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Cover della Antologia della Poetry Kitchen, Il collasso dell’ordine simbolico, il Punto X, Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina, di Giorgio Linguaglossa, Poesie di Ewa Tagher, Marie Laure Colasson

Poetry kitchen cover

[Ecco la cover della Antologia della poetry kitchen in via di allestimento, opera grafica di Lucio Mayoor Tosi, che segnerà il coronamento di un percorso di ricerca che dura ormai da vari anni. L’Antologia, ovviamente, comprenderà gli autori che con più continuità e determinazione si sono mossi in questa direzione di ricerca]

Giorgio Linguaglossa

Il punto X

La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente, non si pone più il quesito del perché qualcosa ha ragione di esistere e qualche altra cosa no, tutto esiste contemporaneamente, magari in un’altra dimensione, e quindi tutto è contemporaneo. Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina. Tutto dipende da ciò che abbiamo in dispensa, in cucina… a portata di mano. E la poesia la si fa con ciò che abbiamo a portata di mano.

Lacanianamente, il Simbolico è sempre mancante in un punto X. Il punto X è il punto non rappresentabile della rappresentazione. In quel punto il Simbolico non è simbolizzabile. Ma questo significa semplicemente che il Simbolico è simbolizzabile proprio grazie a quel buco lasciato vuoto, grazie a quel punto non-simbolizzabile.

Il processo simbolico funziona così, da un lato opera entro un contesto fantasmatico, dall’altro implica una X non simbolizzabile, un «nucleo reale-impossibile» (dizione di Slavoj Žižek ), un punto vuoto, un punto cieco che inghiotte il Simbolico e che ne consente l’emersione. Ecco che la triade Reale-Simbolico-Immaginario comincia a prendere profondità e senso: il Simbolico è sì la dimensione dominante nell’uomo, ma essa, proprio perché umana, non è concepibile indipendentemente dal Reale (che forclude e che presuppone) né dall’Immaginario da cui è fondata e che continua a suscitare.

Nel seminario lacaniano RSI del 1974-5 questa emergenza fondamentale riveste una funzione psico-sociale, un aspetto individuale-collettivo: la costellazione Immaginario-Simbolico-Reale si dà in un nodo borromeo in quanto discende dal funzionamento dialettico: il Reale è la mancanza che si iscrive nel Simbolico, e l’Immaginario è la cornice fantasmatica che consente al Simbolico di emergere.
Quand’è che si incontra il Reale? Rispondo: la poiesis è il luogo ideale dove si incontra il Reale nel suo travestimento nel Simbolico.

«Quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio- un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic- che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso» (S. Žižek 1999, p.32)
Per esempio, ciò che emerge dal Reale è l’immagine del «tram addormentato» in questo verso di Marie Laure Colasson in chiusura di una sua poesia:

«Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato»

dove è evidente che ciò che è inverosimile e inappropriato (la metafora di «un viso mal rasato e sudato» che equivale al «tram [che] si è addormentato), diventa invece perfettamente verosimile e appropriato.
Questo verso «tradizionale», quasi lirico, posto in chiusura di una poesia kitchen, aumenta a dismisura l’effetto di straniamento della poesia, la rende inesplicabile e insondabile in quanto riporta nel Simbolico la faglia, la schisi che si è aperta nel Reale.
Il Punto X è, in ultima analisi, un Enigma.

Poetry Kitchen Topologia del poetico Cover
di prossima pubblicazione

Marie Laure Colasson

[Marie Laure Colasson è nata a Parigi il 1955 e vive a Roma. È stata ballerina di danza classica. Attualmente insegna danza classica e contemporanea, è coreografa e pittrice. È in preparazione il suo primo libro di poesia, Les choses de la vie.]

Una mia poesia kitchen, tratta dalla raccolta Les choses de la vie di prossima pubblicazione.

12.

Antibiotique citrobiotic probiotique patriotique
Napoléon des tics des tocs pour des yeux verts mimbés de soleil

Un chat voluptueux enfile sa robe indienne à pois
et discute fermement avec les angrais de compostage

Des particules élémentaires au ventre proéminent
montent dans le tramway n’aboutissant à rien

Zigzag le chien de Madame Bonjour avec un lorgnon d’écaille de tortue
lèche une glace au chocolat en conduisant sa Porsche

Eredia rapide s’habille d’illusions électrocinétiques
se rend 11 rue de Nulle Part pour y voir un film muet

Ville palladienne ensoleillée Londre est en effervescence
la couronne de la Reine Elizabeth a disparue
avec le soleil au petit matin

Le tramway s’est endormi comme un visage mal rasé et en sueur Continua a leggere

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Letizia Leone, Le ragioni di una antologia americana di poesia italiana contemporanea, How the Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 & 20.00, Poesie di Chiara Catapano, Alfredo de Palchi, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, (Edited by Giorgio Linguaglossa, Preface by John Taylor, Translated from the Italian by Steven Grieco-Rathgeb)

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926 anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura il cui primo libro è del 1978 Brillanti di bottiglia, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Letizia Leone

Le ragioni di una antologia

Un lettore forte americano che si trovi tra le mani questo elegante volume di 330 pagine rifletterà inevitabilmente sul fatto che in Italia la poesia non è un ‘vuoto a perdere’ ma, erede della più nobile tradizione dantesca, sia ancora in grado di armarsi di una forte autoriflessività filosofica e critica. Insomma, anche nel post-moderno o tardo-moderno l’arte della parola, «l’anello più debole della catena dei linguaggi» (1), riesce ad esprimere una densità gnoseologica tracciando un solco invalicabile con l’atmosfera politico-culturale del paese che la esprime. Naturalmente questa sarà una prospettiva distorta dalla mancanza di informazioni. In Italia si potrebbe morire per intossicazione da scrittura consolatoria e minimalista. Tante piccole e usurate cronache emotive dell’io come pacchetti vuoti di sigarette compilano le collane degli editori storici. Il target promozionale è precostituito. Libretti di stagione, foglie morte per colmare la misura pubblica della futilità, si sa, mentre i Poeti, in numero esiguo, scrivono come antichi amanuensi trecenteschi ai margini. A latere non più dei grandi volumi in folio delle cronache domestiche ma all’ombra dell’audience del reality show di una «letteratura postuma», ingenua e sentimentale, nell’accezione di Ferroni.

Dunque poesia facile, quella che oggi va per la maggiore, operazione di superficie, gioco linguistico incapace di ogni interrogazione sul senso o su presupposti ontologici: «Accade che nella poesia meno accorta di questi ultimi tre decenni le ipotesi poetiche che operavano sull’assunto di una lettura diretta del reale, che il ‘reale’ fosse lì, stabile e duraturo, almeno quanto si pensava che lo fosse, si sono rivelate ingenue e acritiche, si sono rivelate essere ipoteche poetiche piuttosto che ipotesi di poetica.» (2)

Nella sua introduzione critica John Taylor individua il comune taglio prospettico di questa ars poetica. I poeti selezionati dal curatore Giorgio Linguaglossa, nella loro eterogeneità propongono una sorta di nuova poesia modernista italiana (a colmare una lacuna importante nella nostra tradizione) le cui peculiarità il critico statunitense assomma nella formula «versi più massimalisti che minimalisti» affermando che l’elemento più macroscopico è l’orientamento non autobiografico e il riciclo o riuso sincronico dei materiali mitici, soprattutto della tradizione greco-latina.

Scrive John Taylor: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o riutilizzare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste Land e “The Love Song di J. Alfred Prufrock” vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti qui antologizzati.. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare le poesie storiche di C. P. Kavafis che resuscitano questa o quella figura del passato. Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Kavafis, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, per tutto il tempo dando una svolta metaforica al “tonno in scatola”.»

Per John Taylor una domanda è sottesa alle poetiche esplorate nel libro (collegata alla questione dell’oblio della memoria e di una nuova percezione del fattore tempo): «per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o ingannevolmente attraverso qualche improbabile parallelismo?»…«Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ».

Di certo «Il Logos è diventato spazio problematizzato» scrive Linguaglossa in merito al forte ripensamento teorico-metodologico dei poeti antologizzati quasi tutti reduci dall’officina a cielo aperto della Nuova Ontologia Estetica. Una riflessione critica a vocazione interdisciplinare, questa, che si concretizza in una ricca dialettica sulle pagine telematiche della rivista on line L’Ombra delle Parole.

In un pressoché quotidiano engagement dialogico la questione cardine (sebbene sempre presente) non è più quella dei linguaggi, «la verità è che non siamo più dentro la problematica dei linguaggi, per via del fatto che i linguaggi non fanno più testo, si sono extra-territorializzati, sono diventati delle zattere significazioniste…» (3)

Dunque con l’uso di una strumentazione complessa si tratta di ripensare una filosofia dell’arte. Una riflessione disposta trasversalmente tra scienza, filosofia, sociologia e ‘scienze umane’ che porti alla rielaborazione poetica di tutte quelle categorie de-valorizzate dal nichilismo (soggetto, linguaggio, verità, storia, etica). Progetto ambiziosissimo, arduo che si basa di una forma «eterodossa del sapere».

Partire dalla certezza che per oltrepassare il guado di tutti i cliché post-moderni, (dalla perdita del fondamento al crepuscolo del soggetto…) è necessario un cambiamento di paradigma. Una rifondazione, una nuova maniera di pensare il discorso poetico. Una frammentazione di vuoti e di pieni dove il nulla (Nichts) quale tonalità di fondo (Grundstimmung) del mondo dell’uomo, cioè dell’esistenza, risulti «come uno stato emotivo ineliminabile della Nuova Poesia.»

È questa è in fondo la tonalità emotiva fondamentale, la spia rossa che fluttua tra questi testi, la dove l’invito a leggere una certa poesia significa anche quello ad inoltrarsi nell’abitare spaesante, nell’enigma, nelle crepe che si aprono tra i versi.

Da un dialogo impossibile tra Linguaglossa e Heiddegger:
Martin H.: «La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica.»

Giorgio Linguaglossa: «Ma noi non poniamo nessuna domanda al niente, noi ci limitiamo a prenderne atto, ad accettare, come tra due parentesi tonde, che qualcosa aleggi come tra due parentesi graffe all’interno di un grande mare dell’immobilità assente che sta al di là del Nulla e lo contiene e lo sdogana, per così dire.»

Chiara Catapano_2

CHIARA CATAPANO

A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita

1
A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita,
Dovrò presto fare i conti con quanto fa pendere la bilancia
Oltre i confini estremi della misura.
Quando morirò vorrei leggessero Elytis al mio capezzale:
Nessun Cristo migliore della sua Maria Nefèli potrebbe
ungermi la fronte
Prima che il nero mi raggiunga con l’ultimo respiro.
Accompagnatemi a Oxòpetra e abbandonatemi distesa sulla roccia
Come un frutto di mare aperto.
Lasciate che mi dissipi l’aria e non siano i vermi giù in profondità
a svezzarmi:
Sia la natura a pedinarmi e, in segreto, mi assolva
Benché anche per un sol giorno avrò creduto che concretezza è male.
Basterebbe levarsi di torno l’opinione come gli abiti la sera:
Invece stiamo ancora a implorare l’un l’altro approvazione
Per il modo in cui mordiamo il frutto appena spiccato.

Non esiste religione che non comprenda in segreto violazione
Nelle segrete stanze della fede.

Ho chiuso gli occhi come per un miracolo.
Era gennaio e dentro l’estate già s’apre un varco:
Il mio errore sta nell’imporre un tempo unico alle cose
Ed io viverci male, col ritmo del rammendo.
In silenzio l’uomo raccoglie dalla bianca roccia piante selvatiche,
E il poeta dà loro un nome:
E nella pausa tra il gesto e la parola vive l’eternità iterata mille
e mille volte,
Finché anche l’oro dell’icona non avrà rivelato il tuo stesso volto
dipinto da Dio
Sulla tavola nel legno della croce.

Finiamola qui. Voglio abbandonare la paura al crocevia
Dove con mani leggere accetterò la soma della Sfinge
E i quesiti che valgono anche quando ormai tutto è svelato.
Tebe è chiusa in un morbo d’ignoranza, nessun assedio
abbastanza definitivo
Per abbattere le mura ed espugnare la città affamata.

Siamo vivi per puro caso: divinità luminosa liofilizzata
in equazioni
O deposta con velluti e porpora nel più remoto dei remoti cieli,
Porterai sempre il nostro nome.

Cerchiamo comprensione,
per non doverci assumere la responsabilità di noi stessi.

1
Judging by how things go along the ridge of life
Soon I must reckon with what tilts the balance beyond all sense
of measure.
When I die I’d like them to read me Elytis at my bedside:

No Christ better than Maria Nefeli could anoint
my forehead
Before blackness reaches me with my last breath.
Take me to Oxopetra and leave me there lying on the cliff
Like an open oyster.
Let the air waste and scatter me, lest the worms wean me deep down:
Let Nature shadow, and secretly absolve me
Even though I may for a single day have found evil in concreteness.
We would only need to shed opinions like our clothes at night:
Instead here we are still imploring each other’s approbation
For the manner in which we bite the freshly plucked fruit.

There is no religion that does not include a secret violation
In the secret chambers of faith.

I closed my eyes as if by miracle.
It was January, and a passage already opens in the summer:
My mistake is to force a single time upon things
And then live poorly, in rhythm with the darning needle.
In silence man gathers wild plants from the white rock
And the poet names them:
And in the delay between act and word, eternity lives many
thousand times over
Till the icon’s gold also reveal your countenance painted by God
On the panel in the wood of the cross.
Let’s finish it here. I want to abandon fear at the crossroads
Where with light hands I will accept the Sphynx’s burden
And the queries that are still valid after all is revealed.
Thebes is shut inside a plague of ignorance, no siege so final
To knock down the walls and overwhelm the starving city.

We are alive by pure chance: divinity, luminous and rarefied
in equations
Or laid down with velvet and purple in the remotest of remote skies,
You shall always bear our name.
We seek understanding So that we need not be answerable to our own selves.

Onto De Palchi

ALFREDO DE PALCHI

da Paradigma / from Paradigm

Sono il dilemma
che oltraggia la veste monacale usata dalla mente,
e per il suo corpo incolume
sono lo sposo della mensa
adorato ogni notte in ginocchio presso
il letto spogliato quanto te;
la veste intatta ad un chiodo a poco a poco si chiazza
di unguenti spalmati sulle piaghe dell’intimo punire
mentre tenti di fermare la mano surreale che ti accende
e ti invischia nella sua potenza.
La finestra della cella è chiusa, l’uscio sbarrato,
i muri calcinati assorbono le urla mute;
e tu, monacale, divarichi le carni ustionate,
e con bocca saturnina piena di lingua che serpeggia lucifera
avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale — prendimi come vuoi,
in tutte le bocche gonfie di rosa, turgide di passione,
riempiti del tuo salvatore.

4 febbraio 2000

I am the dilemma
that outrages the nun’s habit used by the mind,
and for your unharmed body
I am the groom of the altar,
adored by you on your knees each night
next to the bed undressed as you are.
The garb intact on a nail bit by bit is stained
by unguents smeared on sores in the intimate punishment
as you attempt to stop the surreal hand that ignites you
and entangles you in its power.
The cell window is shut, the exit blocked,
the whitewashed walls absorb your silent screams
and you nun-like divaricate your scalded flesh
and with saturnine mouth full of meandering luciferian tongue
you envelop in the concept my inflamed calvary,
conquered with the religion of your carnal essence—
take me as you will, in all your mouths swollen with rose,
turgid with passion,
fill yourself with your savior.

4 February 2000

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana — la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo il vino
“bevete, questo è il mio sangue.”

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino — simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;
e tu inchioda sulla stessa croce il mio amore
per le sue carni maestose.

Grace Church, NYC, 11 giugno 2000

I
immerse myself in you Christ,
unharmed spirit of my carnal religion
of human beast—my sacred communion
is the manifestation of all you express breaking the bread
“here, eat, this is my body”
and offering the wine
“drink, this is my blood.”

I break myself like the dinner bread
and bleed, like the offering of wine—symbol of precious
blood; I’m the carnivore
the tonguing cannibal devouring the body
drinking the blood of the wound
so that I’ll be remembered:
and you nail my love on the same cross
for her majestic flesh.

Grace Church, NYC, 11 June 2000

*
Perché brucio di calce nel sangue
porgi la tetta nutriente di succhi
all’età che sgela il siero
nella radice ossea

sbiancata
ramifica germi sotto la pelle
terragna di raccolti cereali
verdure al mattino di brina
zucche e vendemmie

dal fondo ciclico di filari con pioppi
e olmi sulle rive del fossato
guizzante di pesci all’alba
arrivi quasi sveglia
nel circolare vortice

hai il sapore del riposo
non gli ultimi voli della notte e il brucare in silenzio
l’odore acre del letame fumigante a mucchi
per i campi di novembre
e la crescita nei solchi con il sole che scala
l’orizzonte della perfetta curva

che si allontana
si allontana e visibilmente si fonde
nel turbine che trascini nell’aria

19 novembre 2007

*

Because my blood is burning white with lime
you feed me the nourishing juices of your breast
at an age when serum thaws
in the bone root

off-color
it spreads seeds under the skin
earthy from the harvest: cereals
vegetables in the dewy morning
squash and vintage grapes

from the cyclical depth of rows of poplars
and elms by the banks of the moat
that flickers with fish at dawn
you arrive almost awake
in the whirling vortex

you taste like sweet repose
with the last nocturnal flights and the silent grazing
the acrid smell of manure steaming in pats
through November fields
and the growth in hedgerows under the sun as it scales
the horizon of a perfect curve

that moves away
moves away and visibly melts
into the whirlwind you drag through the air.

19 november 2007

Mario Gabriele Lucio
MARIO M. GABRIELE

da In viaggio con Godot / from Traveling With Godot

Un Ermitage con combine paintings
di Rauschenberg
e un guardiano al limite degli anni
dove chi va oltre non lascia traccia;
— tanto vale restare qui — ,
disse Alicia che temeva il cambio di stagione.
Non è stato facile lasciare la casa in via delle Dalie.
Giose è rimasto con Benedetta in Guysterland
e con le piccole gocce di lacrime amare.
Quando non è nel Vermont
manda romances and poems.

Non basta un dollaro per incontrare — la Bella Carnap
fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro — .
Sweeney ha oltrepassato il confine,
lasciando un Frammento di prologo
dopo aver salutato per sempre Mrs. Turner.
Abbiamo trovato serpenti nel giardino.
Una sofferenza l’ha patita la farfalla
prima di volare sul concerto
per pianoforte e orchestra di Richter.
Kafka uscì distrutto nel Processo.
Ci fu chi riferì su l’Assassinio nella Cattedrale,
ma i vecchi del borgo giocavano a poker
senza fare nomi.

*

A Hermitage with combine paintings
by Rauschenberg
and a keeper on the verge of retirement
where those who go beyond leave no trace;
“We might as well stay here,”
said Alicia who feared the change of season.
It wasn’t easy to leave the house in Via delle Dalie.
Giose stayed back with Benedetta in Guysterland
and with the little drops of bitter tears.
When he is not in Vermont
he sends romances and poems.
A dollar is not enough to meet The Carnap Belle
made of goat skin and golden hoofs.

Sweeney has now crossed over the border
leaving a Fragment of a prologue
after saying goodbye for ever to Mrs. Turner.
We found snakes in the garden.
The butterfly suffered some distress
before flying onto Richter’s
Concerto for piano and orchestra.
Kafka came out of The Trial in pieces.
There were some who reported on Murder in the Cathedral,
but the old men in the hamlet played poker
without revealing names.

*

Donna Evelina piantò le orchidee nel giardino.
Lucy mi volle con sé a vedere l’erba sotto la pietra.
Un abate ci invitò a salvare l’anima.
— La città — disse, — è un luogo proibito
e l’azzurro è il centro dell’iride — .
Un cappellino di velluto rosso
accolse le lacrime dal cielo
come un’acquasantiera.
Alle nostre panchine tornammo
a spargere semi,
germogliando e appassendo dentro casa.

A piedi nudi ci avviammo
in un bosco di prataioli notturni.
Il freddo ci lasciò contriti,
non indietreggiò davanti ai rami
abbattuti dalla neve.
Non sapeva che da lì, a breve,
sarebbero venute le idi di marzo.

Fernandez non conosceva — Caroline in Sickness — .
“Buenos dias, Senior. Siamo turisti,
veniamo dal Sud per vedere Guernica
e il Ritratto con Maternità
su fondo bianco di Francoise Gilot
e dei suoi due bambini. Ne sa qualcosa? — .
— Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National” — .

*

Lady Evelyn planted the orchids in the garden.
Lucy wanted me beside her to see the grass under the stone.
An abbot called on us to save our souls.
“The city,” he said, “is a forbidden place
and blue is the center of the iris.”
A little red velvet hat
gathered the tears from the sky
like an aspersorium.
Back we went to our benches
to scatter seed
as we sprouted and wilted indoors.

