morte per colmare la misura pubblica della futilità, si sa, mentre i Poeti, in numero esiguo, scrivono come antichi amanuensi trecenteschi ai margini. A latere non più dei grandi volumi in folio delle cronache domestiche ma all’ombra dell’audience del reality show di una «letteratura postuma», ingenua e sentimentale, nell’accezione di Ferroni.

Dunque poesia facile, quella che oggi va per la maggiore, operazione di superficie, gioco linguistico incapace di ogni interrogazione sul senso o su presupposti ontologici: «Accade che nella poesia meno accorta di questi ultimi tre decenni le ipotesi poetiche che operavano sull’assunto di una lettura diretta del reale, che il ‘reale’ fosse lì, stabile e duraturo, almeno quanto si pensava che lo fosse, si sono rivelate ingenue e acritiche, si sono rivelate essere ipoteche poetiche piuttosto che ipotesi di poetica.» (2)

Nella sua introduzione critica John Taylor individua il comune taglio prospettico di questa ars poetica. I poeti selezionati dal curatore Giorgio Linguaglossa, nella loro eterogeneità propongono una sorta di nuova poesia modernista italiana (a colmare una lacuna importante nella nostra tradizione) le cui peculiarità il critico statunitense assomma nella formula «versi più massimalisti che minimalisti» affermando che l’elemento più macroscopico è l’orientamento non autobiografico e il riciclo o riuso sincronico dei materiali mitici, soprattutto della tradizione greco-latina.

Scrive John Taylor: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o riutilizzare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste Land e “The Love Song di J. Alfred Prufrock” vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti qui antologizzati.. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare le poesie storiche di C. P. Kavafis che resuscitano questa o quella figura del passato. Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Kavafis, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, per tutto il tempo dando una svolta metaforica al “tonno in scatola”.»

Per John Taylor una domanda è sottesa alle poetiche esplorate nel libro (collegata alla questione dell’oblio della memoria e di una nuova percezione del fattore tempo): «per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o ingannevolmente attraverso qualche improbabile parallelismo?»…«Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ».

Di certo «Il Logos è diventato spazio problematizzato» scrive Linguaglossa in merito al forte ripensamento teorico-metodologico dei poeti antologizzati quasi tutti reduci dall’officina a cielo aperto della Nuova Ontologia Estetica. Una riflessione critica a vocazione interdisciplinare, questa, che si concretizza in una ricca dialettica sulle pagine telematiche della rivista on line L’Ombra delle Parole.

In un pressoché quotidiano engagement dialogico la questione cardine (sebbene sempre presente) non è più quella dei linguaggi, «la verità è che non siamo più dentro la problematica dei linguaggi, per via del fatto che i linguaggi non fanno più testo, si sono extra-territorializzati, sono diventati delle zattere significazioniste…» (3)

Dunque con l’uso di una strumentazione complessa si tratta di ripensare una filosofia dell’arte. Una riflessione disposta trasversalmente tra scienza, filosofia, sociologia e ‘scienze umane’ che porti alla rielaborazione poetica di tutte quelle categorie de-valorizzate dal nichilismo (soggetto, linguaggio, verità, storia, etica). Progetto ambiziosissimo, arduo che si basa di una forma «eterodossa del sapere».

Partire dalla certezza che per oltrepassare il guado di tutti i cliché post-moderni, (dalla perdita del fondamento al crepuscolo del soggetto…) è necessario un cambiamento di paradigma. Una rifondazione, una nuova maniera di pensare il discorso poetico. Una frammentazione di vuoti e di pieni dove il nulla (Nichts) quale tonalità di fondo (Grundstimmung) del mondo dell’uomo, cioè dell’esistenza, risulti «come uno stato emotivo ineliminabile della Nuova Poesia.»

È questa è in fondo la tonalità emotiva fondamentale, la spia rossa che fluttua tra questi testi, la dove l’invito a leggere una certa poesia significa anche quello ad inoltrarsi nell’abitare spaesante, nell’enigma, nelle crepe che si aprono tra i versi.

Da un dialogo impossibile tra Linguaglossa e Heiddegger:
Martin H.: «La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica.»

Giorgio Linguaglossa: «Ma noi non poniamo nessuna domanda al niente, noi ci limitiamo a prenderne atto, ad accettare, come tra due parentesi tonde, che qualcosa aleggi come tra due parentesi graffe all’interno di un grande mare dell’immobilità assente che sta al di là del Nulla e lo contiene e lo sdogana, per così dire.»

Chiara Catapano_2

CHIARA CATAPANO

A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita

1
A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita,
Dovrò presto fare i conti con quanto fa pendere la bilancia
Oltre i confini estremi della misura.
Quando morirò vorrei leggessero Elytis al mio capezzale:
Nessun Cristo migliore della sua Maria Nefèli potrebbe
ungermi la fronte
Prima che il nero mi raggiunga con l’ultimo respiro.
Accompagnatemi a Oxòpetra e abbandonatemi distesa sulla roccia
Come un frutto di mare aperto.
Lasciate che mi dissipi l’aria e non siano i vermi giù in profondità
a svezzarmi:
Sia la natura a pedinarmi e, in segreto, mi assolva
Benché anche per un sol giorno avrò creduto che concretezza è male.
Basterebbe levarsi di torno l’opinione come gli abiti la sera:
Invece stiamo ancora a implorare l’un l’altro approvazione
Per il modo in cui mordiamo il frutto appena spiccato.

Non esiste religione che non comprenda in segreto violazione
Nelle segrete stanze della fede.

Ho chiuso gli occhi come per un miracolo.
Era gennaio e dentro l’estate già s’apre un varco:
Il mio errore sta nell’imporre un tempo unico alle cose
Ed io viverci male, col ritmo del rammendo.
In silenzio l’uomo raccoglie dalla bianca roccia piante selvatiche,
E il poeta dà loro un nome:
E nella pausa tra il gesto e la parola vive l’eternità iterata mille
e mille volte,
Finché anche l’oro dell’icona non avrà rivelato il tuo stesso volto
dipinto da Dio
Sulla tavola nel legno della croce.

Finiamola qui. Voglio abbandonare la paura al crocevia
Dove con mani leggere accetterò la soma della Sfinge
E i quesiti che valgono anche quando ormai tutto è svelato.
Tebe è chiusa in un morbo d’ignoranza, nessun assedio
abbastanza definitivo
Per abbattere le mura ed espugnare la città affamata.

Siamo vivi per puro caso: divinità luminosa liofilizzata
in equazioni
O deposta con velluti e porpora nel più remoto dei remoti cieli,
Porterai sempre il nostro nome.

Cerchiamo comprensione,
per non doverci assumere la responsabilità di noi stessi.

1
Judging by how things go along the ridge of life
Soon I must reckon with what tilts the balance beyond all sense
of measure.
When I die I’d like them to read me Elytis at my bedside:

No Christ better than Maria Nefeli could anoint
my forehead
Before blackness reaches me with my last breath.
Take me to Oxopetra and leave me there lying on the cliff
Like an open oyster.
Let the air waste and scatter me, lest the worms wean me deep down:
Let Nature shadow, and secretly absolve me
Even though I may for a single day have found evil in concreteness.
We would only need to shed opinions like our clothes at night:
Instead here we are still imploring each other’s approbation
For the manner in which we bite the freshly plucked fruit.

There is no religion that does not include a secret violation
In the secret chambers of faith.

I closed my eyes as if by miracle.
It was January, and a passage already opens in the summer:
My mistake is to force a single time upon things
And then live poorly, in rhythm with the darning needle.
In silence man gathers wild plants from the white rock
And the poet names them:
And in the delay between act and word, eternity lives many
thousand times over
Till the icon’s gold also reveal your countenance painted by God
On the panel in the wood of the cross.
Let’s finish it here. I want to abandon fear at the crossroads
Where with light hands I will accept the Sphynx’s burden
And the queries that are still valid after all is revealed.
Thebes is shut inside a plague of ignorance, no siege so final
To knock down the walls and overwhelm the starving city.

We are alive by pure chance: divinity, luminous and rarefied
in equations
Or laid down with velvet and purple in the remotest of remote skies,
You shall always bear our name.
We seek understanding So that we need not be answerable to our own selves.

Onto De Palchi

ALFREDO DE PALCHI

da Paradigma / from Paradigm

Sono il dilemma
che oltraggia la veste monacale usata dalla mente,
e per il suo corpo incolume
sono lo sposo della mensa
adorato ogni notte in ginocchio presso
il letto spogliato quanto te;
la veste intatta ad un chiodo a poco a poco si chiazza
di unguenti spalmati sulle piaghe dell’intimo punire
mentre tenti di fermare la mano surreale che ti accende
e ti invischia nella sua potenza.
La finestra della cella è chiusa, l’uscio sbarrato,
i muri calcinati assorbono le urla mute;
e tu, monacale, divarichi le carni ustionate,
e con bocca saturnina piena di lingua che serpeggia lucifera
avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale — prendimi come vuoi,
in tutte le bocche gonfie di rosa, turgide di passione,
riempiti del tuo salvatore.

4 febbraio 2000

I am the dilemma
that outrages the nun’s habit used by the mind,
and for your unharmed body
I am the groom of the altar,
adored by you on your knees each night
next to the bed undressed as you are.
The garb intact on a nail bit by bit is stained
by unguents smeared on sores in the intimate punishment
as you attempt to stop the surreal hand that ignites you
and entangles you in its power.
The cell window is shut, the exit blocked,
the whitewashed walls absorb your silent screams
and you nun-like divaricate your scalded flesh
and with saturnine mouth full of meandering luciferian tongue
you envelop in the concept my inflamed calvary,
conquered with the religion of your carnal essence—
take me as you will, in all your mouths swollen with rose,
turgid with passion,
fill yourself with your savior.

4 February 2000

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana — la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo il vino
“bevete, questo è il mio sangue.”

