Sabino Caronia, “Tutta la vita davanti”, (anti)romanzo, Schena pp. 150 € 15, 2023 – Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, La narrativa metaletteraria di Sabino Caronia è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis-connessi, introvertita, citazionista, narrativa della crisi, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi

Sabino Caronia Tutta la vita davanti cover

Narrazione eminentemente metaletteraria questa di Sabino Caronia che assume il citazionismo e l’incastro delle citazioni quale strategia di oggettivazione del testo, un testo privo di plot e privo di «storia», con un “io” che divaga intervenendo di quando in quando quando il non-autore lo ritiene opportuno; testo che si affida alla citazione e alla auto citazione come ultimo salvagente della narrazione prima del tramonto definitivo della narrazione in tempi di post-moderno sospinto.
Come noto, il metaletterario non si accompagna mai a un genere preciso, ma usa un qualsiasi genere per i propri fini, spesso parodiandolo e truccandolo (ad esempio, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino). Tuttavia, si può sostenere, a ragion veduta, che il metaletterario oggi preferisca i generi narrativi con esclusione della poesia lirica e post-lirica nelle quali la scrittura è indirizzata all’urgenza della indagine introspettiva. Il metaletterario narrativo invece accudisce l’oggettività del testo, mira ad eleggere come sede privilegiata la narrativa di fantasia, è antirealistico e iperrealistico insieme; così avviene per paradosso che la narrativa realistica oggi sospinge la narrativa meta letteraria agli spazi limitrofi (prefazioni, postfazioni, le introduzioni originali), metà dentro e metà fuori dal testo, in ripostigli, nicchie, cantucci riservati alla «voce» diretta dell’autore e alle esigenze autoriali di dover spiegare le ragioni che lo hanno spinto ad una narrativa metaletteraria.
La probabilità di riscontrare il metaletterario nella narrativa è in rapporto direttamente proporzionale con il livello di travestimento (Einkleidung) e di seriosità del testo, ovvero, quanto più si riscontrino nel testo elementi che ne fanno un testo affetto da «secondarietà», non «originario», non «autentico», e l’autore si avverta come «postumo», «epigonico» «laterale». Il metaletterario nella narrativa si presenta così come una conseguenza diretta di una situazione storica che destina tutti gli scrittori consapevoli della crisi della autorialità alla condizione dell’epigonato.
Se la letteratura delle origini, infatti, ha necessariamente un carattere fondativo, e quindi strumentale alla fondazione di uno Stato, di un popolo (vedi i Promessi sposi), nella post-modernità la letteratura diventa sempre più smaliziata, (auto)critica, (auto)riflessiva, scettica, revulsiva, rivolge il proprio sguardo indagatore verso se stessa, pone la questione della propria legittimità, sente il dovere di dover giustificare la «mancanza» di una storia veritiera contenente un plot con dei personaggi positivi e/o negativi. Con l’eclisse del romanzo di formazione e di quello dis-formistico (vedi Il nome della rosa del 1980 di Umberto Eco), la narrativa contemporanea più avvertita pone se stessa sul tavolo autoptico, è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis/connessi, di ricordi come cicatrici, scrittura introvertita, ipoveritativa, citazionista, razionale e schizoide insieme (e forse); letteratura della crisi dunque, narrativa che oscilla tra un iper e un ipo, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi; una scrittura che ha rinunciato alle categorie tradizionali della linearità cronologica, dell’unità d’azione e del principio di causalità che erano alla base della narrativa della tradizione. Tutti elementi che si ritrovano in questo godibile anti o pseudo-romanzo di Sabino Caronia, che oscilla tra confusione e lucidità estrema, quasi che l’autore fosse stato colpito dalla sindrome otolitica* (di cui sembra essere affetta la premier Giorgia Meloni), cioè una «vertigine posizionale parossistica benigna» dicono gli otorini laringoiatri, il problema specifico degli otoliti i quali devono stare al buio e non riescono ad alzarsi dal letto. Sindrome che sembra attecchire l’homo sapiens quando dalla posizione orizzontale voglia raggiungere d’un colpo la posizione verticale. Questione di posizione verticale, dunque.

* Gli otoliti sono piccolissime concrezioni di ossalato di calcio inglobati in una matrice gelatinosa, contenuta nell’endolinfa dell’orecchio interno. Gli spostamenti degli otoliti, relativamente pesanti e che sono conseguenti a modificazioni della posizione della testa o ad accelerazioni lineari, possono provocare sensazioni statiche e di equilibrio. A volte possono staccarsi e viaggiare nei canali semicircolari, provocando una patologia vertiginosa, detta vertigine parossistica posizionale benigna, o cupololitiasi o canalolitiasi.

