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Giorgio De Chirico guida il taxi, Instant poetry di Gino Rago, La de-politicizzazione e la de-qualificazione della forma-poesia in Italia, di Giorgio Linguaglossa, Commenti e poesie di Mimmo Pugliese, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno,

Poetry kitchen di

Mario M. Gabriele

Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.

Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.

Si può affermare che la Instant poetry è un atto linguistico performativo e rappresenta nella lingua una sua antichissima potenzialità, dormiente nell’uso che si fa oggi delle lingue, che viene rimessa in potenza, in atto.
Scrive Agamben:
«Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che inesso si realizza» (G. Agamben p. 62). Con il passaggio al monoteismo il nomedi Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina».1 Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; (cfr. AUSTIN 1962); «io giuro» è il modello di un tale atto. Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».2

Per poter agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un atto-fatto.
La instant poetry è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo, per consuetudine, passato.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008, pp. 71-72
2 Ibidem p. 74-75.

 

“Lucio Mayoor Tosi entra nel “Notturno” di Madame Colasson,
invita l’uccello Petty al Caffè de Paris”
Mi piace: non perché ci sono anch’io, ma perché di fatto è un bell’esempio di “eccetera”, scritto in fuori senso.
È proprio scrittura giapponese!
Forse nuova epifania, fatta di suoni, accompagnati da immagini.
(Lucio Mayoor Tosi)

.

Giorgio Linguaglossa

La de-politicizzazione e la de-qualificazione della forma-poesia in Italia

caro Mario,

la poesia di super nicchia che è stata fatta in Italia e in Occidente da alcuni decenni, si è rivelata altrettanto invasiva nell’epoca Covid che ha registrato un altissimo tasso di pseudo poesia considerata come demanio privato delle strutture psicologiche dell’io, con le conseguenti malattie esantematiche e psicosomatiche e compiacente fibrillazione della malaise dell’io.
Il mio giudizio su questa pseudo poesia non può che essere severamente negativo. Si tratta nel migliore dei casi di episodi, di sintomi psicanalitici che registrano un malanno psicologico e di sfruttarlo come pseudo tematica del disagio esistenziale. Si tratta di una miserabile e regressiva strategia di sopravvivenza alla crisi politica delle democrazie de-politicizzate dell’Occidente con un superpiù di auto lacerazione e di auto flagellazione dei lacerti di un io posticcio e positivizzato.
Riassumo qui i punti principali della malattia pandemica che ha attinto la poesia contemporanea:

– Si fa consapevolmente una poesia da supernicchia;
– La pseudo poesia positivizzata ed edulcorata che si fa oggi in Italia la si fa avendo già in mente un certo indirizzo dei destinatari e un calcolo di leggibilità e di comunicabilità privatistica;
– Si circoscrive il microlinguaggio poetico a misura delle dimensioni lillipuziane dell’io;
– Si rinuncia del tutto alla questione del ruolo della poesia e della letteratura nel mondo storico di oggi;
– Ritorna in vigore una certa mitologia del «poeta» visto come depositario di saggezza, seriosità, tristezza, pensosità ombelicale;
– Ritorna in auge il mito di una «poesia» vista come luogo neutro della ambiguità e della astoricità in una posizione di involucro dell’anima ferita e malata ( ingenuo alibi ideologico e smaccata mistificazione culturale);
– Nessuna capacità e volontà di rinnovamento del linguaggio poetico visto come un che di separato dai linguaggi della comunicazione delle emittenti linguistiche;
– Moltiplicazione delle tematiche private, privatistiche e quotidiane opportunamente devalutate in chiave privatistica e de-politicizzata;
– Moltiplicazione di forme narrativizzate ad imitazione della prosa;
– Moltiplicazione del taglio narrativo, diaristico, quotidiano e prosastico;
– Moltiplicazione di un super linguaggio de-politicizzato e lucidato;
– Adozione delle pratiche onanistiche, auto assolutorie e regressive confezionate in forma poetica.

 
Mario M. Gabriele

Condivido pienamente questo esame critico sulla poesia di oggi, sempre più asfittica, da reflusso gastro esofageo. Se solo una parte dei poeti, che utilizzano questi collanti abrasivi, sempre più plasticizzati e degradabili, riuscisse a proporre una più significativa difesa della parola poetica, si avrebbe un parlare chiaro e sincero. Restiamo, purtroppo, in un esercizio estetico che non guarda alla riprogettazione della poesia necessaria alla sua sopravvivenza, ma in un cantiere dove i materiali utilizzati franano ad una prima lettura perché onnicomprensivi di tutte le turbe elencate da Giorgio Linguaglossa.

