18 risposte a “Risposta di Gino Rago alla triplice domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia? Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali? L’uomo post-metafisico secondo Gazmend Leka, Poesie di Ewa Lipska, Tomas Tranströmer, Maria Rosaria Madonna, Tadeusz Różewicz, Zbigniev Herbert

  1. retro di cover della Antologia n. 2 della Poetry kitchen

    Terza versione:

    La Poetry kitchen tratta della messa fuori-luogo delle parole, dei fonemi, dei monemi, dei reperti fossili e delle poliscritture usufritte; è questa la chiave per l’ermeneutica della poesia kitchen. Poesia-pop: pop-spot, pop-bitcoin, pop-jazz, pop-corn, pop-poesia, poesia da tram, poesia da bar dello spot, nuovissima, da gustare con un Campari soda e le rimerie del TG in mezzo ai rumori di fondo: intermezzi, nanalismi, vagologismi, banalismi, gargarismi, truismi, incipit, explicit, inserti pubblicitari, parole fidejussorie, usufritte. La Poetry kitchen è il Warhol della pop-poesia italiana. Il che non è poco. La pop-poesia che si gusta con le patatine fritte del Mc Donald’s e un caffè al ginseng la mattina, e la sera, prima di andare a dormire con una bustina di Maalox plus per le contrazioni allo stomaco. La Poetry kitchen è un anti-viaggio, anzi, un viaggio-sosta nella indeterminazione e indecidibilità delle parole: quelle raffreddate, ibernate, insaponate con cui siamo costretti a coabitare e con le quali ci troviamo a nostro agio, coinquilini forzati del banale e dei vagologismi. È il nuovo viaggio di Ulisse tra le parole precotte, didascaliche, usufritte, tra le parole della discarica, parole della fatticità alle quali non può richiedersi alcuna ermeneutica che non sia mera fatticità: specchi per le allodole, specchi di specchi, frammenti di specchi andati in frantumi, frantumi di frantumi. Poesia ipoveritativa, sub-minimal, ultronea, altranea, poesia-trash, poesia-spam, poesia-crac. La poesia ha fatto crac. Poesia dell’epoca del Collasso del Simbolico e della Catastrofe permanente.
    La «nuova poesia» scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate e delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli ibridi e raffreddati, dal senso chiaro e distinto dai quali però i significati sembrano essersi volatilizzati.
    Dinanzi ad una pop-poesia del genere ci sarebbe da allarmarsi se non fossimo già allarmati e desublimati da par nostro, tutti attenti al conto in banca e al Pil, tutti già soggiogati dal sortilegio del banale. Una antologia kitsch bene augurante perché tocca il fondo delle cose, e così conduce la banalità della soggettoalgia al suo epilogo. Una poesia epilogo, riepilogativa del nulla e del trash nel quale siamo immersi.

    La versione proposta da Lucio Tosi mi sembra un po’ minimal…

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    • La 3a versione del retro di cover della Antologia n. 2 della Poetry kitchen che Giorgio Linguaglossa propone mi sembra completa in tutti i suoi passaggi; di particolare interesse per la carica di pro-vocazione che esso contiene è questo passaggio, passaggio in cui la meditazione linguaglossiana ha il mio pieno consenso e nel quale io mi rispecchio totalmente, ossia: “La «nuova poesia» scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate e delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli ibridi e raffreddati, dal senso chiaro e distinto dai quali però i significati sembrano essersi volatilizzati.”

      Concordo pienamente con Giorgio Linguaglossa perché io credo che la nostra proposta di una nuova ontologia-poetry kitchen implichi la petizione di una nuova idea del tempo, dello spazio, della vita psichica, della vita erotica, dell’esistenza e della storia; implica, cioè, la petizione di una nuova esperienza del vivere e dell’agire, hic et nunc, nel tempo.

      La petizione della poetry-kitchen è, e dovrà continuare a essere, la petizione per “nuovi” cittadini e per “nuove” leggi, vale a dire che la poetry kitchen deve e dovrà avere la forza di essere la petizione per una “nuova” polis.

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  2. Risposta di Vincenzo Aveta

    Caro Giorgio,
    eccomi di nuovo a scrivere che non riesco a venire a Roma, il problema è se mai il ritorno la sera. Dà un po’ fastidio sia a Termini che a Napoli Centrale, la viabilità per tornare a casa è pessima. Aggiungo anche però che è un po’ di tempo che non sono per nulla incline a spostamenti, anche brevi. Passerà presto e comunque una mattina ti chiamo e vengo a Roma. Devo anche andare dagli amici di Progetto Cultura, è da tempo che sto rinviando ma devo farlo.

    E’ un periodo che mi stanco di scrivere che mi sembra inutile,quand’anche scrivessi cose bellissime e ineffabili mi chiedo a che serve, che sia superfluo, non so. Si continuo a scrivere ed a comporre, forse è solo che non riesco a scrivere ciò che vorrei e nel modo che vorrei. Talvolta lo attribuisco alle condizioni contingenti che reputo aberranti come per tante altre moltitudini però vivendo lavorando qui a Napoli Nord la vita quotidiana è una vera impresa.

    Leggo con la consueta attenzione l’Ombra e sempre più vi ritrovo una essenza comune, rileggo invariabilmente come fosse un dovere curativo, nel senso che Heiddeger da alla cura della mente. Ha la medesima importanza, e ovviamente di più, del nutrirsi quotidiano, o della igiene e della cura della vita in generale. Qualche giorno fa riflettevo sul Tuo Uccelli (1992). Più leggo e rileggo e più mi pare di scovare un cifrario segreto che ancora mi riesce arcano a disvelare…….e dopo tanti anni.. Resto pienamente convinto di quanto Tu scrivi alla domanda di Bettarini, sull’Ombra del 6 febbraio, ed il relativo commento a Cucchi, leggo anche il seguito di Simone Carunchio ed anche oltre le risposte di Intini e Temporelli.

