Gazmend Leka, pittore albanese, 2009
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Risposta di Gino Rago alla triplice domanda:
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?
Non vi è dubbio che nel pensiero di Vattimo la crisi del senso unico e assoluto a favore di sensi molteplici e relativi fa tutt’uno con l’abbandono delle categorie forti della metafisica tradizionale e con l’imporsi di una visione debole dell’essere. Vattimo giunge a tale risultato ispirandosi a Nietzsche e ad Heidegger. Più precisamente, Vattimo deriva da Nietzsche l’annuncio della “morte di Dio”, ossia della consapevolezza secondo cui le evidenze forti dei tempi passati altro non erano che forme di rassicurazione del pensare in un orizzonte garantito; e assume da Heidegger la concezione epocale dell’essere secondo cui l’essere non è ma accade e accade nel linguaggio per cui il senso dell’essere si risolve nella trasmissione di messaggi linguistici tra le varie generazioni.
Ne consegue che questa concezione dell’essere comporta una sua temporalizzazione, ossia un suo indebolimento strutturale con il risultato che, per Vattimo, al metafisico essere forte subentra un post-metafisico essere debole.
La fine della metafisica e l’indebolimento dell’essere sono riconducibili al nichilismo, ma per Vattimo si tratta di un nichilismo debole , un nichilismo vattiano nel quale né si ricerca il nuovo, né si vive di rimpianti ma ci si abitua a convivere con il niente e cercando soltanto nella nostra condizione delle positività possibili da esperire. Così, alla idea heideggeriana di essere come stabilità, eternità e forza viene sostituita l’dea di essere come vita e maturazione, nascita e morte.
Per questo nella sua Introduzione a Verità e Metodo, di H.G. Gadamer, Gianni Vattimo scrive:
«La coscienza, la certezza che l’io ha della verità come caratterizzata da chiarezza e distinzione,che da Cartesio fino allo stesso Hegel rimane l’istanza suprema, non è più per Nietzsche un testimone attendibile. In modo più radicale di Marx e Freud, che pure sono i positivi campioni dello smascheramento nel pensiero del nostro tempo, Nietzsche universalizza il sospetto nei confronti dell’autocoscienza, introducendo in modo definitivo nella nostra cultura la consapevolezza dell’attività di mascheramento e di mistificazione in cui consiste la vita stessa della coscienza».**
Dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e rassicuranti e dopo avere assunto fino in fondo la condizione debole dell’essere e anche della esistenza, l’individuo post-metafisico è colui che ha imparato a vivere con sé stesso, con la propria infondatezza, con la propria finitudine.
Alla domanda che solleva una questioni epocali : «Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?», le risposte non sono semplici, ma una è possibile darla in riferimento al passaggio dall’idea di “uomo metafisico” a quella di “uomo post-metafisico”: è possibile scrivere poesia anche dopo la morte della metafisica, ricordando che la metafisica muore quando comincia il nichilismo secondo Nietzsche, ma è possibile soltanto una poiesis che prenda atto anche della fine della storia in un nichilismo compiuto che accetta e afferma la realtà e la vita così come esse sono senza sovrapposizioni metafisiche, nella consapevolezza dell’assenza di fondamenti che impone un carattere fittizio di qualsiasi interpretazione, nella coscienza che nel post-metafisico c’è posto soltanto per il gioco e per l’erranza.
Il poeta post-metafisico deve scrivere per l’uomo post-metafisico, ossia deve scrivere nella pratica attiva della non-violenza, del dialogo, della tolleranza e nella consapevolezza di un mondo fluido, diversificato, in cui la certezza di possedere la verità assoluta è crollata e con tale certezza è morta anche la storia la quale cede il posto alla «storialità». Una poiesis post-metafisica in cui nasce e si afferma una componente etica che è cifra esclusiva del «pensiero etico» di Vattimo, un pensiero debole in cui l’indebolimento dell’essere si configura non soltanto come destino, ma come compito.
Ed è qui che si inseriscono la Nuova Ontologia Estetica e la Poetry kitchen, le quali ripudiano gli stucchi e le ragnatele della stanzetta del poeta dell’Io, rifiutando definitivamente la poiesis della «dimensione privata» (che ancora si fa oggi in quantità industriale) se non altro perché, per dirla con Giorgio Linguaglossa “[…] è semplicemente Kitsch, discarica di rifiuti quale è diventata la vita privata nella «dimensione privata» delle società post-democratiche dell’Occidente”. Per questo nella poetry kitchen assume una importanza decisiva il discorso serendipico che ha sempre a che fare con la pluralità delle significazioni, cioè con la nozione di essere come plurivocità e molteplicità di significazioni, ma la novità del nuovo discorso kitchen sta nella mancanza di significazione e nella falsa coscienza di ogni posizione di significato con cui si ha a che fare, con cui la soggettività dell’uomo dell’epoca cibernetica si trova a dover rendicontare.
Ciò che era fondamento, certezza e verità immediata e mediata, deve essere considerato come pregiudizio della coscienza o mito della coscienza. La coscienza di sé è un’illusione che sorge da una illusione anteriore: l’illusione della cosa e della cosa in sé. Questo perché il filosofo allenato alla scuola di Cartesio è stato defenestrato dal filosofo che sa che le cose sono parallattiche, che non sono in un luogo come appare ma in più luoghi contemporaneamente, che ci sono tante cose quanti sono gli esseri umani sulla terra, e tante altre quante sono le infinite posizioni di ogni singolo essere umano sulla terra.
Il discorso serendipico non fa riferimento al concetto di rendicontazione della cosa ma a quello di libera indagine circa l’essere o l’illusione delle cose.
Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023
L’arte moderna diventa astratta quando si accorge che non si può più raffigurare l’irrappresentabile, perché la poiesis è diventata decorativa e funzionale alla estetizzazione diffusa e fa da cornice alla immondizia e ai cassonetti dei rifiuti. Così, non è più possibile oggi fare dei ritratti che non siano kitsch o peggio, il volto umano non è più raffigurabile, così come non è più raffigurabile un paesaggio, con buona pace del zanzottismo e dei suoi fedeli seguaci. L’arte moderna diventa astratta perché ha orrore degli oggetti, che nel frattempo sono stati defenestrati dalla sanità pubblica del buon gusto. L’arte moderna diventa astratta perché ha in orrore la falsa coscienza del ‘ritratto’ con l’annessa e connessa spiritualità posticcia e invereconda delle anime belle… (g.l.)