We set off barefoot
in a wood of night champignons.
The cold left us feeling remorseful,
it didn’t retreat before the branches
knocked down by the snow.
It never knew that soon enough
the Ides of March would be with us.

Fernandes was not acquainted with Caroline in Sickness.
“Buenas dias, Señor. We are tourists,
we’ve come from the South to see Guernica
and Portrait with Maternity
on a white background, by Françoise Gilot
and her two children. Do you know anything about it?
“Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National.”

*

Sulla Swiss Air leggemmo I Racconti Ginevrini
e La Salamandra di Octavio Paz.
Si fa colazione insieme, questa mattina, Miriam,
dopo il saccheggio dei sogni.
La notte è cuscino e coperta.
Oh, Principessa, qui davvero comincia il count down!
La stanza accumula fumi, si ridesta al mattino.
Tutto si rallegra in un Buon giorno Madame.
La terra è un braciere. Non vale discuterne ancora.
Già le cose, come sono, ci spezzano le dita.
Non c’è porto sicuro dove andare.
Aspettiamo un miracolo
da Nostra Signora di Guadalupe.
Ora siamo in due a sognare una gita
non prima aver chiuso il giardino,
ritoccato il viso a Marybloom,
così non può dire che la giovinezza è sparita.
L’anno è passato.
La pioggia rivuole le sue note da pianoforte.
Una musica dal sottoscala saliva al cielo.
Natalie Cole cantava Unforgettable.
Ora i miei morti sono quelli che non ricordo.
Gli altri, figuranti nella memoria,
vivono in orizzonti stretti,
se ne stanno in silenzio nel giardino di Klingsor.

*

On Swissair we read The Geneva Stories
and The Salamander by Octavio Paz.
This morning it’s breakfast together, Miriam,
after the plundering of dreams.
The night is pillow and blanket.
Oh, Princess, here the countdown begins in earnest!
The room builds up fumes, reawakens in the morning.
Everything brightens up in a Buon giorno, Madame.
The earth is a brazier. There’s no point discussing it any more.
Things as they stand are already breaking our fingers.
There’s no safe haven to go to.
We await a miracle
from Our Lady of Guadeloupe.
Now it’s two of us dreaming of an outing
not before we’ve shut the garden,
given Marybloom a face enhancement
so she can’t say her youth is gone.
The year is over.
The rain wants its piano notes back.
From the basement some music rose to the sky.
Natalie Cole was singing Unforgettable.
Now my dead are those I don’t remember.
The others, picturing in my memory,
live in narrow horizons,
they keep silent in Klingsor’s garden.

donatella-giancaspero

Costantina Donatella Giancaspero

DONATELLA  GIANCASPERO Continua a leggere

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Poesie scritte in direzione della nuova ontologia estetica di Donatella Costantina Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi, Maria Rosaria Madonna (1942-2002), Gino Rago, Lidia Popa, Francesca Dono,  Brigida Gullo, Davide Morelli, Alfonso Cataldi, Mark Bedin

RedBall Chicago at La Salle Bridge, overhead.

Ruth Perschke, Redball Project

Donatella Costantina Giancaspero

Al quadro manca una ragione

Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.

Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.

Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro i muri
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.

Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.

Commento di Gino Rago

“La remora, piccolo per statura e grande per la Potenza, costringe le superbe fregate del mare a fermarsi; avventura che, come ci racconta Plinio, toccò alla quinquereme dell’imperatore Caligola. Mentre questi ritornava ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l’arresto.
Plinio non finisce mai di stupirsi del potere della remora.
La sua meraviglia evidentemente impressionò gli alchimisti al punto di indurli a identificare il pesce rotondo del nostro mare proprio con la remora. La remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio. Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è il più piccolo del piccolo, più grande del grande.”

Carl Gustav Jung, Ricerche sul simbolismo del Sé
In questi tuoi versi recentissimi, Costantina Donatella Giancaspero mostra di avere sconfitto la remora.

*

Della maggiore poetessa del secondo novecento pubblichiamo una poesia tratta dal volume: Stige, Tutte le poesie (1990-2002)Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 150 € 12, Introduzione di Giorgio Linguaglossa con scritti di Amelia Rosselli e Donatella Costantina Giancaspero.

*

Maria Rosaria Madonna (1941-2002)

Alle 18 in punto il tram sferraglia

Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;

barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.

Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra

col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.

Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.

Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,

la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.

Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.

Gino Rago

Dalla Sez. 1
“Il Vuoto, il Tempo, gli scampoli, la plastica, gli stracci, le piazze, gli specchi” del mio libro di prossima pubblicazione, I Platani sul Tevere diventano betulle, NOE, Edizioni Progetto Cultura, Roma, introdotto da Giorgio Linguaglossa con Postfazione di Rossana Levati. Due poesie:

Gino Rago

1- Dio chiede una recensione…

Il femminile di Dio il suo lato destro
ha chiesto una recensione ai poeti della «nuova ontologia estetica».

di certo le poetesse dell’ombra lo sanno che Dio è dappertutto,
che rovista con garbo nella pattumiera

Il maschile di Dio il Suo lato sinistro
frequenta le bische clandestine, i ricoveri

aperti tutta la notte, staziona tra le vetrate,
tra i bassifondi dei porti
e gli slums delle periferie di Hopper.

Ci ha provato anche con Lucio Mayoor Tosi, Grieco-Rathgeb e Talia
ma non gli hanno dato retta, andavano di fretta,

per una recensione sulla sua creazione
perché i tre lasciano di sé frammenti dappertutto

e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.

Dio si è rivolto ai cacciatori di immagini
perché i tre in poesia rapinano banche,

la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,
si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,

si scompare, per poi ricomparire in altre banche
ebbene, questi versi annoiano Dio, l’Onnipotente

non sopporta questi ladruncoli che giocano a fare
scaccomatto.

Cicche e carte stracce sui marciapiedi,
dalla tavola calda aperta tutta la notte odore di cipolle,

un fiore nel vaso parla con lo specchio:
«è perfettamente inutile che Lei caro signore si ecciti,

faccia quello che sa fare. Faccia lo specchio»

2- Ciò che ci ha amato non ha una via di uscita

L’onda esala odori di libeccio e nei marosi tremano i pontili.
A noi di terra serve per partire nello sgomento della vastità.

Chi valica i fili degli ultimi orizzonti forse più non torna.
Chi s’imbarca per l’esilio farà ritorno come un’ombra,

ciò che ci ha amato non ha una via di uscita.

Lucio Mayoor Tosi

Montepulciano da Woodstock. Quinta stagione.
Ne vorremmo sette. Ma non siamo gatti.

E’ l’inverno dei capelli bianchi. L’uomo che cammina
e affini. Come se parte del corpo volesse fermarsi

per un abbraccio. Che manca. E allora ci si sente
avvolti dalle cose, in una fiaba da finestre sorridenti

al mezzo sole; alla mezza notte; alla via di mezzo,
diceva Buddha; per definizione mortali, quindi morenti.

Ma questo avanzare è con la testa a terra e le gambe
per aria. Va da sé che ridano le finestre – City Square –

se gli sputi una poesia; se il mondo non fosse lasciato
in corridoio a patire perché schiacciato dal cuoio

di scarpe sconosciute. Padri Tall Figure. Comandanti,
più ammirati che innamorati. E quindi l’abbraccio

che manca è un cercarsi. E tutte quelle parole, quelle
parole sono rivolte alla parte destra. Quella senza cuore.

Profilo di braccio, gamba e occhio. Finito. Sì. Meno
di un triangolo. E senza ali. Continua a leggere

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Steven Grieco-Rathgeb – Una poesia, Ο Μαϊστρος (Maestrale) Commento di Chiara Catapano

 

Foto solitudine

Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone/
ero tornato e non c’era più nessuno./ Solo soffiava costante, tenace come un mastino

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com

[Steven Grieco Rathgeb nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

 

Commento di Chiara Catapano

Capita da un po’ di tempo a questa parte ch’io non riesca a distogliere lo sguardo da quei monti del Pindo, da quella Grecia che per alcuni (di noi) più che luogo geografico è coincidente con una qualità dello spirito. Forse meglio dire “oltre quel luogo”, come se una consistenza luminosa – appena materia, quasi spirito – osasse imprimerci un segno e ci spingesse insistentemente ad affermare: “tu sei questo”. Chi l’ha provato, lo comprende di certo con “un senso in più” proteso verso l’infinito. Ciò che desidero fare questa sera è, con quelli che sono i miei mezzi poetici, offrire quel senso nella lettura di una poesia che potentemente rivendica l’appartenenza ad un luogo, forse più reale di quello cui concretamente allude la materia.
E ciò che affiora dalla superficie immateriale – poco più sotto, poco più dentro a quella natura fenomenica di cui parlavo ora – è l’anima del paesaggio. Se noi siamo qui, testimoni dell’avvenimento poetico, e ne misuriamo metrica e intenti, non possiamo altresì dimenticarci della sua stessa anima. Di questa io voglio parlare.

L’anima inconsapevole – perché eternamente assolvente al proprio destino – emerge dalla poesia Μαϊστρος ricondotta a noi dal vento, più in là facendosi trasportare, dove ogni nostra categoria vacilla. Il ritmo dei versi misurato – i movimenti ampi: si sta, si ha l’impressione di stare, a misurare la distanza tra due cavalloni, in mare aperto (con buona visibilità a avanti tutta). E il soffio del Maestrale ci viene continuamente suggerito, e si chiude dove non più udito, tace anche nel verso.
La poesia Μαϊστρος è un addio curioso, perché chi scrive è appena arrivato. Ma è così, l’anima inconsapevole desta nel paesaggio ci fa barcollare; insinua nella sua pienezza la frammentarietà dell’esistenza umana. Come misurarla, se non attraverso un tempo interiore che raggiunge e fa esperienza dell’altra, che sbocca dentro una terra in noi più viva di quella reale?

Abbiamo avuto modo in questi ultimi tempi di lavorare fianco a fianco, S.G.R. e io, così ho potuto davvero calarmi dentro quei versi ai quali rispondevo con particolare incuriosita frequenza: mi ha detto che il Paesaggio, il “suo” Paesaggio, vuol suggerire qui un annullamento, vuole riportare al grado zero lo spaesamento: ci suggerisce insomma la non-nostalgia nel ritorno. Che è quasi un paradosso, un koan, poiché sappiamo che la parola “nostalgia” è naturalmente legata al ritorno e al dolore. Dunque sospesi tra due: due paesaggi (quello esterno e quello interiore), due visioni del mondo (attaccamento al paesaggio o abbandono del doloroso eterno ritorno), ecco vediamo aprirsi il pertugio minino.
Nella poesia lo sentirete sotto forma di dissonanza rispetto alle immagini proiettate nei versi; un campanello d’allarme, che vi farà mettere in dubbio se stiate guardando davvero nella giusta direzione (se stiate davvero osservando il paesaggio che il Poeta vi indica). In quel passaggio aperto da pochi versi (tre in tutto, che lasciano un’eco anche quando noi ci allontaniamo da loro) la possibilità di misurarci con l’incommensurabile: due che tendono all’Uno, oppure a infinite Unicità.
Ma poi questa è la cifra del Poeta in tutta la sua produzione: sempre, mentre i versi si snodano e conducono in una direzione, qualche cosa avviene (pochi suoni-sillabe che insinuano il dubbio): la direzione muta totalmente, siamo presi come cavalli al morso e costretti a invertire la marcia, con grazia certo, ma sotto mano determinata.

I versi son questi:

Nel cieco della luce vado rovistando

E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva

Di nuovo, nel moltiplicarsi smarrito dei miei futuri
quei promontori guarderebbero solo se stessi.”

Nell’economia della poesia, che è quasi un poemetto, sono pochi. Pure bastano, sono anzi perfettamente bastanti, perché qualcosa in più o in meno, e l’incanto non sarebbe. L’incontro con e tra i due movimenti (interno ed esterno, tempo-luogo) non esisterebbe.

[foto di Chiara Catapano]

 

Steven Grieco-Rathgeb

Ο Μαϊστροσ – all’Epiro – Vento E Asfodelo

Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone
ero tornato e non c’era più nessuno.
Solo soffiava costante, tenace come un mastino
attraverso la chiusa finestra
mi soffiava il maestrale attraverso
una fessura nel torace.
Alla finestra soffiava azzurro vuoto il vento
lo stesso che a lungo negli anni portò
avvenimenti luoghi persone, ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio.

Lui che in altre condizioni di tempo, luogo e persona
diventò in mille mascheramenti le tramontane
mareggiate e ventate di scirocco, cozzare di nuvole
e rullio di Golfo, montagne, promontori
fattezze appena accennate su volti fuggenti
ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi e gocce d’acqua
microcosmi che stillano dai rami uno a uno.

Loro continueranno a mangiare pesce
a mangiare sul piattino candida feta: continueranno
nelle stanze fra incrociati letti e masserizie
a morire sotto la croce greca.
La sera accenderanno lumi davanti alle icone
e sarà la preghiera alla Dea Speranza.
Continueranno col nero dei sacerdoti,
con l’ala corvina di quattro secoli e mezzo a sventolare
nel bianchissimo azzurro, a vivere e morire.

Passando da qui, voi avete detto: non capiamo
non vediamo, non cogliamo l’attimo che tu evolvi
pregno di mondo, respiro tenace fuggente nel pensiero
nelle cinematiche figure proiettate
a migliaia su di uno schermo vuoto.

Ma io non scolpisco la luce di Seferis.
Uguale talvolta l’angolo osservato,
il suo mirabile altrove non è mio.
Nel cieco della luce vado rovistando:
nessun asfodelo, solo nerobianche immagini
proiettate furibonde su di uno schermo
che non lascia traccia. Continua a leggere

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Giuseppe Talia, Lettera aperta a Corrado Augias. Gentilissimo Corrado Augias, Le scrivo riguardo alla trasmissione di Quante Storie su Rai3, andata in onda giorno 11 maggio 2018, dal titolo “Servono ancora i poeti?”.

 

youtube Video relativo a  corrado augias Valerio Magrelli franco marcoaldi▶ 30:12
https://www.raiplay.it/…/Quante-storie-62e55f25-48a4-4105-bdf6-dc…

Come giustamente Lei ha sottolineato in apertura, parlare oggi di poesia, in televisione è un fatto assai raro, come è assai raro sentirne parlare a scuola, se non in particolari e sporadici casi di insegnanti sensibili, nei social media in generale, al bar mentre si fa colazione o si prende un aperitivo. La poesia oggi è relegata in una piccola nicchia di addetti ai lavori. Per contro, sono aumentanti in modo esponenziale, in questi ultimi tre decenni, gli scrittori di poesia. Si scrive poesia così tanto facilmente quanto si cucina. Ovunque è un pullulare di piatti, di scodelle, di condimenti, di ricette, e non solo i TV, quanto di libri di poesia pubblicati annualmente, per la gioia di tante piccole e medie case editrici e dei premiuccoli che registrano un fatturato di tutto rispetto. È cosa nota, Lei, sicuramente, ne è informato.

Nella puntata di Quante Storie dell’11 di maggio, ha ospitato due scrittori di poesia tra quelli più noti. Dico scrittori di poesia e non poeti, anzi Poeti, perché personalmente credo che in realtà Lei abbia accolto in studio un professore che scrive poesie (Valerio Magrelli) e un giornalista che scrive poesie (Franco Marcoaldi). I veri poeti, anzi “i pochi, troppo pochi poeti”, come notevolmente ha scritto la poeta Annamaria Ferramosca, oggi in Italia siano merce rarissima. Oggi, nelle fila della poesia italiana vi sono molti professori prestati alla poesia (Magrelli, Buffoni, De Angelis, Villalta), giornalisti, e studentelli senza né arte né parte che, per un qualche misterioso allineamento planetario, pubblicano i loro compitini con Mondadori (vedasi Pellegatta).

Faccio nomi e cognomi, senza remore, perché anni di studio e anni di critica personale mi hanno portato ad avere un mio pieno e indipendente giudizio della cosa chiamata poesia.
Tra i due scrittori di poesia ospiti della sua trasmissione, sicuramente Magrelli è quello che a mio giudizio possiede le più alte qualità di scrittura poetica, anche se, sempre a mio giudizio, la sua scrittura, dopo l’exploit di Ora serrata retinae (1980) e ancora di Nature e venature (1987), si sia assestata sui mottetti di spirito, sullo stile frastico e ritmico dell’epigonismo novecentesco, sul quotidiano insignificante, degno di quella rivoluzione perdente e catastrofica che Montale ha inaugurato con Satura nel 1971. Con Satura di Montale e con Trasumanar e organizzar di Pasolini, la poesia italiana ha smesso definitivamente di avere importanza nel mondo, inaugurando un declino sempre più profondo. Montale, però, ha ricevuto il Nobel nel 1975. Riguardo al nobil premio, c’è sicuramente da dire che i veri poeti, quei pochi poeti di cui dice la Ferramosca, solitamente non lo vincono.
Ad ogni modo, sono significative le risposte dei due scrittori di poesia ospiti in trasmissione alla Sua domanda: “Voi poeti a che servite?” Una domanda da far tremare i polsi, certo, e come hanno risposto il professore e il giornalista? Volare alto, dice Marcoaldi, avendo la patente cedutagli dal padre pilota (barone in questo caso?); per Magrelli, a modo di Zanzotto, la poesia corrisponde ai pixel della televisione, visione di accelerazione, come nel caso della fisica delle particelle, ma, da fine intellettuale qual è, subito dopo cita il formalista russo Šklovskij, il quale afferma che la poesia è una parola frenata. Non vi è alcun dubbio, entrambi gli scrittori di poesia non hanno una loro propria visione e/o definizione di poesia, ma citano, adottando di volta in volta quella più consona, presentandone al pubblico una tascabile, certificata.

“Cresce tutt’i dì più meravigliosa (Carducci).

Rimane il fatto che alla domanda che Lei ha posto, domanda assoluta, nessuno dei due scrittori di poesia abbia dato una convincente e personale risposta.

Significativo, inoltre, che Magrelli abbia confessato pubblicamente che la vera poesia appartenga a poeti quali Paul Celan, suicida, D’Annunzio che sperimentava le droghe, Trakl incestuoso, Sandro Penna o alla Rosselli, sempre suicida. E ci sarebbe a questo punto da chiedere a Magrelli: – perché Lei scrive ancora poesie? Perché scrive ancora poesie da professorino, tenendo a mente che lei non si suiciderà mai, che le uniche droghe, forse, che nella sua vita ha provato o proverà (interessante e inedito il contrario) sono e saranno l’acqua gassata, naturale o con additivi?
Per scrivere opere come Le ceneri di Gramsci o Poesia in forma di rosa di Pasolini, si dovrebbe passare per le sette porte dell’inferno. E mi si perdoni la battuta, i capelli e la pigmentazione della pelle di Magrelli lo collocano naturalmente in un potenziale inferno, ma non basta, non basta, no!
E la parte più interessante di tutta la trasmissione è stata quando i due scrittori di poesia hanno letto i loro testi. Ora, conoscendo e ammirando la Sua, caro Augias (caro come licenza), cultura, io credo che abbia smascherato i due scrittori quando ha suggerito a Marcoaldi di leggere la poesia di pagina 7 del libro Tutto Qui (tutto qui cosa?), Einaudi. Il Marcoaldi, ingenuo giornalista e scrittore di poesia, con la sua bella citazione del bosco e di dio, sempre secondo Spinoza, come Lei ha sottilmente esplicitato, oppure Freud con il test della foresta, aggiungiamo noi, oppure Magritte in pittura, o ancora e meglio la fiaba di Cappuccetto Rosso, fiaba di maturazione, il Marcoaldi con una punta di ingenuità ci è cascato. E di questo le siamo grati, caro Augias.

Molto meglio Magrelli che subodorato la trappola della lirica di maggio, da Lei incalzato a leggere, con la citazione esplicita di Stendhal e con Leopardi alle porte, da buon professore di poesia, ha sviato sul mese di luglio, poema della diversità pigmentosa sull’abbronzatura. E mi chiedo, anzi ci chiediamo, da lettori diciamo specialisti di poesia, perché mai dovremmo comprare il Sangue Amaro del Magrelli, per leggere della sua difficoltà con l’abbronzatura? A Magrelli consigliamo una protezione con filtro UVA 50 e oltre: il sole si sa non è più quello di una volta. Non è più il sole novecentesco, ma il sole del nuovo millennio.

http://www.repubblica.it/scuola/2018/05/29/news/_i_poeti_del_sud_ancora_esclusi_dai_programmi_dei_licei_-197634590/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P6-S1.6-T1

Poesie di Franco Marcoaldi

franco marcoaldi_busto

Valerio Magrelli_3 Continua a leggere

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Biagio Cipolletta Autoantologia poetica, con una dichiarazione di intenti: La Poesia nelle cose, con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Foto tre bicchieri bicolore

Stazione della metropolitana. / Una scala mobile fuori servizio

Biagio Cipolletta, già ordinario di Italiano e Latino nel  Liceo Linguistico e di Scienze Umane a Roma, scrive per riviste letterarie ed è presente in diverse antologie.  Dirige la collana di poesia “I versi del gabbiano” per le Edizioni libreria Croce. Ha pubblicato cinque libri di poesie: Brividi di sole (F. Croce Editore, 2004), Destination Norway (Edizioni Libreria Croce, 2009),  Di città in città  ( Edizioni Libreria Croce 2011), La traversina e il Melograno, Alter Ego Edizione, dicembre 2014, riprodotto in prima ristampa nel marzo 2015 e Il gol del portiere, Augh Edizione, ottobre 2016, riprodotto in prima ristampa nel gennaio 2017.   È tra gli autori-curatori dell’antologia Poesie d’amore, Edizioni Libreria Croce, Roma 2011.