    Si, la confusione è pressoché dilagante (mi pare di averne fatto cenno in qualche corrispondenza passata).
    Comprendo l’interrogativo posto ed anche la qualità che la risposta richiede. Si deve essere per forza «si,si o no,no». Una sorta di AUT AUT,insomma.

    Non so se ci è concesso di segnare o ritardare la lettura del poeta o della poesia che attendiamo, della parola nuova che ci porterà. Come se ancora non nati o ancora non apparsi. Magari son già qui entrambi e noi non abbiamo ancora strumenti adatti per la comprensione di un repertorio salvifico. Mi vendono in mente le “domande” di _Matteo l’evangelista, con la dovuta equidistanza per carità:

    Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?
    • Che cosa siete andati a contemplare nel deserto?

    Oppure quelle non meno dense che troviamo in Marco, Luca:

    • Voi chi dite ch’io sia ?

    Forse si approssima un tempo, una condizione di coscienza in cui… anche i morti morranno nuovamente, usando le parole di Sgalambro.
    E potremmo continuare tenendo presente che in fondo la parola, anche quella poetica, è il legante della comunità linguistica come Tu affermi, anche se credo che la parola poetica ha visto, o subìto, molte trasformazioni nel corso dei millenni, e non tutte generose, naturali od in qualche modo dovute. Sono d’accordo con te. Ma allora la poesia è la linfa vitale che scorre in tutto ciò che vive.
    «Comunità linguistica» è espressione di Husserl, egli cerca di definire il “primato dell’adesso” che può condurre alla definizione del “concetto” di verità e senso, qualsiasi valenza ad esso si possa attribuire.

    La “parola” annichilisce laddove ci focalizziamo sulla sua struttura fonetica e sensibile ma quando avanziamo verso la sua comprensione essa comunica il suo contenuto a prescindere dalla presenza o assenza di qualcuno. L’interiorità della espressione perciò non può coincidere con la sua funzione di manifestazione. E dunque abbiamo secondo il nostro filosofo la coscienza con se stesso dell’adesso attuale. (Se è così traducibile dal tedesco. Sic!).
    Ma c’è sempre il problema del «nulla». Esso consiste in uno speciale oggetto metafisico. Su cui è ancora da definirsi tutta l’ontologia. Oggetto trascurato persino dalla scienza (che sembra ad oggi tutto possa e per converso ogni scienziato,onnipotente. Ahimè.). Ovviamente l’ammissione formale del nulla metafisico comporterebbe non pochi rischi per i signori del pensiero. Che si credono tali. Ed invece rappresenta il conflitto dei conflitti, tant’è che l’umana corsa sembra andare nella direzione di riempire i nostri nulla. Corsa talora spasmodica, compulsiva, in tutti gli ambiti dalle religioni alle arti, nel pensiero pratico che quello riflessivo.
    Le povere poche cose le ho scritte nelle prime paginette del volumetto che ti mando.

    Anche Goethe interviene quando scrive che i nostri pensieri sono già stati pensati, a noi occorre solo ripensarli.
    Affermazione in cui credo sì, ma non per questo vuol dire che non sarà il futuro. Il Cogito ergo sum varia e diventa Cogito ergo fui !!! Ma è tutto un idillio del cogitare dell’esse,: Cogitamus ergo nos fuimus, vos fuistis.. e così via. Il sum che è irregolare e che ha una coniugazione totalmente differente da ogni altro verbo latino. Sembra un gioco. E forse lo è veramente.
    Per ora ti lascio e ti abbraccio nella speranza che Tu possa dedicare un po’ di tempo alla lettura delle paginette che ho scritto, e che qualcuno ha apostrofato come mio testamento, di mandarmi il Tuo pensiero a riguardo che sei unico nel quale credo.

    (Vincenzo Aveta)

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  3. Un elemento che contraddistingue la poesia e l’arte kitchen è che esse hanno derubricato l’«identità» dell’opera, e quindi dell’autore. In virtù di ciò l’opera non sarà più contraddistinta dalla «identità forte» che ha contrassegnato il novecento modernistico (che ha coinvolto sia le avanguardie che le post-avanguardie che le retroguardie in pari misura), e questo qualcosa dovrà pur dire. L’«identità» è indispensabile per rimettere ordine nel mondo, ma quando il mondo non è più recuperabile in un ordo e in una ratio, ecco che non è più utile ricorrere ad una poiesis della «identità», anzi, l’opera sarà tanto più attuale in quanto inattuale, in quanto non più «identitaria».
    E questo è un effetto, vistoso, della fine della metafisica, con tutti i suoi annessi e connessi.

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  4. milaure colasson

    siamo tutti uomini e donne post-metafisici, tutti ammalati di serendipicità, tutti altranei e ultronei, tutti affetti da incomunicabilità, tutti affollati nella follia.