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Risposta. Penso che più che parlare di “poesia europea del ‘900” sarebbe opportuno parlare di “poesia del Novecento in Europa”, se si considera che ancora oggi una Europa che non sia della finanza e delle banche non esiste. Così come una casa comune della poesia in Europa ancora non c’è. Così come non si può fare a meno di affermare che le grandi esperienze poetiche del ‘900, da quella di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound a quelle di Fernando Pessoa e René Char, di Ghiorgos Seferis, Dylan Thomas e Gottfried Benn, sono state grandi e influenti ricerche di poesia, ma tutte legate a poetiche ancora fortemente metafisiche. La poesia che pienamente intercetta il mio gusto estetico invece è quella di alcune poiesis post-metafisiche. Lo spatiacque e nella Nuova Antologia Estetica fondata, proposta e diffusa intorno al 2014 dalla rivista on line L’Ombra delle Parole. La differenza tra una poesia di scuola metafisica, (ma anche del tardo novecento italiano e, in genere, occidentale) e quella della NOE sta in buona parte qui: la NOE costruisce una poiesis fondata su un concetto polidimensionale dell’essere, a partire dal quadridimensionalismo, del dopo tridimensionalismo di Proust, in cui alla profondità, all’altezza, alla lunghezza la NOE aggiunge la “Memoria” come quarta dimensione. Ossia, saper cogliere con colpo d’occhio il passato, il presente e l’avvenire, non solo, ma anche il mio, il tuo, il nostro, il vostro «reale» in un unico flusso. Per dirla con Giorgio Linguaglossa: “[…] Per riuscire in questo obiettivo occorre modificare non solo la semantica, ma forzare la sintassi, agire in profondità sulla modellizzazione secondaria del verso, ridimensionare fino ad annullare il ruolo dell’«io», quell’Ego puntiforme di stampo cartesiano che oggi è soltanto un antico ricordo; significa abolire il tempo lineare e aggiungerne altri, moltiplicare i tempi e gli spazi, moltiplicare le prospettive e i punti di vista[…]”.
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile
a Socrate. Forse a la causa è una cicatrice sul vetro.
L’occhio incrinato del tempo. O forse è solo una stella
che sbraita nel vaudeville locale.
Una lunga lettera – come il mondo smisurato.
Scrivi come in vita muori. Come ai poeti
Le raccolte di versi sono andate quest’anno.
Ti chiudi il cappotto se c’è vento?
E i fiumi se piove si bagnano ancora
oppure prosciugati scorrono a ritroso?
scrive esattamente come il poeta A.
E che il signore con la camicia rossa ti parla.
E che anche due più due è uguale a due.
più prudente? più triste? col berretto?
Scrivi come in vita muori.
Aspetto la tua lettera. Lo sai, no?
ti risponderò e in sogno te la darò.
Oppure vengo io. Oh, come vorrei farlo!
Ma non so che tempo farà.
Ignoro amichevolmente.
Mi ritiro nel profondo.
Non mi stupisce la folla.
Profitti e perdite fanno tutt’uno.
Di notte nutrisco i pipistrelli.
osservo
l’ostrica del sole che tramonta.
(Poesie nuove 2000-2002)
Alle 18 in punto il tram sferraglia
Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
Il merlo gracchiò sul frontone del tempio.
La coturnice soffiò col becco rosso.
Dopo un secolo, il mare sciabordando
entrò nel peristilio spumoso
della villa e le voci degli abitanti fluirono
nella carta assorbente d’una acquaforte.
E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillano sul mosaico
della vasca dove murene sgusciano agili.
Un narciso osserva nello specchio
della vasca la propria immagine riflessa,
mentre un satiro danzante solleva il nitore
delle colonne doriche di viticci e tralci.
*
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
*
Con rumore di carrucola venne giù il temporale.
Nella piazza c’era un monumento ai caduti in bronzo
e un gelataio italiano.
Città lituana, nitida e trasparente come un merletto di Murano.
«Ricordi?».
«Sì, lo ricordo».
La gente veniva dal bosco con le ceste piene di funghi.
Io parlavo come da un altoparlante che abbia
inghiottito la voce…
Ciò è avvenuto non più di un secolo di luce fa.
Forse più, forse meno…
*
La luna splende di un lilla sempre più tenue
un cono di luce intenso e fragile.
Io sono nuda davanti allo specchio.
Sono l’amante del Faraone, le ancelle mi preparano
all’udienza con il dio vivente,
profumano le mie carni delicate.
La sfera della luna rotola nel cielo
come un carro trainato da schiavi fenici.
Forse anch’io sono intensa e fragile.
Tra me e il dio c’è una distanza d’aria.
C’è soltanto aria che puoi toccare come
una palla da basket.
Tra me e il dio non ci sono parole.
Non c’è bisogno di parole.
Isotopi delle parole i sospiri
come ondate successive di un mare
sconosciuto.
da Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2020
Poetry kitchen con Strutture serendipiche
Gino Rago
John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
Il vespasiano in via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna – un bicchierino di Rum x “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate
Gino Rago
Marie Laure Colasson interpella la scultura: l’uccello Petty
posata sopra il comodino a destra del soggiorno
dell’appartamento in affitto sito in Roma, Circonvallazione Clodia n. 21
accanto ad un volantino color turchese
e una molletta per i panni.
L’uccello Petty:
«Egregio critico Linguaglossa,
la informo che
la “Bestia” di cui parla il Conte di Kevenhüller
l’ho catturata io, è un sedicente poeta elegiaco,
una vera canaglia,
le cui auto pubblicazioni oscillano fra lo “Specchio” Mondadori
e la collana bianca dell’Einaudi,
l’ho chiusa a chiave nella toilette dell’atelier di Piero Tevini
sito in questo stabile al piano quinto.
Resto in attesa dei 49 milioni di euro a suo tempo trafugati
dalla Lega lombarda di via Bellerio;
mi sto preparando
per la cerimonia della targa all’ex Presidente della Repubblica
Carlo Azelio Ciampi …
ma che è che non è la squadra omicidi del commissariato del dott. Ingravallo
ha manomesso il nome deturpandolo,
allora la sindaca dell’Urbe,
la Raggi,
ha reclamato essere stata oggetto di un complotto
ordito dalla Lega lombarda e da Fratelli d’Italia per detronizzarla
dalla carica di sindaco
e far decollare la candidatura della leghista Irene Pivetti
– l’ex Presidente della Camera dei deputati –
per le elezioni del sindaco di Roma Capitale
e così infliggere un colpo mortale ai 5Stelle.
Il Conte di Kevenhüller
ha già ordinato alla Tesoreria Generale della Banca d’Italia
di corrispondere 49 milioni di euro
a chi colpirà la “Bestia”,
somma che verrà corrisposta al Regio Cassiere
don Antonio Porta
per il tramite del direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani, 18.
Allora, accade che il pentastellato Lucio Mayoor Tosi
abbia contattato il filosofo Žižek
il quale ha appena affibbiato un ceffone in pieno viso
al segretario della Lega lombarda,
tale Salvini,
ben noto al commissariato del dott. Ingravallo
in quanto reo di aver baciato in pubblico il rosario
della Madonna Santissima Addolorata
dopo aver deglutito alcuni panini alla mortadella e alla porchetta di Ariccia,
pregandolo di risolvere a suo modo la questione.
Allora, Žižek
ha telegrafato al commissario Ingravallo
intimandogli di sortire fuori dal romanzo
di Carlo Emilio Gadda
e di assumere servizio presso il commissariato della Garbatella
in subordine al commissario Montalbano
il quale ha risolto il caso chiamando in servizio operativo
nientemeno che il filosofo Giorgio Agamben
il quale ha scritto una interpellanza al Presidente del Consiglio Mario Draghi
il quale a sua volta ha ordinato al Generale Figliuolo
di intercedere presso la Santa Sede per via della
Madonna Santissima Addolorata
baciata dal nominato Salvini sul pubblico palco del “Papeete”
quando i sondaggi lo davano al 34%
mentre il nominato chiedeva «pieni poteri» per poter risanare
l’Italia…
La storia non finisce qui, potrebbe continuare, ma noi la vogliamo
interrompere qui…».