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino — simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;
e tu inchioda sulla stessa croce il mio amore
per le sue carni maestose.

Grace Church, NYC, 11 giugno 2000

I
immerse myself in you Christ,
unharmed spirit of my carnal religion
of human beast—my sacred communion
is the manifestation of all you express breaking the bread
“here, eat, this is my body”
and offering the wine
“drink, this is my blood.”

I break myself like the dinner bread
and bleed, like the offering of wine—symbol of precious
blood; I’m the carnivore
the tonguing cannibal devouring the body
drinking the blood of the wound
so that I’ll be remembered:
and you nail my love on the same cross
for her majestic flesh.

Grace Church, NYC, 11 June 2000

*
Perché brucio di calce nel sangue
porgi la tetta nutriente di succhi
all’età che sgela il siero
nella radice ossea

sbiancata
ramifica germi sotto la pelle
terragna di raccolti cereali
verdure al mattino di brina
zucche e vendemmie

dal fondo ciclico di filari con pioppi
e olmi sulle rive del fossato
guizzante di pesci all’alba
arrivi quasi sveglia
nel circolare vortice

hai il sapore del riposo
non gli ultimi voli della notte e il brucare in silenzio
l’odore acre del letame fumigante a mucchi
per i campi di novembre
e la crescita nei solchi con il sole che scala
l’orizzonte della perfetta curva

che si allontana
si allontana e visibilmente si fonde
nel turbine che trascini nell’aria

19 novembre 2007

*

Because my blood is burning white with lime
you feed me the nourishing juices of your breast
at an age when serum thaws
in the bone root

off-color
it spreads seeds under the skin
earthy from the harvest: cereals
vegetables in the dewy morning
squash and vintage grapes

from the cyclical depth of rows of poplars
and elms by the banks of the moat
that flickers with fish at dawn
you arrive almost awake
in the whirling vortex

you taste like sweet repose
with the last nocturnal flights and the silent grazing
the acrid smell of manure steaming in pats
through November fields
and the growth in hedgerows under the sun as it scales
the horizon of a perfect curve

that moves away
moves away and visibly melts
into the whirlwind you drag through the air.

19 november 2007

Mario Gabriele Lucio
MARIO M. GABRIELE

da In viaggio con Godot / from Traveling With Godot

Un Ermitage con combine paintings
di Rauschenberg
e un guardiano al limite degli anni
dove chi va oltre non lascia traccia;
— tanto vale restare qui — ,
disse Alicia che temeva il cambio di stagione.
Non è stato facile lasciare la casa in via delle Dalie.
Giose è rimasto con Benedetta in Guysterland
e con le piccole gocce di lacrime amare.
Quando non è nel Vermont
manda romances and poems.

Non basta un dollaro per incontrare — la Bella Carnap
fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro — .
Sweeney ha oltrepassato il confine,
lasciando un Frammento di prologo
dopo aver salutato per sempre Mrs. Turner.
Abbiamo trovato serpenti nel giardino.
Una sofferenza l’ha patita la farfalla
prima di volare sul concerto
per pianoforte e orchestra di Richter.
Kafka uscì distrutto nel Processo.
Ci fu chi riferì su l’Assassinio nella Cattedrale,
ma i vecchi del borgo giocavano a poker
senza fare nomi.

*

A Hermitage with combine paintings
by Rauschenberg
and a keeper on the verge of retirement
where those who go beyond leave no trace;
“We might as well stay here,”
said Alicia who feared the change of season.
It wasn’t easy to leave the house in Via delle Dalie.
Giose stayed back with Benedetta in Guysterland
and with the little drops of bitter tears.
When he is not in Vermont
he sends romances and poems.
A dollar is not enough to meet The Carnap Belle
made of goat skin and golden hoofs.

Sweeney has now crossed over the border
leaving a Fragment of a prologue
after saying goodbye for ever to Mrs. Turner.
We found snakes in the garden.
The butterfly suffered some distress
before flying onto Richter’s
Concerto for piano and orchestra.
Kafka came out of The Trial in pieces.
There were some who reported on Murder in the Cathedral,
but the old men in the hamlet played poker
without revealing names.

*

Donna Evelina piantò le orchidee nel giardino.
Lucy mi volle con sé a vedere l’erba sotto la pietra.
Un abate ci invitò a salvare l’anima.
— La città — disse, — è un luogo proibito
e l’azzurro è il centro dell’iride — .
Un cappellino di velluto rosso
accolse le lacrime dal cielo
come un’acquasantiera.
Alle nostre panchine tornammo
a spargere semi,
germogliando e appassendo dentro casa.

A piedi nudi ci avviammo
in un bosco di prataioli notturni.
Il freddo ci lasciò contriti,
non indietreggiò davanti ai rami
abbattuti dalla neve.
Non sapeva che da lì, a breve,
sarebbero venute le idi di marzo.

Fernandez non conosceva — Caroline in Sickness — .
“Buenos dias, Senior. Siamo turisti,
veniamo dal Sud per vedere Guernica
e il Ritratto con Maternità
su fondo bianco di Francoise Gilot
e dei suoi due bambini. Ne sa qualcosa? — .
— Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National” — .

*

Lady Evelyn planted the orchids in the garden.
Lucy wanted me beside her to see the grass under the stone.
An abbot called on us to save our souls.
“The city,” he said, “is a forbidden place
and blue is the center of the iris.”
A little red velvet hat
gathered the tears from the sky
like an aspersorium.
Back we went to our benches
to scatter seed
as we sprouted and wilted indoors.

We set off barefoot
in a wood of night champignons.
The cold left us feeling remorseful,
it didn’t retreat before the branches
knocked down by the snow.
It never knew that soon enough
the Ides of March would be with us.

Fernandes was not acquainted with Caroline in Sickness.
“Buenas dias, Señor. We are tourists,
we’ve come from the South to see Guernica
and Portrait with Maternity
on a white background, by Françoise Gilot
and her two children. Do you know anything about it?
“Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National.”

*

Sulla Swiss Air leggemmo I Racconti Ginevrini
e La Salamandra di Octavio Paz.
Si fa colazione insieme, questa mattina, Miriam,
dopo il saccheggio dei sogni.
La notte è cuscino e coperta.
Oh, Principessa, qui davvero comincia il count down!
La stanza accumula fumi, si ridesta al mattino.
Tutto si rallegra in un Buon giorno Madame.
La terra è un braciere. Non vale discuterne ancora.
Già le cose, come sono, ci spezzano le dita.
Non c’è porto sicuro dove andare.
Aspettiamo un miracolo
da Nostra Signora di Guadalupe.
Ora siamo in due a sognare una gita
non prima aver chiuso il giardino,
ritoccato il viso a Marybloom,
così non può dire che la giovinezza è sparita.
L’anno è passato.
La pioggia rivuole le sue note da pianoforte.
Una musica dal sottoscala saliva al cielo.
Natalie Cole cantava Unforgettable.
Ora i miei morti sono quelli che non ricordo.
Gli altri, figuranti nella memoria,
vivono in orizzonti stretti,
se ne stanno in silenzio nel giardino di Klingsor.

*

On Swissair we read The Geneva Stories
and The Salamander by Octavio Paz.
This morning it’s breakfast together, Miriam,
after the plundering of dreams.
The night is pillow and blanket.
Oh, Princess, here the countdown begins in earnest!
The room builds up fumes, reawakens in the morning.
Everything brightens up in a Buon giorno, Madame.
The earth is a brazier. There’s no point discussing it any more.
Things as they stand are already breaking our fingers.
There’s no safe haven to go to.
We await a miracle
from Our Lady of Guadeloupe.
Now it’s two of us dreaming of an outing
not before we’ve shut the garden,
given Marybloom a face enhancement
so she can’t say her youth is gone.
The year is over.
The rain wants its piano notes back.
From the basement some music rose to the sky.
Natalie Cole was singing Unforgettable.
Now my dead are those I don’t remember.
The others, picturing in my memory,
live in narrow horizons,
they keep silent in Klingsor’s garden.

donatella-giancaspero

Costantina Donatella Giancaspero

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Giorgio Linguaglossa,  Una poesia, Avenarius tirò una cordicella, Poesie di Alfonso Cataldi, Mauro Pierno, Commento di Giuseppe Talìa, Il Nulla e lo stile ultroneo della nuova poesia

Antology How the Troja war ended I don't remember

Giorgio Linguaglossa

caro Giuseppe Talìa,
dopo alcuni anni di rifacimenti, ecco una mia poesia fatta dal Signor Nulla con gli scampoli e gli stracci raccattati qua e là
.

Avenarius tirò una cordicella

Il silenzio si accostò al tavolo
sopra il quale oscillava un lampadario di cristalli.

Avenarius tirò una cordicella, un misterioso campanellino squillò
e il tendaggio si aprì lentamente…

Una musichetta dolciastra come di carillon.
Degli specchi con le cornici dorate brillavano nella penombra.

[…]

«Qualcuno rumoreggia e sferraglia dietro il sipario del teatro;
incastro di motori, di ruote dentate,

rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi
trapezoidali».

Disse proprio queste parole. Rimasi sbalordito
per la loro sconsideratezza.

Poi, chiese le ultime notizie sul meteo, sul pianeta terra
e sulla fiducia posta dall’opposizione in Parlamento..

Un pagliaccio con nacchere, un cappello rosso alla tirolese e dei nani
orribilmente agghindati saltellavano lì intorno.

[…]

La signorina Morphina accenna un passo di danza,
si sporge dal davanzale della finestra

del suo appartamento a Cannaregio. Acqua verdastra di canale.
Odore di zolfo e di aspirine.