    Il testo del retro di cover della prossima Antologia, mi sembra adesso perfetto. È una provocazione intellettuale e, insieme, traccia una direzione, un sentiero lungo il quale indirizzare la ricerca poetica. Occorre ripartire da poetesse di livello europeo come quelle citate di Gino Rago: Ewa Lipska e Maria Rosaria Madonna, nelle loro poesie ci sono, in miniatura, tutte le questioni che un poeta di oggi dovrebbe affrontare. E se non affronta quei nodi, farà poesia secondaria e terziaria…

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  5. antonio sagredo

    Eppure ho letto e riletto le poesie delle due poetesse, la Madonna e la Lipska che sono attraenti e degne di grande attenzione…
    Eppure qualcuno o qualcosa mi dice che sono all’esterno della POESIA, che ancora non sono il centro, di cui ne raccontono le periferie, le descrivono, ma non sono il centro… eppure sono grandi poetesse non c’è dubbio… ma cosa manca allora?
    Che siano già oltre la fine che io non vedo? O che troppo vedendo smarrisco la visione?
    E’ finita l’epoca della Poesia come Finzione, e il poeta non è più il fingitore… si può fingere l’eternità (il Tempo) o l’immortalità (la perdita del corpo o la sua conferma), certamente non si può fingere lo Spazio: cosa concreta che si tocca.
    E allora la Poesia deve iniziare di nuovo dallo Spazio: non vedo altro se non quello che posso vedere e ciò che non è osservabile non mi interessa fintanto non diviene osservabile.
    La Poesia è una cosa concreta e non ha bisogno di metafisica e di storia. Infatti quelle due poetesse scrivono la Storia, la romanza, non la cronaca: cioè la Poesia come è e npn come si presenta.
    ma basta… a. s.

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  6. Maria Rosaria Madonna scrive le poesie «inedite» intorno al 2001-1002, fino a pochi giorni prima della sua improvvisa dipartita nel 2002. In queste poesie appare evidente il «nuovo paradigma» messo in piedi dalla poetessa siciliana. Madonna impiega un antichissimo dispositivo retorico: lo scambio tra l’astratto e il concreto, lo modernizza introducendovi un ulteriore elemento: lo spaesamento (o straniamento) secondo il quale l’astratto e il concreto vengono posti su uno stesso piano; la conflittualità semantica che ne deriva contrassegna l’equivalenza come non-equivalenza e la conflittualità semantica come autocontraddittorietà interna delle cose, delle persone, delle immagini.
    Un altro dispositivo impiegato da Madonna è il «significante fluttuante o vuoto», che Levi Strauss aveva definito come «eccesso della significazione sulla denotazione», cioè come non corrispondenza tra il denotatum, il significato e il significante, ragione che determina un «eccesso» di significante che resta «inoperoso», cioè libero in quanto non compiutamente esaurito in alcun denotatum. Questo «eccesso» del significante residuo è libero così di aderire ad altri denotatum, questa divaricazione dal denotatum mantiene in vita una parte del significante, il cosiddetto «significante fluttuante» che, in quanto «libero» e in quanto «eccedente», può andare alla deriva, ovvero, alla ricerca di un altro denotatum su cui aderire (senza peraltro mai giungere ad una adesione completa che arresterebbe il processo della costante fluttuazione del significante).

    Alle 18 in punto il tram sferraglia
    al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
    barbagli di scintille scendono a paracadute
    dal trolley sopra la ghiaia del prato.
    Il buio chiede udienza alla notte daltonica.

    In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
    col lula hoop, attraversa la strada deserta
    che termina in un mare oleoso.

    Il lettore leggendo una poesia di Madonna si chiede: ma di che si tratta in questa poesia?, infatti nelle poesie di Madonna non si dà quasi mai una tematica, un tema, un oggetto identificabili, il denotatum sembra essersi liberato dal suo corrispondente linguistico, il lessico sembra straniato, spostato rispetto al referente, che viene continuamente inseguito da un significante flutuante (vuoto) che cambia d’abito, muta di continuo il suo vestito linguistico; di conseguenza, il denotatum non viene mai completamente raggiunto, non viene mai esplicitato, compiuto, e quindi la significazione si pone in un continuo «fluttuare» in un «vuoto» significazionale dove l’«eccedente» è dato da ciò che è mutante, le metafore «giocano» con le metonimie e, insieme, collassano. La successione delle metafore ha qualcosa di temporaneo, come se le singole metafore non fossero in grado di indicare il denotatum, il tema, l’oggetto.
    In questa «sospensione» continua tra la metafora e la metonimia, il «significante eccedente» rimbalza da una metafora all’altra determinando una nuova fenomenologia del poetico; la grande abilità di Madonna sta nel saper mantenere questa «sospensione» in una sorta di vuoto semantico.
    Il verso:

    Il buio chiede udienza alla notte daltonica

    è un esempio, tra i tanti, di questa procedura di Madonna che sembra preludere alla pratica kitchen di oggi, questa «sospensione del significante eccedente» si presenta come una comunissima «potenza» del dire, capace di un uso libero, spregiudicato e gratuito del tempo, dello spazio, delle persone e del mondo. Si tratta di un «abitare» un luogo «inoperoso», «gratuito» in cui le cose ci sono ma galleggiano in un «vuoto» ontologico e semantico caratterizzato dalla indecidibilità e indeterminabilità del lessico impiegato.

    Siamo molto lontani dalla procedura del primo Montale il quale si muove su un lessico stabile già stabilizzato dalla tradizione letteraria. Madonna non ha alcuna tradizione letteraria alle spalle su cui fare riferimento, né ha alcun linguaggio poetico sul quale ribasare il proprio, la poetessa siciliana intuisce che siamo «fuori» della tradizione e «fuori» della «storia», che la nuova poesia sarà costretta a muoversi nell’ordine della «storialità» e dovrà necessariamente inventarsi il proprio linguaggio su nuovi presupposti, ovvero, sul presupposto che un linguaggio riposa sempre su un precedente e che il linguaggio, ogni linguaggio, è sufficiente a giustificare se stesso senza l’ausilio di alcuna «tradizione». La poesia si trova ormai fuori dalla «storia» ed è approdata alla «storialità».
    La fenomenologia del poetico di Madonna apre degli spazi di libertà e di gratuità, in quanto gli spazi semantici sono caratterizzati dalla «inoperosità» delle parole. Madonna non deve render conto a nessuno della propria libertà totale, e nel far questo mostra intuitivamente la illibertà dei discorsi normologizzati della poesia della tradizione novecentesca.

    In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
    col lula hoop, attraversa la strada deserta
    che termina in un mare oleoso.