Sarà quel che sarà, ai posteri l’ardua sentenza.
(da Storie di una pallottola e della gallina Nanin, 2022)
Gino Rago
Giorgio De Chirico guida il taxì
Duchamp espone l’orinatoio a Trinità dei Monti
Ennio Flaiano ci fa la pipì
Italo Calvino prende al volo un colibrì
Moravia prende un caffè al Caffè de Paris
Il poeta della linea lombarda non sa l’abbiccì
Il critico della linea romana dice sempre “altresì”
Il direttore dell’ “Avvenire” dice: “Sono qui se non sono lì”
È un disastro
Il Presidente del Consiglio ha disposto per decreto la rima in “i”
Mario Lunetta scappa dall’aldilà ed entra nel “Notturno n. 14” di Madame Colasson, dice: “Tutti i matti sono lì”
Il sindaco di Roma Gualtieri esce dal detto acrilico tutto vestito di blu
E invita l’uccello Pettì al Caffè de Paris
** H.G. Gadamer, Verità e metodo, op. cit., p. XXX
retro di cover della Antologia n. 2 della Poetry kitchen
Terza versione:
La versione proposta da Lucio Tosi mi sembra un po’ minimal…
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La 3a versione del retro di cover della Antologia n. 2 della Poetry kitchen che Giorgio Linguaglossa propone mi sembra completa in tutti i suoi passaggi; di particolare interesse per la carica di pro-vocazione che esso contiene è questo passaggio, passaggio in cui la meditazione linguaglossiana ha il mio pieno consenso e nel quale io mi rispecchio totalmente, ossia: “La «nuova poesia» scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate e delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli ibridi e raffreddati, dal senso chiaro e distinto dai quali però i significati sembrano essersi volatilizzati.”
Concordo pienamente con Giorgio Linguaglossa perché io credo che la nostra proposta di una nuova ontologia-poetry kitchen implichi la petizione di una nuova idea del tempo, dello spazio, della vita psichica, della vita erotica, dell’esistenza e della storia; implica, cioè, la petizione di una nuova esperienza del vivere e dell’agire, hic et nunc, nel tempo.
La petizione della poetry-kitchen è, e dovrà continuare a essere, la petizione per “nuovi” cittadini e per “nuove” leggi, vale a dire che la poetry kitchen deve e dovrà avere la forza di essere la petizione per una “nuova” polis.
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Risposta di Vincenzo Aveta
Caro Giorgio,
eccomi di nuovo a scrivere che non riesco a venire a Roma, il problema è se mai il ritorno la sera. Dà un po’ fastidio sia a Termini che a Napoli Centrale, la viabilità per tornare a casa è pessima. Aggiungo anche però che è un po’ di tempo che non sono per nulla incline a spostamenti, anche brevi. Passerà presto e comunque una mattina ti chiamo e vengo a Roma. Devo anche andare dagli amici di Progetto Cultura, è da tempo che sto rinviando ma devo farlo.
E’ un periodo che mi stanco di scrivere che mi sembra inutile,quand’anche scrivessi cose bellissime e ineffabili mi chiedo a che serve, che sia superfluo, non so. Si continuo a scrivere ed a comporre, forse è solo che non riesco a scrivere ciò che vorrei e nel modo che vorrei. Talvolta lo attribuisco alle condizioni contingenti che reputo aberranti come per tante altre moltitudini però vivendo lavorando qui a Napoli Nord la vita quotidiana è una vera impresa.
Leggo con la consueta attenzione l’Ombra e sempre più vi ritrovo una essenza comune, rileggo invariabilmente come fosse un dovere curativo, nel senso che Heiddeger da alla cura della mente. Ha la medesima importanza, e ovviamente di più, del nutrirsi quotidiano, o della igiene e della cura della vita in generale. Qualche giorno fa riflettevo sul Tuo Uccelli (1992). Più leggo e rileggo e più mi pare di scovare un cifrario segreto che ancora mi riesce arcano a disvelare…….e dopo tanti anni.. Resto pienamente convinto di quanto Tu scrivi alla domanda di Bettarini, sull’Ombra del 6 febbraio, ed il relativo commento a Cucchi, leggo anche il seguito di Simone Carunchio ed anche oltre le risposte di Intini e Temporelli.
Si, la confusione è pressoché dilagante (mi pare di averne fatto cenno in qualche corrispondenza passata).
Comprendo l’interrogativo posto ed anche la qualità che la risposta richiede. Si deve essere per forza «si,si o no,no». Una sorta di AUT AUT,insomma.
Non so se ci è concesso di segnare o ritardare la lettura del poeta o della poesia che attendiamo, della parola nuova che ci porterà. Come se ancora non nati o ancora non apparsi. Magari son già qui entrambi e noi non abbiamo ancora strumenti adatti per la comprensione di un repertorio salvifico. Mi vendono in mente le “domande” di _Matteo l’evangelista, con la dovuta equidistanza per carità:
• Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?
• Che cosa siete andati a contemplare nel deserto?
Oppure quelle non meno dense che troviamo in Marco, Luca:
• Voi chi dite ch’io sia ?
Forse si approssima un tempo, una condizione di coscienza in cui… anche i morti morranno nuovamente, usando le parole di Sgalambro.
E potremmo continuare tenendo presente che in fondo la parola, anche quella poetica, è il legante della comunità linguistica come Tu affermi, anche se credo che la parola poetica ha visto, o subìto, molte trasformazioni nel corso dei millenni, e non tutte generose, naturali od in qualche modo dovute. Sono d’accordo con te. Ma allora la poesia è la linfa vitale che scorre in tutto ciò che vive.
«Comunità linguistica» è espressione di Husserl, egli cerca di definire il “primato dell’adesso” che può condurre alla definizione del “concetto” di verità e senso, qualsiasi valenza ad esso si possa attribuire.
La “parola” annichilisce laddove ci focalizziamo sulla sua struttura fonetica e sensibile ma quando avanziamo verso la sua comprensione essa comunica il suo contenuto a prescindere dalla presenza o assenza di qualcuno. L’interiorità della espressione perciò non può coincidere con la sua funzione di manifestazione. E dunque abbiamo secondo il nostro filosofo la coscienza con se stesso dell’adesso attuale. (Se è così traducibile dal tedesco. Sic!).
Ma c’è sempre il problema del «nulla». Esso consiste in uno speciale oggetto metafisico. Su cui è ancora da definirsi tutta l’ontologia. Oggetto trascurato persino dalla scienza (che sembra ad oggi tutto possa e per converso ogni scienziato,onnipotente. Ahimè.). Ovviamente l’ammissione formale del nulla metafisico comporterebbe non pochi rischi per i signori del pensiero. Che si credono tali. Ed invece rappresenta il conflitto dei conflitti, tant’è che l’umana corsa sembra andare nella direzione di riempire i nostri nulla. Corsa talora spasmodica, compulsiva, in tutti gli ambiti dalle religioni alle arti, nel pensiero pratico che quello riflessivo.
Le povere poche cose le ho scritte nelle prime paginette del volumetto che ti mando.
Anche Goethe interviene quando scrive che i nostri pensieri sono già stati pensati, a noi occorre solo ripensarli.