K. introduce la mano destra nel guanto di velluto nero
e la mano sinistra in un guanto di velluto bianco.

«Anfragen, Spruche, Blumen… von Fremden und Freunden…
Besucher sitzen, verdammt…

im Besuchersessel, erzahlen…»*
Studio di un interno:

Un manichino femminile con un microvestito color metallo
e autoreggenti rosse colto in una ragnatela di lattice

su sfondo di perplex nero e luci fotofobiche, una stampelliera con delle stampelle
in vista e vestiti appesi.

[…]

K. si sedette lì, nel sotoportego, ordinò un’ombra, giocò con la tovaglia,
cincischiò con l’indice rivolto in alto:

«Se sarà un viaggio che sia un viaggio lungo
un viaggio vero dal quale non si torna».1

«Siamo soli, finalmente, Signor poeta, il mondo,
questo metro cubo compresso,

tra un attimo scomparirà…»

* [Domande, massime, fiori di amici e sconosciuti
visitatori siedono, condannati…

sulla sedia dei visitatori, raccontano…]

1] versi di Zbigniew Herbert da L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 a cura di Francesca Fornari, Adelphi, 2016

Foto manichino con vestiti su stampelle

Un manichino femminile con un microvestito color metallo
e autoreggenti rosse colto in una ragnatela di lattice
su sfondo di perplex nero e luci fotofobiche, una stampelliera con delle stampelle
in vista e vestiti appesi.

Alfonso Cataldi

A margine, il nascituro

La curva ha in serbo un pettegolezzo sul nascituro
concepito a margine di un’accelerazione.

La narcosi è in letargo, l’habitat-type sogna di calare il jolly.
Rubik pubblicizza la sua faccia tosta.

Giacomo lancia una macchinina del wwf contro la TV
Il Super Attach cola e corrode il disimpegno.

La delegazione degli esteti indovina il capofila
nella mischia lo sfoggio d’aria avvampa il fotogramma.

Sotto coperta chi assorbe l’enfasi dell’apertura?
In vista del traguardo l’unghiata graffia le comparse e chiude il conto on-line.

«Dopo cena sporcarsi le mani su un pannello svuota-famiglia
fantasia concorrente. Per cambiare programma.»

Giorgio Linguaglossa

Dobbiamo ringraziare il Nulla (Nichts) che ci ha graziosamente concesso questo soggiorno terminale nell’orizzonte dell’essere.

Come dice Heidegger: «La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica.»

Ma noi, obietto al filosofo, non poniamo nessuna domanda al niente, noi ci limitiamo a prenderne atto, ad accettare, come tra due parentesi tonde, che qualcosa aleggi come tra due parentesi graffe all’interno di un grande mare dell’immobilità assente che sta al di là del Nulla e lo contiene e lo sdogana, per così dire.

E come non poniamo domande, non ci attendiamo alcuna risposta. E questo è la nostra posizione metafisica sul nostro essere metafisici, poiché l’esistenza è già in sé metafisica e noi non possiamo sfuggire in alcun modo al nostro essere animali (pardon, esseri) metafisici.

Mi è stato chiesto: «ma come si fa a pensare al nulla?».

Credo che sia errato partire da lì, dal pensiero che pensa il nulla, per il semplice fatto che il nulla non è pensabile. Non possiamo dire nulla intorno al nulla perché esso sfugge al pensiero, è questa la impasse della metafisica che vuole pensare il nulla. «Das Nichts nichtet», il nulla nullifica e, nullificando, crea essere. Noi siamo nient’altro che il prodotto, la combustione del Nichts.
Possiamo però pensare al nulla a partire da una cosa, non abbiamo altro scampo che aggirare la questione del nulla e partire dal pensiero di una cosa. Perché il nulla è dentro la cosa, non fuori.

Mi è stato anche obiettato: «ma come fai a pensare all’impensato partendo dal pensato?».

Ecco, anche qui penso che sia errato voler pensare all’impensato partendo dal pensato. Se parto dal pensato ricadrò sempre nel pensato, in un altro pensato. Un altro errore è quello di voler fare una equivalenza: nulla = impensato. Altro errore. Per indicare il nulla devo per forza di cose nominare una cosa, non ho (non abbiamo) altra possibilità che nominare le cose. Non possiamo sfuggire alle cose.
Così, quando scrivo nella mia poesia:

Il silenzio si accostò al tavolo
sopra il quale oscillava un lampadario di cristalli.

Avenarius tirò una cordicella, un misterioso campanellino squillò
e il tendaggio si aprì lentamente…

Una musichetta dolciastra come di carillon.
Degli specchi con le cornici dorate brillavano nella penombra.

è ovvio che io qui stia tentando la rappresentazione del nulla per la via indiretta, nominando cose e azioni e personaggi che fanno qualcosa. Non avrei altra possibilità che comportarmi in questo modo, cercare di nominare le cose, ma è che le cose vanno nominate in un certo modo, è il modus linguistico che determina l’essere delle cose, le chiama alla visibilità linguistica. Chiamare alla visibilità linguistica le cose, questo è fondamentale, chiamarle in modo che esse facciano intendere che galleggiano sul nulla. E questo lo si può fare cancellando la significazione ordinaria dagli enunciati. Ogni proposizione istituisce un teatro, una situazione, una questità di cose che non ha alcun referente con il mondo reale del realismo rappresentativo. È visibilmente assurdo e ultroneo che il signor Avenarius tiri una cordicella proprio nel momento in cui il silenzio si accosta al tavolo. Che relazione ci può essere tra il modus del silenzio e il modus del tavolo? Ecco, questo è il punto, c’è una relazione tra cose diverse e disparate, anzi, ci sono molteplici relazioni ma non più del tipo realistico mimetico della poesia del novecento ma di tipo nuovo, ultroneo, non referenziale. Possiamo dire che le cose nominate equivalgono al pensato e tutto ciò che non viene nominato equivale al nulla che aleggia e insiste intorno alle cose. Il nulla è tutto ciò che sfugge alla significazione. È il nulla, la consapevolezza del nulla che costituisce il motore della composizione. E tutta la composizione sembra come galleggiare sulla membrana del nulla.

Se l’impensato è ciò che il pensiero non riesce a pensare, ne deriva che esso è quel quid che sta fuori del pensato e del nominato, e quindi se partiamo dall’impensato tutta la composizione ruoterà attorno all’asse dell’impensato piuttosto che all’asse del pensato. La novità del punto di vista non è di poco conto, è una novità rivoluzionaria perché cambia le carte in tavola e il modo di impiegarle, cambia le regole della significazione. Il che non è poco.

Perché noi siamo irriflessivamente sempre dominati dal pensiero rappresentativo e referenziale in ogni momento della nostra vita quotidiana, anche quando scriviamo una poesia siamo succubi di questa impostazione irriflessa. La difficoltà è qui, nel ribaltare questa posizione irriflessa, questa prigione. È questo il tentativo che sta facendo la nuova ontologia estetica, partire dalla cosa pensata per andare verso l’impensato del nulla senza cadere nel non-senso, che, in sé corrisponde al modo di impostare il discorso poetico alla maniera convenzionale rappresentativa, referenziale e mimetica. Partire dall’impensato significa partire dal non ancora pensato (non dal non-pensiero), sarà l’impensato che dirige il nostro sguardo, sarà l’impensato che ci costringerà a costruire il discorso poetico in modo che non corrisponda più al pensato, cioè al referenziato. Il risultato sarà una poesia finalmente liberata dal referente frutto di convenzione.

Non si tratterà di pensare in anticipo ciò che verrà pensato poi in un secondo momento. Si tratterà di un nominare-pensare non più mimetico e rappresentativo ma a-mimetico e a-rappresentativo, non più dipendente dalla scala referenziale.

Plotino ricorre ad una analogia: come per l’occhio la materia di ogni cosa visibile è l’oscurità, così l’anima, una volta cancellate le qualità delle cose (che sono della stessa sostanza della luce), diventa capace di determinare ciò che rimane. L’anima si fa simile all’occhio quando ci si trova nel buio. L’anima vede veramente soltanto quando c’è l’oscurità.

In un certo senso pensare all’impensato è analogo al vedere le cose nell’oscurità. Soltanto nell’oscurità si possono vedere le cose in un modo diverso.

Mauro Pierno

Soltanto forma.
La firma sottintesa della cariatide.

La statua vuota un contrappeso
all’esordio di un unico gigante. Voce del verbo porgere.

L’attesa dell’approvazione.
Quante carte uguali sulla parete

gli stessi strati di colore, la stessa orma
di stupore. Un lavoro perso nella ripartenza.

La macchia, se preferite le marce.
Attenti a sinistr! Un burrone enorme.

Oggi citofonare Ventura.

Giuseppe Talìa

Stamani stavo leggendo un saggio di un accademico nostrano, gli Uccelli di Aristofane, e subito una lucina si è accesa in me, la luce di un ricordo. Così sono andato a ricercare il libro di poesie di Linguaglossa, Uccelli, edito da Scettro del Re, Roma, 1992.
Non avendo il libro, ho ricercato su internet e, guarda casso, mi sono imbattuto in una poesia della silloge Uccelli che magicamente mi ha riportato al testo postato dallo Stesso in questa pagina, Avenarius tirò una cordicella.

Il mio primo pensiero fu: non si scrive che una cosa sola. Nel senso che l’impronta del poeta una volta impressa non cambia di misura, cambia di direzione. Prende altre strade, altri sentieri. Con il risultato, però, che trova sul cammino, gli stessi soggetti e gli stessi oggetti. Come quel cane che si morde la coda.

E qual è, dunque, la differenza tra un sentiero e l’altro?