    Il lettore non sa, non riesce a capire che cosa leghi insieme la «bambina (che) corre dietro la sua ombra» con il «mare oleoso», le due immagini sembrano stranite e straniate, non legate da alcunché in comune, il legame stabilito da Madonna sembra arbitrario ma il lettore resta sempre incerto circa il dubbio in ordine alla presunta arbitrarietà di quelle immagini e del legame tra quelle immagini perché viene indotto a pensare la connessione straniante come esistente, e quindi come vera, necessitata, in quanto nominata dalla poetessa. C’è qui un cambio di paradigma di non poco conto: è l’Autore che decide ciò che è necessario e ciò che non lo è all’interno di un testo. E nessun altro.

    Giorgio Agamben ne Il Regno e la Gloria (2007) chiarisce il concetto di paradigma della disattivazione come marca del punto in cui la lingua «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso – dove il soggetto poetico diventa quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile» (pp. 274-275).

    «I poeti – afferma Agamben – devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili – straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni voltaestraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato.

    (Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014 pp. 122).

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  7. “siamo tutti uomini e donne post-metafisici, tutti ammalati di serendipicità, tutti altranei e ultronei, tutti affetti da incomunicabilità, tutti affollati nella follia.” (M. Colasson)

    UN UOVO PER HIERONHIMUS

    La produzione di emozioni si fermò per le sanzioni
    Fondo monetario, BCE, nessuna copertura finanziaria.
    E presto un parallelo dividerà le metafore del Nord da quelle Sud.

    Alla voce Purgatorio il metano rimase sulle sue
    Ripensò alle fiamme, vide le truppe degli arcangeli feriti
    Gli artigli congelati nei fornelli, dappertutto schiuma da barba
    E la vita impossibile nella ghisa.

    Segno dei tempi anche questo stare allerti sul da farsi:
    Ai barbieri occorre una rampa missilistica
    E piazzare un rasoio è problema ONU.

    L’Inferno ricominciò a cuocere nella lavastoviglie
    A un grammo di sapone corrispondeva un cucchiaio di speranza
    E lavaggio freddo per chi osava mettersi un piatto in faccia.

    Vanno e vengono dai macellai. Dentro ai nervi una processione
    Di pie donne con spezzatino di agnello.

    Sovrasta l’ansia di trovare un posto per il potassio.
    Nel cuore la tecnocrazia delle budella al sodio-peperoncino

    PANTOFOLE ALLE MANI

    Contare i denti, staccarle con il vapore
    Incollare le parole a una tavola di francobolli.

    C’è Rivera a far gustoso il gelato
    E Riva che sgranocchia l’area di rigore.

    A un gancio da KO,
    palleggia il re di denari contro King Kong

    Talvolta crolla l’ospedale di campo
    perché il portiere devia la cannonata
    e il pronto soccorso cattura un neutrone.

    Da un summit di rondini venne fuori una decisione epocale
    d’ora in avanti le partite si sarebbero spostate all’equatore
    e dunque niente capovolgimento di fronte
    gli gnu avrebbero battuto i coccodrilli
    il definitivo suggello dell’aria sul nickel-ferro.

    Si aspettava solamente che fiorissero i campanili
    e le vecchie mansarde germinassero savane

    Italia vince 5 a 4 la coppa Rimet
    e i goal starnazzano nelle cialde di Città del Mexico

    La guerra, quella imprecisa, è sotto rete
    Tra scapoli e ammogliati, Orazi e Curiazi

    Soccorre un arbitro con il gladio nel taschino:
    c’è un ragno che consuma Litio
    bisogna estrarlo prima che rovini nel trigemino.

    Colpo di testa di Pelè. E a sei minuti dalla primavera
    la controffensiva al pomodoro fresco.

    (F.P.Intini)

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  8. Uno scrittore un tempo mi diceva:

    «i libri sono una cosa da ignorare e da pignorare, ma da lasciare al Banco dei Pegni per nullo valore… io, ad esempio sono un istrione, per dire, un intellettuale da salotto e mi nutro di non-violenza ma sono per la violenza, quella peggiore, che vuole affogare e incenerire i coraggiosi… inoltre sono scettico, integralmente scettico, e cinico, integralmente cinico, sono perfino buddista: non credo né in te né in noi né in me… mi sono vaccinato ma penso come un no-vax, ho la patente ma penso contro l’automobile, sono per la non-violenza dei vigliacchi ma sono per la violenza dei più forti… mi esalta la delazione, la fingardaggine dei fiancheggiatori, dei delatori e dei falsari, le contro-verità sono la mia moneta corrente, sono per le le isterie degli indignati che si indignano contro i poveri e si esaltano per gli straricchi. Sono un Robin Hood all’incontrario, voglio togliere ai poveri il maltolto per darlo ai ricchi… dico cose di ultra sinistra perché in cuor mio sono un vociferatore della destra più estrema e retrograda. C’è del fascino in tutto ciò, no?
    Per tutte queste ragioni voto più a destra della Lega, più a destra di Fd’I».

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  9. Esercizio di irrobustimento dello spirito.