Affermazione in cui credo sì, ma non per questo vuol dire che non sarà il futuro. Il Cogito ergo sum varia e diventa Cogito ergo fui !!! Ma è tutto un idillio del cogitare dell’esse,: Cogitamus ergo nos fuimus, vos fuistis.. e così via. Il sum che è irregolare e che ha una coniugazione totalmente differente da ogni altro verbo latino. Sembra un gioco. E forse lo è veramente.
Per ora ti lascio e ti abbraccio nella speranza che Tu possa dedicare un po’ di tempo alla lettura delle paginette che ho scritto, e che qualcuno ha apostrofato come mio testamento, di mandarmi il Tuo pensiero a riguardo che sei unico nel quale credo.
(Vincenzo Aveta)
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Un elemento che contraddistingue la poesia e l’arte kitchen è che esse hanno derubricato l’«identità» dell’opera, e quindi dell’autore. In virtù di ciò l’opera non sarà più contraddistinta dalla «identità forte» che ha contrassegnato il novecento modernistico (che ha coinvolto sia le avanguardie che le post-avanguardie che le retroguardie in pari misura), e questo qualcosa dovrà pur dire. L’«identità» è indispensabile per rimettere ordine nel mondo, ma quando il mondo non è più recuperabile in un ordo e in una ratio, ecco che non è più utile ricorrere ad una poiesis della «identità», anzi, l’opera sarà tanto più attuale in quanto inattuale, in quanto non più «identitaria».
E questo è un effetto, vistoso, della fine della metafisica, con tutti i suoi annessi e connessi.
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siamo tutti uomini e donne post-metafisici, tutti ammalati di serendipicità, tutti altranei e ultronei, tutti affetti da incomunicabilità, tutti affollati nella follia.
Il testo del retro di cover della prossima Antologia, mi sembra adesso perfetto. È una provocazione intellettuale e, insieme, traccia una direzione, un sentiero lungo il quale indirizzare la ricerca poetica. Occorre ripartire da poetesse di livello europeo come quelle citate di Gino Rago: Ewa Lipska e Maria Rosaria Madonna, nelle loro poesie ci sono, in miniatura, tutte le questioni che un poeta di oggi dovrebbe affrontare. E se non affronta quei nodi, farà poesia secondaria e terziaria…
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Eppure ho letto e riletto le poesie delle due poetesse, la Madonna e la Lipska che sono attraenti e degne di grande attenzione…
Eppure qualcuno o qualcosa mi dice che sono all’esterno della POESIA, che ancora non sono il centro, di cui ne raccontono le periferie, le descrivono, ma non sono il centro… eppure sono grandi poetesse non c’è dubbio… ma cosa manca allora?
Che siano già oltre la fine che io non vedo? O che troppo vedendo smarrisco la visione?
E’ finita l’epoca della Poesia come Finzione, e il poeta non è più il fingitore… si può fingere l’eternità (il Tempo) o l’immortalità (la perdita del corpo o la sua conferma), certamente non si può fingere lo Spazio: cosa concreta che si tocca.
E allora la Poesia deve iniziare di nuovo dallo Spazio: non vedo altro se non quello che posso vedere e ciò che non è osservabile non mi interessa fintanto non diviene osservabile.
La Poesia è una cosa concreta e non ha bisogno di metafisica e di storia. Infatti quelle due poetesse scrivono la Storia, la romanza, non la cronaca: cioè la Poesia come è e npn come si presenta.
ma basta… a. s.
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Maria Rosaria Madonna scrive le poesie «inedite» intorno al 2001-1002, fino a pochi giorni prima della sua improvvisa dipartita nel 2002. In queste poesie appare evidente il «nuovo paradigma» messo in piedi dalla poetessa siciliana. Madonna impiega un antichissimo dispositivo retorico: lo scambio tra l’astratto e il concreto, lo modernizza introducendovi un ulteriore elemento: lo spaesamento (o straniamento) secondo il quale l’astratto e il concreto vengono posti su uno stesso piano; la conflittualità semantica che ne deriva contrassegna l’equivalenza come non-equivalenza e la conflittualità semantica come autocontraddittorietà interna delle cose, delle persone, delle immagini.
Un altro dispositivo impiegato da Madonna è il «significante fluttuante o vuoto», che Levi Strauss aveva definito come «eccesso della significazione sulla denotazione», cioè come non corrispondenza tra il denotatum, il significato e il significante, ragione che determina un «eccesso» di significante che resta «inoperoso», cioè libero in quanto non compiutamente esaurito in alcun denotatum. Questo «eccesso» del significante residuo è libero così di aderire ad altri denotatum, questa divaricazione dal denotatum mantiene in vita una parte del significante, il cosiddetto «significante fluttuante» che, in quanto «libero» e in quanto «eccedente», può andare alla deriva, ovvero, alla ricerca di un altro denotatum su cui aderire (senza peraltro mai giungere ad una adesione completa che arresterebbe il processo della costante fluttuazione del significante).
Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il lettore leggendo una poesia di Madonna si chiede: ma di che si tratta in questa poesia?, infatti nelle poesie di Madonna non si dà quasi mai una tematica, un tema, un oggetto identificabili, il denotatum sembra essersi liberato dal suo corrispondente linguistico, il lessico sembra straniato, spostato rispetto al referente, che viene continuamente inseguito da un significante flutuante (vuoto) che cambia d’abito, muta di continuo il suo vestito linguistico; di conseguenza, il denotatum non viene mai completamente raggiunto, non viene mai esplicitato, compiuto, e quindi la significazione si pone in un continuo «fluttuare» in un «vuoto» significazionale dove l’«eccedente» è dato da ciò che è mutante, le metafore «giocano» con le metonimie e, insieme, collassano. La successione delle metafore ha qualcosa di temporaneo, come se le singole metafore non fossero in grado di indicare il denotatum, il tema, l’oggetto.
In questa «sospensione» continua tra la metafora e la metonimia, il «significante eccedente» rimbalza da una metafora all’altra determinando una nuova fenomenologia del poetico; la grande abilità di Madonna sta nel saper mantenere questa «sospensione» in una sorta di vuoto semantico.
Il verso:
Il buio chiede udienza alla notte daltonica
è un esempio, tra i tanti, di questa procedura di Madonna che sembra preludere alla pratica kitchen di oggi, questa «sospensione del significante eccedente» si presenta come una comunissima «potenza» del dire, capace di un uso libero, spregiudicato e gratuito del tempo, dello spazio, delle persone e del mondo. Si tratta di un «abitare» un luogo «inoperoso», «gratuito» in cui le cose ci sono ma galleggiano in un «vuoto» ontologico e semantico caratterizzato dalla indecidibilità e indeterminabilità del lessico impiegato.
Siamo molto lontani dalla procedura del primo Montale il quale si muove su un lessico stabile già stabilizzato dalla tradizione letteraria. Madonna non ha alcuna tradizione letteraria alle spalle su cui fare riferimento, né ha alcun linguaggio poetico sul quale ribasare il proprio, la poetessa siciliana intuisce che siamo «fuori» della tradizione e «fuori» della «storia», che la nuova poesia sarà costretta a muoversi nell’ordine della «storialità» e dovrà necessariamente inventarsi il proprio linguaggio su nuovi presupposti, ovvero, sul presupposto che un linguaggio riposa sempre su un precedente e che il linguaggio, ogni linguaggio, è sufficiente a giustificare se stesso senza l’ausilio di alcuna «tradizione». La poesia si trova ormai fuori dalla «storia» ed è approdata alla «storialità».
