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Ilya Kaminsky è nato nel 1977 ed è cresciuto a Odessa, in Ucraina, All’età di quattro anni, ha perso la maggior parte del suo udito dopo una diagnosi errata. La sua famiglia ha ricevuto asilo dal governo degli Stati Uniti nel 1993, ha pubblicato Deaf Republic (Graywolf Press, 2019), Il suo libro d’esordio, Dancing in Odessa è del 2004, A leggerlo oggi sembra la prefigurazione di ciò che avverrà il 24 febbraio 2022, viene narrata una terra desolata viene bombardata e invasa da un esercito straniero e della strenua resistenza armata di un intero popolo… a cura di Giorgio Linguaglossa

Ucraina

Repubblica sorda di  Ilya Kaminsky è ambientato in un paese occupato, scosso da disordini politici. Quando i soldati intervenuti a sedare una protesta uccidono un ragazzo sordo, Petya, quello sparo omicida è l’ultimo suono udito dagli abitanti: sono diventati tutti sordi, e il loro dissenso corre ora attraverso il linguaggio dei segni. Le vite private dei cittadini si intrecciano con la violenza pubblica che li circonda: una coppia di sposi novelli, Alfonso e Sonya, in attesa di un figlio, la sfacciata Momma Galya, che istiga l’insurrezione dal suo teatro di burattini, e le ragazze di Galya, che insegnano giorno e notte la lingua dei ribelli, attirando i soldati dietro le quinte per eliminarli uno a uno. Premiato in tutto il mondo, Repubblica sorda è al tempo stesso una storia d’amore, un potente racconto in versi e una sfida aperta al silenzio di tutti noi di fronte alle atrocità del nostro tempo.

Nato il 18 aprile 1977, Ilya Kaminsky è cresciuto a Odessa, in Ucraina, nell’ex Unione Sovietica. All’età di quattro anni, ha perso la maggior parte del suo udito dopo una diagnosi errata. La sua famiglia ha ricevuto asilo dal governo degli Stati Uniti nel 1993. Ha conseguito la laurea presso la Georgetown University e ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università della California, Hastings College of Law.

Kaminsky è l’autore di Deaf Republic (Graywolf Press, 2019), vincitore dell’Anisfield-Wolf e del LA Times Book Awards e finalista per il National Book Award, il National Book Critics Circle Award e il TS Eliot Prize; Dancing in Odessa (Tupelo Press, 2004), che ha ricevuto numerosi premi tra cui il Dorset Prize e l’American Academy of Arts and Letters Metcalf Award; e Musica Humana (Chapiteau Press, 2002).

L’American Academy of Arts and Letters ha descritto le sue poesie come “una controparte letteraria di Chagall in cui le leggi di gravità sono state sospese e i colori riassegnati, ma solo per rendere la realtà quotidiana molto più indelebile”.

I premi e gli onori di Kaminsky includono la Lannan Literary Fellowship, il Whiting Writers’ Award, la Ruth Lilly Poetry Fellowship, il ForeWord Magazine Book of the Year Award in Poetry e una Creative Writing Fellowship 2019 del National Endowment for the Arts. Nel 2019, ha ricevuto l’Academy of American Poets Fellowship, che riconosce il successo poetico distinto.

Oltre ai suoi scritti, Kaminsky è anche editore e traduttore di molti altri libri, tra cui Dark Elderberry Branch: Poems of Marina Cvetaeva (Alice James Books, 2012) e The Ecco Anthology of International Poetry (Harper Collins, 2010).

Alla fine degli anni ’90 ha co-fondato Poets For Peace, un’organizzazione che sponsorizza letture di poesie negli Stati Uniti e all’estero. Ha anche insegnato alla San Diego State University e ha lavorato come impiegato legale presso il National Immigration Law Center e presso il Bay Area Legal Aid, aiutando i poveri e i senzatetto a superare le loro difficoltà legali. Detiene la cattedra Margaret T. e Henry C. Bourne Jr in Poetry e dirige il programma Poetry@Tech presso Georgia Tech, e sarà l’editore ospite per Poem-a-Day nel dicembre 2021.

Il suo libro d’esordio, Dancing in Odessa (2004), è stato pubblicato negli Stati Uniti da Tupelo Press. Presentiamo la poesia che dà il titolo al libro.

Ilya Kaminsky reads his poem “We Lived Happily During the War”

.

Dancing in Odessa

We lived north of the future, days opened
letters with a child’s signature, a raspberry, a page of sky.

My grandmother threw tomatoes
from her balcony, she pulled imagination like a blanket
over my head. I painted
my mother’s face. She understood
loneliness, hid the dead in the earth like partisans.

The night undressed us (I counted
its pulse) my mother danced, she filled the past
with peaches, casseroles. At this, my doctor laughed, his granddaughter
touched my eyelid—I kissed

the back of her knee. The city trembled,
a ghost-ship setting sail.
And my classmate invented twenty names for Jew.
He was an angel, he had no name,
we wrestled, yes. My grandfathers fought

the German tanks on tractors, I kept a suitcase full
of Brodsky’s poems. The city trembled,
a ghost-ship setting sail.
At night, I woke to whisper: yes, we lived.
We lived, yes, don’t say it was a dream.

At the local factory, my father
took a handful of snow, put it in my mouth.
The sun began a routine narration,
whitening their bodies: mother, father dancing, moving
as the darkness spoke behind them.
It was April. The sun washed the balconies, April.

I retell the story the light etches
into my hand: Little book, go to the city without me.

Ballando a Odessa

Vivevamo a nord del futuro, i giorni aprivano
lettere con la firma di un bambino, un lampone, una pagina di cielo.

Mia nonna gettava pomodori
dal terrazzo, lei svolgeva la fantasia come una coperta
sulla mia testa. Io dipingevo
il volto di mia madre. Lei capiva
la solitudine, nascondeva i morti in terra come partigiani.

La notte ci spogliò (contai
i suoi battiti) mia madre ballava, colmava il passato
di pesche, casseruole. Per questo il mio dottore rise, sua nipote
mi sfiorò le palpebre – io baciai

il dietro del ginocchio. La città tremò,
una nave fantasma che salpa.
E il mio compagno di classe inventò venti nomi per dire Ebreo.
Era un angelo, non aveva nome,
lottavamo, sì. Mio nonno combattè

i carri armati tedeschi con i trattori, portavo una valigia piena
di poesie di Brodsky. La città tremò,
una nave fantasma che salpa.
A notte, mi svegliai per sussurrare: sì, vivevamo.
Vivevamo, sì, non dire che era un sogno.

Nella locale fabbrica mio padre
raccolse una manciata di neve, me la mise in bocca.
Il sole iniziò il suo racconto abituale,
illuminando i loro corpi: madre, padre che danzavano,che si muovevano
mentre il buio parlava dietro di loro.
Era aprile. Il sole lavava i terrazzi, aprile.

Io ripeto il racconto che la luce incide
nella mia mano: Piccolo libro, vai nella città senza di me.

guerra ucraina
from Deaf Republic

And when they bombed other people’s houses, we
protested
but not enough, we opposed them but not
enough. I was
in my bed, around my bed America
was falling: invisible house by invisible house by invisible house.
I took a chair outside and watched the sun.
In the sixth month
of a disastrous reign in the house of money
in the street of money in the city of money in the country of money,
our great country of money, we (forgive us)
lived happily during the war.

*
E quando hanno bombardato le case di altre persone, noi

protestammo
ma non abbastanza, ci siamo opposti ma non

abbastanza. Io ero
nel mio letto, intorno al mio letto l’America

stava cadendo: casa invisibile per casa invisibile per casa invisibile.
Ho preso una sedia fuori e ho guardato il sole.

Nel sesto mese
di un regno disastroso nella casa del denaro

nella strada del denaro nella città del denaro nel paese del denaro,
il nostro grande paese di soldi, noi (perdonaci)

vivemmo felicemente durante la guerra.

*

Our country is the stage.

When soldiers march into town, public assemblies are officially prohibited. But today, neighbors flock to the piano music from Sonya and Alfonso’s puppet show in Central Square. Some of us have climbed up into trees, others hide behind benches and telegraph poles.

When Petya, the deaf boy in the front row, sneezes, the sergeant puppet collapses, shrieking. He stands up again, snorts, shakes his fist at the laughing audience.
An army jeep swerves into the square, disgorging its own Sergeant.
Disperse immediately!
Disperse immediately! the puppet mimics in a wooden falsetto.
Everyone freezes except Petya, who keeps giggling. Someone claps a hand over his mouth. The Sergeant turns toward the boy, raising his finger.
You!
You! the puppet raises a finger.
Sonya watches her puppet, the puppet watches the Sergeant, the Sergeant watches Sonya and Alfonso, but the rest of us watch Petya lean back, gather all the spit in his throat, and launch it at the Sergeant.

The sound we do not hear lifts the gulls off the water.

*

Il nostro paese è il palcoscenico.
Quando i soldati marciano in città, gli assembramenti pubblici sono ufficialmente proibiti. Ma oggi i vicini affollano la musica per pianoforte dello spettacolo di marionette di Sonya e Alfonso nella piazza centrale. Alcuni di noi si sono arrampicati sugli alberi, altri si nascondono dietro panchine e pali del telegrafo.
Quando Petya, il ragazzo sordo in prima fila, starnutisce, il burattino sergente crolla, strillando. Si alza di nuovo, sbuffa, agita il pugno verso il pubblico che ride.
Una jeep dell’esercito sbanda nella piazza, vomitando il proprio sergente.
Disperdetevi immediatamente!
Disperdetevi immediatamente! il burattino mima in falsetto di legno.
Tutti si bloccano tranne Petya, che continua a ridacchiare. Qualcuno gli mette una mano sulla bocca. Il sergente si volta verso il ragazzo, alzando il dito.
Voi!
Voi! il burattino alza un dito.
Sonya guarda il suo burattino, il burattino guarda il sergente, il sergente guarda Sonya e Alfonso, ma il resto di noi guarda Petya appoggiarsi all’indietro, raccogliere tutto lo sputo in gola e lanciarlo contro il sergente.
Il suono che non sentiamo solleva i gabbiani dall’acqua.

Ucraina_esplosioni
from Deaf Republic:

1.

Such is the story made of stubbornness and a little air,
a story sung by those who danced before the Lord in quiet.
Who whirled and leapt. Giving voice to consonants that rise
with no protection but each other’s ears.
We are on our bellies in this silence, Lord.

Let us wash our faces in the wind and forget the strict shapes of affection.
Let the pregnant woman hold something of clay in her hand.
For the secret of patience is his wife’s patience
Let her man kneel on the roof, clearing his throat,
he who loved roofs, tonight and tonight, making love to her and her forgetting,
a man with a fast heartbeat, a woman dancing with a broom, uneven breath.
Let them borrow the light from the blind.
Let them kiss your forehead, approached from every angle.
What is silence? Something of the sky in us.
There will be evidence, there will be evidence.
Let them speak of air and its necessities. Whatever they will open, will open.

*
da Repubblica dei Sordi:

1.

Tale è la storia fatta di testardaggine e un po’ d’aria,
una storia cantata da coloro che hanno danzato in silenzio davanti al Signore.
Chi si voltò e saltò. Dando voce a consonanti che salgono
senza protezione se non le orecchie dell’altro.
Siamo sulle nostre pance in questo silenzio, Signore.

Laviamoci la faccia al vento e dimentichiamo le rigide forme dell’affetto.
Lascia che la donna incinta tenga in mano qualcosa di argilla.
Perché il segreto della pazienza è la pazienza di sua moglie
Lascia che il suo uomo si inginocchi sul tetto, schiarendosi la gola,
lui che amava i tetti, stanotte e stanotte, facendo l’amore con lei e dimenticandola,
un uomo con un battito cardiaco accelerato, una donna che balla con una scopa, alito irregolare.
Lascia che prendano in prestito la luce dai ciechi.
Lascia che ti bacino sulla fronte, avvicinati da ogni angolazione.
Che cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi.
Ci saranno prove, ci saranno prove.
Lasciamo che parlino dell’aria e delle sue necessità. Qualunque cosa apriranno, si aprirà.

10.

I kissed a woman

whose freckles
aroused our neighbors.

Her trembling lips
meant come to bed.
Her hair falling down in the middle

of the conversation
meant come to bed.
I walked in my hospital of thoughts.

Yes, I carried her off to bed
on the chair of my
hairy arms. But parted lips

meant kiss my parted lips,
I read those lips
without understanding

soft lips meant
kiss my soft lips.
Such is a silence

of a woman who
speaks against silence, knowing
silence is what

moves us to speak.

*

ho baciato una donna
le cui lentiggini
hanno eccitato i nostri vicini.

Le sue labbra tremanti
volevano dire di venire a letto.
I suoi capelli che cadono nel mezzo

della conversazione
volevano dire ci venire a letto.
Ho camminato nel mio ospedale dei pensieri.

Sì, l’ho portata a letto
sulla sedia delle mie
braccia pelose. Ma le labbra socchiuse

volevano baciare le mie labbra dischiuse,
ho letto quelle labbra
senza capire

cosa significassero quelle labbra morbide
che baciano le mie labbra morbide.
Tale è il silenzio

di una donna che
parla contro il silenzio, sapendo
che il silenzio è ciò che

ci spinge a parlare.

Marie Laure Colasson Struttura 30x30, 2020

Marie Laure Colasson, Fire, Dissipativ Structure, acrilic, 30×30, 2021 –
il loro appartamento tranquillo, per terra, acqua sporca dai loro stivali.

.

11.

It is December 8 and my brother Tony was killed by the soldiers. December 8 and the police are reopening the Southern Trolleyways. December 8 when my wife lifts Tony’s body from the ground, his arm tied over her shoulder—her face is damp, her hair dirty. And the soldiers unveil the damn Trolleyways, and I stand feeling (a quick march of bumps across my back and thighs) nothing.

When she comes home, I run a bath for Sonya and wash her hair, gently mixing the finest of my brother’s shampoos with quiet precision, while Sonya cries and cries.

*

È l’8 dicembre e mio fratello Tony è stato ucciso dai soldati. L’8 dicembre la polizia sta riaprendo la Southern Trolleyways. L’8 dicembre, quando mia moglie solleva il corpo di Tony da terra, il suo braccio legato sulla sua spalla – il suo viso è umido, i suoi capelli sporchi. E i soldati svelano i maledetti Trolleyways, e io sto in piedi senza sentire (una rapida marcia di colpi sulla schiena e sulle cosce) niente.

Quando lei torna a casa, preparo un bagno per Sonya e le lavo i capelli, mescolando delicatamente i migliori shampoo di mio fratello con silenziosa precisione, mentre Sonya piange e piange.

12.

remember Tony arguing in front of his mirrors, the soldiers
were painting the trees, Tony sat

on the floor of white hair, and all the trees were
painted white. And he spat at Alfonso’s irony, but when

they played accordion, the fourth among us had no name.
“I am not sleeping with Tony! He simply cuts my hair!”

—but our dinner is a tiny blue fish and, with my lean brother-in-law,
we are playing cards. I pull spade after spade after spade but

this skinny sparrow, this barber no simple soul, takes me
with his fingers by my nose and kisses me, quickly, on the lips!

When Tony washed my hair, when Alfonso
kissed between my toes, when my lips

trembled, when the fourth one laughed, when Tony slept, slept in the earth,
on the empty streets of our district, a bit of wind

called for the life which no one knew, a life
which daily took all of us: my neighbor

taken, his wife taken, their apartment quiet.
I say this slowly, as if unaffected:

their apartment quiet, on the floor, dirty water from their boots.

*
ricorda Tony che litiga davanti ai suoi specchi, i soldati
stavano dipingendo gli alberi, Tony si sedette

sul pavimento di capelli bianchi, e tutti gli alberi erano
verniciato bianco. E sputò sull’ironia di Alfonso, ma quando

suonavano la fisarmonica, il quarto di noi non aveva nome.
“Non vado a letto con Tony! Mi taglia semplicemente i capelli!”

-ma la nostra cena è un pesciolino azzurro e, con il mio magro cognato,
stiamo giocando a carte. Tiro spade dopo spade dopo spade ma

questo passero magro, questo barbiere non semplice anima, mi prende
con le sue dita sul mio naso e mi bacia, velocemente, sulle labbra!

Quando Tony mi lavò i capelli, quando Alfonso
mi baciò tra le dita dei piedi, quando le mie labbra

tremarono, quando il quarto rideva, quando Tony dormiva, dormiva nella terra,
per le strade vuote del nostro quartiere, un po’ di vento

chiamato per la vita che nessuno conosceva, una vita
che ogni giorno ci prendeva tutti: il mio vicino

presa, sua moglie presa, il loro appartamento tranquillo.
Lo dico lentamente, come se fossi indifferente:

il loro appartamento tranquillo, per terra, acqua sporca dai loro stivali.

Ucraina 2

13.

Love cities, this is what my brother taught me

as he cut soldiers’ hair, then tidied tomatoes

watching Sonya and I dance on a soapy floor—
I open the window, say in a low voice, my brother.

The voice I do not hear when I speak to myself is the clearest voice.
But the sky was all around us once.

We played chess with empty matchboxes,
he wrote love letters to my wife

and ran outside and ran back, yelling to her, “You! Mail has arrived!”

Brother of a waltzing husband, barber of a waltzing wife

(I do not speak, you do not speak, we
do not speak, we do not speak, we do not)

waltzing away from himself
on Vasenka’s warm bricks —

he blessed us with his loneliness, a light winged being.
“Your legs stick out of your trousers too much!”

— Tony, yell at me. I need propping up

in this hairy leg business. A man on earth escapes and runs and yells and stands in silence-silence

which is a soul’s noise.
At the funeral I, embarrassed by resistance fighters

standing up to shake my hand, said
I wear your trousers, in the right hand pocket, a hole.

I wrap your hearing aids in this white t-shirt—

with brief gifts

you go my eye-green brother.
And I, a fool, live.

*
Amo le città, questo è quello che mi ha insegnato mio fratello

mentre tagliava i capelli dei soldati, poi riordinava i pomodori

guardando Sonya e io ballo su un pavimento insaponato —
Apro la finestra, dico a bassa voce, fratello mio.

La voce che non sento quando parlo a me stesso è la voce più chiara.
Ma il cielo era tutto intorno a noi una volta.

Abbiamo giocato a scacchi con scatole di fiammiferi vuote,
ha scritto lettere d’amore a mia moglie

e corse fuori e corse indietro, urlandole: “Tu! La posta è arrivata!”

Fratello di un marito valzer, barbiere di una moglie valzer

(Io non parlo, tu non parli, noi
non parliamo, non parliamo, non lo facciamo)

valzer lontano da se stesso
sui caldi mattoni di Vasenka,

ci ha benedetto con la sua solitudine, un essere alato leggero.
“Le tue gambe sporgono troppo dai pantaloni!”

– Tony, sgridami. Ho bisogno di sostenermi

in questa faccenda delle gambe pelose. Un uomo sulla terra fugge e corre e urla e sta in silenzio, silenzio

che è il rumore di un’anima.
Al funerale io, imbarazzato dai combattenti della resistenza

alzandomi per stringermi la mano, disse
Indosso i tuoi pantaloni, nella tasca destra, un buco.

Avvolgo i tuoi apparecchi acustici in questa maglietta bianca—

con brevi doni

tu vai fratello mio dagli occhi verdi.
E io, uno sciocco, vivo. Continua a leggere

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Urszula Kozioł, Poesie scelte, a cura di Paolo Statuti

 

Urszula Kozioł, poetessa, prosatrice, autrice di testi teatrali per la gioventù e di radiodrammi, è nata il 20.6.1931 a Rakówka, nei pressi di Biłgoraj. Dopo gli studi di polonistica all’università di Wrocław, ha lavorato come insegnante e animatrice della cultura. Legata alla rivista “Odra” dal 1972 come responsabile del settore letterario. Ha debuttato nel 1957 con la raccolta “Cubi di gomma”. Sposata con Feliks Przybyłak – germanista e traduttore morto nel 2010. Ha pubblicato 18 raccolte di poesie e tre volumi di prosa. Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue. Ha ricevuto importanti premi letterari, a partire dal premio al festival della poesia di Danzica nel 1957, fino al premio Silesius nel 2011.
La sua poesia abbina abilmente la riflessione filosofica alla sensualità, rivela i condizionamenti biologici e storici dell’esistenza. Stanisław Barańczak, poeta, critico letterario, prestigioso interprete di Shakespeare e uno dei più importanti creatori della Nouvelle Vague polacca, ha scritto sulla poesia di Urszula Kozioł: “Il mondo dell’uomo e il mondo della natura sono presenti nella poesia di Urszula Kozioł come mondi pericolosamente isolati e ostili: se qualcosa li unisce, è il rapporto di reciproca intransigente lotta, a causa della quale l’uomo coesiste con la natura in uno stato di equilibrio instabile, che in qualsiasi momento può far pendere il piatto della bilancia verso la rovina umana”.
Il titolo stesso dell’ultima raccolta uscita nel 2010 – Horrendum – è un’eloquente immagine del mondo inteso come minaccia. Si potrebbe dire che questo titolo, dato a una raccolta nella quale l’ammirazione per la natura si unisce alla esplicita questione del trascorrere della vita, costituisca una definizione poetica del mondo intero.
Nelle sue poesie Urszula Kozioł prende la parola su questioni importanti, anche pubbliche. La protagonista della sua lirica è curiosa del mondo, ama i viaggi. Negli anni ’90 si aprirono le frontiere della Polonia. I progetti della poetessa-viaggiatrice poterono essere attuati in misura maggiore. Nel 1974, nel suo articolo “Il viaggio”, scriveva: “Il viaggio ci permette di realizzare quel sogno che forse ci portiamo dietro dall’infanzia, di essere qualcuno diverso da quello che si è di solito, di essere se stessi diversamente”.
( Paolo Statuti)

Di Urszula Kozioł ho tradotto questo testo sulla sua poesia, pubblicato dalla rivista “Przystanek literacki” (“Fermata letteraria”) nel 2011.

La parola

Nella parola la cosa più importante è la forza che la determina, l’imperativo di esistere racchiuso in essa, che evoca dal nulla nuove esistenze: diventa!
Questo “diventa” è anche alla base di ogni opera d’arte. E dunque anche – soprattutto? – di una poesia. Evocato da nessuna parte. Essendo la proverbiale mosca della bottiglia di Wittgenstein, soltanto con l’aiuto della poesia posso uscire da essa e soltanto grazie ai versi, come tramite una magica formula, posso trasferirmi in un altro terreno, in un altro spazio, uscire oltre il proprio contorno, oltre il tempo anagrafico assegnatomi: esistere oltre me stessa. Un istante più a lungo?
Presto ho scoperto che accanto al mondo reale esiste un mondo immaginato, scritto – anch’esso in un certo modo reale, ma reale in modo diverso. La parola del verso elimina il concetto di lontananza nel tempo e nello spazio, trasforma “una volta” e “in qualche luogo” in “qui e ora”. Leggendo Saffo o Omero, non avverto la lontananza delle intere epoche che mi separano dall’antichità. Per me un poeta attuale è in ugual misura Pound, Norwid o Hölderlin, mi piace fare una chiacchierata con Circe o con Ulisse o Rimbaud. Mi è stato concesso di crescere vicino a parole scintillanti, gravate al tempo stesso di profondità metafisica e di quel particolare tremendum della poesia di Leśmian, il quale ha calcato, come me, gli stessi ciottoli della terra di Biłgoraj. Presto mi sono entrate profondamente negli orecchi le frasi di Kochanowski e di Słowacki, che mi hanno vivamente interessato e incantato con la loro bellezza. Non era importante per me che questi poeti non esistessero più da tanto tempo. Le parole delle loro poesie restituivano la presenza a ciò che è Assente.
La parola della poesia è una forma di presenza, di abolizione dello spazio tra lontananza e vicinanza, tra adesso e allora, tra un giorno e oggi.
La nostra esistenza si estende tra il ricordo e l’oblio. Notte dopo notte il fratello di Tanathos, Ipnos, mi versa sotto la corteccia cerebrale un bicchiere di acqua del fiume Lete, la quale cerca di separarmi da me stessa, dal mio ambiente e dalla mia eredità. In questa forza distruttiva delle acque del Lete, viene in aiuto, come una divinità custode della memoria, la parola del verso: con il suo ritmo, la sua vibrazione e la sua melodia.
Nell’infanzia amavo ascoltare attentamente la parola anche non ancora ben formata, che solo allora mi giungeva e si precisava nella mia fase ancora balbettante, incerta tra le possibilità che le spettano.
Mi piaceva accostare l’orecchio ai pali telegrafici, attraverso i quali – giudicando dalle vibrazioni mantenute in una tonalità di ultrabassi – passavano da una estremità all’altra del mondo le conversazioni di qualcuno, alle quali cercavo di unirmi gridando la mia propria parola.
In ogni grande opera d’arte in generale, e soprattutto nella poesia, insoliti e affascinanti sono gli stati di raccoglimento che si trasmettono a un destinatario sensibile e in grado di percepire. Non si tratta solo del fatto che la poesia è un tipo di linguaggio condensato, concentrato, che deve trovar posto in poco spazio. Ho in mente piuttosto il messaggio contenuto in essa, che è qualcosa come una illuminazione, dal momento che riesce a mettere il lettore in uno stato che di solito si raggiunge soltanto dopo lunghe meditazioni. Lo distoglie dall’involucro della consuetudine, della evidenza e testualità delle sensazioni e, anche se per un solo istante, conduce nella sfera di ciò che è straordinario, non evidente, e al tempo stesso strano e come se conosciuto da tanto tempo, ma ormai perso. E’ dunque quel “ricordare a se stessi”, di cui parlano i mistici.
Una poesia che nasce a volte mi sorprende, come se non l’avessi scritta io. Mi trasforma in una copista, in traduttrice di un suggerimento senza parole, che esige una traduzione immediata nel linguaggio e in quella particolare parola, non un’altra. Prendendo docilmente nota, sento allora la presenza di un qualche co-autore immaginario. Chi è? La Musa?
Alcune poesie provengono dal contrasto tra la somiglianza e la non somiglianza. Altre sono evocate dall’immensità dell’inesplicabile. Dalla mancanza (del sospirato vis à vis?). Dall’eccesso. Dal bisogno di colloquio. Dallo stupore – (che esista qualcosa che al tempo stesso è come se non esistesse).
Tanto tempo fa, da bambina, scrivere poesie mi sembrava una cosa naturale, semplice. Mi piaceva immergermi nel folto del linguaggio, alla caccia di qualche parola che mi divertiva o mi attirava per la sua diversità. Scrivere una poesia mi sembrava allora una cosa convenzionale, come concordate erano le lingue inventate da noi bambini e i colloqui nascosti ai non iniziati da un buffo cifrato, quando tra le sillabe delle parole inserivamo ad esempio le lettere “co”, e quindi: co-a-co-des-co-so co-non co-ho co-tem-co-po.
Oggi sulla poesia so meno di quando cominciai a scrivere.
Per me è un mistero. Un dono.
Ma dato per sempre?

Il verso è abbastanza complicato già di per sé, per la sua natura, per la non testualità dell’enunciato e della condensazione della scrittura. Racchiude in sé molto più di quello che si trova al di là di esso. Per questo ora, che il mio “io” si faccia capire dal “tu” di altri, mi preme più dell’aumento della indecifrabilità del messaggio e dell’aumento degli ostacoli nei luoghi degli incontri. Adesso non voglio sbalordire nessuno, voglio comunicare e proprio questo si rivela così difficile, incredibilmente difficile.
(Urszula Kozioł)

Propongo ora nella mia versione una scelta delle poesie di questa poetessa che conosco personalmente e che apprezzo molto.

(Paolo Statuti)

Foto Saul Steinberg Lady in bath 1

Urszula Kozioł

Ricetta per un piatto di carne

Occorre avere un coltello
occorre una pietra liscia
con la lama accarezzarla finché contraccambierà
il coltello dev’essere quieto e flessibile il luccichio
per assorbire la dura tenerezza e nervatura delle mani
Il resto è semplice
Un ceppo una tavola Una presa di sale
L’erbetta per la gioia degli occhi
E una foglietta di lauro
Il resto è normale
Perché tutto sta negli aromi
(Non scordare la scodella e l’accostamento dei colori)
Il fuoco oggi è cosa facile grazie a Prometeo.
Purché ci sia il coltello e la pietra.
Nonché un collo docile.

1956

A te

Quando la timida farfalla dei tuoi occhi
si posa sulle mie labbra
allora so, cosa provano i fiori.
Chi sei, strano passante
che con lo sguardo in un bocciolo mi trasformi?
I tuoi occhi sono come le foglie d’un giardino d’autunno
e a volte come il lucente dorso del pesce
nell’onda che si frange
o come il cielo, che aspetta il crepuscolo.
Le mie avide labbra succhiano la rugiada dei tuoi sguardi.
Guardami ancora.
Ecco abbasso gli occhi, per non spaventare i tuoi…

1957

Ipernudità

Avevo il mio asilo nel bosco
– ormai lo hai tagliato
Sono andata in altri luoghi
– ormai sono diventati i tuoi.
Dovunque corressi
mi hai tagliato la strada
le case prevenute erano in agguato.

Doveva essere un duello
ma hai scelto la congiura
ora tutti accerchiano la stessa preda
senza divieto di caccia
senza la scelta dell’arma.

Oggi non hai chi non possa negare un tetto
non hai chi non possa tradire
non additarmi
non hai chi non possa braccare.
E previeni le impronte
prima ch’io arrivi a stamparle nella panica fuga.
Tanto m’è rimasto quanto nella parola taciuta.
Ma tu sei riuscito a irrompere nell’intimo occulto
e ormai neppure di me stessa sono oggi alleata.
Anche se la lingua è ammutita
le mie viscere hanno cento bocche.
Mi tradiscono le glandole il respiro mi abbandona
la pressione sanguigna e il polso cospirano alla mia rovina. –
Tanto hai preso. Eppure ancora non m’hai del tutto carpita.
Se mi vuoi avere – toglimi la morte.
In essa ho ancora asilo.

1967

saul steinberg polittico senza facce

Glossa: Da una gita

In questo labirinto
dove a ogni svolta una diversa
loda una diversa matassa di filo
lusingando con un sempre
diverso colore

ho acquistato
un ago col ditale e un gomitolo per prova
lo svolgo
forse basterà
per rammendare i buchi sul tallone di un semidio
forse per avvolgerlo attorno a un dito
forse per –

non è bastato

ed ecco mi sono trovata in mezzo a voi
nel labirinto
dove tutti i fili sono troppo corti tranne
il filo della ditta Alfa tranne
il filo della ditta Beta tranne
il filo dei fili
che per il momento sono mancati

lo svolgo
o forse per un punto di maglia
un segno sghembo giacché qui mi hanno condotto

non è bastato

ed ecco mi sono trovata in mezzo
nel labirinto
dove già una diversa Arianna loda una diversa matassa o
un suo surrogato o
qualsiasi cosa anziché –
che sia dunque questo anziché
per tutti lo stesso anziché

non è bastato

ed ecco mi sono trovata in mezzo a voi
nel labirinto
e quella parete non è alcuna parete
è la parete della parete
e questo sentiero non è alcun sentiero
è il sentiero del sentiero
e quel segno inciso sul muro
è un segno verso nessun luogo
è un segno dello stesso segno

come puzza qui
di sudore dell’attesa di sudore del sudare
come rimbomba qui
per lo sgambettio in un posto e in un altro

adesso prendiamoci tutti per mano
reggiamoci forte

adesso sporgiamoci tutti oltre –
sempre oltre quella parete
oltre –
sempre una più lontana
oltre –
sempre in questo ACCANTO

non c’è di che avere paura
in ogni caso
in questo labirinto non c’è un altro
labirinto

non c’è di che avere paura
in ogni caso
ora non in questo qui c’è un altro
ora questo qui è in un altro.

1969

* * *

una nuvola blu verso sera
con un latteo alone ai bordi
come se il fumo l’avvolgesse delle interne vampate
in basso obliquamente il sole
ad un tratto gli uccelli e le foglie d’una selva
di alberi vistosamente colorati sulla china d’un colle
(i gialli, i castani e il rosso dei vermigli arbusti)
insieme spazzati dall’impeto del vento in alto
per un attimo l’uccello e le foglie non si distinguono
nessuna foglia neanche per idea pensa di cadere in terra
trattengo il respiro
vorrei per sempre stabilirmi in questa finestra
dove in questo istante mi aspetto il temporale
che scoppi finalmente il fulmine
il cuore
è affamato d’una briciola di spavento
per soffocare l’estasi
il suo eccesso mi fa scoppiare i bordi del respiro

Iowa, 1991

Colloquio con Rimbaud

Come bene hai agito andando via da qui
monsieur Rimbaud
perché non è forse meglio infatti
concludere un chiaro accordo
sia pure con l’industria tessile
su questo battello ebbro
carico di cotone
oppure vendere fucili eccetera
piuttosto che senza evidente motivo incantarsi a guardare
come la luce si auto-
moltiplica e auto-
propaga lungo linee angoli e figure
o indagare
se la forma formasissima
si lascia dal punto attraverso la linea
condurre all’esistenza sul piano delle parole
ovvero sino alla fine dei propri giorni
aggrovigliarsi nell’ordito d’un filo misterioso
che non porta spesso in nessun luogo
che per di più nessuno qui
– nel mondo degli affari –
seriamentre si aspetta da te
e impigliarsi in nodi per l’innanzi imprevisti
d’una presunta matassa
mentre la chiara vela
dell’attimo una volta soltanto donato
impercettibilmente fugge nell’oscurità
che si addensa subito dietro l’illusoria linea dell’orizzonte
dove attraverso le fessure dell’esistenza traspare il nulla
o – se si preferisce –
dove si apposta il drago con più teste
( e le sue teste nessuno mai del tutto mozzerà ).
Dunque giustamente hai agito
mandando al diavolo questo luogo insidioso
di mondi incomprensibili
mettendoti in affari su un battello carico di cotone
fatto apposta per avvolgere le parole
con la loro indocile natura
e per soffocare in esse
i troppi pulsanti significati.

al momento giusto sei riuscito a uscire illeso
da qui verso le regioni misurabili dell’evidenza
nelle quali il senso dell’essere
qualcuno ostinandosi
riesce con un dito a scandire su semplici pallottolieri.

III 1995

* * *

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Questa rosa
che è appena sbocciata nel giardino
non conosce alcun sonetto che la riguarda
nemmeno l’ode di Ronsard
(mignonne, allons voir si la rose
qui ce matin avoit desclose
sa robe de pourpre…)
nemmeno sa chi egli fu
non si cura della rima inserita nella delicata strofa
ma sa
che è una rosa.
Al principio balbetta incerta il suo bocciolo
s’inchina
balbetta di nuovo
s’inchina
e poi sempre più fluentemente
raddrizza petalo dopo petalo
raddrizza il profumo
e si copre di rossore
formando di colpo qualcosa come:
mignonne…
Adesso già chiaramente
si siede in un doppio quadrato
a-bb-a a-bb-a
traccia il particolare triangolo
(la corolla)
dell’arco cdc
(insieme con la sua immagine rispecchiata)
tende quest’arco

tende

scocca la freccia –
e centra il cuore stesso dell’attimo.

1996

Detto diversamente

la mia libertà è la parola che tacerò
o annoterò su un pezzetto di carta
per trasmetterla a te

la mia libertà è un fortuito pennarello
stecco o biro presa in mano
per scarabocchiare svogliatamente sulla sabbia
o dietro un biglietto usato
arabeschi

o per muovere in avanti con essa le lettere
quasi volessi compitare il mondo
volendo renderlo almeno appena più leggibile
e almeno un po’ così sospingerlo in avanti

la mia libertà è la lingua con cui mi rivolgo a te
la lingua in cui accolgo la tua risposta
per incontrarsi con te o discostarsi

ma la mia libertà è soprattutto l’attimo
in cui inclino verso di me le parole
con un’angolatura molto particolare se non altro perché
smettano di respingersi a vicenda come scottate
l’attimo in cui durevolmente le unisco tra loro
quasi come vincolo matrimoniale
le imparento coi significati in clan gruppi e strofe

e le appacifico appacifico
continuamente le appacifico
perché alfine smettano di divorarsi a vicenda d’ingoiarsi
– com’è loro uso –
e dunque le tolgo dallo stato di selvaggio cannibalismo
di broncio reciproco

io donatore
io artefice del pianeta del verso con un gesto regale
lo affranco
lo metto in libertà
soffiando in esso alla fine un briciolo della mia anima

(anche se tutto questo dovesse rivelarsi un disastro
la mia poesia ugualmente
sarà come la scatola nera

in ogni caso in essa
nella sua strofa
si cela la prova dell’esistenza dell’attimo
il quale al di fuori di essa non c’è in nessun posto
e che forse del resto non è stato mai più
per nessuno tranne me
me sola

ed è questa la mia libertà
che appunto posso proprio quest’attimo
prendermi da un ripiano del tempo sconfinato
modellarlo
rinchiudere nell’oblunga scatola nera della strofa
e fermare
trattenere
– ma per sempre?
di’
– per sempre?)

I  – 1996

La spada di Damocle…

la spada di Damocle su un letto di torture
ecco come sono i miei sogni

un masso su un dirupo, cui mi aggrappo convulsamente
si muove come un dente di latte
nella bocca di un bambino

ecco com’è la mia veglia

malgrado ciò in ogni istante di nuovo
sono pronta a cantare il mio amore per te
sai, che per te

e in ogni istante nuovamente
muoio di estasi
per la belleza di questo mondo

benché proprio esso mi sfugga di mano

2005

città Tomas Saraceno

città Tomas Saraceno

Lisbona II

quella primavera quando il nasturzio nei fossi cresceva
mi recavo a Lisbona e insistenti voci chiedevano
da dove e dove andavo e se per certo sapevo
che ne avrei fatto di me

quella primavera
sì proprio là
dove sui colli di Lisbona Pessoa
con gesto ormai inerte si toglieva e ritoglieva
lo stesso cappello
m’innamorai di questa città
che mi guardava con le strette quasi socchiuse
foglie degli eucalipti che avidi
si sono appropriati dei colli del posto
togliendosi di torno le sùghere

m’innamorai di questa città come se
vivessi qui da sempre e come se da sempre
sull’antiquato mal ridotto tranvài
penetrassi nelle vene delle sue stradine
volendo ormai soltanto confondermi
con lo sfondo circostante

sui muri arroventati
quella primavera
si stendeva tripla come trifoglio
e già riconoscibile l’ombra di Pessoa
che osò giocarsi tutto a dadi con Dio
adesso però mi trafisse
il gelo della sua mano metallica ormai incapace
di reggere qualcosa di più
e tuttavia quella primavera volevo toccarla
e accertare se non ci fosse ancora su di essa la polvere
del Dio immaginato

volevo accertare se ciò mi avrebbe aiutato
a rimettere insieme dei mondi perduti
i pezzi staccati
che non credo combacino più.

2005

Il mare ci chiede…

il mare ci chiede
insistente interroga senza sosta
di nuovo
come se volesse sapere più
di ciò che sa già
di noi e in generale

raggiunge con fragore
il tuo ritmo nascosto
il mare
– accanito rapper –
Interroga su qualcosa
su niente
interroga su tutto
e a un tratto si ritira prima che tu trovi una risposta
come se temesse di udirla Continua a leggere

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Janusz Kotański, Poesie, traduzione di Marzenna Maria Smolenska con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

Roma,la Grande Bellezza della Grande decadenza: vigilantes, guardie private, odalische, ottimati, spintrie…

Janusz Kotański è nato a Varsavia nel 1957, poeta, scrittore, saggista, storico, documentarista, esperto e autore dei ritratti di grandi personaggi della Chiesa Polacca, attualmente è Ambasciatore della Repubblica di Polonia presso la Santa Sede. Le sue poesie sono state pubblicate nelle seguenti riviste:

Akcent”, Arka”, Arcana”, Fronda”, Kultura Niezależna”, Migotania”,Nasza Rodzina” di Parigi, “Nowy Dziennik” di New York, Powściągliwość i Praca”, Przegląd Katolicki”, Tygodnik Powszechny”, Topos”; Tytuł”, Kwartalnik Artystyczny”, Christianitas”, 44”.

E raccolte nei volumi: Wiersze, [Poesie], Warszawa 1991; Krym i inne wiersze, [Crimea ed altre poesie ] Kraków 1993, 44  poesie, Warszawa 1999, Kropla, [Goccia] Warszawa 2006, Nic niemożliwego, [Niente impossibile] Warszawa 2011, Głos [Voce] Warszawa 2014Autore e realizzatore di alcuni documentari: Powstanie Kościuszkowskie 1794-1994 [Insurrezione di Kościuszko]; Burza 1944 – lekcja historii [La Tempesta 1944 – lezione di storia]; Chłop polski – historia ruchu ludowego [Contadino polacco – storia dei movimenti popolari]; 100 kilometrów na wschód od Lwowa [100 chilometri a est da Leopoli]; Kochany Panie Prezydencie [Caro Signor Presidente], Nieznane karty z historii Warszawy [Pagine ignote dalla storia di Varsavia]. Autore dei film Spotkania z komunizmem [Incontri con il comunismo] sulla storia dell’occupazione sovietica 1939-1941 dei territori della Polonia orientale di allora e di Quantilla sapientia regitur mundus sullo storico polacco Paweł Jasienica. Co-autore della pièce teatrale “Wierność” [Fedeltà] su padre Jerzy Popiełuszko presentata sulla Scena del Fatto del Teatro della Televisione Polacca TVP nel 2010; consulente per i contenuti storici degli spettacoli della Scena del Fatto ecc.

*

tradurre le poesie è un’impresa impossibile o quasi. Mai come in questo caso il binomio traduttore/traditore si dimostri più calzante. Tradurre le poesie è un’avventura affascinante anche se irta di pericoli e trappole tese dal linguaggio poetico e dal suo ritmo unico e difficilmente riproducibile. Tradurre le poesie di Janusz Kotański mi ha portato a toccare con mano entrambi i concetti. È stato un viaggio molto accattivante, una sfida, uno stimolo per la riflessione sulla poesia e il suo ruolo che io”

(Marzenna Maria Smolenska)

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Non è un caso che Janusz Kotański sia un poeta polacco perché soltanto un polacco può cogliere con tanta precisione gli aspetti minimi della non contemporaneità. Probabilmente ciò  è da addebitare alla scuola della poesia polacca che può contare tra i suoi numi tutelari un Rozewicz, un Milosz, un Herbert, un Krinicki, una Ewa Lipska e tanti altri poeti di inestimabile valore. La poesia polacca ha un albero genealogico molto diverso e distante dalla poesia italiana del novecento, il suo spettro tematico è notevolmente più ampio di quello della poesia italiana, tanto è vero che Janusz Kotański si può permettere di attingere alla fonte della storia della Roma antica per trarne delle lezioni per il presente. C’è nella poesia polacca questo atteggiamento, diciamo così, didattico e programmatico verso la poesia e verso la storia, cosa che alla poesia italiana manca invece del tutto. È un io decentrato qui che esplica la sua esperienza totale del mondo con tutti i cinque sensi, è l’esperienza del mondo quella che consente al poeta polacco di attingere un linguaggio universale, universalmente comunicabile. Così, Kotański si può permettere di raccontare con tranquillità la storia di un «centurione della XIX Legione» che torna a Roma dopo quaranta anni di schiavitù; con eguale disinvoltura ci può narrare del Caravaggio o di Ulisse che ritorna alle Isole Eolie. Le tematiche sono le più varie, ma tra di esse non rintracciamo mai l’io dell’autore, quell’io ormai è stato seppellito dagli eventi che hanno fatto seguito alla fine del novecento europeo. Soltanto la poesia italiana continua imperturbabile con il racconto delle adiacenze dell’io, una sorta di Flat tax elettorale di stampo tipicamente italiana. Il viaggio dell’io di Kotański è il viaggio delle tappe delle sue esperienze vitali e significative: la storia di un umile soldato di Roma fatto prigioniero dei germani può risultare più eloquente di centinaia di libri di poesia di oggi che ci raccontano  di insulsi fatti dell’io; lo sguardo del poeta polacco è ampio e profondo, si rivolge a tutto l’orizzonte degli eventi della storia europea, è una indagine a tutto campo sul senso della storia e sul senso di essere oggi  cittadino europeo della Unione Europea. In fin dei conti, siamo tutti europei, come eravamo un tempo lontano tutti cittadini dell’Impero di Roma, la storia si ripete ma si traveste di nuovi eventi, con nuove maschere, i barbari oggi sono qui tra di noi, come ci hanno raccontato Kavafis e Maria Rosaria Madonna. I barbari siamo noi.