Mauro Pierno

Finita l’epoca dei poppatoi,
la devastazione connetteva girandole e chiodi

d’acciaio, beninteso le sorprese nelle molotov
perfino dai dirimpettai non erano comprese.

Di certo dapprima di stimare le stive con impegno
si erano svuotati i guardaroba e gli armadietti.

La scuola anche quella era finita da un pezzo.
L’orgoglio in polvere venduto da Amazon

e la corrente sfusa, divertente, la si apprezzava
spargendo forte il tasto On.

Elettrico sei, quanto ti diverti o stai seduto, elettrico sei quando dormi, quando mangi, quando sorridi.

La funzione è compatibile con la sostituzione, il terzo verso puoi spostarlo a piacimento

anche abbattere le barriere, spostare muri, salutare, fare ciao ciao, con la manina. Ricostruire.

Mario M. Gabriele

Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.

Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.

Poetry kitchen

di Mario M. Gabriele, da Horxcrux

Al bar scegliemmo il tavolo esagonale:
tre posti per la famiglia Valpellina
e tre ai figli del filosofo Casella.

Sui muri c’erano versi di Murilo Mendes
e un repertorio fotografico della città.

Accettati i confini di un’isola poetica,
il linguaggio si fece astruso
con tutte le biodiversità estetiche.

Un gatto scambiò le gambe di Meddy per una lettiera.
Ci fu un dialogo sui social networks
sommando alla fine follower e like.

In attesa che lo chef preparasse hamburger e whisky Gin,
un venditore di flaconi e stick,
ci propose Instant Reset di Fenty Skin,
il Sauvage di Dior
e il Rouge H di Hérmes.

Riprendemmo il discorso, serafico e quantistico,
citando il lume di Diogene.

-Habemus vitam- disse uno dei figli di Casella,
ricercatore all’Artemisia.

-Allucinanti- esclamò la signora Valpellina
-sono le centurie e le abrasioni-.

C’era una richiesta di pertinenza
affidata a Giusy De Luca,
esperta di advocacy e digital strategy.

Solinas riferì i dati in laboratorio
su Emoglobina e Linfociti del piccolo Larry.

Il Memorial finì quando un cigno nero
entrò nella stanza con le finestre aperte
e i lumi spenti.

Chiamati a rapporto Kant e San Tommaso
ordinammo cioccolatini Pomellato.

Essendo dei flâneurs preferimmo l’albergo All Right
dove Jean Russell esibiva un altro Premio Pritzker
mentre il gourmet passava da un tavolo all’altro.

 

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Sulla differenza tra oggetti e cose – Poesie e Commenti di Osip Mandel’štam, Eugenio Montale, Adam Zagajewski, Jorge Luis Borges, Gino Rago, Carlo Livia, Guglielmo Peralta, Luigina Bigon, Rossana Levati, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

 

Gif Saturno

La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose»

Giorgio Linguaglossa

Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»

sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tantomeno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?

Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?

È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’stam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:

[«Cose» dipinte da apprendisti pittori allievi di Lucio Mayoor Tosi durante un corso di apprendistato alla pittura]

Osip Mandel’štam

«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.

Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.

Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».

Cose Bricco

Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».

L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».

Cose teiera

Gino Rago

Dopo Lilith
[Dio presenta Eva ad Adamo]

“[…]
ti sento solo, Adamo, quindi ho deciso, ecco l’altra compagna;
ma non superare la soglia,
stai molto attento…
lei esce dalla tua costola non dai tuoi piedi,
esce dal tuo fianco, un po’ più in basso del braccio
ma dal lato del cuore, un po’ più in alto,
per essere amata.
Questo ti comando
[…]” Continua a leggere

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Gli oggetti e le cose – Poesie di Anna Ventura, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco Rathgeb – Dialogo su gli oggetti e le cose: Donatella Costantina Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Adeodato Piazza Nicolai, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa

 

Foto source favim-com-17546

A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici

Giorgio Linguaglossa

Sul comodino del soggiorno della mia casa romana, sito tra due grandi finestre che ricevono luce da via Pietro Giordani, sono poggiati alcuni oggetti: una cornice in finto argento che contiene un piccolo riquadro che ha due segni di pennarello nero tracciati da mio figlio quando era bambino, un minuscolo albero di natale con palline rosse e filamenti, una piccola zucca che si illumina dall’interno, ricordo di una serata di Hallowen, una candela a forma di piramide, una statuetta in bronzo della dea Shiva che suona il piffero, comprata su una bancarella a Jaipur, un’altra candela colorata a forma cilindrica, regalo di una donna che è scomparsa dalla mia vita, un orologio da polso che ha smesso di funzionare e una molletta di plastica bianca, di quelle che si usano per appendere i panni.