La fenomenologia del poetico di Madonna apre degli spazi di libertà e di gratuità, in quanto gli spazi semantici sono caratterizzati dalla «inoperosità» delle parole. Madonna non deve render conto a nessuno della propria libertà totale, e nel far questo mostra intuitivamente la illibertà dei discorsi normologizzati della poesia della tradizione novecentesca.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il lettore non sa, non riesce a capire che cosa leghi insieme la «bambina (che) corre dietro la sua ombra» con il «mare oleoso», le due immagini sembrano stranite e straniate, non legate da alcunché in comune, il legame stabilito da Madonna sembra arbitrario ma il lettore resta sempre incerto circa il dubbio in ordine alla presunta arbitrarietà di quelle immagini e del legame tra quelle immagini perché viene indotto a pensare la connessione straniante come esistente, e quindi come vera, necessitata, in quanto nominata dalla poetessa. C’è qui un cambio di paradigma di non poco conto: è l’Autore che decide ciò che è necessario e ciò che non lo è all’interno di un testo. E nessun altro.
Giorgio Agamben ne Il Regno e la Gloria (2007) chiarisce il concetto di paradigma della disattivazione come marca del punto in cui la lingua «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso – dove il soggetto poetico diventa quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile» (pp. 274-275).
«I poeti – afferma Agamben – devono innanzitutto abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi, per così dire, straniera la lingua che devono dominare, iscrivendola in un sistema di regole arbitrarie quanto inesorabili – straniera a tal punto, che secondo una tenace tradizione, non sono essi a parlare, ma un principio divino (la musa) che proferisce il poema a cui il poeta si limita a prestare la voce. L’appropriazione della lingua che essi perseguono è, cioè, nella stessa misura una espropriazione, in modo che l’atto poetico si presenta come un gesto bipolare, che si rende ogni voltaestraneo ciò che deve essere puntualmente appropriato.
(Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014 pp. 122).
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“siamo tutti uomini e donne post-metafisici, tutti ammalati di serendipicità, tutti altranei e ultronei, tutti affetti da incomunicabilità, tutti affollati nella follia.” (M. Colasson)
UN UOVO PER HIERONHIMUS
La produzione di emozioni si fermò per le sanzioni
Fondo monetario, BCE, nessuna copertura finanziaria.
E presto un parallelo dividerà le metafore del Nord da quelle Sud.
Alla voce Purgatorio il metano rimase sulle sue
Ripensò alle fiamme, vide le truppe degli arcangeli feriti
Gli artigli congelati nei fornelli, dappertutto schiuma da barba
E la vita impossibile nella ghisa.
Segno dei tempi anche questo stare allerti sul da farsi:
Ai barbieri occorre una rampa missilistica
E piazzare un rasoio è problema ONU.
L’Inferno ricominciò a cuocere nella lavastoviglie
A un grammo di sapone corrispondeva un cucchiaio di speranza
E lavaggio freddo per chi osava mettersi un piatto in faccia.
Vanno e vengono dai macellai. Dentro ai nervi una processione
Di pie donne con spezzatino di agnello.
Sovrasta l’ansia di trovare un posto per il potassio.
Nel cuore la tecnocrazia delle budella al sodio-peperoncino
PANTOFOLE ALLE MANI
Contare i denti, staccarle con il vapore
Incollare le parole a una tavola di francobolli.
C’è Rivera a far gustoso il gelato
E Riva che sgranocchia l’area di rigore.
A un gancio da KO,
palleggia il re di denari contro King Kong
Talvolta crolla l’ospedale di campo
perché il portiere devia la cannonata
e il pronto soccorso cattura un neutrone.
Da un summit di rondini venne fuori una decisione epocale
d’ora in avanti le partite si sarebbero spostate all’equatore
e dunque niente capovolgimento di fronte
gli gnu avrebbero battuto i coccodrilli
il definitivo suggello dell’aria sul nickel-ferro.
Si aspettava solamente che fiorissero i campanili
e le vecchie mansarde germinassero savane
Italia vince 5 a 4 la coppa Rimet
e i goal starnazzano nelle cialde di Città del Mexico
La guerra, quella imprecisa, è sotto rete
Tra scapoli e ammogliati, Orazi e Curiazi
Soccorre un arbitro con il gladio nel taschino:
c’è un ragno che consuma Litio
bisogna estrarlo prima che rovini nel trigemino.
Colpo di testa di Pelè. E a sei minuti dalla primavera
la controffensiva al pomodoro fresco.
(F.P.Intini)
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Uno scrittore un tempo mi diceva:
«i libri sono una cosa da ignorare e da pignorare, ma da lasciare al Banco dei Pegni per nullo valore… io, ad esempio sono un istrione, per dire, un intellettuale da salotto e mi nutro di non-violenza ma sono per la violenza, quella peggiore, che vuole affogare e incenerire i coraggiosi… inoltre sono scettico, integralmente scettico, e cinico, integralmente cinico, sono perfino buddista: non credo né in te né in noi né in me… mi sono vaccinato ma penso come un no-vax, ho la patente ma penso contro l’automobile, sono per la non-violenza dei vigliacchi ma sono per la violenza dei più forti… mi esalta la delazione, la fingardaggine dei fiancheggiatori, dei delatori e dei falsari, le contro-verità sono la mia moneta corrente, sono per le le isterie degli indignati che si indignano contro i poveri e si esaltano per gli straricchi. Sono un Robin Hood all’incontrario, voglio togliere ai poveri il maltolto per darlo ai ricchi… dico cose di ultra sinistra perché in cuor mio sono un vociferatore della destra più estrema e retrograda. C’è del fascino in tutto ciò, no?
Per tutte queste ragioni voto più a destra della Lega, più a destra di Fd’I».
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Esercizio di irrobustimento dello spirito.
Nonna ci dice: “Figli di cagna!”
La gente ci dice: “Figli di una Strega! Figli di puttana!”
Altri dicono: “Imbecilli! Mascalzoni! Mocciosi! Asini! Maiali! Porci! Canaglie! Carogne! Piccoli merdosi! Pendagli da forca! Razza di assassini!”
Quando sentiamo queste parole, il nostro volto diventa rosso, le orecchie ronzano, gli occhi bruciano, le ginocchia tremano.
Non vogliamo più arrossire né tremare, vogliamo abituarci alle ingiurie e alle parole che feriscono.
Ci sistemiamo al tavolo della cucina uno di fronte all’altro e, guardandoci negli occhi, ci diciamo delle parole sempre più atroci.
Uno: “Stronzo! Buco di culo!”
L’altro: “Vaffanculo! Bastardo!”
Continuiamo così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle nostre orecchie.
Ci esercitiamo in questo modo una mezz’ora circa ogni giorno, poi andiamo a passeggiare per le strade.
Facciamo in modo che la gente ci insulti e constatiamo che finalmente riusciamo a restare indifferenti.
Ma ci sono anche le parole antiche.
Nostra Madre ci diceva: “Tesori miei! Amori miei! Siete la mia gioia! Miei bimbi adorati!”