    Nonna ci dice: “Figli di cagna!”
    La gente ci dice: “Figli di una Strega! Figli di puttana!”
    Altri dicono: “Imbecilli! Mascalzoni! Mocciosi! Asini! Maiali! Porci! Canaglie! Carogne! Piccoli merdosi! Pendagli da forca! Razza di assassini!”
    Quando sentiamo queste parole, il nostro volto diventa rosso, le orecchie ronzano, gli occhi bruciano, le ginocchia tremano.
    Non vogliamo più arrossire né tremare, vogliamo abituarci alle ingiurie e alle parole che feriscono.
    Ci sistemiamo al tavolo della cucina uno di fronte all’altro e, guardandoci negli occhi, ci diciamo delle parole sempre più atroci.
    Uno: “Stronzo! Buco di culo!”
    L’altro: “Vaffanculo! Bastardo!”
    Continuiamo così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle nostre orecchie.
    Ci esercitiamo in questo modo una mezz’ora circa ogni giorno, poi andiamo a passeggiare per le strade.
    Facciamo in modo che la gente ci insulti e constatiamo che finalmente riusciamo a restare indifferenti.
    Ma ci sono anche le parole antiche.
    Nostra Madre ci diceva: “Tesori miei! Amori miei! Siete la mia gioia! Miei bimbi adorati!”
    Quando ci ricordiamo di queste parole, i nostri occhi si riempiono di lacrime.
    Queste parole dobbiamo dimenticarle, perché adesso nessuno ci dice parole simili e perché il ricordo che ne abbiamo è un peso troppo grosso da portare.
    Allora ricominciamo il nostro esercizio in un altro modo:
    Diciamo: “Tesori miei! Amori miei! Vi voglio bene… Non vi lascerò mai… Non vorrò bene che a voi… Sempre… Siete tutta la mia vita…”
    a forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.

    dal libro “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof

    *

    Esercizio di irrobustimento del corpo

    Nonna ci picchia spesso, con le sue mani ossute, con una scopa o uno strofinaccio bagnato. Ci tira per le orecchie, ci agguanta per i capelli.
    Altre persone ci danno anche dei ceffoni e dei calci, non sappiamo nemmeno perché.
    I colpi fanno male e ci fanno piangere.
    Le cadute, le sbucciature, i tagli, il lavoro, il freddo e il caldo sono ugualmente causa di sofferenza.
    Decidiamo di irrobustire il nostro corpo per poter sopportare il dolore senza piangere.
    Cominciamo con il darci l’un l’altro dei ceffoni, poi dei pugni. Vedendo il nostro volto tumefatto Nonna domanda:
    – Chi vi ha fatto questo?
    – Noi, Nonna.
    – Vi siete picchiati? Perché?
    – Per niente, Nonna. Non vi arrabbiate, è solo un esercizio.
    – Un esercizio? Siete completamente suonati! Bah, se la cosa vi diverte…
    Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo:
    – Non fa male.
    Colpiamo più forte, sempre più forte.
    Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo:
    – Non fa male.
    Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre.
    Non piangiamo più.
    Quando Nonna è arrabbiata e grida, noi le diciamo:
    – Smettetela di gridare, Nonna, picchiate invece!
    Quando ci picchia, le diciamo:
    – Ancora, nonna, ancora! Guardate, porgiamo l’altra guancia, com’è scritto nella Bibbia. Colpite anche l’altra guancia, Nonna.
    Lei risponde:
    – Andate al diavolo, voi, la vostra Bibbia e le vostre guance.


    Esercizio di accattonaggio

    Indossiamo abiti sporchi e laceri, ci togliamo le scarpe, ci sporchiamo la faccia e le mani. Andiamo in strada. Ci fermiamo, aspettiamo.
    Quando un ufficiale straniero passa davanti a noi, alziamo il braccio destro per salutare e tendiamo la mano sinistra. Nella maggior parte dei casi l’ufficiale passa senza fermarsi, senza vederci, senza guardarci.
    Finalmente un ufficiale si ferma. Dice qualcosa in una lingua che non capiamo. Ci fa delle domande. Non rispondiamo; restiamo immobili, un braccio alzato, l’altro teso in avanti. Allora fruga nelle tasche, posa una moneta e un pezzetto di cioccolato sul nostro palmo lercio e se ne va scotendo la testa.
    Continuiamo ad aspettare.
    Una donna passa. Tendiamo la mano. Lei dice:
    – Poveri bambini. Non ho niente da darvi.
    Ci accarezza i capelli.
    Diciamo:
    – Grazie.
    Un’altra donna ci dà due mele, un’altra dei biscotti.
    Una donna passa. Tendiamo la mano, lei ferma e dice:
    – Non vi vergognate a chiedere l’elemosina? Venite da me, ci sono dei lavoretti facili per voi. Tagliare la legna, per esempio, o lucidare la terrazza. Siete abbastanza grandi e forti. Dopo, se lavorate bene, vi darò della minestra e del pane.
    Rispondiamo:
    – Non abbiamo voglia di lavorare per lei, signora. Non abbiamo voglia di mangiare la sua minestra né il suo pane. Non abbiamo fame.
    Lei domanda:
    – E allora perché chiedete l’elemosina?
    – Per sapere che effetto fa e per osservare la reazione della gente.
    Andandosene grida:
    – Piccole sporche canaglie! Screanzati, fare queste cose!
    Rientrando, gettiamo nell’erba alta che costeggia la strada le mele, i biscotti, il cioccolato e anche le monete.
    La carezza sui capelli è impossibile gettarla.