Paweł Sobczyk  Janusz Kotanski Fotografia-16.jpg

foto del poeta Janusz Kotanski di Pawel Sobczik

Poesie di Janusz Kotański

Il centurione della XIX Legione torna a Roma dopo 40 anni di schiavitù, anno 49 della nostra era

sono vecchio oramai
confondo
le parole latine con quelle germaniche
questa non è la stessa Roma
non è lo stesso imperatore
(sempre che lo si possa considerare
il successore di Augusto)
non è il mio mondo

mentre mi accasciavo ferito
pensando che sarebbe stata la fine
mi ha sollevato da terra
un cavaliere biondo
infilando la lancia
nella ferita aperta
non mi ha ucciso

diventai schiavo
tra le foreste sperdute
cacciavo gli orsi
aravo i campi
fabbricavo gli scudi e le spade
e quando la mia audacia
conobbero i Cherusci

combattei
ah canti cupi
dei guerrieri mentre andavano all’attacco
gioia della carneficina in battaglia
ebbre danze notturne
tra i sacrifici offerti agli dei
di gente torturata
il mio cuore si è indurito
ero felice

come tutte le donne
amano i forti
ero forte

eppure la nostalgia si radicava
nell’anima
come una catena nel corpo
non riuscivo a dimenticare
gli ulivi
il sapore del vino
i templi di marmo
il mormorio del mare mite

sulla nave dei Frisi
mi sono introdotto in cambio dell’oro
a Treviri
le bianche mura cittadine
ho visto di nuovo
dei miei racconti
nessuno era particolarmente curioso
chi sono
un Romano o un barbaro
non lo so

sono vecchio già
e nessuno saprà
come moriva Varo
nella Foresta di Teutoburgo
furioso
soffocando nel sangue
e nella vergogna
in mezzo al nero fango
della disfatta

.
Trasea Peto lascia solitario il Senato romano , anno 59 dopo Cristo

Trasea non ha gradito
che i figli della lupa
abbiano venerato il matricida
disse allora
“che male può farmi Nerone
uccidermi al massimo
ma non riuscirà a farmi danno davvero”
all’imperatore queste parole
furono tempestivamente riferite
egli tacque

sei anni più tardi
il caldo sangue
dalle vene tagliate del senatore
tinse di rosso il pavimento dell’atrio
attestando la veridicità
della predizione del morente
e la buona memoria di Nerone

.
Ulisse ritorna alle Isole Eolie

una trireme tra le rocce
galleggianti sull’acqua
l’isola intera
dentro gli anelli
di pietre flottanti
in prossimità della costa
l’acqua bollente
i pesci che galleggiano con
le pance all’aria
le secche traditrici squassate

il sovrano in persona
si eleva nell’aria
assiso sul trono di pietra pomice
il re dei venti
dal volto vago
velato e cangiante
accanto a lui Boreas
figlio del nord
(dolce Zefiro è sparito)
sotto di lui nubi blu

e saette tonanti
(serpi di paura ai suoi piedi)
“che hai fatto
o Ulisse re dell’isola
ti ho dato un tesoro
che non ha prezzo per i naviganti
i venti”

(in barba a Poseidone
agì Eolo
gli elementi discordanti
litigano e si accapigliano
come il mare con il vento
così i loro dei)
quello ch’è slegato
ti ho donato già legato
il sovraumano
ho donato all’uomo
in modo che tu potessi tornare
sull’isola natia
rivedere la consorte
ed assopirti accanto al fuoco”

E Ulisse si addormenta
non appena vede Itaca
in lontananza nella luce del mattino
più smagliante dello stesso mattino
si addormenta dopo giorni e notti
trascorsi al timone
con l’otre dei venti
stretto tra i piedi

navigavano in silenzio
(la paura si pasce nel silenzio)
a tutti loro finora ignoto
i remi fendevano le onde color del vino
li portavano finalmente
verso l’arcipelago natio
e loro ragionavano
“ quei tesori
che Eolo ha regalato al re
lui tirchio e furbo
non li dividerà”
(l’infelicità si impingua con la sfiducia)
finalmente cade addormentato
l’otre viene aperto
le mani cercano oro
armi vino

il vuoto
si tramuta in burrasca
incontenibile
inafferrabile
dalla mano invisibile
“che hai fatto
o re addormentandoti
in un momento inopportuno
io non sono il re
sono preda dei venti
hai ripristinato il caos
tu dici involontariamente
tanto maggiore è la tua colpa
ogni navigatore
ti ricorderà
bestemmiando
nelle mani di Poseidone
hai consegnato il mio dono”

non osa
ribattere
l’altero re di Itaca
ricevere un dono
e perderlo
non è cosa da uomini
ritorna sul ponte
(lo zolfo sta soffocando tutti
Il giallo pennacchio trema
come trema l’isola)

“ si salpi l’ancora
navigheremo là dove ci
porteranno le inquiete onde
Eolo ha di nuovo
consegnato nelle mie mani
il pesante otre
non riavrò mai più
un cuore libero”

e salparono
(le vele gonfie di vento)
Eolo li guardava da lontano
attraverso i fumi sulfurei
e le saette serpeggianti
dio dei venti
che si è fidato
di un re greco

.

L’amarezza di Michelangelo

ha risolto il dilemma
colore o disegno
non vede più
l’abisso tra
scultura e pittura
tiene il tutto
in mano sicura

desidera solo
che le sue liriche sottili
siano lodate
ai simposi
dai dotti poeti
quelli con le foglie di alloro
sopra le teste illustri
*

sul dipinto di Savòldo
la nascita di Cristo
c’è un dettaglio
che mi commuove

affacciato a una finestra in pietra
contempla la sacra famiglia
un pastore barbuto

ha visto abbastanza
ha vissuto abbastanza
sa di non essere degno
di stare stare vicino al Messia

ma non riesce a trattenersi
da invisibile
desidera essere lì
per evocare in eterno
la nascita di un Dio indifeso

.
Un sepolcro etrusco

amo anche
lo spesso deposito
di vino sul calice
difficile da lavare via
si direbbe che i due coniugi
abbiano appena finito di sorseggiare
un’inebriante pozione d’amore
precedendo il sonno mortale

Duccio dipinge la Maestà
“sono il pittore senese”
Duccio di Buoninsegna

sono pittore
servo Siena
altera e superba
la sua luce voglio portare
alle verdi valli della Toscana

che tutti i borghi
chinino il capo
dinnanzi alla tua dorata
maestà o Madonna
che si prostrino
i perfidi leoni fiorentini

allora trionferà
la nobile lupa
e la pace giusta
regnerà sulla terra
dai colli appenninici
fino al mar Tirreno
e la Toscana si addormenterà

.

Caravaggio dipinge David con la testa di Golia

beve e di nuovo
va su tutte le furie
il pittore Caravaggio

non appena giunto
alla città sotto il vulcano
già si deve dare alla fuga
inseguito dalle furie

vede con la mente
una testa mozzata
con una ferita sanguinante
sulla fronte
levata in alto
da un pensieroso ragazzo assassino

.
Poesie italiane
Pantofole

nel palazzo vescovile a Planty*
sono rimaste soltanto le pantofole
le avrà mai ricordate
a Roma
gli saranno mancate
quando la mattina si alzava
dal letto
(dietro dalla finestra
aspro profumo di cipressi
e non
di inebrianti lillà)
e alla clinica Gemelli
mentre con prudenza
muoveva i piedi
avrà sospirato
o mie vecchie pantofole
ho avuto fretta
e ho dimenticato
di infilarvi nella borsa

.

Il carnevale di Venezia interrotto nell’Anno Domini 1863

non è opportuna
questa insurrezione
mi divertivo a Venezia
a carnevale sull’acqua
andavo in gondola

volevo rivedere di nuovo le scuole
visitare le chiese
con la maschera d’oro sul volto
divertirmi all’opera

ed ecco il reclutamento
e lo scoppio (della rivolta)
non mi andava a genio
ma non bisogna filosofeggiare
mentre i fratelli muoiono

quindi per nave
con la ferrovia con i cavalli
e infine con la slitta
sono rientrato nella Patria
in fiamme

con quello con cui mi sarei divertito
nella città sulla laguna
ho finanziato una divisione
di obbedienti kosynierzy

di quello che feci
non voglio parlare
e i nomi non li tradirò
affinché nessuno insieme a me
in questo
viaggio siberiano
( il più lungo di tutti i viaggi)
cammini nella neve
facendo tintinnare le manette

Ponte dei sospiri

so perché sospirava
perché si disperava
il veneziano trascinato
lungo il bianco ponte nell’oscurità

non stava perdendo solo la libertà
ma anche la bellezza della città
che si apprestava a nasconderlo
in una cella in pietra
per anni
cieco come un’ostrica
sul fondo dell’Adriatico

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Ewa Lipska, Poesie scelte e tradotte da Paolo Statuti, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, La poesia lipskiana è indicativa per il suo essere costruita con giunture di discorsi e giustapposizioni, perifrasi, sintagmi estraniati e ultronei, sovrapposizioni, effetti traumatici; la punteggiatura stigmatizza gli stop ma senza i «go», sono stop e basta; la poesia è costipata di interruzioni, come per arrestare e depistare la fluenza musical-pentagrammatica di un tempo, Non c’è più alcun canone da mettere in discussione, L’oblio della verità e l’oblio della memoria, Una riflessione sugli oggetti, Lucio Mayoor Tosi, frammenti, acrilici e tarlatana, 2022

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021

Lucio Mayoor Tosi, frammento, tecnica mista, 2022

.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Ciò che resta al fondo della questione della poesia oggi è il discorso poetico diventato invalido, la narratività desublimata, lo specchio opaco dell’«io» poetico, il calco mimetico che ha adottato il modello narrativo ad icona teologica della procedura poetica.

Ewa Lipska accetta l’io narrante, posiziona i linguaggi allo stato di radura narrativa, e li riposiziona in uno spazio comunicazionale come palestra dell’io narrante; il risultato è che così si ritrova tra le mani una lessicalità opaca. È sufficiente scorrere i titoli dei suoi libri per capire come il discorso poetico sia giunto alla zona grigia dove tutti i titoli appaiono bigi e anodini, insignificanti:

Poesie, 1967
Seconda raccolta di poesie, 1967
Terza raccolta di poesie, 1972
Quarta raccolta di poesie, 1974
Quinta raccolta di poesie, 1978
Qui non si tratta di morte, ma di bianco cordonetto, 1982
Deposito oscurità, 1985
Area di sosta limitata, 1990

Non c’è più alcun canone da mettere in discussione

I titoli delle raccolte di Ewa Lipska non corrispondono più ad alcunché di solido, di strutturato, di referenziato; il medium poetico si nutre di metricità/narratività diffuse, una koiné linguistica che, un tempo lontano nel lontano primo Novecento, a monte e a valle, poteva contare sul retroterra di un linguaggio poetico frutto di una tradizione-convenzione, di un patto, di un concordato, insomma, di un contratto-tregua tra i linguaggi poetici e tra il lettore e l’autore. Nella poesia della Lipska è saltato qualsiasi contratto o convenzione, non c’è più uno spazio comune per immaginare un colloquio tra l’autore e il lettore, l’autore dei versi ormai non si aspetta assolutamente nulla dalla sua scrittura; l’ironia e l’autoironia della Lipska ha questo significato: che non si rivolge più ad alcun interlocutore, per essere più precisi, si rivolge al testo mediante una auto destrutturazione. Mentre la poesia modernista europea degli anni settanta si muoveva nella direzione della provocazione e della messa in discussione dei canoni poetici della tradizione del post-simbolismo, in seguito la poesia ha dovuto prendere atto che non c’era più alcun canone da mettere in discussione, perché tutti i canoni potevano convivere senza collidere, non c’era più attrito tra i registri semantici e lessicali della poesia, che si scopriva mero calco della «comunicazione». La traiettoria lungo la quale si muove Ewa Lipska è volutamente «tradita» dall’autrice la quale marca un punto importante: che accetta la poesia di impianto privatistico per ribaltarne il valore simbolico. Ed è perfino ovvio che, a valle, cioè ai giorni nostri, il discorso poetico della poetessa polacca si trovi a ricalcare la crisi di identità dell’io narrante e la crisi di validità dello statuto di verità del discorso poetico, il quale si scopre posto su un fondamento meta stabile.

La «nuova ontologia estetica» assume in pieno la lezione della poesia europea, la necessità di un discorso poetico che si fondi su un «fondamento meta stabile», è un pensare l’arte poetica in conformità con la caduta del «fondamento», un pensare il pensiero di un’arte poetica che trova in sé la forza che deriva dalla sua intima debolezza e precarietà fondazionale. La poesia lipskiana è indicativa per il suo essere costruita con giunture di discorsi e giustapposizioni, perifrasi, sintagmi estraniati e ultronei, sovrapposizioni, effetti traumatici; la punteggiatura stigmatizza gli stop ma senza i «go», sono stop e basta; la poesia è costipata di interruzioni, come per arrestare e depistare la fluenza musical-pentagrammatica di un tempo.

Lucio Mayoor Tosi frammento con nero

Foto bacio al fantasma

Il paradosso della non-comunicazione

La Lipska  va al fondo della questione: la poesia è diventata «comunicazione», prende congedo dalla «verità» e dal suo involucro museal-musicale; l’esistenza è diventata un valore «posizionale», «prospettico», comunicazionale, una appendice della comunicazione. Ci troviamo nel regime del presentismo, totalitario e pervasivo, una vetrina senza negozio: il nuovo dio è l’immediato, il qui e ora, l’attualità, la comunicazione. E allora, la poesia di Ewa Lipska si assume il compito di presentarsi come un paradosso vivente, un congegno paradossale prodotto della non-comunicazione, la poesia si pone come allestimento di un palcoscenico in cui la «verità» non può più essere chiamata in causa in quanto non c’è un linguaggio della «verità» stabile, pena la coincidenza tra il «nome» e la «cosa». La Lipska prende atto che è possibile soltanto il linguaggio della «comunicazione», e la sua poesia diventa, paradossalmente, sempre più comunicativa, persuasiva, sentenziosa. Paradosso del discorso poetico che si sottrae con tutte le forze al discorso imbonitorio e giornalistico che si vuole panlinguistico e comunicazionale e che crede  che il discorso poetico sia libero, che possa presentarsi come atto di gratuità tra il «nome» e la «cosa». La Lipska prende atto che della «verità» non ci restano neanche le tracce, neanche echi, tanto meno orme, impronte, ombre… la verità è un dileguantesi, che si rivela nell’atto del dileguarsi in quanto si svolge nel tempo, è un apparecchio dotato di temporalità, è essa stessa un congegno temporale, posizionale, transizionale. La verità è ciò che transita, il transitante e il sottraentesi. L’arte moderna rappresenta l’oblio della verità e l’oblio della memoria, reca la traccia di ciò che è stato sottratto. La verità poetica scopre il proprio statuto paradossale e aporetico. È questo il suo enigma.

Una riflessione sugli oggetti

L’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto. L’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e di avere esperienza del mondo. La «questità degli oggetti» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, che convoca la possibilità del loro essere e la possibilità del loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità di oggetti» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]

La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in ogni oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.

Afferma Wittgenstein:

«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3]

La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.

1 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, 1953, Osservazioni filosofiche, trad. it. M. Rosso, Einaudi, Torino, 1976. p. 41
2 Ibidem p. 39
3 Ibidem, p. 168

Poesie di Ewa Lipska

Il giorno dei Vivi

Nel giorno dei Vivi
i morti giungono alle loro tombe
– accendono le luci al neon
e piantano i crisantemi delle antenne
sui tetti dei multipiani sepolcri
a riscaldamento centralizzato.
Poi
scendono con gli ascensori
verso il quotidiano lavoro:
la morte. Continua a leggere

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Ewa Lipska Cinque poesie inedite da: Pamięć operacyjna (memoria operativa), Wydawnictwo literackie, Cracovia 2017, Traduzione, Presentazione e fotografie di Lorenzo Pompeo, Nota biobibliografica di Paolo Statuti, con il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Foto sedie di Cracovia

Lorenzo Pompeo, foto, sedie di Cracovia

Ewa Lipska, poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto diversi importanti premi per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte in molte lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io, 2004), Pogłos (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012).

Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume Wiersze (Poesie), Ewa Lipska appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937). La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante. La sua poesia si concentra sui sentimenti della sofferenza e della paura, sulla fragilità dell’esistenza condannata a morire. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive:

«La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente».

(Paolo Statuti)

Foto parigi Lorenzo Pompeo

Parigi, cappelli, foto di Lorenzo Pompeo

Nota di Lorenzo Pompeo

Queste cinque traduzioni sono tratte dall’ultima raccolta di Ewa Lipska  Pamięć operacyjna (trad. it.: “memoria operativa”  Wydawnictwo literackie, Cracovia 2017). Il mio primo incontro con  questa poetessa di Cracovia risale al lontano 1994, quando pubblicai sulla rivista «Poiesis» alcune mie traduzioni. Successivamente sono uscite in Italia le sue poesie in volume, nel 2013 (L’occhio incrinato del tempo, per i tipi della Armando Editore) e nel 2017 (Il lettore di impronte digitali, Donzelli). Quella della Lipska è una voce che fortunatamente comincia a farsi sentire anche in Italia. Il suo ultimo lavoro, nel quale mi sono casualmente imbattuto in libreria a Cracovia, è l’ultima tappa di un lungo cammino cominciato nel 1967 con il suo primo tomo di poesia, Wiersze. Dal momento che si tratta di una figura che già dovrebbe essere nota al lettore italiano, il quale per pigrizia magari l’ha già associata alla sua più nota collega e amica Wysława Szymbroska, non ritengo necessario e/o utile ripercorrere tutte le tappe del suo percorso dal debutto fino a quest’ultimo tomo, che cade proprio a cinquanta anni dal debutto. Mi limito quindi ad alcune note al margine: il suo stile rimane immutato negli anni, assolutamente riconoscibile. La sua è una voce chiara e cristallina. Quello della Lipska è un linguaggio semplice, che punta dritto allo scopo. Non una sola parola superflua o ridondante (non offre particolare difficoltà al traduttore, che però deve prestare molta attenzione all’economia della lingua). La sottile ironia è da sempre la sua arma preferita. Con il passare degli anni forse colpisce ancora di più il nesso della sua recente poesia con il rumoroso mondo contemporaneo, per intenderci: quello dei social media e delle Fake News. Ewa Lipska non ha mai smesso di guardare il mondo che la circonda con quel certo scetticismo di chi proviene da un paese nel quale se ne sono viste di tutti i colori. Ed è per questo che la sua poesia appare, oggi come ieri, impermeabile alle retoriche di qualsiasi segno. La sua poesia è universale, ma allo stesso tempo, nel bene e nel male, profondamente radicata nella Polonia. Il tema centrale, intorno al quale ruotano i suoi versi, è il tempo, nella sua doppia valenza storica e metafisica. Questo si avverte chiaramente anche nei versi di queste ultima raccolta. Quando in Oggetto volante la poetessa parla di “passato ristrutturato” sembra riferirsi alla “rilettura del passato” che nel dibattito politico di questi ultimi anni in Polonia sembra assumere uno schiacciante peso specifico. (anche in Gita si ritorna al passato, ma, come ironicamente nota l’autrice, è solo una esercitazione tratta da una commedia). Con la breve poesia La storia la riflessione della poetessa su questo tema trova un punto fermo di eccezionale chiarezza.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Ewa Lipska Cinque poesie inedite da: Pamięć operacyjna (2017)

Trafficavamo con Shakespeare
fin dalla più tenera età.
Il divieto della lirica
non ha avuto alcun effetto.

Il capo di tutti i capi
il padrino
del mio debutto
mi diede le prime istruzioni:

Non c’è arte
senza violenza
senza violentare le parole
e senza il terrore dello stile.

Abbiamo mangiato i cornetti siciliani
dalla cipria della nebbia mattutina.

fino a oggi
mi addormento tra i versi
con la pistola carica.

Colpo fortunato
quando sorge il successo del sole. Continua a leggere

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Una poesia di Tadeusz Różewicz (1921-2014) tradotta e commentata da Lorenzo Pompeo – Una poesia di Lorenzo Pompeo, Gino Rago, Massimiliano Marrani – Il concetto di «disfania», un nuovo tassello per la nuova ontologia estetica – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

Foto Kolář Jiří

Tutti i ricordi immagini sentimenti notizie
concetti esperienze che in me si combinavano
non sono più saldati non formano un tutto [collage di Kolar Jiri]

Tadeusz Różewicz

Scomposto

Tutti i ricordi immagini sentimenti notizie
concetti esperienze che in me si combinavano
non sono più saldati non formano un tutto
in me
approdano talvolta a me alla riva
della memoria toccano la pelle
la toccano leggeri con unghie spuntate
Non voglio mentire
non compongo un tutto sono stato infranto e scomposto
chi mai si chinerà chi avrà interesse per questi frammenti
del resto anch’io sono così occupato
chi riesce a rammentare la mia forma interiore
in questo caos febbrile movimento
nel corridoio dove mille porte si aprono e si chiudono
chi riprodurrà la forma
che non si è impressa né sul gesso bianco
né sul carbone nero
neanch’io se interrogato
riesco a rammentare
di me dicono che vivo

La sua poesia in questi anni si andava facendo più rarefatta, astratta, libera da qualsiasi dettame socio-politico. In questa seconda fase della sua produzione Różewicz si interroga continuamente sulle ragioni stesse della poesia, sul suo senso ultimo, sulla figura del poeta e sul linguaggio in un mondo nei quali la rappresentazione della realtà appare quasi inaccessibile, incrostata, deformata, inquinata dai mass media. (L.P.)

 

Foto Cut and rearrange

Ricordo/ di avere dimenticato qualcosa,/ e poi scivolo nell’oblio/ come una cartolina senza indirizzo/ in una cassetta delle poste.

Tadeusz Różewicz (1921-2014)  nasce a Radomsko nel 1921 sulla linea ferroviaria Varsavia-Vienna, città all’epoca di 20.000 abitanti, città di provincia. Nel novembre del 1944 il fratello Janusz, capo partigiano, viene fucilato dai nazisti, evento che avrà grande influenza sulle scelte di poetica di Tadeusz. Nel 1947 esce Niepokój (Inquietudine) che viene accolto con giudizi lusinghieri dai maggiori poeti delle generazioni precedenti. Anche il secondo volume Czerwona rekawiczka (Il guanto rosso) viene accolta con giudizi lusinghieri e disparati a causa di un nuovo sistema di versificazione e una nuova tematizzazione dei temi della sua poesia. Różewicz  proviene dall’esperienza traumatica della seconda guerra mondiale e dall’orrore dei campi di concentramento, la sua poesia è un prodotto della catastrofe della cultura, una riflessione che ha al centro la domanda: Che cos’è l’uomo? Che cosa è diventato? Ci sarà un avvenire per l’uomo figlio dell’Occidente? – Różewicz si chiede se sia ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz e dopo la dissoluzione delle “Forme”:
.
Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse
.
La risposta, in sede estetica, sarà la rivoluzione delle forme, l’adozione del verso libero e l’impiego di un polinomio frastico organizzato secondo i tempi e i modi della prosa. La poesia di Różewicz riporta il linguaggio poetico al grado zero della scrittura, elimina la differenza tra poesia e prosa, si prosasticizza, indossa i vestiti della povertà, assume un tono asseverativo, assertorio, sarcastico, dimesso, gnomico e colloquiale, mescola abilmente il parlato con il ready made, la citazione con la semplice proposizione del quotidiano, il dialogo con il soliloquio, gli enunciati frastici sono impiegati come frangiflutti della significazione, sono abilmente snodati e snodabili, ribaltabili e sovrapponibili grazie all’impiego di una pluralità di voci che intervengono nella composizione senza preavviso alcuno, ma inserendo gli enunciati liberamente, svincolati da ogni schema preordinato. Il risultato estetico è una prosodia sorprendentemente ricca, frastagliata e vissuta, ritmicamente snodabile, capace di aderire alle tematiche più diverse come un vestito che sembra, volta a volta, tagliato su misura. Una poesia che ricorda certe composizioni cubiste, che integra le suggestioni del costruttivismo e del surrealismo, ma di un surrealismo passato al vaglio della sua severità polacca. Scrive Silvano De Fanti: «Il registro stilistico viene dunque improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuta dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui che offrano nuove possibilità semantiche svelando ciò che sta oltre la parola, lontano dalle associazioni tradizionali, e corredata da insistenti elencazioni, coordinate per paratassi o per asindeto, tendenti a manifestare i frammenti circostanti che ricreano il caos del mondo dopo la distruzione. Stava soprattutto qui la precoce rottura con la poetica dell’Avanguardia; stava altresì nell’uso ben più largo del lessico quotidiano e nella ‘debanalizzazione’ del banale, inteso come tutto ciò che rivela le verità ‘ordinarie’, ovvero il parlare diretto, la parola concreta, la naturalezza, il senso comune: “dopo una breve escursione nella terra dove regnavano e regnano il ‘senso poetico’ e la ‘bellezza’, faccio ritorno al mio ‘immondezzaio’” (…) La “morte della poesia” così spesso proclamata da Różewicz – metafora paradossale, ché in realtà portò il poeta a generare una nuova poesia – stava proprio nella consapevolezza della mancanza di una lingua che fosse in grado di esprimere l’esperienza, e che… lo spinse a penetrare e a rivoltare dall’interno quella stessa lingua. L’uomo di Niepokój è sopravvissuto alla catastrofe da lui stesso provocata»*
È la misura e la precisione del dettato poetico che farà di Różewicz il progenitore della poesia polacca moderna. Un grande poeta modernista che ha saputo formulare nella nuova sintassi del modernismo le domande più inquietanti e scomode del nostro tempo. È la scoperta più sconvolgente di Różewicz quella di interrogare l’uomo senza qualità che è sortito fuori dalla seconda guerra mondiale: l’uomo è diventato quella cosa senza identità dei nostri giorni. (Giorgio Linguaglossa)

.

Una poesia inedita di Lorenzo Pompeo

La caduta

Ricordo
di avere dimenticato qualcosa,
e poi scivolo nell’oblio
come una cartolina senza indirizzo
in una cassetta delle poste.

Vecchio pagliaccio
con poca arte,
indossando un sorriso stropicciato,
mi ripeto per l’ennesima volta:
“questa volta faccio sul serio!”

I passi incerti si allungano
e l’orizzonte si allarga
per comprendere tutto l’incompreso,
e abbracciare il mio fato,
che zoppica accanto
a cartomanti, indovini e negromanti
tra vaticini sgrammaticati,
e indecifrabili ideogrammi
e al vento parlano
di favolosi amuleti e talismani profetici.
Sugli scalini dei templi
invocazioni, preghiere e benedizioni
si scambiano opinioni e pettegolezzi
nella incomprensibile lingua
di un paese inesistente.
Un brusio che si lamenta e piange,
si strappa le vesti
in un teatro immaginario
popolato di applausi
e fazzoletti bianchi.
Pallide lacrime piovono dal cielo,
ma è solo una vecchia scenografia che regala,
forse per l’ultima volta,
il suo trucco a un illusionista stanco
e al suo pubblico, sempre meno fedele.

“Sordo alle mie preghiere,
presto anche tu mi volterai le spalle”.
Una scena provata e riprovata mille volte,
fino al dubbio feroce
che non sia più né realtà né finzione,
solo un’isola sperduta
in un oceano apparente,
o una foresta celata in un deserto,
o un fuoco nell’acqua,
una stella trafitta da un raggio di luna,
un sentiero che attraversa il mare.

Fragile, ma esperto,
mi preparo al nostro numero.
Guardandomi allo specchio
interrogo un volto sordomuto
come un poliziotto stanco.
Una dubbia fortuna ci ha accompagnato
fino a questa terra benevola
dove c’è il sole, il mare
e altre garbate banalità. Continua a leggere

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Krzysztof  Karasek (1937) – Poesie a cura di Paolo Statuti

Gif nevicata

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle
necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico
e della sintassi

Krzysztof Karasek poeta, saggista, critico letterario, è nato a Varsavia il 19 febbraio 1937. Figlio dell’artista plastico Roman Karasek. Ha frequentato l’Accademia di Educazione Fisica e ha studiato filosofia all’Università di Varsavia. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. Il suo debutto poetico risale al 1966 sul mensile Poesia. Ha fatto parte della redazione di prestigiose riviste letterarie e ha ricevuto importanti premi per la sua creazione poetica, benché Karasek mantenga le distanze dai riconoscimenti: «… non importa chi riceve un qualunque premio di poesia. Perfino il premio Nobel può essere motivo di vergogna. Ad esempio si dice che Quasimodo, dopo aver ricevuto il Nobel, che allora avrebbe meritato di più Ungaretti, uscì dalla sala impacciato e quasi scappando. La mancanza di popolarità bisogna guadagnarsela. Io ho lavorato per essa troppo a lungo per rinunciarvi a favore dei premi» – ha confessato un giorno al poeta Jarosław Mikołajewski.

Il grande poeta Zbigniew Herbert (1924 – 1998) elogiò la sua poesia: «Krzysztof Karasek a mio avviso è il poeta di maggior spicco della Nouvelle Vague polacca.

La sua è una poesia matura, intellettualmente e letterariamente assai ben costruita. Usando un liguaggio sportivo – egli “ha preceduto di una lunghezza” gli altri poeti della stessa generazione». Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), scrittore di profonda cultura, critico e notissimo pubblicista, ha detto: «La poesia di Karasek è altamente creativa e in continuo movimento, con una straordinaria immaginazione esplorativa, alla ricerca del senso dell’esistenza, del mondo, della poesia stessa. La colloco tra le maggiori realizzazioni della poesia polacca contemporanea, e perfino europea». A sua volta il poeta e critico letterario Janusz Drzewucki afferma che un’ampia gamma di voci poetiche e una certa eterogeneità hanno caratterizzato la sua creazione fin dall’inizio: «La lirica di questo autore è da sempre polifonica. Egli si serve di poetiche, stili, idiomi di ogni genere. Sa essere poeta pubblicistico, riflessivo, tradizionale e di avanguardia, sa essere univoco ed equivoco, del mondo circostante lo attira sia l’aspetto fisico che metafisico».

Nella prefazione alla raccolta L’assolata tinozza dell’infanzia (2013), il poeta e critico Grzegorz Kociuba ha scritto: «La forza di questo libro è l’intimità, la liricità intesa anche tradizionalmente… Non è soltanto l’ennesima raccolta di un autore contemporaneo, ma è il libro di un grande poeta che non getta le sue parole al vento!». Karasek parla dalla posizione del saggio che conosce la vita, la osserva attentamente e a volte anche argutamente.

Il poeta è affascinato dalla pittura. Nel ciclo I miei pittori, dedicato alla memoria del padre, è attratto in particolare da Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper. Vede la parentela tra pittura e poesia, le visioni pittoriche sono visioni sintetiche del mondo. Per questo nella poesia Lettera a Paul Cézanne scrive: «Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificio che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce». Sia il pittore che il poeta creano composizioni coesistenti, che da una sola concreta prospettiva permettono di osservare il fenomeno descritto o dipinto. La sua gamma tematica è assai ampia. Vale la pena ricordare che una parte delle sue opere poetiche si basa sui sogni, che non necessariamente tratta come visioni incomprensibili, ma come una serie di quadri collegati con la realtà e col subconscio.

Nella sua penultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015), emerge la convinzione che il processo di conoscenza del mondo sia una gioia. In una delle sue ultime interviste dichiara: «Ritengo che la gioia della creazione, dell’amore, dell’amicizia e della loro reciproca sperimentazione siano questioni per le quali valga la pena di vivere e forse anche di morire. E’ la manifestazione di qualcosa di sacro, è la gioia come una festa. Ci sono persone che vivono nei cimiteri e altri che vivono per la gioia». Della sua ultima raccolta dal titolo enigmatico E’ giunto un uomo per frustare il mare (2017) dice: «Mi hanno chiesto tante volte il perché di questo titolo, alla fine ho cominciato a rispondere che è così, affinché ognuno possa dire la sua».

In uno degli ultimi incontri con i suoi elettori ha detto: «La vera poesia è il linguaggio che possiede una straordinaria dinamica. Parole incompatibili tra loro trovano il proprio posto, l’ordine è messo in dubbio. La poesia smentisce il nostro concetto di letteratura. In quest’ultima ogni opera ha un inizio, una parte centrale e una fine. In una buona composizione poetica tutto è inizio, parte centrale e fine».

Krzysztof Karasek rivolge una particolare attenzione alla poesia dei giovani. La sua sete di letteratura è inestinguibile. A tale proposito egli afferma: «In generale nella poesia mi incuriosiscono due poetiche. La prima si ha quando un verso è assai benfatto, delicato, accurato come in Herbert o Ungaretti. La seconda si ha quando agisce come se qualcuno ti infilasse nel posteriore un generatore elettrico, quando cioè è dotata di energia e ti elettrizza. Nei giovani la cosa più importante è l’imprevedibilità. Se sono diversi dagli altri. Se hanno una voce personale. E ogni volta che apro la raccolta di un giovane, spero sempre di trovare un nuovo Rimbaud».

Krzysztof Karasek

e gli stukas in picchiata sulla strada,
per la quale siamo fuggiti ad Est
e poi di nuovo ad Ovest,
riempivano le mie orecchie come galoppo
dei cavalieri dell’Apocalisse (Krzysztof Karasek)

Poesie di Krzysztof Karasek

Deutsches requiem

Ho visto la maschera mortuaria di Gottfried Benn
le orbite coperte di gesso del tempo
la fronte
che sosteneva il giogo della vita. E la bocca
dove covava ancora una piccola scintilla di rivolta
e di speranza – l’orgoglio deluso
e la dignità sconfitta; l’amarezza del resoconto
di un testimone oculare.

Tutta l’anima tedesca è concentrata in quella fronte,
in quegli occhi incavati come vetro in fondo al fiume,
l’anima di Novalis e Hölderlin, di Beethoven
e di Hegel. Mistiche tenebre
versate con ogni attrezzo della materia, e
l’anima nuda collocata nella scura fonte
di una eredità romantica; la cieca ragione
e la biologia impazzita, che crearono la superbia
di Nietzsche e l’amara saggezza di Kant

colavano da quella bocca, adesso vuota e sterile
come frammento di paesaggio dissanguato
o sonno di fiume frantumato contro l’orizzonte;
con un solo getto traboccavano dall’esofago
e cadevano ai piedi di un testimone casuale.

(1982)

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

Quando la parola sangue è assente in un verso?

La parola sangue è assente in un verso quando il sangue
è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene
non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo
mettono in libertà e nel futuro.

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si
riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,
la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,
i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di
anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze
misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle
necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico
e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della
lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore
da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti
nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:
il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città
litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo
si sono tinte di rosso).

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto
versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto
dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali
di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso
irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla
sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.
Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,
che si è iniettata di sangue.

(1982)

Agli animali piace la guerra

Agli animali piace la guerra,
il suo sapore, la forza che gira nell’aria.
Gli uccelli muoiono nel suo alito,
annerita la forma e il becco –

scheletro steso sull’aria,
sui tendini del vento.

Il polso staccato dall’osso,
le braccia vuote, private di muscoli e vene,
la mano, attraverso cui trapela la forma della luce
la circolazione sanguigna della cenere –
agli animali piace la guerra.

In qualche luogo nel folto
si sono rapprese le loro voci beffarde,
la caccia è iniziata,
la battuta si avvicina alla fonte.
Agli animali piace la guerra –
l’uomo va a caccia della propria carne,
lascia a loro l’intangibilità di gesti e sogni,
il sonno sprofonda in un udito ansioso,
di mani che non possono reggere il proprio amore.

La mia donna grida nel sonno
non potendo trattenere con le mani sfuggenti
la luce che si spegne.
A lei sembra
che dal giardino arrivino animali a cavallo,
in ordine ansioso
trova nella stanza una volpe, una talpa, una puzzola,
un lupo dorme nel suo letto
e mostra i denti. Continua a leggere

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Ewa Lipska da L’occhio incrinato del tempo titolo originale: Droga pani Schubert (Cara signora Schubert, 2012) a cura di Marina Ciccarini (Armando, 2014) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

foto selfie 1

Cara signora Schubert, mi chiedo dove andremo ad abitare Dopo. Dopo

Ewa Lipska, poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto diversi importanti premi per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte in molte lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io, 2004), Pogłos (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012).

Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume Wiersze (Poesie), Ewa Lipska appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937). La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante. La sua poesia si concentra sui sentimenti della sofferenza e della paura, sulla fragilità dell’esistenza condannata a morire. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive:

«La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente».

(Paolo Statuti)

foto volto Malika Favre

grafica Malika Favre [Il nostro amore l’ho lasciato al Passato
che, come sempre, rimettiamo al Futuro.
L’ho sottratto al sonno. Sono spuntate le rondini]

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

 Il titolo originale del libro è Cara signora Schubert, chissà perché poi cambiato, dall’editore italiano,  con quell’orribile e banale L’occhio incrinato del tempo. Forse all’editore sembrava troppo «semplice» quel titolo. Anche qui, come vedete, è in azione il filtro del conformismo e della omologazione verso il basso, addirittura i titoli dei libri vengono cambiati in stile «ultroneo». La forma prescelta da Ewa Lipska è la più semplice in assoluto, una serie di lettere indirizzate ad una signora dal nome corrivo e convenzionale: Schubert. E che si dice in queste lettere? Niente di trascendentale, si parla di un reale poroso, corrivo, sciatto, convenzionale, in uno «stile [che] non vale niente», scritte di «pugno degli Dei», ovvero, degli uomini del nostro tempo corrivo e banale. E la poesia? La poesia di Ewa Lipska non può che sortire fuori dalla metratura di questo «mondo». Chiede la poetessa: «dove andremo ad abitare Dopo»?. Domanda corriva che richiede, ovviamente, una poesia corriva.

Ecco, mi piace questa poesia fatta di stracci, di corrivo, di rottami linguistici, scritta in uno stile minimalista, terra terra, volgare come è volgare il nostro «mondo», dove ci sono tante cose: «Una cena con Nerone / all’Hotel Hassler di Roma»; ci sono pezzi di cronaca: «l’Unione Europea? Il XXI secolo»;  ci sono incisi mozzafiato: «Tutto ciò che ci ha amato, cara / signora Schubert, non ha più via d’uscita»;  «cara signora Schubert le porgo i miei saluti dal Labirinto»; dove «Greta Garbo è sempre più simile a Socrate». E, infine, l’ironico augurio: «siccome credo nella vita d’oltretomba, ci incontreremo senz’altro nel Grande Collisore di Adroni».

 Qual è la differenza tra la poesia di Ewa Lipska e quella che si confeziona in Italia oggi? (in particolare mi riferisco alla antologia di poesia femminile pubblicata da Einaudi a cura di Giovanna Rosadini nel 2014). La poesia maggioritaria che si fa oggi in Italia consta di commenti, una fenomenologia para giornalistica che va verso la narrazione indiscriminata delle questioni dell’io e delle sue adiacenze, una fenomenologia del banale, priva di direzionalità laterali e trasversali, priva di verticalità, di diagonalità, di salti posizionali, temporali e spaziali. Direi che questa è un modo di scrittura che privilegia la banalità. È la negazione dello stile, con l’io posticcio e artefatto governatore del piccolo mondo dell’io e delle sue adiacenze. Ewa Lipska invece va dritta dentro i problemi di oggi, la poetessa polacca lascia cadere le domande, una dopo l’altra, come una collana di perle nere, con apparente negligenza: «Cara signora Schubert, che fare dell’eccesso di memoria?»; «Come si entra nella storia, cara signora Schubert?». Ma si tratta di domande fondamentali, quelle di cui dovrebbe occuparsi la poesia di serie “A”.

foto Malika Favre ritratto

grafica Malika Favre [il nostro mondo è come una lettera scritta di proprio pugno dagli Dei, ma lo stile non vale niente…]

Uno spettro si aggira per l’Europa: una fame di riconoscibilità,

una sete di omologismo. Il problema cui si trova davanti la poesia di oggi è quello di una forma-poesia riconoscibile. Gli scrittori e soprattutto i «poeti» mirano a creare qualcosa di immediatamente riconoscibile e identificabile. Il problema di una forma-poesia riconoscibile, è sempre quello: se l’«io» sta in un luogo, immobile, anche l’«oggetto» sta in un altro luogo, immobile anch’esso.

Il discorso poetico diventa un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico assume un andamento lineare. Ma, se poniamo che l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non è più l’oggetto di un attimo prima; di più, se anche l’io si sposta di un metro, vedrà un oggetto ancora differente, anche posto che l’oggetto se ne fosse stato fermo nel suo luogo tranquillamente per un bel quarto d’ora. E così, il discorso lirico (o post-lirico) si può sviluppare tra due postazioni in stazione immobile. Altra cosa è invece se le due posizioni, ovvero, i due attanti, cambiano il loro luogo nello spazio; ne consegue, a livello sintattico, un moto di ripartenza, di stacco e di arresto e, di nuovo, di stacco. Avremmo una poesia che non si muove più secondo un modello lineare ma secondo un modello non-lineare. Voglio dire che già Mallarmé aveva distrutto il modello lineare dimostrando che esso era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, bisognava derubricarla e passare ad uno sviluppo non più lineare ma circolare della poesia.

Gran parte della poesia contemporanea che si fa in Europa parte da un assunto acritico: dalla stazione immobile dell’io, con l’io al «centro del mondo», attorno al quale ruota tutta la fenomenologia degli oggetti; in modo consequenziale i giri sintattici, anche se di illibato nitore e rigore metrico, si dispongono in modo lineare, come tipico di una tradizione recente: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte.

Questo tipo di impostazione, intendo quello della stazione immobile dell’io e della distanza fissa tra l’io e gli oggetti, conduce, inevitabilmente, al pendio elegiaco. L’elegia ti costringe a cantare la «distanza». L’elegia è tipicamente consolatoria. In definitiva, il dialogo tra l’io ed il suo oggetto si rivela essere un dialogo posizionale, posizionato, «convenzionale». Infine, chiediamoci: che genere di poesia scrivere in un’epoca afflitta, come scrive la Lipska, da «eccesso di memoria»? E non è questa la domanda cruciale che si pongono anche i poeti della «nuova ontologia estetica»?

 

ewa-lipska

E. Lipska [Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,/ la guerra, la morte.]

da Droga pani Schubert (Cara signora Schubert, 2012)

 

Tra

Cara signora Schubert, mi chiedo dove andremo ad abitare Dopo. Dopo, cioè là dove prima c’era la fabbrica che produceva la vita d’oltretomba. Sarà tra ciò che non abbiamo fatto e ciò che non faremo più.

Il nostro mondo

Cara signora Schubert, il nostro mondo è come una lettera scritta di proprio pugno dagli Dei, ma lo stile non vale niente…

UE

Cara signora Schubert, ricorda ancora
l’Unione Europea? Il XXI secolo, Quanti anni sono trascorsi…
ricorda il grano ecologico? la depressione del lusso?
e il nostro letto che sfrecciava sull’Autostrada del Sole? Era la [nostra]
giovinezza, cara signora Schubert, e per quanto gli orologi
persistano nella propria opinione, tengo questo tempo
ben stretto nel pugno. Continua a leggere

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Julia Hartwig (1921-2017) Undici poesie – definita da Miłosz, La grande dama della poesia polacca – a cura di Paolo Statuti

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017

Roma, Laboratorio di poesia 8 marzo, 2017 Libreria L’Altracittà

Julia Hartwig era nata a Lublino il 14 agosto 1921, quest’anno avrebbe compiuto 96 anni. Il giorno 15 luglio 2017 Julia Hartwig è deceduta in Pennsylvania. Il suo debutto risale al 1938, quando aveva appena 17 anni. Prese parte alla II guerra mondiale come staffetta dell’Armata Nazionale. Al tempo stesso frequentò i corsi di filologia romanza e polacca presso l’Università clandestina di Varsavia. Negli anni 1947-1950 soggiornò in Francia, grazie a una borsa di studio del governo francese, lavorando nel contempo nell’Ambasciata polacca a Parigi. Nel 1954 sposò il poeta e scrittore Artur Międzyrzecki (v. articolo e poesie sul blog di Paolo Statuti). Insieme al marito  trascorse alcuni anni negli USA (1972-1974). A gennaio del 1976 sottoscrisse il “Memoriale101”, in segno di protesta per le progettate modifiche antidemocratiche della Costituzione polacca. Negli anni 1986-1991 fu membro attivo di “Solidarność”.

Questa poetessa, che il premio Nobel Czesław Miłosz definì “la grande dama della poesia polacca”, occupa un posto di primo piano e a se stante nella letteratura polacca contemporanea. Nei suoi versi arguti, raffinati, sempre tesi alla comprensibilità da parte del lettore, spesso alla gravità abbina l’ironia, allo sconforto la visione onirica, la gioia di esistere, alla tangibilità dei sensi. Cos’è la poesia per Julia Hartwig? Èla descrizione del mondo, è il prendere nota di esso. È dare un nome a ciò che si è visto: un volto scoperto nella folla, una persona (come quella vecchia donna notata una domenica pomeriggio su una panchina lungo l’East River). Un elemento del paesaggio ancora inosservato. I numerosi ricordi di viaggio: uno scoiattolo al Regent Park, un villaggio al confine spagnolo, dove sulla terrazza di una vecchia casa su un pendio “una ragazza con la cuffietta bianca serve succulente trote, una località in Portogallo, dove “in un caffè debolmente illuminato e con le pareti scrostate/gli scrittori sorseggiano il vino/nella vicina taverna qualcuno canticchia sul palco un fado/dalla scura collina si vedono le vacillanti luci di Lisbona”. È un prendere nota della realtà: con affetto, con una chiarezza lungi da esperimenti formali, anche se a volte ai limiti tra veglia e sogno. È un prendere nota con la speranza di scoprire qualche altro significato nascosto o non ancora capito fino in fondo.

Tra le sue opere ricordiamo in particolare le raccolte di poesie e di prose poetiche: Pożegnania (Addii, 1956), Wolne ręce (Mani libere, 1969), Dwojstość (Duplicità, 1971), Czuwanie (Veglia, 1978), Chwila postoju (Un attimo di sosta, 1980), Obcowanie (Compagnia, 1987), Czułość (Tenerezza, 1992), Zobaczone (Visto, 1999), Nie ma odpowiedzi (Non c’è risposta, 2001), Błyski (Lampi, 2002), Gorzkie żale (Amari lamenti, 2011); le monografie letterarie: Apollinaire (1962), Gérard de Nerval (1972); i diari: Dziennik amerykański (Diario americano, 1980) – un meraviglioso libro sull’America, Zawsze powroty. Dziennik podróży (Sempre ritorni. Diario di viaggio, 2001); le traduzioni della poesia francese (tra gli altri: Rimbaud e Apollinaire). Insieme al marito ha realizzato l’antologia di poeti americani Opiewam nowoczesnego człowieka (Canto l’uomo contemporaneo, 1992). Julia Hartwig ha scritto anche saggi e libri per bambini. Ha ricevuto diversi importanti premi letterari e i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue, tra cui l’italiano.