Biagio CipollettaBiagio Cipolletta

 La Poesia nelle cose

 La Poesia, rigorosamente con la maiuscola, non solo non è morta ma oggi più che mai ha tante occasioni in più per manifestarsi. Ovviamente non sempre riesce a far sentire la sua voce nell’assordante vita odierna nella quale tutti più o meno siamo immersi ma se in alcune occasioni siamo capaci di guardare a fondo e oltre le cose intorno a noi e di ascoltare il loro respiro,  il loro battito, ecco allora che la Sua voce prorompe via via più forte ed è subito Poesia.

Cosa c’è di più impoetico, all’apparenza, di alcuni pezzi di ferro? Di fili elettrici serrati in piccole scatole incassate nel muro? Di congegni di silicio presenti in tante apparecchiature elettroniche?

In realtà questi ed altri oggetti inanimati e freddi ci mettono in comunicazione, spesso anche visiva, con il mondo intero e la cosa ha certamente un risvolto poetico in quanto permette, a ben vedere, un’interazione di sentimenti e di anime al di là di taluni  aspetti negativi pur  presenti nei media odierni.

La realtà esiste solo se l’Uomo la coglie, la vive, la analizza o addirittura la crea e di per sé non è né poetica né impoetica ma si colora di Poesia quando un individuo un po’ più sensibile di altri, per alcuni un po’ matto, chiamato Poeta, le dà una vita nuova, la accende, la colora, ne ascolta le voci e in definitiva la anima e la trasforma.

Ecco allora che una banale traversina di legno, logorata e consunta dal tempo, parla e racconta di tante storie di viaggiatori pendolari ascoltate negli anni e con i quali ha instaurato un rapporto strettissimo che la porta a soffrire quando  intuisce che qualcuno sparisce dalla vita.

Poesia, dunque, come capovolgimento del reale, spesso come dilatazione del reale, come aumento del poetabile all’infinito in cui il Poeta va a cogliere e a creare immagini, suoni, musica e parole.

Certo la Poesia ha anche tante altre strade per manifestarsi, per uscire allo scoperto ma mi piace pensare che essa prorompa spesso dagli oggetti più banali e li colori con colei che è oggi la grande assente, vale a dire la Bellezza.

La Poesia, in definitiva, può arrestare il degrado culturale odierno e la caduta verso il regno della Bruttezza creando, di contro, un’oasi di libertà, di sperimentazione, di utopia, e talora di saggia follia per sfuggire al conformismo e all’arido schematismo nei quali la società vorrebbe ingabbiare ogni individuo annullandone le peculiarità per pervenire ad un mondo senza idee e soprattutto senza il Pensiero.

Attraverso la Poesia il Poeta dimostra che una realtà nuova è possibile, che un nuovo mondo si può costruire e allora fa balenare questo mondo prossimo venturo anche davanti al lettore che immaginerà scenari diversi e metterà in azione il senso critico   destinato altrimenti a sparire sotto le pressioni dei tanti messaggi odierni tendenti alla omologazione delle idee.

La Poesia salverà il mondo!

Foto Bicchiere a strisce

Poesia, dunque, come capovolgimento del reale, spesso come dilatazione del reale

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Si dice spesso che l’evento principiale è il silenzio. Ma il silenzio è cosa diversa dal rumore (inteso come ciò che precede il linguaggio) ed è privo di significato. Il fare silenzio è una forzatura, è una imprecisione terminologica. A rigore, l’uomo non potrebbe sopravvivere nel silenzio, il silenzio lo dissolverebbe. Il silenzio (da non confondere con il vuoto), ovvero, l’assenza di suoni, non esiste. In realtà, le cose parlano, parlano sempre, e non possono che parlare in continuazione. L’uomo parla in continuazione anche quando si trova nella più aspra delle solitudini. Così, il vento parla quando passa attraverso le foglie di un bosco, quando incontra degli ostacoli; la pioggia ci parla quando trascorre attraverso l’atmosfera e incontra degli oggetti, e così via… il mare «fragoroso» ci parla attraverso il suo incontro scontro con la terraferma e gli scogli… è l’incontro con le cose, con gli ostacoli, che fa parlare le cose, senza incontro scontro non ci può essere né linguaggio né la parola. Linguaggio e parola possono prendere vita soltanto attraverso l’incontro scontro tra gli uomini e le cose, tra silenzio e linguaggio.

Sono le cose collegate in un insieme che fanno sì che siano esse a parlare. Il poeta deve soltanto porsi in posizione di ascolto. L’ascolto recepisce i suoni, le parole (il silenzio è un altro modo di essere del linguaggio, quando il linguaggio diventa silenzioso), l’ascolto predispone il linguaggio a formarsi, e il formarsi del linguaggio significa predisporre il silenzio all’interno del linguaggio. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio del linguaggio quale sua custodia segreta. Il poeta abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini abitano questa custodia segreta. Non è una prerogativa del poeta quella di abitare il silenzio delle parole, chiunque può attingere il silenzio delle parole attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Un poeta con la sua poesia deve far parlare il silenzio, far parlare le cose. Tutto il resto è assolutamente secondario. Il dire in poesia è questo dire che sta dentro le cose, non quello che è fuori.

Scrivere poesia nella età contingenza e dell’incertezza con uno stile dell’incertezza e della interrogazione, sospesi tra la pesantezza della «cosa» e la leggerezza della «canto del muezzin», tra il quotidiano inodore e incolore e il non-luogo anch’esso incolore e inodore. Una condizione esistenziale legata alla stazione dell’io; affatto drammatica, direi, qualcosa che sta all’esterno del soggetto e dentro il soggetto, quella «Cosa» (Das Ding) che sta contemporaneamente dentro e fuori, che consiste nella sua estimità, nel suo essere, per Lacan «entfremdet – alienato – di estraneo a me pur stando al centro di me», qualcosa tra il familiare e l’estraneo, che sta in bilico tra il detto e il non detto, tra il dentro e il fuori. Una continua interrogazione intorno all’io, nei dintorni dell’io con una interpretazione curvilinea del testo poetico e del testo narrativo. Perché le «cose», a ben guardare, sono curve, il mondo è curvo, l’intero universo è curvo, e forse anche il super universo dentro il quale noi ci troviamo è anch’esso curvo.

Foto Bicchiere con strisce

Una traversina di legno / una sola traversina di legno

Biagio Cipolletta

il canto del muezzin

Ho ascoltato il canto del muezzin
e mi ha affascinato.
Non so il senso delle parole
che vagano nell’aria
ma quella melodia mi prende l’anima.
Voglio pensare che sia
un canto d’amore struggente
di un uomo che ha perduto la donna
e la chiama per ogni via
dall’alba al tramonto
per placare la sua nostalgia.
Voglio pensare che la donna lo senta
e decida di tornare da lui
per dargli ogni bene d’amore
cancellando il passato sbagliato.
Voglio pensare una storia d’amore
che nasce nell’alba di nuovo
e al tramonto mai non muore.
Ma il canto dolente ritorna
e capisco che la donna non vuole
o non sente la voce
di un uomo ormai folle di dolore.
E il canto si ripete all’infinito
nella speranza che ci sia un prodigio
che la donna infine senta le note
ritrovi chi canta per lei in ogni dove
e riempia d’amore le sue notti vuote… Continua a leggere

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Alfredo Rienzi Scelta di poesie e una Riflessione sulla nuova ontologia estetica con una risposta di Giorgio Linguaglossa

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Alfredo Rienzi

Riassumo qui brevemente alcune caratteristiche dei linguaggi della «nuova ontologia estetica»:

“Frammento, frammentazione, de-simbolizzazione, disparizione dell’io, presenza della contraddizione, principio di contraddittorietà, principio di negazione, diplopia della identità, principio di incontraddittorietà, il paradosso, intemporalità, multitemporalità; inversioni spazio-temporali; mobilità degli investimenti linguistico-libidici; indipendenza dell’io dalla realtà esterna; il mondo esterno visto dal «tempo interno»; il «tempo interno» dell’io, il «tempo interno» delle parole; utilizzazione del punto nella orditura della sintassi, ritorno del rimosso, asse metonimico e asse metaforico…”.
(Giorgio Linguaglossa Ombra delle Parole, 29 ago 2017)

Caro Giorgio,
come sai seguo da tempo il tuo lavoro, di sentinella e di timoniere, fin dai tempi della Nuova Poesia Metafisica e di Poiesis. Ora, con interesse, ripagato come lettore con preziosi stimoli e molte sollecitazioni, seguo il dibattito sulla Nuova Ontologia Estetica.
Conosci bene anche il mio lavoro “appartato” che mi ha tenuto e mi tiene sempre poco incline a tuffarmi in correnti, scuole, manifesti e ad aderire profondamente e con costanza ad un modello stilistico o estetico (consapevolmente, almeno).
Ciò non mi impedisce, anzi, mi pare possa funzionare da lente neutra, di osservare lo sviluppo di rivoli, torrenti (e pozze e pozzanghere e paludi) nella poesia contemporanea, pur con i miei invalicati limiti di tempo e competenza. Così facendo, devo laicamente (come si usa adesso dire) confessare che alcuni dei testi più stimolanti li ho potuti cogliere in questo ambito. Dico di quelli di Steven Grieco-Rathgeb, di Mario Gabriele, degli ultimi tuoi e mi fermo qui per non fare obliante torto a nessuno. Testi nei quali mi appaiono chiari e netti molti di quegli aspetti che hai, per ultimi, didascalicamente e con (molto) ampio spettro, riassunto in uno degli ultimi articoli su L’Ombra. (Dove per altro ritrovo altri testi veramente pregevoli, come Le case di Anna Ventura, nei quali però mi pare meno netto il divario – anche contenutistico –con una poesia più lineare e perfino lirico-onirica).

Strilli Busacca è troppo tardiStrilli Lucio Ho nel cervelloNon sempre mi sono ritrovato d’accordo sulla, se ho ben compreso, sterilizzazione emozionale dei testi, ritenendo (e cercando di praticare), piuttosto, una domiciliazione distopica (anche un elenco telefonico può generare emozioni, forse anche commozione: provare per credere!).
E, ancora, le mie lotte nello svincolarmi da un dettato a fondo ritmico imparisillabico mi rendono affascinato dagli esiti di un verso libero e fratto, ma sostanzialmente incapace a praticarlo.

Mi pare un arricchimento del testo, per finire, quella mobilità linguistica e di registro stilistico nel singolo testo, perfino necessitante come sostiene un poeta appartatissimo e finissimo come il mio concittadino Franco Trinchero.
Ma veniamo allo specchio, che rimanda immagini interrogative più che assertive. Una riflessione auto-critica (quindi parzialissima) che chiede confronto. Nulla più.
Mi pare, volgendo lo sguardo ad alcuni dei miei lavori, sempre afflitti da un’ansia stilistica che mi ha finora impedito di riposare su un prodotto finito (e, un attimo dopo, credo moribondo…) che alcune o molte delle caratteristiche che citi le abbia spesso utilizzate, senza avere coscienza chiara di quanto fosse residuo epigonico neo o post-avanguardistico o quanto si ispirasse a una ricerca di un “nuovo estetico” (cui, invero, tu hai spesso accennato, senza che io ne cogliessi decentemente il senso), utilizzando ciò che ho variamente inteso come frammento, scarto temporale, inserti e lacerti metalinguistici e citazionali, ecc.. Molto è restato confinato in testi inediti o in una delle diverse produzioni minori o collaterali, ma talora è affiorato, anche nel recente Notizie dal 72° parallelo.

Più che offrire, quindi, un qualche reale contributo alla discussione sulla Nuova Ontologia Estetica, oltre queste poche righe, ti invio alcuni testi, interroganti. Non so quanto e come smarginino in o si infondano di quelle caratteristiche che eleggi a fisiognomica neo-ontologica. Sono, però, testi datati, scritti senza nessuna attuale (ri)taratura. Chiaro che non mi somministrerei mai un’emulazione scolastica, un esercizio “direzionato”, credo però che certe spore (suggestioni, influenze, appropriamenti) possano diffondersi, senza magari neanche tener conto, dello scorrere ordinato di cause ed effetti. Forse l’intera realtà in divenire somiglia più al caos spaziotemporale di certi testi della “nuova ontologia estetica” che all’ordinato racconto che ci illudiamo di governare.
Un caro saluto.
Alfredo Rienzi

Strilli Transtromer le posate d'argentoStrilli Leone
Commento-replica di Giorgio Linguaglossa

caro Alfredo Rienzi,
è interessante questa tua testimonianza, la pubblicheremo senz’altro, con le poesie annesse… Ci tengo a dirti è che la NOE non è un salotto di letterati oziosi, non è un grimaldello che può aprire tutte le serrature, nel senso che se uno non ha talento è inutile che segua le «prescrizioni» NOE. Io preferirei piuttosto parlare di «piattaforma NOE», una «Cosa» in continua evoluzione, in continuo assemblaggio. Un fatto è dirimente, da lì non si può tornare indietro: bisogna decidere di abbandonare definitivamente il novecento con i suoi annessi e connessi. Il novecento italiano e, soprattutto, gli ultimi cinquanta anni di mediocre poesia italiana devono essere posti tra parentesi.

Se si prende coscienza di questa petizione di principio, allora si capirà meglio quello che i naviganti NOE stanno dicendo e facendo; se non si prende coscienza di questo «fatto», allora è inutile seguire i «precetti», anche perché di «precetti» validi per tutti non ce ne sono nella «nuova ontologia estetica»; quello che nella NOE invece c’è, è un nuovo modo di essere in poesia, è una rivoluzione copernicana rispetto alla poesia italiana degli ultimi cinquanta anni, tutta minoritaria (in Europa). Mi spiace dover essere così categorico, davvero, credimi, mi spiace dover irritare i letterati spocchiosi che scrivono «poesie» oggi in Italia, ma questa è la pre-condizione per accedere alla «piattaforma NOE» e pensare di scrivere come del resto scrivono i maggiori poeti europei di queste ultime decadi, quei poeti europei che abbiamo pubblicato nell’Ombra delle Parole…

Non ti nascondo che nutro qualche perplessità sulle poesie da te proposte, tranne la prima composizione, esse non lasciano presagire una nuova direzione di ricerca, che invece era presente nel tuo ultimo libro Notizie dal 72° parallelo (Joker, 2016), come mai? Tranne la prima, che prosegue il tracciato stilistico del tuo ultimo libro, le altre sono delle scritture diligentemente assemblate ma che non fuoriescono dalla cortina di nebbia della letteratura poetica oggi in vigore in Italia. Il problema, credo, è nello «sguardo», nelle poesie qui di seguito postate lo «sguardo» è frontale, cosa che produce «accecamento» della vista.

Strilli Linguaglossa Tre finestreStrilli RagoScrive sul tema Lucio Mayoor Tosi:

A proposito del guardare «di sbieco» [della poesia di Donatella Costantina Giancaspero]:
Ho notato che nei sogni non esiste prospettiva, o meglio non esiste la nostra partecipazione alla profondità prospettica. Se ad esempio in un sogno ci trovassimo nel mezzo di una strada trafficata, non vedremmo le cose mutare camminando ma assisteremmo solo al cambio di immagini, cose e persone. Qualsiasi azione vorremmo compiere ci metterebbe a disagio, anche parlare. Al primo gesto cosciente che vorremmo compiere è assai probabile che ci sveglieremmo.
In effetti, anche nella realtà di tutti i giorni noi non percepiamo altro che la mutazione delle immagini; è come se non avessimo una percezione naturale della prospettiva, tanto meno della profondità e della lontananza.

Va ricordato che la prospettiva geometrica è stata inventata agli inizi del Rinascimento, quando ancora poche persone sapevano cosa fosse. Per molti si trattò di una specie di risveglio, un vero cambio di mentalità. Ma anche oggi, se viaggiando in automobile lungo l’autostrada fossimo coscienti di percorrere lo spazio in prospettiva, è probabile che andremmo a sbattere: sarebbe come assistere a quelle riprese televisive nelle gare di motociclismo o di Formula 1, dove la telecamera è montata sul veicolo. Tanto emozionanti.
Quello che ho scritto era nelle mie note di qualche giorno fa. Penso inoltre che ci sia un collegamento tra prospettiva (rinascimentale) e scrittura lineare. La scrittura lineare svolge lo stesso artifizio: è prospettica. Quindi sul piano della pura percezione, falsa. Il Rinascimento, al pari con il Barocco, è la base fondante della cultura e della mentalità italiana.
La NOE stabilisce altri criteri di percezione, spesso simili agli stacchi cinematografici. Trovo che questa modalità sia vicina alla percezione naturale di tutte le persone. Continua a leggere

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Laboratorio pubblico di poesia: commenti e poesie al seguito di Ewa Lipska tra Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Daniela Crasnaru, Francesca Dono, Fritz Hertz, Antonio Sagredo, Gino Rago, Nelly Sachs, Chiara Catapano, Lucio Mayoor Tosi, – verso una nuova ontologia estetica

Giorgio Linguaglossa

22 settembre 2017 alle 9:08

E adesso, una mia poesia.
(alla maniera di Ewa Lipska)

«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…
Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più
possibile trovarsi, dove non c’è neanche bisogno
di cercare le scaturigini di alcunché.
Le parole, egregio Signor Linguaglossa,
in questo luogo sono del tutto fuori posto.
Mi perdoni questa ovvietà,
ma lei, mi dicono, è un poeta!
Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole

nella trappola della geometria euclidea.
Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi.
Tutto ciò che ci ha amato,
cari Rago e Linguaglossa, cari Gabriele e Tosi,
e quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…».

Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac. Arietta di Offenbach.  Sorrise. La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano. «Professione?», «Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose. Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto. Cravatta blu a pallini gialli. Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda. «Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi… No, no, non parlo di voi, caro amico… parlo d’altro…».

«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.

Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi

nel suo stesso negarsi.

Che vuole, un gioco di prestigio!

Sì, mi attendo da Voi una risposta.

Una sola, però,

intorno alla de-coincisione dell’essere dal nulla.

E sì…

anche intorno all’Assoluto, che vuole!.
Per questo Vi dò il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà
al numero civico 777 piano terzo scala D,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

 

Mario M. Gabriele

22 settembre 2017 alle 14:16

Signor K, e Signor Cogito, Sig.Gab e Sig.na Evelyn, Sig.ra Schubert, Sig Tosi e Sig. Rago, Sig. Steven e tanti altri Signori e Commodori,ma dove vi siete incontrati? Al Palazzetto dello Sport Linguistico? Abbiamo tutti un indirizzo ed è: il “Quartier Generale dell’ALDILA’, al numero civico 777, vicino alla abitazione di Dio. Ciò che ci ha amato se ne è andato dalla ciminiera Al Centro Impiego cercano “Spazzini”.

 Strilli Espmark Le labbra dell'insegnanteStrilli Busacca Vedo la vampa

Carlo Livia

22 settembre 2017 alle 12:37

La decomposizione delle strutture morfosintattiche, come strumento d’indagine di nuove relazioni tra linguaggio e ontologia, come nell’opera di Zanzotto o Celan, può essere mutata in una decontestualizzazione semantica di sintagmi e frammenti diegetici che rimangono strutturalmente integri, ma assumono diversa funzione noetica, nella trasgressione dell’ordine logico-relazionale, con il risultato di mettere in luce l’irrazionalità latente nella logica convenzionale, come avviene in Lipska e Linguaglossa; è la stessa differenza, più o meno, che sussiste fra la pittura di Braque e quella di Magritte. Ecco un testo in cui ho tentato un’integrazione delle due procedure espressive.