Ecco, non posso fare a meno di pensare che un tempo lontano erano «oggetti», ma adesso, lentamente, si stanno trasformando in «cose». Attendo con pazienza da alcuni anni che si verifichi questa misteriosa trasmutazione. Come essa avvenga non lo so, ma so che sta avvenendo, che un giorno sarà compiuta e tutte queste «cose» potranno entrare in un mio commento o in una mia poesia.

Eppure, tra queste «cose» e la poesia che posto qui sotto ci deve essere un collegamento, anche se i temi e lo svolgimento non hanno nulla in comune. A proposito, questa è una poesia dimenticata, che ho dimenticato di inserire nel libro in corso di stampa, titolato Il tedio di Dio. Però c’è un misterioso collegamento che unisce questa poesia a quelle povere «cose» che sostano sul mio comodino da alcuni anni, ma non so più dove esso si trovi. Probabilmente, si è perduto per sempre nei meandri del mio inconscio e lì nuota come uno sciame di pesciolini d’argento…

Marco Alvino Getulio

(da Il tedio di Dio, di prossima pubblicazione)

A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici.
Sostenevano costoro che prolungare la vita
è un’empia stortura perché prolunga il dolore infinitamente
e moltiplica il numero dei morti.

Sostengono questi filosofi che occorre tagliare
al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo
per vivere una vita intensa e bella.
Per tale ufficio Atropo è la dea scelta da Zeus
per dare agli uomini l’illusione dell’immortalità.

La loro tesi però non mi convinse. E cercai altrove.
Fu lì che decisi di consultare l’oracolo di Delfi,
ma il responso sibillino non mi piacque
e mi spinsi a sud del Pactolo sulle cui rive
vive il popolo dei garamanti che si nutre
di ecantorchidee e dell’ortica delle radure polverose.

Ancora più a sud c’è la Città degli Immortali
– mi dissero quei barbari –
E così mi inoltrai nel deserto dei gobbi.

Deformi dalla nascita suscitano in noi, uomini civili,
ribrezzo e recrudescenza.

Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.

Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis.
E gli chiesi notizie intorno all’immortalità…

Foto in Subway

L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”

Commento di Donatella Costantina Giancaspero

” […] occorre tagliare/ al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo/ per vivere una vita intensa e bella”. In questa verità struggente consiste l’illusione dell’immortalità, per gli uomini. Una verità tragica che spinge Marco Alvino Getulio a cercarne altrove la conferma, la veridicità. La cerca in un “altrove” desolato, più desolato e terribile della stessa “verità”, ovvero della tesi dei filosofi cirenaici. E, nel deserto, nella desolazione dell'”altrove”, luogo di “ribrezzo e recrudescenza”, quella tesi trova finalmente la sua “verità”. Marco Alvino Getulio non lo dice, ma ce lo fa intendere fuggendo dalle “lande desolate”, nelle quali s’era inoltrato, più per paura della verità, forse, che animato da reale scetticismo e volontà di ricerca. Ce lo fa intendere scegliendo infine di ritornare “tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua”. Ma qui, un incontro, quello con “Dio alle porte di Persepolis”, la certezza di questo incontro cruciale, chiude la poesia nell’ambiguità e lascia il lettore a nuovi interrogativi… Che cosa vorrà dire l’incontro con Dio? Chi è Dio? Quale verità potrà aver rivelato al nostro Marco Alvino Getulio? Quale, a noi stessi?

Giorgio Linguaglossa
5 dicembre 2017 alle 10:56

Caro Steven Grieco Rathgeb,
ti pongo questa domanda:
in alcuni momenti, ad esempio nell’arte figurativa e nella poesia, assistiamo alla presenza della «cosa», rivediamo letteralmente la «cosa», come per la prima volta. La «cosa» si libera della cosità e appare nella poliedricità dei suoi «indizi», dei suoi «segni», dei suoi «rinvii» ad altro. Appare come «valore».

Faccio un esempio semplice e ovvio: quando assistiamo a ciò che avviene davanti ad un quadro di Edward Hopper o di Giorgio De Chirico o di Piero della Francesca, ci accorgiamo che lì non avviene niente, che le figure e le cose stanno ferme… ma poi, all’improvviso, ciò che era immobile si anima dall’interno, e vediamo quelle «cose» per la prima volta, o meglio, le riconosciamo perché dentro di noi le avevamo già viste. Questo è un fenomeno estetico che ciascuno può ripeterlo in proprio, talmente è ovvio.
Mi chiedo: come è possibile questo? Abbiamo forse aggiunto un «predicato di valore» alla «cosa»?