 

julia hartwig_1

Julia Hartwig

Poesie di Julia Hartwig 

Il bambino nella carrozzina tende le mani alle foglie che cadono fitte.
Ancora non sa che vanno a zigzag tra esse vaporosi defunti, vampiri, ragnatele di silfidi dell’estremo oriente portate qui in viaggio, innominati fantasmi dai molti occhi.
Attraversano a nuoto il giardino autunnale, tirandosi dietro una striscia di primi rigidi soffi.
Si riscaldano agli ultimi raggi, felici del calore.

 

Il prato

Voglio chiamare questo prato
senza parole prendete questo quadro da sotto le palpebre
sì e anche questo profumo prendete
e non sbagliate la musica
là c’era una sinfonia per archi di erbe
dei temi un giallo e lilla bouquet musicale senza pecche
eine kleine tagesmusik
delicata nei varchi del respiro
e passi passi come in sogno
e inoltre passi così lucidi
come se la testa fosse una bella calcolatrice
o una lucente tromba che un sensato sole suona
così cogliere i fiori di un amore impetuoso
così nel sorriso andare incontro
così dare in eterno questo inchino del monte
l’ombra che cade nella valle la scultura di un pendio
la bramosia il presentimento della fine
così morire nel profumo di trifoglio e di fieno
nelle apparenze delle nebbie negli incensi dell’umidità
asfissiata accecata dalle torture della luna
chiamo ma chi mi sentirà
colui che qui dopo di me morirà di ammirazione
dunque inutilmente voglio dare questo prato
un prato sempre diverso
un prato sempre diverso
ah Continua a leggere

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Andrzej Titkow POESIE SCELTE – l’ONTOLOGIA DELL’INESISTENZA Traduzione e presentazione a cura di Paolo Statuti

foto Diego_Cajelli_Bridge

Diego Cajelli Bridge

Andrzej Titkow, poeta, regista, sceneggiatore polacco, è nato a Varsavia il 24 marzo 1946. Come poeta ha debuttato nel 1963 sul settimanale Tempi moderni, e come regista cinematografico nel 1971 con il documentario In questa non grande città. Ha realizzato più di 80 documentari e alcuni film a soggetto. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: Introduzione a un poema non scritto (1976), Annotazioni, scongiuri (1996) e Cantico dei Cantici al contrario (2016).

Di quest’ultima raccolta egli dice: «E’ come un diario lirico tenuto per più di mezzo secolo. La poesia è stata il mio primo amore e non l’ho mai tradita. A volte penso di  essere soltanto un poeta che fa anche dei film. Solo la poesia, come in genere l’arte, riesce a reggere il peso esistenziale del singolo individuo, ad esprimere le sue gioie e sofferenze, la sua impotenza verso ciò che lo aspetta. Seguo da tanto tempo il mio proprio sentiero e cerco di non accrescere il caos. Ancora non ho detto tutto e sono sempre pronto ad accogliere nuove sfide».

Il giornalista e poeta polacco Ludwik Lewin, in un suo articolo dal titolo Andrzej Titkow ovvero l’ontologia dell’inesistenza, scrive: «Fin dall’inizio la filosofia di Titkow è stata dolorosa. Dolorosa fisicamente. Con il dolore terminano (e iniziano?) i tentativi di amare, di descrivere la propria esistenza e il proprio posto tra gli uomini: “qualcuno mi ha colpito egli era me, io ero lui, ma mi doleva il braccio, mi dolevano gli occhi”… E gli uomini? Sono, ma non ci sono, come quando “si intravvedeva la separazione, benché non si fossimo ancora incontrati” e là, dov’è “quella ragazza così vicina, che è intoccabile”. E io? “Io cinto di me da ogni lato, ma non autosufficiente, esigo un nome”. Di fronte alla relatività del tempo, alla reiterazione, interscambiabilità e immobilità degli eventi, i nomi hanno un senso? “Ciò che non è avvenuto domani a Budapest, Accadrà oggi a Parigi…” La relatività cronologica e geografica conduce all’impotenza, e il suo effetto deve essere l’incompiutezza…Le poesie di Titkow parlano delle apprensioni, dei timori, degli spaventi che prova ognuno di noi. E – paradossalmente – riescono a mitigarli».

 

Andrzej Titkow part_1

Andrzej Titkow 

Poesie di Andrzej Titkow 

 Risposta

con ponderazione dalle parole troncare
con la scure del verso tutto il superfluo
e le parole comporre finché risuoni una musica soave
ma questo mondo non conosce armonia
dunque tutto ciò che potrò fare è chinarmi
e bere a volontà dal pigro fiume del consueto
è così che nasce il verso
che non riuscirà ad annotare
o qualcosa che annoto con cura benché verso più non è
volentieri ti do ragione – la Danimarca è una prigione
ma la prigione più amara è nell’intimo –
questo silenzio

1968

La protesi

Non so da quando, da quanto tempo colui
che parla in mio nome non è più
me stesso, non so da quando, con che diritto parlano
con la mia bocca i nemici, gli amici nonché
il passante comune, lo statista sfinito
dalla vita, grigio come il muro, sotto il quale ogni giorno
si ferma, per riprendere fiato
Non so a chi appartiene questa voce
che emana da me, voce che potrebbe
essere la cosiddetta voce della coscienza –
tanto è smorzata, incolore, randagia
Davvero non so chi parla in mio nome
e in nome di chi parla in me questo ventriloquo
Colui che parla, benché non sia me stesso,
vuole essere udito oltre le parole, nelle parole
e a dispetto delle parole vuole essere ascoltato,
tra le molte voci vuole riconoscere la sua voce
Questo caso, quale io sono, questa necessità
che il mio io crea, cinto di me da ogni lato,
ma non autosufficiente, esige un nome

1973

 A cena

                                          – Amleto, dov’è Polonio?
                                          – A cena.
                                          – A cena? dove?
                                          – Non là, dove egli mangia, ma là, dove mangiano lui Continua a leggere

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Ubaldo De Robertis La poesia italiana dal dopoguerra ad oggi, per ragioni storico-culturali, ha sottovalutato e abbandonato la metafora – La metafora e l’immagine sono una zavorra per la poesia? Una poesia di Tadeusz Różewicz : La caduta, traduzione di Paolo Statuti

Caro Giorgio Linguaglossa,

 tu scrivi:

 “ La poesia italiana dal dopoguerra ad oggi, per ragioni storico-culturali, ha sottovalutato e abbandonato la metafora quale via privilegiata al discorso poetico, l’ha trattata come una sorella bruttina e stupida da non mostrare in pubblico nelle occasioni pubbliche. Il risultato è stato che, senza rendercene conto, abbiamo sposato l’idea assurda che facendo guerra alla metafora si potesse scrivere poesia moderna. Così, privando il discorso poetico della metafora, scrivere poesia è diventata una cosa di estrema facilità, era (ed è) sufficiente mettere in linea (come nella prosa) delle parole, magari lambiccate o prosasticamente attrezzate, per fare poesia. A mio avviso, era (ed è) una via errata che ha finito per portare la poesia italiana in un vicolo cieco.
Basti pensare ad una cosa estremamente evidente: quando sorge il bisogno di una metafora? (lo chiedo ai poeti e ai critici), ma è semplice: la metafora sorge quando ci si trova dinanzi ad una «assenza», quando non abbiamo parole per indicare una «cosa» che altrimenti non potremmo nominare: una «cosa» non esiste se non abbiamo la corrispettiva parola che la indica; e questo che cos’è se non una metafora? La parola (al suo sorgere) è naturalmente una metafora, che poi l’uso di milioni di persone durante decine o centinaia di anni svigorisce e appanna fino a farla diventare parola normale, cioè consunta, consumata, e quindi insignificante. Senza la metafora non potremmo nominare ciò che linguisticamente non appare, ovvero, ciò che è «assente». Se ne deduce che Parola e Metafora vanno di pari passo.”

So che la questione è complessa ma penso sia utile al dibattito che stai conducendo sulla poesia i seguenti passaggi che ho tratto dallo studio e dal pensiero di  Różewicz:

punto A)

Se il motto dell’Avanguardia è produrre poesia con “il minimo delle parole e massimo contenuto” facendo un ampio uso di metafore, Tadeus Różewicz ribalta questa strategia che risparmia le parole eliminando la metafora: il verso è libero, senza punteggiatura, si accostano elementi dissimili che offrono nuove possibilità interpretative. Al contrario “la metafora e l’immagine ritardano l’incontro fra il lettore e la materia essenziale del componimento poetico

Miłosz parla così del poeta della seconda generazione dell’avanguardia:«Non conosco nella poesia europea del nostro secolo nulla di più penetrante: il  suo respingere ritmo metro e metafora, indica una specie di orrore per la  grande “arte” come se fosse qualche cosa di amorale, un voler essere completamente nudo di fronte alla sofferenza umana. L’opera degli anni Ottanta si presenta sempre più spoglia di immagini e subisce un processo di sintesi e di diminuzione delle parole. La metafora scompare per lasciar spazio a frasi sempre più elementari.

La musica – il suono e l’immagine – la metafora, non sembrano più delle ali che trasmettono la poesia dal suo autore al destinatario, ma una zavorra di cui ci si deve liberare affinché la poesia si innalzi e che sia pronta non per un ulteriore volo, ma per un’ulteriore vita.

Różewicz si rende conto che questa strada potrebbe portare la poesia al suicidio, o al silenzio, eppure crede che sia necessario correre questo rischio. Nella sua poesia ci sono immagini e metafore ma c’è una continua aspirazione alla rinuncia della metafora-immagine.

Queste sono parole di Różewicz: “Seguendo le orme di Aristotele, i poeti e i critici affermano che la cosa più importante in poesia sia l’uso efficace delle metafore ed esso determina l’individualità e la genialità del poeta. Immaginiamo di aver eliminato l’immagine-metafora, cosa ci resta? La paura di avere tra le mani solo una manciata di parole – la prosa, l’opposto della poesia. Vorrei far notare che l’immagine resta lo scopo principale nella produzione dei poeti contemporanei. I poeti elaborano l’immagine ad uso del destinatario, attraverso l’immagine danno vita a una piccola rivelazione del mondo e dell’immaginazione. Sono come dei residui di rituali magici e di incantesimi. Sono gli sforzi della gente che crede nell’esistenza della poesia in abstracto.

Più la veste esteriore di una poesia è complessa, ornamentale e sorprendente, peggio è per il momento lirico che spesso non riesce a farsi strada fra i decori artificiosi aggiunti dai poeti. Sono lontano dall’imporre a chiunque questo genere di pensieri, eppure ritento in continuazione e attacco l’immagine da tutti i fronti, sperando di toglierla come elemento decorativo e superfluo. A mio parere la lirica moderna sarebbe il risultato dello scontro tra i fenomeni e i sentimenti, tra i sentimenti e le cose. L’immagine in tal caso sarebbe d’aiuto, ma non necessaria. L’immagine che viene ampliata eccessivamente dal poeta si nutre di un’immaginazione artificiale, inventata, distrugge il germe e il seme della poesia lirica. Infine danneggia sé stessa, togliendo l’immaginazione al dramma che si verifica all’interno della poesia . La poesia non si fa tramite il rimando di immagini, esse ne rappresentano lo strato più superficiale. Più la veste esteriore di una poesia è complessa, ornamentale e sorprendente, peggio è per il momento lirico che spesso non riesce a farsi strada fra i decori artificiosi aggiunti dai poeti.

In una certa fase risulta che tutta la nostra esperienza poetica e la capacità di costruire immagini non abbiano senso, benché esse esigano da noi una grande cultura, tanta laboriosità, originalità e altre caratteristiche tanto apprezzate dai critici. Ritengo dunque che il ruolo della metafora “come guida più eccellente e rapida” tra autore e destinatario sia molto problematico.

In pratica il poeta, con l’aiuto dell’immagine, è come se illustrasse il verso, egli illustra la poesia. Intanto ciò che accade nel mondo dei sentimenti non vuole più mostrarsi attraverso le metafore più belle e riuscite, ma vuole apparire da sé. Vuole mostrarsi all’improvviso e nella sua univocità, vuole darsi al lettore.

La metafora e l’immagine non accelerano, bensì ritardano l’incontro tra il lettore e la materia vera e propria dell’opera poetica. A mio parere quell’opera dovrebbe correre dal suo autore al destinatario liberamente, non dovrebbe trattenersi alle belle e affascinanti (dal punto di vista estetico) fermate stilistiche. Questa è la differenza fondamentale tra i miei saggi, la mia pratica poetica e tra ciò che i poeti dell’Avanguardia hanno fatto nella poesia polacca.”

Tadeusz Różewicz

La caduta ovvero elementi verticali e orizzontali nella vita dell’uomo contemporaneo

Tanto
tanto tempo fa
c’era un solido fondo
che l’uomo poteva
toccare

l’uomo che vi giaceva
grazie alla sua sconsideratezza
o grazie all’aiuto del prossimo
era guardato con spavento
interesse
odio
gioia
era additato
ma egli a volte
si alzava
si risollevava
macchiato e grondante
.
Era un solido fondo
si potrebbe dire
un fondo borghese

un fondo era per le signore
e un altro per i signori
in quei tempi c’erano
ad esempio donne corrotte
screditate
c’erano bancarottieri
un genere oggi quasi
sconosciuto
il suo fondo aveva il politico
il prete il commerciante l’ufficiale
il cassiere e l’erudito
un tempo c’era anche un altro fondo
oggi esiste ancora un vago
ricordo
ma il fondo non c’è più
e nessuno può
toccare il fondo
o restare in fondo

Il fondo che rammentano
i nostri genitori
era una cosa costante
sul fondo
tuttavia
si era
specificati
l’uomo perduto
l’uomo smarrito
l’uomo che
si risolleva
dal fondo

dal fondo si potevano anche
tendere le braccia chiamare “dal profondo”
adesso questi gesti non hanno
alcun senso
nel mondo contemporaneo
il fondo è stato rimosso

l’incessante caduta
non favorisce atteggiamenti
pittoreschi posizioni
salde

La Chute la Caduta
è ancora possibile
solo in letteratura
nel sogno nella febbre
ricordate il racconto

sull’onestuomo
non corse in aiuto
sull’uomo che praticava la “dissolutezza”
mentiva era schiaffeggiato
per questa fede

il grande defunto forse l’ultimo
moralista francese contemporaneo
ricevette nel 1957
il premio

com’erano innocenti le cadute

ricordate
le antiche
Confessiones
del vescovo di Hippo Regius

C’era un pero nelle vicinanze della nostra vigna,
che non allettava né per l’aspetto, né per il sapore.
Noi giovani ignobili dopo aver tirato in lungo i
nostri scherzi per le strade, secondo un’infame
abitudine, ci recammo là, nel cuore della notte,
per scuotere la pianta e raccogliere le pere.
Ne cogliemmo una quantità enorme, ma non per
farne una scorpacciata, ma per gettarle ai porci.
Anche se ne assaggiammo qualcuna, fu solo per
il gusto della cosa proibita. Ecco il mio cuore, Dio,
ecco il mio cuore di cui hai avuto pietà, quando
esso si è trovato in fondo all’abisso…

“in fondo all’abisso”

peccatori e penitenti
santi martiri della letteratura
agnelli miei
siete come bimbi al petto
che entreranno nel Regno
(peccato che esso non ci sia)

– Lei, padre, crede in Dio? – gridò di nuovo Stavroghin
– Credo.
– È stato detto che la fede sposta le montagne. Se uno
crede e ordina alla montagna di spostarsi, quella si
sposterà…mi scusi l’indiscrezione, ma m’interessa
sapere se lei, padre, farà spostare la montagna
.
simili domande faceva il “mostro” Stavroghin
e ricordate il suo sogno
il quadro di Claude Lorraine
alla Galleria di Dresda
“qui vissero uomini bellissimi”
Camus
La Chute la Caduta
Ah, mio caro, per l’uomo che è solo, senza
dio e senza padrone, il peso dei giorni è terribile

quel lottatore dal cuore di bambino
immaginava
che i canali concentrici di Amsterdam
fossero un girone dell’inferno
dell’inferno borghese
naturalmente
“qui siamo nell’ultimo girone”
diceva a un compagno occasionale
nel bar
l’ultimo moralista
della letteratura francese
prese dall’infanzia
la fede nel Fondo
Doveva credere profondamente nell’uomo
Doveva amare profondamente Dostojevskij
doveva soffrire perché
non c’è l’inferno il cielo
l’Agnello
la menzogna
gli sembrava di aver scoperto il fondo
di giacere sul fondo
di essere caduto

Invece

il fondo non c’era più
lo capì senza volerlo
una signorina di Parigi
e scrisse un componimento
sul coito buongiorno tristezza
sulla morte buongiorno tristezza
e i lettori riconoscenti
da entrambi i lati
di quella chiamata allora
cortina di ferro
lo compravano
a peso d’oro
quella signorina signora
quella signorina quella signora
ha capito che il Fondo non c’è
che non ci sono i gironi dell’inferno
che non c’è il risollevamento
e non c’è la Caduta
tutto si svolge
nel noto
limitato spazio
tra
Regio genus anterio
regio pubice
e regio oralis

e ciò che un tempo era
il vestibolo dell’inferno
fu trasformato
da una letterata di moda
in vestibulum
vaginae

Chiedete ai genitori
forse ricordano ancora
l’aspetto del vecchio Fondo
il fondo della miseria
il fondo della vita
il fondo morale

la “Dolce vita”
o Cristina Keller
viveva nel fondo
il rapporto di lord Denning
afferma
tutto il contrario
Il Mons pubis
da questa vetta
si stendono vasti
crescenti orizzonti
dove sono vette
dov’è l’abisso
dov’è il fondo

a volte ho l’impressione
che il fondo dei contemporanei
si trovi poco sotto la superficie
della vita
ma forse è un’ulteriore illusione
forse esiste ai “nostri giorni”
la necessità di costruire
un nuovo
Fondo adatto
alle nostre necessità

Mondo Cane
perché questo quadro mi fece
una grande impressione che cresce ancora
che cresce sempre
Mondo Cane ein Faustschlag ins Gesicht
Mondo Cane film senza stelle
Mondo Cane
dove si mangia si balla si uccidono gli animali
“si fa l’amore” si balla si prega si muore
colorito reportàge
sull’agonia
sull’agonia dei vecchi
sulla cucina cinese
sull’agonia di uno squalo
sui condimenti
sull’uccisione delle vecchie
automobili
ricordo lo schiacciamento delle forme
lo schiacciamento del metallo
il frastuono e lo stridore
l’annientamento delle carrozzerie
le viscere metalliche dell’automobile
il cimitero delle automobili
un altro modo di dipingere
i quadri a ritmo di musica celeste
a Parigi l’impronta del corpo su tele bianche
il velo di santa Veronica
i volti dell’arte
le bocche dei milionari e delle loro donne
la frittura di formiche insetti e larve
neri mucchietti in scodelle d’argento
le labbra di chi mangia
labbra rosse in Mondo Cane
grandi lucide labbra rosse
si muovono in Mondo Cane

Poi è iniziata la discussione
sul capitolo III dello schema relativo alla Chiesa
al popolo di Dio e al laicato

Il cardinal Ruffini
ha spiegato
che il concetto di Popolo di Dio
è assai impreciso
poiché il III capitolo
non ha ottenuto la maggioranza qualificata
dei voti è stato rinviato
alla Commissione Liturgica
per essere riesaminato

C’era un pero nelle vicinanze della nostra vigna, che non
allettava né per l’aspetto, né per il sapore…confessò Agostino

avete notato che
gli interni delle moderne case di Dio
rammentano
la sala d’aspetto di una stazione
ferroviaria di un aeroporto

Cadendo non possiamo
assumere la forma
di una posizione ieratica
le insegne del potere cadono di mano

cadendo coltiviamo i nostri giardini
cadendo alleviamo i figli
cadendo leggiamo i classici
cadendo eliminiamo gli aggettivi

la parola cade non è
la parola adatta
non chiarisce il movimento
del corpo e dell’anima
in cui scorre l’uomo contemporaneo

le persone ribelli
gli angeli dannati
cadevano all’ingiù
l’uomo contemporaneo
cade in tutte le direzioni
contemporaneamente
in giù in alto di lato
a forma di rosa dei venti

un tempo si cadeva
e ci si rialzava
verticalmente
adesso si cade
orizzontalmente

(1963 in Volto terzo, 1968)

Ubaldo De Robertis leggeUbaldo de Robertis ha origini marchigiane e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: G. Linguaglossa, F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie, tra cui l’Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016 a cura di Giorgio Linguaglossa.

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Wisława Szymborska (1923-2012) INTERVISTA pubblicata su “L’espresso” il 31 ottobre 1996 e POESIE SCELTE da “Epitaffio”, “Basta così” “Nel sonno”, (Adelphi, 2014) e “Monologo per Cassandra”, “Possibilità” “Conversazione con una pietra”, “Terrorista che guarda” “Prospettiva” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska

Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Basta così è il titolo della raccolta postuma di Wisława Szymborska curata da Ryszard Krynicki e tradotta da Silvano De Fanti per Adelphi. Poche poesie prima che sopraggiungesse la morte della poetessa polacca avvenuta il 1 febbraio del 2012.

Ho letto con curiosità l’episodio della pubblicazione di una poesia della giovanissima Wisława sulla rivista più prestigiosa del suo paese. Aveva spedito alla nota rivista alcune poesie che furono subito bocciate dalla redazione perché giudicate «banali e superficiali». Poi, però, uno dei redattori propose alla Szymborska numerosi tagli ad una sua poesia ed insistette affinché venisse pubblicata. Fu così che apparve la prima poesia della Szymborska sulla prestigiosa rivista di letteratura. Quello fu il battesimo letterario della poetessa polacca.

Ecco qui queste poche poesie che il curatore presenta nella forma autografa: foglietti scritti a mano con una grafia attenta e minuta, attraversata da correzioni e ripensamenti. Piccoli versi che non hanno nulla di prezioso, dove non c’è nessun struggimento dell’anima ma una precisissima attenzione per i dettagli delle situazioni e degli oggetti (i dettagli degli oggetti sono molto più importanti degli oggetti), gli spiragli del quotidiano che ci aprono abissi di senso, cose che vediamo tutti i giorni senza farci caso. Il viaggio nel mondo della poetessa polacca è il nostro viaggio, quello che noi tutti ogni giorno facciamo attorno al nostro dito e attorno al nostro «io». Traduzione in semplici frasi dell’assurdo del mondo quotidiano. L’assurdo di chi mette «tutto in ordine dentro e attorno a lui», di chi crede di avere la risposta pronta per tutti i problemi e «appone il timbro a verità assolute, / getta i fatti superflui nel tritadocumenti/, e le persone ignote/ dentro appositi schedari».

E poi ci sono quelle esilaranti composizioni rivolte come frecce acuminate contro gli intellettuali che si nutrono di «parole» inutili e superflue: «parole per spiegare le parole», «cervelli intenti a studiare il cervello», «boschi ricoperti di bosco fino al ciglio», «occhiali per cercare gli occhiali».

«Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta»
(Wisława Szymborska, Torture)
WISLAWA SZYMBORSKA_3

Wisława Szymborska

Credo che la lettura della poesia della Szymborska abbia una funzione ecologica e profilattica della intelligenza, è una difesa della singolarità dell’uomo minacciato dalla invasione di massa del pensiero normalizzato. La poetessa polacca segue uno schema indiretto di esposizione, racconta un evento, magari trascurabile, che tutti abbiamo notato ma che abbiamo dimenticato perché ci è sembrato ovvio, appunto, normale; va per la via più breve attraverso il metro libero verso la cosa che vuole dire, ma poi accade che perde il filo di ciò che sta dicendo e cambia registro, parla di altro, apparentemente, per poi ricordarsi di quel filo lasciato in sospeso e lo riprende, lo riannoda, lo accorcia, lo allunga, lo mette sotto la lente di ingrandimento, lo abbandona di nuovo e lo riprende. Fa ad un tempo una poesia populistica e intellettualistica, minimalistica e antiminimalistica, ironica e autoironica, antifilosofica e filosofica, ermeneutica e antiermeneutica. In una parola, fa una poesia del nostro tempo nichilistico, accetta del Nihil il Nihil senza rimpianti religiosi o filosofici, senza inutili struggimenti, senza contorcimenti; sa che nel nostro mondo di oggi non c’è religione o filosofia che tenga; non c’è religione affatto, e forse non c’è neanche una filosofia che possa consolarci. Religio nel senso di stare insieme, non è più una cosa del nostro tempo. In realtà, la Szymborska minimizza ciò che va minimizzato e mette sotto la lente di ingrandimento i nostri piccoli tic quotidiani, le nostre contraddizioni, le nostre manie, le nostre piccole normalità quotidiane. È il suo modo di trattare il «quotidiano», il suo particolarissimo periscopio. È stato anche detto che la Szymborska è una poetessa minimalista. Nulla di più falso e fuorviante, la sua è una poesia che mette al centro del proprio fare il problema dell’Interrogazione.

È una poesia che si interroga su tutto, che chiede lumi al lettore, che lo convoca, che lo sfida, che lo provoca ad interrogarsi sulle sue medesime interrogazioni, che lo fa sentire importante. Non è una poesia che dice al lettore: «Vieni qui, guardami, guarda quanto sono bella!»; è una poesia che dice al lettore: «Vieni, conducimi, dimmi tu che cosa devo fare in mezzo al ginepraio del mondo». È una poesia di grande responsabilità estetica. Si diceva una volta, una poesia umanistica. Non so se è esatto, io mi contento di dire che è una poesia che si aggrappa al dubbio come all’ultima delle certezze. Forse in ciò è davvero umanistica in quanto problematica, e problematica in quanto umanistica. È una poesia modernistica nel senso più alto del termine, e problematica come lo può essere una poesia umanistica.

Per la Szymborska la poesia non è come una seconda pelle, come un abito che ti sta stretto alla vita, che non ti lascia respirare ma che sei costretto a portare per superiore costrizione, per educazione, per convenzione condivisa, ma un abito libero, abitabile, largo, elastico, comodo. Sappiamo da Wittgenstein che l’abito non è fatto per coprire il corpo nudo, non è quello il suo compito, altrimenti tutto sarebbe fin troppo semplice, ma per ben altri scopi che nulla hanno a che vedere con il freddo o il caldo da cui l’abito dovrebbe fornire protezione. Così, il linguaggio poetico è fatto per ben altri scopi che non per comperare un biglietto quando si sale sull’autobus. Si può prendere l’autobus o la metro senza aver mai letto un rigo di poesia. E la cosa riesce assai meglio dice la Szymborska che ci rivela che lei preferisce leggere prosa anziché poesia. Si vive meglio senza aver mai frequentato la Musa, dice la Szymborska. La Musa della poesia ama essere dimenticata, abbandonata in un angolo e dimenticata. Chi vuole risvegliarla dal suo letargo, spesso la fa fuggire. E per sempre. Così chi vuole comprarla con similori o con gioielli posticci. La Musa preferisce abiti lisi e trasandati. E, a volte, anche anime semplici. Abitate dal dubbio, però.

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Wisława Szymborska

Intervista a Wislava Szymborska pubblicata su “L’espresso” il 31 ottobre 1996

 Signora Szymborska, perché scrive poesie?

 Io proprio non lo so. Mi sembra che la risposta sia da ricercare fra i lettori, non fra gli autori. L’autore segue un impulso quasi vitale: e la risposta del lettore tiene in vita quell’impulso, che si perpetua. Perché il lettore d’un tratto ama una poesia? Forse qualcosa colpisce la sua memoria: qualcosa non lo lascia tranquillo tanto da dover tornare più volte su quel testo. A me capita questo quando leggo delle poesie. Come poeta scrivo perché si legga quello che scrivo: e scrivo perché ho bisogno di scrivere.

Spieghi ai lettori italiani, che la conoscono poco, qual è la sua poesia da cui sarebbe meglio partire per avvicinarsi alle sue opere, al suo lavoro.

Non sono in grado di farlo. C’è un filo conduttore che unisce tutto quel che ho scritto, ma per me è veramente impossibile esaminare in questo modo la mia poesia. però è una risposta che certamente un traduttore o un lettore attento sono in grado di dare molto meglio di me.

Ma come vorrebbe fosse interpretata la sua poesia?

A me piace quando un lettore o un attore legge i miei versi come se pensasse a voce alta. Vorrei fosse interpretata così la mia poesia. La cosa peggiore è la meta interpretazione, e iperinterpretazione: il volere a tutti i costi aggiungere qualcosa in più, qualcosa di troppo, che non c’è, alla poesia. Invece, sempre riferendomi ai miei versi, mi piace quando vengono letti guardando in faccia il pubblico, come in un discorso, con «nonchalance», come si stesse riflettendo ad alta voce.

Come scrive le sue poesie? Di getto o invece sono il frutto di una lunga riflessione?

L’ispirazione è sempre necessaria. La si può chiamare in modi diversi: estro, impulso… La mia poesia viene in genere descritta come «poesia riflessiva»: e lo è. Ma questo non ne fa una poesia fredda, programmatica, un lavoro a tavolino da burocrate. O almeno spero! Io traggo ispirazione da tantissime cose, ma tendo a scrivere poco: rifletto su quel che provo, non accetto facilmente tutte le prime parole «ispirate» che saltano in mente. Il problema è anche terminologico: da noi si tende ancora ad associare l’ispirazione solo e soltanto alla poesia, oppure la si riferisce solo a certi movimenti letterari delle epoche passate. A me sembra che ogni attività che richieda riflessione, ogni compito al quale ci si dedichi completamente, richieda un’ispirazione. L’ispirazione non è sconosciuta al medico, al chirurgo, all’avvocato, all’insegnante, allo studente e così via. È quel qualcosa che all’improvviso ti penetra il cervello con una chiarezza e evidenza tali da far vedere ciò che prima non c’era. Per la mia poesia è vitale: quando manca questo non scrivo più.

Lei ha sempre odiato i circoli letterari. Teorizza la solitudine del poeta. Ama far sapere che è inaccessibile, che le piace stare in disparte. Perché?

 All’inizio è naturale che i giovani poeti si riuniscano in gruppi. Il poeta solitario, fuori del mondo, deve avere una gran fortuna per riuscire a emergere e farsi sentire se non ha nessun contatto con gli altri poeti. Il gruppo all’inizio è necessario e naturale. Infonde anche una buona dose di coraggio. Ma può durare a lungo e certo non per tutta la vita. È di cattivo gusto e brutto segno quando, dopo una vita, ci sono ancora vecchi poeti che si tengono stretti al proprio circolo. E allora credo sia un disastro per entrambi, poeta e poesia.

L’ironia è uno degli elementi che fondano il suo lavoro di poeta. In tutte le sue opere l’ironia è un elemento fondamentale. Perché?

L’ironia è un concetto talmente vasto: le pagine più belle sull’ironia le ha scritte Thomas Mann, che pure ne distingue vari tipi. Spesso la gente confonde l’ironia col dileggio, lo scherno, il disprezzo per l’altro, e a volte diviene altezzosità che mette chi ironizza su un piano più elevato rispetto all’oggetto dell’ironia. Ma non bisogna dimenticare che nell’ironia c’è anche l’elementto della compassione. Io rido un po’ di me e un po’ di voi. Non dimentico mai di ridere prima di tutto di me stessa. Questa è l’ironia che preferisco e spero ogni tanto mi riesca così come la intendo.

Anche come antidoto contro il sentimentalismo

Sicuramente. La nostra è un’epoca che ha una paura folle dei sentimentalismi. Così l’ironia è una maschera dietro la quale ci si cela per dire qualcosa sinceramente, ma evitandoci l’imbarazzo del sentimento o della sincerità.

Cosa legge più volentieri?

Se parliamo delle mie letture, non quelle obbligatorie per lavoro o altro, allora più volentieri leggo prosa.

Non poesia?

No, affatto. Ho sempre amato tanto la prosa. Ho sempre letto prosa e quando ho iniziato a scrivere, quando pensavo che sarei stata una scrittrice all’età di dodici, tredici anni era per me inconcepibile la scrittura poetica. «Dio ce ne scampi dalle poesie», dicevo, «io scriverò enormi romanzi, in più volumi, grassi, massicci, intere biblioteche di romanzi!»

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Wisława Szymborska

È così che ha incominciato a scrivere quelle recensioni sui libri più strani e bizzarri che escono ancora periodicamente sul quotidiano ‘Gazeta Wyborcza’?

 Anni fa mi buttarono fuori dalla redazione del giornale per motivi politici – scrivevo una rubrica sulla poesia all’epoca. Poi qualcuno mi propose di aprire una rubrica tutta mia su qualsiasi argomento preferissi. E allora mi venne in mente di recensire o di trattare in un mucchietto di righe libri di tutte le specie, di botanica, pesca, culinaria, diari di donne sconosciute ecc. Tutti libri dei quali nessuno sa nulla, ma che esistono, che possono essere persino leggibili.

E funzionò?

erano tempi politicizzati nel senso meno salutare del termine e io feci del mio meglio perché la gente potesse per un attimo prender fiato da tutta quella propaganda. Credo mi sia riuscito, dal momento che la rubrica veniva largamente letta: la leggevano sapendo che in essa non si nascondevano dogmi ideologici. Sapevano che da me non avrebbero ricevuto il solito pappone propagandistico.

Nella sua opera manca l’elemento corporeo. Al punto che la sua poesia viene definita «asessuata».

Manca un certo grado di fisicità perché è una poesia riflessiva, cerebrale. e se si intende per fisicità la descrizione dell’amore fra un uomo e una donna, allora non la si troverà nella mia poesia, per il semplice fatto che ritengo l’amore fra l’uomo e la donna assolutamente indescrivibile. Io non ho mai letto un solo verso assolutamente passabile su questo argomento. Certamente fra le mie raccolte si possono rintracciare un paio di poesie scritte per una donna, o che hanno un punto di vista femminile… ma niente di più. Ma le donne non devono scrivere poesie d’amore…

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Wisława Szymborska

Epitaffio

Qui giace come la virgola obsoleta
l’autrice d’un paio di versi. La terra l’ha degnata
dell’ultimo riposo, sebbene in vita lo spettro
non abbia mai aderito a gruppi letterari di rispetto.
E anche sulla tomba di meglio non si trova
di questa filastrocca, un gufo e la bardana.
estrai dalla valigetta il cervello elettronico, passante
e medita sul destino di Szymborska un solo istante.

Nel sonno

.
Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all’indirizzo vecchio.
.
Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.
.
Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti.
.
Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.
.
Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.
.
Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell’oblio.
Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.
.
Spazzavo via l’aria
e l’erba dell’infanzia.
.
Cercavo di fare in tempo
prima del crepuscolo del secolo trascorso,
dell’ora fatale e del silenzio.
.
Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.
.
Al risveglio
ho guardato l’orologio.
Il sogno era durato due minuti e mezzo.
.
Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacché si imbatte
nelle teste addormentate.

.
Monologo per Cassandra

Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

E’ vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.

Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –

È andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.

(da “Sale” 1962)

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Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa su tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d’altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti,
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

Conversazione con una pietra

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
– Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

.
***

Terrorista che guarda, 1974:
La bomba scoppierà nel bar alle tredici e venti.
Adesso sono solo le tredici e sedici.
Alcuni faranno in tempo ad entrare,
Altri a uscire.
Il terrorista ha già attraversato la strada.
Questa distanza lo tiene in salvo dal pericolo,
e la visuale è proprio come al cinema.
Una donna con la giacca gialla, ecco entra.
Un uomo con gli occhiali scuri, lui esce.
Dei ragazzi in blue jeans se ne stanno a chiacchierare.
Le tredici diciassette minuti e quattro secondi.
Il più basso ha fortuna e salta sullo scooter,
quello più alto entra dentro.
Ore tredici e diciassette e quaranta secondi.
C’è una ragazza col nastro verde tra i capelli.
Ma ecco che l’autobus ne impedisce la vista.
Ore tredici e diciotto.
Non c’è più la ragazza.
Ma se è stata così sciocca da entrare,
lo si vedrà quando li porteranno fuori.
Ore tredici e diciannove.
Beh, non esce nessuno.
Ma ecco che esce ancora un uomo grasso e calvo.
Però, così, come se stesse cercando qualcosa per le tasche e
alle tredici e venti meno dieci secondi
rientra a veder se trova quei suoi miseri guanti.
Sono già le tredici e venti.
Ma come va piano il tempo.
Ecco, forse ora.
No, non ancora.
Sì, adesso.
È la bomba che scoppia.

.
Prospettiva

Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.
Forse smarriti
O distratti
O immemori
Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia
Che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra
E chi guarda dall’alto
Sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
E io, solo per un istante
Certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.

Wislawa Szymborska

Nasce nel 1923, nel 1931 Wisława Szymborska si trasferisce con la famiglia a Cracovia, città alla quale è stata sempre legata: vi ha studiato, vi ha lavorato e vi ha sempre soggiornato, da allora fino alla morte. Allo scoppio della guerra nel 1939, continua gli studi liceali sotto l’occupazione tedesca, seguendo corsi clandestini e conseguendo il diploma nel 1941. A partire dal 1943, lavora come dipendente delle ferrovie e riuscì a evitare la deportazione in Germania come lavoratrice forzata. In questo periodo comincia la sua carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Comincia inoltre a scrivere storie e, occasionalmente, poesie.

Sempre a Cracovia, Szymborska comincia nel 1945 a seguire in un primo momento i corsi di letteratura polacca, per poi passare a quelli di sociologia, presso l’Università Jagellonica, senza però riuscire a terminare gli studi: nel 1948 fu costretta ad abbandonarli a causa delle sue scarse possibilità economiche. Ben presto viene coinvolta nel locale ambiente letterario, dove incontra Czesław Miłosz, che la influenzò profondamente.

Nel 1948 sposa Adam Włodek, dal quale divorziò nel1954. In quel periodo, lavorava come segretaria per una rivista didattica bisettimanale e come illustratrice di libri. Nel 1969 si sposa con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz, che muore nel1990. La sua prima poesia, Szukam słowa (Cerco una parola), fu pubblicata nel marzo 1945 sul quotidiano «Dziennik Polski». Le sue poesie vengono pubblicate con continuità su vari giornali e periodici per parecchi anni; la prima raccolta Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) venne pubblicata molto più tardi, nel1952, quando la poetessa aveva 29 anni.

In effetti, negli anni quaranta la pubblicazione di un suo primo volume venne rifiutata per motivi ideologici: il libro, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel1949, non superò la censurain quanto «non possedeva i requisiti socialisti». Ciò nonostante, come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica, nella prima fase della sua carriera Szymborska rimase fedele all’ideologia ufficiale della PRL: sottoscrisse petizioni politiche ed elogiò Stalin, Lenin e il realismo socialista. Anche la poetessa-Szymborska cercò in seguito di adattarsi al realismo socialista: il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti testi dai titoli come Lenin oppure Młodzieży budującej Nową Hutę (Per i giovani che costruiscono Nowa Huta), che parla della costruzione di una città industriale stalinista nei pressi di Cracovia. Aderì anche al PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, «partito operaio unito polacco»), del quale fu membro fino al1960.

Tuttavia, in seguito la poetessa prese nettamente le distanze da questo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche la seguente raccolta Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Anche se non si distaccò dal partito fino al 1960, cominciò ben prima a instaurare contatti con dissidenti. Successivamente Szymborska ha preso le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.

Dal 1953 al 1966 fu redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al1981. Sulle pagine di questa pubblicazione è apparsa la serie di saggi Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative), che sono state successivamente pubblicate, a più riprese, in volume. Nel 1957  fece amicizia con Jerzy Giedroyc, editore dell’influente giornale degli emigranti polacchi «Kultura», pubblicato a Parigi, al quale contribuì anche lei. Il successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957.

Dal 1981 al 1983 Wisława Szymborska è stata  redattrice del mensile di Cracovia «Pismo». Negli anni ottanta intensificò le sue attività diopposizione, collaborando al periodico samizdat «Arka» con lo pseudonimo «Stanczykówna» e a «Kultura». Si impegnò per il sindacato clandestino Solidarność. Dal 1993 pubblica recensioni sul supplemento letterario del «Gazeta Wyborcza», importante quotidiano polacco. Nel 1996 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà». Ha anche tradotto dal francese al polacco alcune opere del poeta barocco francese Théodore Agrippa d’Aubigné. Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Pietro Marchesani ha tradotto la maggior parte delle sue raccolte poetiche in italiano; La sua più recente raccolta poetica, Dwukropek (Due punti), apparsa in Polonia il 2 novembre 2005, ha riscosso uno strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi. Dopo diversi mesi di malattia, il 1º febbraio 2012, Szymborska è scomparsa nel sonno presso la sua casa a Cracovia. Dopo essere stata cremata è stata sepolta nella tomba di famiglia.