Quando ci ricordiamo di queste parole, i nostri occhi si riempiono di lacrime.
Queste parole dobbiamo dimenticarle, perché adesso nessuno ci dice parole simili e perché il ricordo che ne abbiamo è un peso troppo grosso da portare.
Allora ricominciamo il nostro esercizio in un altro modo:
Diciamo: “Tesori miei! Amori miei! Vi voglio bene… Non vi lascerò mai… Non vorrò bene che a voi… Sempre… Siete tutta la mia vita…”
a forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.
dal libro “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof
*
Esercizio di irrobustimento del corpo
Nonna ci picchia spesso, con le sue mani ossute, con una scopa o uno strofinaccio bagnato. Ci tira per le orecchie, ci agguanta per i capelli.
Altre persone ci danno anche dei ceffoni e dei calci, non sappiamo nemmeno perché.
I colpi fanno male e ci fanno piangere.
Le cadute, le sbucciature, i tagli, il lavoro, il freddo e il caldo sono ugualmente causa di sofferenza.
Decidiamo di irrobustire il nostro corpo per poter sopportare il dolore senza piangere.
Cominciamo con il darci l’un l’altro dei ceffoni, poi dei pugni. Vedendo il nostro volto tumefatto Nonna domanda:
– Chi vi ha fatto questo?
– Noi, Nonna.
– Vi siete picchiati? Perché?
– Per niente, Nonna. Non vi arrabbiate, è solo un esercizio.
– Un esercizio? Siete completamente suonati! Bah, se la cosa vi diverte…
Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo:
– Non fa male.
Colpiamo più forte, sempre più forte.
Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo:
– Non fa male.
Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre.
Non piangiamo più.
Quando Nonna è arrabbiata e grida, noi le diciamo:
– Smettetela di gridare, Nonna, picchiate invece!
Quando ci picchia, le diciamo:
– Ancora, nonna, ancora! Guardate, porgiamo l’altra guancia, com’è scritto nella Bibbia. Colpite anche l’altra guancia, Nonna.
Lei risponde:
– Andate al diavolo, voi, la vostra Bibbia e le vostre guance.
Esercizio di accattonaggio
Indossiamo abiti sporchi e laceri, ci togliamo le scarpe, ci sporchiamo la faccia e le mani. Andiamo in strada. Ci fermiamo, aspettiamo.
Quando un ufficiale straniero passa davanti a noi, alziamo il braccio destro per salutare e tendiamo la mano sinistra. Nella maggior parte dei casi l’ufficiale passa senza fermarsi, senza vederci, senza guardarci.
Finalmente un ufficiale si ferma. Dice qualcosa in una lingua che non capiamo. Ci fa delle domande. Non rispondiamo; restiamo immobili, un braccio alzato, l’altro teso in avanti. Allora fruga nelle tasche, posa una moneta e un pezzetto di cioccolato sul nostro palmo lercio e se ne va scotendo la testa.
Continuiamo ad aspettare.
Una donna passa. Tendiamo la mano. Lei dice:
– Poveri bambini. Non ho niente da darvi.
Ci accarezza i capelli.
Diciamo:
– Grazie.
Un’altra donna ci dà due mele, un’altra dei biscotti.
Una donna passa. Tendiamo la mano, lei ferma e dice:
– Non vi vergognate a chiedere l’elemosina? Venite da me, ci sono dei lavoretti facili per voi. Tagliare la legna, per esempio, o lucidare la terrazza. Siete abbastanza grandi e forti. Dopo, se lavorate bene, vi darò della minestra e del pane.
Rispondiamo:
– Non abbiamo voglia di lavorare per lei, signora. Non abbiamo voglia di mangiare la sua minestra né il suo pane. Non abbiamo fame.
Lei domanda:
– E allora perché chiedete l’elemosina?
– Per sapere che effetto fa e per osservare la reazione della gente.
Andandosene grida:
– Piccole sporche canaglie! Screanzati, fare queste cose!
Rientrando, gettiamo nell’erba alta che costeggia la strada le mele, i biscotti, il cioccolato e anche le monete.
La carezza sui capelli è impossibile gettarla.
Esercizio di cecità e sordità
Uno di noi fa il cieco, l’altro fa il sordo. Per allenarsi, all’inizio, il cieco si lega un fazzoletto nero di Nonna davanti agli occhi, il sordo si tappa le orecchie con dell’erba. Il fazzoletto puzza come Nonna.
Ci diamo la mano, andiamo a passeggio durante gli allarmi, quando la gente si chiude nelle cantine e le strade sono deserte.
Il sordo descrive quello che vede:
– La strada è lunga e dritta. È fiancheggiata da case basse, a un solo piano. Sono di colore bianco, grigio, rosa, giallo e blu. Alla fine della strada si vede un parco con degli alberi e una fontana. Il cielo è azzurro, con qualche nuvola bianca. Si vedono degli aerei. Cinque bombardieri. Volano bassi.
Il cieco parla lentamente, perché il sordo possa leggere sulle sue labbra.
– Sento gli aerei. Producono un rumore irregolare e profondo. Il loro motore fatica. Sono carichi di bombe. Ora sono passati. Sento di nuovo gli uccelli. Per il resto tutto è silenzioso.
Il sorde legge sulle labbra del cieco e risponde:
– Sì, la strada è vuota.
Il cieco dice:
– Non per molto. Sento dei passi che si avvicinano nella strada laterale, a sinistra.
Il sordo dice:
– Hai ragione. Ecco un uomo.
Il cieco domanda:
– Com’è?
Il sordo risponde:
– Come tutti gli altri. Povero, vecchio.
Il cieco dice:
– Lo so. Riconosco il passo dei vecchi. Sento anche che è a piedi nudi, quindi è povero.
Il sordo dice:
– È calvo. Ha una vecchia giacca dell’esercito. Ha dei pantaloni troppo corti. I suoi piedi sono sporchi.
– I suoi occhi?
– Non li vedo. Guarda per terra.
– La bocca?
– Labbra troppo incavate. Non deve avere più denti.
– Le mani?
– In tasca. Le tasche sono enormi e piene di qualcosa. Di patate, o di noci, che fanno delle piccole gobbe. Alza la testa e ci guarda. Ma non riesco a distinguere il colore dei suoi occhi.
– Non vedi nient’altro?
– Delle rughe, profonde come cicatrici, sul suo volto.
Il cieco dice:
Sento le sirene. È la fine dell’allarme. Rientriamo.
Dopo un po’ col tempo, non abbiamo più bisogno di un fazzoletto per gli occhi né di erba per le orecchie. Chi fa il cieco vota semplicemente lo sguardo verso l’interno, il sordo chiude le orecchie a tutti i rumori.
(Tratto da Trilogia della città di K., Einaudi 1998, edizione originale 1986, da Il grande quaderno, traduzione di Armando Marchi.)
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9 novembre 2019 alle 9:51
Lao Tzu scrive:
«La via è vuota, ma usandola, non si riempie».
C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano.
In tal modo, la poesia eleva alla estrema potenza il linguaggio: nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto.
Ma sovrano assoluto che regna in modo assoluto sulla soggettività, sull’io. Soltanto quando l’io si fa da parte, quando si depotenzia, la poesia può esercitare il suo potere dispositivo sulle parole.
Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa.