Il testo di “Avenarius tirò una cordicella” presenta diversi e interessanti Holzwege, frutto di una unione sapiente di diversi percorsi “scampoli e stracci raccattati qua e là”. Ma, in nuce già Uccelli apriva le scene del teatro della vita, teatro dell’assurdo e del nonsenso : “Il retro dell’inferno è fitto di quisquilie”; “Il teatro dell’inferno è gremito di voci oscure”; e ancora, “mostro”, “demone” che condiscono un io fin troppo presente sul cammino della riabilitazione.
In Avenarius tirò una cordicella, il patchwork è impreziosito da schizzi (ruote dentate, rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi trapezoidali), come da screzi (Un pagliaccio con nacchere, un cappello rosso alla tirolese e dei nani orribilmente agghindati saltellavano lì intorno), da informazioni, Anfragen, da reclami, da fiori… da estranei come da amici, insomma materiale di risulta, o come egli stesso ama dire, da spazzatura.

Anche la spazzatura richiede intelligenza e savoir faire.

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Intorno alla generosità del Nulla, Una poesia di Giuseppe Talìa,  Lucio Mayoor Tosi, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Matteo Pietropaoli, Francesco Paolo Intini

Antology How the Troja war ended I don't remember

Giorgio Linguaglossa

Che dire intorno alla generosità del «Nulla»?

Caro Giuseppe Talìa,

ho ascoltato il famoso pezzo che hai postato, The clash. Nel passato l’ho sentito svariate volte con un po’ di noia. Non nutro di solito molta accondiscendenza verso la musica rock, anche se mi piace molto Vasco Rossi, per il resto la musica rock mi sgomenta e mi annoia, come tutta la musica che cerca l’intrattenimento, ma capisco che deve essere così, capisco che tutto quel rumore deve esserci per essere. Tuttavia mi interessa la funzione semantica e ultra semantica della musica rock. Mi interessa la funzione ultra semantica e semantica del rumore. Possiamo dire che la musica rock è musica del pleroma. In un mondo troppo pieno è difficile fare esperienza del vuoto e del nulla, e poi del nulla non si dà esperienza, se è questo che si cerca; il nulla ci accompagna, accondiscendente, in ogni istante della nostra giornata. Il nulla non lo si può afferrare, il nulla sfugge da tutte le parti perché è in ogni luogo e fuori da ogni luogo, perché è dentro ogni luogo. A pensarci bene, il nulla è ciò che rende significativo ogni istante delle nostre giornate, guai a chi mi togliesse il gusto della fagocità e dell’impermeabilità del nulla! Penso che una poesia che non mi rimandi al pensiero, al cospetto e al sospetto del nulla, non mi interessa, non cattura la mia sensibilità né la mia intelligenza…

Ma, come si fa a catturare il nulla? Semplice, rinunciando a volerlo catturare, facendo un passo indietro rispetto al linguaggio, facendo un passo indietro rispetto all’io plenipotenziario… questo Volere Potere di cui è piena la pseudo poesia e la pseudo arte dei giorni nostri, questo voler mettere delle «cose» dentro la poesia lo trovo puerile oltre che supponente, la supponenza degli imbonitori e degli stupidi; questo voler fare delle «istallazioni» del nulla lo trovo un controsenso, il nulla non si lascia mettere in una istallazione, non lo si può inscatolare e mettere sotto vuoto spinto. Il nulla non si può conservare in frigorifero, non lo si può mettere in lavatrice o nella centrifuga, non lo si può nominare, non ha nome, non ha un luogo, non ha un mittente né un destinatario, non è un messaggio che si deve recapitare. Il nulla non è Dio, non c’entra niente con Dio. Il Nihil absolutum non è ed è al contempo. È ciò che assicura la sopravvivenza dell’essere fin tanto che l’essere ci sarà. Il nulla non abita lo spazio-tempo, piuttosto è lo spazio-tempo che abita il mondo grazie alla generosità del nulla.

Una poesia che non dialoghi con il nulla è una para-poesia o una pseudo-poesia, come ce ne sono a miliardi di esemplari qui da noi…

Giuseppe Talìa

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse
Personale. Il vulnus della Legge lo trovi in ogni supermercato.

Nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli
e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato
in…

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.
Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

È il sottovuoto il vero problema. È l’involucro il vero esantema.
Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

Il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;
diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica
e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati fanno
da colonna sonora ai gladiatori che sono diventati in questi tempi
degli influencer di fama.

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia
alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;
Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart, un pomp rock.

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla, ma si può condire.

[Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la guerra di Troia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. È uscita la raccolta Thalìa per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown, e suoi testi sono presenti nella Antologia How the Trojan War Ended I don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019]

 

Lucio Mayoor Tosi

Ukulele.

Nel debole pensare di un cervello dato
in beneficenza a un missile delle finanze,

uno dei tanti tra gli schierati a Hollywood.
Testata di segatura e ukulele in pancia.

Possono cadere come in Stranamore,
precisamente sul centrotavola di ogni famiglia.

.

Dichiarato il Vuoto di programma,
la macchina commerciale depenna

ogni notifica d’affari che interferisca
sulla partenogenesi della ricchezza.

Esplodono con rumore di conchiglia, mare
di ferragosto, o d’inverno le favole.

.

Ma un missile, cosa può pensare un missile,
un solo missile della finanza?

Non si combatte un sistema già avviato,
va solo ulteriormente svuotato di finalità.

Segatura e ukulele. Il resto si potrà fare
grazie a nuova programmazione.

.

Per questo la ditta NOE propone svariate
soluzioni.

Ottieni subito il tuo programma personalizzato
per sconfiggere il capitalismo.

Proteggi i tuoi cari.

(may – set 2019)

Giorgio Linguaglossa

Straordinaria composizione perché è un esempio di quello che dice Derrida quando afferma che bisogna ritrarsi dal linguaggio, e, aggiunto io, bisogna ritrarsi anche dall’io e dalle sue adiacenze. Lucio Mayoor Tosi è riuscito in questa impresa assai disperata, e gliene va dato atto, infatti, lo scrive lui stesso: «la ditta NOE propone svariate/ soluzioni», vale a dire che tutte le soluzioni sono equipollenti e interscambiabili, proprio come avviene nella meccanica quantistica. Se Dada cercava in via unilaterale il non-senso, Lucio l’ha trovato, l’ha incontrato lungo la strada, senza volerlo, senza crederci, con la differenza, rispetto a Dada che in lui non c’è nessuna volontà di potenza in gioco, anzi, c’è la non-volontà di non-potenza. Lucio scava in direzione di un linguaggio che non è né linguaggio né meta linguaggio, un linguaggio verosimile e vetro simile, lui si prende gioco di qualsiasi compostezza e di qualsiasi seriosità e di qualsiasi posizione ironica o sardonica o sarcastica perché ritiene queste posizioni conformistiche e già telefonate dalla «programmazione» del capitalismo, che la comunicazione pone in atto. E lo dice a chiare lettere:

Non si combatte un sistema già avviato,
va solo ulteriormente svuotato di finalità.

 

Giuseppe Talìa

Eccola qui, questa sì che mi piace. Sembra un annuncio pubblicitario che svela le carte del prodotto farlocco che vorrebbe vendere.

 

                                                            Lucio Mayoor Tosi

Il nulla è pieno essere, ed è alternativo all’essere parziale condizionato dall’esserci in quanto persona, ego e conseguenti implicazioni esistenziali e psichiche. Quindi sono pienamente d’accordo con Giorgio Linguaglossa,
quando scrive:

“La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica”.

Il nulla è pieno ascolto e silente attenzione – attenzione: è il nostro vedere interiore; in senso heideggeriano è componente della “cura” – .
Per il nulla, tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Se ogni cosa è bella e perfetta, in quanto naturale e in quanto ogni cosa “è”, per contrasto ne deriva chiarezza sul vivere naturale e innaturale. E qui troviamo l’angoscia, che giustamente Heidegger segnala come avvertimento dell’essere al cospetto del nulla, e prova filosofica della sua essenza.

Nulla pensiero, nulla desiderio, nulla speranza. Sono queste alcune tra le proprietà esistentive del nulla esserci. Ma queste sono anche qualità del pieno ascolto, e della piena partecipazione, quindi dell’esserci.
La contraddizione è solo apparente: si suppone infatti che vi sia la possibilità di un esserci nel nulla; le cui modalità, e l’efficacia, sono ampiamente dimostrate, in primo luogo dalle numerose pratiche ascetiche appartenenti alla religiosità orientale, particolarmente nel buddismo e nell’induismo. Si parla qui di ascetismo senza finalità ultraterrene, che ha valenze tout court di esercizio-per.

Infatti Giorgio parla di “meditazione poetica”. Che qui può essere intesa come pratica, o tecnica, per esperire il nulla: la sua pienezza, l’indifferenziabile perfezione. Momentaneo esserci nell’essere. In questo spazio collocherei la meditazione poetica. Il pieno e perenne conseguimento dello stato di ascolto, l’esserci costante dell’essere, per la religiosità orientale appartiene alla natura umana, a patto che si sia ben vista, vissuta e quindi superata l’angoscia di vivere; perché oltre l’angoscia si ha piena partecipazione a tutto ciò che è. Tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Ivi compreso l’uragano Florence.

Matteo Pietropaoli

«La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica. L’esserci umano può rapportarsi nei confronti dell’ente solo se si tiene immerso nel niente. L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica stessa. Ciò implica: la metafisica appartiene alla “natura dell’uomo”. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadere fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondamento privo di fondo, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell’errore più radicale. Perciò nessun rigore d’una scienza raggiunge la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell’idea della scienza».3
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La Grundstimmung della nuova poesia, La nuova ontologia estetica, Poesie di Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Riflessioni sul nulla di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Antology How the Troja war ended I don't remember
[È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan war Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura di Roma, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.]