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UNA POESIA di Tadeusz Różewicz “La caduta ovvero elementi verticali e orizzontali nella vita dell’uomo contemporaneo” Versione e Presentazione di Paolo Statuti – Commento di Giorgio Linguaglossa 

Polonia Esecuzione di 56 civili polacchi a Bochnia durante l'occupazione della Germania nazista della Polonia; 18 December 1939

Esecuzione di 56 civili polacchi a Bochnia durante l’occupazione della Germania nazista della Polonia; 18 December 1939

Presentazione di Paolo Statuti

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Questo poema di Tadeusz Różewicz va considerato come un’aspra critica rivolta a ogni mortale dei nostri giorni. Il titolo stesso ha un significato estremamente ironico, che rasenta quasi il sarcasmo. L’idea essenziale che il poeta vuole trasmettere ai lettori è che la gente odierna si trova in una condizione morale notevolmente peggiore rispetto a tanto tempo fa,  quando “si cadeva verticalmente”. Il “fondo” dell’uomo contemporaneo si trova assai vicino. Oggi cadiamo non in giù, ma di lato. Attualmente l’uomo è un essere degenerato, privo di valori e principi fondamentali, e per questo si trova costantemente sul fondo. L’uomo è caduto così in basso, che ormai può muoversi solo in senso orizzontale – in uno stato di perenne degenerazione.
Nel poema l’autore ricorre alla storia della letteratura, tramite diversi riferimenti. Ricorda la figura di Albert Camus che nel 1957 ricevette il premio Nobel. Różewicz lo definisce “l’ultimo moralista francese contemporaneo”, e tratta ironicamente il suo romanzo sulla caduta morale dell’uomo. Si ricollega anche alle Confessioni di sant’Agostino che fu vescovo di Hippo Regios (Annaba in Algeria) negli anni 396-430. È un’opera teologica con diversi elementi autobiografici. In essa il filosofo descrive la sua ricerca della verità, cui legherà poi la sua vita. Il rapporto di Różewicz con questa dissertazione filosofica e morale è alquanto ironico – egli deride la convinzione che tutti coloro che hanno sottoposto le proprie opere a Dio, entreranno nel regno divino, nella cui esistenza egli non crede. Troviamo anche un riferimento ai romanzi di Françoise Sagan e un frammento del dialogo sulla fede fra Stavroghin e il religioso, tratto da I demoni  di Dostojevskij. Anche questo è un campo in cui il poeta può ironizzare. In questo poema Różewicz ribadisce con forza la sua pessimistica visione dell’uomo, della sua caduta e della scomparsa della moralità.
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Tadeusz-Rozewicz 2

Tadeusz Różewicz

Poeta, drammaturgo, novelliere e saggista, Tadeusz Różewicz – da qualcuno definito “specchio e sismografo della realtà contemporanea” – è senza dubbio il più illustre scrittore polacco della generazione cui la guerra tolse la prima giovinezza. È nato il 9 ottobre 1921 a Radomsko. Durante il periodo dell’occupazione si mantenne dando lezioni private e lavorando saltuariamente come operaio e corriere. Nel 1942 terminò la scuola clandestina per sottufficiali. Negli anni 1943-44 combatté nei reparti partigiani dell’Armata Nazionale.
Il primo volume di poesie, uscito nel 1947,  è intitolato non a caso Niepokój (Inquietudine, 1947). È l’inquietudine dell’uomo scampato allo sterminio, che lotta affinché le atroci esperienze che ha vissuto non si ripetano più. Ancora più incisive, da questo punto di vista, sono le due successive raccolte Czerwona rękawiczka (Il guanto rosso, 1948) e Pięć poematów (Cinque poemi, 1950). Il poeta penetra sempre più profondamente nelle questioni che lo travagliano, e sempre più faticosamente cerca la salvezza nell’osservazione dei mutamenti che avvengono nel suo paese. L’inquietudine morale continuerà a tormentare il poeta anche nei poemi Równina (La pianura, 1954) e Srebrny kłos (La spiga d’argento, 1955), nonché nel successivo volume Rozmowa z księciem (Colloquio con il principe, 1960). Il moralista non può permettere alla sua coscienza di quietarsi davanti a un mite quadretto della natura o in un pacifico idillio. Różewicz risveglia incessantemente le coscienze, perché la coscienza inquieta determina la ricerca della verità, e la ricerca della verità porta alla ricerca del bello. Różewicz è concreto e misurato. Cerca di cogliere l’essenza di un fatto, di un fenomeno, mette a fuoco ciò che vede e ne evidenzia gli elementi essenziali.
Negli anni ’50 lo scrittore, pur continuando ad esprimersi nella poesia, iniziò la sua attività di novelliere e di drammaturgo. Sono apparse così le sue raccolte di racconti Opadły liście z drzew (Sono cadute le foglie dagli alberi, 1955),Przerwany egzamin (L’esame interrotto, 1960), Wycieczka do muzeum (Gita al museo, 1966) e Śmierć w starych dekoracjach (Morte tra le vecchie scene, 1970). Caratteristica specifica delle novelle di Różewicz è l’ostinata ricerca dell’umanità in ogni frammento di vita. E’ una prosa incredibilmente condensata, dai molti sottotesti, che scava il realismo dalle vicissitudini umane. Lo scrittore diventa maestro di una nuova prosa, che si può definire realismo poetico. Spesso intreccia elementi occasionali, brandelli di conversazione, il balbettìo di un ubriaco, annunci, frammenti di trasmissioni radiofoniche e televisive, di giornali e di libri. Tutto gli serve come materiale da costruzione, tutto si amalgama nel crogiolo della sua arte.
Altrettanto inquietante e originale come la poesia e la prosa, è la drammaturgia di Różewicz. Lo scrittore, giustamente definito un classico vivente, è sempre fedele a se stesso, alla sua visione del mondo, alle sue ossessioni e alla sua poetica. “Kartoteka” (Cartoteca, 1960), è il dramma di tanti uomini vissuti nel mondo della seconda metà del XX secolo, un mondo in cui lo scrittore scorge molti sintomi di caos e di crisi dei valori tradizionali.
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Tadeusz Różewicz 4

Tadeusz Różewicz

Nei suoi drammi Różewicz è riuscito magistralmente a “spiare” lo stile di vita di certi gruppi sociali, il cui obiettivo è soltanto l’arricchimento e le cui aspirazioni sono esclusivamente di natura consumistica. Ad esempio in Akt przerywany (Atto interrotto, 1970), bersaglio dello scrittore diventa il livellamento, l’appiattimento dei costumi, che riguarda non solo la sfera dei problemi quotidiani, ma si imprime anche nella psiche dell’uomo contemporaneo, impoverendone la vita interiore.
Różewicz – drammaturgo ha creato una nuova forma teatrale, nella quale trovano posto la vita concreta, l’iperbole poetica, l’ironia e il grottesco. Il dramma Pułapka (La trappola, 1982), ritenuto da molti un capolavoro, è basato sulla figura di Franz Kafka. Vi si ritrovano fatti della vita di questo scrittore e alcuni echi dei suoi diari. Meditando su Kafka, Różewicz scrive anche di se stesso e un po’ anche di tutti noi, delle nostre paure, del destino dell’uomo – “animale immolato” del XX secolo, “intrappolato” dalla metafisica. La prima trappola di ogni essere umano è l’esistenza stessa. “Sono una trappola, il mio corpo è una trappola in cui sono caduto dopo la nascita”, dice Kafka nel dramma di Różewicz.
Scrive il drammaturgo: “Cosa mi lega al teatro? Al teatro mi lega il desiderio di scrivere un dramma veramente realistico e al tempo stesso poetico. Non è una cosa facile, perché non so in cosa si differenzi il teatro poetico da quello realistico. Considero tutta la mia creazione come un’incessante polemica con il teatro contemporaneo e con le recensioni teatrali.
Nel suo libro “Il teatro della comunità” il regista Kazimierz Braun scrive: “Dopo Wyspiański e Witkacy, dopo Gombrowicz e Mrożek, proprio Różewicz, a mio avviso, è il più autorevole drammaturgo del teatro polacco contemporaneo. Attualmente proprio lui traccia l’indirizzo delle ricerche più importanti”. E’ inutile dire che i drammi di Różewicz sono rappresentati sulle scene di tutto il mondo, inclusa  l’Italia.
polonia occupazione tedesca

polonia occupazione tedesca

“Tanti anni sono dovuti passare, prima di riuscire a capire che lo scrittore poeta non ha il diritto di disprezzare, ma ha soltanto il diritto di amare” – ha scritto Różewicz nel volume di saggi Przygotowanie do wieczoru autorskiego (Preparazione a una serata d’autore, 1971), e forse in questa affermazione  risiede la verità sull’evoluzione di questo scrittore, la cui creazione ha sempre reagito vivacemente sia alle grandi crisi politiche del nostro tempo, sia a tutti i fenomeni della sfera esistenziale, culturale, di costume, attraverso i quali un umanista del rango di Różewicz non può passare indifferente. Giustamente ha detto Konrad Górski che “non si diventa umanisti per caso. La passione del conoscere in un umanista nasce da un’esigenza istintiva, per capire il senso della vita, per scorgere il legame tra l’enigma del mondo e il destino morale dell’uomo”. Queste parole si adattano alla perfezione a tutta l’opera di Tadeusz Różewicz.
Da tanti anni mi occupo di letteratura polacca e conosco bene questo scrittore. Ma c’è una cosa che continua a stupirmi: che cioè non abbia ricevuto il Nobel per la Letteratura, al pari di Henryk Sienkiewicz (1905), Wladyslaw Reymont (1924), Czesław Miłosz (1980) e Wisława Szymborska 1996). In ogni caso ormai è troppo tardi, perché questa grande figura della letteratura polacca è scomparsa il 24 aprile del 2014.
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Altre opere di Tadeusz Różewicz:
Poesia
“Czas, który idzie” (Il tempo che va, 1951)
“Wiersze i obrazy” (Versi e immagini, 1952)
“Nic w płaszczu Prospera” (Il nulla nel mantello di Prospero, 1962)
“Duszyczka” (Piccola anima, 1979)
“Płaskorzeźba” (Bassorilievo, 1991)
“Recycling” (Recycling, 1998)
“Nożyk profesora” (Il coltellino del professore, 2001)
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Teatro
“Grupa Laokoona” (Il gruppo del Laocoonte, 1961)
“Śmieszny staruszek” (Il vecchietto ridicolo, 1965)
“Wyszedł z domu” (Se n’è andato di casa, 1965)
“Spaghetti i miecz” (Gli spaghetti e la spada, 1967)
“Przyrost naturalny” (Incremento demografico, 1968)
“Na czworakach” (Carponi, 1972)
„Białe małżeństwo” (Matrimonio bianco, 1974)
“Odejście Głodomora” (La partenza del morto di fame, 1976)
“Do piachu” (Morto e sepolto, 1979)
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Polonia Ghetto_Uprising_Warsaw

Polonia assedio del Ghetto di Varsavia

Commento di Giorgio Linguaglossa
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 Tadeusz Różewicz (1921-2014)  nasce a Radomsko nel 1921 sulla linea ferroviaria Varsavia-Vienna, città all’epoca di 20.000 abitanti, città di provincia. Nel novembre del 1944 il fratello Janusz, capo partigiano, viene fucilato dai nazisti, evento che avrà grande influenza sulle scelte di poetica di Tadeusz. Nel 1947 esce Niepokój (Inquietudine) che viene accolto con giudizi lusinghieri dai maggiori poeti delle generazioni precedenti. Anche il secondo volume Czerwona rekawiczka (Il guanto rosso) viene accolta con giudizi lusinghieri e disparati a causa di un nuovo sistema di versificazione e una nuova tematizzazione dei temi della sua poesia. Różewicz  proviene dall’esperienza traumatica della seconda guerra mondiale e dall’orrore dei campi di concentramento, la sua poesia è un prodotto della catastrofe della cultura, una riflessione che ha al centro la domanda: Che cos’è l’uomo? Che cosa è diventato? Ci sarà un avvenire per l’uomo figlio dell’Occidente? – Różewicz si chiede se sia ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz e dopo la dissoluzione delle “Forme”:

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Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse
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La risposta, in sede estetica, sarà la rivoluzione delle forme, l’adozione del verso libero e l’impiego di un polinomio frastico organizzato secondo i tempi e i modi della prosa. La poesia di Różewicz riporta il linguaggio poetico al grado zero della scrittura, elimina la differenza tra poesia e prosa, si prosasticizza, indossa i vestiti della povertà, assume un tono asseverativo, assertorio, sarcastico, dimesso, gnomico e colloquiale, mescola abilmente il parlato con il ready made, la citazione con la semplice proposizione del quotidiano, il dialogo con il soliloquio, gli enunciati frastici sono impiegati come frangiflutti della significazione, sono abilmente snodati e snodabili, ribaltabili e sovrapponibili grazie all’impiego di una pluralità di voci che intervengono nella composizione senza preavviso alcuno, ma inserendo gli enunciati liberamente, svincolati da ogni schema preordinato. Il risultato estetico è una prosodia sorprendentemente ricca, frastagliata e vissuta, ritmicamente snodabile, capace di aderire alle tematiche più diverse come un vestito che sembra, volta a volta, tagliato su misura. Una poesia che ricorda certe composizioni cubiste, che integra le suggestioni del costruttivismo e del surrealismo, ma di un surrealismo passato al vaglio della sua severità polacca. Scrive Silvano De Fanti: «Il registro stilistico viene dunque improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuta dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui che offrano nuove possibilità semantiche svelando ciò che sta oltre la parola, lontano dalle associazioni tradizionali, e corredata da insistenti elencazioni, coordinate per paratassi o per asindeto, tendenti a manifestare i frammenti circostanti che ricreano il caos del mondo dopo la distruzione. Stava soprattutto qui la precoce rottura con la poetica dell’Avanguardia; stava altresì nell’uso ben più largo del lessico quotidiano e nella ‘debanalizzazione’ del banale, inteso come tutto ciò che rivela le verità ‘ordinarie’, ovvero il parlare diretto, la parola concreta, la naturalezza, il senso comune: “dopo una breve escursione nella terra dove regnavano e regnano il ‘senso poetico’ e la ‘bellezza’, faccio ritorno al mio ‘immondezzaio’” (…) La “morte della poesia” così spesso proclamata da Różewicz – metafora paradossale, ché in realtà portò il poeta a generare una nuova poesia – stava proprio nella consapevolezza della mancanza di una lingua che fosse in grado di esprimere l’esperienza, e che… lo spinse a penetrare e a rivoltare dall’interno quella stessa lingua. L’uomo di Niepokój è sopravvissuto alla catastrofe da lui stesso provocata»*
È la misura e la precisione del dettato poetico che farà di Różewicz il progenitore della poesia polacca moderna. Un grande poeta modernista che ha saputo formulare nella nuova sintassi del modernismo le domande più inquietanti e scomode del nostro tempo. È la scoperta più sconvolgente di Różewicz quella di interrogare l’uomo senza qualità che è sortito fuori dalla seconda guerra mondiale: l’uomo è diventato quella cosa senza identità dei nostri giorni:
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Poeta Tadeusz Różewiczczerwiec  1979 r. soaPAP/PAI/Reprodukcja

Tadeusz Różewicz 1979

Sono nessuno
the dogs leap on Actaeon
Fu condotto
al luogo di pena
il 24 maggio 1945
alle ore quindici
Ich bin Niemand
Mein Name ist Niemand
lo riconobbi dagli occhiali
e dai peli sulla faccia
aveva allora 60 anni
portava una rozza uniforme
scarponi militari
cintura e lacci
si toglievano alle persone
rinchiuse in gabbia…
.

Nella poesia di Różewicz si entra subito dentro una stanza, dentro una situazione, dentro un personaggio. È il primo poeta del nuovo modernismo europeo che utilizza il discorso letteralizzato (facilitato in ciò dalla sua lunga esperienza di scrittore di drammi), di qui l’impiego continuo di dialoghi, di inserzioni di parlato, di ready made, di enunciati di cronaca, di divagazioni improvvise e apparentemente slegate del filo conduttore del discorso. Ma Różewicz fa anche uso del discorso indiretto, del correlativo oggettivo del correlativo soggettivo (cioè lo spostamento del soggetto, lo spaesamento e la dislocazione del soggetto). Różewicz fa uso della sapienza antica e antichissima dei saggi cinesi, di Lao Tzu quando questi scrive: «La via è vuota, ma usandola, non si riempie». C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano. In tal modo, la poesia rafforza alla ennesima potenza la carica semantica del proprio linguaggio, nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con la sovranità che è riservata ad un sovrano assoluto. Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa. In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Różewicz fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica), entra subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come leggere il mondo.

[Le altre opere poetiche del poeta polacco sono: Czerwona rękawiczka (Il guanto rosso, 1948) e Pięć poematów (Cinque poemi, 1950). Równina (La pianura, 1954) e Srebrny kłos (La spiga d’argento, 1955), e Rozmowa z księciem (Colloquio con il principe, 1960). Seguiranno Superstite, degli anni sessanta Correzione di bozze, degli anni ottanta, Una poesia degli anni novanta, e degli anni duemila: Perché scrivo?. Nel 2007, è uscita in Italia, grazie all’impegno e alla cura di Silvano De Fanti, un’antologia della sua vasta produzione, dal titolo Le parole sgomente. Poesie 1947–2004 (Metauro)].

Różewicz apprezzava l’opera pittorica di Burri, apprezzava l’informale materico del pittore italiano il quale creava con il materiale bruto «immondezzai organizzati»:

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affamato nel campo di lavoro
componeva con i rifiuti
il mondo nuovo
tra le morti e i rifiuti
creò la bellezza
diede prova di una nuova interezza.
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Anche per il poeta polacco i rifiuti e i letamai sono diventati illustrazione e simbolo della crisi della cultura nella seconda metà del XX secolo:
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vicino al mio cuore
l’immondezzaio metropolitano
il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.
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Różewicz si rende conto che l’arte si trova in un momento di passaggio, lo fa con la consueta sfumatura ironica:
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Un’epoca si sta concludendo
inizia
un’epoca nuova e a volte gli artisti si sentono
in dovere
di creare un’opera degna
dei nostri grandi straordinari
tempi
invece pian piano vediamo
che un’epoca si è conclusa
un’altra è iniziata
alcuni se ne sono accorti
altri no
.
polonia 1945-fine-seconda-guerra-mondiale

1945-fine della seconda guerra mondiale

Altri ancora «sono appesi immobili ormai quasi belli», già classicizzati seppur giovani (Afro, Spazzapan, Music, Consagra, Corpora) Uno dei segnali più inquietanti del trapasso da un’epoca all’altra? Nel 1957 il poeta aveva visto a Parigi «l’albero realistico» di Mondrian che «si faceva astratto / moriva e partoriva / una proposta nuova». Ora, solo cinque anni dopo, in America la scimpanzè Betsy dipinge quadri tachistes e ne ha venduto uno per 350.000 franchi… «Das Spiel mit den Möglichkeiten»: l’espressione artistica di oggi – inizio anni ’60 – tende a essere un gioco delle possibilità, un gioco – sembra questo il giudizio di Rozewicz – di cui l’artista cerca ancora di stabilire delle regole. L’unica vera consapevolezza pare essere un diverso atteggiamento etico: non più “partecipante”, ma “testimone”. E la parte conclusiva del poema, intitolato “Diritti e doveri” e anch’essa ricca di topoi intertestuali iconografici, sembra esserne l’esemplificazione poetica attraverso la parafrasi dei primi versi del poema di W.H. Auden “Musée des Beaux Arts”, che a sua volta descrive il dipinto di Brueghel “La caduta di Icaro”. Un tempo, nel vedere Icaro in caduta, il poeta avrebbe gridato a tutti gli astanti di guardare, di assistere al dramma del figlio del sogno in atto di precipitare:

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ma adesso adesso non so
so che l’aratore deve arare la terra
il pastore custodire le greggi
l’avventura di Icaro non è la loro avventura
deve andare a finire così
E non c’è nulla di
sconvolgente nel fatto
che la bella nave continui a navigare
verso il porto stabilito.
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È il tema della fine della poesia che ritorna in modo ossessivo nella poesia di Różewicz. In Et in Arcadia Ego (1950) scrive:
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il musicante ha chiuso il violino
nella custodia
si è seduto al tavolino
i camerieri ripiegano le tovaglie
le vele
.
La festa è finita. I camerieri se ne vanno, ripiegano le tovaglie…
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Siamo alla fine di un’epoca, il musicista scompare così com’è scomparso il poeta… È questa profonda consapevolezza che fa la grandezza della poesia di Różewicz. Pochi poeti del Novecento hanno avuto così netta la percezione della fine di una civiltà e della sua arte più sublime, la poesia, quanto il poeta polacco.

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Tadeusz Różewicz 4

Tadeusz Różewicz

Tadeusz Różewicz
La caduta ovvero elementi verticali e orizzontali nella vita dell’uomo contemporaneo
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Tanto
tanto tempo fa
c’era un solido fondo
che l’uomo poteva
toccare
.
l’uomo che vi giaceva
grazie alla sua sconsideratezza
o grazie all’aiuto del prossimo
era guardato con spavento
interesse
odio
gioia
era additato
ma egli a volte
si alzava
si risollevava
macchiato e grondante
.
Era un solido fondo
si potrebbe dire
un fondo borghese
.
un fondo era per le signore
e un altro per i signori
in quei tempi c’erano
ad esempio donne corrotte
screditate
c’erano bancarottieri
un genere oggi quasi
sconosciuto
il suo fondo aveva il politico
il prete il commerciante l’ufficiale
il cassiere e l’erudito
un tempo c’era anche un altro fondo
oggi esiste ancora un vago
ricordo
ma il fondo non c’è più
e nessuno può
toccare il fondo
o restare in fondo
.
Il fondo che rammentano
i nostri genitori
era una cosa costante
sul fondo
tuttavia
si era
specificati
l’uomo perduto
l’uomo smarrito
l’uomo che
si risolleva
dal fondo
.
dal fondo si potevano anche
tendere le braccia chiamare “dal profondo”
adesso questi gesti non hanno
alcun senso
nel mondo contemporaneo
il fondo è stato rimosso
.
l’incessante caduta
non favorisce atteggiamenti
pittoreschi posizioni
salde
.
La Chute la Caduta
è ancora possibile
solo in letteratura
nel sogno nella febbre
ricordate il racconto
.
sull’onestuomo
.
non corse in aiuto
sull’uomo che praticava la “dissolutezza”
mentiva era schiaffeggiato
per questa fede
.
il grande defunto forse l’ultimo
moralista francese contemporaneo
ricevette nel 1957
il premio
.
com’erano innocenti le cadute
.
ricordate
le antiche
Confessiones
del vescovo di Hippo Regius
.
C’era un pero nelle vicinanze della nostra vigna,
che non allettava né per l’aspetto, né per il sapore.
Noi giovani ignobili dopo aver tirato in lungo i
nostri scherzi per le strade, secondo un’infame
abitudine, ci recammo là, nel cuore della notte,
per scuotere la pianta e raccogliere le pere.
Ne cogliemmo una quantità enorme, ma non per
farne una scorpacciata, ma per gettarle ai porci.
Anche se ne assaggiammo qualcuna, fu solo per
il gusto della cosa proibita. Ecco il mio cuore, Dio,
ecco il mio cuore di cui hai avuto pietà, quando
esso si è trovato in fondo all’abisso…
.
“in fondo all’abisso”
.
peccatori e penitenti
santi martiri della letteratura
agnelli miei
siete come bimbi al petto
che entreranno nel Regno
(peccato che esso non ci sia)
.
– Lei, padre, crede in Dio? – gridò di nuovo Stavroghin
– Credo.
– È stato detto che la fede sposta le montagne. Se uno
crede e ordina alla montagna di spostarsi, quella si
sposterà…mi scusi l’indiscrezione, ma m’interessa
sapere se lei, padre, farà spostare la montagna
.
simili domande faceva il “mostro” Stavroghin
e ricordate il suo sogno
il quadro di Claude Lorraine
alla Galleria di Dresda
“qui vissero uomini bellissimi”
Camus
La Chute la Caduta
Ah, mio caro, per l’uomo che è solo, senza
dio e senza padrone, il peso dei giorni è terribile
.
quel lottatore dal cuore di bambino
immaginava
che i canali concentrici di Amsterdam
fossero un girone dell’inferno
dell’inferno borghese
naturalmente
“qui siamo nell’ultimo girone”
diceva a un compagno occasionale
nel bar
l’ultimo moralista
della letteratura francese
prese dall’infanzia
la fede nel Fondo
Doveva credere profondamente nell’uomo
Doveva amare profondamente Dostojevskij
doveva soffrire perché
non c’è l’inferno il cielo
l’Agnello
la menzogna
gli sembrava di aver scoperto il fondo
di giacere sul fondo
di essere caduto
.
Invece
.
il fondo non c’era più
lo capì senza volerlo
una signorina di Parigi
e scrisse un componimento
sul coito buongiorno tristezza
sulla morte buongiorno tristezza
e i lettori riconoscenti
da entrambi i lati
di quella chiamata allora
cortina di ferro
lo compravano
a peso d’oro
quella signorina signora
quella signorina quella signora
ha capito che il Fondo non c’è
che non ci sono i gironi dell’inferno
che non c’è il risollevamento
e non c’è la Caduta
tutto si svolge
nel noto
limitato spazio
tra
Regio genus anterio
regio pubice
e regio oralis
.
e ciò che un tempo era
il vestibolo dell’inferno
fu trasformato
da una letterata di moda
in vestibulum
vaginae
.
Chiedete ai genitori
forse ricordano ancora
l’aspetto del vecchio Fondo
il fondo della miseria
il fondo della vita
il fondo morale
.
la “Dolce vita”
o Cristina Keller
viveva nel fondo
il rapporto di lord Denning
afferma
tutto il contrario
Il Mons pubis
da questa vetta
si stendono vasti
crescenti orizzonti
dove sono vette
dov’è l’abisso
dov’è il fondo
.
a volte ho l’impressione
che il fondo dei contemporanei
si trovi poco sotto la superficie
della vita
ma forse è un’ulteriore illusione
forse esiste ai “nostri giorni”
la necessità di costruire
un nuovo
Fondo adatto
alle nostre necessità
.
Mondo Cane
perché questo quadro mi fece
una grande impressione che cresce ancora
che cresce sempre
Mondo Cane ein Faustschlag ins Gesicht
Mondo Cane film senza stelle
Mondo Cane
dove si mangia si balla si uccidono gli animali
“si fa l’amore” si balla si prega si muore
colorito reportàge
sull’agonia
sull’agonia dei vecchi
sulla cucina cinese
sull’agonia di uno squalo
sui condimenti
sull’uccisione delle vecchie
automobili
ricordo lo schiacciamento delle forme
lo schiacciamento del metallo
il frastuono e lo stridore
l’annientamento delle carrozzerie
le viscere metalliche dell’automobile
il cimitero delle automobili
un altro modo di dipingere
i quadri a ritmo di musica celeste
a Parigi l’impronta del corpo su tele bianche
il velo di santa Veronica
i volti dell’arte
le bocche dei milionari e delle loro donne
la frittura di formiche insetti e larve
neri mucchietti in scodelle d’argento
le labbra di chi mangia
labbra rosse in Mondo Cane
grandi lucide labbra rosse
si muovono in Mondo Cane
.
Poi è iniziata la discussione
sul capitolo III dello schema relativo alla Chiesa
al popolo di Dio e al laicato
.
Il cardinal Ruffini
ha spiegato
che il concetto di Popolo di Dio
è assai impreciso
poiché il III capitolo
non ha ottenuto la maggioranza qualificata
dei voti è stato rinviato
alla Commissione Liturgica
per essere riesaminato
.
C’era un pero nelle vicinanze della nostra vigna, che non
allettava né per l’aspetto, né per il sapore…confessò Agostino
.
avete notato che
gli interni delle moderne case di Dio
rammentano
la sala d’aspetto di una stazione
ferroviaria di un aeroporto
.
Cadendo non possiamo
assumere la forma
di una posizione ieratica
le insegne del potere cadono di mano
.
cadendo coltiviamo i nostri giardini
cadendo alleviamo i figli
cadendo leggiamo i classici
cadendo eliminiamo gli aggettivi
.
la parola cade non è
la parola adatta
non chiarisce il movimento
del corpo e dell’anima
in cui scorre l’uomo contemporaneo
.
le persone ribelli
gli angeli dannati
cadevano all’ingiù
l’uomo contemporaneo
cade in tutte le direzioni
contemporaneamente
in giù in alto di lato
a forma di rosa dei venti
.
un tempo si cadeva
e ci si rialzava
verticalmente
adesso si cade
orizzontalmente
.
1963 in Volto terzo, 1968

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Tadeusz Różewicz Paolo Statuti 1990

Tadeusz Różewicz e Paolo Statuti 1990

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).

   Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.

   Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.

   A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica anche le sue traduzioni di poesia polacca, russa e inglese. Negli ultimi anni sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie polacche di: Marek Baterowicz, Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska, Konstanty Ildefons Gałczyński, Anna Kamieńska. Di prossima pubblicazione: Anna Świrszczyńska e Tadeusz Różewicz. Della poesia russa: Aleksander Puškin, Boris Pasternak e Osip Mandel’štam. A gennaio del 2016 è uscita la sua prima raccolta di poesie “La stella errante” (Ed. GSE).

   Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

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Józef Czechowicz (1903-1939) POESIE SCELTE “La musica di via Złota”, Attraverso i confini”, “In campagna”, “Sogno idilliaco”, “Cervello di anni 12”, “Rimpianto”, “Nei pressi della stazione centrale di Varsavia”, “Nel paesaggio” – traduzione e presentazione a cura di Paolo Statuti

foto ornamento astratto azteco

ornamento astratto azteco

Presentazione di Paolo Statuti

Józef Czechowicz nacque a Lublino il 15 marzo 1903. Scrittore, drammaturgo, critico, traduttore e soprattutto poeta di avanguardia nel ventennio tra le due guerre, co-fondatore del gruppo poetico Reflektor e della omonima rivista, dove nel 1927 apparve la prima raccolta delle sue poesie Pietra, accolta assai favorevolmente dalla critica. Nel 1920 partecipò come volontario alla guerra polacco-bolscevica. Negli anni ’30 riunì intorno a sé un cospicuo numero di poeti della seconda avanguardia (tra i quali Stanisław Piętak, Bronisław Ludwik Michalski, Józef Łobodowski). Redattore di molte riviste letterarie e per l’infanzia, collaborò anche con la Radio Polacca scrivendo radiodrammi. Nel maggio del 1932 il poeta insieme con Franciszka Arnsztajnowa fondò l’Unione dei Letterati di Lublino.

Józef Czechowicz è uno dei poeti più originali del suo tempo. Nei suoi primi versi egli crea un’atmosfera onirica e di serenità. Tutte le sue poesie provocano una forte suggestione ipnotica. Descrive il paesaggio della campagna, in cui un ruolo determinante è svolto dalla natura che circonda l’uomo da ogni lato. Il soggetto lirico vede il fiume, il campo, la segala, il bestiame che torna dal pascolo. Perfino il sogno profuma di fieno. Il poeta con descrizioni metaforiche agisce sui sensi – si serve dei colori, dei suoni, degli odori.

Ma alla vigilia della seconda guerra mondiale l’ammirazione della natura nella creazione di Czechowicz lascia lentamente il campo al catastrofismo. Nelle sue visioni profetiche si avvertono l’inquietudine e i timori per le sorti del mondo e dell’uomo. Appaiono motivi e simboli apocalittici ripresi dalla Bibbia: fumo, incendio, diluvio. Cresce il senso di solitudine.

Nella sua ultima raccolta Nota umana troviamo il presentimento della morte, riconosciuto poi come profetico. Czechowicz infatti morì il 9 settembre 1939, a soli 36 anni, nella sua città natale durante un bombardamento. La sua poesia è straordinariamente musicale. Egli si considerava un “virtuoso della musicalità”. Il mondo poetico di Czechowicz è rappresentato soprattutto dalla campagna e dal villaggio e le principali tonalità psichiche sono la moderazione, la tenerezza e l’insicurezza. Il timbro affettivo dominante è il rammarico, l’elegia e la principale ossessione è la morte. Arcadia e Catastrofe coesistono e si incrementano a vicenda.

Nel 1955 i poeti Seweryn Pollak e Jan Śpiewak, dando alle stampe una raccolta di poesie scelte di Józef Czechowicz, scrissero: “gli amanti della poesia leggono e leggeranno i suoi versi con autentica commozione. Si avverte in essi un soffio di onestà, una toccante nota profondamente umana”. Forse soprattutto per questo il poeta Józef Czechowicz mi è particolarmente caro.

Józef Czechowicz

Józef Czechowicz

Poesie di Józef Czechowicz tradotte da Paolo Statuti

La musica di via Złota

Il cielo cambia, benché la sera non si sia quietata,
il vento bisbiglia ancora, prima di assopirsi.
Il vento fruscia di violetto.
Il vento – non più vento – un sorriso.

Dalla via Domenicana il canto di un coro;
le fanciulle lodano Maria.
Dall’arcidiaconato per accompagnamento
arie di un solitario violino.

Silenzio musicale delle case
congiunte con l’arco dell’iride,
sulla fronte della chiesa un raggio
ricade come ciocca.

E adesso qualcuno ha teso il silenzio,
batte in esso col pugno di bronzo
la campana serale
grondando di forza del metallo
prende a sonare sotto la croce della chiesa:
uno – due – tre – – – –

(1934)

Attraverso i confini

con monotonia il cavallo solleva la testa
la criniera ritmicamente ogni istante ricade
ruote ruote
erbe

tintinna l’assonnata semivita
lungo un viottolo erboso del bosco
in basso in basso
nel campo

al crepuscolo nella stoppia inciampa
la luna rossa e scura
io grido
dorata focaccia

non c’è niente neanche il sonno solo lo stridio delle ruote
la notte nebbiosa lunga veglia
io grido focaccia dorata
io grido le ruote in basso nel campo focaccia dorata

(1932)

In campagna

Il fieno profuma di sogno
il fieno profumava nei vecchi sogni
i pomeriggi in campagna riscaldano di segala
il sole suona il fiume di balenanti lamiere
vita – campi – trama di fili dorati

Di sera attraverso il cielo una passerella
la sera e il vespro
le mucche da latte tornano alle fattorie
a ruminare nel trogolo colmo di crepuscolo
Di notte sotto i bracci delle croci nei bivi
si spande l’azzurra tarlatura delle stelle
nuvolette siedono davanti alla soglia del prato
sono sfere di bianca peluria
un soffione

la luna si reca a lavare fazzoletti argentei
i grillini stridono nelle biche
non c’è di che aver paura

Il fieno profuma di sogno
celata è in esso una melodia religiosa
mi accosta guance infantili
protegge dal male

(1927)

Jozef czechowicz-zalSogno idilliaco

dal soffitto della notte che pende
attraverso il fruscio di ranuncoli e artemisie
il gorgoglio della pioggia sbufferebbe come incubo
ma sono note le parole di scongiuro zolfo
lanute criniere di cavalle

la Vergine Maria camminava tra le stelle
leniva la Vergine Maria il bruciore delle anime sofferenti
ed io sto nel tuono temo la mezzanotte
perché restate con chi dorme e con i sogni
non tormentate andate via dove volete
corvi lupi orsi cervi
amen

o tenebra così limpida adesso
ha brillato sulla veranda il tuo pettine d’argento
questo quieto parlare nel fosso
è il calamo
annuncia la confessione d’acqua
le stelle mariane terge con le dita
e a noi come parlare quando dietro il vetro – il frutteto
e più lontano arnie terreni di aneto e di carote

purificaci chiunque e ovunque tu sia
andate via da noi opere di uomini e animali
per questo ci inginocchiamo nella paglia come morti
da innumerevoli anni

(1939)

Cervello di anni 12

nembi più in alto più in basso le note
sguazzano sciolte nell’azzurro
sguazzano anche le mie scarpe
in un rivo di vento d’estate

le nicchie coi san giovanni
in una coroncina di erba appassita
raggiunte da una nube
inattesa di farfalle

più oltre lungo la strada verso il prato
su una collina d’argilla
va al ferrovia
il convolvolo ha superato i binari

fino al prato il sentiero s’incurva
giù dal terrapieno
calpestando l’erba del fiume
un ragazzino nudo spumeggia
là dove i pini finiscono
coprendo la città
getta cento esili piccole mani
il cervello di anni 12

tra gocce di fiordaliso
sulle scaglie dell’onda
svolazza il vivace capriccio
di uno snello torso-spirale

un grido o mezzodì o torrente
bocca e pugni pieni del grido
nell’estasi del sole come motore
brucia il cervello di anni 12

guardo il giorno va oltre il mezzodì già asimmetrico
presto la sera si stenderà come montagna
il vento ha mosso l’erba ma non i camini della fabbrica
l’oro del fiume diventerà grigio

ragazzo ragazzo domani o dopodomani
la nuda gioia che non è lievito di vita
si chiuderà per sempre come a chiave
nel 1936 guarderai il fiume da sotto l’elmo

(1930)

Rimpianto

la testa che imbianca e splende come doppiere
quando trasvolano i nastri argentei dei venti
porto nei fondi delle stradine
le rondini garriscono sul fiume
è poco va’

andare guardare sogni festini scene
di sinagoghe i vetri in frantumi
la fiamma che ingoia le grosse gomene
la fiamma d’amore
la nudità

ascoltare dei popoli affamati il ruggito
che è voce diversa dal pianto degli affamati
cala la sera di questo mondo
le narici fiutano la rossa mungitura
dal bruciante diluvio
ci chiediamo a vicenda chi sei

in tutti noi mirabilmente moltiplicato
sparerò a me stesso e morirò più volte
io nel solco con l’aratro
io tra i codici giurista
dal grido gas soffocato
io assopita tra i ranuncoli
e bambino torcia umana
in chiesa da una bomba colpito
e impiccato incendiario
io nera crocetta nelle lettere

o mietiture di rombi e di lampi
riuscirà il fiume a togliersi la ruggine di sangue fraterno
prima che i pilastri delle città si risolleveranno
giungerà allora un turbine di rondini
sibilerà sulla testa un’ala attraverso un’oscurità d’uccelli
va’ va’ oltre

(1939)

Nei pressi della stazione centrale di Varsavia

dalle finestre bagliori
nel nichel il buffet regnava
la fontanina dei fiori
verso il soffitto sprizzava

ondeggiano là le tendine
sfondo all’ombra dei grassoni
nell’alba avvolta di brine
e nell’ora dei lampioni

alcolica sinfonia
fughe di verdure e pane
sonate nell’agonia
serpeggia una viva fame

una fame latra sputa
un’altra spezza le dita
una terza cosa fiuta
nell’androne intimorita

facce della fame irsute
dai molti occhi diversi
son le lune decadute
di abbandonati universi

tossiscono sopra il pelo
di una sciarpa logorata

per esse io vi rivelo
Gerico sarà annientata

(1939)

Nel paesaggio

il fruscio dei castagni in basso il canto marino
si spengono al crepuscolo le candele degli alberi in fiore
la strada nel bosco in faccia al sole s’indora doppiamente
di fruscio e di sera scuriscono i recessi
dondolandosi come erba rigogliosa
le ragazze snelle sui cavalli

un colle all’incrocio dei viottoli
là una cappellina fresca come corallo
nella penombra una croce là un angelo
gli ex voto abbandonati dei pescatori
una stagione dimenticata da tempo
in un vaso spezzato è ammuffita la morte dei papaveri

il mare mormora i castagni
i cavalli con gli zoccoli intorbidano l’oro sull’acqua
di quelle che vanno una ha alzato la mano
e dà il segnale movendolo in aria come remo
perché è rimasto presso la cappella un puledro smarrito
ha guardato dentro ha toccato col morbido labbro la porta
ha nitrito puerilmente in alto non si sa che cosa

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).
   Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.
   Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.
   A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica anche le sue traduzioni di poesia polacca, russa e inglese. Negli ultimi anni sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie polacche di: Marek Baterowicz, Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska, Konstanty Ildefons Gałczyński, Anna Kamieńska. Di prossima pubblicazione: Anna Świrszczyńska e Tadeusz Różewicz. Della poesia russa: Aleksander Puškin, Boris Pasternak e Osip Mandel’štam. A gennaio del 2016 è uscita la sua prima raccolta di poesie “La stella errante” (Ed. GSE).
   Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

 

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COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: IN OCCASIONE DEL PERIODO DI FESTIVITA’ IL BLOG SOSPENDE DA OGGI L’ATTIVITA’ E LA RIPRENDERA’ LUNEDI 2 GENNAIO 2016. LA REDAZIONE AUGURA BUONE FESTE A TUTTI GLI INTERLOCUTORI SPERANDO CHE L’ANNO VENTURO CI SI RITROVI IN UN MONDO MIGLIORE, Thanks, gracias, Vielen Dank, grazie, merci, teşekkür ederiz, ขอขอบคุณ, obrigados … con l’occasione del clima natalzio pubblichiamo la poesia di Zbigniew Herbert “Ipotesi su Barabba” nelle 2 versioni: di Valeria Rossella e di Paolo Statuti

zbigniew herbert accende una sigaretta

zbigniew herbert

Zbigniew Herbert

Domysły na temat Barabasza

Co stało się z Barabaszem? Pytałem nikt nie wie
Spuszczony z łańcucha wyszedł na białą ulicę
mógł skręcić w prawo iść naprzód skręcić w lewo
zakręcić się w kółko zapiać radośnie jak kogut
On Imperator własnych rąk i głowy
On Wielkorządca własnego oddechu

Pytam bo w pewien sposób brałem udział w sprawie
Zbawiony tłumem przed pałacem Pilata krzyczałem
tak jak inni uwolnij Barabasza Barabasza
Wolali wszyscy gdybym ja jeden milczał
stałoby się dokładnie tak jak się stać miało

A Barabasz być może wrócił do swej bandy
W górach zabija szybko rabuje rzetelnie
Albo założył warsztat garncarski
I ręce skalane zbrodnią
czyści w glinie stworzenia
Jest nosiwodą poganiaczem mułów lichwiarzem
właścicielem statków – na jednym z nich żeglował Paweł do Koryntian

lub – czego nie można wykluczyć –
stał się cenionym szpiclem na żołdzie Rzymian

Patrzcie i podziwiajcie zawrotną grę losu
o możliwości potencje o uśmiechy fortuny

A Nazareńczyk
został sam
bez alternatywy
ze stromą
ścieżką
krwi

Ipotesi su Barabba

Cosa ne è stato di Barabba. Ho chiesto nessuno lo sa
Libero da catene uscì sulla bianca via
poteva svoltare a destra proseguire dritto svoltare a sinistra
girare in cerchio erompere in un canto di festa come un gallo
Egli Imperatore delle proprie mani della propria testa
Egli Governatore del proprio respiro

Lo chiedo perché in certo modo ho preso parte all’affare
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
così come gli altri libera Barabba Barabba
Acclamavano tutti se io solo avessi taciuto
sarebbe accaduto esattamente quello che doveva accadere

E forse Barabba è tornato alla sua banda
Sulle montagne uccide rapido saccheggia per bene
Oppure ha messo su un negozio, fa ceramiche
e monda nell’argilla della creazione
le mani macchiate dal delitto
È portatore d’acqua mulattiere usuraio
proprietario di navi – su di una Paolo faceva vela per Corinto
oppure – cosa non da escludersi
è diventato una spia preziosa al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il gioco da vertigine del destino
su possibilità potenze sorriso della fortuna

E il Nazareno
è rimasto solo
senza alternativa
con uno scosceso
sentiero
di sangue

(c) by Valeria Rossella

Ipotesi su Barabba

Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa
Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca
poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra
fare una giravolta cantare con gioia come un gallo
Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa
Lui amministratore del proprio respiro

Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
come gli altri libera Barabba Barabba
Gridavano tutti se solo io avessi taciuto
sarebbe successo esattamente come doveva succedere

E Barabba forse tornò alla sua banda
Sui monti uccide in fretta rapina ad arte
Oppure aprì una bottega di vasi
e le mani macchiate di delitti
purifica nell’argilla della creazione
E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio
proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi
oppure – ciò che non si può escludere –
è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino
o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna

E il Nazzareno
rimase solo
senza alternativa
col ripido
sentiero
di sangue

(C) by Paolo Statuti

 

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Czesław  Miłosz “Orfeo ed Euridice”, DUE VERSIONI A CONFRONTO di Francesco M. Cataluccio e Paolo Statuti con un Appunto di Giorgio Linguaglossa e DUE POESIE sul tema “Orfeo ed Euridice” di Annamaria De Pietro e Antonio Sagredo

De Chirico la metafisica

Giorgio De Chirico la metafisica

Su Sollecitazione di Antonio Sagredo, pubblichiamo di seguito due versioni della celebre poesia di Czesław  Miłosz “Orfeo ed Euridice” non al fine di stabilire quale sia la traduzione migliore ma allo scopo di mostrare come ogni versione di una poesia non può che rispecchiare la personalità intellettuale, i gusti personali e la sensibilità di ciascun traduttore, in quanto la lingua della traduzione è  un linguaggio di ricezione, di trasbordo da una lingua ad un’altra, di un “contenuto” estraneo alla lingua di ricezione. Operazione utilissima alla lingua di ricezione perché ne amplia le possibilità e le potenzialità denotative e connotative. Operazione utilissima, anzi, direi indispensabile anche per le sorti dei linguaggi poetici e narrativi i quali potranno trarre vantaggio da questo lavoro di trasbordo.

Per l’occasione, pubblichiamo anche due poesie di Annamaria De Pietro e di Antonio Sagredo sul tema di “Orfeo ed Euridice”.

Giorgio Linguaglossa

Czeslaw Milosz 1

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz
Orfeo ed Euridice
(trad. Francesco M. Cataluccio)

In piedi sui lastroni del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo si piegava nel vento impetuoso,
che sbatacchiava il suo cappotto, sollevava gomitoli di nebbia,
si rivoltava tra le foglie degli alberi. Le luci delle auto
a ogni soffio di nebbia si smorzavano.

Si fermò di fronte alle porte a vetri, incerto
se gli bastassero le forze per quest’ultima prova.

Ricordava le sue parole: «Tu sei buono».
Non ci credeva poi tanto. I poeti lirici
hanno di solito, come sapeva, un cuore freddo.
È questa in fondo la loro condizione. La perfezione dell’arte
non si ottiene senza questa menomazione.
Soltanto il suo amore lo riscaldava, lo umanizzava.
Quando era con lei, aveva anche un’altra opinione di sé.
Non poteva deluderla ora, che era morta.

Spinse la porta. Percorse il labirinto dei corridoi. Ascensori
La luce livida non era luce, ma crepuscolo terreno.
Cani elettronici lo superavano senza un fruscìo.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento, all’ingiù.
Sognava. Aveva la sensazione di trovarsi nel Nulla.
Sotto migliaia di secoli raggelata,
su una traccia cinerea ove le generazioni arsero,
questo regno sembrava non avere né fondo né limite.

Lo circondavano volti di ombre in ressa.
Alcuni li riconobbe. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva forte la propria vita assieme con la sua colpa
ed ebbe paura di incontrare quelli a cui aveva fatto del male.
Ma loro avevano perso la capacità di ricordare.
Guardavano altrove, indifferenti.

Per difendersi aveva la lira a nove corde,
nella quale portava la musica terrestre contro l’abisso
che seppellisce ogni suono col silenzio.
La musica lo dominava. Era allora privo di volontà.
Si abbandonava alla dettatura della canzone, come rapito.
Come la sua lira, diventava solo uno strumento.
Finché non giunse al palazzo dei signori di quella terra.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli rinsecchiti,
nero di rami nudi e di fuscelli bitorzoluti,
ascoltava dal suo lugubre trono di ametista.

Cantò il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
La fumante acqua della rosea alba.
I colori: cinabro, carminio,
terra di Siena, azzurro,
Il piacere di nuotare in mare vicino alle scogliere di marmo.
Banchettare sulla terrazza affacciata sul chiasso di un porto di pescatori.
Il sapore del vino, del sale, dell’olio, della senape, delle mandorle.
Il volo della rondine, del falco, dello stormo
di pellicani sopra la baia.
Il profumo del mazzo di lillà sotto la pioggia estiva.
Il fatto che aveva composto sempre parole contro la morte
e nessun dei suoi versi glorificava la ricerca del nulla.

Non so, disse la dea, se l’amavi,
ma sei venuto fin qui, per salvarla.
Ti sarà restituita. A una condizione però.
Non ti è permesso parlare con lei. E nella strada del ritorno
voltarti, per vedere se ti stia dietro.

Ed Ermes portò Euridice.
Il suo volto non era quello di sempre, completamente grigio,
le palpebre abbassate, e, al di sotto, l’ombra delle ciglia.
Avanzava rigidamente, guidata dalla mano
del suo accompagnatore. Di pronunciare il suo nome
aveva una gran voglia, di risvegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo di aver accettato la condizione.

Si mossero. Prima lui, e dietro, ma non subito,
lo scalpiccio dei sandali del dio e il leggero calpestio
delle gambe di lei strette dal vestito come da un velo funebre.
Il ripido sentiero sotto la montagna fosforeggiava
nelle tenebre, come le pareti di un tunnel.
Si fermava e ascoltava. Ma anche loro
si arrestavano, l’eco si affievoliva.
Quando riprendeva il cammino, allora si sentiva il loro duplice passo,
a tratti gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Nella sua fede aumentò il dubbio
e si avvinghiò a lui come una fredda edera.
Incapace di piangere, pianse sulla perdita
dell’umana speranza nella resurrezione dei morti.
Perché adesso era come un qualsiasi mortale,
la sua lira taceva e nel suo sogno era senza difesa.
Sapeva che doveva aver fede e non ne era capace.
Così rimase per quello che sembrò un tempo interminabile
contando i suoi passi nel torpore semicosciente.
Albeggiava. Apparve un anfratto roccioso
sotto l’occhio luminoso dell’uscita sotterranea.
E avvenne ciò che aveva intuito. Quando voltò la testa,
dietro di lui sul sentiero non c’era nessuno.

Sole. E cielo, e là le nuvole.
Soltanto ora esplose dentro di lui il grido: Euridice!
Come farò a vivere senza di te, o mio conforto.
Ma l’erba profumava, ronzavano basse le api.
E si addormentò, con la guancia sulla tiepida terra.