Altra ferita del silenzio
Il corpo allucinante risplende
e scompare nella risata del vento
coi suoi frutti segreti mangiati vivi
L’amore sprofonda nello specchio
pugnalato dalla memoria
Dietro i pozzi degli antenati
vecchie femmine lunatiche sorvegliano l’entrata
Trascino il mio letto per campi lamentosi
la madre s’allontana su fondali d’erba
E’ finita l’attesa
quella lotta d’alberi e belve
dietro la casa di cenere
Ma non riesco a dormire
sotto lo sguardo di questi spettri

Donatella Costantina Giancaspero

22 settembre 2017 alle 20:13

gentile Carlo Livia,

seguo sempre con attenzione e stima i suoi interventi e le sue poesie. Complimenti sia per il commento che per la poesia, molto interessante e coinvolgente… si vede che anche lei sta cercando una poesia diversa da quella che si legge in Italia… inserisca pure le sue poesie sono una lettrice attenta e priva di pregiudizi. Questo è un Laboratorio all’aperto, fatto per poeti senza tacchi a spillo. Ho un appunto da farle. La prima strofa io la scriverei così, togliendo due aggettivi. Secondo me la strofa corre meglio:

“Il corpo risplende e scompare nella risata del vento
coi suoi frutti mangiati vivi…”

a me sembra più scorrevole…

saluti.

Strilli GriecoCarlo Livia

22 settembre 2017 alle 20:59

Grazie, gentilissima, faccio quello che posso, i tacchi a spillo non li ho mai amati, nemmeno come simbolo, malgrado sia di pochi centimetri più alto di Woody Allen. Un caro saluto. Continua a leggere

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Costantina Donatella Giancaspero DIECI POESIE da Ma da un presagio d’ali (2015) con un Commento impolitico di Sabino Caronia – La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità

Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

Commento impolitico di Sabino Caronia

Nella poesia di Costantina Donatella Giancaspero musica e poesia convergono in una medesima esigenza espressiva. La «voce» sarebbe la traduzione di una tonalità dominante in linguaggio espressivo. Il fraseggio della musica, di cui la poetessa romana è una dotta cultrice, trova un equivalente nella dislocazione sintattica, nei refrain, nelle «riprese». È questa una sensibilità tipica della più aggiornata poesia odierna, basta pensare alla poesia della svedese Frostenson, della bulgara Ekaterina Josifova, della rumena Daniela Crasnaru, o della italofona Katerina Zoufalova. Una analoga attenzione alle possibilità offerte dal metro spezzato o breve è presente anche in altri poeti europei come ad esempio il «basso continuo» che dà il titolo all’ultima raccolta della poetessa catalana Josefa Contijoch.

Si tratta di una comune esigenza espressiva della poesia europea più aggiornata, e la Giancaspero si muove senza dubbio in questa direzione. Ma da un presagio d’ali (Milano, La Vita Felice, 2015), è un libro d’esordio che spicca per essenzialità di dizione lessicale, strutturale e stilistica. La poetessa romana conosce bene gli effetti del ritmo spezzato, le pause, il singhiozzo sincopato e improvviso, l’uso sapiente della “durata”; è di qui che scaturisce quel rigore formale che impronta di sé il lessico portato allo stadio minimale: quell’ “arredo minimo,/ appena sufficiente/ per abitare” (pag. 43). Il proposito dichiarato, è quello di “ rimuovere tutto il superfluo”, di “possedere il nucleo primigenio del cuore”, di andare dritto all’essenza delle «cose» (pag. 55). Leggiamo a pag. 70:

Come per un ripensamento,
come se
– a metà strada,
a una svolta,
a un tratto -,
ti fermasse un ricordo,
ti volti,
riprendi i tuoi passi
dal viale al portone…

E ti solleva
un vortice di scale
fin su,
fino a me, alla gioia
di avermi
– varcata la soglia –
negli occhi,
in fondo al respiro…

L’Amore
ci vuole uniti,
sempre:
al più breve
distacco, trasale,
s’infuria,
ordisce tranelli.
E siamo colti
alla sprovvista,
presi alle spalle,
di petto,
gettati

viso nel viso...

I singoli fraseggi sono impiegati come intermezzi atonali musicali. È una voce emotiva che parla e sussulta tra un verso e l’altro. La voce, è una sostanza atonale, utilizzata, alla maniera d’un Bonnefoy, come un leit-motiv in funzione della durata.

C’è l’asciuttezza d’un Bonnefoy e Morton Feldman. C’è Mallarmé, il suo “sempiterno azzurro”, posto di fronte al poeta che “più non sa agghindare il pensiero stentato”. E c’è Debussy, ma anche la «voce» di Helle Busacca, i suoi spigoli acustici e semantici.

È presente un residuo di linguaggio pascoliano: il «predatore implume» che in Le Memnonidi corre avvolto nella sua «anima azzurra», e ritorna in quel «sussurro d’ali» (p. 36), in quel «presagio d’ali» (p. 92), di cui ci parla la nostra poetessa romana, ma è un Pascoli passato al setaccio della disillusione della poesia post Satura di Montale, transitato tra le perifrasi semantiche della poesia odierna più aggiornata: tra secchezza di dizione e espressione aforistica.

C’è, in filigrana, come in lontananza nostalgica, Mallarmé: oltre che con L’Azur, soprattutto con Les Fénètres , per il motivo del «cielo anteriore», delle «ali senza piume». Come Mallarmé, infatti, la Giancaspero non può fare a meno di deplorare quegli scrittori che hanno abdicato alla loro estasi infantile e hanno perso, come lei dice, «la memoria dell’infanzia» (p. 52).

La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità. Le “poeticissime” parole di Giacomo Leopardi sono diventate quelle più usuali, consumate, tradite dall’eloquio del quotidiano.

Quella della Giancaspero è una poesia della «soglia» e della «intemporalità», dove i pensieri e le azioni si susseguono senza nesso causale in un susseguirsi di sensazioni e di emozioni. Il metro breve e sincopato dà, paradossalmente, una grande stabilità a questa poesia così esile che sembra destinata a scivolare e crollare da un momento all’altro in balia di un alito di vento. La poesia della «soglia» si trova costretta a muoversi in quella sottilissima fettuccia di spazio che non appartiene né al di qua né al di là, una terra di nessuno dove regna una sorta di sospensione del tempo.

Una poesia che fa del dialogo interrotto l’epicentro del proprio essere in permanenza inquieto e impermanente.

L’azzurro, dunque, il colore della distanza nello spazio e nel tempo, della nostalgia del mondo dell’infanzia «polverosa» (altro aggettivo inquietante della Giancaspero) ma anche del disincanto, apparentemente vicino e infinitamente lontano (si pensi al cielo «ironico e spietatamente azzurro» di cui dice Baudelaire in Le Cygne) dal “purissimo azzurro” di leopardiana memoria. “Per me l’azzurro – ha dichiarato in una intervista la poetessa – è simbolo di purezza, di profondità, di limpidezza interiore”. L’azzurro è il colore che contraddistingue questa poesia, in una tavolozza che varia dall’«azzurro ideale» (p. 27) all’«azzurro estremo, impietoso» (p. 33), fino al «corrotto azzurro» (p. 36); dalla «falla d’azzurro» che fora il cielo (p. 45) alla «infinita specchiera del mare» che «t’inazzurra lo sguardo» (p. 86) e all’«azzurro mare» (p. 91) che «s’impenna / in cupo azzurro / d’onde» (p. 93).

da Ma da un presagio d’ali, (2015)

*

Abbiamo voluto
dal principio
un arredo minimo,
appena sufficiente
per abitare, e le pareti
vuote – nulla
a violarne con altra identità
il solitario
rigore –

Scabra nudità
esposta
alla luce sontuosa
del mattino,
spalancata
all’occhio,
che la ripensa
materia purificata,
ne scava
ardui contenuti:

un senso duro
della vita.

*

Ma nulla
di ciò che siamo
si mostra in superficie.
Nulla
ci riporta la mente,
pure se la pieghi
in se stessa, se la tendi
fino all’inverosimile,
a scandagliare
il nucleo più segreto
della propria sostanza,
a indagare,
per i vaporosi fondali
del sogno,
l’intrinseca realtà:
uno schermo
la trattiene
e ci lascia
celati a noi stessi.

Solo di tanto in tanto
– contraddicendo
la dura condizione –
un cretto
s’apre qua e là,
a intervalli:
ne sbucano
neri spessori,
cubitali caratteri
di un primordiale alfabeto,
oscuro cifrario
della nostra essenza.

*

È qui
tra blocchi
di attediati palazzi,
per vie trafelate
d’ansia, più impetuoso
che altrove il vento,
se giunge da Nord
e s’abbatte
a colpi di frusta
tutt’intorno,
in uno strazio
d’imposte sbattute
e vasi franti,
a sfogare così
la collera propria
e quella del dio
che ce lo scaglia contro.

Sebbene previsto,
annunciato
da ogni bollettino
del tempo,
è un soprassalto
il suo accadimento
che ferma il respiro.

Ma tu,
aspro avversario
del dio che lo governa,
catturane più che puoi;
volgi altrove,
a una cima arida
di roccia,
quel delirio dell’aria,
trattienilo
in una morbida vela,
materia palpitante,

sonoro vessillo del cielo.

*

È domani

Eppure è già domani
a quest’ora fonda
della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.

È domani,
e non vale la veglia
ostinata, non servono
i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca
del sonno, dove, ignoti,
già tanti destini si compiono,
questo è l’oggi.

Tra poco la notte sbiadirà
in un brusio di appannati risvegli
e frulli, alle finestre, cinguettii,
di luce in luce più canori,
fino al sole pieno,
puntato sulla città.
E sarà azzurro,
azzurro estremo,
impietoso, nel suo occhio
fermo, astratto dagli occhi,
dissuasi, volti altrove;

perché altrove li volge
questo Tempo acuminato:
dov’è vita ferita che dispera
la vita, nei quotidiani martiri,
nelle morti suicide per dignità
negata, nelle stragi,
ai tribolati confini,
dove affonda il cuore

e la notte
di un altro domani.
*

Ti alzi,
ti sollevi dall’oggetto
che ti accoglie
– disadorna sedia,
impreziosita
dall’impronta che lasci -.
Così,
allo scadere
del tempo insieme
sei
per andare
– la mente
tesa al distacco
svolge
un dipanarsi
obbligato di vie -.

Ancora abbiamo sostato
in un ritaglio di vita,
appena per vedere
la sera
infittirsi alla finestra
– esaltare
il lume sul tavolo,
la luce imprecisa
del tuo occhio
che si stempera nel sonno –
e disfarsi poi,
a un tremito d’alba,
per un raggio che s’insinua
e sfora
e scrolla il mondo.

Volgimi le spalle, ora,
qui, nello spazio
compreso tra la porta
di casa
e il tuo congedo.
Evita
lo sguardo, la stretta,
schiva il bacio.
Scendi giù

c’è scampo
in fondo alle scale.

*

Nel riquadro
di una vitrea prospettiva
il giorno t’assale
con bagliori
di nascente sole:
lo vedi
insediarsi
nel tuo riluttante
risveglio,
innalzarsi
supremo
sul tuo sguardo prono.

E spandersi intorno,
colmare
le trafelate arterie
del mondo,
fino a un corrusco declino,
allorché tu,
con brandelli
di luce
ancora nella gola
e membra dolenti,
affondi il passo

nel tuo serale cammino.

*

Non ti sostiene,
nell’imminente azzerarsi
dell’ora,
l’illusione
di chi spera
che ogni nuovo anno
sarà
migliore del vecchio.

Ma esplode già,
in fondo alla notte,
il fragore degli spari:
una guerra
di petardi e bengala
s’abbatte e rimbomba,
ebbrezza di fuochi
che impazza;

che oltraggia
lontano
abbagliati orizzonti
senz’eco
di crollate macerie,
né di sangue
profuso,
conteso,
in mortali partite.
*

Nell’ora
più solare del giorno,
guardando oltre
lo scenario
della realtà che appare,
verso una prospettiva
certa
e interiore,
una notte sopraggiunge
senza stelle,
come un’ala
scherma la luce,
placa il clamore
diurno
e ci cattura.

Per un tempo
che cerca scampo
dalla propria definizione,
noi trascorriamo
nella buia consistenza,
ne respiriamo
la segreta fragranza,
finché ci lascia,
ci ricongiunge al giorno
che la disperde
e ci separa.
*

Può darsi
che il vero sia
nello spazio vuoto
tra segno e segno,
nel tempo muto
che attrae
e smorza in sé
tutte le vibrazioni
tra suono e suono.

Può darsi
che sia
nel punto in cui
scompare
ogni riferimento
tangibile di noi,
dove s’interrompe
il filo sommesso
del nostro parlare.

È possibile
che sia
là dove sconfina
dalle cose la materia,
che sia nell’abisso
in cui dilaga,
fuggendo
verso una stasi
eterna di luce.

sabino caronia

sabino caronia

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) .

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Klaus Miser – “Non è un paese per poeti” (Prufrock edizioni, 2015) “New Poetry”  con un Commento e una Intervista all’autore di Flavio Almerighi

foto donna di strada
.
[Klaus Miser da 15 anni persegue un processo di lontananza dall’ambiente poetico mainstream, con dispersione e non riproducibilità dei testi, spesso presentati con pseudonimi diversi. Le sue poesie si aggirano in circuiti inconsueti, dai bar agli spazi occupati, dalle strade statali ai queer party, dai festival femministi a quelli di teatro, dall’Historischer Kataster di Berlino alle radio indipendenti, dal Cocoricò di Riccione alle stazioni di servizio in Svizzera. Sopravvissuti alla decennale irreperibilità delle sue opere, e tutti con pseudonimi diversi: “Luogo Comune“ (con Dafne Boggeri in “Italian Landscapes”, Luca Sossella Editore), la collaborazione a “Jungle In“ (di Cristina Rizzo, con Alessandro Sciarroni), e il cortometraggio “eppure nessuno parlava” (con Silvia Calderoni). Solo nell’ultimo triennio sono apparsi stralci e recensioni su riviste di settore e le pubblicazioni Kill Your Poet (plaquette a tiratura limitata, Galleria Fragile Continuo  di Bologna) e pescarababylon (Collana Isola, illustrazioni di MP5).]
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Commento di Flavio Almerighi

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Che il mondo non sia un paese per poeti e tutto il mondo è paese, sono dati di fatto. Ho letto con autentico piacere il nuovo libro di Klaus Miser, poesia capace di rimanere in mano e nel cuore. Il motivo è molto semplice, anzi più di un motivo, “november rain a giugno” , oppure “rintoccava quasi la sera sulla statale per Ravenna” oppure anche “io sono la vita sprecata di Klaus”, “smettila di immaginare”, “i greti ghiaiosi dell’oltrepo’ e dell’aldilà” ma anche sugli “scivolamenti confusi/frane complesse”, ma  “siamo nella romagna micragnosa”, passando “loskyline di pescara portanuova”, fino a “la poesia come ultimo grido di aiuto”. Ammetto di essermi divertito molto a sottolineare i versi che più mi piacevano, mentre rileggevo.
Klaus Miser scrive le sue raccolte a partire dal titolo. Ogni poesia insomma è parte dell’acronimo che forma il titolo, ed è divertente per chi legge seguirne il percorso. La forza di questa poesia sta nel ritmo energico, ossessivo, ripetitivo, raro. Quanti “come” ci sono! E i “come” mordono la mano a chi vuole accarezzarli Il libro piacerà soprattutto a chi non vuole annoiarsi su una poesia, ma preferisce specchiarsi e scovare, magari da un treno o su un tram, particolari a sua misura o immagine. In effetti pur con tutti i rimandi alla Romagna che entrambi abitiamo, queste sono poesie della globalizzazione, cui l’autore perfettamente si adatta e si estranea. Ci riesce. Un Simone Cattaneo forse più scaltro e un filo più globale.
Interessante anche la struttura dei brani, privi di ogni punteggiatura, i cui riferimenti di lettura sono definiti dall’interlinea e dal ritmo delle sillabe. Stilisticamente trovo interessante di questo lavoro la sua capacità drammaturgica, molto ben scandita e del tutto predisposta alla rappresentazione teatrale, forse anche cinematografica. Tratto che tra altri giovani ho riconosciuto per ora solo in Luca Ariano. Penso alle molte ripetizioni martellanti anche nello stesso verso, quasi mai c’è un enjambement altro tratto particolare, originale. Insomma, sommando stile e contenuto, qualcosa di nuovo c’è anche da noi, basta saperlo cercare. Autore quindi molto interessante, che va letto e conosciuto.
 .
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.
Brani scelti (la N è la prima lettera del titolo e prima poesia della raccolta, la I l’ultima):

N come non è Bisanzio il paradiso
ma l’esplosione di nuvole sopra powerscroft road
il tacito patto dei salici lungo il Tamigi
november rain a giugno
la topografia ridisegnata dalle vene d’acqua
la salvezza affidata solo ai cervi
niente può più cambiare
talvolta
la resurrezione affidata solo agli alberi che non esistono più
ai gelsi
all’erba piegata dalla pioggia
al poeta matto di shoreditch che chiede sputando one ppp-pound
non un centesimo di meno
N come il succedersi delle stagioni
che mi ama perché io non esisto
come i gorghi neri amano i marinai
solo l’apparire della marea bluastra
come il mondo dalla fine
come un binario morto
il carbone mezzo arso e mezzo no
debacle dentro un bacio
franano le parole come franano i versanti
N come monocromie ancestrali
fiamme ungheresi
inizi balcanici di incontenibili ardori

poesie infinite tra i gasometri
poesie mai terminate in caledonia
poesie tossiche nel silenzio del cielo stamattina
ombre allungate dalle ceneri e dalle braci
tu alla sera rovistavi la brace
il tuo braccio storto dalla vecchiaia come metronomo latente
scandiva un tempo preciso stabilito una volta per tutte
arso nelle braci del ricordo
combustione di cieli azzurri
sinfonie mute

hai visto la paura o i frati neri o la sua foto fatta a pezzi?
il giubileo non della regina ma di santo derek jarman
protettore dei muri rossi
degli addomi trafitti
della carta da parati
dei faggi al sole che vivono fuori dal cerchio del tempo
fuori muoveva ancora un formicaio di vanità
melodrammi privati
scarpe perse per strade
una settimana di ferie all’anno
3 pappagalli alla sbarra
estasi di tabacco e samovar di antichi riti
2 cugine di nome Heather
5 metri quadrati di soffitti pieni di preludi e di muffa
i cieli del 27 aprile oltre i vetri
36 anni nello scoraggiamento
di un facchino biondo ai mercati generali
4 lumache si infilano dentro la cornetta dello yorkshire
la francese ripeteva alla cornetta voglio solo un vestito vittoriano
voglio solo venire da te
la cornetta era staccata
staccata la retina per non vedere più

lago morto ristagni d’acqua nei vicoli
la pozzanghera e l’altra scarpa mancante
un assolo e un cavaliere tutto rosso
di timidezza e di quattrocento
finisce la strada con la puzza dei moli
finisce la sera insieme a un strip tease da suicidio
una sera nautofono e vetro
finiscono le sigarette e pure le stanze d’albergo
solo le donne e la poesia sono gli occhi di dio
la ragazzina tossica mi accompagna a brick lane
ha le unghie rotte e lo smalto impreciso
rioni di case popolari
gli emozionati e il mangime nei tuoi quadri
nei miei solo penombre provvisorie

I’m coming home e tu non lo sai
goodbye blue sky goodbye

 
Il Settembre del 1912
fu un mese difficile
sangue e umore corporali
forse una sera piena di stelle
e un sorriso color viola
una frana imminente
e un’ asciuttezza obbligata
l’intero viaggio fu una vita difficile
primavere precoci e pentecoste di viole
esplosioni di riso immotivato
cartografie distorte di dimore mai abitate
dispersione dei toni e diluizione di colore
persistenti orizzonti sfocati
acciai temperati e sere dolci
I come infine
infine questo futuro
che sa di stravecchio

N come non è né il sangue di cristo
né quello di lord nelson
c’era piuttosto un irlandese che perdeva sangue
per strada a Dalston
guardava il marciapiede e gli scoli
come fossero cristo
N come non sono quel genere di persone che fa colazione
sono comunque in odore di santità
grazie ai mie slip porpora
e laghi bianchi
larghi malcontenti
apatie ridenti
esecuzione random di celesti seriali
morti immolati
per salvare il pervinca

chi tenta di uccidere un orso
non avrà indietro né il suo manoscritto
né tutte le promesse mai mantenute

klaus-miser

Klaus Miser

profezie in righe di 9

P come dappertutto danze oscure
come l’universo laggiù
come stanze tiepide a barbes dove morire di noia
a furia di dolore ci mangiammo pure il dolore
P come perfino io
che non ho mai fatto la resistenza
se non ai miei stessi desideri
non ho avuto felicità da allodole sui fili
ma filiformi mattini di sigaretta
nella vecchiezza delle città
e grasse infelicità da resistenze inutili
nessuna soluzione di continuità
e corti circuiti celebrali
niente cugini russi a caccia di farfalle
ma solo nonni emigranti che sono pure tornati indietro
nel cappello una violetta
e sono tornati indietro tachicardie clandestine
epilessie da samovar e sdoppiamenti
di filiformi mattini dentro la vecchiezza delle città
e mai più i soffi di aprile dell’82
io che non ho mai avuto respiri oceanici
ma solo pozze adriatiche
al massimo un ventolin nei jeans

una sinfonia struggente per avere tutto
e non avere niente
io sono la vita sprecata di klaus
fallire la mia vita
è stata la mia ambizione più riuscita

Klaus Miser 2

Klaus Miser

Alcune domande di Flavio Almerighi a Klaus Miser

Domanda: Come nasci in poesia? Da quale necessità? Mi faresti una dichiarazione riguardo alla tua poetica?