Marina Petrillo

Esiste un’attitudine al Vuoto… Inebriato istante cancellato in spazio a-dimensionale, geometria sacra. Parrebbe avanzare ciò che indistintamente non lascia traccia. Ma, l’addensarsi plastica di un tempo consapevole, abita forse quel Vuoto. Ne è dinamica costante, come fosse non variabile l’umano approcciarsi al cammino evolutivo se non per quella esperienza unica, imprescindibile che è il vivere. Sottratti ad essa, vaghiamo in una interlinea assente, posta in ombra da incombente abisso. In un ‘nulla’ divagato a metamorfosi continua, incessante. Battito del cuore, metronomo in universo dilatato pur se indicibile. Per quale profilo avanzi il Tutto in assenza di sé, non è dato comprendere se non per brevi intuizioni. Sprazzi celesti in accordo all’ottava superiore. Scesi agli inferi, procediamo a tentoni, ciechi vati, Tyresia nell’ambiguità del sesso.

Appartiene al passaggio, l’Essere, in quel vuoto relativo poiché l’Assoluto richiede altra forma e il limite posto è contagio di infinito.

[Per lei, carissimo Lucio Mayoor Tosi]

Visse in maestria difforme
del non diviso Logos ancella.

Memoria del fu, il Nulla,
ad incarnare il possibile umano.

Sospeso inverno o primavera dello Spirito.

In dolci acque, ad ogni tocco, sulla superficie
un brillare di infrante stelle.

Non vento,  solo alito di vita
immerso in silenzioso spazio.

Il contatto in telepatia fuggevole al respiro umano.
Il viaggio è nel ritorno, in quell’indugiante sorriso di eternità.

Giorgio Linguaglossa

Questo è un punto cruciale della indagine sulla Nuova Poesia.

Vorrei sapere (domando) se anche gli autori e gli interlocutori della nuova ontologia estetica condividono questo punto cruciale: se anch’essi percepiscono il nulla (Nichts) come una sorta di tonalità di fondo (Grundstimmung) del mondo dell’uomo, cioè dell’esistenza, e come uno stato emotivo ineliminabile della Nuova Poesia. Il “nulla” ( Nichts) sarebbe il vero motore nascosto della nuova poesia.

Se leggiamo la prima strofa di questa poesia di Marie Laure Colasson, ci troviamo di fronte ad una serie di sentenze stenografiche che non hanno alcun rapporto tra di esse, ma che, tutte assieme costituiscono una «questità di cose» che conformano una Grundstimmung, una tonalità emotiva di fondo. Ed è appunto questa la procedura della nuova poesia, della nuova ontologia estetica.

Marie Laure Colasson
(trad. di Edith Dzieduszycka)

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres

“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour

Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………

L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane

Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d ‘ enfants “

Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet

Miss vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable

*

Rullo di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte scavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

Francesco Paolo Intini

SINCROTRONE

Le grandi macchine conoscono il nulla.
Suggeriscono di guardare nei cassonetti.

Dove un occhio mescola una gamba c’è anche un orizzonte.
L’aspirina scaduta sa di Euclide marcio.

Conosce la fionda che rovina David.
La lussuria ha sapore di latte e sprofonda le mammelle.

Venere sussurra nel broncio di Bukowski.
Scoppiano i semi del non sapere.

Nel parlarsi inverso degli atomi la cristalleria del senso.
Insegnano ai neuroni la mortalità dell’anima.

Spalla a spalla la fatica dei quark. Ebola gioca con l’agnello.
Ma l’Eden appende nelle strade un editto di Ferdinando e Carolina.

La non forma cospira nel nido d’ape
McCarty ha la meglio sugli elettroni del ferro.

C’è un niente da portarsi dietro. Cancro all’esagono..
Un carico di mitra per combattere i pulcini di vespa.

Salire il castagno, immergersi nel nettare
Convincere Robespierre all’ineguaglianza.

McCarty succhia sangue di farfalle.
Il sincrotrone sibila triangolo e piramide.

Impara a dire SI dai NO che fermentano Aprile
Uccide con occhio giacobino la libellula.

Nascerà il Logos da uno spigolo.
Un’ incertezza nel calcolo genera guasti di Tempo.

Marx-Engels sa di lettere ogni volta che si aspetta
un infinitesimo di Tutto accelerare il Nulla.

Lucio Mayoor Tosi

Il nulla è pieno essere, ed è alternativo all’essere parziale condizionato dall’esserci in quanto persona, ego e conseguenti implicazioni esistenziali e psichiche. Quindi sono pienamente d’accordo con Giorgio Linguaglossa, quando scrive:

“La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica”.

Il nulla è pieno ascolto e silente attenzione – attenzione: è il nostro vedere interiore; in senso heideggeriano è componente della “cura”.

Per il nulla, tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Se ogni cosa è bella e perfetta, in quanto naturale e in quanto ogni cosa “è”, per contrasto ne deriva chiarezza sul vivere naturale e innaturale. E qui troviamo l’angoscia, che giustamente Heidegger segnala come avvertimento dell’essere al cospetto del nulla, e prova filosofica della sua essenza.

Nulla pensiero, nulla desiderio, nulla speranza. Sono queste alcune tra le proprietà esistentive del nulla esserci. Ma queste sono anche qualità del pieno ascolto, e della piena partecipazione, quindi dell’esserci.
La contraddizione è solo apparente: si suppone infatti che vi sia la possibilità di un esserci nel nulla; le cui modalità, e l’efficacia, sono ampiamente dimostrate, in primo luogo dalle numerose pratiche ascetiche appartenenti alla religiosità orientale, particolarmente nel buddismo e nell’induismo. Si parla qui di ascetismo senza finalità ultraterrene, che ha valenze tout court di esercizio-per.

Infatti Giorgio parla di “meditazione poetica”. Che qui può essere intesa come pratica, o tecnica, per esperire il nulla: la sua pienezza, l’indifferenziabile perfezione. Momentaneo esserci nell’essere. In questo spazio collocherei la meditazione poetica. Il pieno e perenne conseguimento dello stato di ascolto, l’esserci costante dell’essere, per la religiosità orientale appartiene alla natura umana, a patto che si sia ben vista, vissuta e quindi superata l’angoscia di vivere; perché oltre l’angoscia si ha piena partecipazione a tutto ciò che è. Tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Ivi compreso l’uragano Florence.

Giorgio Linguaglossa

(E, del resto, sapete: sono convinto che noi del sottosuolo bisogna tenerci a freno. Siamo magari capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant’anni, ma se una volta usciamo alla luce, e ci apriamo un passaggio, allora si parla, si parla, si parla…)
Fëdor M. Dostoevski

Se prendiamo, ad esempio, una poesia della nuova ontologia estetica, ci troviamo davanti al tentativo di forzare al massimo grado le porte del «dicibile» per sondare la dimensione dell’«indicibile». Se avete la bontà e la pazienza ad esempio di leggere una mia poesia, «Il bacio è la tomba di Dio», già dalle prime righe siamo proiettati in una situazione ultronea: una «Torre» immersa nella neve (l’immagine mi è stata suggerita dalla fotografia di Evgenia Arbugaeva); la torre reca una scrittura sopra la porta d’ingresso, misteriosa e terrifica. Quella scritta è la chiave di violino che apre una partitura: si apre una dimensione ultronea nella quale il lettore abita una «questità di cose» poste da un punto di vista inusuale ma non impossibile, una situazione-questità che chiunque di noi avrebbe potuto esperire nella propria esistenza.

«La nuova questità delle cose» per essere nominata richiede un nuovo linguaggio poetico. I continui salti spazio-temporali, l’apparizione in presenza di personaggi storici (Wagner, List) o inventati, le voci esterne e le voci interne che confliggono, insomma, tutta l’architettura complessiva delle voci che intervengono nel testo, tutte queste «cose» formano una «questità di cose», ci dicono che siamo in presenza di una situazione «indicibile» che richiede un modo di dire dell’«indicibile». E allora, il primo pensiero è stato pensare una poesia che ponesse una «situazione delle cose», che potesse essere detta tramite un quid di «indicibile» non presente nella tradizione della poesia italiana del novecento. E allora occorreva andarsi a costruire una nuova ontologia estetica che creasse un nuovo utilizzo della sintassi e della grammatica, un diverso impiego della iconologia.

Voglio dire che una tale «questità di cose» come quella esposta nella poesia della nuova ontologia estetica non sarebbe stata possibile mediante il linguaggio referenziale che va di moda oggi in poesia, dei Marcoaldi-Magrelli-Cucchi, sarebbe occorso un ben altro concetto ed impiego del linguaggio poetico: pensare il linguaggio poetico come portatore di una entità di significazione «indicibile», in grado di illuminare, appunto, il lato in ombra delle cose.

Era necessario fare un passo indietro rispetto ai linguaggi referenziali, in quanto la nominazione poetica si dà soltanto nella forma del congedo, del ritrarsi dalla soglia della significazione e delle cose; nel congedo è implicito il saluto; il salutare le cose nel loro esserci e nel loro esserci state, per noi, è un atto massimamente umano, implica il riconoscere la profondissima umanità delle cose, la quiete delle cose, il loro silenzio, il loro essere lì per servire l’uomo, non per essere asservite dall’uomo.

Se riflettiamo un momento sull’«indicibile» (concetto sul quale viene costruita la poesia della nuova ontologia estetica), ci rendiamo conto che è proprio la necessità di indicare-accennare-alludere all’«indicibile», cioè al lato in ombra del linguaggio, al lato in ombra delle cose, a rendere necessario un diverso modo di intendere ed impiegare il linguaggio poetico.

La nuova poesia ci svela la nuova mondità del mondo.

Finirei col dire, parafrasando Giorgio Agamben, che «non il dicibile ma l’indicibile costituisce il problema con cui la poesia deve ogni volta tornare a misurarsi».

 

 

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Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci, di Giorgio Linguaglossa, Trittico di Giorgio Stella,  Andrea Brocchieri, La desistenza dell’esserci

Botticelli polittico

Giorgio Linguaglossa

Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci

C’è nella nuova ontologia estetica quello che possiamo indicare come una intensa possibilizzazione del molteplice.