Scrive Heidegger: «L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza. I valori si trasformano in determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa… Ma già l’esperienza prefenomenologica riscontra nell’ente che si vuol pensare come cosa la sussistenza di un elemento irriducibile a cosità… Che significa, ontologicamente, l’”inerenza” del valore alle cose?».1]

Sappiamo quindi da Heidegger che «l’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei beni». E allora dobbiamo riformulare la domanda: Come può avvenire che la «cosa» si liberi della sua cosità? – Ecco, questa è la domanda giusta, perché dobbiamo presupporre che quei predicati della «cosa» non si aggiungono alla «cosa», non sono un di più che noi affibbiamo alla «cosa» ma sono una nostra proiezione, sono indizi, rinvii, segni che noi diamo alla «cosa» per il tramite del linguaggio organizzato. Dunque, il problema siamo «noi», è nell’esserci e nel suo linguaggio. Ciò che appare nell’opera d’arte, «la macchia dell’apparenza», per utilizzare le parole di Adorno, è in realtà il suo essere semplicemente-presenza, assoluta presenza che si volatilizza nel momento stesso della sua ricezione. La ricezione dell’opera fonda l’inerenza tra noi e il mondo, apre la «mondità» del mondo e ci rende manifesto il nostro in-essere nel mondo.
Ed ecco che la tua poesia si anima, inizia a muoversi e a stormire come le foglie di un bosco:

L’irrilevanza del poeta 2

Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
È il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.

(Roma, via Merulana, autunno 2012)

1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. p. 130 Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

————————————————————————
mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
————————————————
dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

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Giorgio Linguaglossa da Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York, (2015) traduzione di Steven Grieco QUATTRO POESIE da Risposta del Signor Cogito. “La polizia segreta cerca il quaderno nero”, “La Lubjanka interroga il musicista”, “Il corvo è volato via dalla finestra”, “La polizia segreta interroga il Signor Cogito” Commento di Marco Onofrio

de chirico Ettore e Andromaca 1916

de chirico Ettore e Andromaca 1916

da “Risposta del Signor Cogito”
da “Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014)” Chelsea Editions, New York p. 320 $ 20 Prefazione di Andrej Silkin Traduzione di Steven Grieco

La polizia segreta cerca il quaderno nero

I
La polizia segreta cerca il «quaderno nero».
Perquisisce ogni centimetro quadrato della abitazione

del Signor Cogito, getta le masserizie all’aria, sfonda le pareti,
smonta le mattonelle. Dicono che c’è «un sole inabissato»
da qualche parte.

II
Finestra buia. Finestra illuminata.
Enceladon è nuda esce da una porta della notte e si pettina

i capelli color rame davanti allo specchio.
Un merlo gorgheggia sull’albero. Gli uccelli tossiscono.

Lanterna rossa. Fascio di luce conica.
Un riflettore è puntato sulla faccia del Signor Cogito.

Un cono di luce sugli occhi del Signor Cogito.
La polizia segreta scava nel giardino.

Cerca ciò che non può più trovare
perché Cogito ha distrutto il quaderno nero
gettandolo nel fuoco.

III
Sono le tre. Il rintocco argentino del carillon
disturba la tranquillità del Signor Cogito.

Il suo pensiero è simile al moto del pendolo,
va dallo zenit alla fossa delle Marianne

dal fumo delle puzzolenti nazionali
all’etere del pensiero teologale.

Nella Kammerspiel c’è silenzio. Di tomba.
Improvvisamente, uno scalpiccio di passi.

I cinque poliziotti sono usciti in corridoio.
«Arrivederci», «Passate più spesso a trovarmi»,
dice agli ospiti il Signor Cogito.

.
La Lubjanka interroga il musicista

I
Le blatte si accalcano nella fessura della porta.
Il Signor K. esce dalla notte

sbatte la porta ed entra nello specchio
esce dallo specchio ed entra nel cono di luce.

Entra il commissario con un occhio di vetro.
La polizia segreta interroga la bellezza di Enceladon

mentre la Lubjanka fa catturare tutti gli uccelli.
Dispone che gli uccelli vengano impiccati

ai rami degli alberi e lasciati oscillare
come idrocaedri al vento del Favonio.

Interrogano il musicista.
Interrogano il Signor Cogito.

Cercano «un sole inabissato».
«È colpa del Signor Retro – dice il Signor Cogito –

quel maleducato è sempre avanti di un passo,
e non c’è ragione che possa voltarsi indietro».

La polizia segreta perquisisce il violino,
smonta la cassa armonica, fa a pezzi l’archetto.

II
La Lubjanka ha convocato il violinista
negli uffici della polizia segreta.