Risposta: I poeti non dovrebbero esprimersi sulla propria opera!

La gentilezza di Flavio Almerighi mi spinge ad aggiungere qualcosa. Con il linguaggio poetico  sperimento una demolizione del reale, cerco di evocare cronicamente una alterità.

Mi ossessiona il rapporto tra segno e tempo.  In questa assenza di soluzioni di continuità, riscrivo continuamente un  un cut up circolare e programmatico. Programmatico perché per me la poesia è un atto politico e mi interessa una struttura che contenga in sé le variazioni della struttura … una sorta di mise en abyme, di fluttuazione prigoginiana, che dia  vita ad una molteplicità di realizzazioni drammatiche diverse. Confondo  la forma e il genere, personaggi e paesaggi, la flora vs il linguaggio eterocentrico, allucinazioni ed esondazioni, un cut up atemporale che evoca continuamente una alterità.

Domanda: Un po’ di storia, curriculum e rapporti con le case editrici.

Risposta: Il mio percorso è stato anomalo, una sorta di autoemarginazione  dall’ambiente poetico s.s.  

In quasi due decenni di scrittura e moltissimi reading, nei posti più disparati, ho sempre preferito  la dispersione dei testi, la non riproducibilità e l’anonimato, cambiando spesso pseudonimi.   Molte collaborazioni con musicisti, mondo teatrale e queercrew, danzatori, pittori, artisti visivi. Soprattutto musicisti, quest’estate ad esempio ho collaborato a soundscapes di Jacopo Benassi, fotografo, e Fabrizio Modenese Palumbo, Paul Beauchamp e Jochen Arbeit degli Einsturzende Neubaten. Ho sempre prediletto un approccio alla Emilio Villa, scoperto ahimè solo negli ultimi anni.

Le poche cose edite sono nate con progetti altri :

Luogo comune, in Italian Landscapes, Sossella Editore, dal progetto con Dafne Boggeri.

Eppure Nessuno Parlava, cortometraggio con Silvia Calderoni.

KILL YOUR POET  plaquette in tiratura limitata, Galleria Elastico per l’omonima performance mai ripetuta.

E infine pescarababylon per L’Isola, collaborando con MP5 che lo ha illustrato, e Mariagiorgia Ulbar ed Andrea Bruno che l’hanno prodotto. Non è un paese per poeti invece fu inviato, inizialmente a mia insaputa, dalla Ulbar all’editore Luca Rizzatello di Prufrock Spa.

Domanda: Parlami dei tuoi reading così diversi dal solito mortorio di sale vuote.

Risposta: Per me i reading sono un atto liberatorio, riesco a dimenticare quello che scrivo, le mie stesse poesie diventano estranee,  smettono di essere mie e diventano solo di chi ascolta. Mi interessa che ognuno disponga di molti gradi di libertà, sia nel testo che nell’ascolto, perché la bellezza è sua.  Forse è questa urgenza nel condividere il potere eversivo  della poesia che arriva, ma bisognerebbe chiederlo al pubblico.

Flavio Almerighi foto

Flavio Almerighi

Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia “Allegro Improvviso” (Ibiskos 1999), “Vie di Fuga” (Aletti, 2002), “Amori al tempo del Nasdaq” (Aletti 2003), “Coscienze di mulini a vento” (Gabrieli 2007), “durante il dopocristo” (Tempo al Libro 2008), “qui è Lontano” (Tempo al Libro, 2010), “Voce dei miei occhi” (Fermenti, 2011) “Procellaria” (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti)

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POESIE SCELTE di Paolo Statuti da “La stella errante” (2016), con 2 poesie inedite e 14 poesie edite – Commenti di Nazario Pardini e Giorgio Linguaglossa

de_chirico sole_sul_cavalletto_1973Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: Il principe-albero e Gocce di fantasia (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo L’albero che era un principe (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).

Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.

Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi. A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska e Tadeusz Rozewicz.  Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

pittura Henri Matisse 1941

Henri Matisse 1941

dalla Prefazione di Nazario Pardini

«…ciò che muove questa nostra avventura terrena… si riverbera in un canto “splendidamente monotono”, come sapeva dire, da par suo, Cesare Pavese della poesia. E qui ciò che domina è quella semplicità espressiva che i poeti raggiungono solo dopo anni di pensamenti, di meditazioni, di rielaborazioni di dati e suggestioni. Sta qui la grandezza del poeta: saper spiattellare su un vassoio d’argento un’anima zeppa di ogni conflittualità interiore; nel saperla proporre con spontaneità, e con un linguismo accessibile e conturbante; diretto e arrivante.

La cosa più difficile per uno scrittore è quella di saper tradurre l’intimità culturale e intellettiva in semplicità verbale. È quella la continuità, la monotonia che un poeta deve raggiungere perché ne divenga il marchio di fabbrica, il suo copyright; a ché nel tempo si faccia originalità e compattezza del suo poetare. Vita, sì! Qui c’è tutta con il potere del sogno, dell’amore, del memoriale, dell’inquietudine, della saudade, e della coscienza del tempus fugit: “ogni sera l’ombra ti fa muta”. Luci e ombre che nella loro simbiotica fusione offrono quel substrato di melanconia che fa parte del fatto di esistere. Ed è già presente, fin dai primi versi, la 6 Prefazione visione di un tempo che logora senza pietà, consumando le nostre speranze, le nostre illusioni.

.

(…) La sera faccio il bilancio
della giornata:
non è mai poco
non è mai molto
è quello che mi aspettavo
Affrettatevi però
prima che mi scada
la licenza di vendita (La bancarella)

.

Un bilancio abbastanza triste, che scaturisce da una visione obiettiva e oggettiva del mondo che attorno ci ruota senza sconti; un redde rationem ultimativo e finale sul nostro soggiorno umano; una licenza che non può essere rinnovata e che segna la scadenza del nostro esser-ci. Il Poeta parte da piccoli fatti, da realtà minime che ci stanno attorno, e con abilità metaforizzante, con giochi analogici, sa elevarsi al di sopra della stessa realtà per trarne conclusioni di generoso impatto emotivo; una fede che gli permette di trasferire all’azzurro le bellezze del Creato. Sono tante le configurazioni fenomeniche e le vicissitudini esistenziali accumulate negli anni. È lì che hanno covato, nel suo animo, trasformandosi in immagini di valore ontologico. Ed è da lì che l’Autore attinge per fare della sua storia un “poema” denso di intimi riflessi, di giochi di melanconica terrenità.

.

Lo sai che senza di te
non potrei vivere
che senza di te
non potrei nemmeno morire (Malinconia)

.

D’altronde gli ingredienti più redditizi per un canto di effusione lirico-emotiva sono proprio la memoria e il sentimento: una fecondità con cui tornano in campo
antiche primavere. È in quelle che il Poeta si rifugia per sfuggire alla tristezza della quotidianità. Ne fa un’alcova rigenerante, un mondo virtuale zeppo di volti e accadimenti di forte impatto umano.

.

A volte tornano immagini dimenticate
come nuovo stupore
a volte tornano parole dimenticate
come nuova scoperta
a volte tornano persone dimenticate
come nuova amicizia o nuovo amore
e ogni anno torna
il fresco odore della primavera
e il dorato sorriso dell’autunno
e ogni volta
l’anima ringiovanisce un po’
eppure è sempre più vecchia (Ritorni)

.

Ed è proprio la natura, con i suoi frammenti cromatici, con le sue parvenze simboliche, a farsi collaboratrice fedele nel ritrarre un esistere zeppo di sottrazioni, di autunni cadenti, o di soli imbronciati; nel farsi volume di un essere in cerca della sua consistenza.

.

Il fruscio delle foglie secche
punge il corpo
come vespa invisibile
sbatte una finestra
con monotona perfidia
oggi anche il sole fa il broncio
*
sbocconcellato da una grigia trina
che puzza di pioggia
se tu almeno fossi qui
mi diresti
che il fruscio delle foglie
è uno scherzo di Chopin
che la finestra che sbatte
è una tachicardia
e che una lettera non scritta
non è poi la fine del mondo (La lettera)

.

Ritratto perfetto di un mélange fra sentimento e ricordi che, col suo procedere monotono, sembra voglia potenziare l’epigrammatica condizione intimistica del Nostro: l’abito chiaro, gli occhi spenti, i saluti plastificati, le avide occhiate, il clic degli interruttori, i sogni, i ronfi, le coscienze archiviate. Tutto si condensa in una spietata successione di fatti e momenti, di sguardi e profumi, di suoni e gesti che danno luogo a una continuità scontata, a un persistere di accidents vissuti e rivissuti.

.

(…) L’abito scuro della sera
gli occhi accesi delle case
le avide occhiate
il clic degli interruttori
il cigolio delle reti
i sogni i ronfi
le coscienze archiviate (Continuità)

.

Ma non è raro che l’attenzione e la sensibilità del Poeta si soffermino su visioni accattivanti, su oggettivazioni traslate con interventi di natura etimo-fonica e simbolica di resa immaginifica per una sana poesia.

.

Roma, ogni notte
ti getti nei vortici
del tuo amante
e scorrete insieme
finché la draga dell’alba
non ti ripesca
grondante di luce
e di amore (Roma)

.

Una vera pittura suggestiva, una vera pennellata forgiata con ars inveniendi dove l’alba si fa draga grondante di luce e di amore: sinestetici tocchi ricamati di merletti fatti a mano; lavorati da mani artigiane aduse a tagli e ritagli;
a fantasie di urgente creatività. Né mancano sorpresa e meraviglia dinanzi al mistero che avvolge e sconvolge un poeta cosciente della miseria umana quando prova a misurarsi col tutto; dacché c’è questo tentativo da parte sua di avventurarsi in navigazioni di difficile approdo, in contemplazioni di stelle e di infiniti che lo sperdono in mondi impossibili, in contemplazioni stranianti.

.

(…) Una strada buia
in montagna
camminando a testa in su
pensando
ora la Terra è inerme
sotto il fuoco incrociato
del Cielo
Stelle leggiadre e superbe
sprofondate nel baratro dell’infinito
sembrano sapere qualcosa
e di tanto in tanto strizzano l’occhio (Stelle)

.

E l’opera si dipana in confessioni di un lirismo accattivante ed energico, dove il verso, con plastica morbidezza, accompagna i picchi ispirativi, le vertigini paniche e le meditazioni vitali […] Un caleidoscopio di perlustrazioni emozionali e di incontri onirici che rende questo “poema” plurimo, polivalente, disteso su scarti semantici e soluzioni linguistiche lontane da insidie di luoghi comuni e di epigonismi.

pittura Henri Matisse - 1947

Henri Matisse – 1947

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Paolo Statuti fa poesia coma fa pittura, pratica olio e pastello per quadretti postlirici lindi e pinti, ed essenziali, con un tocco magico di ironia e una componente surreale che è poi la sua compagna di viaggio domestica. Un donchisciottesco mulinare di mulini a vento lirici questi versi di Statuti, come indicano sia la copertina che la immagine posta su di essa. Il suo concetto di poesia è la semplicità, la domesticità, l’essenzialità avulsa da astratti intellettualismi e chimismi lirici o antilirici; per Statuti  la poesia è come la vita, misteriosa e inafferrabile, non la si può arrestare nell’attimo del tempo storico ma scorre via fluida e sfuggente come l’acqua, è una «stella errante»  che non si sa da dove venga e non si sa donde va. Una stella solitaria che la Musa si diverte ad incendiare d’un fuoco fatuo e debole. La poesia di Statuti ama indossare il saio francescano, i sandali di Francesco, la divisa della povertà, non ama la poesia degli intellettuali, costipata di intelligenza e di indigenza spirituale. Credo che la Musa ami questa poesia, perché la Signora rifugge l’inautenticità dei letterati e la noia dei supponenti; che sono poi le medesime ragioni che me la rendono affine e intimamente autentica.

pittura Henri Matisse - 1939

Henri Matisse – 1939

Due poesie inedite

Roma

Roma, ogni notte
ti getti nei vortici
del tuo amante
e scorrete insieme
finché la draga dell’alba
non ti ripesca
grondante di luce
e di amore.

Nato con la camicia

80 anni fa…
Forse sono nato con la camicia, forse…
di certo so che avevo occhi
di un azzurro inquieto –
come disse mia madre –
mani destinate a scrivere
e a dipingere,
orecchie sensibili
a parole e suoni…

Ora sono qui
in una camera d’ospedale,
con un orecchio sordo
che cercano di riparare,
e mi giungono ovattate
le parole del medico di turno:
“Come sente, signor Paolo?”
“Sento un fruscio di bosco,
ma non gli uccelli,
sento la brezza marina
ma non il grido dei gabbiani,
sento il mormorio del mare
ma non il fragore delle onde.
“Beh, lei può dirsi ancora fortunato” –
afferma il dottore.

Fuori della finestra
le nuvole scorrono pigre,
al cielo grigio
fa da tappeto
un bosco scuro,
guardo gli alberi
insolitamente immobili –
la quiete prima della tempesta?
Paolo Statuti Copertina 'La stella errante'Poesie di Paolo Statuti da “La stella errante” (2016)

Vita

Ogni giorno vai smerciando astuta
il logoro corredo dei tuoi stracci,
ti sforzi di ridere e scherzare
ma ogni sera l’ombra ti fa muta.

Il gufo

Solchi i flutti della notte
senza gorgheggi senza frulli
scivoli via silenzioso
sovrano del buio
i tuoi occhi – una corona
di topazi e smeraldi.
Come vorrei potermi celare
nelle tue soffici piume
e accarezzare con te
il velluto della notte!

A Masečín

A mia figlia

Il gallo chicchiriava presto
la mattina,
ma non m’infastidiva,
anzi mi rallegrava.
Schiamazzavano le galline
e ognuna credeva
d’essere la favorita.
Scrosciava la pioggia
e scorreva via,
scorreva via
come la vita.

Senzatetto

Ho dato qualcosa a un senzatetto,
mi ha sorriso e ringraziato:
grazie tante, signore…
vede, io sono schiavo
della mia povertà,
ma sono felice
della mia libertà.
Poi se n’è andato.
Lo guardavo allontanarsi:
lasciava sul terreno
le sue enormi impronte
di umanità.

La lettera

Il fruscio delle foglie secche
punge il corpo
come vespa invisibile
sbatte una finestra
con monotona perfidia
oggi anche il sole fa il broncio
sbocconcellato da una grigia trina
che puzza di pioggia
se tu almeno fossi qui
mi diresti
che il fruscio delle foglie
è uno scherzo di Chopin
che la finestra che sbatte
è una tachicardia
e che una lettera non scritta
non è poi la fine del mondo.

Ho visto un uomo…

Ho visto un uomo
con un buco nella scarpa
Il vestito mostrava
il lungo sfregamento
contro il tempo
Si è avvicinato al banco
dei liquori
la vodka nei suoi occhi
sgorgava dalla roccia
saltellava allegra
tra i ciottoli
la fissava pensando
com’è fresca
com’è limpida
peccato…
Mansueto mi ha sorriso
e se n’è andato
come Adamo –
cacciato dal paradiso
Ho visto un uomo
con un buco nella scarpa

Il sorriso della rosa

Ad Olga

Quando la rosa si schiude
sorride
e dai petali affiora l’anima,
come dal viso della Gioconda.
Il suo colore non conta,
la rosa è sempre bella,
e sorride…sorride
fino all’ultimo sospiro.
Le spine sono il suo destino,
il suo ornamento ingiunto,
la lieve malinconia
del suo sorriso.

Poesia

Se non sai cos’è la poesia,
immagina d’esser sordo
e udire scendere
dal cielo un accordo…
immagina d’esser cieco
e vedere accendersi
il fuoco del tramonto…
immagina d’esser muto
e poter dire:
tu piccola stella
risplendi, tremando
d’infinito…

Vecchio violoncello

Vecchio violoncello
annerito dal tempo
e accantonato
come una cosa inutile
ora sei come un fiume
di voci imprigionate
di carezze represse
sei come un nido abbandonato…
Ricordo il nonno
che ti stringeva a sé
per eseguire “il Cigno”
tutta la casa allora si fermava
per ascoltare
e anche gli uccelli tacevano
solo le tende vibravano
la sala si mutava in un lago
e il cigno scivolava via
fiero della sua bellezza
e del suo soffice candore
e noi lo seguivamo…
Com’è irreale
ora il tuo silenzio
rotto soltanto
dai rumori della strada
che non cessano mai…

Tadeusz Różewicz Paolo Statuti 1990

Tadeusz Różewicz e Paolo Statuti 1990

La mia ultima preghiera

Mio Dio,
quando mi chiamerai,
accoglimi con un sorriso
per come sono,
per quello che ho fatto
e non fatto nel bene e nel male,
non essere un giudice severo,
sii misericordioso,
ma con tutto il cuore t’imploro,
non farmi tornare mai più
su questo Pianeta:
potrei essere un corrotto
o un terrorista,
un padre senza lavoro
oppure un analfabeta,
un mafioso o un camorrista,
un bambino che muore di fame,
un clandestino annegato,
una donna violentata,
una pianta malata tra i rifiuti,
un pesce soffocato dalla plastica,
un uccello avvelenato
dall’aria inquinata.
Se devo rinascere, mio Dio,
trovami un luogo
nell’immenso universo,
lontano dall’uomo
e vicino ai saggi animali,
e se mi vedrai triste e solo
mandami un Tuo angelo
con tre ali,
sì, un angelo poeta,
musicista e pittore,
con una poesia da tradurre,
una cantata da ascoltare
e una tela da dipingere insieme.
Grazie, mio Dio e adesso –
l’ultimo favore –
che la mia anima
sia per sempre preda
del Tuo Infinito Amore

Il pianoforte

Pianoforte di casa mia,
pieno di tarli e di nostalgia,
che bel suono un tempo avevi,
quanti applausi ricevevi!
Ora sei solo con le corde antiche –
le tue mute care amiche.
Ricordo che cantavo con te
Fior di giaggiolo: eravamo in tre
con la mamma che accompagnava,
mentre Beethoven ci guardava.
Vicino a te pende ancora il diploma
che la mamma prese a Roma.
Ora vivi solo di ricordi
di tante note, di tanti accordi.
Chopin ti ha lasciato la sua impronta
e quando fuori la pioggia gronda,
risuona il preludio della goccia,
che batte e ribatte sulla roccia…
Vecchio pianoforte così scordato,
Pieno di acciacchi e così forato,
La polvere che copre la tua armonia
è la cipria del tempo che vola via.

La Festa dei Morti

Oggi i Morti sono assai indaffarati:
all’alba sono già svegli
si fanno gli auguri a vicenda
si baciano e si abbracciano
si presentano ai nuovi abitanti
poi si preparano ad accogliere
con gioia chi li viene a visitare
coi fiori in mano
e il passo incerto
Oggi i Morti rivivono con noi:
ascoltano i nostri sospiri
leggono i nostri desideri
asciugano le nostre lacrime
o fotografano i nostri sorrisi…
pregano con noi
Poi quando ce ne andiamo
e il silenzio torna ad avvolgere
i marmi le fronde e i lumini accesi
ancora per un po’ ci pensano
poi si riaddormentano felici
cullati dai nostri ricordi

Volava una nuvola…

Volava una nuvola
sfiorando le guglie,
lasciando sui tetti
batuffoli bianchi.
Rumore di passi:
qualcuno a casa tornava,
e come la nube
brandelli di vita
sulla strada lasciava.
Raccolse un ramo
e lo scagliò lontano,
poi come distratto
accarezzò due gatti
e un cane randagio
e salutò la luna.
Chi era?
Chissà,
forse un poeta

 

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POESIE di Annalisa Comes AUTOANTOLOGIA da  “ouvrage de dame” (2004), da “Racconti italoamericani” (2007), da “Fuori della terraferma” (2013) Poesie Inedite

Fayyum ritratti di donne romane 120 - 140 d.C.

Fayyum ritratti di donne romane 120 – 140 d.C.