Che cosa voglio dire con ciò? Nella nuova poesia ci sono indicate delle cose che possono avvenire, che potrebbero avvenire, o che forse sono avvenute. Mi spiego meglio. Se prendiamo La ragazza Carla di Pagliarani (1960) o anche Laborintus (1956) di Sanguineti, lì vengono trattate (rappresentate) delle cose che realmente esistono, l’impianto ideologico è ancora e sempre quello del realismo; se prendiamo un brano de I quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, lì si tratta di un tema ben preciso: la morte del fratello «aldo» e della conseguente j’accuse del «sistema Italia» che lo ha determinato al suicidio. Anche qui l’impianto ideologico è ancora e sempre quello del realismo, cioè mimetico. Voglio dire che tutta la poesia del novecento italiano, come quella di questi postremi anni post-veritativi, rientra nel modello del «verosimile». Ebbene, questo «modello» nella NOE viene castigato e rottamato, viene messo in sordina, la distinzione tra verosimile e non-verosimile cade inesorabilmente, ed entrano in gioco il possibile e l’inverosimile; si scopre che l’inverosimile è della stessa stoffa del possibile-verosimile.

Questa possibilizzazione del molteplice è la diretta conseguenza di una intensa problematizzazione delle forme estetiche portata avanti dalla «nuova ontologia estetica», prodotto dell’aggravarsi della crisi delle forme estetiche tardo novecentesche che ha creato una fortissima controspinta in direzione di un nuovo modello-poesia non più ancorato e immobilizzato ad un concetto di eternità e stabilità del «modello del verosimile».

Il concetto di «verosimile» della poesia lirica e anti lirica che dir si voglia di questi ultimi decenni poggiava sulla stabilità ed eternità del soggetto che legiferava in chiave elegiaca o antielegiaca, che poi è la stessa cosa…

In Essere e tempo, l’indagine sul nulla (Nichts) apre l’ente alla possibilità che nulla sia, che l’ente sia un nulla; l’incontro con l’esserci apre l’ente alla “dischiusura” (Entschlossenheit) del “mondo”, infatti, il mondo è il regno della possibilità – e non dell’istinto e dell’abitudine, come per gli animali i quali esistono nella «chiusura» del mondo animale.

Ma come l’uomo non sceglie il suo essere mortale, e piuttosto è consegnato a tale condizione, così l’uomo esiste «gettato», «immerso» nel nulla.

Infatti, non è un caso che la nuova poesia ontologica sorga nel momento della massima problematizzazione delle questioni estetiche e della intensificazione della problematicità dell’arte proprio nel momento della massima crisi della democrazia neo-liberale, anzi è la risposta della forma-poesia alla crisi del modello maggioritario fondato riflessivamente sulla presunta stabilità dell’io, su un io posto e presupposto in modo fattizio e acritico.

La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica. L’incontro (Ereignis) del nulla con l’esserci, produce il nuovo discorso poetico. Siamo qui all’interno di una particolarissima e modernissima sensibilità verso la parola e la parola poetica, quella parola che scocca dall’incontro tra il nulla e l’esserci. All’interno di quella particolarissima percezione del discorso poetico inteso come il discorso della nullificazione dell’esserci.

Trittico di Giorgio Stella                 

                                   McMarx                                                      

I

E poi diceva che quella fabbrica d’ali era fallita per i troppi scioperi
Che era sottile la lama sulla testa già calva

Ma impossibile stabilire una nozione temporale a quella scissione
La processione della vena di cardo la riabilitazione all’addizione

[…]

Una nenia per via pasticche come coriandoli insetti chiamati babbuini dai deficienti
E il taglio di prosciutto per favore fino al midollo dell’osso 

La figlia del cocchiere nuoce al cervello in controluce di fede
E quando dopo aver pulito le case dei padroni per arrotondare

[…]

Va a pulire i cessi dei poveri tra i bocchini africani della versione turca della Stazione Termini

Che volano i cocci delle birre rotte tra froci e il 24/H è il paesaggio del 12 notturno

Poi lo sapeva quando scolpiva la pietra anzi sciacallaggio di rose finte

Che accanto al nome e alla croce c’era la grande M gialla della McDonald’s la foto ovvio d’identità

[…]

II

Al b/1 era la stessa cosa la colazione brodo di gallina servita in piatti di plastica piani per pasta

E chi serviva il re serve pure la regina quelle sbarre modelle le sigarette contate

Tutto questo per aversi tirato le radici dalle fiamme delle vene e viceversa
La terapia servita in colonna corsara di bandiera battente SIDA

[…]

E lui scopava ugualmente scettri mirra di firmamenti monumenti in contenzione

I giorni dilatati dai sieri nessun ricevimento il bar interno gli ricordava il primo tempo 

Dei vecchi cinema dove madamadorè vendeva pop-corne e minilgelati e ventagli

Senza aria condizionata in pieno agosto Vallejo ci diceva che esiste l’uomo a vita di un giorno di galera e la galera della vita per un giorno

[…]

Ma il tacco era troppo alto lo sapeva che aveva il cazzo ma era [troppo] ubriaco ‘fedele alla linea!’

Un pompino in fondo è come un rospo salta dal trampolino lo sborro è biforcuto

E dalla scheda della clinica ci informa la luce elettrica abbassata

Che la luce eterna ci veglierà tutta la notte se porco dio la bibbia è stata persa

[…]

Dalla sottratta sferica a dorso del muro la poesia che scriveva in culo al cardo del buco del cazzo

[…]

III

Le medagliette le vende sugli scalini dei grandi Hotel e lui sul cantiere
Tirava la fiocina al ficco del tordo il tiro montato dal ponteggio di CRISTO 

E rotea betoniera facci capire quanto valga la sete della tanica comune
Quante bottiglie appese ai granelli dei deserti coltivati a falco di luce

[…]

Quel tozzo di pane del [pane] del padrone mentre Riccetto non abita più qua
Lei passa ti riconosce dalla maschera imburrata di pannocchia lattina Berlino est

Ma stira la stampella è già girata tu colpisci la mira ella è viva
Sulla porta accanto della frode di Pasqua marina era ridotta in fiore l’assenza

[…]

Puttica del puttanesimo cacato in grembo al ginocchio amputato di Rimbaud

Inginocchiato al ginocchio tumorale di Verlaine e tamburo muto caccia testicolo di medusa

Che il cancro che brucia la vista possa vedere questa corrida!

[…]

La desistenza dell’essere

Rilettura di

Che cos’è metafisica? [Was ist Metaphysic?] e Sull’essenza della verità di Heidegger. [Vom Wesen der Wahrheit ], conferenza tenuta più volte nell’autunno-inverno 1930 e nel 1932, pubblicata non senza una revisione del testo nel 1943 e poi nel 1949 con un’aggiunta.

Andrea Brocchieri
(dicembre 2007)

Scrive Heidegger:

“Che cos’è il nulla?”

sembra una domanda impossibile perché il niente (non-ente) è come tale inoggettivabile; la domanda è di per sé contraddittoria: “che ente è il non-ente?”

«Rispetto al nulla domanda e risposta sono ugualmente un controsenso. […] La regola fondamentale del pensiero, cui comunemente ci si richiama, ossia il principio di non contraddizione, la “logica” in generale, sopprime la questione, perché il pensiero, che è essenzialmente sempre pensiero di qualcosa, qui, come pensiero del nulla, dovrebbe agire contro la propria essenza. Poiché in questa maniera ci è impedito in generale di fare del nulla un oggetto, siamo già arrivati alla fine del nostro domandare sul nulla sulla base del presupposto che in tale questione la “logica” rappresenti l’istanza suprema, l’intelletto il mezzo, il pensiero la via per cogliere originariamente il nulla e decidere se è possibile scoprirne qualcosa».16

Se s’intende il nulla come “non-ente”, si determina il nulla a partire dall’ente tramite una semplice negazione; il nulla non risulta così come un contenuto positivo del pensiero (un concetto reale) ma è solo la negazione di esso (uno pseudo-concetto, come notava Carnap). Dunque non potrebbe essere che la presunta contraddittorietà e inconsistenza della domanda derivi proprio dal fatto che il concetto di nulla è stato costruito sul piano logico via negationis?17

E se invece ogni negazione fosse possibile proprio in quanto “si dà” (es gibt) il nulla? −
Questa è la tesi che qui Heidegger anticipa e che dovrà poi dimostrare: «Il nulla è più originario del non e della negazione».18

Se dunque, sulla base di queste supposizioni, si volesse procedere nell’interrogare il nulla, bisognerebbe che esso fosse effettivamente dato nell’esperienza; e se il nulla fosse comunque in qualche modo la negazione della totalità dell’ente, se cioè ci fosse dato come il risultato di tale negazione, occorrerebbe che preliminarmente ci fosse data la totalità dell’ente. Ma questo com’è possibile, visto che siamo “esseri finiti”?19

Tuttavia «noi ci troviamo posti nel mezzo dell’ente che in qualche modo è svelato nella sua totalità» − in quale modo? Per es. ciò avviene nella “noia profonda” oppure «nella gioia che nasce in presenza dell’esistenza (Dasein) − e non della mera persona − di un essere amato». In tale “trovarsi” ci sentiamo insieme alla totalità dell’ente (tutto è noia, tutto è gioia) ma proprio per questo il nulla lì non emerge.20

Solo l’angoscia − intesa come l’emergere della “tonalità di fondo” dell’esistenza (Grundstimmung) e da non confondere né con l’ansietà né con la paura − ci svela il nulla stesso; la paura o l’ansietà sono riferibili a un che di determinato, l’angoscia invece è “spaesamento” (Unheimlichkeit), uno sprofondare di tutto (noi compresi) nella precarietà:

«Nell’angoscia, noi diciamo, “uno è spaesato”. Ma dinanzi a che cosa c’è lo spaesamento? e che significa quel “uno”? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi sprofondiamo in una sorta d’indifferenza [Gleichgültigkeit]. Ma non nel senso che le cose spariscano, bensì nel senso che proprio nel loro allontanarsi le cose si rivolgono a noi. È questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità che nell’angoscia ci accerchia, ci angustia. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente rimane soltanto e incombe su di noi questo “nessun”.