La tigre bianca siede sulla sedia rossa.
La tigre rossa siede sulla sedia bianca.

La tigre sorride.
Il Signor Retro mastica un chewingum.

La Gioconda mi guarda dalla parete.
Hanno interrotto le perquisizioni.

Hanno requisito il violino.
Hanno divelto la porta rossa e la finestra azzurra.

Hanno abbattuto le pareti.
Il Signor K. dice che il violino non ha colpe.

«Signor Cogito, non c’è nessun sole inabissato».
«C’è un solo colpevole». «È lei il colpevole».

Giorgio-Linguaglossa-Three Stills In the Frame 2015.

Il corvo è volato via dalla finestra

Il corvo è volato via dalla finestra.
I candelabri degli alberi fumano sotto il cielo.

Fiammeggiano d’un fuoco algido.
Il cielo è immobile. Il mare è immobile.

Il bosco è immobile.
La bottiglia e il bicchiere del quadro di Morandi

sono immobili, integri, il tempo non li ha frantumati.
La Lubjanka ha fatto impiccare tutti gli uccelli.

Sette corvi beccano i vermi nello stagno.

Enceladon mi guarda da una cartolina.
Anche la sua bellezza è immobile.

Ha un sorriso esangue, sembra evasa
dalla prigionia del suo archetipo in fondo

al ritratto di Simonetta Vespucci.
L’intero universo è immobile.

La sedia rossa è di fronte al mare.
Il sole nero entra nella costellazione dello Scorpione.

I mocassini del Signor Cogito scricchiano
sulle falene morte e sulla polvere del parquet.

Il pensiero del Signor Cogito precede sempre
d’un palmo la giostra delle parole, indugia all’ingresso

tra il pensiero nero e il pensiero bianco.
«Tra il pensiero e la parola cade l’ombra.

Tra la parola e la sua pronuncia cade l’ombra»
dice il Signor Cogito.

Teatro. Si apre il sipario. Sedia rossa.
Il musicista prende posto sulla sedia rossa.

Imbraccia il violino.
Posa l’archetto sulle corde del violino.

All’improvviso, tutto scompare:
la sedia rossa, il musicista, il mare,

le stelle, gli alberi in fiamme.

de chirico_immagine periodo metafisico

de chirico_immagine periodo metafisico

La polizia segreta interroga il Signor Cogito

I
Si annuncia con il tinnire di monete false,
un flash al magnesio il Signor K.

La redingote del Signor Cogito
si siede di fronte alla finestra. Attende.

Il Signor K. si siede sulla sedia rossa,
emana un profumo di cipria la sua parrucca

mpolverata, parla nella lingua dei corvi:
eptaedri, triedri, dodecaedri.

La polizia segreta interroga il Signor Cogito.
Chiedono notizie intorno al «suo occhio sincipitale».

Un riflettore illumina il volto del Signor Cogito.
Un trisma percorre a ritroso il volto del Signor Cogito.

Il Signor Cogito guarda attraverso la finestra.
La finestra è aperta su un paesaggio

di colline verdi, ondulate e di tigli in fiore.
Il Signor K. indugia.

Il Signor Cogito attende.
Sceglie con cura le parole,

aspetta che il buio entri dalla finestra.

II
Il Signor Cogito dice:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».

La tigre sorride.
«Nomina sunt consequentia rerum».

La tigre sorride.
«Dunque seguono, non possono precedere le cose».

La tigre continua a sorridere.
«Le cose le avete fabbricate ma le parole…».

La lampada al neon illumina la faccia dell’imputato.
«No, quelle non potete fabbricarle».

de chirico sketch masks

de chirico sketch masks

Commento di Marco Onofrio

Per entrare in risonanza con la poesia di Giorgio Linguaglossa (recentemente antologizzata nella traduzione inglese di Steven Grieco, con testo a fronte, per l’edizione americana Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York), occorre accedere alle premesse della sua dicibilità, e dei problemi epistemici, storici e sociologici che riesce complessivamente a sollevare. Occorre dunque portarsi fino alle radici del sentire moderno; e queste radici vanno, a ben vedere, ricercate in epoca barocca, quando il mondo – grazie alle scoperte geografiche e scientifiche – si estese a dismisura, e l’uomo provò nuovo sgomento dinanzi al silenzio eterno degli spazi infiniti mentre la terra (già centro del cosmo tolemaico) veniva relegata ai margini del vuoto universale. La realtà debordò dalle cornici razionalistiche e si mostrò complessa nell’infinità del macroscopico e del microscopico. L’allegoria barocca – analizzata da W. Benjamin, nel contesto del dramma barocco, come “cartina di tornasole” di alcune aporie fondamentali della coscienza e dell’arte moderna – mette in crisi l’aspirazione classicistica rinascimentale ad armonizzare il mondo, cioè a colmare la scissione originaria prodottasi nell’uomo sia a livello teologico, sia a livello gnoseologico. Chiunque, dopo il Rinascimento, tenti il simbolo viene continuamente respinto nell’allegoria, cioè nella «dialettica priva di centro tra quanto è figurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati». L’allegoria fa saltare il simbolico e «smantella la faccia armoniosa del mondo»: dà vita a un’arte malinconica, da terra desolata, che rivela un’insanabile lacerazione, una perdita di senso delle cose e del soggetto, una decadenza dell’umano e della storia. Come portata allo spasimo dei nervi dal dolore della ferita, la coscienza mantiene una presa critica della realtà che le permette di restituire il negativo e il caos disperso dei frantumi così come sono, senza illudersi di una possibile armonia conciliatoria.