 

Czeslaw Milosz called Marek Hlasko “the idol of Poland's young generation in 1956.”

Czeslaw Milosz called Marek Hlasko “the idol of Poland’s young generation in 1956

Czesław Miłosz

Orfeo ed Euridice
(Versione di Paolo Statuti, 26/29 novembre 2012)

Sulle lastre del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo era piegato dal vento impetuoso,
che gli tirava il soprabito, faceva roteare matasse di nebbia,
si agitava nelle foglie degli alberi. I fari delle auto
ad ogni afflusso di nebbia si smorzavano.

Si fermò davanti alla porta a vetri incerto
se le forze lo avrebbero sorretto in quell’ultima prova.

Ricordava le parole di lei: “Sei un uomo buono”.
Non lo credeva molto. I poeti lirici
hanno di solito, pensava, un cuore freddo.
E’ quasi un limite. La perfezione dell’arte
si ottiene in cambio di tale imperfezione.

Soltanto il suo amore lo riscaldava, lo rendeva umano.
Quando era con lei, diversamente pensava di sé.
Non poteva deluderla, adesso che era morta.

Spinse la porta. Percorreva un labirinto di corridoi, di ascensori.
La luce livida non era luce, ma oscurità terrestre.
I cani elettronici gli passavano accanto senza frusciare.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento, sempre più giù.
Sentiva freddo. Era consapevole di trovarsi nel Nessunluogo.
Sotto migliaia di secoli rappresi, nel cenerume di putrefatte generazioni,
quel regno sembrava senza fondo e senza fine.

Lo circondavano i volti di una calca di ombre.
Alcuni li riconosceva. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva con forza la sua vita insieme con la sua colpa
e temeva d’incontrare quelli cui aveva fatto del male.
Ma essi avevano perso la capacità di ricordare.
Guardavano altrove, indifferenti a lui.

Come sua difesa aveva la lira a nove corde.
Portava in essa la musica della terra contro l’abisso,
che addormenta tutti i suoni col silenzio.
La musica lo dominava. Allora era remissivo.
Si arrendeva al canto imposto, in estasi.
Come la sua lira, era soltanto uno strumento.

Finché giunse al palazzo dei governanti di quel regno.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli seccati,
nero di nudi rami e di grumosi rametti,
e il suo trono, funereo ametista – ascoltava.
Egli cantava il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
L’acqua fumante di un riflesso rosato.
I colori: cinabro, carminio,
siena bruciata, azzurro,
i piaceri di nuotare presso gli scogli di marmo.
Il convito sulla terrazza nel chiasso del porto dei pescatori.
Il sapore del vino, del sale, delle olive, della senape, delle mandorle.
Il volo della rondine e del falco, il solenne volo
di uno stormo di pellicani sul golfo.
Il profumo di fasci di lillà nella pioggia d’estate.
Cantava che componeva le sue parole contro la morte
e che nessuna sua rima lodava il nulla.

Non so, disse la dea, se tu l’ami,
ma sei giunto fin qui per riprenderla.
Ti sarà restituita. A una sola condizione.
Non ti è permesso parlarle. E sulla via del ritorno
di voltarti, per vedere se ti segue.

Ermes portò Euridice.
Il suo volto era diverso, affatto grigio,
le palpebre abbassate, sotto di esse l’ombra delle ciglia.
Avanzava come irrigidita, condotta dalla mano
della sua guida. Ah, come voleva pronunciare
il suo nome, svegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo che aveva accettato
la condizione.

Si avviarono. Prima lui, e dietro, ma non subito,
il battito sonoro dei sandali e quello tenue
dei piedi di lei impediti dalla veste come sudario.
Il sentiero in salita era fosforescente
nell’oscurità, simile alle pareti di un tunnel.
Si fermava e restava in ascolto. Ma allora
anche essi si fermavano, una fievole eco.
Quando riprendeva a camminare, risonava il duplice battito,
una volta gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Sotto la sua fede cresceva il dubbio
e lo avvolgeva come freddo convolvolo.
Non sapendo piangere, piangeva per la perdita
delle speranze umane nella rinascita dei morti,
perché adesso era come ogni mortale,
la sua lira taceva e sognava senza difesa.
Sapeva di dover credere e non sapeva credere.
E a lungo doveva durare l’incerta veglia
dei propri passi contati nel torpore.

Albeggiava. Apparvero i gomiti delle rocce
sotto l’occhio luminoso dell’uscita dal sottosuolo.
E accadde ciò che aveva presentito. Quando girò la testa,
dietro a lui sul sentiero non c’era nessuno.

Il sole. E il cielo e le nuvole su di esso.
Soltanto ora sentì gridarsi dentro: Euridice!
Come vivrò senza di te, o consolatrice!
Ma profumavano le erbe, durava basso il ronzio delle api.
E si addormentò, con la guancia sulla calda terra.

*

Antonio sagredo teatro politecnico-1974

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

Antonio Sagredo
Prima stazione e seconda stazione

prima stazione

Ritornava a casa…
e sognava di ritornare a casa senza la sua Euridice,
i vortici delle foglie non avevano nulla di geometrico candore,
né un sognato giuramento o un qualsiasi invito a una danza,
ma lungo il viale agonizzavano sotto i platani i suoi propositi
avvizziti dal freddo e dal gelo…
mi tallonava il sangue dei suoi occhi equini!
Le sue tasche erano rattoppate e gonfie per i fallimenti della storia.
Raccoglieva in buste di plastichina,
come dopo un omicidio o uno sterminio,
avanzi di candelabri, croci e scimitarre.
Ovunque un pus epatico precedeva il suo cammino!
Ma quali i suoi pensieri, in un attimo, nel suo cervello arcaico
dopo tre milioni di anni tutti vissuti nel secolo trascorso?
O erano soltanto gli ultimi lamenti di rancidi tramonti,
o gli amori pagani dell’ippocampo esplosi
con gioia irripetibile in emozioni da leggenda inavvertita,
prima che il dolore della cognizione generasse muraglie
di coscienze e di credenze per fermare una evoluzione?
E con lei ritornavo da un martirio di gesti non compresi,
mano nella mano, immobili!
E su tutto la maledizione terrestre… che ci univa!
Ritornavamo verso le nostre orme,
calchi di fango, marce foglie e torbidi liquami ci guidavano,
ma gli alti concetti sulla spugnosa creazione
ci lasciavano interdetti e, per noi, splendidi eretici,
da tempo erano caduti in prescrizione l’esistenze di un dio qualsiasi
e di un nulla in quei giorni della fatale Pentecoste…
e lei, la compagna già infedele,
corrosa dall’ansietà dei miei sguardi si era indispettita,
come un’acida zitella affetta da erogene nevrosi taurine.
seconda stazione
Ritornava, in versi, a casa…
non cantava più in versi
e, a occhi aperti, lungo il viale dei platani
dopo aver visto il secolo trascorso in un istante,
come accade prima di morire…
per quel poco di vissuto ch’era rimasto
e per il resto dei suoi limpidi pensieri aveva già bruciato
gli avanzi di tre fedi passate in giudicato,
ma le scarpe erano già corrose come le sue parole dal salmastro.
E con lei ritornavo dal supplizio di parole non comprese,
mano nella mano, ammutoliti!
e su tutto la maledizione pagana… che ci univa!
Ritornava, e già spargeva le ceneri di generazioni non nate,
proclami e parole intorno alle rauche medaglie delle foglie…
dove appuntarle se non nel vuoto o sul nulla
se non c’erano né corpi e bare, alberi, case e altari?!
La sua lira stonava le note estreme di un requiem non scritto ancora!
Lacrimosa…
Lui, rovinato, dalle sue lacrime!
Lacrimosa…
E danzava Euridice il suo canto di tarantola,
imitava il suo stesso oblio,
mimava la nostalgia di quello sguardo che ancora non giungeva –
dai suoi occhi!
Non si stancava di ridere.
Non si stancava di morire.
Non si stancava di morire del rider ch’io feci!

*

annamaria de pietro 2010 febb

annamaria de pietro 2010 febb

Annamaria De Pietro
Prosopopea di Orfeo (*)

Da fiume a fiume lei fluì – Euridice –.
Da serpe a serpe discese e scendeva
– ed io a ponente scesi, e giù strisciai
e lacerai la veste contro il sasso
dello stipite in fumo, e la bagnai
contro un’acqua che al sasso discendeva,
e io non sapevo donde avesse passo.
Ma scendeva, e io scendevo a grado basso
sempre più al basso, alla casa indecente
dei senza sguardo, dei senza radice.
E tesi corda agli occhi, e lei riottenni,
occhi di vetro accecati ai millenni,
dei senza ascolto, dei senza dove.
E parlarono: non ti volterai
se non con danno e perdita –. Di fronte
e ovunque dritto a me di acqua che piove
io vidi al basso, giù, mentre pioveva
lo specchio nero dell’acqua cadente.
Il lago d’acqua dritta fu Euridice –
e per non più vederla io mi voltai.
Forse una vela, o un albero di altrove,
o la sua stessa veste alba e ponente
rapì girando la forma felice,
forse il pilone umido del ponte.

La stella mi spezza le mani calando le spranghe
i rocchetti dei raggi di ferro voraci valanghe
io batto alle porte di Hamelin pugni di sangue
io stanco insistendo le scolte che sognano stanche.
Buttateli dentro la terra questi vostri bambini
io poi ci provo suonando a portarveli indietro.
Ho infilato gli anelli d’argento su tutte le dita
che fanno dei suoni alle corde, che sono argentini –
e la polvere entra nei sandali, e la sabbia di vetro.
Io suono la musica e ditemi quando è finita.

(*) Da Venti fusioni a cera persa, Piero Manni, Lecce 2002.

Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Ultima pubblicazione Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015).

Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.; la Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.

Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. Antonio Di Paola e Katerina Zoufalová. È stata pubblicata l’Antologia, per Chelsea Editions di New York, Poems di Antonio Sagredo.

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Tadeusz Różewicz (1921-2014) POESIE SCELTE “Sono nessuno” dedicata a Ezra Pound, “Elpenore”, “Canto della gabbia” Presentazione e traduzione di Paolo Statuti con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Polonia Ghetto_Uprising_Warsaw

Polonia assedio del Ghetto di Varsavia

Poeta, drammaturgo, novelliere e saggista, Tadeusz Różewicz – da qualcuno definito “specchio e sismografo della realtà contemporanea” – è senza dubbio il più illustre scrittore polacco della generazione cui la guerra tolse la prima giovinezza. E’ nato il 9 ottobre 1921 a Radomsko. Durante il periodo dell’occupazione si mantenne dando lezioni private e lavorando saltuariamente come operaio e corriere. Nel 1942 terminò la scuola clandestina per sottufficiali. Negli anni 1943-44 combatté nei reparti partigiani dell’Armata Nazionale.

Il primo volume di poesie, uscito nel 1947,  è intitolato non a caso Niepokój (Inquietudine, 1947). E’ l’inquietudine dell’uomo scampato allo sterminio, che lotta affinché le atroci esperienze che ha vissuto non si ripetano più. Ancora più incisive, da questo punto di vista, sono le due successive raccolte Czerwona rękawiczka (Il guanto rosso, 1948) e Pięć poematów (Cinque poemi, 1950). Il poeta penetra sempre più profondamente nelle questioni che lo travagliano, e sempre più faticosamente cerca la salvezza nell’osservazione dei mutamenti che avvengono nel suo paese. L’inquietudine morale continuerà a tormentare il poeta anche nei poemi Równina (La pianura, 1954) e Srebrny kłos (La spiga d’argento, 1955), nonché nel successivo volume Rozmowa z księciem (Colloquio con il principe, 1960). Il moralista non può permettere alla sua coscienza di quietarsi davanti a un mite quadretto della natura o in un pacifico idillio. Różewicz risveglia incessantemente le coscienze, perché la coscienza inquieta determina la ricerca della verità, e la ricerca della verità porta alla ricerca del bello. Różewicz è concreto e misurato. Cerca di cogliere l’essenza di un fatto, di un fenomeno, mette a fuoco ciò che vede e ne evidenzia gli elementi essenziali.

Negli anni ’50 lo scrittore, pur continuando ad esprimersi nella poesia, iniziò la sua attività di novelliere e di drammaturgo. Sono apparse così le sue raccolte di racconti Opadły liście z drzew (Sono cadute le foglie dagli alberi, 1955), Przerwany egzamin (L’esame interrotto, 1960), Wycieczka do muzeum (Gita al museo, 1966) e Śmierć w starych dekoracjach (Morte tra le vecchie scene, 1970). Caratteristica specifica delle novelle di Różewicz è l’ostinata ricerca dell’umanità in ogni frammento di vita. E’ una prosa incredibilmente condensata, dai molti sottotesti, che scava il realismo dalle vicissitudini umane. Lo scrittore diventa maestro di una nuova prosa, che si può definire realismo poetico. Spesso intreccia elementi occasionali, brandelli di conversazione, il balbettìo di un ubriaco, annunci, frammenti di trasmissioni radiofoniche e televisive, di giornali e di libri. Tutto gli serve come materiale da costruzione, tutto si amalgama nel crogiolo della sua arte.

polonia fucilazioneAltrettanto inquietante e originale come la poesia e la prosa, è la drammaturgia di Różewicz. Lo scrittore, giustamente definito un classico vivente, è sempre fedele a se stesso, alla sua visione del mondo, alle sue ossessioni e alla sua poetica. “Kartoteka” (Cartoteca, 1960), è il dramma di tanti uomini vissuti nel mondo della seconda metà del XX secolo, un mondo in cui lo scrittore scorge molti sintomi di caos e di crisi dei valori tradizionali.

Nei suoi drammi Różewicz è riuscito magistralmente a “spiare” lo stile di vita di certi gruppi sociali, il cui obiettivo è soltanto l’arricchimento e le cui aspirazioni sono esclusivamente di natura consumistica. Ad esempio in Akt przerywany (Atto interrotto, 1970), bersaglio dello scrittore diventa il livellamento, l’appiattimento dei costumi, che riguarda non solo la sfera dei problemi quotidiani, ma si imprime anche nella psiche dell’uomo contemporaneo, impoverendone la vita interiore.

Różewicz – drammaturgo ha creato una nuova forma teatrale, nella quale trovano posto la vita concreta, l’iperbole poetica, l’ironia e il grottesco. Il dramma Pułapka (La trappola, 1982), ritenuto da molti un capolavoro, è basato sulla figura di Franz Kafka. Vi si ritrovano fatti della vita di questo scrittore e alcuni echi dei suoi diari. Meditando su Kafka, Różewicz scrive anche di se stesso e un po’ anche di tutti noi, delle nostre paure, del destino dell’uomo – “animale immolato” del XX secolo, “intrappolato” dalla metafisica. La prima trappola di ogni essere umano è l’esistenza stessa. “Sono una trappola, il mio corpo è una trappola in cui sono caduto dopo la nascita”, dice Kafka nel dramma di Różewicz.

Scrive il drammaturgo: “Cosa mi lega al teatro? Al teatro mi lega il desiderio di scrivere un dramma veramente realistico e al tempo stesso poetico. Non è una cosa facile, perché non so in cosa si differenzi il teatro poetico da quello realistico. Considero tutta la mia creazione come un’incessante polemica con il teatro contemporaneo e con le recensioni teatrali.

Nel suo libro “Il teatro della comunità” il regista Kazimierz Braun scrive: “Dopo Wyspiański e Witkacy, dopo Gombrowicz e Mrożek, proprio Różewicz, a mio avviso, è il più autorevole drammaturgo del teatro polacco contemporaneo. Attualmente proprio lui traccia l’indirizzo delle ricerche più importanti”. E’ inutile dire che i drammi di Różewicz sono rappresentati sulle scene di tutto il mondo, inclusa  l’Italia.

Polonia Esecuzione di 56 civili polacchi a Bochnia durante l'occupazione della Germania nazista della Polonia; 18 December 1939

Esecuzione di 56 civili polacchi a Bochnia durante l’occupazione della Germania nazista della Polonia; 18 December 1939

“Tanti anni sono dovuti passare, prima di riuscire a capire che lo scrittore poeta non ha il diritto di disprezzare, ma ha soltanto il diritto di amare” – ha scritto Różewicz nel volume di saggi Przygotowanie do wieczoru autorskiego (Preparazione a una serata d’autore, 1971), e forse in questa affermazione  risiede la verità sull’evoluzione di questo scrittore, la cui creazione ha sempre reagito vivacemente sia alle grandi crisi politiche del nostro tempo, sia a tutti i fenomeni della sfera esistenziale, culturale, di costume, attraverso i quali un umanista del rango di Różewicz non può passare indifferente. Giustamente ha detto Konrad Górski che “non si diventa umanisti per caso. La passione del conoscere in un umanista nasce da un’esigenza istintiva, per capire il senso della vita, per scorgere il legame tra l’enigma del mondo e il destino morale dell’uomo”. Queste parole si adattano alla perfezione a tutta l’opera di Tadeusz Różewicz.

Da tanti anni mi occupo di letteratura polacca e conosco bene questo scrittore. Ma c’è una cosa che continua a stupirmi: che cioè non abbia ricevuto il Nobel per la Letteratura, al pari di Henryk Sienkiewicz (1905), Wladyslaw Reymont (1924), Czesław Miłosz (1980) e Wisława Szymborska 1996). In ogni caso ormai è troppo tardi, perché questa grande figura della letteratura polacca è scomparsa il 24 aprile del 2014.

Sono uscite in Italia le seguenti raccolte di poesie di Tadeusz Różewicz:
Colloquio con il principe (129 poesie), a cura di Carlo Verdiani, Mondadori 1964
Il guanto rosso e altre poesie (45 poesie), a cura di Carlo Verdiani e Pietro Marchesani. Scheiwiller 2003
Bassorilievo (26 poesie), a cura di Barbara Verdiani, Scheiwiller 2004
Le parole sgomente. Poesie 1947-2004 (52 poesie), a cura di Silvano De Fanti, Metauro 2007

Della raccolta di prossima uscita in italiano sono inserite 32 poesie di Różewicz, di cui 17 inedite, mentre 3 sono inserite nella raccolta del 1964 e non sono state più pubblicate. Malgrado Różewicz non sia un nome nuovo alla editoria italiana, egli continua a essere ancora troppo poco noto nel nostro paese. Devo arguire che sia rimasto “intrappolato” nelle anguste reti della slavistica italiana, che purtroppo non è esente da rivalità e gelosie. Mi auguro dunque che con una più oculata divulgazione, che lasci fuori eventualmente i santoni della slavistica nostrana, la mia raccolta di prossima pubblicazione con la EditLet contribuisca a dare a Tadeusz Różewicz quello che è di Tadeusz Różewicz.
                                                                                                         Paolo Statuti

Altre opere di Tadeusz Różewicz:
Poesia

“Czas, który idzie” (Il tempo che va, 1951)
“Wiersze i obrazy” (Versi e immagini, 1952)
“Nic w płaszczu Prospera” (Il nulla nel mantello di Prospero, 1962)
“Duszyczka” (Piccola anima, 1979)
“Płaskorzeźba” (Bassorilievo, 1991)
“Recycling” (Recycling, 1998)
“Nożyk profesora” (Il coltellino del professore, 2001)

Teatro

“Grupa Laokoona” (Il gruppo del Laocoonte, 1961)
“Śmieszny staruszek” (Il vecchietto ridicolo, 1965)
“Wyszedł z domu” (Se n’è andato di casa, 1965)
“Spaghetti i miecz” (Gli spaghetti e la spada, 1967)
“Przyrost naturalny” (Incremento demografico, 1968)
“Na czworakach” (Carponi, 1972)
„Białe małżeństwo” (Matrimonio bianco, 1974)
“Odejście Głodomora” (La partenza del morto di fame, 1976)
“Do piachu” (Morto e sepolto, 1979)

polonia occupazione tedesca

polonia occupazione tedesca

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Tadeusz Różewicz (1921-2014)  nasce a Radomsko nel 1921 sulla linea ferroviaria Varsavia-Vienna, città all’epoca di 20.000 abitanti, città di provincia. Nel novembre del 1944 il fratello Janusz, capo partigiano, viene fucilato dai nazisti, evento che avrà grande influenza sulle scelte di poetica di Tadeusz. Nel 1947 esce Niepokój (Inquietudine) che viene accolto con giudizi lusinghieri dai maggiori poeti delle generazioni precedenti. Anche il secondo volume Czerwona rekawiczka (Il guanto rosso) viene accolta con giudizi lusinghieri e disparati a causa di un nuovo sistema di versificazione e una nuova tematizzazione dei temi della sua poesia. Różewicz  proviene dall’esperienza traumatica della seconda guerra mondiale e dall’orrore dei campi di concentramento, la sua poesia è un prodotto della catastrofe della cultura, una riflessione che ha al centro la domanda: Che cos’è l’uomo? Che cosa è diventato? Ci sarà un avvenire per l’uomo figlio dell’Occidente? – Różewicz si chiede se sia ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz e dopo la dissoluzione delle “Forme”:

Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse

La risposta, in sede estetica, sarà la rivoluzione delle forme, l’adozione del verso libero e l’impiego di un polinomio frastico organizzato secondo i tempi e i modi della prosa. La poesia di Różewicz riporta il linguaggio poetico al grado zero della scrittura, elimina la differenza tra poesia e prosa, si prosasticizza, indossa i vestiti della povertà, assume un tono asseverativo, assertorio, sarcastico, dimesso, gnomico e colloquiale, mescola abilmente il parlato con il ready made, la citazione con la semplice proposizione del quotidiano, il dialogo con il soliloquio, gli enunciati frastici sono impiegati come frangiflutti della significazione, sono abilmente snodati e snodabili, ribaltabili e sovrapponibili grazie all’impiego di una pluralità di voci che intervengono nella composizione senza preavviso alcuno, ma inserendo gli enunciati liberamente, svincolati da ogni schema preordinato. Il risultato estetico è una prosodia sorprendentemente ricca, frastagliata e vissuta, ritmicamente snodabile, capace di aderire alle tematiche più diverse come un vestito che sembra, volta a volta, tagliato su misura. Una poesia che ricorda certe composizioni cubiste, che integra le suggestioni del costruttivismo e del surrealismo, ma di un surrealismo passato al vaglio della sua severità polacca. Scrive Silvano De Fanti: «Il registro stilistico viene dunque improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuta dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui che offrano nuove possibilità semantiche svelando ciò che sta oltre la parola, lontano dalle associazioni tradizionali, e corredata da insistenti elencazioni, coordinate per paratassi o per asindeto, tendenti a manifestare i frammenti circostanti che ricreano il caos del mondo dopo la distruzione. Stava soprattutto qui la precoce rottura con la poetica dell’Avanguardia; stava altresì nell’uso ben più largo del lessico quotidiano e nella ‘debanalizzazione’ del banale, inteso come tutto ciò che rivela le verità ‘ordinarie’, ovvero il parlare diretto, la parola concreta, la naturalezza, il senso comune: “dopo una breve escursione nella terra dove regnavano e regnano il ‘senso poetico’ e la ‘bellezza’, faccio ritorno al mio ‘immondezzaio'” (…) La “morte della poesia” così spesso proclamata da Różewicz – metafora paradossale, ché in realtà portò il poeta a generare una nuova poesia – stava proprio nella consapevolezza della mancanza di una lingua che fosse in grado di esprimere l’esperienza, e che… lo spinse a penetrare e a rivoltare dall’interno quella stessa lingua. L’uomo di Niepokój è sopravvissuto alla catastrofe da lui stesso provocata»*

È la misura e la precisione del dettato poetico che farà di Różewicz il progenitore della poesia polacca moderna. Un grande poeta modernista che ha saputo formulare nella nuova sintassi del modernismo le domande più inquietanti e scomode del nostro tempo. È la scoperta più sconvolgente di Różewicz quella di interrogare l’uomo senza qualità che è sortito fuori dalla seconda guerra mondiale: l’uomo è diventato quella cosa senza identità dei nostri giorni:

Sono nessuno
the dogs leap on Actaeon
Fu condotto
al luogo di pena
il 24 maggio 1945
alle ore quindici
Ich bin Niemand
Mein Name ist Niemand
lo riconobbi dagli occhiali
e dai peli sulla faccia
aveva allora 60 anni
portava una rozza uniforme
scarponi militari
cintura e lacci
si toglievano alle persone
rinchiuse in gabbia…

polonia-bombardamenti

polonia-bombardamenti

Nella poesia di Różewicz si entra subito dentro una stanza, dentro una situazione, dentro un personaggio. È il primo poeta del nuovo modernismo europeo che utilizza il discorso letteralizzato (facilitato in ciò dalla sua lunga esperienza di scrittore di drammi), di qui l’impiego continuo di dialoghi, di inserzioni di parlato, di ready made, di enunciati di cronaca, di divagazioni improvvise e apparentemente slegate del filo conduttore del discorso. Ma Różewicz fa anche uso del discorso indiretto, del correlativo oggettivo del correlativo soggettivo (cioè lo spostamento del soggetto, lo spaesamento e la dislocazione del soggetto). Różewicz fa uso della sapienza antica e antichissima dei saggi cinesi, di Lao Tzu quando questi scrive: «La via è vuota, ma usandola, non si riempie». C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano. In tal modo, la poesia rafforza alla ennesima potenza la carica semantica del proprio linguaggio, nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con la sovranità che è riservata ad un sovrano assoluto. Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa. In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Różewicz fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica), entra subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come leggere il mondo.

[Le altre opere poetiche del poeta polacco sono: Czerwona rękawiczka (Il guanto rosso, 1948) e Pięć poematów (Cinque poemi, 1950). Równina (La pianura, 1954) e Srebrny kłos (La spiga d’argento, 1955), e Rozmowa z księciem(Colloquio con il principe, 1960). Seguiranno Superstite, degli anni sessanta Correzione di bozze, degli anni ottanta, Una poesia degli anni novanta, e degli anni duemila: Perché scrivo?. Nel 2007, è uscita in Italia, grazie all’impegno e alla cura di Silvano De Fanti, un’antologia della sua vasta produzione, dal titolo Le parole sgomente. Poesie 1947–2004 (Metauro)].

Różewicz apprezzava l’opera pittorica di Burri, apprezzava l’informale materico di Burri il quale creava con il materiale bruto «immondezzai organizzati»:

affamato nel campo di lavoro
componeva con i rifiuti
il mondo nuovo
tra le morti e i rifiuti
creò la bellezza
diede prova di una nuova interezza.

Poeta Tadeusz Różewiczczerwiec  1979 r. soaPAP/PAI/Reprodukcja

Tadeusz Różewicz 1979

Anche per il poeta polacco i rifiuti e i letamai sono diventati illustrazione e simbolo della crisi della cultura nella seconda metà del XX secolo:

vicino al mio cuore
l’immondezzaio metropolitano
il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.

Różewicz si rende conto che l’arte si trova in un momento di passaggio, lo fa con la consueta sfumatura ironica:

Un’epoca si sta concludendo
inizia
un’epoca nuova e a volte gli artisti si sentono
in dovere
di creare un’opera degna
dei nostri grandi straordinari
tempi
invece pian piano vediamo
che un’epoca si è conclusa
un’altra è iniziata
alcuni se ne sono accorti
altri no

Altri ancora «sono appesi immobili ormai quasi belli», già classicizzati seppur giovani (Afro, Spazzapan, Music, Consagra, Corpora) Uno dei segnali più inquietanti del trapasso da un’epoca all’altra? Nel 1957 il poeta aveva visto a Parigi «l’albero realistico» di Mondrian che «si faceva astratto / moriva e partoriva / una proposta nuova». Ora, solo cinque anni dopo, in America la scimpanzè Betsy dipinge quadri tachistes e ne ha venduto uno per 350.000 franchi… «Das Spiel mit den Möglichkeiten»: l’espressione artistica di oggi – inizio anni ’60 – tende a essere un gioco delle possibilità, un gioco – sembra questo il giudizio di Rozewicz – di cui l’artista cerca ancora di stabilire delle regole. L’unica vera consapevolezza pare essere un diverso atteggiamento etico: non più “partecipante”, ma “testimone”. E la parte conclusiva del poema, intitolato “Diritti e doveri” e anch’essa ricca di topoi intertestuali iconografici, sembra esserne l’esemplificazione poetica attraverso la parafrasi dei primi versi del poema di W.H. Auden “Musée des Beaux Arts”, che a sua volta descrive il dipinto di Brueghel “La caduta di Icaro”. Un tempo, nel vedere Icaro in caduta, il poeta avrebbe gridato a tutti gli astanti di guardare, di assistere al dramma del figlio del sogno in atto di precipitare:

ma adesso adesso non so
so che l’aratore deve arare la terra
il pastore custodire le greggi
l’avventura di Icaro non è la loro avventura
deve andare a finire così
E non c’è nulla di
sconvolgente nel fatto
che la bella nave continui a navigare
versi il porto stabilito.

È il tema della fine della poesia che ritorna in modo ossessivo nella poesia di Różewicz. In Et in Arcadia Ego (1950) scrive:

il musicante ha chiuso il violino
nella custodia
si è seduto al tavolino
i camerieri ripiegano le tovaglie
le vele

La festa è finita. I camerieri se ne vanno, ripiegano le tovaglie…

Siamo alla fine di un’epoca
il musicista scompare così com’è scomparso il poeta…

È questa profonda consapevolezza che fa la grandezza della poesia di Różewicz. Pochi poeti del Novecento hanno avuto così netta la percezione della fine di una civiltà e della sua arte più sublime, la poesia, quanto il poeta polacco.

Polen, Halbkettenfahrzeuge

Polen, Halbkettenfahrzeuge

Tadeusz Różewicz

Sono nessuno

the dogs leap on Actaeon

Fu condotto
al luogo di pena
il 24 maggio 1945
alle ore quindici

Ich bin Niemand
Mein Name ist Niemand

lo riconobbi dagli occhiali
e dalla barba
aveva allora 60 anni

portava una rozza uniforme
scarponi militari

cintura e lacci
si toglievano alle persone
messe in gabbia

nei giorni afosi
girava in mutande
verdi-oliva e maglietta

le sbarre della gabbia furono rinforzate

diceva che dalla pazzia
l’aveva salvato un’antologia di liriche
che aveva trovato nella latrina

that from the gates of death,
that from the gates of death:
Whitman or Lovelace found
on the jo – house seat at that
in cheap edition!

Whitman liked oysters

stringo alleanza con te
Walt Whitman

Ti ho detestato
abbastanza a lungo
vengo da Te
come bambino adulto
che aveva un caparbio
padre

sono Nessuno
conoscete Nessuno?

il poeta è un animale
immerso nel mondo
per questo è così insicuro
di fronte al mondo

und schritt im Käfig
auf und ab
ohne einen Blick
nach draussen zu werfen

poi lo misero
nel recinto degli animali

calcò sull’erba
un sentiero circolare
che non conduceva
all’abbeveratoio

la danza dell’intelletto
tra le parole

tadeusz rozevicz

tadeusz rozevicz

trovò il manico
di una vecchia scopa
il manico si trasformò
nelle sue mani
in una spada
una racchetta da tennis
una stecca da biliardo
un bastone da passeggio

Interrogatorio
nel tribunale di stato
del distretto di Columbia
13 febbraio 1946

Il signor Pound è qui
Voglia alzarsi e mostrarsi
Alla corte
Grazie

– Qualcuno conosce il signor Pound?
– Io lo conosco
– La poesia che lei ha letto era buona?
– Penso che quello che ho letto fosse in regola
– Il fatto che avesse mania di grandezza
e una buona opinione di sé
è una cosa singolare anormale?
– Non nel caso di un poeta
– Ed egli è uno dei poeti
più illustri
– Sì
– Capisce egli di aver commesso un tradimento?
– L’accusato ritiene di possedere la chiave
della pace mondiale
tramite la comprensione e la spiegazione di Confucio
– Soffre di psicosi?
– Sì. Penso che soffra di mania di grandezza
e di mania di persecuzione…
Entrambe tipiche degli stati
paranoici

Dalla cella della morte
fu trasferito
alla “Gorillakäfig”

il poeta è un animale
immerso nel mondo
per questo è così insicuro
di fronte al mondo

the dogs leap on Actaeon
stava nella gabbia
per gli animali feroci
di giorno
accovacciato in un angolo della gabbia
di notte
nella luce dei riflettori

i guardiani tacevano

a volte un soldato passando
si fermava
osservava lo strano esemplare
poeta animale traditore
“padre della letteratura contemporanea”

gettava nella gabbia
sigarette cioccolata frutta
andava oltre
il vecchio bofonchiava
Usura usura usura
Rothschild Roosewelt Morgenthau
Usura usura usura
approvava le stragi hitleriane
il miglior fabbro

Ich bin Niemand
mein Name ist Niemand

the dogs leap on Actaeon

l’amore per il prossimo lo praticavano Quelli
che respinsero la lettera della legge

sempre commettevo soltanto errori
le parole per me hanno perso il loro significato
risvegliato
mi stupisco

Tadeusz-Rozewicz 2

Tadeusz Różewicz

Elpenore come hai raggiunto questa buia riva?
Sei venuto a piedi? Precedendo i Naviganti?
Ed egli in risposta:
La triste sorte e molto vino. Dormivo nel focolare di Circe…
Uomo senza fortuna e senza nome.

CANTO DELLA GABBIA

Chi può Kto może
non vuo’ nie chce
Chi vuo’ Kto chce
non può nie może
Chi sa Kto wie
non fa nie czyni
Chi fa Kto czyni
non sa fare nie umie
e così la vita se ne va!

(Versione di Paolo Statuti)

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: Il principe-albero e Gocce di fantasia (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo L’albero che era un principe (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).

   Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.

   Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.

   A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska e Tadeusz Rozewicz.

   Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

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POESIE SCELTE di Rafał Wojaczek (1945-1971) “il poeta maledetto” traduzione e Commento a cura di Paolo Statuti

Rafał WojaczekRafał Wojaczek,  poeta e prosatore polacco, annoverato nel gruppo dei poeti maledetti. Nacque a Mikołów il 6 dicembre 1945 e morì suicida a Wrocław l’11 maggio 1971. Debuttò nel 1969 con la raccolta Sezon (La stagione), accolta con lusinghieri giudizi dalla critica. Nel 1970 uscì la sua seconda raccolta Inna bajka (Una diversa favola). Postume uscirono Którego nie było (Colui che non c’era, 1972) e Nie skończona krucjata (La crociata non finita, 1972).

   Scriveva solo quando non era in stato di ubriachezza. Si chiudeva in casa per due settimane e senza interruzione scriveva, correggeva, limava. Poi subentrava un intervallo di due-tre settimane, durante il quale si ubriacava da non reggersi in piedi, faceva scenate, provocava scandali. Più volte tentò di togliersi la vita. I medici gli diagnosticarono la schizofrenia. Questa diagnosi pesò su tutta la sua vita. Egli stesso chiese di trascorrere una settimana in una clinica psichiatrica e lì conobbe un’infermiera che diventò sua moglie e gli diede una figlia. Ma il matrimonio non durò neanche un anno e finì col divorzio.

Rafał Wojaczek

Rafał Wojaczek

  Gli ultimi anni furono assai difficili – sprofondando sempre più nell’alcol sentiva di non essere più in grado di scrivere come un tempo. E non potendo scrivere, la vita non avrebbe avuto più alcun valore.  L’ultimo tentativo di suicidio gli riuscì. Su un biglietto scrisse esattamente le dosi e i nomi delle medicine che avrebbe preso. Non si sa se per documentare la sua morte, o per lasciare una indicazione per il pronto soccorso. Comunque sia, aveva ingerito una tale quantità di farmaci, tra cui una forte dose di valium, che neanche un pronto intervento avrebbe potuto salvarlo.

   Principali temi della sua poesia sono la morte, l’amore, la femminilità e la carnalità. L’erotismo e la sessualità sono ripetutamente legati alla morte. Il soggetto lirico dei suoi versi parla del dolore, ha il senso della estraneità, si ribella alla ipocrisia del mondo e della società, e ostinatamente esplora gli angoli oscuri dell’anima umana, analizza le proprie paure, inquietudini, ossessioni. Il linguaggio della sua poesia è spesso naturalistico, brutale e osceno. Ma sotto il volgare strato lessicale di Wojaczek si cela anche un profondo lirismo, un bisogno di tenerezza e una grande sensibilità, come emerge dalle lettere alla madre e al suo grande amore Teresa Ziomber.

   Questo poeta così inquieto e tragico, dalla vita così imprevedibile, morto ad appena ventisei anni non ancora compiuti, è stato uno dei fenomeni più controversi nella poesia polacca del XX secolo. E’ sfrecciato come una cometa, lasciando dietro di sé la leggenda, soprattutto tra i giovani.

Rafał Wojaczek 1999 filmweb

Rafał Wojaczek tradotto da Paolo Statuti

 Ti parlo piano

Ti parlo così piano come un luccichio
E fioriscono le stelle sul prato del mio sangue
Nei miei occhi è la stella del tuo sangue
Parlo così piano che la mia ombra svanisce
Sono un’isola fresca per il tuo corpo
che cade di notte come goccia ardente
Ti parlo così piano come nel sonno
il tuo sudore sulla mia pelle brucia
Ti parlo così piano come un uccello
all’alba il sole cala nei tuoi occhi
Ti parlo così piano
come lacrima che scolpisce una ruga
Ti parlo così piano
come tu fai con me

.
Mito di famiglia

Kiełbasa * –

Mia madre commestibile

E’ appesa a un gancio di nichel
e odora di camino

Costa poco del resto non è mai stata cara
era comprensiva e conosceva le possibilità

Io sono figlio di mia madre
e di un certo giovanotto
che non fu prudente
e di sicuro cattivo
ma forse soltanto non sapeva
Mia madre allora era stordita
e poi si pentì

Adesso io ho fame
e mia madre pende

Dunque fisso la vetrina
e sento
che mi cola
la saliva e lo sperma

Lo so tra un istante non esiterò più
entrerò e chiederò
proprio questa

.
* Salame in polacco

Sii per me

Sii per me dai piedi alla testa, dal tallone all’orecchio
Dai ginocchi all’inguine, dal gomito alle unghie
Sotto l’ascella, sotto la lingua, dal clitoride alle ciglia.

Sii il polo del mio cuore anormale
Il cancro che mangia il cervello e permetterà di sentirlo
Sii l’acqua dell’ossigeno per i polmoni bruciati.

Sii per me reggiseno, mutande, giarrettiera
Sii culla per il corpo, bambinaia che culla
Mangiami lo sporco delle unghie, bevi il sangue mensile.

Sii passione e compimento, piacere, di nuovo fame
Passato e futuro, secondo ed eternità
Sii ragazzo, sii ragazza, sii notte e giorno.

Sii per me vita, gioia, sii morte, gelosia
Sii rabbia e disprezzo, disgrazia e noia
Sii Dio, sii Negro, padre, madre, figlio.

Sii – e non chiedere come Ti ripagherò
E allora gratis prenderai il più bel tradimento:
L’amore che sveglierà la morte addormentata in Te.

La stagione

C’è la ringhiera
ma non ci sono le scale
C’è l’io
ma non ci sono io
C’è il freddo
ma non ci sono le calde pelli degli animali
le pellicce d’orso le code di volpe

Dal momento in cui è bagnato
è molto bagnato
l’io ama il bagnato
sulla piazza, senza l’ombrello

C’è il buio
c’è il buio come il più buio
io non ci sono

Non c’è il dormire
Non c’è il respirare
Il vivere non c’è

Soltanto gli alberi si muovono
insolito muoversi degli alberi

generano un gatto nero
che percorre tutte le strade

Scrivo amore

per te scrivo amore
io senza nome
animale insonne

scrivo spaventato
solo di fronte a Te
che ti chiami Essere
io carne della preghiera
di cui Tu sei l’uccello

dalle labbra cola
una goccia di alcol
in essa tutti i soli e le stelle
l’unico sole di questa stagione

dalle labbra cola
una goccia di sangue
e dove è la Tua lingua
che calmi il dolore
causato dalla parola morsa
amo

*

I capelli assonnati assonnata la veste Lesbia assonnata
Il brugo del sonno dolcemente elargisce l’arsenico
L’udito dorme la voce tace Dio muore
Sordamente fruscia una conchiglia dell’oceano
Il bianco pesce del corpo lentamente nuota

*

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).
Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.
Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.
A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa.

Traduzioni pubblicate di Paolo Statuti dal polacco in italiano

Baterowicz, Marek “Canti del pianeta” Roma, Ed. Empirìa, 2010
Brzechwa, Jan “Una giornata tutta da ridere con il prof. Kleks” (Akademia
Pana Kleksa) Roma, Città Nuova, 1992
Brzechwa, Jan “Avventure di viaggio con il prof. Kleks” (Akademia pana
Kleksa), Roma, Città Nuova, 1996
Broniewski, Wladyslaw “La Comune di Parigi” Roma, Ragionamenti n.180-181
gennaio-febbraio 1989
Dobraczynski, Jan “L’invincibile armata” Casale Monferrato, Piemme, 1994
(ristampa Milano, Gribaudi, 2011)
Dobraczynski, Jan “La spada santa” (Storia di s. Paolo) Milano, Gribaudi, 2002
Dobraczynski, Jan “Il fuoco arde nel mio cuore” (santa Teresa d’Avila)
Milano, Gribaudi, 2004
Dobraczynski , Jan “Ho visto il Maestro!” (Maria Maddalena) Milano,
Gribaudi, 2005
Dobraczynski, Jan “Il cavaliere dell’Immacolata” (s. Massimiliano Kolbe)
Milano, Gribaudi, 2007
Ficowski, Jerzy “Poesie” Stilb n.7 gennaio-febbraio 1982
Ficowski, Jerzy „Il rametto dell’albero del sole” Roma, Edizioni e/o, 1985
Galczynski, K. Ildefons “Visioni di san Ildefonso ovvero Satira sull’universo”
Roma, La Fiera letteraria n.3 2 gennaio 1973
Grzesczak, Marian “Poesie” Roma, Tempo presente n. 9-10 giugno-
Agosto 1981
Małgorzata, Hillar 20 poesie, Edizioni CFR, ottobre 2013
Iwaszkiewicz, Jaroslaw “Poesie” Roma, La Fiera letteraria n. 27 7 luglio 1974
Urszula, Kozioł 20 poesie, Edizioni CFR, marzo 2014
Lesmian, Boleslaw “Poesie” Roma, La Fiera letteraria n.20 20 maggio 1973
Ewa, Lipska 20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014
Milosz, Czeslaw “Poesie” Roma, Tempo presente n.6 dicembre 1980
Mrozek, Slawomir “Un caso fortunato” Sipario: rassegna mensile dello
Spettacolo n. 315-316 agosto-settembre 1972 (tradotto
in collaborazione con Zbigniew Chotchowski)
Norwid, Cyprian k. “Il pianoforte di Chopin” Roma, Ragionamenti, n.183
aprile 1989
Pomianowski, Jerzy “Guida alla moderna letteratura polacca, con annessa
antologia di poeti polacchi contemporanei” Roma, Bulzoni
1973 (traduzione di 62 poesie di poeti diversi)
Poświatowska, Halina “50 poesie scelte”, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, 2014
Statuti, Paolo “Viaggio sulla cima della notte: racconti polacchi dal 1945 a
oggi” Roma, Editori Riuniti, 1988 (questo lavoro è stato molto
apprezzato da Herling-Grudzinski. Nell’antologia sono presenti
55 autori con un totale di 55 racconti)
Stryjkowski, Julian “Austeria” Roma, edizioni e/o 1984 (tradotto in
collaborazione con Aleksandra Kurczab)
Wojtyszko, Maciej “Bromba e gli altri e la saga dei Claptuni” Effelle di Marino
Fabbri Roma 1986

Przygotowane do druku: K.I. Gałczyński 20 poesie, Edizioni Joker
A. Kamieńska 50 poesie, Edizioni Joker
A. Świrszczyńska 41 posie, Edizioni Joker

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POESIE SCELTE di Tadeusz  Różewicz (1921-2014) Presentazione e traduzione a cura di Paolo Statuti “Sono nessuno”, “Elpenore”, “Canto della gabbia”, “Il testimone”,”Chi è il poeta”, “Che bello”, “La spina”, “Le forme”, “Angolini”

Polonia assedio del Ghetto di Varsavia

Polonia assedio del Ghetto di Varsavia

 Poeta, drammaturgo, novelliere e saggista, Tadeusz Różewicz (1921-2014) – da qualcuno definito “specchio e sismografo della realtà contemporanea” – è senza dubbio il più illustre scrittore polacco della generazione cui la guerra tolse la prima giovinezza. E’ nato il 9 ottobre 1921 a Radomsko. Durante il periodo dell’occupazione si mantenne dando lezioni private e lavorando saltuariamente come operaio e corriere. Nel 1942 terminò la scuola clandestina per sottufficiali. Negli anni 1943-44 combatté nei reparti partigiani dell’Armata Nazionale.