L’angoscia rivela il nulla. Noi siamo “sospesi” nell’angoscia. O meglio, è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità. Ciò comporta che noi stessi, questi esseri umani che siamo, in mezzo all’ente come siamo, ci sentiamo dileguare con esso. Per questo, in fondo, non “tu” o “io” ci sentiamo spaesati, ma “uno” si sente spaesato. Resta solo il puro esserCi che, attraversato dal turbamento di questo essere sospeso, non può tenersi [halten] a nulla».21

Tutto rimane “rivolto a noi” ma allontanandosi, in modo da non offrire più sostegno (Halt): l’angoscia ci lascia sospesi al niente e così ci rivela il nulla. Si deve notare che qui siamo in uno snodo decisivo dello sviluppo della ricerca, cioè nel punto in cui Heidegger sta oltrepassando l’obiezione per cui l’idea del nulla sarebbe uno pseudo-concetto in quanto mancherebbe di base “empirica”. Certo qui non viene esibita un’evidenza “sperimentale” ma una descrizione fenomenologica. Il che non significa che venga offerta un’evidenza minore, anzi al contrario. Infatti, dal punto di vista fenomenologico, è l’indagine fenomenologica a porre le basi per lo sperimentalismo scientifico e non viceversa.22

A questo punto, attestata la consistenza fenomenologica del “nulla”, Heidegger può riconfermare la sensatezza della domanda: “Wie steht es um das Nichts?”. La risposta alla domanda sul nulla.

Heidegger riprende l’indagine dal risultato fenomenologicamente raggiunto sinora: «Il nulla si svela nell’angoscia, ma non come ente, e tanto meno come oggetto. L’angoscia non è un cogliere il nulla. Tuttavia il nulla si manifesta in essa e attraverso di essa benché, daccapo, non nel senso che il nulla appaia separatamente “accanto” all’ente nella sua totalità, quale si presenta nella spaesatezza. Dicevamo invece: nell’angoscia il nulla viene incontro insieme [in eins mit] all’ente nella sua totalità».23

Il nulla non “annienta” l’ente (al posto dell’ente non c’è più niente), né siamo noi a negare l’ente per “guadagnare” alla fine il nulla (per elisione dell’ente). Su questo punto possiamo sottolineare la differenza tra la futura concezione sartriana del nulla e quella che qui viene formulata: per Heidegger il nulla non può essere un prodotto della libertà dell’uomo perché nell’angoscia noi stessi sprofondiamo assieme a tutto l’ente. Nell’angoscia l’ente nella sua totalità diventa hinfällig (“caduco”, vacillante, precario). 24

Note

16 M. Heidegger, Che cos’è metafisica? [Was ist Metaphysic?] p. 49
17 Ivi, p. 44 (107-108). Il concetto di “nulla” è uno pseudo-concetto se è costruito via negationis , cioè negando l’ente nella sua totalità. Si tratta di uno pseudo-concetto (come protestava Carnap) perché la totalità dell’ente non è mai empiricamente data e la sua negazione è un’operazione meramente intellettuale (o di fantasia). Un esempio di ripetizione acritica delle obiezioni di Carnap, per giunta strumentalizzate per propalare una forma di spiritualismo cattolico si trova nel recente libretto di Roberta DE MONTICELLI, Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Bollati Boringhieri 2006, pp. 45-85. Contro la tesi apologetica della De Monticelli si può però osservare che anche l’idea di Dio della “teologia negativa” è raggiunta via negationis – dunque tale idea di Dio rischia di valere tanto quanto uno pseudo-concetto.
18 Che cos’è metafisica?, pp. 44-45 (108).
19 Ivi, pp. 45-47 (109-110); cfr. anche il § 46 di Essere e tempo.
20 Ivi, pp. 48-49 (110-111). Sulla “noia profonda” cfr. il corso
Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit
[1929-30], GA 29-30, a c. di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, 1983 (tr. it. di Paola Ludovica Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il melangolo, Genova 1992); utile sarebbe un confronto fra questo tema heideggeriano e la “nausea” sartriana.
21 Che cos’è metafisica? , ed. cit., pp. 50-51 (111-112).
22 La fenomenologia poi non è ovviamente un “punto di vista” qualsiasi ma un’impostazione metodologica che ci si dovrebbe impegnare a smontare prima di criticarne i risultati.
23 Che cos’è metafisica?, pp. 52-53 (113).
24 Ivi, pp. 53 (113-114). In Heidegger l’impostazione fenomenologica si congiunge con una speciale sensibilità per le parole della lingua che usa, per cui ne deriva la capacità di esperire in maniera rinnovata ciò che la tradizione gli ha consegnato sotto forma di concetti ormai astratti (e questo era uno dei tratti che rendevano “magico” l’insegnamento di Heidegger per i suoi giovani studenti degli anni ’20, ai quali sembrava che lì la filosofia ridiventasse viva). In questo passo occorre saper scorgere nella “Hinfälligkeit” (caducità) dell’ente l’esperienza fenomenica della tradizionale e astratta “contingenza” (Zufälligkeit)

https://www.academia.edu/5305113/La_desistenza_dellessere_Che_cos%C3%A8_metafisica_e_Sullessenza_della_verit%C3%A0_di_Heidegger?email_work_card=view-paper

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Francesca Brencio, Il confine del silenzio, Estetica e Ontologia. Poesie di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Talia, La poesia che si può scrivere oggi dopo la Fine della Metafisica

Gif Pagliaccio

Fellini, fotogramma di film

Francesca Brencio

IL CONFINE DEL SILENZIO
ESTETICA E ONTOLOGIA NEL “POETICO” PENSARE DI MARTIN HEIDEGGER

Il linguaggio del poeta non è solo il linguaggio della parola; esso è anche il linguaggio dell’immagine, è un linguaggio cioè fatto di immagini che permette di “lasciar vedere qualcosa”. L’immagine “lascia vedere l’invisibile, lo configura in un materiale che […] ne salvaguarda l’estraneità ossia la trascendenza”. Il poeta parla per immagini, “a fronte del cielo e a partire dal cielo, egli prende la misura della terra, l’orienta, ne orienta la vita su di essa e fa questo “misteriosamente attraverso quei segnavia che sono i Bilder”40. Attraverso questa operazione non si ha una sdivinizzazione del Sacro, ma anzi esso viene recuperato sottraendosi “all’obiettivazione e alla reificazione nel momento stesso in cui si consegna senza riserve alla cosa”. Preservare, conservare e custodire il divino e la dimensione del Sacro dall’esautorazione della metafisica e della teologia cattolica è l’ultima promessa che la poesia può mantenere. Il linguaggio poetico è“polisenso […]

La polifonia del poema […]

proviene da un punto unificante, cioè da una monodia, che in sé e per sé, resta sempre indicibile. La molteplicità dei significati propria di questo dire poetico non è l’imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere”.
Nel suo essenziale accennare, la parola poetica rinvia all’ulteriorità che la metafisica non ha saputo cogliere della domanda sull’essere: “La poesia è istituzione in parola [worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”. Come suggerisce Gianni Vattimo, “quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”.

La poesia e, più in generale, il “poetico” pensare di Heidegger vogliono rimanere fedeli alla differenza, evidenziando la reciproca appartenenza del differente al pensiero della differenza, la quale è stata cancellata dalla metafisica nei termini di oblio dell’essere e di oblio della differenza:

“La stessa traccia primitiva della differenza è cancellata perché l’essere-presente appare come un essere presente la cui origine è riposta in un essente-presente-supremo”.

La differenza ontologica si configura all’interno della Seinsfrage heideggeriana come l’autentico discrimen che permette l’emancipazione del pensiero filosofico dall’impasse della metafisica tradizionale, cioè dalla riduzione dell’essere ad ente operata dal pensare rappresentativo “ego fondato” e la sua conseguente interpretazione come ente semplicemente presente. La differenza ontologica rimarca la necessità del procedere heideggeriano verso una comprensione dell’essere che sia libera dal retaggio metafisico e dalla rappresentazione tradizionale del soggetto, quale è stata compiuta da Descartes ad Hegel. L’oblio della differenza quale giunge a noi dalla metafisica è iscritto nella storia dell’essere: è essenziale per la metafisica occidentale, nel senso di iscritto nella propria essenza, non pensare la differenza, dimenticarla. Solo così essa può giungere al punto estremo del suo compimento, esautorandosi dall’interno, in quanto in essa si consumano tutte le figure che mostrano l’essere e le sue epoche: l’apparire, il ricordo, l’oblio, l’oblio dell’oblio. Il “poetico” pensare permette l’accesso diretto ed autentico alla differenza: “E’ l’originario che, nella sua differenza dall’ente semplicemente – presente nel mondo, costituisce l’orizzonte del mondo, lo be-stimmt, lo determina, lo intona, lo delimita e squadra nelle sue dimensioni costitutive”. In tale accesso, si realizza la parola poetica inaugurale, quale può scaturire solo dal silenzio.
[…]
“La poesia è istituzione in parola [worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”43. Come suggerisce Gianni Vattimo, “quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”44

https://www.academia.edu/8564952/IL_CONFINE_DEL_SILENZIO._ESTETICA_E_ONTOLOGIA_NEL_POETICO_PENSARE_DI_MARTIN_HEIDEGGER

40 S. GIVONE, Heidegger e la questione romantica, in “Aut-Aut”, n°. 234, 1989, p. 53.
43 M. HEIDEGGER, La poesia di Hölderlin, cit., p. 50.
44 G. VATTIMO, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in AA. VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, p. 293

Gif Fellini 1

Fellini, fotogramma di film

Francesco Paolo Intini

D’ESTATE

[Sogno sul Ticino]

Scrittura su massa d’impotenza.
Dominano formiche.