de chirico anni Settanta

de chirico anni Settanta

Baudelaire è il primo grande esponente dell’estetica moderna in grado di prendere coscienza delle mutate condizioni epocali. La prima e la seconda rivoluzione industriale innescano lo sviluppo delle scienze applicate alle tecnologie. Le città diventano metropoli massificate. Cambia la percezione del mondo, le categorie spazio-temporali vengono continuamente riedificate dalle proprie macerie. La storia accelera. Il sempre più rapido ciclo di invenzioni e trasformazioni meccanizza l’esperienza del reale, provocando continui choc sensoriali e risposte psichiche automatiche. L’ottica a scatti del cinema è, per certi versi, omologa alla produzione della catena di montaggio. Ci si abitua alle dinamiche della visione seriale. L’artista è il flanêur estraniato e perso nella folla. Vive in uno stato di convalescenza, di ipnosi, di ebbrezza alcolica. Scrive per frammenti, lampi di immagini e sensazioni. Guarda alle cose con occhio satanico/angelico: usa l’ironia sardonica come lente di rifrazione e chiavistello per smontare il mondo. La surnaturalizzazione visionaria lo porta a sdoppiarsi, a proiettarsi negli oggetti, a immergersi nel flusso vitale fino a sfondare i limiti dello spazio e del tempo, e alla fantasmagoria dei paesaggi urbani, degli interni, delle stanze.

Da questa coscienza, travasata nella rilettura continua e aggiornata di tutto il Novecento, europeo ed extraeuropeo, compresa l’evoluzione storica della Scienza (la relatività di Einstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria della complessità di Prigogine, la teoria delle catastrofi di Thom, le ricerche su caso e necessità di Monod, etc.): è da tutto questo agguerrito armamento culturale che “viene” la scrittura in versi di Linguaglossa. La Stimmung iconografica della sua poesia è traducibile in un pulviscolo di suggestioni sospeso tra il sensualismo onirico di Balthus, la mitologia ludica di Savinio, le traslucide interdizioni di Giorgio De Chirico e, qua e là riemergente, una vena boshiana di allucinazioni alla Francis Bacon. Il poeta precede il critico ma viene nutrito dalle sue ricerche; il critico a sua volta sorveglia il poeta e lo punzecchia quando rischia di addormentarsi. Linguaglossa non è mai soddisfatto, riscrive continuamente, per anni. Il suo è il percorso ultratrentennale di una ricerca inesauribile attraverso la scrittura e la coscienza.

La parola linguaglossiana è lo strumento versatile che solleva e sostiene un equilibrio dinamico tra azione e contemplazione, dramma e filosofia, oggetto e pensiero, suono e silenzio. Il linguaggio di Linguaglossa nasce dal “rigoglio del magma”, è carico, plurivoco, materico, multanime: è deformato da una carica espressionistica e sospinto da un demone variantistico sperimentale, che deve tenere a bada i rischi dell’arbitrarietà, del virtuosismo, del bizantinismo, stando attento a che la poesia non divenga «hierogliphica arte degli / orpelli»:

«Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,

dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,

bisticci di frasari incongrui».

Il suono è  ovviamente sfruttato anche per le sue capacità simboliche di creare significato:

«rumoreggia e sferraglia sul sipario del teatro:

incastro di motori, di ruote dentate,

rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi».

de chirico un maestoso silenzio maschere

de chirico un maestoso silenzio maschere

Il poeta ha alle spalle il critico pungolatore, e insieme cavalcano a briglie sciolte il cavallo selvaggio di una fantasia dittatoriale, che crea regole e mondo. Una fantasia che rivendica la propria libertà dai giochi del Potere: nella composizione “Il signor K.” la tigre che rappresenta appunto il Potere ordina al poeta di suonare il violino, ma l’archetto del poeta “stride” perché egli si rivela incapace di suonare a comando: vuole suonare quando e ciò che gli pare. Cioè: la poesia può sopravvivere solo se si ritaglia uno spazio autonomo dalla macchina mondiale dell’economia e della comunicazione strumentale.