    Esercizio di cecità e sordità

    Uno di noi fa il cieco, l’altro fa il sordo. Per allenarsi, all’inizio, il cieco si lega un fazzoletto nero di Nonna davanti agli occhi, il sordo si tappa le orecchie con dell’erba. Il fazzoletto puzza come Nonna.
    Ci diamo la mano, andiamo a passeggio durante gli allarmi, quando la gente si chiude nelle cantine e le strade sono deserte.
    Il sordo descrive quello che vede:
    – La strada è lunga e dritta. È fiancheggiata da case basse, a un solo piano. Sono di colore bianco, grigio, rosa, giallo e blu. Alla fine della strada si vede un parco con degli alberi e una fontana. Il cielo è azzurro, con qualche nuvola bianca. Si vedono degli aerei. Cinque bombardieri. Volano bassi.
    Il cieco parla lentamente, perché il sordo possa leggere sulle sue labbra.
    – Sento gli aerei. Producono un rumore irregolare e profondo. Il loro motore fatica. Sono carichi di bombe. Ora sono passati. Sento di nuovo gli uccelli. Per il resto tutto è silenzioso.
    Il sorde legge sulle labbra del cieco e risponde:
    – Sì, la strada è vuota.
    Il cieco dice:
    – Non per molto. Sento dei passi che si avvicinano nella strada laterale, a sinistra.
    Il sordo dice:
    – Hai ragione. Ecco un uomo.
    Il cieco domanda:
    – Com’è?
    Il sordo risponde:
    – Come tutti gli altri. Povero, vecchio.
    Il cieco dice:
    – Lo so. Riconosco il passo dei vecchi. Sento anche che è a piedi nudi, quindi è povero.
    Il sordo dice:
    – È calvo. Ha una vecchia giacca dell’esercito. Ha dei pantaloni troppo corti. I suoi piedi sono sporchi.
    – I suoi occhi?
    – Non li vedo. Guarda per terra.
    – La bocca?
    – Labbra troppo incavate. Non deve avere più denti.
    – Le mani?
    – In tasca. Le tasche sono enormi e piene di qualcosa. Di patate, o di noci, che fanno delle piccole gobbe. Alza la testa e ci guarda. Ma non riesco a distinguere il colore dei suoi occhi.
    – Non vedi nient’altro?
    – Delle rughe, profonde come cicatrici, sul suo volto.
    Il cieco dice:
    Sento le sirene. È la fine dell’allarme. Rientriamo.
    Dopo un po’ col tempo, non abbiamo più bisogno di un fazzoletto per gli occhi né di erba per le orecchie. Chi fa il cieco vota semplicemente lo sguardo verso l’interno, il sordo chiude le orecchie a tutti i rumori.

    (Tratto da Trilogia della città di K., Einaudi 1998, edizione originale 1986, da Il grande quaderno, traduzione di Armando Marchi.)

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  10. 9 novembre 2019 alle 9:51

    Lao Tzu scrive:

    «La via è vuota, ma usandola, non si riempie».

    C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano.

    In tal modo, la poesia eleva alla estrema potenza il linguaggio: nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto.

    Ma sovrano assoluto che regna in modo assoluto sulla soggettività, sull’io. Soltanto quando l’io si fa da parte, quando si depotenzia, la poesia può esercitare il suo potere dispositivo sulle parole.

    Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa.

    In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz o di Ágota Kristóf fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica). Entra da subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come essere nel mondo.

    La linea interna delle cose è ben più importante della linea esterna di esse.

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  11. Fare poesia secondo i principi della nuova ontologia estetica è altra cosa dal continuare a farla secondo le categorie della ontologia unidirezionale della poesia italiana e non solo italiana.

    Era inevitabile che ciò si traducesse nella necessità dello spostamento della poiesis verso un nuovo paradigma.

    Nella poesia in Europa verso un nuovissimo paradigma poche sono le esperienze poetiche post-metafisiche verso cui ho guardato e che ho inteso elencare con alcuni loro testi poetici esemplari.

    Le perplessità che certe esclusioni di “grandi” poeti europei hanno suscitato in alcune lettrici e in qualche lettore de L’Ombra delle Parole nella mia risposta alla 2a domanda dell’Intervista non hanno in realtà nessun sostegno e sono anzi fuori luogo per la ragione semplice che le mie attenzioni le ho accese soltanto su alcuni importatissimi poeti del post-metafisico.

    Jiménez, Guillén, Alberti, Mandel’stam, Cvetaeva, Achmatova, Sachs, Auden, Hughes, Heaney, Milosz, Zzymborska, gli stessi Brodskij e Celan non sono stati da me inclusi perché le loro, pur di elevatissimo valore, sono tutte poetiche del modernismo metafisico direi maturo.

    Ha ragione pienamente Marie Laure Colasson con l’invito-comandamento della necessità di “ripartire da poetesse di livello europeo come quelle citate da Gino Rago: Ewa Lipska e Maria Rosaria Madonna, nelle loro poesie ci sono, in miniatura, tutte le questioni che un poeta di oggi dovrebbe affrontare. E se non affronta quei nodi, farà poesia secondaria e terziaria…”, cogliendo la questione direi epocale che nella 2a risposta della Intervista ho inteso mettere sul tappeto.

    “La natura è troppo debole / per imitare le battaglie./
    La poesia non muta nulla./ Nulla è sicuro, ma scrivi.”

    Così Franco Fortini in Traducendo Brecht: fare poesia, scrivere, non con la illusione di poter mutare qualcosa, ma perché non si perda ciò che di certo contribuirà a un mutamento futuro, ma ripartendo da poiesis rivoluzionarie come quelle di Ewa Lipska e di Maria Rosaria Madonna.

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  12. antonio sagredo

    Quale èil compito della poesia…. ? (Rago)
    —————————————————-
    Cantare non la propria assenza, ma l’ASSENZA.

    E come si può cantare questa assenza?
    Restando muti.
    Lasciare da parte le mani e gli occhi, e ….
    ——————————————————-

    Da ieri i miei versi hanno il sapore acre della sentina
    che sul corpo si decanta come un unto lenzuolo,
    e le mani sono stirate e vuote come penne che non scrivono.
    Non ho più una morte degna di vivere: non mi resta che dormire!

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  13. UNA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI (1926-2018)

    Il diritto e la religione sono nati per cercare di legare le parole alle cose, alla poiesis spetta storicamente il compito di scollegare i due terminali: le parole dalle cose.
    Il primo autore che negli anni cinquanta attinge questo «scollegamento» è senza dubbio Alfredo De Palchi.

    Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il frammento quale forma base della propria poesia è Alfredo De Palchi, con “Sessioni con l’analista” (1948-1966), pubblicata nel 1967, che ricomprende le poesie scritte dal 1944 sulle pareti della cella del penitenziario di Procida dove era rinchiuso il giovanissimo poeta con l’accusa infamante di omicidio per il quale fu condannato, con un processo farsa, in primo grado, all’ergastolo. Una esperienza che gli detterà la prima forma-frammento della poesia italiana del secondo Novecento, il cui libro verrà pubblicato ad opera di Sereni con la Mondadori nel 1967.

    In quegli anni di disperata scrittura De Palchi scriverà “La buia danza di Scorpione” che poi uscirà, appunto, nel 1993 come sezione dell’opera dianzi citata, il primo e più compiuto esempio di disseminazione dei linguaggi e di frammentazione della forma-poesia.
    De Palchi è il primo poeta italiano impegnato in un Cambio di paradigma della poesia italiana; la dizione indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza. L’espressione è stata coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera. La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

    Anche nella storia della letteratura, i nuovi paradigmi non piovono semplicemente dal cielo, il nuovo che voglia imporsi deve distaccarsi necessariamente dal vecchio per legittimarsi di fronte alla «tradizione», così ché, mediante un nuovo modo di considerare l’oggetto e il soggetto, si accede ad un nuovo concetto della forma-poesia. I più importanti mutamenti di paradigma nella storia della poesia italiana avvengono a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta; in questa accezione un libro come Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo De Palchi è un’opera chiave in anticipo con i tempi, tanto che l’opera non venne capita e recepita in Italia.
    Il titolo di Paradigm (2001) dato all’opera poetica di Alfredo De Palchi voleva alludere proprio a quel cambiamento della forma-poesia italiana che la sua opera sottintendeva, in particolare il carattere pre-sperimentale della sua poesia che ha anticipato di un decennio lo sperimentalismo del Gruppo 63.

    Nessuna certezza
    dalla spiritualità arcaica del mare––
    gesticolo le braccia al cielo che affonda
    sbilanciato nei verdi avvallamenti
    mutazione cosciente
    vescica rovesciata metamorfosi
    per un abisso d’alghe e pesci,
    non mi differenzio––sono
    l’escrescenza che si lavora in questa
    epoca
    e dovunque bocche di pesci
    aguzze su altri pesci
    il mare un vasto cratere
    e fissi al remoto I pesci graffiti
    non guizzano dove sradicato
    il gabbiano è l’unica dimensione
    conscia
    dell’inarrivabile bagliore.
    (primi anni del 1960)
    da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)

    Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, ha vissuto a Manhattan, New York, dove ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007), ci ha lasciati nel 2017.

    Il suo lavoro poetico conta sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
    Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese gran parte della poesia italiana contemporanea per riviste americane.

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  14. La fine della poesia di accademia

    È noto che la poesia italiana ed europea durante gli anni settanta ha subito l’invasione della vita privata e del quotidiano nella forma-poesia.
    In Italia questa moda prende inizio con il libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975) e, successivamente, con il libro di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (1980). La versione storiografica accademica però trascura che negli anni novanta ci sono stati poeti che hanno seguito una via del tutto diversa: Giorgia Stecher (1936-1996) con Altre foto per Album (1996), Maria Rosaria Madonna con Stige (1992), Helle Busacca (1915-1996) con I quanti del suicidio (1973), Niente poesia da Babele (1980), Anna Ventura di cui si ricorda il volume delle Poesie scelte Tu quoque (2014) e Mario Lunetta (1934-2017) con una fluviale produzione poetica, narrativa e saggistica che lo contraddistinguerà come la punta di diamante della opposizione permanente alla deriva minimalista della poesia italiana.

    In questi ultimi anni è diventato sempre più palese che quelle tematiche private e privatistiche si sono esaurite. È un dato storico sotto i nostri occhi. Rimane presso i continuatori di quella impostazione privatistica della poesia un intendimento situazionista e privatistico, una strategia posiziocentrica, sono rimaste per un po’ in vigore le tematiche moraleggianti e retrograde sub specie di riformismo orfico, un descrittivismo psicologico di matrice neo-verista, un ipersperimentalismo vacuo e vociferatore… ma, insomma, tutto sommato, tutte linee minoritarie di un modello di poesia già minoritaria ai suoi albori.

    In questi ultimi cinque sei decenni la poesia italiana (ed europea) è diventata un microlinguaggio dichiarativo e panlogistico, un microlinguaggio narrazionale che si è ritirato in una nicchia, al riparo dei fortissimi e impetuosi venti che spirano in pianura e sulle montagne del mondo globalizzato.
    Nel frattempo, si è avverato il monito di Adorno: «Tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura», dinanzi al quale anche la critica alla poesia e alla cultura italiane di Mario Lunetta è andata a sbattere contro un muro di gomma.
    La critica della cultura è diventata un fuori contesto, la critica di un intellettuale isolato come quella di Mario Lunetta si è rivelata spuntata. La strategia della cultura necrofilizzata a vocazione maggioritaria è la strategia del padrone che mette la museruola al suo cane.

    In questi ultimi anni, dicevo, è diventata sempre più palese una forte reazione a quella visione privatistica del privato e a quel minimalismo ingenuo. La nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, è la più drastica e convinta reazione a un indirizzo e a un versante della poesia italiana che ha ormai esaurito (semmai ce l’ha avuto) l’iniziale effetto propulsivo. Quell’indirizzo di poesia privatistica è andata a sbattere sul muro di gomma dell’«impenetrabile tediosità del quotidiano» (per usare la dizione di Agamben), oltre di esso non era possibile andare. Quel tipo di autobiografismo introspettivo e auto ironico è finito nella rigatteria delle istituzioni stilistiche, questo mi sembra lampante per chi abbia occhi e orecchie per intendere. Quell’autologia è finita nel tritacarne della «nuda vita», nella vita vegetativa delle nuove post-masse che si nutrono di ipoverità. Quell’autologia (nella poesia come nel romanzo nel cinema e nelle arti figurative) è finita nelle confezioni di ipoverità tra gli scaffali dei supermarket e nella insignificanza, nell’apologetica del tempo che fu e nell’apologia del corpo. Di tutta quella paccottiglia culturale oggi è rimasto un grande lago di narrazioni agiografiche e ipoveritative.