Nata a Firenze nel 1967, Annalisa Comes vive tra la Francia e l’Italia. Dottore di ricerca in Filologia Romanza e Italiana, specializzata in «Giornalismo e Comunicazione», attualmente svolge attività di ricerca fra l’università di Nancy (Lorraine) e Verona con una tesi di dottorato sulla letteratura italiana per l’infanzia.
Ha tradotto e traduce dal francese per le case editrici Le Lettere (fra cui : M. Cvetaeva, Il ragazzo Premio « Monselice-Leone Traverso Opera Prima » 2000, in corso di stampa la nuova edizione), Donzelli (fra cui Prosper Mérimée, Tutti i racconti, 2004 – segnalato al Premio Monselice 2005), Voland, Nutrimenti, Lantana. Ha pubblicato saggi e articoli su riviste italiane e straniere occupandosi di letteratura medievale e contemporanea (« Critica del testo », «Cultura neolatina», «Studi mediolatini e volgari», «Anticomoderno», «InVerbis»), di cinema e fotografia («Multisala International» e «The Scenographer»). Ha curato le poesie e le note filologiche dell’opera poetica di P.P. Pasolini per le edizioni Mondadori (I Meridiani 2003), l’edizione critica del poeta siciliano Rinaldo d’Aquino ( Poeti della Scuola Siciliana, Mondadori, I Meridiani, Milano 2008). Nel 2014 ha redatto l’Introduzione di Marina Cvetaeva, Lettera all’Amazzone, Editori Riuniti Internazionali, Roma (prefazione di Erri de Luca, traduzione di Angelo Pavia). In corso di stampa presso Lantana (Roma) la sua biografia di Astrid Lindgren Una vita dalla parte dei bambini.

Ha curato la prefazione del libro di poesie di P. Sanna, L’ombra dei minareti (Maremmi Editori, Firenze 2006) e la postfazione del libro di poesie della poetessa polacca Julia Hartwig Sotto quest’isola (Donzelli, Roma 2007). Allieva di Amelia Rosselli, ha vinto diversi premi di poesia tra i quali: Premio Internazionale «Eugenio Montale», «Dario Bellezza», «Giuseppe Piccoli», «Artisti di strada» e il Premio Speciale «Città di Roma» per la poesia 2007. Le sue poesie sono pubblicate da De Arte, Crocetti, Passigli, Empiria e su diverse riviste italiane e straniere («L’immaginazione», «Malavoglia», «Caffè Michelangelo», «Forum Italicum» di New York, «Corriere della Sera», «Corriere di Firenze», «Semicerchio», «L’Area di Broca», «Gradiva» di New York, «Nowa Okolica Poetow» in traduzione polacca; «Roman Law» in traduzione cinese).
Ha pubblicato le raccolte di poesia: ouvrage de dame (Gazebo, Firenze 2004 ; L’Harmattan, Parigi 2007 – Premio Internazionale «Anguillara Sabazia Città d’Arte»); Racconti italoamericani (L’Harmattan Italia, Torino 2007 segnalata al Premio di poesia «Opera seconda – Alessandro Ricci – Città di Garessio»); Fuori dalla terraferma, disegni di Fred Charap (Gazebo, Firenze 2011, Premio Nazionale «Alpi Apuane»; L’Harmattan, Parigi 2013). Nel 2006 ha pubblicato il cd Dal nuovo mondo, in collaborazione con il compositore Luigi Negretti Lanner (Lanner Edizioni). In corso di stampa presso la casa editrice Gazebo di Firenze (luglio 2015) la sua raccolta Il corpo eterno, con tre fotografie di Vasco Ascolini.
Ha organizzato e condotto il Corso/Laboratorio di scrittura creativa per bambini presso la Biblioteca del XII Municipio « P.P.Pasolini » – Roma (2008). È stata invitata all’Università di Cagliari (2009) dove ha tenuto due conferenze: « Scrivere per poesia » e « Didattica della poesia » ; nel marzo 2015 ha partecipato alla Table ronde Au croisement des langues et des langages con Fabio Pusterla e Mireille Gansel (organizzata da Claude Cazalé e Christophe Mileschi, Université Paris Ouest Nanterre La Défense) con un intervento sulla traduzione della poesia e la poesia di Jean-Claude Izzo. Fra il 2014 e 2015 ha organizzato, in Francia e in Italia, l’esposizione fotografica dal titolo «Sulle tracce di Tove Jansson nel centenario della nascita» (Ouessant ; Roma ; Vitré).
Nel 2014 ha vinto una « résidence d’écrivain » di quattro mesi presso il Sémaphore de Créac’h, Ouessant (Associazione C.A.L.I., DRAC Bretagna, Consiglio Regionale della Bretagna) dove ha scritto il poema Quand Jonas se cacha dans un ventre de pierres – Ouessant île-baleine, disegni di Fred Charap (pubblicato in parte nella rivista «L’Archipel des Lettres», giugno 2015).
Fa parte delle associazioni AAIS (American Association for Italian Studies) e AATI (American Association of Teachers of Italian) e per le quali ha partecipato, nel 2014 e 2015, alle Conferenze di Zurigo e Siena con interventi sulla letteratura per l’infanzia, in particolare la poesia e l’illustrazione.

Link
Sito internet di Annalisa Comes : http://www.annalisacomes.com
Sito internet di Fred Charap : http://www.fredstudio.info/
Sito internet di Vasco Ascolini : http://www.vascoascolini.com/
http://uneautrepoesieitalienne.blogspot.fr/search/label/Comes
Reportage su Ouessant : http://www.humboldtbooks.com/tag/annalisa-comes/
Dal cd «Dal nuovo mondo : https://www.youtube.com/watch?v=MtEQZfQ6mjM

Da  ouvrage de dame, disegni di Fred Charap, Gazebo, Firenze 2004 ; L’Harmattan, Parigi 2007 – Premio Internazionale «Anguillara Sabazia Città d’Arte»):

Annalisa Comes

Annalisa Comes

IV

una preghiera, una ancora
con la mano stretta
allacciata al muro, all’alloro
per dire
che tutto affiora,
così semplicemente
che i versi sono i versi
e la lingua mente o brucia
e non sa promettere
che un fascio di esercizi
nel quaderno verdesalvia
millenovecentonovantanove.

V

Prima,
ho salvato il tuo bicchiere
posandolo
pazientemente sullo scaffale
sulla mia eredità
sulle mie ossa.
Il davanzale
no, no
era il tuo sorriso
e gli occhi socchiusi
il mio parapetto
e la mia culla.
Ma ora hai rimesso quel debito
e questa stagione morde ancora.

.
VI

inganni del mestiere

eccola, la montagna incombeva
il ghiaccio attorto come
su una candela
Scorre giù
bruciando di nebbia
bianco e svogliato
La mia montagna che sale di metri
e riposa nel petto,
bucandone i lati

VII

giorno feriale
è il settimo
il settimo giorno dedicato a te
all’occhiello ben fatto,
al lacerto senza scorta
alla porta mal ridotta
al verde alloro che scotta
– scomunica il suo duro verde
i fili della trama che
forgiano i capelli
sono i miei steli, la mia
pelle, la scollatura della foglia
– aperta, scola e ammansisce
scombacia la mia nervatura
e scompare me – l’ordito.

****

Fayyum, ritratto femminile Mummy 120-140 d.C.

Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.

Da Racconti italoamericani, L’Harmattan-Italia, Torino 2007; raccolta segnalata al Premio di poesia «Opera seconda – Alessandro Ricci – Città di Garessio»):
East side-west side

I

You dream a wounderful life
just down the corner
just down the corner
up to the hill
with pleasure fill
just down the corner
just down the corner.

Lingua metà oceano,
là una ragazza-madre porta il figlioletto in un parco pubblico.
Gli uccelli picchiano le tempie alle vecchie querce.
Sul verde acetoso della tela casalinga
un tosaerba canta,
disteso bocconi.

Là fuma un’officina di buon lavoro
e di mensa.
Sorride alle bufere del nord.
E tende abbassate, di sedie con foderine:
l’officina fuma per il caffellatte
fuma la vasca da bagno inglese
e soffia la sua aria di borotalco.
Soffia laggiù
sull’erbetta composta dal barbiere,
sulla collina di coda di aceri,
sul colonnato neoclassico della polizia,
sull’ovale di cuoio
lanciato dagli scolari dopo la scuola.
E il cielo splende
nella sua cortina di mattoncini rossi.

Soffia la luce color zafferano
nei caffè dove si incontrano dentisti
e cameriere con la gonna lilla al ginocchio,
e lo zucchero dell’applepie feriale,
e pensionati col libro mastro delle partite sottobraccio,
mentre nella hall di una pensioncina
tre vecchiette lavorano a maglia
e dentro profonde poltrone di chinz azzurro discorrono
della Pentecoste,
e di tanto in tanto graffiano di smalto
la tazza del tè.

Là una pozza in cortile
ricorda la seconda riva dell’Hudson,
la giacca appesa nell’armadio
la carta delle due Americhe
e un tassì attraversa sobri e ubriachi.

Così soffia la luce di vetro
dal bovindo
col suo tintinnio di cucchiaini da gelato
alle cinque in punto – pill,
sulla chiesa dalla schiena veneziana,

up to the hill,

e sulle begonie gialle, e i muretti d’alloro,
e sull’asfalto dal sapore di miele.

Una madre con la stella di david
appuntata sul colletto di seta azzurra
culla nella polvere
il carrello della spesa.
E si addormenta anche l’oceano
al ritmo del suo canto,
metà lingua.

Up to the hill
with pleasure fill.
Soffia il fiato della balia nera
che aggiusta quasi in corsa gli angoli della calza scesa,
soffia il caminetto sul calendario delle cascate d’Occidente,
soffia il melograno dietro le righe oblique dello steccato.

just down the corner,
just down the corner,
just down the corner.
A ovest, dove la memoria sa di metallo,
il dado è levato in cielo
e il cielo è di un pallido azzurro, ancora notturno.
Sfogliando il «New York Times» un uomo sente nel fruscio l’annuncio
del canale e sirene dei pompieri e grattacieli
e ancora, ancora più a ovest,
quando una specie di Titanic vira
sputando schiuma dalle bocche,
vede la donna di gesso che troneggia
colla sua fiaccola da negromante tra le dita.

 città di Fondi, ritratti muliebri

città di Fondi, ritratti muliebri

II

Oh honey, where is your man?
Honey, your man is just down the river
He is just down the river.
just down the river –
opposite side.

C’era la luna e la terra brillava.
Giù lungo il fiume alla mezzanotte.

– Non c’è –
– Non c’è –

C’era la luna e il vento di nord-est
e il cielo blu degli appuntamenti:
io aspetto, l’azalea rosa cucita al petto.
Le luci sono accese, i cortili muti
e una pioggia senza scrosci sull’oceano,
fin qui alla riva oleosa dell’Hudson:
una pioggia larga e possente
cola tra i neon, sul treno merci, sul giardinetto della vedova del pastore,
sul distintivo scintillante di uno sceriffo.
Dorme l’intera città:
nella sua coltre di benzina e trampoli azzurri
si seccano gli sputi sopra le stecche da biliardo.
Dormono i vecchi fiumi e le colombe bianche del quartiere cinese,
e le valigie del deposito 436,
il molo col suo ricamo di alghe e foglie di tè.
Giù, lungo il fiume, alla mezzanotte
aspetto, percorrendo col passo la notte calata:
troppo scuro per leggere un romanzo.
Aspetto sulla riva di acqua e cielo,
sulla banchina dello sbarco:
qui accanto la minestra cola dalla bocca di un vecchio ferroviere
cola a zig zag dal suo berretto la pioggia della metropoli
cola anche sull’ombrello nero aperto solo a metà
del ricco avvocato
e le gocciole rigano il colletto azzurro inamidato:
così tanto per vera democrazia.
Aspetto nella notte nera, come un uccello.
Tra i fanali dei bus, che fiottano
a ritmo l’acqua che sa di birra e lampone.
E guardo le lancette dell’orologio
e il cane che abbaia
e il fischio tra i denti di un potente swing.

– Non c’è –
– Non c’è –
Oh honey, where is your man?

Scuoto la testa,
l’aria è pesante di gomma e corda andate a male
sotto la luna si spande un buio già tutto invernale.
Al tavolo laccato di una stazione di benzina
aspetto, bevendo fino alla mattina.

Ricordo il bicchiere di quarzo tra le sue cinque dita.

Ah, non ho pazienza
non ho pazienza,
ma aspetto che la pioggia passi per uscire.
Non ho pazienza,
non ho pazienza,
ma aspetto che questa pioggia lenta passi la colazione,
e i nodi dei capelli:
una mosca ronza sul velo della camicia.
Non ho pazienza,
non ho pazienza,
si scioglie nella pioggia anche il giornale della domenica,
cola dal vetro l’acqua verde dell’oceano.
Non ho pazienza
non ho pazienza.
Batto col tacco le onde del linoleum,
brillano sulla tavola i cerchi dello zucchero a velo,
piove senza fretta
acqua dal rubinetto.

– Ah, non c’è –
– non c’è -.

Honey, your man is just down the river
He is just down the river.
opposite side.

Honey, lui (un tale del West) scende ubriaco
dal caffè saloon nella luce giallo limone
mentre un cane abbaia, e il fischio della metro
sale sulla collina insieme a un blues,
giù alla riva sinistra del fiume.
Siede da solo nel buio.
Sfoglia gli annunci del «New York Times».
Giù sulla riva opposta del fiume:
opposta, mentre lei lo aspetta invano.
III

Lingua metà oceano,
sulla terra dello sbarco e della profezia.
Passa nel canale sull’acqua di petrolio
un piroscafo di viti e bulloni, con la sua potente caldaia di ghisa.
East side-west side.
Passa col suo carico dividendo la città:
di tetti, asfalto, calce, pioppi.
Basta uscire dalla cabina
per vedere i gabbiani biforcuti sulla gru verderame
e più in giù, nella nebbia fitta,
vedere che la terra non è tonda ma
cime di neon azzurrino.
Là dove il fiume divide est e ovest,
separa la collina dal parco pubblico con la sua prua di ferro,
e il figlio dalla madre,
il bianco dal nero,
l’impero dal cortile di terracotta senza luna.

You dream a wounderful life
just down the corner
just down the corner
up to the hill
with pleasure fill
just down the corner
just down the corner.

Ogni uomo, scendendo dal predellino, si dice figlio della libertà
sventolando un panno a strisce.
Ognuno di loro ingoia la luce della luna
e accartoccia il quotidiano delle province,
nella direzione di una mano tesa.
Ognuno di loro guarda l’acqua che gorgoglia
e il suo riflesso nella prima vetrina di un caffè;
mentre il dito compone il numero, la mano afferra la cornetta.
E basta chiudere gli occhi, chiuderli sulla scialuppa
vuota, immobile in mezzo alla baia
e gridare – opposite side –: terra!

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Rock and roll ai piedi del letto

Lungo tutto il litorale della Nuova Inghilterra
scintillano le tazze di porcellana: tè, con latte, e senza zucchero.
Nel buio può capitare di perdersi, di vagare intestarditi
come falene. Tanta bellezza che sparisce –
ma bada – il nostro respiro quotidiano
nella notte fonda non sveglia più nessuno e
nemmeno i rumori da un muro all’altro o un po’ di musica
tutta novecentesca. E di questo giorno l’unica impronta
è la vecchia coperta sulla sedia.

*

Blues di un eroe

I
Non ha tempo per la terra che gronda

che sluccica manifesti

che s’inceppa nei suoi meccanismi d’arteria.

Non ha tempo per raccattare dalla terra

il cartoccio della frutta andata a  male,

non ha slancio per la desolazione casalinga.

Oh, povero Adam

si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh, povero Adam
sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema d’ira e non ha voce.

II
Sono loro? Sulla terra sfiora le zolle e abbassa la schiena

ma è l’asfalto che fa sbattere le ali alle falene.

Si chiede se gli animali hanno spalle che bruciano.

Si chiede se deve fare da sentinella alla terra:

perché è lì che il fuoco brucia

che le onde stramazzano come buoi

lì che ci si ammala d’amore

lì che la carne salta come un salmone.

Oh, povero Adam
si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh povero Adam

sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema d’ira e non ha voce.

III
Per terra ritrova il colore diurno del neon

i fiori schiacciati dal temporale.

Si piega sul muretto di un parcheggio

e sbriciola il pasto ai piccioni.

In mezzo alla terra tocca il carbone

di uno scarafaggio

e un coccio,

e la ruggine di una sirena.

Oh, povero Adam

si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh, povero Adam

sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema d’ira e non ha voce.

IV

Con la terra, pensava di fare gomitoli

da cucire senza etichetta.

Indossa la giacca elegante per andare in tv,

ma la terra sotto gli trema e si sbuccia e si squaderna,

la terra che non è estiva né buona.

E per questo lo picchiarono, per paura,

mentre lui, a terra si trascinava.

Oh, povero Adam

si è perso per cantoni, corridoi e piazze

Oh, povero Adam

sente il suo passo zoppo da dietro l’angolo

è lì che trema e non ha voce.

Fayyum, ritratto di  fratelli

Fayyum, ritratto di fratelli

Nella tasca della giacca
a I. Brodskij,
per P.
1
Così a dicembre tiri fuori
la giacca di tweed,
rimani incantato alla finestra scura,
e forse ci vedi il tuo destino
che rotola per le strade,
su e giù,
come le macchine.
Il vento caccia i brutti pensieri
smuove le palline rosse dell’albero-
dondolano le ultime foglie dei platani-.

2
Con la mano torni indietro.
Ricordo bene come cerchi nella tasca della giacca.
Lei ti diceva: la terra non è tonda
ma solo lunga-,
così aveva contato Brodskij
e misurato l’oceano.
Aveva messo in fila le onde, una dopo l’altra,
col suo passo cadenzato
e alla fine
era tornato nel vecchio continente,
in un angolo d’Adriatico.
3
La casa è immobile.
Così come l’hai lasciata la ritrovi,
per pranzo e per cena.
E passi il dito su una cornice impolverata
come a far riprendere luce alla vita,
al giorno.

*

Amorosamente regolare
o la viltà di un piccolo borghese

 Fayum portrait compared with Picasso's self-portrait

Fayum portrait compared with Picasso’s self-portrait

Non sta fermo l’oggetto e non si muove.
Noi deliriamo. La cosa è lo spazio
che occupa la cosa.
I. Brodskij, Nature morte

I
Cosa brucia nella sua bocca?
Sul materasso l’impronta della notte
sul tavolo gli oggetti come un promontorio.
Guarda bene perché questo non è il paradiso,
ma abbassando le palpebre
ordina il fondo del lenzuolo
e sistema il corpo quando è ancora buio.
Allora ascolta lo sferragliare del tram
e i ferri della vicina che alzano
e abbassano il filo di lana.
Così bisbigliano le ultime notizie di morte.

II
C’è spazio. C’è tutto lo spazio
perché le sue mani possano rovistare
nel lavandino, sulla busta del latte,
andare qui e là senza vergogna.
La luna era passata sul tetto rosso,
sui piatti bianchi, sulle spalle della sedia
e aveva lasciato righi di penna
e il peso della notte in cerchi concentrici.
Senza fuoco. Senza stufa.
Era scivolata sulle ciocche dei capelli.

III
Non c’erano mai state prospettive.
L’orizzonte affonda e dorme.
Sul pavimento, sulla terra:
i vestiti e un cappotto da pieno inverno.
Sul pavimento grigio i guanti neri,
Sul pavimento grigio il gomito, il braccio.
Ma l’uomo ha paura e non si sveglia,
non del tutto. Anche se è domenica,
anche se è per chiedere la pace.

IV
Dov’è che gli oggetti sono rotondi?
Eppure lui si aggrappa agli spigoli con le unghie,
alla sua vita piccola e borghese,
all’aria della superficie. Qui. Dandosi un gran da fare.
Chiude la porta a chiave e aspetta che il ghiaccio passi,
e la corriera blu, e il cane col suo canto da ubriaco.
Perché nella vita non c’è profitto
e non c’è colpa più pesante di questo stare al mondo
senza lottare.

V
E sbaglia quando apre il vetro al cielo,
quando apre gli spicchi di un’arancia
solo per vedere come s’annera,
perché la stagione corre, di fretta
avanti e indietro sbattendo
gli sportelli di formica in cucina:
sul petto l’odore delle noci, come ogni anno,
il fischio del bollitore, l’indice sul legno bianco
della porta del bagno.

VI
Passò qualche macchina,
nessuna che andasse nella stessa direzione.
Lui guardò l’orologio sotto il soffitto,
poi il bicchiere vuoto
molte più cose se ne sarebbero potute andare –
e la luna era quasi sparita, c’era un’impronta bianca, di carta,
c’era spazio per un’intera giornata

Questa la santità della sua morale
di giovane borghese, feroce e di cortile:
s’inginocchia con la lingua
all’Ave e all’Angelus del grosso cupolone,
suddivide intelletto e Nuovo Capitale,
ma gira il volto alla fiumana
morta oltre lo stivale.

****

 Fayyum, ritratto

Fayyum, ritratto

Da Fuori della terraferma, disegni di Fred Charap, Gazebo, Firenze 2011; Premio Nazionale «Alpi Apuane», L’Harmattan, Parigi 2013:
Traversata

Appoggio il gomito alla veranda –
Gli uccelli in picchiata
più piccoli dei gabbiani
senza lingua -,

Mi sembra di aver già attraversato
queste acque, una volta.
E mentre portano il conto
di due caffè
a lui tremava la voce.