La chiave che apre il mondo poetico di Linguaglossa è un surrealismo onirocritico che mette in gioco tutta la realtà fisica, fino al livello subatomico: tutta la natura, tutta la storia, tutta la cultura (anche la Scienza). Linguaglossa giustappone e mescola i luoghi dello spazio e del tempo, proiettati su un unico piano di simultaneità. La poesia è una «idrovora narcomedusa»: succhia tutto l’esistente e l’esistibile, come un’idrovora, e ha il potere narcotizzante e marmorizzante della Medusa, che svela il volto osceno dell’orrore sotto le sembianze più “normali”, il «malessere quieto dell’esistenza». La poesia dunque

«accoppia materia e immondizie

sigizie di correaltà, apparenta

“Storia ed eoni, platonismi e crudeltà».

Dalla metafora tridimensionale di Mandel’štam, Linguaglossa trae una visione poliedrica e multipolare: come un suono stereofonico riprodotto da sorgenti simultanee. Einstein ha dimostrato che lo spazio ha quattro dimensioni (la quarta è il tempo). E Linguaglossa scrive:

«Vidi l’Angelo dai quattro volti che guardava

in quattro specchi il mio sembiante riflesso,

quadruplice barbaglio della luce».

de chirico maschere

de chirico maschere

Il discorso poetico di Linguaglossa procede senza apparenti artifici metrici sull’onda pulsante di un verso libero, spesso epico nella sua lunghezza, che agevola il processo di decostruzione dell’io attraverso la scomposizione prismatica e cinematica delle immagini. Il correlativo oggettivo è potenziato dal parallelo correlativo soggettivo: la proiezione del soggetto in alter ego dialogici, disseminati nello spazio e nel tempo, che sono (e siamo) sempre «noi, dietro il diaframma, prismatici». Il poeta «cammina come un sonnambulo», in «ipnotica ipocinesi»: è un acrobata bendato che attraversa gli universi paralleli, che percorre i livelli del reale, che entra ed esce dai racconti – fino a raggiungersi prima della nascita fisica (come accade nell’autoritratto eponimo “Tre fotogrammi dentro la cornice”). È un continuo passaggio biunivoco tra esistenza sogno irrealtà – cornice di pensiero dopo cornice – fino a sfiorare l’inarrivabile essenza. La poesia dunque come discorso anfibologico, fitto di misteriose, semplici e irrisolvibili aporie. E la vita come geroglifico di sogni, come criptogramma.

Il tono autonormativo della scrittura poetica di Linguaglossa è quello di una cronaca scettica della realtà in divenire, sospeso tra certezza dell’esistere («respiriamo dunque siamo») e messa in scacco di questa dimensione («serenamente dubitiamo / della nostra realtà»). L’atteggiamento è ironico, leggero, distaccato, oggettivo, superficiale e profondo in un sol dire (è la superficie, del resto, che nasconde la massima profondità, ovvero: «La verità è nella polvere della superficie»). Il poeta penetra oltre i limiti della ragione, abbracciando i panorami della “follia”, del caos creativo incasellabile. La ragione stessa «si camuffa in follia / e la reggia si addobba in stalla». Linguaglossa si interroga ossessivamente sul rapporto tra quadro e cornice, su «cosa c’è oltre la cornice», su come il quadro spezza la cornice e continua oltre i suoi limiti, sapendo che «il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo, / ma sappiamo che lui c’è».