In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz o di Ágota Kristóf fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica). Entra da subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come essere nel mondo.
La linea interna delle cose è ben più importante della linea esterna di esse.
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Fare poesia secondo i principi della nuova ontologia estetica è altra cosa dal continuare a farla secondo le categorie della ontologia unidirezionale della poesia italiana e non solo italiana.
Era inevitabile che ciò si traducesse nella necessità dello spostamento della poiesis verso un nuovo paradigma.
Nella poesia in Europa verso un nuovissimo paradigma poche sono le esperienze poetiche post-metafisiche verso cui ho guardato e che ho inteso elencare con alcuni loro testi poetici esemplari.
Le perplessità che certe esclusioni di “grandi” poeti europei hanno suscitato in alcune lettrici e in qualche lettore de L’Ombra delle Parole nella mia risposta alla 2a domanda dell’Intervista non hanno in realtà nessun sostegno e sono anzi fuori luogo per la ragione semplice che le mie attenzioni le ho accese soltanto su alcuni importatissimi poeti del post-metafisico.
Jiménez, Guillén, Alberti, Mandel’stam, Cvetaeva, Achmatova, Sachs, Auden, Hughes, Heaney, Milosz, Zzymborska, gli stessi Brodskij e Celan non sono stati da me inclusi perché le loro, pur di elevatissimo valore, sono tutte poetiche del modernismo metafisico direi maturo.
Ha ragione pienamente Marie Laure Colasson con l’invito-comandamento della necessità di “ripartire da poetesse di livello europeo come quelle citate da Gino Rago: Ewa Lipska e Maria Rosaria Madonna, nelle loro poesie ci sono, in miniatura, tutte le questioni che un poeta di oggi dovrebbe affrontare. E se non affronta quei nodi, farà poesia secondaria e terziaria…”, cogliendo la questione direi epocale che nella 2a risposta della Intervista ho inteso mettere sul tappeto.
“La natura è troppo debole / per imitare le battaglie./
La poesia non muta nulla./ Nulla è sicuro, ma scrivi.”
Così Franco Fortini in Traducendo Brecht: fare poesia, scrivere, non con la illusione di poter mutare qualcosa, ma perché non si perda ciò che di certo contribuirà a un mutamento futuro, ma ripartendo da poiesis rivoluzionarie come quelle di Ewa Lipska e di Maria Rosaria Madonna.
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Quale èil compito della poesia…. ? (Rago)
—————————————————-
Cantare non la propria assenza, ma l’ASSENZA.
E come si può cantare questa assenza?
Restando muti.
Lasciare da parte le mani e gli occhi, e ….
——————————————————-
Da ieri i miei versi hanno il sapore acre della sentina
che sul corpo si decanta come un unto lenzuolo,
e le mani sono stirate e vuote come penne che non scrivono.
Non ho più una morte degna di vivere: non mi resta che dormire!
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UNA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI (1926-2018)
Il diritto e la religione sono nati per cercare di legare le parole alle cose, alla poiesis spetta storicamente il compito di scollegare i due terminali: le parole dalle cose.
Il primo autore che negli anni cinquanta attinge questo «scollegamento» è senza dubbio Alfredo De Palchi.
Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il frammento quale forma base della propria poesia è Alfredo De Palchi, con “Sessioni con l’analista” (1948-1966), pubblicata nel 1967, che ricomprende le poesie scritte dal 1944 sulle pareti della cella del penitenziario di Procida dove era rinchiuso il giovanissimo poeta con l’accusa infamante di omicidio per il quale fu condannato, con un processo farsa, in primo grado, all’ergastolo. Una esperienza che gli detterà la prima forma-frammento della poesia italiana del secondo Novecento, il cui libro verrà pubblicato ad opera di Sereni con la Mondadori nel 1967.
In quegli anni di disperata scrittura De Palchi scriverà “La buia danza di Scorpione” che poi uscirà, appunto, nel 1993 come sezione dell’opera dianzi citata, il primo e più compiuto esempio di disseminazione dei linguaggi e di frammentazione della forma-poesia.
De Palchi è il primo poeta italiano impegnato in un Cambio di paradigma della poesia italiana; la dizione indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza. L’espressione è stata coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera. La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.
Anche nella storia della letteratura, i nuovi paradigmi non piovono semplicemente dal cielo, il nuovo che voglia imporsi deve distaccarsi necessariamente dal vecchio per legittimarsi di fronte alla «tradizione», così ché, mediante un nuovo modo di considerare l’oggetto e il soggetto, si accede ad un nuovo concetto della forma-poesia. I più importanti mutamenti di paradigma nella storia della poesia italiana avvengono a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta; in questa accezione un libro come Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo De Palchi è un’opera chiave in anticipo con i tempi, tanto che l’opera non venne capita e recepita in Italia.
Il titolo di Paradigm (2001) dato all’opera poetica di Alfredo De Palchi voleva alludere proprio a quel cambiamento della forma-poesia italiana che la sua opera sottintendeva, in particolare il carattere pre-sperimentale della sua poesia che ha anticipato di un decennio lo sperimentalismo del Gruppo 63.
Nessuna certezza
dalla spiritualità arcaica del mare––
gesticolo le braccia al cielo che affonda
sbilanciato nei verdi avvallamenti
mutazione cosciente
vescica rovesciata metamorfosi
per un abisso d’alghe e pesci,
non mi differenzio––sono
l’escrescenza che si lavora in questa
epoca
e dovunque bocche di pesci
aguzze su altri pesci
il mare un vasto cratere
e fissi al remoto I pesci graffiti
non guizzano dove sradicato
il gabbiano è l’unica dimensione
conscia
dell’inarrivabile bagliore.
(primi anni del 1960)
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, ha vissuto a Manhattan, New York, dove ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007), ci ha lasciati nel 2017.
Il suo lavoro poetico conta sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese gran parte della poesia italiana contemporanea per riviste americane.
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La fine della poesia di accademia
È noto che la poesia italiana ed europea durante gli anni settanta ha subito l’invasione della vita privata e del quotidiano nella forma-poesia.
In Italia questa moda prende inizio con il libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975) e, successivamente, con il libro di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (1980). La versione storiografica accademica però trascura che negli anni novanta ci sono stati poeti che hanno seguito una via del tutto diversa: Giorgia Stecher (1936-1996) con Altre foto per Album (1996), Maria Rosaria Madonna con Stige (1992), Helle Busacca (1915-1996) con I quanti del suicidio (1973), Niente poesia da Babele (1980), Anna Ventura di cui si ricorda il volume delle Poesie scelte Tu quoque (2014) e Mario Lunetta (1934-2017) con una fluviale produzione poetica, narrativa e saggistica che lo contraddistinguerà come la punta di diamante della opposizione permanente alla deriva minimalista della poesia italiana.
In questi ultimi anni è diventato sempre più palese che quelle tematiche private e privatistiche si sono esaurite. È un dato storico sotto i nostri occhi. Rimane presso i continuatori di quella impostazione privatistica della poesia un intendimento situazionista e privatistico, una strategia posiziocentrica, sono rimaste per un po’ in vigore le tematiche moraleggianti e retrograde sub specie di riformismo orfico, un descrittivismo psicologico di matrice neo-verista, un ipersperimentalismo vacuo e vociferatore… ma, insomma, tutto sommato, tutte linee minoritarie di un modello di poesia già minoritaria ai suoi albori.