Il primo volume di poesie, uscito nel 1947,  è intitolato non a caso “Niepokój” (Inquietudine, 1947). E’ l’inquietudine dell’uomo scampato allo sterminio, che lotta affinché le atroci esperienze che ha vissuto non si ripetano più. Ancora più incisive, da questo punto di vista, sono le due successive raccolte “Czerwona rękawiczka” (Il guanto rosso, 1948) e “Pięć poematów” (Cinque poemi, 1950). Il poeta penetra sempre più profondamente nelle questioni che lo travagliano, e sempre più faticosamente cerca la salvezza nell’osservazione dei mutamenti che avvengono nel suo paese. L’inquietudine morale continuerà a tormentare il poeta anche nei poemi “Równina” (La pianura, 1954) e “Srebrny kłos” (La spiga d’argento, 1955), nonché nel successivo volume “Rozmowa z księciem” (Colloquio con il principe, 1960). Il moralista non può permettere alla sua coscienza di quietarsi davanti a un mite quadretto della natura o in un pacifico idillio. Różewicz risveglia incessantemente le coscienze, perché la coscienza inquieta determina la ricerca della verità, e la ricerca della verità porta alla ricerca del bello. Różewicz è concreto e misurato. Cerca di cogliere l’essenza di un fatto, di un fenomeno, mette a fuoco ciò che vede e ne evidenzia gli elementi essenziali.

polonia fucilazione

Negli anni ’50 lo scrittore, pur continuando ad esprimersi nella poesia, iniziò la sua attività di novelliere e di drammaturgo. Sono apparse così le sue raccolte di racconti “Opadły liście z drzew” (Sono cadute le foglie dagli alberi, 1955), “Przerwany egzamin” (L’esame interrotto, 1960), “Wycieczka do muzeum” (Gita al museo, 1966) e “Śmierć w starych dekoracjach” (Morte tra le vecchie scene, 1970). Caratteristica specifica delle novelle di Różewicz è l’ostinata ricerca dell’umanità in ogni frammento di vita. E’ una prosa incredibilmente condensata, dai molti sottotesti, che scava il realismo dalle vicissitudini umane. Lo scrittore diventa maestro di una nuova prosa, che si può definire realismo poetico. Spesso intreccia elementi occasionali, brandelli di conversazione, il balbettìo di un ubriaco, annunci, frammenti di trasmissioni radiofoniche e televisive, di giornali e di libri. Tutto gli serve come materiale da costruzione, tutto si amalgama nel crogiolo della sua arte.

Altrettanto inquietante e originale come la poesia e la prosa, è la drammaturgia di Różewicz. Lo scrittore, giustamente definito un classico vivente, è sempre fedele a se stesso, alla sua visione del mondo, alle sue ossessioni e alla sua poetica. “Kartoteka” (Cartoteca, 1960), è il dramma di tanti uomini vissuti nel mondo della seconda metà del XX secolo, un mondo in cui lo scrittore scorge molti sintomi di caos e di crisi dei valori tradizionali.

Nei suoi drammi Różewicz è riuscito magistralmente a “spiare” lo stile di vita di certi gruppi sociali, il cui obiettivo è soltanto l’arricchimento e le cui aspirazioni sono esclusivamente di natura consumistica. Ad esempio in “Akt przerywany” (Atto interrotto, 1970), bersaglio dello scrittore diventa il livellamento, l’appiattimento dei costumi, che riguarda non solo la sfera dei problemi quotidiani, ma si imprime anche nella psiche dell’uomo contemporaneo, impoverendone la vita interiore.

tadeusz rozevicz

tadeusz rozevicz

Różewicz – drammaturgo ha creato una nuova forma teatrale, nella quale trovano posto la vita concreta, l’iperbole poetica, l’ironia e il grottesco. Il dramma “Pułapka” (La trappola, 1982), ritenuto da molti un capolavoro, è basato sulla figura di Franz Kafka. Vi si ritrovano fatti della vita di questo scrittore e alcuni echi dei suoi diari. Meditando su Kafka, Różewicz scrive anche di se stesso e un po’ anche di tutti noi, delle nostre paure, del destino dell’uomo – “animale immolato” del XX secolo, “intrappolato” dalla metafisica. La prima trappola di ogni essere umano è l’esistenza stessa. “Sono una trappola, il mio corpo è una trappola in cui sono caduto dopo la nascita”, dice Kafka nel dramma di Różewicz.

Scrive il drammaturgo: “Cosa mi lega al teatro? Al teatro mi lega il desiderio di scrivere un dramma veramente realistico e al tempo stesso poetico. Non è una cosa facile, perché non so in cosa si differenzi il teatro poetico da quello realistico. Considero tutta la mia creazione come un’incessante polemica con il teatro contemporaneo e con le recensioni teatrali.

Nel suo libro “Il teatro della comunità” il regista Kazimierz Braun scrive: “Dopo Wyspiański e Witkacy, dopo Gombrowicz e Mrożek, proprio Różewicz, a mio avviso, è il più autorevole drammaturgo del teatro polacco contemporaneo. Attualmente proprio lui traccia l’indirizzo delle ricerche più importanti”. E’ inutile dire che i drammi di Różewicz sono rappresentati sulle scene di tutto il mondo, inclusa  l’Italia.

Tanti anni sono dovuti passare, prima di riuscire a capire che lo scrittore poeta non ha il diritto di disprezzare, ma ha soltanto il diritto di amare” – ha scritto Różewicz nel volume di saggi “Przygotowanie do wieczoru autorskiego” (Preparazione a una serata d’autore, 1971), e forse in questa affermazione  risiede la verità sull’evoluzione di questo scrittore, la cui creazione ha sempre reagito vivacemente sia alle grandi crisi politiche del nostro tempo, sia a tutti i fenomeni della sfera esistenziale, culturale, di costume, attraverso i quali un umanista del rango di Różewicz non può passare indifferente. Giustamente ha detto Konrad Górski che “non si diventa umanisti per caso. La passione del conoscere in un umanista nasce da un’esigenza istintiva, per capire il senso della vita, per scorgere il legame tra l’enigma del mondo e il destino morale dell’uomo”. Queste parole si adattano alla perfezione a tutta l’opera di Tadeusz Różewicz.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Da tanti anni mi occupo di letteratura polacca e conosco bene questo scrittore. Ma c’è una cosa che continua a stupirmi: che cioè non abbia ricevuto il Nobel per la Letteratura, al pari di Henryk Sienkiewicz (1905), Wladyslaw Reymont (1924), Czesław Miłosz (1980) e Wisława Szymborska 1996). In ogni caso ormai è troppo tardi, perché questa grande figura della letteratura polacca è scomparsa il 24 aprile del 2014.

                                                                                                         Paolo Statuti

 Tadeusz Różewicz   1979

Tadeusz Różewicz
1979

Altre opere di Tadeusz Różewicz:

Poesia

“Czas, który idzie” (Il tempo che va, 1951)
“Wiersze i obrazy” (Versi e immagini, 1952)
“Nic w płaszczu Prospera” (Il nulla nel mantello di Prospero, 1962)
“Duszyczka” (Piccola anima, 1979)
“Płaskorzeźba” (Bassorilievo, 1991)
“Recycling” (Recycling, 1998)
“Nożyk profesora” (Il coltellino del professore, 2001)

Teatro

“Grupa Laokoona” (Il gruppo del Laocoonte, 1961)
“Śmieszny staruszek” (Il vecchietto ridicolo, 1965)
“Wyszedł z domu” (Se n’è andato di casa, 1965)
“Spaghetti i miecz” (Gli spaghetti e la spada, 1967)
“Przyrost naturalny” (Incremento demografico, 1968)
“Na czworakach” (Carponi, 1972)
„Białe małżeństwo” (Matrimonio bianco, 1974)
“Odejście Głodomora” (La partenza del morto di fame, 1976)
“Do piachu” (Morto e sepolto, 1979)
 

Poesie di Tadeusz Różewicz tradotte da Paolo Statuti

Sono nessuno
the dogs leap on Actaeon
Fu condotto
al luogo di pena
il 24 maggio 1945
alle ore quindici
Ich bin Niemand
Mein Name ist Niemand
lo riconobbi dagli occhiali
e dai peli sulla faccia
aveva allora 60 anni
portava una rozza uniforme
scarponi militari
cintura e lacci
si toglievano alle persone
rinchiuse in gabbia
nei giorni afosi
sfoggiava verdi-oliva
mutande e maglietta
le stecche della gabbia furono rinforzate
diceva che dalla pazzia
lo salvava un’antologia di liriche
che aveva trovato nella latrina
that from the gates of death,
that from the gates of death:
Whitman or Lovelace found
on the jo – house seat at that
in cheap edition!
Whitman liked oysters
stringo alleanza con te
Walt Whitman
Ti ho detestato
troppo a lungo
vengo da Te
come bambino adulto
che aveva un caparbio
padre
sono Nessuno
conoscete Nessuno?
il poeta è una bestia
affogata nel mondo
per questo è così insicura
di fronte al mondo
und schritt im Käfig
auf und ab
ohne einen Blick
nach draussen zu werfen

poi lo lasciarono andare
nel serraglio

calcò nell’erba
un sentiero circolare
che non conduceva
all’abbeveratoio

il ballo dell’intelletto
tra le parole

trovò il manico
di una vecchia scopa
il manico si trasformò
nelle sue mani
in spada
racchetta da tennis
stecca da biliardo
bastone da passeggio

Interrogatorio
nel tribunale di stato
del distretto di Columbia
13 febbraio 1946

Mister Pound è qui
Voglia alzarsi e mostrarsi
Alla corte
Grazie

– Qualcuno conosce Mister Pound?
– Io lo conosco
– La poesia che lei ha letto era buona?
– Penso che quello che ho letto fosse in regola
– Il fatto che avesse mania di grandezza
e una buona opinione di sé
è una cosa singolare, anormale?
– Non nel caso di un poeta
– Ed egli è uno dei più illustri
poeti
– Sì
– Capisce egli di aver commesso un tradimento?
– L’accusato ritiene di possedere la chiave
della pace mondiale
tramite la comprensione e la spiegazione di Confucio
– Soffre di psicosi?
– Sì. Penso che soffra di mania di grandezza
e di manie di persecuzione…
Entrambe tipiche degli stati
Paranoici

Dalla cella della morte
fu trasferito
alla “Gorillakäfig”

il poeta è una bestia
affogata nel mondo
per questo è così insicura
di fronte al mondo

the dogs leap on Actaeon
stava nella gabbia
delle bestie feroci
di giorno
accucciato in un angolo della gabbia
di notte
nella luce dei riflettori

i guardiani tacevano

a volte un soldato passando
si fermava
osservava il curioso esemplare
poeta bestia traditore
“padre della letteratura contemporanea”

gettava nella gabbia
sigarette coccolata frutta
passava oltre
il vecchio bofonchiava
Usura usura usura
Rothschild Roosewelt Morgenthau
Usura usura usura
lodava le stragi hitleriane
il miglior fabbro

Ich bin Niemand
mein Name ist Niemand

the dogs leap on Actaeon

l’amore verso il prossimo lo praticavano Quelli
che respingevano la lettera della legge

sempre ho commesso soltanto errori
le parole per me non avevano più senso
risvegliato
mi stupisco

*

Elpenore come hai raggiunto questa buia riva?
Sei venuto a piedi? Precedendo i Naviganti?
Ed egli in risposta:
Triste sorte e molto vino. Dormivo nel focolare di Circe…
Uomo senza fortuna e senza nome.

Tadeusz Różewicz

Tadeusz Różewicz

CANTO DELLA GABBIA

Chi può Kto może
non vuo’ nie chce
Chi vuo’ Kto chce
non può nie może
Chi sa Kto wie
non fa nie czyni
Chi fa Kto czyni
non sa fare nie umie
e così la vita se ne va!

I sipari nei miei drammi

I sipari
nei miei drammi
non si alzano
e non calano
non coprono
e non mostrano

arrugginiscono
marciscono stridono
lacerano

il primo di ferro
il secondo di straccio
il terzo di carta

cadono
a pezzi

sulle teste
degli spettatori
degli attori

i sipari nei miei drammi
pendono
sulla scena
sulla platea
sul guardaroba

ancora dopo
la rappresentazione
si appiccicano alle gambe
frusciano
pigolano

(1967)

Tadeusz Różewicz

Tadeusz Różewicz

Il testimone

Tu sai che ci sono
ma non entrare all’improvviso
nella mia stanza

potresti vedermi
tacere
su un foglio bianco

E’ mai possibile scrivere
sull’amore
sentendo le grida
degli ammazzati e dei disonorati
è mai possibile scrivere
sulla morte
guardando le faccine
dei bambini

Non entrare all’improvviso
nella mia stanza

Vedrai un muto
e confuso
testimone dell’amore
l’amore vinto dalla morte

(1952)

Chi è poeta

poeta è colui che scrive versi
e colui che i versi non scrive

poeta è colui che si toglie le catene
e colui che le catene si mette

poeta è colui che crede
e colui che credere non può

poeta è colui che mentiva
e colui al quale hanno mentito

poeta è colui che mangiava dalla mano
e colui che mozzava le mani

poeta è colui che ha la bocca
e colui che ingoia la verità

poeta è colui che cadeva
e colui che si rialza

poeta è colui che va via
e colui che andar via non può

(1962)

Angolini

Autunno
le piogge dietro le finestre passano volando
le castagne si spaccano
saltellano
i ragazzi dalla scuola corrono
con un allegro grido
frantumano l’acqua

le cicogne sono volate via
soltanto un passero
col pelo rizzato nero
come un piccolo spazzacamino
aspetta le briciole
di pane del sole

la sera le nebbie si trascinano
per le strade

un uomo
va
sul globo terrestre
con la testa immersa
nell’universo

i ragazzini
non mettono nelle bottiglie
gli spinarelli argentati
e i neri girini

le ragazzine non intrecciano ghirlande
di calta palustre
e di azzurri nontiscordardimé

viene l’inverno

05.10.2002 WROCLAW TEATR POLSKI TADEUSZ ROZEWICZ URODZINY POETY FOT. BARTLOMIEJ SOWA / AGENCJA GAZETA

05.10.2002 WROCLAW TEATR POLSKI TADEUSZ ROZEWICZ

La spina

non credo
non credo dalla fine
all’inizio del sonno

non credo da una sponda all’altra
della mia vita
non credo in modo franco
profondo
come profondamente credeva
mia madre

non credo
mangiando il pane
bevendo l’acqua
amando il corpo

non credo
stando nei suoi templi
tra i suoi sacerdoti e segni

non credo stando sulla strada della città
in un campo sotto la pioggia
nell’aria
nell’oro di un annuncio

leggo le sue parabole
semplici come una spiga di grano
e penso al dio
che non rideva

penso a un piccolo
dio sanguinante
nei bianchi
pannolini dell’infanzia

alla spina che lacera
i nostri occhi la bocca
adesso
e nell’ora della morte

Le forme

Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse

si gettano sul loro creatore
lo lacerano e trascinano
per lunghe strade
nelle quali un tempo sfilarono
tutte le orchestre le scuole le processioni

la carne che ancora respira
piena di sangue
è il nutrimento
delle forme perfette

convergono così ermeticamente sulla preda
che perfino il silenzio non filtra
all’esterno

(dicembre 1956)

Che bello

Che bello Posso cogliere
i mirtilli nel bosco
pensavo
non c’è il bosco né i mirtilli.

Che bello Posso sdraiarmi
all’ombra di un albero
pensavo gli alberi
non danno più ombra.

Che bello Sono con te
il cuore batte così forte
pensavo l’uomo
non ha il cuore.

(1948)

Paolo Statuti

Paolo Statuti

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).

   Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.

   Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.

   A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska.

   Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

Traduzioni pubblicate di Paolo Statuti  dal polacco in italiano:

Baterowicz, Marek  “Canti del pianeta” Roma, Ed. Empirìa, 2010
Brzechwa, Jan   “Una giornata tutta da ridere con il prof. Kleks”  (Akademia Pana Kleksa)  Roma, Città Nuova, 1992
Brzechwa, Jan   “Avventure di viaggio con il prof. Kleks”   (Akademia pana Kleksa), Roma, Città Nuova, 1996
Broniewski, Wladyslaw   “La Comune di Parigi”  Roma, Ragionamenti n.180-181 gennaio-febbraio  1989
Dobraczynski, Jan   “L’invincibile armata”  Casale Monferrato, Piemme, 1994 (ristampa Milano, Gribaudi, 2011)
Dobraczynski, Jan    “La spada santa” (Storia di s. Paolo) Milano, Gribaudi, 2002
Dobraczynski, Jan    “Il fuoco arde nel mio cuore” (santa Teresa d’Avila)Milano, Gribaudi, 2004
Dobraczynski , Jan    “Ho visto il Maestro!”  (Maria Maddalena)  Milano,Gribaudi, 2005
Dobraczynski, Jan    “Il cavaliere dell’Immacolata” (s. Massimiliano Kolbe) Milano, Gribaudi, 2007
Ficowski, Jerzy       “Poesie”  Stilb n.7  gennaio-febbraio  1982
Ficowski, Jerzy        „Il rametto dell’albero del sole”  Roma, Edizioni e/o, 1985
Galczynski, K. Ildefons   “Visioni di san Ildefonso ovvero Satira sull’universo” Roma, La Fiera letteraria n.3   2 gennaio 1973
Grzesczak, Marian    “Poesie”  Roma,  Tempo presente  n. 9-10  giugno- Agosto 1981
Małgorzata, Hillar     20 poesie, Edizioni CFR, ottobre 2013
Iwaszkiewicz, Jaroslaw    “Poesie”  Roma, La Fiera letteraria n. 27  7 luglio 1974
Urszula, Kozioł    20 poesie, Edizioni CFR, marzo 2014
Lesmian, Boleslaw   “Poesie”   Roma, La Fiera letteraria  n.20   20 maggio 1973
Ewa, Lipska    20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014
Milosz, Czeslaw    “Poesie”   Roma, Tempo presente  n.6   dicembre 1980
Mrozek, Slawomir   “Un caso fortunato”   Sipario: rassegna mensile dello
Spettacolo  n. 315-316  agosto-settembre 1972  (tradotto
in collaborazione con Zbigniew Chotchowski)
Norwid, Cyprian k.   “Il pianoforte di Chopin”  Roma, Ragionamenti, n.183 aprile 1989
Pomianowski, Jerzy   “Guida alla moderna letteratura polacca, con annessa
antologia di poeti polacchi contemporanei” Roma, Bulzoni
1973  (traduzione di 62 poesie di poeti diversi)
Poświatowska, Halina  “50 poesie scelte”, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, 2014
Statuti, Paolo    “Viaggio sulla cima della notte: racconti polacchi dal 1945 a oggi”  Roma, Editori Riuniti, 1988  (questo lavoro è stato molto apprezzato da Herling-Grudzinski. Nell’antologia sono presenti
55 autori con un totale di 55 racconti)
Stryjkowski, Julian    “Austeria”  Roma, edizioni e/o  1984  (tradotto in collaborazione con  Aleksandra Kurczab)
Wojtyszko, Maciej    “Bromba e gli altri  e la saga dei Claptuni”  Effelle di Marino Fabbri   Roma 1986

Przygotowane do druku: K.I. Gałczyński   20 poesie, Edizioni Joker

  1. Kamieńska 50 poesie, Edizioni Joker
  2. Świrszczyńska 41 posie, Edizioni Joker

Dużo wierszy umieściłem w moim blogu musashop.wordpress.com

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CINQUE POESIE di Andrzej Mandalian (1926) “Lamento per San Giorgio”, “La gattara”, “Elogio dell’incoerenza” “Tempo scaduto” Presentazione e traduzione di Paolo Statuti

 

Patrick Caulfield  (1936-2005)

Patrick Caulfield (1936-2005)

Andrzej Mandalian, poeta, prosatore, sceneggiatore cinematografico polacco, nacque a Shangai il 6 dicembre 1926. La madre polacca e il padre armeno erano membri del Komintern (Internazionale Comunista). Nel periodo delle grandi purghe staliniane il padre venne fucilato nel 1939 e la madre fu imprigionata. Sarà rimessa in libertà soltanto alla fine della II guerra mondiale. Mandalian iniziò gli studi di medicina a Mosca e, tornato in Polonia nel 1947, li portò a termine a Varsavia nel 1951. Con Tadeusz Borowski, Wiktor Woroszylski e Tadeusz Konwicki faceva parte del gruppo dei “brufolosi”, così chiamati ironicamente a causa della loro giovane età. Essi erano convinti fautori del realismo socialista ed elogiavano il regime politico polacco. Già in URSS aveva scritto i suoi primi versi. In quel periodo la sua prima lingua era l’armeno, che in seguito dimenticherà quasi del tutto, la seconda era il russo e la terza il polacco. Dopo la morte di Stalin trovò nel rapporto Chruščov il nome di chi aveva ucciso il padre. “Mi soffia negli occhi un vento nero” – scrisse nella sua “Autocritica” del 1956. Inoltre nel 1955 era stato pubblicato il famoso “Poema per gli adulti” di Adam Ważyk (v. il poema nella mia traduzione in musashop.wordpress.com) – un’aspra critica dello stalinismo imperante in Polonia in quegli anni, pietra miliare nella cosiddetta letteratura del disgelo. Come molti altri, anche Mandalian ebbe il suo ravvedimento politico e passò all’opposizione. Ma da quel momento tacque a lungo come poeta, dedicandosi alla traduzione della poesia armena e soprattutto russa (Gumiljov, Mandel’štam, Brodskij, Okudžava, Evtušenko). Scrisse anche alcune sceneggiature cinematografiche, tra le quali quella per il film “La dama di picche”, per la regia di Janusz Morgenstein e Jerzy Domaradzki.

Grazie alle insistenze degli amici tornò alla poesia, “a fatica e senza troppa convinzione” – come egli affermò – , pubblicando nel 1976 la raccolta “Paesaggio con cometa” e nel 1981 “Esorcismi”. Nel 1976 firmò la protesta contro le modifiche restrittive della costituzione e cominciò a collaborare con la stampa clandestina. Dopo un altro ventennio di silenzio e dopo la morte nel 2000 dell’amata consorte Joanna, slavista, saggista e professoressa di scienze filologiche, Mandalian pubblicò un volume di commoventi versi dal titolo “Brandello di sudario”. Il ciclo “Campana a morto” è un colloquio lirico con la defunta, profondamente personale, riflessivo, sussurrato. Il poeta parla della sua situazione esistenziale, della vita, e soprattutto della scomparsa della persona più cara.

Nel 1985 uscirono i racconti lirici brevi “Non sia mai” e nel 1993 la raccolta di racconti autobiografici “L’orchestra rossa”, la cui azione si svolge durante la II guerra mondiale, e descrive la difficile odissea verso lo spirito polacco, vissuta dal figlio di entusiasti e al tempo stesso vittime della rivoluzione comunista. Il critico letterario Ryszard Matuszewski afferma che questo quadro rappresentato attraverso la storia della realtà sovietica, è disegnato con una vena umoristica demistificatrice alla maniera gogoliana.

L’ultima raccolta di versi di Mandalian s’intitola “Il poema della partenza” (2007). E’ un reportage poetico finemente costruito nello scenario della Stazione Centrale di Varsavia, una metafora del nostro viaggio terreno. Incontriamo con il poeta gli emarginati della città: senzatetto, mendicanti, ubriachi di ogni tipo, la donna della latrina, la prostituta della stazione, la vecchia che si prende cura dei gatti… Dice la scrittrice Joanna Szczęsna: “… è come scendere nei vari cerchi dell’inferno dantesco, come una meditazione sulla Passione del Signore… La grandezza di questo poema è in ciò che costituisce il mistero della vera poesia, che tocca le corde dell’anima, che avvicina a ciò che non si può definire e che non si lascia definire, che rende familiare l’ineluttabile.”

                                                                                                (Paolo Statuti)

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Andrzej Mandalian

Lamento per san Giorgio

San Giorgio non esiste Non è morto
Né trafitto dalla lancia né con la lancia in mano
Né vincitore né morto da prode Non sulla sella
Né gettato di sella Non fu
Sottoposto a dura prova dai pagani
Né venduto né condannato al martirio
Né immerso nel piombo nella pece nell’immondizia
San Giorgio non è mai esistito
San Giorgio non fu san Giorgio
Le deposizioni di testimoni degni di fede
Non permettono di stabilire l’identità
Si parla di subdole icone
Di leggenda fraintesa L’armatura non era un’armatura
Il cavallo non era un cavallo le gesta non erano gesta
La vergine presente al fatto è scomparsa senza tracce
L’occhio della provvidenza ammicca anziché rispondere
E non servono più le tavole dipinte
Le tele stillanti oro la pietra rozzamente scolpita
San Giorgio non esiste
Il canone della virtù cavalleresca fu creato
In circostanze sospette
Secondo alcuni da un paio di zingari
che vagabondavano con la luna e con la favola eterna
Secondo altri in una locanda da frati questuanti
Con la mani vuote certo ma col boccale pieno
A servizio di qualche impostore vagabondo
La Chiesa accolse la notizia con la dovuta riserva
Ma il popolo la prese subito per buona
Il drago affollò le terre il cavaliere levò la lancia
Per difendere le caste fanciulle e i dolci neonati
Adesso è tutto un abbaglio una sembianza illusoria
Ben presto si saprà che il drago non sputava fuoco
Né sferzava con la coda E’ vero diamine
Il mondo non si compone più di quattro elementi
Il mondo finisce
S’adegua all’occhio ingannatore
Che scorge solo il multiforme anziché l’unità
Nessuno bada più alla liturgia ambrosiana
Nulla più vale la parola di papa Gelasio
San Giorgio è stato abolito
Tutto in regola
Nessuno più cavalcherà nei campi con la bianca armatura
Con la rossa croce
Nessuno più si mostrerà alle schiere presso Gerusalemme
Nulla rimarrà della leggenda nulla resterà delle gesta
Ma che accadrà della fanciulla
Fino a quando deve mantenersi casta
Che accadrà dei neonati
Fino a quando si riuscirà a tacere
In verità vi chiedo
Chi ucciderà il drago
Noi mansueti e poveri di spirito
Che facciamo fiduciosi la pace umili misericordiosi
Sempre puri di cuore Noi che soffriamo
Noi che piangiamo che abbiamo fame e sete
Noi la cui salvezza è tutta in questa frase
La realtà è menzognera e la vita fallace
Strappandoci a brandelli gli abiti da lutto noi gridiamo
San Giorgio non esiste
Guidaci san Giorgio!

(1972)

Andrzej Mandalian

Andrzej Mandalian

La gattara

La gattara
ha il viso come nelle tele fiamminghe,
caparbio.
La bocca chiusa come una lampo,
solo dagli occhi di tanto in tanto
irradia un chiarore di latta.
I gatti sono nei sotterranei,
uno con l’orecchio lacerato,
un altro con la cicatrice negli occhi
(segno dei tornei
per la preda del tunnel).
Da un marciapiede all’altro.
I gatti sono riccamente colorati,
rossicci e striati,
sporchi a festa,
screziati come per la domenica.
La polizia è tollerante,
sa che è stata perdonata loro ogni illegalità
da quando hanno preso i sentieri dei giusti.
La gattara
ha il viso di una suora,
i colori: nero e bianco.
Dagli occhi irradia il suo chiarore celeste.
Nella borsa di plastica ha gli avanzi
per quelli che frequentano gli abissi della stazione,
per quello comprato nel sacco,
per quello che si nasconde dietro il recinto,
e per quello che mostra la coda.
La polizia chiude un occhio:
– Forse in ogni canale hanno già superato il test di utilità.
La gattara non risponde.
Sicura dell’inutilità del mondo intero,
cammina nella valle dell’ombra, ma non la teme,
va per la sua strada,
chiede qualcosa per i gatti.
– Come si strofinano a lei – sorride un poliziotto.
Lei si sbaglia, capo, non si strofinano affatto a lei,
ma è lei che si strofina a loro.
Dagli occhi irradia il ricordo del rogo,
il fuoco e il chiarore.
Ancora sente l’odore di bruciato,
in gola la puzza del pelo annerito,
in bocca il sapore della cenere.
Sia che chieda qualcosa per i gatti,
o qualcosa per se stessa –
grida per avere amore.

* * *

Dov’è ciò che non è e non è mai stato?
Dov’è ciò che è
e che sempre sarà?
La vita se n’è andata con la nebbia – come fumo della pipa,
il sogno è cessato come la luna di chissà quale quarto,
sul verde prato come nella favola dell’infanzia
tra i cari amici i cani la lepre hanno sbranato (*).
Dov’è ciò che non è e non è mai stato?
Là, dov’è ciò che è
e che sempre sarà.

(*) Favoletta in versi di Ignacy Krasicki (1735-1801), in cui gli amici animali si rifiutano di proteggere la lepre (N.d.T.)

Elogio dell’incoerenza

– Eppure in questo deve esserci un senso! –
si lamenta con passione uno da dietro un pilastro.
La sua voce ha un unico tono,
un’ottava più alta dello sfondo della stazione,
solo un lieve affanno deforma le finali delle frasi.
– Niente succede senza un motivo qualsiasi,
ma non c’è nessuna causa – si rammarica da dietro il pilastro.
La sua faccia contratta in un cammeo
sarebbe priva di espressione,
se non fosse quel tratto nel fossile:
le labbra tremanti.
– Ma che diavolo dice? – chiede uno tra la folla.
– Quando non c’è nessuna causa,
non c’è un rapporto di causa-effetto! – chiarisce da dietro il pilastro.
– Treno espresso… da… a… – si soffoca rauco l’altoparlante.
– La trascendenza non la spieghi a parole…
In noi è umano solo l’inconoscibile – prosegue quello.
– E’ del tutto sbronzo – commenta uno tra la folla.
– La vita è bella,
ma in noi c’è tanta umanità,
quanta incoerenza –
coprendo il fragore del treno, si sporge dal pilastro.
– Porca puttana, ma è pazzo! Fermalo! – grida uno tra la folla.
Ma l’uomo è più svelto, è più deciso
delle ruote che girano…
– Era ubriaco fradicio – dice uno tra la folla.

Tempo scaduto

– Partenza, tempo scaduto – buffoneggia un ubriaco
scimmiottando il ferroviere,
mentre quello diligente
fischia sul predellino del vagone.
E hai appena chiesto quanto tempo ci è rimasto…
Tanto quanto ne hai impiegato nella dura lotta col finestrino.
Non supereremo questa fragile
lucente barriera del suono,
da cui tra poco spariranno le nostre ombre tremanti.
Non scambieremo parole di addio,
condannati al balbettio dei gesti,
al muto movimento delle labbra indocili,
dalle quali ormai nessuno leggerà
alcun messaggio.
Ciò che c’era da dire,
non verrà detto.
O misero linguaggio del corpo!
In fin dei conti niente di grave:
accettazione dell’assenza,
separazione dei sensi.
Ci è successo di separarci…
In fin dei conti è solo il silenzio
nelle cornette sollevate in fretta
quando squillano i telefoni di notte.
E anche la disperata corsa cieca sul marciapiede
dietro il battito che muore
e l’immergersi nell’oscurità
delle luci che a poco a poco si spengono.
– Devo andare da mia madre, non ho i soldi per il biglietto –
mi balbetta un ubriaco tra i binari.
Tiro fuori dalla tasca qualche banconota sgualcita.

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DODICI POESIE di Ewa Lipska (1945) traduzione e Commento di Paolo Statuti, con un Commento improprio di Giorgio Linguaglossa

Ewa Lipska

Ewa Lipska

 Ewa Lipska poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia l’8 ottobre 1945. Comincia a scrivere versi già negli anni del liceo. Debutta come poetessa nel 1961, pubblicando sul quotidiano Gazeta Krakowska la poesie Krakowska noc (Notte cracoviana), Smutek (Tristezza) e Van Gogh. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Cracovia. La poetessa ricorda così questo periodo di studi: “All’Accademia ho seguito i corsi dei professori Adam Marczyński e Jonasz Stern, artisti eccellenti e affascinanti interlocutori, ma non sopportavo l’odore dei colori a olio e della trementina. Mi interessava di più la storia dell’arte. Inoltre sapevo che con l’aiuto delle parole potevo dire qualcosa di più che dipingendo i quadri. Ma gli anni dell’Accademia mi hanno insegnato come si “legge” un quadro, e spesso mi piace utilizzare queste letture pittoriche. Dal 1970 al 1980 lavora presso la prestigiosa casa editrice  Wydawnictwo Literackie, dove cura le collane di poesia, continuando la sua attività creativa. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto molti prestigiosi premi nazionali e internazionali per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in quasi 40 lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: “Ja” (Io, 2004), “Pogłos” (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e “Droga pani Schubert…” (Cara signora Schubert…, 2012). Ha scritto inoltre diversi testi poetici di canzoni di successo.

Per il suo anno di nascita e per quello in cui uscì il suo primo volume  “Wiersze” (Poesie, 1967), Ewa Lipska, che è indubbiamente una delle più importanti poetesse polacche contemporanee,  appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937).

Ewa Lipska

Ewa Lipska

La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante.

La sua poesia bella, ironica, inquietante è il frutto di una sofisticata intelligenza, talvolta rovente, malinconica, ma sempre umana. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive: “La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska)”.

Ed ecco cosa scrive il prof. Włodzimierz Wójcik,  storico della letteratura, critico letterario e saggista: “Il mondo dell’immaginazione poetica di Ewa Lipska è straordinariamente ricco – esso attira e affascina. Sembra essere compreso tra la vita reale e la sfera del sublime. Con un’ala tocca la terra, le città, i villaggi, la vita di tutti i giorni con le sue difficoltà, le sofferenze del corpo e dell’anima e con il suo grigiore; con l’altra è unito a ciò che è angelico, sognato, desiderato… Il mondo reale e il mondo dell’immaginazione poetica  creano una autentica armonia”.

Per concludere vorrei riportare alcune domande e risposte tratte da una interessante intervista con la poetessa, realizzata tempo fa dal poeta, prosatore e traduttore letterario dalla lingua italiana Jarosław Mikołajewski.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Scrivere è una gioia?

   Ripeto spesso che scrivere è il più importante aneddoto della mia vita. Ma non parlerei di “gioia”, perché il processo creativo è difficile e a volte anche ingrato. Una piacevole occupazione è quella di prendere delle note, di scrivere degli schizzi. E’ un po’ come toccare le corde di un violino. Ma poi bisogna comporre la melodia o l’intero concerto.

Qual è la più grande gioia del poeta?

   Le poesie che diventano care al lettore, gli incontri con la gioventù. Mi rallegrano anche le lettere che ricevo dai giovani amanti della mia “gioiosa creazione”.

Come agisce la poesia?

   È una questione individuale. Dipende dal lettore stesso e dalla sua preparazione intellettuale, dalla cultura letteraria, dalla sua immaginazione. A volte apprezziamo un autore, ma non lo amiamo. Ci saranno sempre quelli che preferiscono il pesce e quelli che invece sono vegetariani. A volte riusciamo a gustare la letteratura, la pittura, la musica. “Non riesco a trovare alcuna differenza tra la musica e le lacrime” scrisse Fredrich Nietzsche, e in ciò risiede di sicuro questo segreto. Il segreto del gustare. Ritrovo questa disposizione spirituale nelle sale da concerto. Similmente è con l’amore. Sappiamo che c’è, ma non riusciamo a definirlo. Per fortuna ciò non è necessario. Sappiamo soltanto che ci crescono le ali e che ci solleviamo nell’aria. Il poeta cerca due, tre, qualche parola per descrivere le emozioni, il caos e l’armonia.

E qual è la cosa più importante?

   La cosa più importante è il senso della vita. È la consapevolezza di riuscire a realizzare qualcosa dei nostri sogni. Ciascuno di noi può inventare una lampadina ed essere un Edison. E forse l’amore, che è al di sopra di tutto.

Ewa Lipska cop

Commento improprio di Giorgio Linguaglossa

Quando ci accingiamo ad entrare dentro la poesia di Ewa Lipska ci accorgiamo che non abbiamo in tasca la chiave da far girare in quella serratura. Sono versi che sembrano minimalisti ma che in realtà sono ultronei, sfiorano il truismo per slanciarsi subito dopo nell’iperuranio dell’assoluto e dell’assolutorio; versi che fanno del contraddittorio e del principio di non contraddizione i perni attorno cui ruotano tutte le metafore e le fraseologie, dove il contraddittorio viene adottato per dimostrare la falsità del principio di non contraddizione e del principio di ragione sufficiente, poiché la terra e la storia degli uomini vengono rivisitate con l’ausilio dell’ossimoro e della tautologia, mediante frasi sentenziose e assertorie appunto per rimarcare e sottolineare la profondissima non assertoricità del reale, ove il tutto assertorio si capovolge e diventa il tutto interlocutorio derisorio. Per la Lipska, l’assurdo e il derisorio sono il reddito di cittadinanza del reale, della storia e degli uomini che la abitano. Gli uomini sono i titolari di questo reddito di cittadinanza a scadenza fissa, un po’ come i titoli di stato, con delle differenze che vanno dai titoli trimestrali e quelli decennali e ventennali che beneficiano di un tasso più alto e che valgono, fin che valgono, fin quando lo stato non dichiara default. La storia ha senso proprio perché non ha un significato e perché rischia sempre di finire nel default. Qui sta l’elemento del comico e del derisorio di questa poesia, che essa si presenta nelle vesti del sardonico e del comico mentre che ci intrattiene con l’insulso e l’assoluto, con il falso e il similoro.
A mio avviso la chiave per entrare dentro la poesia di Ewa Lipska sta in questi versi:

cerchiamo nervosamente
il certificato di garanzia
che mantiene la parola.

Il problema è, appunto, che non c’è alcun certificato di garanzia per la parola se non la parola stessa, cioè, quanto di più effimero e transeunte ci possa essere nel creato. Appena pronunciata la parola passa, invecchia e scompare. E allora, quali parole pronunciare? La risposta credo sia semplice: Non pronunciare nessuna parola, oppure, pronunciare la tautologia o la filiazione delle fraseologie l’una dall’altra:

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.
E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.
E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.
Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

Ma forse il problema non è soltanto nelle Parole. Da questo angolo visuale il problema rimarrebbe insoluto e insolubile; il problema potrebbe essere visto anche da un altro angolo visuale… da un altro universo…

da Ewa, Lipska 20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014

L’esame

L’esame per il posto di re
andò a meraviglia.
Si presentarono alcuni re
e un apprendista re.
Fu scelto re un certo re
che doveva essere re.
Ottenne punti extra per le origini
l’educazione spartana
e per il sorriso
che prese tutti alla gola.
In storia rivelò
notevoli capacità di sorvolare.
La lingua obbligatoria
risultò la sua madrelingua.
Quando toccò il tema dell’arte
avvinse il cuore della commissione.
Uno dei membri della commissione
avvinse un po’ troppo forte.

quello era davvero un re.
Il presidente della commissione
corse a chiamare il popolo
per consegnarlo solennemente
al re.
Il popolo
era rilegato
in pelle.

.
A due voci

– Non sarò più tua moglie.
– Non sarò più tuo marito.
– I bambini non capiranno cos’è accaduto.
– Bisogna mandarli al cinema.
– I segugi dei miei pensieri hanno fiutato
la separazione.
– Una grossa cicatrice dopo questo amore
resterà.
– Lo seppelliremo visto che è giunto
così insensato.
– Le sentinelle dei ricordi metteremo
presso la bara.
– Quanto si può tenere un cadavere
in casa?
– Quanto si può tenere un cadavere
nel cuore?
– Faremo brevi discorsi.
– Gli augureremo ogni bene.
– Affinché non ritorni.
– Forse ancora una volta…
– Non ci troverà in casa. Andiamo in tintoria.
– Troppo incauti siamo stati con noi stessi.
Prima dell’alluvione fuggivamo verso il fiume.
– Prima della siccità fuggivamo verso il sole.
Eternamente stanchi abusavamo della farmacia.
– Coprivamo le orecchie quando l’orologio ci minacciava
sonando l’allarme sonando l’allarme.
– Ci separavamo per ulteriori incontri
su una funivia. Fissando il baratro
sceglievamo l’amore che ci occorreva.
– Eravamo atterriti dalla profondità del destino.
– Soli come il deserto che non spera più nel cielo.
– E soltanto del nostro amore ancora
la camicetta di seta. Del nostro amore
il pettine.
– E le labbra
che impediscono l’accesso alla parola.
– La sera fa già fresco.
Prendiamo i cappotti dei bambini.
– E andiamogli incontro.
Il cinema è lontano.

Il giorno dei Vivi

Nel giorno dei Vivi
i morti giungono alle loro tombe
– accendono le luci al neon
e piantano i crisantemi delle antenne
sui tetti dei multipiani sepolcri
a riscaldamento centralizzato.
Poi
scendono con gli ascensori
verso il quotidiano lavoro:
la morte.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Mia sorella

Mia sorella ancora non sa
che il mondo è condannato all’atlante.
E l’atlante è un enorme piatto eternamente affamato.
E’ un giornale di paesi-modelli ritagliati. A volte fuori moda.
Che all’improvviso tutto è chiaro quando si esce dal cinema.
Che le idee aderiscono perfettamente ai manichini.
Che non c’è morte che serva di esempio.
Che la morte è soltanto di natura.
Che volendo guardare il cielo bisogna
portarlo prima alla censura.
Che il più alto sapere è nella biblioteca dello spazio.
Che l’amore è amore. E l’amore è un giardino.
Che in questo giardino bisogna sfuggire l’autunno.
Che in un giardino non si può sfuggire l’autunno.
Che nessuno impedirà più la divisione delle cellule.
Che la vita è finita quando comincia.
Che Isolda è vecchia. Soffre di reumatismi.
Che la storia è una grande pattumiera.
Serve a far sparire le date e a spaventare i bambini.
Che quando la notte per un attimo gli occhi ci adombra
si risvegliano in noi gli uccelli gridando: Terra! Terra!
E allora scopriamo un nuovo continente: l’Uomo
che sulle palpebre la calda mano ci posa…
Ma mia sorella sa già
Che A come Ada.

*

Non mi ha salvata l’alluvione
benché giacessi già sul fondo.
Non mi ha salvata l‘incendio
benché bruciassi per molti anni.
Non mi hanno salvata le disgrazie
benché mi investissero treni e automobili.
Non mi hanno salvata gli aerei
che sono esplosi con me nell’aria.
Si sono abbattute su di me
le mura di grandi città.
Non mi hanno salvata i funghi velenosi
né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione.
Non mi ha salvata la fine del mondo
perché non ne ha avuto il tempo.
Nulla mi ha salvata.
VIVO.

Certificato di garanzia

La nostra macchina da matrimonio
si è inceppata all’improvviso.
E benché continuiamo
a pelare i pomodori
a tagliare sottilmente l’aglio
a infarcire la serata
di parole sul sesso
e a mangiare ricordo
dopo ricordo
cerchiamo nervosamente
il certificato di garanzia
che mantiene la parola.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Nessuno

Sono d’accordo su questo paesaggio
che non esiste.
Mio padre regge nella mano il violino.
I bambini leccano il suono.
La corrente d’aria
investe i petali delle rose.
Poi la guerra. Ci perdiamo di vista.
A frasi intere si celano le parole.
La stanza vuota
parcheggiata nell’oscurità
dell’edificio.
Prego lasciare un biglietto
dice nessuno.

Natura morta

La natura morta comincia a guastarsi.
Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta
di Chardin Courbet Cézanne
si leva un odore nauseante.
La tela perde la vista.
Nel bicchiere una pietra di vino.
Insopportabile il nero.
Profetiche visioni
dei dittatori della moda:
si approssima l’epoca dei lampi.
Piante terrestri anfibi e mammiferi
soffierà via il corno.
Il tempo accadrà sempre più raramente.
Sarà sempre più breve. Sempre di meno.
Dunque togli dalla borsetta il nostro amore.
E affrettati. Un brandello di oltremare
annuncia che faremo in tempo a ridere.

Amore

L’amore è un indovino.
Prevede se stesso te e me.
E’ del popolo eletto
e usa una lingua
ad alta tensione.
Nella Biblioteca Nazionale
macchia perfino
i libri poco letti.
In una valanga di cori
scopre un’eco
di euforia e di morte.
E quando ti raggiungerà
cerca di essere in casa.
O qualcosa del genere.
Pur di incontrarvi.

Sogno

Il sogno mi dava quindici possibilità.
Tre vie d’uscita da una situazione alquanto difficile.
In una di esse bisognava usare la chiave
che tenevo in mano.
Nel sogno proiettavano un film sulla fine del mondo.
Nessuno dei presenti in sala ha chiesto: e dopo?
Le poesie scritte nel sogno erano molto buone.
Quelle non scritte affatto – non erano peggiori.
Il tempo era come doveva essere.
Bisognava con tutto questo andare verso la veglia.
Mi ha sorpassata un gruppo di atleti
che correvano oltre il tempo.
Una vecchietta ha preso un sonnifero
ed è tornata indietro.
La veglia è sopraggiunta inattesa.
Le ho comunicato soltanto il dolore alla testa
posata male sul bianco cuscino.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Forse

Forse ancora mi resterà
sbiadita come inutile verso
una fotografia. L’ultima separazione
il cielo con la pioggia svolgerà su tamburi.
E il giorno verrà il giorno verrà il giorno verrà
nel tuo grigio stinto vestito
nella fotografia così piccola così concisa
che è possibile stringere in una mano.
E più non so più non so più non so
se tu eri o sei o sarai
forse guardi e di rimpianto è il grigiore
forse soltanto con noncuranza gioisci
forse pensi che la vecchiaia già vecchiaia
adesso da me con impeto si affretti.
Tu ti sei fermata e aspetti. Io sono in cammino.
Tu negli occhi aperti ti sei fermata.
Ed io guardare non posso non posso.
Perciò guardo mortalmente ostinata.


Vetri

Che pena guardare quei vetri oblunghi.
Donne assonnate si tolgono il trucco dal volto.
E accanto cupi passano i viaggiatori.
Dietro di loro c‘è il paesaggio. La truppa marcia.
Nel paesaggio ci sono i tavoli. Sui tavoli c’è il vino.
A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il sorriso.
E nel sorriso c’è la tristezza. E tutto è come al cinema
in quei vetri oblunghi. Nella ragazza c’è il sorriso.

Fa pena guardare. Donne assonnate.
Nelle donne c’è l’amore. Nell’amore c’è la fine.
E poi ci sono solo vetri oblunghi
e la tristezza. Viaggiatori. Nell’amore c’è la fine.