Scudiscio di protoni contro tigre.
Faust chiama Mefistofele per una metastasi.

Sogno sul Ticino.

Tuttavia la “Questio” rimane:
nascerà tecnologia da un verso?

[Il grande vecchio]

Roma si alza, incenerita.
Uncini verdi trafiggono i pini.

A tratti, lottando con l’autostrada-nascere è altro-
si affaccia il sole.

Uccelli col dorso argento dei gorilla
Svegliano il grande vecchio.

Sonnacchioso dubitare che la luce sia luce.
E dunque nessun Matteo è chiamato.

Ad agosto scenderà l’incantamento
Per addizione al non pensiero.

Sapore d’artato.
Una sofisticazione nel vino novello.

[Elea ]

Cubi di Essere salgono Elea.

Volontà di un Faraone.
Grumi di corteccia immortale.

Maria Carolina contro Eleonora Pimentel.
La dimenticanza non ce l’ha fatta.

Tra l’una e l’altra scorrono lazzari.
Figli, padri.

I campi ingrassano ogive di pomodoro.
Nessun appezzamento coltiva il pieno.

Arrivano in cima alla torre.
Parmenide guarda discreto la piramide.

La luce che scende una faccia
Risale perfetta da un’altra.

Stuprano, sgozzano, applaudono.
Ruffo assolve.

Ciò che chiudono nella geometria
è il Tempo.

Una sfera e nel cuore, a gusci concentrici,
proprio niente.

(…)

[Agosto]

Il colombo ha l’occhio obliquo dell’aereo atterrato sul campanile
Non c’è stato un muro da abbattere, un Giappone da piegare.

Enola Gay in fuga davanti ad una scia.
Gli ulivi in avvitamento nel terreno.

L’Altro è ritornato al suo posto con piedi uncinati.
Le gazze a caccia di colombini.

Alta tensione intorno al cranio.
Passano crociati.

Il campo visivo si allarga ai parrocchetti.
Raggi gamma nei pini.

Mettono curve dove c’erano triangoli. Trincee di bouganville attorno ai nidi.
La sostituzione del nero ai pieni di rosso nelle vie di Stalingrado.

In termini di papavero appare un sottomarino affondato
Che alza il periscopio quando l’oceano si riassorbe.

La mancanza di idee è bilanciata dall’abbondanza di sputi.
L’arenaria s’ingrossa. Gru affogate nel tufo.

Bracci carichi, DNA operativo.
I palazzi galleggiano su schiume di piombo.

(…)

I raggi alfa delle librerie
entrano ed escono da mazzi di banconote.

Basta metterle in un bankomat
per rincorrere il branco.

Il frammento riprende a splendere sul totale.
combaciano raggi X e onde radio.

Dopo aver disposto su un vetrino la via lattea
si parla di attività sociale.

I neuroni strisciano sotto i piedi.
Strappi sull’asfalto corrispondono a ferite letali.

Una piega di gravità e dentro
un crepaccio di tempo. Farmaco retard.

(…)

Non ci sono frammenti negli scorrevoli delle banche
E nemmeno il gestore capisce il tutto o niente.

I sotterranei non comprendono il dubbio
Soltanto i debitori hanno chiara la mandata fondamentale.

I soldi volano in alto. Non si avvede
Che i colombi sono reduci dello spread.

(…)

L’ultimo a scomparire
è l’orizzonte.

Da questa parte continua il gioco
di biglie tra le onde.

Sul biliardo i secoli rincorrono i secoli
li colpiscono e sbattono sulle sponde.

Oscure creature entrano ed escono dalla rena.
Montano tubi, scene.

Del tutto uguali al primo game.
Tocchi di Michelangelo sull’intonaco rosso.

Arriva inaspettata la notizia di una vincita record.
Prima o poi.

Il sole sorge da Gibilterra
E l’Io, tra le stelle è la Polare.

Lucio Mayoor Tosi

Sia come sia, se queste di Franco Intini abbiano o no la qualità di essere concettuali. A me sembra che sia tanto l’annegamento – l’acqua inquinata che (ci) attraversa – , dove ogni cosa è lasciata scorrere.
Fredda esposizione, ma di ogni sorta di fantasticherie; a tratti con sentita partecipazione visiva, come:

Da questa parte continua il gioco
di biglie tra le onde.

Sul biliardo i secoli rincorrono i secoli
li colpiscono e sbattono sulle sponde.

Versi che perforano le pareti di una sala giochi, dove “Oscure creature”… Abbracciare frantumi di realtà; parole come palline impazzite, ognuna con all’interno una sorpresa. E’ come un pesciolino che si dibatte, la nuova poesia.

Linguaggio, più che raffreddato, ibernato. Demandato ai posteri. Ma perché sono versi concettuali, che ogni tanto ancora vorrebbero dire. In questo senso, a mio modo di vedere, alcune metafore le volterei in diretti proclami. Vero è che la realtà è di per sé un tabù, ma si vorrebbe.

Grazie, Franco
anche per queste riflessioni su una poesia che sento autenticamente NOE. – Spero di non aver scritto troppe cavolate.

Antonioni 2

Antonioni, Fotogramma di film

Giorgio Linguaglossa

Faust chiama Mefistofele per una metastasi.

Questo verso di Francesco Paolo Intini lo sceglierei come titolo della sua prossima raccolta.
Dice bene Lucio Mayoor Tosi quando scrive «l’acqua inquinata che (ci) attraversa – , dove ogni cosa è lasciata scorrere.
Fredda esposizione, ma di ogni sorta di fantasticherie».

Nella poesia di Intini non c’è alcun pilota automatico, le parole affiorano da una profondità che non è profonda, dalla superficie che noi siamo già da sempre. Siamo esseri superficiari, che ci accomodiamo alla superficie e prendiamo dalla superficie ogni sorta di oggetti, e di parole, e le acconciamo secondo i nostri usi e consumi. E la poesia non può che rendere evidente, anzi, evidentissimo questa relittuosità superficiaria delle parole, il loro essere amebatico, parassitario… le parole vivono in modo parassitario nel nostro universo linguistico. E la poesia non può che tradirle, rendere manifesto questo loro essere parassitario, essere ameba. Sarebbe sciocco e presuntuoso cercare un senso in questi versi. Forse sarebbe più giusto eliminare la parola «senso» dal vocabolario di Intini. È che le parole sono scomparse.

Analogamente avviene per  i colori di Marie Laure Colasson, dove è evidente, guardando i suoi quadri, rilevare che i colori sono scomparsi, che quello che vediamo sono la rammemorazione di ciò che erano un tempo i colori, o meglio, non il ricordo ma la ricostruzione dei colori nella mente del la pittrice. Un tempo erano i colori che fondavano lo spazio, adesso, non lo fondano più ma lo sfondano, ne mostrano il carattere di sipario spento; lo spazio nelle sua pittura non è mai tridimensionale e nemmeno bidimensionale ma, direi, quadridimensionale, è lo spazio che resta quando scompare lo spazio e ne resta un ricordo brumoso, caliginoso, che sfuma via. È lo spazio della rammemorazione quando le cose sono già scomparse e ne restano le tracce, le ombre…

Intini a suo modo risponde alla grande domanda che avevo posto ai poeti qualche giorno fa:

Quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?

Ecco, direi che questa di Intini è la poesia che è possibile oggi scrivere dopo la fine della Metafisica. Come la pittura della Colasson ci dice che questo è un tipo di pittura che è ancora possibile dopo la fine della Metafisica.

Oggi ho scritto questi versi. Non saprei dire che cosa significhino:

Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.

Le parole non dette scavano la galleria del nostro destino.
Le parole bianche sono oscene, non meno delle nere.

La Dama Bianca e la Dama Nera sul Ponte di Rialto si scambiano il testimone:
la forbice, la clessidra e il dado.

Dall’oscuro canale sbucò un nano gobbo, sulla zucca cilindro rosso e nacchere,
sgambettò, cincischiò con lo spartito di Vivaldi,

fece un inchino, uno sberleffo, uno slalom attorno alla Dama Bianca
con la maschera nera sul volto,

farfugliò qualcosa di indistinto che al momento non afferrai,
poi prese sotto braccio il gattaccio del mago Woland

e scomparvero nella nebbia veneziana…

Ma penso che anche questi versi, scritti senza l’ausilio di alcun pilota automatico, siano la sola poesia che è possibile scrivere dopo la fine della Metafisica.
Il fatto è che l’uomo è «un animale metafisico» (dizione di Albert Caraco), e non può che riprodurre la metafisica anche dopo la fine della metafisica. È un meccanismo infernale che non può arrestarsi mai.
Ecco perché la «nuova poesia» assume a proprio tema centrale il perché della poesia, se abbia ancora un senso la poesia. Poiché la crisi è in poesia la poesia reagisce diventando meta poesia, ricusando la vecchia metafisica per una meta ontologia della metafisica del poetico in base alla assunzione che il poetico non è uno spazio separato dal non-poetico, quanto che esso sia la stessa meta ontologia che diventa indagine metafisica. La meta ontologia verte su ciò che è al di fuori della ontologia, fuori dell’ontico e, precisamente, sul niente che costituisce le cose, sulla nientificazione che sta all’origine di tutte le cose e dell’esistenza.
Non c’è altro da aggiungere.

Giuseppe Talìa

Per essere un buon Governante non devi amare lo Stato.
Per essere un virtuoso Papa non devi credere in Dio.
Per essere un bravo Poeta non devi bramare la Poesia.

Germanico, le fronde interne mugugnano, il malcontento
Serpeggia tra i Generali e i Tenenti giocano con le ossa rotte.

Solo gli assassini amano le vittime. Solo i ladri adorano Dio.
Solo i poetastri smaniano per la passione riluttante delle Muse.

 

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