In questi ultimi cinque sei decenni la poesia italiana (ed europea) è diventata un microlinguaggio dichiarativo e panlogistico, un microlinguaggio narrazionale che si è ritirato in una nicchia, al riparo dei fortissimi e impetuosi venti che spirano in pianura e sulle montagne del mondo globalizzato.
Nel frattempo, si è avverato il monito di Adorno: «Tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura», dinanzi al quale anche la critica alla poesia e alla cultura italiane di Mario Lunetta è andata a sbattere contro un muro di gomma.
La critica della cultura è diventata un fuori contesto, la critica di un intellettuale isolato come quella di Mario Lunetta si è rivelata spuntata. La strategia della cultura necrofilizzata a vocazione maggioritaria è la strategia del padrone che mette la museruola al suo cane.
In questi ultimi anni, dicevo, è diventata sempre più palese una forte reazione a quella visione privatistica del privato e a quel minimalismo ingenuo. La nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, è la più drastica e convinta reazione a un indirizzo e a un versante della poesia italiana che ha ormai esaurito (semmai ce l’ha avuto) l’iniziale effetto propulsivo. Quell’indirizzo di poesia privatistica è andata a sbattere sul muro di gomma dell’«impenetrabile tediosità del quotidiano» (per usare la dizione di Agamben), oltre di esso non era possibile andare. Quel tipo di autobiografismo introspettivo e auto ironico è finito nella rigatteria delle istituzioni stilistiche, questo mi sembra lampante per chi abbia occhi e orecchie per intendere. Quell’autologia è finita nel tritacarne della «nuda vita», nella vita vegetativa delle nuove post-masse che si nutrono di ipoverità. Quell’autologia (nella poesia come nel romanzo nel cinema e nelle arti figurative) è finita nelle confezioni di ipoverità tra gli scaffali dei supermarket e nella insignificanza, nell’apologetica del tempo che fu e nell’apologia del corpo. Di tutta quella paccottiglia culturale oggi è rimasto un grande lago di narrazioni agiografiche e ipoveritative.
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Mario Lunetta sapeva benissimo che
«La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio» (mi autocito).
Oggi la «poesia» la decidono gli uffici stampa degli editori maggiori. La critica di poesia è sostanzialmente scomparsa; io stesso, non faccio certo critica, come si dice, testuale, invento di continuo un mio linguaggio eclettico, variegato e fibrillato (che oscilla dalla filosofia, alla moda, al lessico del politico, a quello della cronaca, a quello psicanalitico e ai linguaggi distrettuali) che altro non è che una propaggine della mia poesia e della poesia dei miei compagni di strada. Poesia ultronea e altranea. Ermeneutica ultronea e altranea. Tutto si può dire sul mio linguaggio critico di polistirolo e di polimeri concettuali tranne che sia un linguaggio da «critico letterario» intonso e incipriato e, ci tengo a precisarlo, il termine «critico letterario» oggi è talmente screditato da rasentare un disvalore semantico di offesa o, al minimo, di sufficienza e di irrisione.
Mario Lunetta ha fatto per decenni Opposizione, una opposizione dura, senza perifrasi, chiamando ripetutamente «delinquenti letterari» la cerchia dei letterati al potere. Non poteva essere più onomastico, al limite del codice penale. E gliela hanno fatta pagare.
Ma facendo opposizione permanente Mario Lunetta ha fatto anche poesia «impermanente» e impertinente, la sua è stata una poesia dell’opposizione permanente e impertinente alla mediocrità, alla corruzione e alla ipocrisia della poesia a vocazione totalitaria dominante in Italia.
Quello che noi tentiamo di fare non è una «poesia della Opposizione», il nostro intendimento è di fare una poesia dell’anti-governo, del governo-ombra, una vera e propria rivoluzione del modello-poesia, una rivoluzione che vada ben al di là degli steccati asfittici della poesia posiziocentrica e postruista che si fa oggi a Milano e a Roma e nelle provincie. Non ho mai condiviso l’ipotesi di una poesia dell’Opposizione, la poesia non si fa all’opposizione, propendo invece per una forma-poesia che vada da subito al cabinet della poesia italiana e lo faccia saltare dal basso verso l’alto con una carica di dinamite. Se stai all’opposizione per decenni è facile farti catalogare come oppositore permanente, come hanno fatto con Mario Lunetta, e così liquidarti. La strategia dell’Ombra è un’altra, è semplice, e lo dichiariamo con innocenza: far deflagrare la forma-poesia post-novecentista, sostituire alla asfittica poesia a vocazione totalitaria in vigore in Italia con una poesia di «questità di cose» irriconoscibile, infungibile e irriducibile ai canoni della poesia post-novecentista, postruista e fideista.
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Liberare la poesia è il primo passo per liberare e rinnovare la nostra forma-di-vita.
*
Leggere Lolita a Teheran
Mademoiselle Margot regala orchidee alle amiche
Madame Colasson si mette in viaggio con Godot
Le Signore portano un cappellino con il velo blu
I Signori assomigliano a tanti Barbablu
Gli anziani fanno sogni orrendi per questo dormono poco
Greta Garbo si alza presto perché vuole vedere l’erba sotto le pietre
Il curato di campagna vuole salvarsi l’anima
Mangia agretti passati in padella prima di dire la messa ad Anagni
Umberto Eco va a leggere Lolita a Teheran
Tommaso Landolfi gioca a poker fino all’alba
La maga Circe licenzia Ulisse perché dà le sue perle ai porci
Penelope litiga con Omero e scappa dall’Odissea
Le Sirene dell’Odissea tengono concerti a Roma
Nausicaa fa la danza del ventre all’Auditorium sulla Flaminia
In un locale notturno a fianco al Teatro Brancaccio
Il critico Linguaglossa offre un bicchierino di cognac a Marcel Proust
Gli dice: «basta con questa ricerca del tempo perduto
Qui siamo nella rivoluzione dell’Infosfera!»
(Inedita, 2023)
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Necessità di una nota.
Il distico:
Gli dice: «basta con questa ricerca del tempo perduto
Qui siamo nella rivoluzione dell’Infosfera!»
trova la sua giustificazione nel libro di Luciano Floridi imperniato proprio sulla Infosfera, indagata sotto svariati punti di vista, fra i quali quelli del rapporto fra Etica e Politica, partendo dai lavori di Alan Turing.
Luciano Floridi, in “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo”, (Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, pp. 304, 24 euro), riconosce che la «quarta rivoluzione» nasce con Alan Turing e nel suo libro scrive: «A partire dal lavoro rivoluzionario di Turing, l’informatica e le ICT hanno iniziato a esercitare un impatto sia estroverso sia introverso sulla nostra comprensione. E ci hanno dotato di conoscenze scientifiche senza precedenti sulla realtà naturale e artificiale, nonché della capacità di operare su tali realtà.
[…] Al pari delle tre precedenti, la quarta rivoluzione ha rimosso l’erroneo convincimento della nostra unicità e ci ha offerto gli strumenti concettuali per ripensare la nostra comprensione di noi stessi. […] siamo organismi informazionali (inforg), reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale (l’infosfera), che condividiamo con altri agenti informazionali, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo» (p.106).
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