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.
E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.
E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.
Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

Che pena guardare. La truppa marcia.
Nel soldato c’è la pallottola. E nella pallottola c’è la morte.
E nella morte c’è tutto e nulla c’è nella morte.
E nel sorriso c’è la tristezza. Nell’amore c’è la fine.

A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il cuore.
E nel cuore c’è un soldato. Nel soldato c’è la pallottola.
E piange la ragazza. Passano i viaggiatori.
La fresca notte si specchia nei vetri oblunghi. Continua a leggere

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia polacca

POESIE di Alfredo De Palchi da Sessioni con l’analista (1948-1966) e da Paradigm, (Chelsea Editions, 2013) con uno scritto di Luigi Fontanella un Dialogo tra Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa e un Commento finale di Giorgio Linguaglossa

hopkins Autoritratto

hopkins Autoritratto

 Da uno scritto di Luigi Fontanella:

«Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi

 Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010). Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

alfredo de palchi in Italia, 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Nessuna certezza
dalla spiritualità arcaica del mare––
gesticolo le braccia al cielo che affonda
sbilanciato nei verdi avvallamenti
mutazione cosciente
vescica rovesciata metamorfosi
per un abisso d’alghe e pesci,
non mi differenzio––sono
l’escrescenza che si lavora in questa
epoca
e dovunque bocche di pesci
aguzze su altri pesci
il mare un vasto cratere
e fissi al remoto I pesci graffiti
non guizzano dove sradicato
il gabbiano è l’unica dimensione
conscia
dell’inarrivabile bagliore.

(primi anni del 1960)

Alfredo De Palchi 2011

Alfredo De Palchi 2011 foto di Mariangela Rasi

da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies

6

dicono
— i comandamenti — ma quali,
se gutturale la fiamma che ammonisce
aggrava i litigiosi che li smentiscono, se maligna
s’incarna in un’altra voce
che istruisce dalla montagna.
Conosco io, non te meritevole, quei comandamenti —
solo veri.
Dimentico la pena lacerante, non l’odio
di cui la ragione mi svergogna per voi tutti.
Io neppure so più amare,
solo so bruciarvi con i miei anni
di punizione e questa
domenica del patire parolaio / ancora i vostri rami
d’ulivo sono l’infetta infiammazione, torce di numerosi
Getzemani dove popolazioni sono triturate
dagli Eichmann e da milioni che si lavano le mani.

Non una parola
(la si sente tardi)
solo mani rapaci che usurpano quelle
mani inchiodate all’avvento mistificatore,
mistificato, torpore,
fiaba della resurrezione.
È domenica delle palme —

da Sessioni con l’analista

4

strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi

“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . ..
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione
“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,

capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion…
(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)

di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii. . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:

“sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”

— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

10

freddo — la neve blocca il poco traffico
a Vercelli
e si esce la notte (1951)

— non vuole farsi vedere con me —
temendo il giudizio del paese
“la reputazione, sai. . . “

— a me non importa —
la mia reputazione fa il giro
e la curiosità . . . le spiego l’entomologia
l’amore degli insetti
“gli insetti maschi
acchiappano le femmine riluttanti
mettendo in moto speciali furbizie”
— la curiosità —
s’informa mentre si cammina nella neve
dei viali della stazione:
“grilli e cavallette sono inclini alla musica
le farfalle s’appoggiano
ai profumi e le mosche di maggio
aromatizzano la seduzione con la danza”

succede . . .
andiamo al cavalcavia, oltre i giardini:
ora, d’accordo,
amo la ragazza ma
“la sanno meglio i maschi delle malacchidi
(minuscoli scarafaggi dei tropici)

— non ch’io sia scarafaggio, però . . . —
che adescano le femmine con un nettare
piccante / per allentare poi le loro inibizioni
le iniettano di frode un afrodisiaco”

— succede qualcosa di simile —

in piedi, sotto il cavalcavia:
“perché l’hai fatto”
piange pulendosi con la neve.
La pulisco
— d’accordo, non ho complessi di colpa —
ma non più m’interessano le vergini
“perché”
quel sangue pulito infiamma la neve — e lei piange
“perché l’hai fatto, la mamma . . . “

(pensi che la segretaria
cosce lunghe incrociate sotto il tavolo,
da .. . finché)… la mamma —

16

(dopo) — che mi porta —
l’inquietudine neurotica
incastonata nell’incertezza
è uno stormo implacabile, un cancro: ora
(fuggire)

alla frontiera
“documenti” chiede il finanziere
“non sei in regola,”
sono “guarda bene,
ne hai un pacco” timbrati dalla questura

libertà che persegue
(sul treno, terza classe, di notte
una coppia mi persegue

con occhi glutinosi)
glutine umana

sfoglia, legge “ah”
e timbra documenti passaporto
“comportati bene” chiude il pacco
“fai presto carogna” penso
— il gatto mi piange sulle spalle —
ma è bello fuggire
con una valigia di poeti scorpioni
le loro menzogne in buona cera
sotto il sedile
— me li porto dovunque —
per rassicurarmi delle menzogne abbaglianti:
astrazione
eccetto i miei anni: il contatto
la glutine umana —

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011foto di Mariangela Rasi

Appunto di Giorgio Linguaglossa (da lombradelleparole.wordpress.com)

13 dicembre 2014 alle 9:59 Modifica

caro Alfredo De Palchi,

il fatto che […] è la riprova che la sua poesia segue il filo del significante, è una poesia dipendente dal “gioco” dei significanti. Un concetto di poiesis che abbiamo conosciuto nel corso del tardo Novecento, e che forse (mi permetto) ha nuociuto alquanto alla poesia italiana perché ha introdotto l’equivoco pensiero che non si potesse fabbricare in Italia poesia adulta che non fosse stata sperimentale. Cosa voglio dire? Dico semplicemente che la poesia di […] è confezionata in consonanza con le concezioni tardo novecentesche post-sperimentali basate sull’autonomia della catena del significante il cui capostipite più evoluto, abile e influente è stato indubbiamente Andrea Zanzotto con La Beltà del 1968. Questa la genealogia. E andava detto. Anzi, va ogni giorno ripetuto.

Una cosa appare chiara a chi abbia orecchie per intendere: che la poesia del presente e del futuro non passa più (se mai c’è passata) attraverso l’autonomizzazione della catena del significante e che bisogna andarsela a cercare altrove. E qualcosa c’è stato nella poesia italiana degli ultimi tre quattro decenni che si è mosso in questa direzione, ci sono state delle opposizioni, non è vero che il pensiero maggioritario (nelle Accademie e nelle Università) non sia stato contrastato, sono tanti i poeti di valore che hanno posto un alt e un altolà a questa deriva concettuale (e in tal senso anche la poesia di Magrelli ha avuto un lato positivo, non lo nego, anche se poi ha introdotto un elemento di deterioramento ancora forse più grave: una scrittura poetica fatta di secondarietà; ma questo è già un altro discorso). Quello che volevo sottolineare è che è finita da lunghi lustri in Italia la poesia del significante (per fortuna) e che attardarsi su quella impostazione di fondo comporta restare periferici, marginali, e comporta continuare a fare una poesia di stanca derivazione epigonica.

E veniamo al testo che hai postato datato anni ’60. È un testo, come può vedere chiunque sappia leggere una poesia, che non si basa sulla catena del significante ma che va per altra strada: va per intensificazione e slittamento di immagini e di parole immagini. Voglio dire questo: che la tua poesia già allora (Anni Sessanta) era già fuori moda, non si accodava alla concezione maggioritaria basata sui giochi del significante e sulla autonomizzazione del significante ma deviava, in modo consapevole, verso una poesia fitta di intensificazioni e di accelerazioni tra le parole e le immagini. Non mi meraviglia quindi che la tua poesia sia stata non compresa in Italia. Il fatto è che non poteva essere compresa per via di quella griglia concettuale (e anche di altro, ma qui soprassediamo) che tendeva a rivalutare altre impostazioni, da quella tardo sperimentale a quella che prediligeva una poesia degli oggetti, alla poesia presuntivamente vista come impegno o civile…

alfredo de palchi

alfredo de palchi

  Risposta di Alfredo De Palchi (da lombradelleparole.wordpress.com)

 Alfredo de Palchi

15 dicembre 2014 alle 4:35 Modifica

 Caro Giorgio Linguaglossa,

benché esca dalla camera da letto alle sei del mattino ed rientri verso la mezzanotte, il mio tempo di fare tante cose è rallentato, eppure trascorre molto in fretta. Così arrivo ormai sempre in ritardo anche a commentare.

Apprezzo il tuo intervento esplicativo. Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro. E perché, durante gli anni 1950 e 1960, la mania della scelta ideologica fece suicidare un poeta che conobbi, apprezzai , e pubblicai; si uccise perché il partito comunista gli rifiutò la tessera. Tutti gli scribacchini di quel periodo capirono che per fare carriera bisognava avere la tessera “fascista” della sinistra. Immagina se io, tipo disintegrato dovunque, mi sforzo a firmare una tessera politico-sociale quando non ho mai pensato di appartenere a gruppi letterari, clubs, nemmeno al Pen Club (chiarisco: non quello italiano) di New York che più volte mi invitò.

La mia poesia non ha un unico stile, in essa si trovano scritture diverse tra le quali c’è l’unica d’avvero avanguardia Sessioni con l’analista, 1964–1966 (1967), e altri lavori. Le mie intuizioni e scoperte le praticavo scrivendole, non da chiacchierone alla P.P. Pasolini e compagni che di psicologia ne davano notizia di loro stessi senza creare nulla. Chiacchiere. Sessioni con l’analista non si impose perché gli addetti ai lavori non intendevano riconoscere sopra la loro la mia importanza; e in maggioranza i recensori, che non capirono il linguaggio, su vari giornali beffeggiarono quella importanza. Silvio Ramat, onesto ma confuso sullo stile e sulla materia, pubblicò su La Nazione e su La Fiera Letteraria recensioni non positive. Con Ramat che non conoscevo di persona ed io diventammo amici, e si convertì alla mia poesia circa quarant’anni dopo; con Marco Forti, positivo, c’era stima reciproca; voglio dire che nonostante i sberleffi idioti di recensori chiusi nello scatolame accademico più declassato, io non perdetti sonno e voce, non disperai, mi comportai con indifferenza.
Voglio ricordare che alcuni mesi fa su “L’ombra della parola” un tuo magnifico articolo che illustrava uno o due testi delle Sessioni con l’analista. Nessuno ci fece caso, i principali motivi sono: 1) non piace stile forma e soggetto a chi apprezza testi, e poetizza allo stesso modo, che io definisco invecchiati alla nascita; 2) non piace a chi non comprende nulla di stile forma e soggetto.

Non ho problemi con le poetiche, apprezzo ogni stile forma e soggetto se l’insieme è poesia, non scialba preziosa costruzione. I problemi attuali sono ancora quelli di coloro che invasero buona parte desertica della seconda metà del Novecento e oltre, proseguendo ad ammalare la scrittura delle recenti generazioni di imitatori. Ovviamente ci sarà nel sottobosco affollato un migliore, un nuovo, un poeta-artista. Un pittore, si dice anche dell’imbianchino, ma un creatore si dice dell’artista-pittore. Artiste-peintre. Vive la différance!

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Commento di Giorgio Linguaglossa

Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

*

Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.

(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

alfredo de palchi new york di notte

New York di notte

Pretendi di essere il falco
che sale in volo
sussurrando storielle infertili
e vertiginosamente precipiti sulla preda
che corre alla tana del campo
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
a brandelli dalla tua preda
io
che ti gioca le infinite porte del cielo
ti eutanasia nella vanità
di barbiere da sottosuolo dove
a bocca colma della tua schiuma
ti strozzi finalmente sgraziato

non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere
gli specchi del vuoto fanno finzione
volando a pipistrello sei dannato
a rasoiarti la gola
a cercare il tuo nulla dentro il nulla

(27 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Che tu sia sotto
in mucillagine di vermi
o sopra
a vorticare nel vuoto
rimani il bifolco delle due versioni
nell’oscurità totale

finalità troppo benigna per te
Nerone Cella seviziatore
rapinatore violentatore

le visioni di troppa madre di cristo
nella tua cella
non ti salvano con i tuoi compagni di tortura
subito spersi nell’Adige
il mio augurio di qualsiasi morte a voi
che vi dànno tra la terra e il primo spazio
mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle
mi spellate

la tua vergogna è alla luce dove
ti conto l’eternità di tempeste drammi nuvole
dove qui sta l’inferno
e tu flagellato alla gogna
designato a seviziare rapinare
e violentare carnalmente i tuoi compagni
di tortura e di malaffare.

(28 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013 )

*

Di poca intelligenza per la commedia dell’arte
Fabrizio Rinaldi
sei la maschera che sa di sapere
solo per sentito dire da chi
ha sentito dire

e scrivi sul giornale dei piccoli L’Arena
le lettere di presunti crimini
avvenuti prima della tua nascita geniale
tra bovari con mani di sputi
nella Legnago
riserva d’ignoranza e bassure

da pagliaccio di paese
ti arroghi di soffiare menzogne
ed io rispondo che ho sentito dire
da chi ha sentito dire che sei
culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo
e non ti diffondo sul giornale
ma in questo lascito

per te i beni augurabili da San Vito
sono i cancelli aperti alla notte
per cercare sulle strade deserte
e tra gli alberi della “pista”
l’invano.

(29 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

E voi bifolchi
eroici del ritorno
sul barcone dell’Adige
mostratevi sleali
e vili quali siete
con il numero ai polsi di soldati
prigionieri
non di civili dai campi di sterminio

siete sleali per tradimento
vili per la fuga verso
battaglie di mulini a vento
spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi
che vi scorreggiano in faccia

ora non scapate
da San Vito dov’è obbligo
narrarvi le stesse menzogne
tra compagni
rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo
criminali comuni all’infinito
e finalmente
spiegare la verità dei ponti antichi
lasciati saltare nell’Adige di Verona

forse anche i defunti avrebbero orecchie.

(30 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

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DIECI POESIE INEDITE di Jarosław Mikołajewski tradotte da Paolo Statuti “Il prato”, “il Museo degli oggetti antichi”, “La valle”, “Domanda”, “Un poeta molto vecchio”, “Requiem a santa cecilia”, “Sconforto”, “Il mondo salvato”, “Ai magri”, “Il cerchio di gesso” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Strilli Leone

 Nato nel 1960 a Varsavia, Jarosław Mikołajewski è uno dei poeti polacchi contemporanei più apprezzati. È anche saggista, autore di libri per bambini, pubblicista e ha grandi meriti come traduttore in polacco di Dante, Petrarca, Michelangelo, Leopardi, Montale, Ungaretti, Luzi, Penna, Pavese, Pasolini, Levi e altri ancora. Dalla letteratura italiana per l’infanzia ha tradotto “Pinocchio” di Carlo Collodi e alcune opere di Gianni Rodari. Tra il 1991 e il 2014 ha pubblicato 11 raccolte di poesie. I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha ricevuto prestigiosi premi letterari, tra cui nel 2014 la medaglia d’argento per meriti speciali al servizio della Cultura “Gloria Artis”, e in Italia: Stella della Solidarietà Italiana, Premio Nazionale per la Traduzione, Premio della Città di Roma, Premio Flaiano.

Negli anni 1983-1998 è stato docente della cattedra di Lingua e Letteratura Italiana all’Università di Varsavia, e negli anni 2006-2012 direttore dell’Istituto Polacco a Roma. Da questo soggiorno romano è nata, tra l’altro, la raccolta di saggi “La Romana Commedia” (2011) – un peculiare diario-guida attraverso la città di Roma. La chiave per conoscere i segreti della Città Eterna è la “Divina Commedia” di Dante. Essa detta il ritmo delle scoperte di Jarosław Mikołajewski e determina la struttura di questo libro, che si compone di 100 canti suddivisi nelle tre cantiche: “Inferno”,”Purgatorio” e “Paradiso”. A proposito di questo libro la poetessa Julia Harwig scrive: “Si può ritrovare la Roma contemporanea grazie alla “Divina Commedia” di Dante? Jarosław Mikołajewski ha rischiato e ha scritto per noi un racconto di questa stupenda città, costruendolo intorno a frammenti dei “Canti” di Dante. Un’idea ardita, ma che non desta obiezioni. A Roma, presente e passato convivono e coesistono…Un carattere particolare è dato al libro dal personale rapporto dell’autore con questa città”.

Come romano trasferito in Polonia  posso capire perfettamente i sentimenti di questo poeta polacco trasferito a Roma, dove per sei anni, nella tradizione di altri illustri poeti polacchi, quali ad esempio Jarosław Iwaszkiewicz e Jerzy Hordyński, ha “visto e sentito” l’essenza di questa città. A Roma ci sono i classici luoghi per turisti: Colosseo, Fontana di Trevi, Bocca della Verità, ecc., e ci sono i “quadri” preferiti dai poeti: le Ville, i pini, i vecchi vicoli, le fontanelle, i tramonti, ecc., ed essi attingono le parole da ciò che “vedono e sentono”. Jarosław Mikołajewski ha lasciato le sue personali e durature impronte sul suolo di Roma, e se dovesse tornarci, sono sicuro che  le varie anime della Città lo riconoscerebbero subito e lo accoglierebbero come un vecchio amico.

Di proposito non voglio esprimere giudizi critici (anche perché non sono un critico letterario) sulla creazione di questo poeta, e nemmeno citare la critica ufficiale, ma ho tradotto 10 sue poesie – ciò significa che mi piacciono – e invito i lettori di questo mio post a manifestare i loro pareri, che sono certo saranno accolti con interesse da Jarosław Mikołajewski.

  (Paolo Statuti, da Un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti)

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 Commento  impolitico di Giorgio Linguaglossa

Innanzitutto, una considerazione: Jarosław Mikołajewski è un poeta che proviene da un altro magistero poetico, da una tradizione che ha visto un grande numero di poeti di eccellente livello, è inoltre un poeta dotato di una potente carica immaginativa. Senza ombra di dubbio, l’immaginazione guida la composizione della sua poesia, lo si può notare anche in queste poesie splendidamente rese in italiano da Paolo Statuti. Come in una scala sospesa tra il reale e l’immaginario, il grottesco e il surrazionale, Mikołajewski costruisce le sue poesie partendo da dati riconoscibili per attingere nello svolgimento a dimensioni assurde o illogiche. L’illogismo fa parte integrante della sua poetica. A un lettore italiano, abituato ad una poesia dallo svolgimento lineare, questa procedura può suonare esotica o esogena ma in realtà essa risponde a un preciso progetto conoscitivo e compositivo; c’è sempre il non-luogo che compare in mezzo ai suoi luoghi, c’è sempre la negazione che segue o precede una affermazione; c’è in Mikołajewski una esuberante ricchezza di denotativi, di sospensioni, di interrogativi, di dubitativi; ci sono associazioni per contatto e una profusione di metonimie. Tutta questa intelaiatura conferisce indubbiamente alla poesia di Mikołajewski una straordinaria densità e motilità, una mobilità interna che influisce sulla semantica rendendola ora incerta ora rafforzandola nei punti di svolta sintattici e semantici. È una poesia che cerca la densità sia nella intensificazione che nell’estensione, impresa affatto scontata, anzi, indubbiamente complessa e rara da trovare nella poesia contemporanea, tutti elementi che la contraddistinguono in modo esclusivo.

Jarosław Mikołajewski

Jarosław Mikołajewski: Le mie figlie si nutrono come giovani mucche

Il prato

Le mie figlie si nutrono come giovani mucche
di erba
che cresce nei verdi pascoli

di latte
che ai pietosi animali
si stilla dalle turgide mammelle

le mie figlie bevono tisane
di erbe
dai nomi latini
e le loro guance profumano
come serici gusci ripieni di lavanda

le mie figlie sono tutte yoghurt
pane e sole

masticano i dolci petali
dei fiori di campo
e i loro capelli profumano
di rugiadosa violacciocca

Vivo accanto a loro come un maiale

come un cane crepato
sulla riva di un fiume cristallino

e che ancora non è diventato erba

né rugiada
che vola verso il sole

né l’acqua di questo fiume

O terra carnivora
inghiottisci finalmente la mia carne

o fa’ fiorire il mio corpo
imbalsama la mia pelle

Strilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assentiStrilli Král A tratti un libro riposto

Il museo degli oggetti antichi

le risorse sono limitate
un carro per il cielo
trascinato dall’ombra d’un cavallo

uccelli
onde

qualche caro oggetto di uso quotidiano
una bambola o la moglie
un pettine

e ancora una guida
un corvo
un raggio

un’ombra sulla bacheca

La valle

scendo in valle giulia con giulia

e con noi scendono signori e signore
e con loro i cani senza guinzaglio

anche mia moglie scende
e le due figlie maggiori

e ciascuna nel portamonete ha le foto
delle due nonne
di un nonno
e dell’altro nonno
che un tempo scese la valle con noi

quando scendiamo
si sentono gli elefanti
e i pavoni

forse è una tigre che domanda a giulia

forse

a valle giulia
al sole s’inchina l’erba
e all’erba il sole

e il sole nell’erba è come un leone
che a morsi si fa strada nella terra

e il tempo è strano per questa stagione invernale
anche qui a Roma dove a gennaio al massimo
sono dieci gradi e invece guardate che roba

è così caldo in quest’ora serale
che dalle case escono
e scendono con noi in valle giulia
sirene di città e sirene marine
anemoni di mare e fiori
egiziani
venditori
massaggiatori e preti

parrucchiere con le gambe di vario tipo
quelle più in alto lunghe
quelle più in basso corte

e ognuno bagna i piedi nella propria ombra
che scorre nell’erba come un ruscello

.
Domanda

sono venuto al mondo
dove non c’ero né io né te
ma le mani applaudivano già le tue creazioni

i tuoi fiori si strofinavano a questi piedi
i chicchi nelle mie mani formavano manciate

ah come eravamo inutili

io non ero una creazione
ma i miei sensi
lo erano e come

io non c’ero
ma tu eri già il creatore

c’era un motivo per cambiare ciò

 

Strilli Tranströmer 1Strilli Talia la somiglianza è un addio

(Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa)

Un poeta molto vecchio

Andavo a incontrare
un poeta molto vecchio

tanto vecchio che se fosse stato una quercia
avrebbe avuto mille anni

Avrebbe ricordato i fratelli
che diventarono canoe

avrebbe ricordato
che poteva diventare un armadio

o san Sebastiano
nell’altare centrale o di lato

che la sua parte inferiore
poteva diventare il ceppo per la scure
(oggi al museo delle torture medioevali)
e la parte superiore
centinaia di migliaia di fiammiferi
(oggi nella cenere dei falò sui pendii dei Bieszczady)

Andavo da un poeta molto vecchio

dovevo notarlo ora nel suo nervosismo
ora nella sua assenza

prima ancora di scorgerlo
doveva sparire
prima ancora di orientarmi
doveva gettarmi dalle scale

dovevo essere come un pescatore
che abbraccia una sirena

Andavo da un poeta
che poteva essere una quercia
lungo un parco di alberi
che erano come maschere

guardavo in una cavità
senza scoiattoli e senza uccelli

toccavo la corteccia come palpebre
incollate da rivoli di resina fossile

Andavo da un poeta molto vecchio
tra gli alberi come tra armature
con le visiere calate

Quando entrai nella casa del poeta molto vecchio
le scale che potevano essere lui
se fosse stato una quercia
avrebbero scricchiolato sorde e morte

Quando entrai nell’appartamento
mi accolse in piedi

nelle dita millenarie strinse il bastone che
poteva essere lui stesso se fosse stato una quercia

e pesando nella mano il destino della quercia che
poteva essere lui stesso ma non lo era
fece ciò che nessuna quercia farebbe mai
se avesse mille o duemila anni

fece un passo
docile alla sua volontà di quercia
e le foglie stormirono
giovani come la terra

Jarosław Mikołajewski

Jarosław Mikołajewski: passeggiano i colombi e non ci vedono
sfrecciano le barche e ci evitano

 

Requiem a santa cecilia

forse così si entra in paradiso

come l’orchestra nel concerto

ricevono gli applausi ma come preambolo
parlano di politica
di malattie
senza timore

non invidiano
non vanno in collera

il primo violino
non ce l’ha col solista

loro accordano gli strumenti
noi la tosse

così si vede dall’alto
dai posti scadenti dietro la scena
dove abbiamo davanti la faccia del direttore

.
Sconforto

voglio smarrire la bestia
che dorme sotto di me

come un pallone
mi sollevo
nella volta celeste
ma la bestia è con me
come l’ombra sotto la nube

ma la bestia è
con me
come l’ombra
sotto la nube

sotto il sole che si è levato
sul cielo sereno

la mia bestia
si stacca più scaltra di me

mi si alza dal letto
e fa ciò che non so
finché non la troverò
sulle lenzuola comuni

di ossicini
messi
nelle ali rosicate

.
Il mondo salvato

segno sulla mappa dove siamo stati
non siamo stati quasi in nessun luogo

guarda quanto mondo non morirà con noi

e sai una cosa?
risparmieremo sempre più posto

facciamo domenica
il piano di risparmio

qui non saremo più

e ancora là più vicino
là più lontano

guarda quanto mondo
ci sopravvivrà

Foto in Subway

Ai magri

che per tutta la messa
in chiesa come un soldato

curati
inamidati

che nei treni
vi sistemate
come scapolare

come toletta
portatile con specchietto

sospirate nell’intenzione
dei corpi nel grasso sofferenti
ai quali l’anima non entra nella pelle

il ventre nella camicia
e nei pantaloni

i cui piedi bruciano
come se la fiamma li lambisse già

.
Il cerchio di gesso

passeggiano i colombi e non ci vedono
sfrecciano le barche e ci evitano

come se non ci fossimo
sulle piazze e nell’acqua?

che gente siamo che non ci siamo?

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POESIE SCELTE di Czesław Miłosz (1911-2004)  (1911 – 2004) tradotte da Paolo Statuti “Campo de Fiori” e altre del primo periodo SUL TEMA POESIE SUI LUOGHI con un commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

 Czesław Miłosz  (Szetejne 1911 – Cracovia 2004)figlio di Aleksander Miłosz, ingegnere civile e di Weronica (nata Kuna), figlio di un fratello del bisnonno del grande poeta lituano di lingua francese  Oscar Vladislas de Lubicz Milosz.

A Šeteniai, oggi in Lituania, ma allora facente parte dell’Impero russo, Czesław Miłosz frequenta le scuole superiori e l’università a Vilnius, oggi in Lituania ma allora in Polonia. Cofondatore del gruppo letterario “Zagary”, fa il suo debutto nel 1930 con due volumi di poesia. Lavora per la radio polacca e continua il proprio percorso creativo seguendo con attenzione i fatti che affliggeranno la Polonia, stretta tra le rivendicazioni di Germania e Russia. Passa la maggior parte della guerra a Varsavia lavorando per la stampa underground.

Dopo la guerra, diventa addetto culturale all’ambasciata polacca a Washington e successivamente a Parigi, nel 1951 Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al clima culturale imposto da un’élite politica e intellettuale formatasi a Mosca, non esita a manifestare il proprio scetticismo sulle prospettive del socialismo reale. In seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in Francia , per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A contatto con il clima culturale fervente di Berkeley, in California, dove insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica dedicandosi parallelamente all’attività di traduzione, cruciale per la diffusione della poesia polacca in ambito anglo-americano e successivamente europeo.

Nel 1980  gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura con la motivazione:

(EN)
« Who with uncompromising clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe conflicts. »
(IT)
« A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti. »
(Motivazione del premio Nobel per la letteratura)
Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Nello stesso anno, gli operai di Solidarnosc trascrivono brani di una sua poesia ai piedi del monumento dedicato ai lavoratori uccisi dalla polizia di partito durante gli scioperi di contestazione.

In ambito saggistico, Czesław Miłosz contribuisce al dibattito sulla possibilità di intraprendere il lavoro culturale in quanto azione politica e sociale, allineandosi alle tematiche dell’ambiente intellettuale francese dei primi anni cinquanta e fornendone, tuttavia, una chiave di lettura distinta e originale. Ne La mente prigioniera (1953), testo che unisce la riflessione saggistica a tecniche romanzesche, Czesław Miłosz affronta il complesso rapporto tra letteratura e società nell’ambito delle democrazie popolari satelliti del mondo sovietico. Demistificando esplicitamente ogni idealizzazione del socialismo reale, evoca e analizza tanto l’adesione quanto la dissociazione degli intellettuali al sistema (il Murti-Bing) consolidatosi in Polonia nel dopoguerra. In aperto contrasto con la lettura ideologizzata dell’intellettuale dissidente diffusasi nell’ambiente europeo filo-comunista, Czesław Miłosz ritrae la condizione divisa dell’individuo all’interno di un regime totalitario, attribuendone la libertà di pensiero e parola ad una pratica eretica (il ketman) basata sulla dissimulazione, sulla perfetta comprensione e conversione dei meccanismi censorii in cui vive. Fonte di aspre polemiche fin dall’uscita, il saggio-romanzo offre una prospettiva critica inedita sulla libertà umana, e una chiave di lettura preziosa al registro antifrastico che domina la produzione del poeta, come mostra il mondo evocato nel noto componimento Fanciullo d’Europa.

In un dialogo sulla letteratura con Josif Brodskij, realizzato nel 1989 e pubblicato nel 2001  sulla rivista Zeszyty Literackie, parlando degli scrittori che l’hanno influenzato, Czesław Miłosz scrive:

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

« E poi l’influenza, una forte influenza del mio cugino francese Oscar Milosz. Aveva scritto in maniera stupefacente il suo primo trattato metafisico nel 1916, conoscendo lo sviluppo delle teorie di Einstein (…) se non sbaglio pubblicate nella sua prima versione proprio in quello stesso anno. Lui credeva che la teoria della relatività aprisse le porte di una nuova era di armonia tra la scienza, la religione e l’arte. Per il semplice motivo che il mondo newtoniano è per principio contrario all’immaginazione, all’arte, alla religione. Io perciò seguii quella traccia e constatai con stupore che erano idee prossime a William Blake, che, anche se ovviamente non poteva sapere nulla della relatività, aveva fatto nascere le proprie teorie nella fisica. E anche Goethe, in una sorta di ribellione istintiva contro la via intrapresa dalla scienza ottocentesca (…) Una questione fondamentale è che per Newton lo spazio era stabile e obbiettivo, invece per la fisica contemporanea e anche per Oscar Milosz, una cosa simile non può esistere perché tutto è un unicum di moto, materia, tempo e spazio.»
Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Quando ancora l’Europa era divisa da una pesante cortina di ferro e due civiltà si fronteggiavano con immensi eserciti ed armi nucleari, in un’epoca, che oggi ci sembra lontana, in cui l’intelligentsia europea, tranne pochissime eccezioni, non intravedeva tutto l’orrore e la irrazionalità della dittatura staliniana, Czeslaw Milosz seppe riconoscere per tempo la scaturigine profonda del Male ed abbandonò la sua patria per l’esilio prima in Europa e poi negli Stati Uniti. Si dirà che l’esilio è in fondo il destino ultimo dell’uomo del Novecento e che il problema politico dell’Occidente è piuttosto la mancanza di autenticità che non l’esilio politico. Ma non è così, per Milosz l’abbandono della sua Polonia non significò l’abbandono della patria, né tanto meno l’abbandono della sua madre lingua, anzi, fu durante gli anni dell’esilio che Milosz scrisse le poesie forse più belle del Novecento. Nato in una terra di confine, la Lituania, il poeta polacco si trovò costretto a combattere una battaglia che lo sovrastava per grandezza e per entità delle masse umane chiamate allo scontro.

Brodskij ha scritto che ci sono dei momenti in cui una civiltà ha bisogno dei suoi uomini della periferia per ritrovare se stessa, ha bisogno degli uomini del limen, e Milosz fu uno di questi, fu un uomo impegnato lungo una lontana frontiera, convinto che la Storia e il destino richiedevano da lui un atto inequivocabile e pienamente riconoscibile che fornisse un esempio ed un monito. Già questa doppia appartenenza a due popoli della frontiera dovette fortificare in lui la fiducia che ciò che confligge con l’umanesimo della civiltà europea non può che perire e dissolversi. Come il suo grande maestro, il russo Osip Mandel’stam (nato in Polonia e vissuto in Russia), del quale Milosz si dichiarò più volte allievo, il poeta polacco fu il vero tutore della civiltà europea proprio nel momento in cui, dopo la follia nazista, un altro pericolo incombeva all’orizzonte: il dispotismo comunista. Attraverso Mandel’stam, Milosz ritorna a Dante, costruisce il suo verso e la sua metrica sul calco dell’endecasillabo, convinto che il linguaggio della poesia europea sia il vero depositario di quella civiltà, il suo sperimentare le forme della Tradizione è un tutt’uno con l’esigenza di una espressione universale, che parli a tutte le genti dell’Europa, in una lingua traducibile presso tutte le lingue europee. Convinto che la poesia europea debba divenire la casa comune di tutte le intelligenze libere dell’Europa, Milosz scrive in forme armoniose e cristalline dove la barbarie non potrà mai penetrare, né l’intolleranza o la sopraffazione. E’ avvenuto così che le poesie di Milosz siano – per noi europei della frontiera a Sud di Eurolandia – state scritte anche per noi e ci riguardano da vicino per il contributo agli errori della storia europea che anche l’Italia ha dato.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Forse soltanto la nazione polacca ha richiesto tanto alla poesia: essere all’altezza del suo Tempo, reggere l’urto della Storia, essere una bandiera di libertà e di indipendenza. Per un dispetto della storia, tutto un popolo riconobbe i propri poeti, insieme a Milosz, la Szymborska, Herbert ed altre grandi personalità che hanno saputo rappresentare il proprio tempo.
Milosz è stato un europeo integrale, convinto che anche la Russia fosse parte integrante dello spirito europeo e parte essenziale della storia della civiltà europea, egli è stato anche il rappresentante di quello spirito cristiano che nelle sue tre principali confessioni (cattolica, protestante, ortodossa) ha costituito lo zoccolo ideologico del vecchio continente. Ma Milosz è un poeta cristiano, non cattolico, e la sua poesia sembra indirizzarsi, oggi più che mai, anche ai popoli del Tigri e dell’Eufrate, l’antico popolo dei Parti, per richiamarli al comune destino di speranza e di com-unione e di pace universale.

(le poesie sono tratte da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti)

Campo de' Fiori Roma

Campo de’ Fiori Roma

Campo de fiori

A Roma in Campo de Fiori
Ceste di olive e limoni,
Selciato con spruzzi di vino
E con schegge di fiori.
Frutti rosati di mare
Ammassati sui banchi,
Bracciate d’uva nera
Sulle pesche vellutate.
Proprio su questa piazza
Fu arso Giordano Bruno,
Il boia accese il rogo
Fra il popolino curioso.
E appena il fuoco si spense,
La folla tornò a bere,
Ceste di olive e limoni
Sulle teste dei venditori.
Rammentai Campo de Fiori
A Varsavia presso la giostra,
Una chiara sera d’aprile,
Al suono d’una gaia orchestra.
La musica soffocava
Gli spari dal ghetto,
Volavano le coppie
Alte nel cielo terso.
A tratti il vento alle fiamme
Strappava neri aquiloni,
E la gente ridendo
La fuliggine afferrava.
Gonfiava le gonne alle ragazze
Quel vento dalle case in fiamme,
Scherzavano liete le folle
Nella domenica festosa.
Si dirà che la morale
E’ che a Varsavia o a Roma
La gente si diverte, ama
Incurante dei martiri sul rogo.
Oppure si vedrà la morale
Nella fugacità delle cose
Umane, nell’oblio che nasce
Prima ancora che il fuoco cessi.
Io invece pensavo allora
A quelli che muoiono soli,
Pensavo che quando Giordano
Salì su quel patibolo,
Non trovò nella lingua umana
Nemmeno una parola
Per dire addio all’umanità,
L’umanità che restava.
Già correvano a ubriacarsi,
A smerciare bianche asterie,
Ceste di olive e limoni
Recavan nel gaio brusìo.
E lui era già distante,
quasi fossero secoli,
La sua scomparsa nel fuoco
Essi attesero appena.
Di questi morenti, soli,
Già obliati dal mondo,
Anche la lingua ci è estranea,
Come lingua d’antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
E allora dopo tanti anni
Nel nuovo Campo de Fiori
Un poeta accenderà la rivolta.

(1943, Varsavia)

Il senso

– Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte, dietro l’uccello, il monte e il tramonto del sole.
Letture che richiamano il vero significato.
Ciò che non corrispondeva, corrisponderà.
Ciò che era incomprensibile, sarà compreso.
Ma se non c’è la fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un indizio
Soltanto un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
Si susseguono non curandosi del senso
E non c’è niente sulla terra, tranne questa terra?
Se così fosse, resterebbe tuttavia
La parola una volta destata da effimere labbra,
Che corre e corre, messo instancabile,
Verso campi interstellari, nel mulinello delle galassie

E protesta, chiama, grida.

Czeslaw Milosz called Marek Hlasko “the idol of Poland's young generation in 1956

Czeslaw Milosz called Marek Hlasko “the idol of Poland’s young generation in 1956

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salda notte…

Salda notte. Non sfiorerà il tuo volto
né fuoco di labbra, né ombra furtiva.
Nelle tenebre del sogno t’ascolto
e splendi così, come giorno che arriva.

Tu sei la notte. E amandoti la mia mente
ha previsto il destino e i futuri lutti.
Fuggi il volgo, e la gloria verrà rasente
e annegherà la musica nei flutti.

Forti son gli ostili, e il mondo è troppo stretto
e tu, o amata, fedele gli resti.
Di sambuco sull’acqua un rametto,
spinto dal vento da ignote foreste.

C’è tanto senno, e non femminea clemenza
nelle tue fragili mani, o Peritura.
Sulla fronte lo splendore della scienza:
luna nascosta, non ancora matura.

(1934)

.

Elegia

Non con l’eterno oblio, non con la memoria o il chiasso
di città, non con la nebbia dei monti il mondo ti darà pace.
Finché dopo anni di lotte una croce oppure un masso,
ove un uccello come sui resti di Troia canterà fugace.
Amor, cibo, bevande ci seguono lungo la strada,
ma non verso di loro l’acuto sguardo è rivolto.
Le pesanti palpebre brucia la luce spietata
e sommesso il tempo avverte, prima di passar sul corpo.
Gentili animali fedeli, l’effimera gente
invano strappano le mani nell’estasi rapprese.
E da terra una voce si leva: ombra, nostro erede,
ti avremmo forse chiamato sì a lungo per niente?

(1935, Parigi)

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Frammento

Sorella, dammi dell’acqua e perdona se ho peccato,
La tua cornetta abbaglia come le Alpi all’alba,
E sulle sue falde si stendono ombrose vallate,
A destra la terra di Tur, a sinistra Ghilead.
Tu hai occhi ebrei, io sono Slavo, la rabbia
Del mondo caparbio ci ha colpito e sconfitto. Tendi
E con la mia fronte incontra le tue mani lievi,
Ancora dinanzi a me la musica si levi
Dei cani di campagna, dei tintinnanti armenti.
Chiudi la finestra, là fuori Giunoni germane
Saltano nel mio fiume turbando del fondo la quiete,
Ove prima era solo il pescatore e la sua rete
Nel volteggiare intorno di rondoni e capineri.
Neri, bellici carri le pasture hanno solcato,
Volano i vessilli fiammanti e balena arrossato
Il muro del letto, e vibran sul tavolo i bicchieri.
Non andartene, resta con me. Poiché m’è parso
Un giorno, che il cuore diventasse di sasso
E che tra le lenzuola ormai un altro giacesse,
Pur ferito gravemente, grande e bambinesco,
E una suora di carità con lo sguardo socchiuso
Filasse lunghi fili dalle nubi come da un fuso.

(1935, Parigi)

Czeslaw Milosz call

 

 

 

 

 

 

Il popolo

Il più puro dei popoli quando li giudica il bagliore dei lampi,
E’ spensierato e scaltro nell’ardua quotidianità,
Senza pietà per le vedove e gli orfani, senza pietà per i vecchi,
Ruba di mano a un bimbo una crosta di pane.
Sacrifica la vita per attirar sui nemici l’ira dei cieli
E col pianto degli orfani e delle donne li sconfigge.
Il potere affida a gente con occhi da mercante di gioielli,
Offre onori a gente con l’anima d’un gestore di bordelli.
I suoi migliori figli resteranno sconosciuti,
Appariranno una volta sola per morir sulle barricate.
Le amare lacrime di questo popolo tagliano il canto a metà,
E quando a un tratto il canto tace, si gridano facezie.
Negli angoli delle stanze l’ombra si ferma additando il cuore,
Dietro la finestra ulula un cane a un invisibile pianeta.
Popolo grande e invincibile, popolo beffardo,
Che riconosce la verità senza parlarne.
Bivacca nei mercati, tratta con le burle,
Smercia vecchie maniglie rubate nelle rovine.
Popolo coi berretti gualciti, con tutti i beni in un fagotto,
Che cerca dimore ad occidente e nel meridione.
Non ha città né monumenti, né scultura, né pittura,
Trasmette di bocca in bocca solo la voce e i presagi dei poeti.
L’uomo di questo popolo, chino sulla cuna del figlio,
Ripete parole di speranza, sempre tuttora vane.

(1945, Cracovia)

A Jonathan Swift

A te mi rivolgo, o decano,
E i tuoi buoni consigli imploro.
Per un incontro così strano
Non mi ornerò di alcun decoro.
Vedo l’oceano verdeggiante
Sferzare gli scogli ben saldi,
Sopra dita di spuma bianche
Le isole come smeraldi.
Oltreirlanda il masso amaranto
E cangiante della torbiera,
Nelle case – del gufo il canto
Per l’umile pasto della sera.
Guizza la parrucca d’argento
E dalla penna una mappa scorre
Per l’arte e per l’insegnamento.
Mai stando all’idea che ricorre.
Nella mappa, in ciò ch’è tracciato,
La mia nave non s’è sperduta.
Brobdingnag ho visitato
Senza trascurare Laputa.
Degli Jahu ho visto la gente
Cui la propria merda è diletta,
Nel timor servile vivente
Progenie di spie maledetta.
In fasi affatto ineguali
La mia vita s’è frantumata ,
Nel cuore il sale dei fortunali
Ma ancor non è tutta svotata.
Dell’accecamento misterioso
Sugli occhi non ho messo le bende.
E un franco sdegno furioso
Irraggia il dover che mi attende.
Tu puoi indicarmi, o decano,
Come si crea quel fluido raro,
Come oltre all’inchiostro rimane
Un di più in fondo al calamaro.
Del tuo tempo svelami il volto,
Perché io non faccia una figura oscena
Come fa chi dell’uomo parla molto
E solo in sogno guaisce appena.
Il Principe dei suoi versetti
Si degna di volere adulatori
E piegano i loro culetti
I cortigiani Whigs e Tories.
Il Principe, o decano, sbaglia spesso
Pur se ragione e forza arreca.
Con un soffio dalla gloria verrà messo
Nell’inferno d’una cartoteca.
Il gufo, il tuo tetto scarno,
La notte che sparge la pioggia,
Duran più dei prìncipi di marmo
E d’ogni lusinghevole foggia.
Ancor oggi la tua voce detta:
La cosa umana non è ultimata.
Chi dice che la storia è perfetta
Muoia di morte disarmata.
Coraggio, o figlio. Tu guiderai
La buffa flotta sui mari agitati
E i falli degli stati-formicai
Saran dalle nubi lapidati.
Finché il cielo sarà e l’uomo
Per nuove città prepara uno scalo.
Oltre a questo non c’è perdono.
Cercherò di farlo, o mio decano.

(1947, Washington, D.C.)

 

Tadeusz Różewicz

Tadeusz Różewicz

A Tadeusz Różewicz, Poeta

Concordi nella gioia sono tutti gli attrezzi
Quando il poeta varca il giardino della terra.
Quattrocento fiumi azzurri hanno lavorato
Alla sua nascita e il baco da seta
Ha ordito per lui i suoi lucenti nidi.
L’ala d’una mosca, il muso d’una farfalla
Si son foggiati pensando a lui
E l’alto edificio del lupino
Gli ha schiarato la notte ai margini del campo.
Or dunque gioiscono tutti gli attrezzi
Racchiusi negli scrigni e nelle giare del verde
Aspettando il suo tocco per risonare.
Lode alla parte del mondo che genera un poeta!
La sua fama corre lungo le acque costiere
Ove nelle brume sonnecchiano i gabbiani
E oltre ancora, là dove ondeggiano le navi.
La sua fama corre sotto la luna montana
E addita il poeta dietro il tavolo
Nella gelida stanza, in una città ignota,
Mentre l’orologio della torre suona le ore.
La sua casa è in un ago di pino, nel grido d’un capriolo,
Nello scoppio delle stelle e dentro il palmo umano.
L’orologio non misura i suoi canti. L’eco
Come in una conchiglia l’antica età del mare
Non ammutisce mai. Egli perdura. E possente
E’ il suo sussurro che sorregge gli uomini.
Fortunato il popolo che ha un poeta
E nelle sue fatiche non procede in silenzio.
Soltanto i retori non amano il poeta.
Seduti su scanni di vetro svolgono
Lunghi rotoli, chilometri di generosità.
E intorno rintrona il riso del poeta
E la sua vita che non ha confine.
Sono adirati. Sanno che il loro seggio andrà in frantumi
E là dove sedevano non crescerà
Nemmeno un fuscello. Un cerchio di zolfo bruciato,
Rossa, arida polvere schivata anche dalle formiche.

(1948, Washington D.C.)