Ogni tanto mi voltavo
a sentire il vento in visita,
sulla faccia, sulle orecchie
dentro la cerata gialla.

Laggiù la baia e
il piano delle onde.

*

Frammenti d’albero maestro

Il confine delle terre annera nella notte. Gli uomini
vanno e vengono sul ponte. Hanno tirato le reti
e il sole non tramonta più. La prua luccica
di uno splendore esatto, da orologio.
Ovunque il quadrante sfavilla e brucia sulle rocce.
I fanali di Sant’Anna stridono, poi si addormentano.

Buio. Una boa enorme in secca.
Chiusi gli ultimi bar e la biglietteria e un
taxi acquatico dal corpo giallo e stanco.
Buio anche per i pochi passanti
e le loro orme a crocicchio. Il vento
sbatte la cenere al bavero del cappotto.

Laggiù il nord, piatto e anziano.

*

Terra

Guardava verso la riva –
guardava ancora e ancora: l’aria calda
il pasto avanzato,
il furgoncino che porta legna da ardere,
la stoffa ruvida della camicia bianca.

Laggiù, non ti preoccupare, aveva detto,
laggiù c’è la terra,
ma le correnti, qui sono forti.
Più forti che in qualunque altro mare.
Con la sua giacca sportiva e
gli occhi scuri che si levano dal fumo –
la schiena appoggiata al parapetto.

Vidi un grosso pesce che vorticava
in un angolo,
un mulinello dai cerchi opachi.
E tre ragazzi con le loro lenze
che andavano sott’acqua
e ai piedi una mezza dozzina di sardine
agonizzanti.

L’aria calda, i galleggianti
filavano in superficie:
una grossa luna
senz’altro appoggio,
come fosse mattina.

*

Moules frites

Gli sfiora la guancia
perché piange, si asciuga gli occhi
con il tovagliolo
e sposta lo stuzzicadenti nella mano sinistra.

Il temporale batte sui vetri
feroce come un fiume in piena.
Fuori ci sono brutti ricordi.
Lui passa la mano sulla fronte,
sulla costa, sul sonno agitato.

Un cameriere del sud
arrota l’accento italiano
e scrive ordinatamente il piatto del giorno:
vorrei mangiare con questo uomo
per il resto della mia vita.

*

Oceano

Alla fine i rami dei salici non erano
più visibili
e ho detto addio alla terra.
Solo per poterla salutare da lontano,
per immaginare la costa e le sue città,
ricordare di aver visto tutto fuori dalla finestra,
mentre pioveva.

Chi vuoi prendere in giro? mi dicevo,
l’anno prossimo o forse solo fra pochi mesi
l’indice sarà arrivato all’orlo estremo della carta
giù, allo spigolo del tavolo di legno,
e avrai smesso di dondolarti a tre quarti
e preparare caffè per due la mattina.

 Fayyum portrai d'enfant

Fayyum portrait d’enfant

Inedite

Détail
(dans le Château de Versailles)

Le cadre de la fenêtre –
immobile –
– fixé -.
Il a arrêté son battement -.
Rien ne bouge plus
qu’une toile d’araignée
(à la petite haleine) -.
*

Au 14 rue de Noailles

à Claude

C’est l’adresse d’un hiver perpétuel
Les vagues remontent
encaissées
la cour, les murs et les nuages
Le vis-à-vis du monde
se cache, coque-vide.
L’orage a ravagé les décors et les broderies
a fait ses ruines de pierres crues
et dispersé l’exil –
et marqué la porte avec du rouge

Pas une miette royale – si jamais il y en avait une –
n’est restée debout
Pas une dentelle – une petite miniature –
Où la barbarie a parsemé
l’ombre et le cri
là aujourd’hui pousse la grâce de la mémoire
Où la haine a dansé
à trois temps
sa valse de papillon,
sur ses ruine demeure ma maison
et repose dans tes mains royales
l’orage.

Ce sont ces décombres
l’adresse perpétuelle de l’hiver
Poussière de pierres et de misères
que j’ai élue

Dans ce desért
l’hiver nous chante
votif.

*

Just married

Gomito contro gomito
Sorridono dietro uno scrigno di montagne
Azzurre – le mani intrecciate
In un unico fiore
Lei ha un abito corto di seta bianca
Lui spessi occhiali neri e una cravatta lunga
D’altri tempi
La spalla nera – poggiata a quella nuda di lei.
God Bless You!

A destra, due calici bevuti
A sinistra, il tavolo scende nel dirupo d’ombra
Fino a scavalcare l’Oceano –
E toccare terra in questa cucina
Di luce gialla e gelata
Sul tavolo – un bicchiere
Un osso
Una bibbia francese. –

D’oltreoceano arrivano
Brindisi
E onde di prato bentosato
E il soffio della notte tiepida
Mentre sulla cornice di un muretto
Una vecchia in rosa balla aggrappata
A un’elegante giacca di puro tweed inglese.
God Bless You!

Aspetto il mio turno
Nella cucina di smalto
Dove le colombe hanno arrestato il loro volteggio
E razzolano fra smerli di briciole
Dove le stelle hanno arrestato il fulgore
E l’ornamento.
Ché la mia mano aperta per il benvenuto
Stringe un bicchiere vuoto
Il tavolo batte la sua risacca
E il deserto sospira nel cuore.

31/V/15

4 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana

Maria di Aldo Nove e la critica di Andrea Cortellessa – La madonnina di Viggiù. Aldo Nove e la pietra dello scandalo – Commento di Angela Borghesi e bilancio di Giorgio Linguaglossa 

 jeff_koons-cicciolina

jeff_koons-cicciolina // Lei era una bambina che qualunque collina
avrebbe voluto avere come sole.
Da tempo immemorabile era bella.

 Aldo Nove è nato nel 1967 a Viggiù, piccolo paese al confine con la Svizzera. Il suo primo libro Woobinda è stato pubblicato nel 1996 da Castelvecchi. Un suo racconto è apparso nell’antologia Gioventù cannibale. Nella collana «Stile libero» sono apparsi Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda (1998), Amore mio infinito (2000), La più grande balena morta della Lombardia (2004), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… (2006) e La vita oscena (2010). Nella «Collezione di Poesia» sono apparsi le raccolte Nella galassia oggi come oggi. Covers (2001), composta insieme a Raul Montanari e Tiziano Scarpa, Maria (2007) , A schemi di costellazioni (2010) e Addio mio Novecento (2014). Il suo più ampio volume di poesia è Fuoco su Babilonia! (Crocetti 2003).

aldo nove cop Maria
Lei era una bambina che qualunque collina
avrebbe voluto avere come sole.
Da tempo immemorabile era bella.
E più che una bambina era una stella.
Più che una stella era qualunque cosa.
Più di qualunque cosa era amorosa,
più di qualunque amore decorosa:
di tutto l’universo era la sposa.
Ma era troppo piccola: una rosa
che sboccia appena, come ogni creatura
sospesa tra l’eterno e la paura
dei giorni che dei sogni sono mura.
Le mura di chi è nato e non gli è dato
capire più di quanto del creato
gli venga in uno spazio costruito
e dentro un tempo già determinato.
Ma i sogni la sognavano più forte
del sogno che a ogni nato è dato in sorte
prima che nel silenzio della morte
le vite si ritraggano contorte.
Quasi che solo quello si sapesse:
che tutto infine ha fine come il sole
e l’universo e tutto ciò che vuole
vivere sempre, e che vivendo muore.
Quest’era l’infinita nostalgia,
quest’era l’assoluta lontananza
prima che quella luce in quella stanza
dicesse allora e per sempre: Maria.
[…]

[da Maria]

Marie Laure Colasson YZZ Struttura dissipativa 78x34 2020

[Marie Laure Colasson Struttura dissipativa, yzz, 78×35 cm. acrilico su tavola, 2020]

(Antologia di poesie di Aldo Nove)
A Baghdad 9.4.03

Fiumi di figa e di bandiere a stelle
E strisce e di cheeseburger e cartoni
Animati di morti col sorriso
Hollywoodiano e musica carina,
è questo il nuovo ordine mondiale

Tutti disciplinati, non c’è più
Regime adesso ma soltanto fiumi
Di figa e di bandiere a stelle e strisce
E di cheeseburger, cartoni animati
Di morti col sorriso hollywoodiano.

.

Cheesburger II

Al cinema biologico dei corpi
Trasmessi alla memoria di nessuno
Gli spettatori vengono abbattuti
Direttamente sulle sedie mentre
Sognano di mangiare dei Cheesburger

.
Ministro

Dice il ministro che si è commosso
Guardando alla TV quattro straccioni
Morti di fame per decreto U
SA che inneggiano al nuovo padrone

Lo stesso che li ha condannati a morte
Per anni con gli embarghi e adesso li
Ha mezzi liberati e mezzi uccisi,
io a quel ministro spaccherei la faccia

aldo nove

[aldo nove] Adesso è questa/ bolletta dell’Enel. Luglio/ millenovecentottantotto, il due. Sull’/ orologio le

Bolletta dell’Enel

Adesso è questa
bolletta dell’Enel. Luglio
millenovecentottantotto, il due. Sull’
orologio le
diciannove e quarantacinque non sono una ragione
per nessuno, oltre
le mani che stringono senza capire il foglio
del conguaglio, rosse
le linee che contengono le cifre. E alla storia
consegno questo. Né
testimone di me o del mio tempo
vedo inerpicarsi nello stretto dovere
che ancora sgretola tempo e tempo dalle persiane,
dove il deserto è una goccia
che dall’infanzia prorompe
in questa cucina

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

Mio zio litiga sempre con mia zia

Mio zio litiga sempre con mia zia;
mia zia litiga sempre con mio zio,
perocché in fondo in fondo esiste Dio,
e tutto torna sulla retta via.

Mio zio lavora in Svizzera, a Mendrisio,
non sa nulla di Kant né di Platone,
ma non è deficiente né coglione,
e nell’Olimpo opta per Dionisio

(infatti beve): troppo descrittivo?
Come poesia, però, non è scadente:
almeno testimonia che son vivo

e che ragiono, o forse no (la gente
capisce poco di quello che scrivo
ma quello che capisce è sufficiente).

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

Perlana ammorbidente

Ricordo che ogni punto dello specchio
si dilatava. Ed io che avevo preso
il rasoio guardavo me che vecchio
mi guardavo, ventiseienne obeso

nonché bambino acuto in italiano,
o innamorato di una di Malnate
nove anni fa. Strinsi forte la mano,
mi recisi la gola. E abbandonate

la schiuma e la salvietta scivolai
per terra. Andando a sbattere la testa
sul detersivo, tutto riversai
tra gli additivi il flusso che si arresta

della mia vita. Mi stupì la strana
ultima sensazione di chi muore
con forte in bocca il novello sapore
del proprio sangue misto col Perlana.

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

.

6.320 Lire

Qualcosa di
completamente nuovo, come il wurstel
ripieno di formaggio americano,
che addomesticato dall’acquisto
riposa nello spazio
rimasto tra il prosciutto e gli assorbenti
inerte come il docile stupore
del peso che si scava l’interstizio:
un tonfo sordo. Quattromila lire.

Qualcosa di
tradizionale come
il petto di tacchino, messo sopra
la confezione d’acqua minerale,
in bilico. Seimila
trecentoventi lire.

[da Fuoco su Babilonia! – Crocetti editore, 2003]

enzensberger poker-pato

[Pupe, pepite e reggicalze] Qualcosa di
completamente nuovo, come il wurstel
ripieno di formaggio americano,


da Angela Borghesi Dieci libri. Letteratura e critica dell’anno 2007-08, Libri Scheiwiller, Milano.

Confesso di essere finalmente inciampata anch’io in Aldo Nove. E denuncio subito tutto il mio disagio, la mia incredulità di fronte a tanta pietra dello scandalo.

Fino ad ora avevo scansato dai miei programmi di lettura gli scritti di Aldo Nove come Don Abbondio i ciottoli dal sentiero. A vincere la mia riottosità la pubblicazione nella Bianca Einaudi del poemetto Maria. Ciascuno coltiva anche pregiudizialmente le sue convinzioni. Io sono convinta che nel secondo Novecento la produzione letteraria italiana abbia dato e, nonostante la confusione imperante, continui a dare il meglio di sé nella poesia. Acquisto il libro sperando che questo sia il momento giusto per l’incontro sempre procrastinato e prendo atto dalle notizie di copertina di essere ulteriormente in ritardo: questa non è la prima opera poetica di Aldo Nove.

 Comunque, grazie alla candida veste einaudiana mi accingo con curiosità alla lettura del poemetto. Non senza avere scrutato con la dovuta attenzione l’oggetto: prima e quarta di copertina, ringraziamenti, dedica, citazioni in esergo, indice e il “finito di stampare”. Ciò che circonda il testo è viatico necessario alla lettura, piccolo rito propiziatorio. Apprendo così che il libro è stato stampato in maggio, mese come si sa delle rose dedicato a Maria. Con divertita simpatia mi chiedo se ciò risponda ad una precisa intenzione dell’autore o della casa editrice. L’ipotesi di una tale discreta attenzione al calendario liturgico mi predispone benevolmente alla lettura, se non fosse per il risvolto dove capita di leggere: «trenta canti, ciascuno di sette quartine di endecasillabi fittamente e variamente rimati»; poi si scorrono le due quartine riportate in copertina e i primi due versi (destinati a non rimanere gli unici) tutto sono tranne che endecasillabi. Che si debba fare la tara ai giudizi delle note di quarta è cosa ormai assodata, ma che non siano nemmeno più affidabili per quel che concerne i puri dati formali è negligenza che lascia un po’ d’agro in bocca. Ancor più se andiamo a dare uno sguardo alle citazioni, ben tre e una più dotta dell’altra, che variano da Pier Jacopo Martello a Sant’Ambrogio a Lacan. Non può allora sfuggire che proprio il verso d’apertura del primo canto, quello stesso riportato in copertina, è un martelliano e che, dunque, l’omaggio all’arcade bolognese dà anche il tono d’avvio al testo.

Tuttavia mi consola scoprire che la dedicataria è la nonna friulana di Antonello Satta Centanin, devota macinatrice di rosari. Il tributo alla memoria familiare mi piace. Comincio a leggere. Ma bastano alcuni canti e mi prende la noia. Abbandono, e mi dico che anche per questa volta l’incontro non s’ha da fare.

A riportarmi al testo dopo qualche giorno è un’altra scoperta. Il numero di gennaio 2007 di «Poesia» preannunciava (con il primo piano – come d’uso per il mensile – di un Aldo Nove più giovane colorato e scapigliato) la pubblicazione di Maria anticipandone alcuni canti. Cerimoniere dell’evento Andrea Cortellessa. Mi ero proprio persa tutto quanto.

Se l’accoppiata Nove/Bianca Einaudi, una delle più prestigiose collane di poesia nazionali, meritava un poco di attenzione, quella di Nove/Cortellessa, data la mia considerazione per il critico, esigeva un ascolto più attento, una maggiore disponibilità verso quei versi che non si erano aperti all’incontro.

Simone Cattaneo al Pascià club 2008

Qualcosa di/ completamente nuovo, come il wurstel/ ripieno di formaggio americano

 Corro in emeroteca, mi impossesso del saggio di Cortellessa dal titolo Lo scandalo dell’amore infinito, lo leggo. E, accidenti, questa sì è una lettura sconcertante. Questo il vero scandalo e non le quartine di Aldo Nove. Scandalo nel senso etimologico della parola che il critico si premura di spiegare al pubblico con dovizia di rimandi evangelici e testamentari. La mia vera pietra d’inciampo è proprio il giudizio di valore di Cortellessa. Ma come? A lui queste quartine hanno provocato un’emozione autentica come quella che si prova nel «veder nascere una grande poesia», e in me hanno sortito noia, solo noia? Forse qualcosa non è andato per il verso giusto, forse ero distratta e mi è sfuggita la «assoluta e sbalorditiva naturalezza» con cui Nove fa propria la tradizione dell’innologia mariana. Come, come ho potuto sorvolare su quella quartina così «vulnerante», su quella «straordinaria capacità di contemperare […] il rapimento estatico, l’esilarante attestazione del trascendente, e la più problematica riflessione concettuale, filosofica, speculativa»?

L’aggettivo «esilarante», usato due volte a poca distanza, mi pone un altro problema: chissà, magari non ricordo l’etimologia esatta. Consulto il dizionario ma l’aggettivo in quel contesto continua a non parermi congruo. Passo oltre.

Torno a chiedermi come sia potuto accadere di non aver colto l’«intensità lirica», l’incandescenza, l’iridescenza vertiginosa, la virtuosistica variazione (questa sì l’ho colta, ma appunto è ciò che mi ha infastidito). Insomma, come ho potuto non accorgermi che siamo in presenza di una «grande poesia» che non teme confronti né con Dante né con Rebora, per citare gli estremi cronologici cui Cortellessa rinvia con convinzione. Come mai quando leggo in classe Dante, quello stesso che Cortellessa accosta a Nove, pur povera di fede, mi si increspa la voce e mi tremano le vene e i polsi. Come mai quando ammiro l’annunciazione di Lorenzo Lotto, quella col gatto nero che scappa spaventato, poco ci manca che sia preda della sindrome di Stendhal, e invece rimango indifferente di fronte a questa Maria bambina di Aldo Nove?

Non mi stupiscono tanti e tali aggettivi sempre superlativi. Da tempo ho registrato che in Italia le ultime generazioni di critici e recensori hanno perso il senso della misura. Per loro tutto o quasi è “straordinario”. Mi ci sono abituata, e anche qui faccio la tara che si deve, riconduco questa smania superlativa alla tendenza a dare giudizi che si iscrivono in un orizzonte letterario ristretto (la produzione italiana degli ultimissimi anni), autoreferenziali. Ma non sembra essere questo il caso. L’orizzonte di riferimento di Cortellessa è quanto mai ampio e, questo sì, vertiginoso per nobiltà e qualità letteraria, niente po’ po’ di meno che il Dante paradisiaco al suo acme filosofico e poetico (Paradiso, XXXIII). Dunque, perché ciò che a Cortellessa pare un «“vero” avvenimento» su di me non ha prodotto alcuno sconquasso («squassante» è aggettivo da aggiungere alla serie)? Sono io cieca di fronte a tanta meraviglia o è il critico che ha preso un abbaglio, o meglio è caduto vittima di un’apparizione non così miracolosa come sostiene? La madonnina di Viggiù come quella di Civitavecchia?

aldo nove

aldo nove

 Ma il mio è un problema serio. Cortellessa, ripeto, è critico di valore che per giunta dirige una collana in cui propone testi di giovani poeti degni di interesse. In questo saggio stila giudizi a dir poco lusinghieri su tutta la produzione di Aldo Nove. Che sia la mia ignoranza sul pregresso che limita la mia percezione del vero? È dunque necessario che io corra ai ripari e mi legga l’intera opera del nostro campione. Mi armo della necessaria diligenza e parto nella ricognizione pressoché esaustiva degli scritti narrativi del nostro da Woobinda a Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese passando anche per quel «piccolo ma assoluto capolavoro» che, ancora secondo Cortellessa, è La più grande balena morta della Lombardia. Non senza avere colmato anche il debito poetico leggendo sia il volume pubblicato da Crocetti, Fuoco su Babilonia, che l’altro, sempre einaudiano, delle covers con Montanari e Scarpa, Nelle galassie oggi come oggi. Riemergo dall’affondo un po’ provata ma con una certezza e alcune impressioni.

[…]

Se spogliamo il saggio di Cortellessa dal crepitante involucro aggettivale, la tesi critica di maggior peso rivolta all’intero prodotto creativo del sodale è quella espressa in esordio: Nove è uno scrittore «multiforme», «onnipotenziale», qualità queste che sembrano segnare un vero discrimine critico per Cortellessa da sempre attratto dallo sperimentalismo e dall’oltranza. Senonché in Nove l’oltranza rischia di diventare oltraggio (per citare uno Zanzotto caro a Cortellessa e da lui evocato come uno dei numi tutelari delle quartine mariane). Oltraggio e non per il «costante capovolgimento delle attese» che in Nove sarebbe consustanziale, bensì per una tendenza alla reiterazione del misfatto.

 Prendiamo Woobinda, il suo esordio cannibalesco che pure certa critica non priva di acume e di finezza salutava come una novità, anche espressiva, che sapeva cogliere le mutazioni in atto di una generazione allo sbando. Ho faticato ad arrivare alla fine del libro perché dopo tre o quattro racconti i successivi diventano prevedibili, replicano in ambiti diversi gli stessi meccanismi sociali e letterari. Anche quegli elementi stilistici che potevano apparire nuovi e destare interesse se proposti in serialità limitata, riprodotti senza respiro, spesso senza alcuna ragione di necessità, svelano la loro natura di stratagemmi che li inchioda a rimanere non altro che trovate d’effetto (i lunghi periodi senza punteggiatura con intento imitativo, l’interruzione comunicativa da telecomando con cui si chiudono molti brani).