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  15. Mario Lunetta sapeva benissimo che

    «La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio» (mi autocito).

    Oggi la «poesia» la decidono gli uffici stampa degli editori maggiori. La critica di poesia è sostanzialmente scomparsa; io stesso, non faccio certo critica, come si dice, testuale, invento di continuo un mio linguaggio eclettico, variegato e fibrillato (che oscilla dalla filosofia, alla moda, al lessico del politico, a quello della cronaca, a quello psicanalitico e ai linguaggi distrettuali) che altro non è che una propaggine della mia poesia e della poesia dei miei compagni di strada. Poesia ultronea e altranea. Ermeneutica ultronea e altranea. Tutto si può dire sul mio linguaggio critico di polistirolo e di polimeri concettuali tranne che sia un linguaggio da «critico letterario» intonso e incipriato e, ci tengo a precisarlo, il termine «critico letterario» oggi è talmente screditato da rasentare un disvalore semantico di offesa o, al minimo, di sufficienza e di irrisione.

    Mario Lunetta ha fatto per decenni Opposizione, una opposizione dura, senza perifrasi, chiamando ripetutamente «delinquenti letterari» la cerchia dei letterati al potere. Non poteva essere più onomastico, al limite del codice penale. E gliela hanno fatta pagare.
    Ma facendo opposizione permanente Mario Lunetta ha fatto anche poesia «impermanente» e impertinente, la sua è stata una poesia dell’opposizione permanente e impertinente alla mediocrità, alla corruzione e alla ipocrisia della poesia a vocazione totalitaria dominante in Italia.

    Quello che noi tentiamo di fare non è una «poesia della Opposizione», il nostro intendimento è di fare una poesia dell’anti-governo, del governo-ombra, una vera e propria rivoluzione del modello-poesia, una rivoluzione che vada ben al di là degli steccati asfittici della poesia posiziocentrica e postruista che si fa oggi a Milano e a Roma e nelle provincie. Non ho mai condiviso l’ipotesi di una poesia dell’Opposizione, la poesia non si fa all’opposizione, propendo invece per una forma-poesia che vada da subito al cabinet della poesia italiana e lo faccia saltare dal basso verso l’alto con una carica di dinamite. Se stai all’opposizione per decenni è facile farti catalogare come oppositore permanente, come hanno fatto con Mario Lunetta, e così liquidarti. La strategia dell’Ombra è un’altra, è semplice, e lo dichiariamo con innocenza: far deflagrare la forma-poesia post-novecentista, sostituire alla asfittica poesia a vocazione totalitaria in vigore in Italia con una poesia di «questità di cose» irriconoscibile, infungibile e irriducibile ai canoni della poesia post-novecentista, postruista e fideista.

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  16. Liberare la poesia è il primo passo per liberare e rinnovare la nostra forma-di-vita.

    *
    Leggere Lolita a Teheran

    Mademoiselle Margot regala orchidee alle amiche
    Madame Colasson si mette in viaggio con Godot

    Le Signore portano un cappellino con il velo blu
    I Signori assomigliano a tanti Barbablu

    Gli anziani fanno sogni orrendi per questo dormono poco
    Greta Garbo si alza presto perché vuole vedere l’erba sotto le pietre

    Il curato di campagna vuole salvarsi l’anima
    Mangia agretti passati in padella prima di dire la messa ad Anagni

    Umberto Eco va a leggere Lolita a Teheran
    Tommaso Landolfi gioca a poker fino all’alba

    La maga Circe licenzia Ulisse perché dà le sue perle ai porci
    Penelope litiga con Omero e scappa dall’Odissea

    Le Sirene dell’Odissea tengono concerti a Roma
    Nausicaa fa la danza del ventre all’Auditorium sulla Flaminia

    In un locale notturno a fianco al Teatro Brancaccio
    Il critico Linguaglossa offre un bicchierino di cognac a Marcel Proust

    Gli dice: «basta con questa ricerca del tempo perduto
    Qui siamo nella rivoluzione dell’Infosfera!»

    (Inedita, 2023)

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  17. Necessità di una nota.
    Il distico:
    Gli dice: «basta con questa ricerca del tempo perduto
    Qui siamo nella rivoluzione dell’Infosfera!»
    trova la sua giustificazione nel libro di Luciano Floridi imperniato proprio sulla Infosfera, indagata sotto svariati punti di vista, fra i quali quelli del rapporto fra Etica e Politica, partendo dai lavori di Alan Turing.

    Luciano Floridi, in “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo”, (Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, pp. 304, 24 euro), riconosce che la «quarta rivoluzione» nasce con Alan Turing e nel suo libro scrive: «A partire dal lavoro rivoluzionario di Turing, l’informatica e le ICT hanno iniziato a esercitare un impatto sia estroverso sia introverso sulla nostra comprensione. E ci hanno dotato di conoscenze scientifiche senza precedenti sulla realtà naturale e artificiale, nonché della capacità di operare su tali realtà.

    […] Al pari delle tre precedenti, la quarta rivoluzione ha rimosso l’erroneo convincimento della nostra unicità e ci ha offerto gli strumenti concettuali per ripensare la nostra comprensione di noi stessi. […] siamo organismi informazionali (inforg), reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale (l’infosfera), che condividiamo con altri agenti informazionali, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo» (p.106).

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