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Quando dicevo il vero…

Quando dicevo il vero, sprezzanti risi di ratti giornalistici
Strizzandomi l’occhio cercavano di dirmi: abbiamo capito.
E per anni potei soltanto serbare il disprezzo,
Consapevole che sarà loro l’ultimo trionfo,
Perché hanno avuto a turno ciò che volevano:
A ciascuno la sua razione di nullità.

(1962)

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare con editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesiaBlumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013) Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha curato l’Antologia di poesia contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016) e il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga . Ha fondato la rivista  lombradelleparole.wordpress.com
e-mail: glinguaglossa.@gmail.com

8 commenti

Archiviato in poesia polacca

POESIE di Adam Zagajewski scelte e commentate da Giorgio Linguaglossa, traduzione a cura di Krystyna Jaworska sul tema dell’Isola dell’Utopia – NON SI DA’ TRASCENDENZA SENZA IL QUOTIDIANO 

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ – che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso – εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo”, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

NON SI DA’ TRASCENDENZA SENZA IL QUOTIDIANO

«La luce guarda l’ombra dall’alto». Poesie di Adam Zagajevski commentate

(da Adam Zagajewski  Poesie a cura di Krystyna Jaworska. Adelphi, 2012, p. 227 € 20.00)

Adam Zagajewski nasce a Leopoli, 21 giugno 1945, poeta e saggista polacco, risiede a Parigi dal 1981  al 2002. In seguito di trasferisce a Cracovia, dove insegna letteratura presso la University of Chicago. È noto soprattutto per il poema Try To Praise The Mutilated World, uscito a puntate sul periodico statunitense The New Yorker e divenuto celebre dopo gli attentati dell’11 settembre 2011, e per le sue pubblicazioni sul poeta connazionale, Czesław Miłosz Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. Ha vinto il Neustadt International Prize for Literatur nel 2004; è il secondo polacco, proprio dopo l’amato Miłosz, a vincere il premio conferito dall’università statunitense.

 

Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il metodo di composizione di Zagajevski è ben visibile in questa breve poesia che inizia con la voce dell’io narrante il quale dichiara: «io ancora non ci sono», distico appena preceduto dalla annotazione stenografica e storica: «Anni Trenta». Il prosieguo della composizione è qui: una serie di annotazioni che hanno sembianza di ovvietà, così come ovvi sono gli eventi che accadono: «germoglia l’erba»; «una ragazza mangia un gelato alla fragola»; «qualcuno ascolta Schumann». Apparentemente, tutto è in ordine, il mondo va come dieci o cento anni prima, tutto appare normale, anche la poesia risulta costruita con annotazioni normalissime, sembrano delle fotografie, delle istantanee. Anche se andassimo a strologare su che cosa c’è di speciale in questa poesia dovemmo arrenderci perché lì non c’è proprio nulla di speciale o di eccezionale. Tutta la poesia è appesa a un filo, quell’«io ancora non ci sono», che fa mormorare il poeta «che felicità». La felicità del personaggio parlante è appesa appunto a quel non-esserci, a quel filo sottilissimo, perché subito dopo si scatenerà la più grande mattanza del genere umano che si sia mai vista sulla scena del mondo.

 Anni Trenta

Io ancora non ci sono
Germoglia l’erba
Una ragazza mangia un gelato alla fragola
Qualcuno ascolta Schumann
(il folle Schumann,
smarrito)
Che felicità
Io ancora non ci sono
Sento tutto.

Ha scritto Zagajevski: «Non sono uno storico, ma mi piacerebbe che la letteratura assumesse, consapevolmente e in tutta serietà, il ruolo di una cronaca storica. Non voglio che segua l’esempio degli storici contemporanei, perlopiù pesci freddi che hanno passato la loro vita in archivi polverosi che scrivono una lingua burocratica brutta e inumana, una lingua di legno prosciugata di tutta la poesia, piatta come un pidocchio e grigia come il giornale quotidiano. Vorrei che tornasse a esempi più antichi, chissà, addirittura greci, all’ideale del poeta storico, una persona che ha visto e sperimentato direttamente quel che descrive, oppure ha attinto alla vivente tradizione orale della sua famiglia o della sua tribù, che non teme né il conflitto né i sentimenti, ma ha tuttavia a cuore la ricostruzione scrupolosa della vicenda che narra». (citato in John Lukacs, Democrazia e populismo, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Longanesi, 2006, p. 179)

«Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesie e nei racconti mette quello che non sa». (citato in Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci, Feltrinelli, 2004, p. 138).

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

Non si dà trascendenza senza il quotidiano e non si dà quotidiano senza trascendenza. Questi due aspetti della vita sono complementari e inscindibili nella poesia di Zagajevski. La poesia «diario» di Zagajevski oscilla tra le dimensioni del quotidiano e quella della trascendnza. Il poeta polacco pone il problema di una poesia che non sia soltanto ermeneutica, ovvero, descrizione fenomenica della vita degli oggetti linguistici e non ma anche «cronaca», «diario», estraniazione degli «oggetti» dalla loro configurazione spazio-temporale. Gli «oggetti» prendono vita dalla intenzione simbolico significante della poesia che li fa ri-vivere. Gli «oggetti» sospendono la loro condizione di «nature morte» linguistiche confinate in una zona neutra della significazione e riprendono a vivere una vita significante, una nuova configurazione della significazione. Gli «oggetti» escono dalla loro condizione di sospensione di vita e ritornano nel mondo dei segni significanti e significazionisti. Gli «oggetti» riprendono a vivere. La poesia nasce «dalla vita degli oggetti» (si tratta beninteso sempre e soltanto di oggetti linguistici, che possono vivere soltanto all’interno dei loro vestiti linguistici). Nella poesia che prende spunto dal quadro di Vermeer, «La ragazza con l’orecchino di perla», improvvisamente, la «fanciulla» riprende vita, diventa cosa viva, diventa «luce (che) guarda l’ombra dall’alto»:

Jan Vermeer Ragazza con l'orecchino di perla

Jan Vermeer Ragazza con l’orecchino di perla

La fanciulla di Vermeer

 La fanciulla di Vermeer, ora famosa
mi guarda. La perla mi guarda.
La fanciulla di Vermeer ha labbra
rosse, umide, lucenti.

Fanciulla di Vermeer, perla,
turbante azzurro: tu sei luce,
e io sono fatto d’ombra.
La luce guarda l’ombra dall’alto,
con indulgenza, forse con rimpianto.

Il rapporto soggetto-oggetto, osservante e osservato, è rovesciato; è «la fanciulla di Vermeer» che «guarda» il soggetto poetante («la perla mi guarda»). È un concetto esattamente opposto a quello invalso da un pensiero estetico che pensa l’oggetto linguistico in guisa riflessiva, che contempla la precedenza e la prevalenza del principio soggettivo secondo il quale la poesia nasce «dalla vita del soggetto» secondo un procedimento lineare: di qua il soggetto e di là l’oggetto. L’«ombra» è la condizione del rigor mortis degli «oggetti» e del «soggetto», il loro mutismo significazionista dipende dalla condizione di «ombra» entro la quale sono (siamo) immersi nella vita diurna: «La luce guarda l’ombra dall’alto»; la «luce» è il principio attivo, il principio agente, «l’ombra» è la dimensione del «soggetto» costretto nella dimensione della non-significanza, dell’oscurità. L’oggetto della poesia è il lettore; la poesia diventa un periscopio che guarda il mondo, si pone a disposizione del lettore, si scinde in due versanti: l’autore e il lettore (il soggetto e l’oggetto). Il lettore può e deve vivere all’interno della poesia (in altri termini: l’oggetto può e deve vivere all’interno della poesia). Per Zagajevski i grandi artisti sono gli spiriti costretti nella dimensione della zona d’ombra ma sono i soli che riescono ad uscire da quella zona di neutralità della significazione meramente linguistica per raggiungere la «luce» della significazione simbolica. Questa è la dimensione spirituale nella quale si trovano Franz Schubert e il «pianista», essi sfiorano, toccano una «grande ricchezza» ma sono «poveri», della povertà dell’«ombra», l’unica dimensione che però consente loro di raggiungere la piena significazione del piano simbolico. La «morte» («il grande cacciatore di talenti») è la dimensione attigua a quella dell’«ombra». La poesia di Zagajevski è tutta situata nella dimensione intermedia tra la luce e l’ombra, una sorta di rappresentazione plastica in bianco e nero:

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

Diciassettenne

Franz Schubert, un adolescente
di diciassette anni, scrive la musica
per il lamento di Gretchen, sua coetanea.
Meine Ruh ist hin, mein Hertz ist schwer.
Il grande cacciatore di talenti la morte, subito
gli riserva una benevola attenzione.
Manda inviti, uno dopo l’altro.
Uno. Dopo. L’altro. Schubert domanda
comprensione, non vuole presentarsi
a mani vuote. L’invito non si può declinare.
Quattordici anni dopo si tiene
il suo primo concerto sull’altra sponda.
Perché la limpidezza uccide? Perché la forza acceca?
Meine Ruh ist hin, mein Hertz ist schwer

La morte di un pianista

Mentre gli altri facevano guerre
o negoziavano la pace, oppure giacevano
in scomodi letti di ospedale
o su qualche campo, lui per giorni interi

eseguiva le sonate di Beethoven,
e le sue magre dita, come quelle di un avaro,
toccavano grandi ricchezze
che non erano sue.

Così, le «magre dita» del «pianista» toccano «grandi ricchezze». Alla condizione antinomica di «luce» ed «ombra» viene associata la condizione attigua ma antinomica anch’essa della povertà e della ricchezza. La poesia nasce da questa situazione direi ontica di contraddizione. Ma se «la poesia nasce dalla contraddizione» e «la vita è tradimento» (dizioni di Zagajevski), la poiesis è condannata a restare eternamente in bilico tra «contraddizione» e «tradimento», eternamente ambigua, in mezzo al falso e al vero, in una condizione intermedia tra la significazione e la non-significazione, tra la «luce» e l’«ombra». È questo il suo télos.

L’attimo

Un attimo di chiarezza dura così poco.
L’oscurità resta più a lungo. Vi sono
più oceani che terraferma. Più
ombra che forma.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

«E se Eraclito e Parmenide / avessero ragione contemporaneamente / e due mondi esistessero affiancati / uno tranquillo, l’altro folle»? Il poeta polacco accetta la compresenza di entrambe le dimensioni, quella del divenire e quella della eternità dell’essere; la poiesis abita entrambe le dimensioni, ribalta, sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore, va molto più in là: la sua poesia ci dice che il lettore deve stare all’interno dell’opera, deve provare ad abitarvi, ad abitare in entrambe le dimensioni del divenire e della stasi dell’essere:

Lava

E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle; una freccia
scocca immemore, e l’altra indulgente
lo osserva; lo stesso flutto si frange e non si frange,
gli animali nascono e muoiono nello stesso istante,
le foglie di betulla giocano con il vento e al contempo
si struggono in una crudele fiamma rugginosa.
La lava uccide e serba, il cuore batte e viene colpito,
c’era la guerra, la guerra non c’era,
gli ebrei sono morti, vivono gli ebrei, le città bruciarono,
le città rimangono, l’amore avvizzisce, il bacio è eterno,
le ali dello sparviero devono essere brune,
tu sei sempre con me, anche se non ci siamo più,
le navi affondano, la sabbia canta e le nuvole
vagano come veli nuziali sfilacciati.

Tutto è perduto. Tanto incanto. I colli
reggono cauti lunghi stendardi boscosi,
il muschio sale sul campanile di pietra della chiesa
e con labbra minute timidamente loda il Settentrione.
Al crepuscolo i gelsomini brillano come lampade
folli stordite dalla propria luce.
Nel museo davanti a una tela scura
si stringono pupille feline. Tutto è finito.
I cavalieri galoppano su cavalli neri, il tiranno scrive
una sgrammaticata condanna a morte.
La giovinezza si dissolve nell’arco
di un giorno, i volti delle fanciulle si fanno
medaglioni, la disperazione volge in estasi
e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo
come grappoli d’uva e la bellezza dura, tremula, immota
e Dio c’è e muore, la notte torna a noi
sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

L’opera non abita la coscienza del lettore ma il «mondo», le «cose», gli «oggetti». L’opera abita dentro «la vita degli oggetti». L’opera è un evento che si esprime mediante un linguaggio: quello degli oggetti. Per il poeta polacco, l’opera è al servizio della «tribù», è stata fatta per la «tribù», non ha alcun senso al di fuori della «tribù». Può essere, è vero, tradotta in un’altra lingua per un’altra tribù, ma diventerà significante per quell’altra «tribù» soltanto se ha avuto un significato simbolico per la prima. Il poeta polacco infatti è stato accusato che la sua poesia sia maliziosamente scritta in vista delle traduzioni in altre lingue, che sia agevolmente traducibile. Ecco, siamo arrivati al nocciolo del concetto di una poesia traducibile, che deve seguire e rispettare, anche nel lessico e nella sintassi, l’essenza profonda della lingua naturale. Proprio perché l’opera è istitutrice di un «mondo», in tale «nuovo mondo» il lettore deve provare a vivere nel mezzo delle immagini (degli oggetti) e dei pensieri (degli oggetti). Gli oggetti a loro modo pensano, vivono, e la poesia deve in qualche modo captare «la vita degli oggetti». Le immagini, nella poesia di Zagajevski (come anche in quella di un altro poeta, Tomas Tranströmer), escono dall’«ombra», vengono alla «luce», escono dalla povertà ed attingono la ricchezza, sembrano uscire fuori della pagina, toccare le «cose» stesse, sono talmente tangibili e evidenti che noi ci chiediamo: com’è possibile? Come può avvenire questo?

Parlammo a lungo nella notte, in cucina;
alla morbida luce della lampada a petrolio
gli oggetti, incoraggiati dalla sua delicatezza,
spuntavano dal buio, svelando i propri
nomi: sedia, tavolo, saliera.

Kierkegaard su Hegel

Kierkegaard diceva di Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l’intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e quegli stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un’angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia: Nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

Si ha qui un procedimento inverso a quello della de-mitologizzazione cui ci ha condotto un certo pensiero estetico; qui, al contrario, si verifica una vera e propria mitologizzazione della poesia. La poesia diventa il monumento di se stessa: gli «oggetti» sembrano uscire dal testo per raggiungere il lettore. La poesia è un «prisma» (dizione di Zagajevski) di immagini che dialogano tra di loro e attirano il lettore entro la loro maglia sottile di riverberi e di rifrazioni semantiche (ma la semantica non è analoga alla luce?), ma è un «prisma» tratto dal continuum storico, è un ente prismatico posto nel bel mezzo di una dimensione spazio-temporale: una «prospettiva» (dal latino pro-specere, guardare avanti) e una «aspettativa» (una attesa posta nel tempo storico). Ma il «prisma» è una figura astratta, una figura geometrica composta da una molteplicità di piani, è una figura che riflette in modo sempre diverso la «luce» e i piani di lettura (ottica) del lettore: cambiando il punto di vista del lettore cambia l’intensità della «luce» riflessa dal «prisma», cambia il tipo di lettura ottica. Analogamente, la poesia di Zagajevski non è una poesia «epifanica» ma «epicletica», «non tanto dell’esperire un’illuminazione improvvisa e fugace, quanto dell’esperire un’anticipazione di tale visione, dell’aspirare a una trascendenza che pare attenderci. È quindi una prospettiva escatologica che dà senso all’esistenza e al suo vissuto».* La prospettiva entro cui si cala questo «prisma» si misura con il riferimento a un ordito temporale e la aspettativa si misura entro un ordito di ordine spaziale. Se l’aspettativa è attesa del Tempo (messianico, cronologico, interno, esterno), la prospettiva non si può esplorare se non con riferimento ad un «viaggio» che si muove nel Tempo della Storia degli uomini. Tutti gli uomini della «tribù» sono viaggiatori, conoscono il mondo per mezzo del «viaggio», e il «viaggio» è possibile soltanto nel mondo; la poesia è la «cronistoria» del viaggio di un uomo che racconta qualcosa intorno a degli oggetti linguistici. Dire «viaggio» equivale a dire «esilio». L’uomo si trova già da sempre in esilio, anche a casa propria, anche nella casa del linguaggio, anzi, il suo è un esilio forzato. La lingua gli ripete continuamente l’eterno ritornello: «non avrai altra lingua all’infuori di me».

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

Le immagini della poesia di Zagajevski sono porte che ci portano ad altre porte, sono orizzonti che dischiudono altri orizzonti, sono immagini che ci conducono ad altre immagini in un gioco di specchi senza fine («quando la fiamma della metafora fonde due oggetti finora liberi»); le immagini diventano così sinusoidali, vanno dal tempo allo spazio, e ritornano indietro, dallo spazio al tempo, per poi ricominciare daccapo il loro ciclo vitale, le immagini conservano la traccia dell’apparenza, dell’illusione di uscire fuori dalla dimensione spazio-temporale. È la loro legge di auto conservazione. Sono immagini tratte dalla «storia» degli uomini, il poeta, come noi tutti, è un semplice «cronista» della storia, un modesto cronista che abita il piano della quotidianità della storia individuale e di quella della collettività: «non siamo mai capaci di dimorare stabilmente nella trascendenza… Torniamo sempre alla quotidianità: dopo aver esperito l’epifania, dopo aver scritto una poesia, entriamo in cucina e ci mettiamo a pensare a cosa mangiare per cena».** La trascendenza è l’altra faccia della quotidianità, l’altra faccia di una stessa medaglia. Non si dà trascendenza senza il quotidiano.

(Giorgio Linguaglossa)

* cit. in Dalla vita degli oggetti Postfazione di Krystyna Jaworska p. 222, Adelphi, 2012
** Ibidem

Ricordi

Sfoglia i tuoi ricordi
cuci per loro una coperta di stoffa.
Scosta le tende e cambia l’aria.
Sii per loro cordiale, leggero.
Questi ricordi sono tuoi.
Pensaci mentre nuoti
nel mare dei Sargassi della memoria
e l’erba marina crescendo ti cuce la bocca.
Questi ricordi sono tuoi,
non li dimenticherai fino alla fine.

Mistica per principianti

Il giorno era mite, la luce amica.
Quel tedesco sulla terrazza del caffè
teneva sulle ginocchia un libricino.
Riuscii a leggere il titolo:
Mistica per principianti.
All’improvviso compresi che le rondini
in ricognizione
con striduli richiami
sulle vie di Montepulciano
e i dialoghi sommessi degli intimiditi
viaggiatori dell’Europa Orientale detta Centrale,
e i bianchi aironi fermi – ieri, ier l’altro? –
nelle risaie come tante monache,
e il crepuscolo, lento e sistematico,
che cancellava i profili delle case medievali,
e gli olivi sulle basse colline,
esposti ai venti e agli incendi,
e la testa della Principessa ignota
e le vetrate delle chiese come ali di farfalla
cosparse del polline dei fiori,
e il piccolo usignolo che si esercitava nella recita
accanto all’autostrada,
e i viaggi, tutti i viaggi,
erano soltanto mistica per principianti,
un corso introduttivo, prolegomeni
di un esame rimandato
a più tardi.

R. dicembre

Sorci letterari – dice R. – ecco chi siamo.
Ci incontriamo in coda davanti alle casse dei cinema economici.
Al tramonto, quando negli stagni verdi affondano pesanti soli
di broccato, usciamo dalla biblioteca arricchiti dall’opera di Kafka
– illuminati sorci in giubbotti militari, in cappotti
del potenziale esercito di un despota colto; polizia segreta
di un poeta che forse giungerà al potere in una provincia lontana.
Sorci con borse di studio, domande confidenziali, osservazioni sarcastiche,
topi dal pelo irto, dai baffi ispidi, pungenti.
Ci conoscono le grandi città, l’asfalto rovente, le dame di carità,
non ci hanno mai visto i deserti, l’oceano e la fitta giungla.
Benedettini di un’epoca atea, missionari di una facile disperazione,
siamo forse una forma transitoria in un lungo processo evolutivo,
il cui fine, l’indirizzo e il senso ancor a nessuno furono svelati.
e siamo ripagati con una monetina d’oro, priva di valore: la voluttà
di un attimo, quando la fiamma della metafora fonde due oggetti finora liberi,
quando l’astore scende in picchiata l’esattore si fa il segno della croce.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare con editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha fondato il blog lombradelleparole.wordpress.com
e-mail: glinguaglossa.@gmail.com

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UNA POESIA di Czeslaw Milosz “Orfeo e Euridice” traduzione di Paolo Statuti, con un Commento di Giuseppe Montesano SUL  TEMA DELL’ISOLA DELL’UTOPIA

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginariodi Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Ετοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco ο (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

 *

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz  (Szetejne 1911 – Cracovia 2004) figlio di Aleksander Miłosz, ingegnere civile e di Weronica (nata Kuna), figlio di un fratello del bisnonno del grande poeta lituano di lingua francese  Oscar Vladislas de Lubicz Milosz.

A Šeteniai, oggi in Lituania, ma allora facente parte dell’Impero russo, Czesław Miłosz frequenta le scuole superiori e l’università a Vilnius, oggi in Lituania ma allora in Polonia. Cofondatore del gruppo letterario “Zagary”, fa il suo debutto nel 1930 con due volumi di poesia. Lavora per la radio polacca e continua il proprio percorso creativo seguendo con attenzione i fatti che affliggeranno la Polonia, stretta tra le rivendicazioni di Germania e Russia. Passa la maggior parte della guerra a Varsavia lavorando per la stampa underground.

Dopo la guerra, diventa addetto culturale all’ambasciata polacca a Washington e successivamente a Parigi, nel 1951 Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al clima culturale imposto da un’élite politica e intellettuale formatasi a Mosca, non esita a manifestare il proprio scetticismo sulle prospettive del socialismo reale. In seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in Francia , per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A contatto con il clima culturale fervente di Berkeley, inCalifornia, dove insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica dedicandosi parallelamente all’attività di traduzione, cruciale per la diffusione della poesia polacca in ambito anglo-americano e successivamente europeo.

Nel 1980  gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura con la motivazione:

(EN)
« Who with uncompromising clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe conflicts. »
(IT)
« A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti. »
(Motivazione del premio Nobel per la letteratura)

utopia Illustrazione dalla prima edizione dell'Utopia di Tommaso Moro, pubblicata a Lovanio nel 1516Nello stesso anno, gli operai di Solidarnosc trascrivono brani di una sua poesia ai piedi del monumento dedicato ai lavoratori uccisi dalla polizia di partito durante gli scioperi di contestazione.

In ambito saggistico, Czesław Miłosz contribuisce al dibattito sulla possibilità di intraprendere il lavoro culturale in quanto azione politica e sociale, allineandosi alle tematiche dell’ambiente intellettuale francese dei primi anni cinquanta e fornendone, tuttavia, una chiave di lettura distinta e originale. Ne La mente prigioniera (1953), testo che unisce la riflessione saggistica a tecniche romanzesche, Czesław Miłosz affronta il complesso rapporto tra letteratura e società nell’ambito delle democrazie popolari satelliti del mondo sovietico. Demistificando esplicitamente ogni idealizzazione del socialismo reale, evoca e analizza tanto l’adesione quanto la dissociazione degli intellettuali al sistema (il Murti-Bing) consolidatosi in Polonia nel dopoguerra. In aperto contrasto con la lettura ideologizzata dell’intellettuale dissidente diffusasi nell’ambiente europeo filo-comunista, Czesław Miłosz ritrae la condizione divisa dell’individuo all’interno di un regime totalitario, attribuendone la libertà di pensiero e parola ad una pratica eretica (il ketman) basata sulla dissimulazione, sulla perfetta comprensione e conversione dei meccanismi censorii in cui vive. Fonte di aspre polemiche fin dall’uscita, il saggio-romanzo offre una prospettiva critica inedita sulla libertà umana, e una chiave di lettura preziosa al registro antifrastico che domina la produzione del poeta, come mostra il mondo evocato nel noto componimento Fanciullo d’Europa.

In un dialogo sulla letteratura conJosif Brodskij, realizzato nel 1989 e pubblicato nel 2001  sulla rivista Zeszyty Literackie, parlando degli scrittori che l’hanno influenzato, Czesław Miłosz scrive:

« E poi l’influenza, una forte influenza del mio cugino francese Oscar Milosz. Aveva scritto in maniera stupefacente il suo primo trattato metafisico nel 1916, conoscendo lo sviluppo delle teorie di Einstein (…) se non sbaglio pubblicate nella sua prima versione proprio in quello stesso anno. Lui credeva che la teoria della relatività aprisse le porte di una nuova era di armonia tra la scienza, la religione e l’arte. Per il semplice motivo che il mondo newtoniano è per principio contrario all’immaginazione, all’arte, alla religione. Io perciò seguii quella traccia e constatai con stupore che erano idee prossime a William Blake, che, anche se ovviamente non poteva sapere nulla della relatività, aveva fatto nascere le proprie teorie nella fisica. E anche Goethe, in una sorta di ribellione istintiva contro la via intrapresa dalla scienza ottocentesca (…) Una questione fondamentale è che per Newton lo spazio era stabile e obbiettivo, invece per la fisica contemporanea e anche per Oscar Milosz, una cosa simile non può esistere perché tutto è un unicum di moto, materia, tempo e spazio.»

 

l'isola dell'utopia

l’isola dell’utopia

CZESLAW MILOSZ, POETA DELL’INATTUALITÀ

 (da L’Unità del 15 agosto 2004)

 Sperando nel Caso rivelatore e illuminante in cui credevano gli Antichi, apro di colpo le pagine della mia copia ormai semiconsunta delle Poesie di Czeslaw Milosz, e il libro si schiude su Caduta, una poesia del 1975, che nella versione di Pietro Marchesani recita: “La morte di un uomo è come la caduta d’uno stato potente, / che possedeva eserciti prodi, capi e profeti, / e ricchi porti, e bastimenti su tutti i mari, / e ora a nessuno correrà in aiuto, con nessuno stringerà alleanza, / perché le sue città sono vuote, la popolazione dispersa, / il cardo ha ricoperto la sua terra un tempo doviziosa di messi, / la sua missione dimenticata, perduta la lingua, / dialetto di un paesello lontano su inaccessibili monti”. Ed è subito la sua voce, il tono inconfondibile del Milosz poeta, qual salmodiare asciutto sul filo del canto ma come incidendo con uno stilo acuminato su una tavoletta o su una pietra. Il “dialetto di un paesello lontano” fu il polacco, la lingua in cui al contrario di Nabokov o di Brodskij che in esilio abbandonarono il russo, continuò a scrivere i suoi libri pur vivendo esiliato a Parigi per dieci anni e poi negli Stati Uniti dal 1961 e fino alla morte.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Cos’era esattamente Czeslaw Milosz, un saggista, un acuto politologo, un poeta? Nel 1953 uscì La mente prigioniera, un saggio capitale sulla capacità del totalitarismo sovietico di occupare la mente devastandola con l’uso di una perpetua falsificazione dei concetti, nel 1959 Milosz pubblicò La mia Europa, un racconto-saggio bellissimo dove biografia e saggistica politica, memoria du temps perdu e arte del ritratto si univano in una sorta di libro totale in cui il ricordare diventava una sorta di filo di Arianna intellettuale per scoprire la storia nascosta sotto la Storia; nel 1980, l’anno del premio Nobel, usciva La terra di Ulro, una enigmatica discesa nelle correnti sotterranee della cultura europea da Swedenborg a Blake a Dostoevskij alla Weil e fino al misterioso Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, poeta lituano-polacco ma in lingua francese tradotto anche da Montale, esoterico esageta dell’Apocalisse e per di più zio di Czeslaw. Dove si trovava il vero Milosz, in quale forma di scrittura e di avventura intellettuale? Con una sorprendente capacità di restare fedele a se stesso nel cambiamento, Milosz era perfettamente consapevole di questo suo spirito salamandrino difficilmente catalogabile, e trent’anni dopo aver pubblicato La mente prigioniera scrisse una prefazione: “Il mio libro spiacque praticamente a tutti. Gli ammiratori del comunismo sovietico lo giudicavano insultante, mentre gli anticomunisti sostenevano che mancava di una posizione politica chiaramente definita e sospettavano l’autore di essere ancora, in fondo al cuore, un marxista”.

Czeslaw Milosz called Marek Hlasko “the idol of Poland's young generation in 1956

Czeslaw Milosz called Marek Hlasko “the idol of Poland’s young generation in 1956

In realtà Milosz aveva tracciato con La mente prigioniera un disegno del totalitarismo straordinariamente anti-ideologico, provando a scavare dentro la “mente prigioniera” con una sensibilità sottilissima per i dettagli concreti, e era riuscito a creare uno strumento conoscitivo che non smette di essere attuale: non è forse ancora oggi il “desiderio di sicurezza” a spingere verso un nuovo totalitarismo mediatizzato la mente occidentale? Milosz era riuscito a scavare dentro la rete intricata della menzogna che si compiace di sé senza mai cedere alla tentazione dell’astrazione o a quella della risposta risolutiva: si era mosso nella foresta totalitaria disincantata e arsa dell’inquinamento ideologico con le armi di un poeta, e il suo sismografo corporale non si era ingannato sulle trappole mentali della propria epoca.
Negli anni seguenti Milosz continuò a aggirarsi in quella waste land che con una espressione presa a William Blake aveva chiamato La terra di Ulro, il luogo dove “l’uomo mutilato” della modernità si limita a sopravvivere, e arrivò a una sorta di pessimismo sul presente quasi senza vie di uscita. Contro l’idea scientifica di un mondo disumanizzato perché misurabile e razionalizzabile fin dentro i campi di concentramento, nella Terra di Ulro Milosz cercò di costruire una mappa per evadere dalla modernità, una apologia dell’inattualità, una genealogia per dissidenti assoluti: muovendosi tra Dostoevskij demonologo della società di massa e Blake profeta dell’Immaginazione contro la schiavitù dell’industria.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Milosz provò disperatamente a contrapporre alle lacerazioni e all’anomia provocate dalla cieca tracotanza della tecnica, una dimensione totalmente altra dell’esistenza: la capacità immaginativa, l’arte di vedere il mondo secondo una prospettiva creaturale, uno sguardo capace di ridare significato a una vita spezzata dall’alienazione. Ma questa operazione quasi alchemica di ritrovamento dell’essenza vitale diventata filosofia era destinata al fallimento: solo attraverso la poesia, solo in quel territorio sospeso dove vigono le leggi dell’immaginazione, era possibile il suo sogno di risalire la corrente, di arrivare in un luogo dove le cose potessero essere nominate con il loro nome proprio. Ma per quali vie? Nei versi di Ars poetica Milosz parlò dell’ispirazione con una sorta di splendido ossimoro che affermava negando: “Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente: / sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse, / sbattiamo quindi gli occhi come se fosse balzata fuori una tigre, ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi. Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon, /benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo…”, e mescolando ironia e metafisica concludeva quasi con rassegnazione: “è lecito scrivere versi di rado e controvoglia, /B spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento”. Ma proprio attraverso questo tono “basso” e “colloquiale”, appare improvvisa in Milosz la visitazione demoniaca, la rivelazione di un’altra possibilità: “Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano / provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo. / Mi sembra che da una propensione reciproca così grande / potrebbe finalmente risultare la verità ultima”. Ma la verità ultima è sfuggente, e soprattutto è mascherata dalla metamorfosi della realtà, ed è per questo che nessuna poesia che cerchi di afferrarne anche solo un brandello può essere definitiva: “Ricomincio continuamente da capo, perché ciò che dispongo in racconto / si rivela una finzione, comprensibile per gli altri, non per me, / e il desiderio di verità mi rende disonesto”.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Il pericolo che si nasconde nella poesia è la finzione, l’abbellimento estetizzante delle cose, la perdita del contorno reale del mondo in cambio della sua ombra menzognera: “Cos’è la poesia che non salva i popoli né le persone? / Una complicità di menzogne ufficiali, una cantilena di ubriachi a cui fra un attimo verrà tagliata la gola, / una lettura per signorinette”. La poesia forza con Milosz la cittadella della ragione pura e la mette a soqquadro con la sorpresa, ma nello stesso tempo non rinuncia nemmeno a una briciola del suo potere conoscitivo: ma come potrebbe farlo rinunciando all’elemento visionario? È questo il gesto da classico della modernità che Milosz ha attuato, e contro la modernità. Attraverso tutte le forme e gli stili della poesia contemporanea, Milosz ha contrabbandato qualcosa che doveva essere irriducibilmente diverso da esse, ma che in realtà si è espresso proprio nelle ferite e nelle lacerazioni del contemporaneo.

In una poesia del 1945 sulle macerie di Varsavia, aveva scritto di non voler cantare per i morti, di non voler sottostare al ricatto nichilistico della distruzione: “Sono forse venuto al mondo / per diventare una prefica? / Io voglio cantare i festini, / i boschetti gioiosi dove mi conduceva Shakespeare. Lasciate / ai poeti un istante di gioia / o perirà il vostro mondo”.
Nel cuore stesso della mitologia di morte del secolo breve la grandezza di Milosz è stata nel suo non cedere al ricatto del lamento, nel suo scavare senza illusioni sorgenti nel mezzo stesso delle macerie, in quella ostinazione a conservare e a dire il bene anche quando tutto sembra sommerso dall’orrore e dal brutto, semplicemente “perché nell’infelicità accorre una qualche armonia e bellezza”.

Ma la sua non fu la bellezza degli estetismi a un tanto al chilo, e fino all’ultimo lo accompagnò il dubbio che scrivere fosse ancora un esercitare potere, una forma dell’avidità e della sopraffazione. Fu per questo che la poesia, come aveva chiesto, lo visitò a volte sotto le sembianze di un demone benigno, come quel Dono che dà il titolo a una sua poesia: “Un giorno così felice. / La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino. / Non c’erano cose sulla terra che desiderasse avere. / Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare. / Il male accadutomi, l’avevo dimenticato / Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono. / Nessun dolore nel mio corpo. / Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele”. Non c’era più di questi attimi di salvezza che la poesia potesse concedere a lui che la scriveva e a noi che la leggiamo: appena un filo di voce, sull’orlo del precipizio, per chiamare finalmente le cose con il loro vero nome.

 (Giuseppe Montesano)

 

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Czeslaw Milosz

Orfeo e Euridice

Sulle lastre del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo era piegato dal vento impetuoso,
che gli tirava il soprabito, faceva roteare matasse di nebbia,
si agitava nelle foglie degli alberi. I fari delle auto
ad ogni afflusso di nebbia si smorzavano.

Si fermò davanti alla porta a vetri incerto
se le forze lo avrebbero sorretto in quell’ultima prova.

Ricordava le parole di lei: “Sei un uomo buono”.
Non lo credeva molto. I poeti lirici
hanno di solito, pensava, un cuore freddo.
E’ quasi un limite. La perfezione dell’arte
si ottiene in cambio di tale imperfezione.

Soltanto il suo amore lo riscaldava,
lo rendeva umano.
Quando era con lei, diversamente pensava di sé.
Non poteva deluderla, adesso che era morta.

Spinse la porta. Percorreva un labirinto di corridoi,
di ascensori.
La luce livida non era luce, ma oscurità terrestre.
I cani elettronici gli passavano accanto senza frusciare.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento,
sempre più giù.
Sentiva freddo. Era consapevole di trovarsi
nel Nessunluogo.
Sotto migliaia di secoli rappresi,
nel cenerume di putrefatte generazioni,
quel regno sembrava senza fondo e
senza fine.

Lo circondavano i volti di una calca di ombre.
Alcuni li riconosceva. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva con forza la sua vita insieme con la sua colpa
e temeva d’incontrare quelli cui aveva fatto del male.
Ma essi avevano perso la capacità di ricordare.
Guardavano altrove, indifferenti a lui.

Come sua difesa aveva la lira a nove corde.
Portava in essa la musica della terra contro l’abisso,
che addormenta tutti i suoni col silenzio.
La musica lo dominava. Allora era remissivo.
Si arrendeva al canto imposto,
in estasi.
Come la sua lira, era soltanto uno strumento.

Finché giunse al palazzo dei governanti di quel regno.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli seccati,
nero di nudi rami e di grumosi rametti,
e il suo trono, funereo ametista – ascoltava.
Egli cantava il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
L’acqua fumante di un riflesso rosato.
I colori: cinabro, carminio,
siena bruciata, azzurro,
i piaceri di nuotare presso
gli scogli di marmo.
Il convito sulla terrazza nel chiasso
del porto dei pescatori.
Il sapore del vino, del sale, delle olive, della senape,
delle mandorle.
Il volo della rondine e del falco, il solenne
volo di uno stormo
di pellicani sul golfo.
Il profumo di fasci di lillà nella pioggia d’estate.
Cantava che componeva le sue parole contro la morte
e che nessuna sua rima lodava il nulla.

Non so, disse la dea, se tu l’ami,
ma sei giunto fin qui per riprenderla.
Ti sarà restituita. A una sola condizione.
Non ti è permesso parlarle. E sulla via del ritorno
di voltarti, per vedere se ti segue.

Ermes portò Euridice.
Il suo volto era diverso, affatto grigio,
le palpebre abbassate, sotto di esse l’ombra delle ciglia.
Avanzava come irrigidita, condotta dalla mano
della sua guida. Ah, come voleva pronunciare
il suo nome, svegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo che aveva accettato
la condizione.

Si avviarono. Prima lui, e dietro, ma non subito,
il battito sonoro dei sandali e quello tenue
dei piedi di lei impediti dalla veste come sudario.
Il sentiero in salita era fosforescente
nell’oscurità, simile alle pareti di un tunnel.
Si fermava e restava in ascolto. Ma allora
anche essi si fermavano, una fievole eco.
Quando riprendeva a camminare, risonava il duplice battito,
una volta gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Sotto la sua fede cresceva il dubbio
e lo avvolgeva come freddo convolvolo.
Non sapendo piangere, piangeva per la perdita
delle speranze umane nella rinascita dei morti,
perché adesso era come ogni mortale,
la sua lira taceva e sognava senza difesa.
Sapeva di dover credere e non sapeva credere.
E a lungo doveva durare l’incerta veglia
dei propri passi contati nel torpore.

Albeggiava. Apparvero i gomiti delle rocce
sotto l’occhio luminoso dell’uscita dal sottosuolo.
E accadde ciò che aveva presentito. Quando girò la testa,
dietro a lui sul sentiero non c’era nessuno.

Il sole. E il cielo e le nuvole su di esso.
Soltanto ora sentì gridarsi dentro: Euridice!
Come vivrò senza di te, o consolatrice!
Ma profumavano le erbe, durava basso il ronzio delle api.
E si addormentò, con la guancia sulla calda terra.

(traduzione di Paolo Statuti)

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POESIE di Gino Rago “Fatelo sapere alla Regina…” “memoria di una madre”, Czeslaw Miłosz “Campo dei fiori”, Marek Baterovicz “Isola Tiberina” “Il Signor Retro” POESIE SU PERSONAGGI STORICI MITICI O IMMAGINARI

Gino Rago

Gino Rago

 Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Ai suoi libri poetici hanno dedicato saggi critici Sandro Gros-Pietro, Giorgio. Linguaglossa, Sandro. Montalto, Luigi Reina, Alfredo Rienzi e altri. Con componimenti lirici e recensioni ha collaborato e collabora con svariate riviste letterarie (Poiesis, Poesia, Polimnia, Vernice, Paideia, La Procellaria, La Clessidra, Hebenon). Per l’edito e l’inedito è stato proclamato vincitore assoluto al Rhegium Julii, al Fiera di Casalguidi, al Città di Manduria, al Libero De Libero di Fondi, al Città di Quarrata, all’Alessandro Contini Bonacossi, al Pietro Borgognoni di Pistoia, al Città di Mesagne, al Lorenzo Calogero, al Premio Athena-Galatina, al Città di Aprigliano, al Città di Lecce, a Il Litorale – Marina di Massa, fra gli altri.

 shakespeare teatro

Gino Rago

Fatelo sapere alla Regina…

Fatelo sapere alla Regina, ditelo
anche al Re: non abbiamo
bisogno di niente, né per la carne
viva né per lo spirito del tempo.
Siamo ricchi di noi,
dei profumi del sole nelle primavere.
E’ questo mare aperto
il poema di parole
sull’acqua, ci basta lo sciabecco
a sollevare spume.
Olio e ferite, vino e fatica,
festa e camicia pulita,
vento fanciullo a danzare
nell’erba, amore nelle mani
quando cercano
altre mani, oblio d’anemoni
sui nervi delle pietre,
mulinelli di zagare all’alba.

Ditelo alla Regina, fatelo
sapere anche al Re:
non ci servono rubini
alle corone
né domandiamo le monete
d’oro: siamo ricchi di noi
per i canti nel cuore, la saggezza
del pane, la quieta
sapienza del sale:
per le sciabole
rosse dei papaveri nel grano

Cassandra

Cassandra

Memoria di una madre

I falò di Carnevale… Tu ( opaca,
in un letto d’ospedale
già tutta pronta in cuore
al viaggio fra le stelle alla tua foce )
con l’occhio nella cenere
quieta sussurravi:
“Non sprecate l’acqua, lo capirete
quando è secco il pozzo… Di me
vi accorgerete forse a focolare spento.”
Per questo il mare urlò più forte
e smarrimmo l’odore delle mele,
di calce su quest’altra sponda
chiusi nel perimetro del pianto:
abiti neri, veli di pervinca,
condoglianze appena bisbigliate,
colpe da nascondere
come una vergogna,
contorni d’ombre , intermittenze d’asma,
tuo viaggio solitario verso l’onniscienza.
Luce di lampo, eternità d’istante,
colloqui da iniziare con l’assenza,
suoni a smemorare in quei labirinti.
Nel sole alto a candire i cedri
il vuoto di te
ruppe la barriera
fra vita finta e morte, atrocemente
straripò
come un’eco di strepiti lontani
o di remoti palpiti sapienti. Dall’ocra
dei licheni al fiore sui limoni
un vento soffiò rapido sul sangue della terra:
prosciugò le conche, disperse l’aquilone
ed essiccò la gioia del canto dentro l’anima.

(Inediti)

Czeslaw Miłosz

Czeslaw Miłosz

Czeslaw Miłosz, poeta polacco naturalizzato statunitense, Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. È nato il 30 giugno 1911 a Szetejnie, ora in territorio lituano ed è morto a Cracovia il 14 agosto 2004. Aveva 93 anni. Poeta, ma anche saggista e traduttore: nel 1953 pubblicò La mente prigioniera, denuncia della passività degli intellettuali polacchi – ma anche dei francesi marxisti conosciuti a Parigi – di fronte al totalitarismo staliniano; nel 1977 La terra di Ulro, riflessione sulla poesia e sull’attività dello scrittore; nel 1998 Il cagnolino lungo la strada, autobiografia con aforismi e poesie. Una voce contro i totalitarismi: si dichiarava amico di antifascisti come Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone e i suoi versi vennero trascritti nelle piazze dagli operai di Solidarnosc per onorare i lavoratori uccisi dal regime comunista nel 1981. Intanto Miłosz insegnava poesia in California e scriveva i suoi versi ispirati da Simone Weil, Selma Lagerlof, William Blake, Emanuel Swedenborg. Un cattolico praticante attirato dagli eretici è stato definito.
Il premio Nobel per la letteratura 1987, Josif Brodskij, nel discorso tenuto a Torino per l’inaugurazione del primo Salone del Libro nel maggio del 1988, affermò che «la più straordinaria poesia di questo secolo è scritta in polacco», segnalando i nomi di Leopold Staff, Czesław Miłosz, Zbigniew Herbert e Wisława Szymborska».

giordano bruno arso vivo il 17 febbraio 1600

giordano bruno arso vivo il 17 febbraio 1600

Czeslaw Miłosz

Campo dei Fiori

A Roma in Campo dei Fiori
ceste di olive e limoni,
spruzzi di vino per terra
e frammenti di fiori.
Rosati frutti di mare
vengono sparsi sui banchi,
bracciate d’uva nera
sulle pesche vellutate.
Proprio qui, su questa piazza
fu arso Giordano Bruno.
Il boia accese la fiamma
fra la marmaglia curiosa.
E non appena spenta la fiamma,
ecco di nuovo piene le taverne.
Ceste di olive e limoni
sulle teste dei venditori.
Mi ricordai di Campo dei Fiori
a Varsavia presso la giostra,
una chiara sera d’aprile,
al suono d’una musica allegra.
Le salve del muro del ghetto
soffocava l’allegra melodia
e le coppie si levavano alte
nel cielo sereno.
Il vento dalle case in fiamme
portava neri aquiloni,
la gente in corsa sulle giostre
acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
quel vento dalle case in fiamme,
rideva allegra la folla
nella bella domenica di Varsavia.
C’è chi ne trarrà la morale
che il popolo di Varsavia o Roma
commercia, si diverte, ama
indifferente ai roghi dei martiri.
Altri ne trarrà la morale
sulla fugacità delle cose umane,
sull’oblio che cresce
prima che la fiamma si spenga.
Eppure io allora pensavo
alla solitudine di chi muore.
Al fatto che quando Giordano
salì sul patibolo
non trovò nella lingua umana
neppure un’espressione,
per dire addio all’umanità,
l’umanità che restava.
Rieccoli a tracannare vino,
a vendere bianche asterie,
ceste di olive e limoni
portavano con gaio brusio.
Ed egli già distava da loro
come fossero secoli,
essi attesero appena
il suo levarsi nel fuoco.
E questi, morenti, soli,
già dimenticati dal mondo,
la loro lingua ci è estranea
come lingua di antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
e allora dopo molti anni
su un nuovo Campo dei Fiori
un poeta desterà la rivolta.

(Varsavia, Pasqua 1943)

Marek Baterowicz

Marek Baterowicz

Marek Baterowicz è nato a Cracovia nel