De-Chirico-The-Two-Masks

De-Chirico-The-Two-Masks

È una poesia spesso nominale, asciugata sull’osso del proprio accadere, agglutinata intorno all’energia del verbo-motore. Anche gli aggettivi sono trattati come sostantivi, non hanno funzione esornativa. Le composizioni sembrano spesso “sceneggiature” di cortometraggi surrealisti. Linguaglossa ha nelle corde una certa vocazione teatrale: il mondo è teatro, «la storia disegna il teatro / del mondo», e il poeta recita la sua stessa poesia dal palco della propria mente, avvolto dalla nebulosa sferoide dei ricordi, degli echi, dei pensieri, inseguendo frecce vettoriali che non è facile capire se si avvicinino o si allontanino dal bersaglio. I versi montano, uno dopo l’altro, didascalie ambientali di suoni luci rumori voci, geometrie illogiche alla Escher, architetture urbane di mura, torri, archi, ponti, pontili, ambulacri, terrazze, scale, corridoi, porte (spesso numerate, a significare opzioni), e stanze, e strutture delimitanti confini, bordi catastrofici oltre i quali si spalancano abissi. Ci sono sequenze di azioni slegate, catene imprevedibili, scene misteriose che accadono… Da una fessura esce «uno stormo di uccelli / e una nuvola di anelli»; nel vuoto c’è un «drago che aleggia» e una «colluttazione di ombre che entrano / dentro altre ombre e ne escono»; è c’è «un uomo premoriente» che «percuote un gong / e dal gong escono stormi di colombe bianche»; e «dio» che «ha perso l’autobus, / sta alla fermata, aspetta, forse si è pentito»… E narrazioni che si interrompono improvvisamente, lasciando sospesa la curiosità. Il soggetto fluido di questi scenari apre una porta e… non puoi nemmeno lontanamente immaginare dinanzi a cosa ti ritroverai: sono

«i ponti delle parole che nessuno

sa dove condurranno».

Tutto procede per «frammenti di un percorso di fuga», fotogrammi random, sequenze di scene e personaggi che irrompono secondo analogie suggestive ma illogiche, e portano messaggi insensati, stranianti, decontestualizzati, o indicazioni contraddittorie e fuorvianti. Il tempo nella poesia di Linguaglossa è reversibile e interamente abitabile, è un nastro che si può riavvolgere avanti e indietro, come nei sogni. Linguaglossa crede evidentemente nell’eterno ritorno, ha imparato che «il presente è il passato e il passato è il presente», che «il prologo è simile all’epilogo», e tutte le storie e tutte le guerre e tutte le nascite e tutte le morti, sono una.

Specie nelle più recenti composizioni, Linguaglossa accentua la dimensione onirica e metafisica: tutto resta molto reale, quasi iperreale, e concreto, fisico, tangibile, ma il movimento dei versi ci porta in regioni atemporali, o meglio pancrone, dove si incontrano e colloquiano (spesso senza intendersi) personaggi fittizi (angeli, demoni, filosofi) e personaggi storici (Kafka, Mozart, Tiziano, Rembrandt, Ionesco, etc.) appartenuti ad epoche diverse. La scrittura raccoglie stralci di cronache dell’oltretomba, echi di un mondo ridotto a manicomio psitaccico: luoghi di deiezione, paesaggi col sole spento o inabissato, terre del dio tramontato. Linguaglossa parla con le ombre, che sono spesso bianche e translucide. Ci dà lo scenario del dopo-storia, il basso impero del tramonto dell’occidente, dell’umanesimo, della civiltà.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa

Questa poesia è il doppio fondo onirico della storia contemporanea. C’è un «equilibrio precario» che «regge le sorti del mondo, un fantoccio / tiene le redini di Danimarca, e nessuno / distingue la saggezza dalla follia». Linguaglossa è un contrabbandiere fugace di immagini emblematiche del nostro tempo, della nostra condizione. Le travasa così come gli arrivano dalla Storia, tutta la Storia in gioco, senza alterarle, senza spiegarle, senza ricomporle. Nell’orizzonte del mondo «forse non esiste né deve esistere l’armonia». La Terra stessa è una «cicatrice». E non c’è redenzione:

«Un’onda percorre a ritroso la Storia.

Un angelo gobbo appare sulla soglia. Piange.

“Sei tu l’angelo eletto, sei venuto ad annunciare la discordia?

Guarda, la tomba è vuota, la resurrezione non è avvenuta”.»

Sembra, infine, un poeta tradotto da una lingua europea. Il suo è un italiano dal respiro insolitamente internazionale, intessuto di riverberi europei. Le grandi esperienze della poesia moderna (in particolare slava) confluiscono nel retroterra mediterraneo da cui Linguaglossa proviene, per nascita e formazione: il risultato è avvertibile dentro una scrittura che mette felicemente a colloquio Falstaff e Amleto, le luci del Sud e le ombre del Nord, la commedia e la tragedia, il dialogo e il soliloquio, la leggerezza e la profondità. L’antologia Three Stills in the Frame dimostra esaustivamente che Giorgio Linguaglossa è uno dei pochi poeti italiani in grado di sfondare le strettoie dalla tradizione, anche quella del Novecento, per misurarsi con i più alti esiti della ricerca poetica contemporanea.

Marco Onofrio legege Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma

Marco Onofrio legge Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma

Marco Onofrio Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 9 volumi, tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove” (2013). Ai bordi di un quadrato senza lati. Inoltre, ha pubblicato anche monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it

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L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

Mario M. Gabriele

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