 Lo stesso vale per quel «capolavoro» della Più grande balena morta della Lombardia in cui lo sguardo si ripiega troppo compiaciuto e nostalgico sul mondo di un io infantile alle soglie dell’adolescenza con una iteratività davvero ossessiva e claustrofobica. Bastano tre o quattro scene di quotidiana vita provinciale in quel di Viggiù per capirne tutte le coordinate fantastiche, etiche e sociali. Così per Mi chiamo Roberta che pure sembra affrontare un universo altro, con un taglio stilistico diverso in cui Nove pare occuparsi delle vite altrui. Invece, anche qui, tutto è già visto e letto. Tutto già in nuce in quell’incunabolo che è Woobinda. I ritratti fantastici e iperbolici dell’esordio diventano qui, ahinoi, ritratti reali non meno segnati dalla frustrazione e dal fallimento. Cambia solo il registro stilistico dovuto alla diversa esigenza di scrittura. Ma quel che più interessa è che Nove usa le interviste pubblicate a suo tempo su «Liberazione» per farne un libro su di sé. Le introduzioni, ampie tanto quanto le interviste, altro non sono che specchi che lo riflettono, occasioni per riparlare della sua infanzia, per citare libri e autori di riferimento, per dare spazio alla sua coscienza etica (Nove è essenzialmente un moralista). Persino il modulo di presentazione che ritorna nel testo e che campeggia nel titolo (“Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni”, ecc.) compare nell’opera prima (“Mi chiamo Andrea Garano. Ho ventitré anni”) declinato in multipli. Denuncia tale coazione a ripetere pure il fatto che Nove non si trattiene dal riproporre il modulo nemmeno per il Matteo di Amore mio infinito, per fortuna protagonista unico del romanzo.

sfilata di miss italia

sfilata di miss italia – All’inizio era solo la parola,/ all’inizio era una parola sola./ l’inizio che iniziato trascolora/ nel dubbio della fine che divora

 E lo stile è altrettanto esibito, studiato per épater les bourgeois. Così si susseguono frasi brevissime, spesso di un solo segmento, in una sequenza verticale tesa a riprodurre quella dei versi poetici. Sorge naturale il sospetto che l’andamento fortemente pausato serva a scandire un discorso che qualora organizzato orizzontalmente perderebbe d’efficacia; a dargli senso forza incisività sono gli a capo, più che le tesi sostenute. Forse Nove ha in mente, visti i suoi studi filosofici, la cadenza di certi professori di filosofia i quali, spacciandosi per filosofi, affidano la loro credibilità all’ampiezza delle pause tra una parola e l’altra quasi che, atteggiandosi a nuovi Parmenide, la parola divenisse verbo in virtù dell’aura silente, della densità del vuoto con cui la circondano. O forse anche lui incorre nel vizio espressivo tipico, secondo il Papini di Stroncature, dei filosofi hegeliani: si piglia un termine, lo si ripete (perché la ripetizione è di per se stessa fondativa), lo si gira nel suo contrario, lo si varia, lo si inserisce in una trama evocativa. Il risultato è un assioma impenetrabile ma d’effetto.

 Esattamente ciò che Nove propone in queste due quartine che a Cortellessa invece paiono vulneranti:

«All’inizio era solo la parola,/ all’inizio era una parola sola./ l’inizio che iniziato trascolora/ nel dubbio della fine che divora// l’oceano frammentato del creato/per una volta sola nominato/e nell’eterno poi moltiplicato/in mille forme d’altro rispecchiato.». Dove la serie monorimica della seconda strofe contribuisce semmai a creare l’alone teologico-filosofico a cui è bene abbandonarsi senza porsi l’obiettivo di sondare la profondità insondabile.

Tuttavia, se qualcosa è destinato a durare di Aldo Nove mi auguro sia il sonetto che compare nell’introduzione alla Storia di Alessandra in Mi chiamo Roberta. È un testo riuscito che può rappresentare al meglio la sostanza creativa dell’autore. La sua summa artistica. Ma, appunto, Nove sta pressappoco tutto qui:

 «Sono un ragazzo di cinquant’anni,/ vivo con la mia mamma e il mio papà./ Ho molti libri editi da Vanni/ Scheiwiller. Io, poeta di città.// Sono disoccupato. Laureato/ In storia dell’economia politica./ Stimo Montale, detesto Battiato./ di Pindaro amo la seconda Pitica.// ho vinto il premio “Versi a Pordenone/ ’92”. E al “Città di Torino/ ’99” ho avuto anche una menzione// per un sonetto su Sant’Agostino./ Ho due by-pass. Vivo con la pensione/ di mio papà. Possiedo un motorino

 Ben fatto, niente da dire, e divertente. Persino utile per la didattica letteraria: mettere in fila i sonetti autobiografici di Alfieri Foscolo Manzoni con questo che pure autobiografico non è, ma è di una verosimiglianza generazionale efficace, darebbe agli studenti una precisa idea su che ne è stato dell’intellettuale nella letteratura e nella società italiana.

le gambe ok

Mary non è stronza come Ambra.// Mary è molto più dolce.// Mary studia filosofia.// Mary ha i capelli biondi.// Mary non grida.// Mary ha le gambe più lunghe di Pamela

In effetti, Nove mostra di essere un buon facitore di versi, un discreto artigiano che ha mandato a mente con profitto la lezione dei maggiori e non solo, lezione che sa elaborare secondo la sua visione delle cose e del mondo. In Fuoco su Babilonia la perizia si percepisce, e si potrebbe persino per un attimo pensare, come Cortellessa, che si sia di fronte a una personalità poetica multiforme. In realtà siamo in presenza di capacità virtuosistiche, nel migliore dei casi, ma stucchevoli come a lungo andare tutti gli esercizi di stile. Lo stesso esercizio che, sempre nel migliore dei casi, io trovo in Maria.

[…]

Certo anche Nove sa darci alcune pagine in cui riesce a restituire in maniera persuasiva sensazioni o situazioni di un’esperienza umana universalmente condivisa. Mi riferisco ad alcuni passi di Amore mio infinito, opera edita nel 2000 che, seppure sempre appesantita dall’iterazione di moduli stilistici e strutturali già sperimentati, registra qualche scatto narrativo proprio là dove si toccano momenti di sofferenza del protagonista (la morte della madre, la morte del nonno, con il brano cimiteriale davvero riuscito).

Se invece ha un sapore il poemetto mariano di Nove è quello un po’ nostalgico di un crepuscolarismo epigonico, per giunta privo d’ironia. Chissà che tra le varie memorie del nostro non abbia agito anche quella della campana di vetro sotto la quale le nostre madri e nonne custodivano sul comò la statuetta di cera di Maria Bambina dormiente, adorna di mughetti finti e vestina di seta chiara. Ma, di nuovo, Maria non è che un’altra variazione sul tema, quello delle ragazzine di Non è la Rai co-protagoniste di un racconto di Woobinda che torna, dunque, a funzionare come semenzaio, come crogiolo in cui tutti gli ingredienti sono stati depositati. La Mary del 1996 si è semplicemente mutata nella sua variante estrema, la Maria bambina per l’appunto del 2007. In quel brano, intitolato Pensieri, c’era già in nuce anche il ritmo della giaculatoria. E per un abile manipolatore qual è Nove il percorso dal rap all’inno è una cover in più, un remake:

 «Mary non è stronza come Ambra.// Mary è molto più dolce.// Mary studia filosofia.// Mary ha i capelli biondi.// Mary non grida.// Mary ha le gambe più lunghe di Pamela.// Mary non cerca di rubare spazio alle altre ragazze.// Mary mi fa vivere la speranza di un mondo migliore.// Mary mi fa battere il cuore fortissimo.// Mary è più bella di Miriana.// Mary è molto riservata.// Mary ha il sorriso più bello che esiste.// Mary è del segno dei Pesci.// Mary parla tre lingue.// Mary sconfiggerà questa noia che non ha mai fine.// Mary guarda di profilo con le sue labbra grandi e impazzisco.// Mary balla con moltissima grazia.// Mary ha la pelle profumata.// Mary è tutto quello che possiedo.»

 In mezzo, tappa intermedia tra i due estremi, ci stanno la Chiara e la Maria di Amore mio infinito da cui infatti Nove riprende, di poco variato, l’incipit del poemetto («Lei era una bambina che qualunque collina /avrebbe voluto avere come sole»). Dalla Mary dell’estasi terrestre alla Maria dell’estasi celeste. Ma è un percorso senza sviluppo. Sono le due facce della stessa medaglietta.

le gambe

Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore

Nove mi pare bloccato entro quella intuizione originaria, utile e intelligente, dalla quale è partito per una descrizione sociologica e culturale della generazione a lui contemporanea prima in chiave cannibale poi in chiave nostalgica, sempre con rattenuto sdegno etico: e da lì non si è più mosso, ci gira intorno con varie evoluzioni senza trovare, per ora, un nuovo diverso oggetto di descrizione e di riflessione, a differenza di quanto avvenuto per altri compagni di strada degli esordi. Insomma tra il 1996 (Woobinda) e il 2000 (Amore mio infinito) Nove elabora e immagazzina tutto il materiale di costruzione degli scritti successivi e da lì in poi procede per gemmazione. Ancora un ultimo esempio: il primo capitolo del romanzo Amore mio infinito intitolato “Prima cosa”. La bambina, 1982 è connotato stilisticamente dalla resa in chiave imitativa dello sguardo infantile sul mondo; La più grande balena morta della Lombardia riprende e ripropone questa medesima cifra stilistica, con tutto il buffo corredo delle fantasie e delle percezioni abnormi e iperboliche dei bambini, ma dilatandola all’intero libro.

 Quanto alla questione se Nove «c’è o ci fa», mi piacerebbe sapere quante copie abbia venduto Maria tra i seguaci di Comunione e Liberazione o nelle innumerevoli parrocchie italiane. Non avendo a disposizione questo dato, la mia impressione è che il successo di Nove si debba in buona misura al fatto che è un autore redditizio, i suoi libri hanno un mercato assicurato e come è comprensibile l’editoria tende a sfruttare il fenomeno. Ma anche Aldo Nove è ben in sintonia con tale logica e sa individuare di volta in volta il pubblico giusto per il nuovo prodotto. Quindi Nove «ci è», perfettamente consapevole della situazione. E anche qui non c’è niente di cui scandalizzarsi.

Gif Malika Favre 1

Pseudo commento di Giorgio Linguaglossa

Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore, il quale sicuramente apprezzerà la mia ironia. Sicuramente, la ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia (o meglio, dell’anti poesia) di Nove, il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è stata una operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che STA IN ALTO. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale», siamo già scesi così in basso che ogni forma di ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Semmai, il problema è il «vuoto» della società italiana. Ma lasciamo stare e torniamo alla anti poesia di Nove che riscuote il caldo abbraccio critico di Cortellessa. Personalmente, ho dei dubbi sulla utilità e sull’efficacia di ogni pratica di «carnevalizzazione» della poesia per le ragioni su dette.
Per Bachtin il «carnevale è una forma di spettacolo sincretistica di carattere rituale… e che la vita carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario» (Dostoevskij. Poetica e stilistica 1968). «Il sentimento carnevalesco del mondo» e la «letteratura carnevalizzata» si fondano su una sospensione temporanea e rituale della «normalità» che consente di istituire «un mondo alla rovescia» nel quale per Bachtin si risolve la parodia. E aggiunge il critico russo che, come il riso carnevalesco, così la parodia è «ambivalente», nel senso che non è «mera negazione del parodiato» ma tende ad obbligarlo «a rinnovarsi e a rigenerarsi».

La poesia di Aldo Nove rientra in questo schema categoriale, la sua poesia sospende la «normalità», la «rovescia» ma, purtroppo, la lascia intatta, anzi, la invita a riprendere fiato e a sopravvivere. È questo l’appunto che mi sento di fare alla poesia di Aldo Nove, che la sua parodia (qua e là anche divertente, lo ammetto), lascia le cose della poesia come stanno, anzi, ne rafforzano le componenti conservatrici (cioè, come dice Bachtin «normali»). Devo però ammettere che trovo più effervescenti e divertenti i suoi romanzi piuttosto che le sue poesie, ma anche per la sua narrativa valgono le considerazioni già espresse.
Ho forti dubbi che la anti poesia di Aldo Nove riesca a svecchiare la poesia italiana, la ironizzazione e la parodia la lasciano purtroppo intatta, non la scalfiscono, non la rinnovano. E, alla lunga, leggere questa anti poesia alla fine annoia.

Per chiudere la questione della poesia di Aldo Nove, io direi che essa si situa, in continuità con una impostazione neo (o post) sperimentale della poesia italiana del secondo Novecento, all’interno dell’orbita della Anti-poesia. Ovviamente, questo tipo di impostazione categoriale rende questa poesia sì divertente (a volte) ed effervescente (a volte), ma anche innocua, non innova, anzi, non vuole innovare, vuole soltanto dilettare e divertire il lettore. Non innova la poesia italiana per il semplice fatto che non può nulla né contro né in pro di essa, perché si situa al di fuori della «forma-poesia».

Riporto uno stralcio di un articolo di Corrado Ruggiero del 2008:

«L’uomo occidentale. Cerchiamo allora di ricostruirne i tratti fondamentali. Partiamo dalle pietre che ne sono a fondamento. I libri e gli autori che l’hanno fatta, ci hanno fatti quali siamo. Bisogna arrampicarsi sugli scaffali alti delle nostre biblioteche. Andare alla ricerca di un libro fondamentale per ognuno di noi. Un libro che, forse, finì a suo tempo nel tritacarne dei recensori di professione, quelli che consigliano i libri da leggere settimana per settimana. Laddove questo cui mi riferisco è un libro da leggere e rileggere: per sapere chi siamo, per conoscere come siamo diventati quello che siamo diventati, per decifrare quale destino ci aspetta dietro l’angolo – almeno in termini di perdita – se gettiamo via l’universo di fantasmi e di sogni che abbiamo costruito in tanti secoli. Sto parlando di Harold Bloom e delle 428 pagine del suo Canone occidentale. Un libro che, quando uscì, provocò qualche fuoco di paglia tra gli “addetti ai lavori” ma che, appena appena uscito, finì sugli scaffali alti delle biblioteche. Dove vanno i libri nobili, magari, ma poco sfogliati. Eppure le domande che poneva e ripropone (che cosa vale la pena leggere all’interno della grande tradizione letteraria occidentale? e che cosa è, poi, che fa il letterario essere letterario, appunto? qual è il rapporto tra la letteratura e il Tempo, tra la letteratura e la morte?) sono domande serissime. E fondamentali oggi, a inizio del nuovo millennio tanto più se l’occidente, sopraffatto da una incondita e molteplice globalizzazione, sembra che stia per chiudere bottega.

Che cosa è il canone? e che senso ha l’aggettivo, occidentale, che lo accompagna? Il canone, in un senso immediato e banale, altro non è che l’elenco, il catalogo – normativo – dei libri che ogni studente dovrebbe leggere per essere padrone del filo conduttore, almeno, della tradizione letteraria occidentale. Ma a Bloom non basta tracciare il diagramma dei 26 grandissimi che hanno fatto l’immaginario letterario della nostra civiltà. Per canone, Bloom sottintende la lotta tra il Tempo e la Memoria. Tra il Tempo che si fa ininterrottamente tra infiniti episodi di cui pochissimi sono significativi e moltissimi sono, invece, scorie, ridondanze che ripercorrono sentieri già percorsi, e la Memoria che è costretta a scegliere – per volgari ragioni economiche: non si può ricordare tutto di tutto! – se vuole veramente conservare. Pretendere di conservare tutto significa, in effetti, non conservare niente, alla fine. Un coacervo mostruoso di fatti più simile all’inverosimile catalogo di Bouvard e Pécuchet che all’ordine, distillatissimo, in cui la Memoria previdente e paziente sa conservare ciò che è significativo conservare. E non altro. Se si vuole avere Speranza. Anche se, oggi, “la speranza si vede ridotta”. Leggere, e tanto più leggere opere letterarie, è, dunque, innanzitutto un trovare se stessi al di là delle croste che ci hanno attaccato addosso le ideologie, le storie, le società con i loro assetti, pregiudizi e contrasti. «Di contro all’atteggiamento che riduce l’estetica a ideologia», Bloom sollecita

«una testarda resistenza il cui unico scopo consiste nel preservare la poesia nella sua pienezza e purezza».

Ma quali caratteri deve avere un’opera letteraria perché possa entrare nel canone? perché Dante sì e Petrarca Ariosto Leopardi no (tanto per restare nei confini della nostra provincia)? e perché è Shakespeare a occupare il vertice del canone? Per rispondere bisogna partire da capo. Anzi da un punto insospettabile: dalla nozione di angoscia. «C’è sempre qualcosa in anticipazione della quale siamo ansiosi, se non altro di aspettative che saremo chiamati ad attuare» e «un’opera letteraria suscita anch’essa aspettative che deve soddisfare o cesserà di essere letta». Deve soddisfare letterariamente nel senso che gli sbandamenti dell’umanità, di cui la letteratura si carica, vengono presi in carico, vengono trasferiti in letteratura, appunto. La letteratura è, in fondo, un’isola fatta di parole che, a loro volta, danno vita a immagini che, a loro volta ancora, assumono su di sé i drammi radicali dell’uomo: a partire da quello della paura della morte che «nell’arte della letteratura viene trasmutata nella cerca della canonicità, per congiungersi con la memoria comunitaria o societaria». A questo punto non c’è spazio per una letteratura che aspiri a essere tale solo per il fatto di essere portatrice di una determinata ideologia. Non basta, insomma, essere politicamente corretto per essere – un romanzo, una poesia, un dramma – anche letterariamente accettabile e degno di entrare nel canone letterario. È l’opera letteraria che, con la sua “originalità”, la sua “capacità cognitiva” ovvero la capacità di aprirci gli occhi su mondi sconosciuti, la sua “esuberanza espressiva” che investe il “politico” (corretto o scorretto che sia!) e lo fa diventare poesia, appunto. E l’isola letteraria non è del tutto un’isola! Shakespeare non ha limiti che lo frenino: né in alto né in basso. Niente gli è estraneo e niente gli è precluso: perché non ha fini precostituiti, obiettivi prefabbricati, convinzioni da trasmettere. La sua opera non ha quella pregnanza profetica che è la forza ma anche il limite, se è un limite, di Dante: per cui Dante – con Cervantes – si pone a ridosso, appena a ridosso, di Shakespeare. E, nel mettere questi paletti, Bloom risponde anche al quesito del perché Tizio sì e Caio no!

Ma se Shakespeare è il vertice del canone, è – poi – Amleto il centro di questo vertice. In Amleto si riassumono i drammi e le debolezze radicali dell’uomo. E dell’uomo, anche o soprattutto, in quanto uomo che legge e legge opere letterarie. Leggere è, in generale, un atto solitario. Leggere un’opera letteraria lo è ancora di più. Una pratica che ognuno può affrontare/deve affrontare solo nel chiuso di se stesso. Ed è sempre un dialogo e una lotta, un fare i conti con il se stesso più profondo. Un fare i conti con il Tempo, con il cambiamento, con la Memoria, con la morte in definitiva. Ed è questo appunto, quello che fa dal primo verso del primo atto all’ultimo verso dell’ultimo atto, Amleto. Anche quando non è in scena ma se ne sente, comunque, la presenza. Inquieta. Inquietante: per chi sa leggerlo, per chi sa leggersi. Questo siamo noi, fissati nei nostri libri: secondo i raffinatissimi parametri di Bloom».

(Corrado Ruggiero dalla Rivista “Nuova Secondaria, 8 – 2008”).

La dizione di «forma-poesia» era già stata usata da Franco Fortini nei lontani anni Novanta, quindi ha una lunga gestazione, non è quindi una mia invenzione; me ne sono appropriato perché in modo incisivo serve a far comprendere di che cosa stiamo parlando. Se dicessi semplicemente “poesia“. questo termine sarebbe troppo vago, con la dizione «forma-poesia» intendo una costruzione stilistica tipica di ogni Lingua e di ogni società, essa cambia con la mutazione della Lingua e della società.
Con il termine «Anti-poesia» intendo qualcosa che ognuno può intuire. Detto in parole semplici, dirò che ciascun poeta quando mette sulla carta qualcosa che per lui è “poesia”, ha chiara in mente anche la nozione opposta di «Anti-poesia» che implicitamente e esplicitamente nega la categoria di «poesia».

 Nota

La versione integrale del saggio di Angela Borghesi è pubblicata su Dieci libri. Letteratura e critica dell’anno 2007-08, Libri Scheiwiller, Milano.

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