(Giorgio Linguaglossa)

Laboratorio 30 marzo Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa, 1918, Roma

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1

Il momento della verità. Regia di Francesco Rosi.

1965.
È una grigia giornata d’autunno.
Scorrono sullo schermo le immagini del film.
Nella Spagna di Franco, Miguel, giovane contadino andaluso, per sfuggire alla miseria, parte alla volta di Barcellona.
Lì, in un primo tempo, per mantenersi, trova lavoro come manovale, ma poi, insoddisfatto di quella vita e affascinato dalla corrida, riesce, dopo molti sforzi, a farsi notare da un famoso impresario e ad affermarsi come torero.
Il suo destino non sarà lieto.
Il momento della verità.
È stato Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio a rendere celebre quella espressione.
El momento de la verdad è il momento in cui il matador si appresta ad uccidere il toro.
Solo allora gli è concesso di guardare finalmente in
faccia il proprio destino.
C’è un punto preciso da tenere presente al momento di uccidere il toro.
Quel punto si chiama cruz.
«Cruz: la croce. Il punto in cui la linea della cima delle scapole del toro incrocia la spina dorsale. Il punto in cui la spada dovrebbe penetrare se il matador uccide alla perfezione. La cruz è anche l’incrocio del braccio che tiene la spada col braccio che regge la muleta abbassata quando il matador dà il colpo. Si dice che incrocia bene quando la sinistra manovra il panno in modo da muoverlo lentamente e bene, accentuando l’incrocio fatto con l’altro braccio e così liberandosi del toro mentre l’uomo segue la spada. Fernando Gomes, padre dei Gallos, pare sia stato il primo a notare che il torero che non incrocia in questo modo appartiene subito al diavolo. Un altro detto è quello che la prima volta che non si incrocia, significa il primo viaggio in ospedale».
Il momento della verità.
È il momento che ti passa davanti tutta la vita.
Prima o poi arriva per tutti.
Mi chiedo se forse non sia arrivato anche per me.
Gerusalemme.

Dalla terrazza dell’hotel Plaza guardo il campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione che
è posto proprio sulla cima del Monte degli Ulivi.
Poco distante è l’edicola ottagonale costruita come protezione della roccia su cui la tradizione ha creduto di riconoscere l’orma del piede destro di Gesù lasciata nel momento dell’ascesa al cielo.
Chi non ricorda il passo degli Atti degli Apostoli?
«Detto questo fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi
stavano guardando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due angeli in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo che lo avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato».
Quella cima verde di ulivi. Quella fuga verticale della collina.
Cosa ci insegna questo episodio della vita di Gesù?
Che non abbiamo qui la nostra casa. Che i luoghi e le persone di questa vita dobbiamo prepararci a lasciarli senza voltarci indietro. Che bisogna solo tendere decisi verso la vera patria.

È scritto:
«Chiunque guarda indietro mentre mette mano all’aratro è inadatto per il regno di Dio».
In Orfeo in paradiso  il protagonista, che non vuole rassegnarsi ad  accettare la morte della madre, deve
riconoscere alfine che è impossibile il recupero di quel passato dove tutto è accaduto ed è chiuso ormai
nella sua sorte già compiuta e inalterabile come in una peschiera:  «Quegli uomini 1898, in moto entro i
loro destini scontati, diventavano tranquilli oggetti di analisi: per loro tutto era fatto, e si poteva osservarli
senza tremare o sperare per loro. Solo Eva faceva eccezione: Eva, nella peschiera, era il pesce di cui gli interessava la voce».
Così scrive Luigi Santucci.
E così penso anch’io.
Gesù ascende al cielo.
Sembra di vederlo mentre naviga in quel felice silenzio, non avendo altro porto che il silenzio.

In L’infinito Giacomo Leopardi parla di «sovrumani silenzi» e di «infinito silenzio».
Padre Davide Maria Turoldo crede che per arrivare a Dio bisogna necessariamente attraversare il leopardiano deserto del negativo.
Scrive: «Di te s’infiamma questo cuore, / conchiglia ripiena della tua eco, / o infinito silenzio».
E nel suo commento ai Salmi dice chiaramente che oltre i «sovrumani silenzi» è l’«infinito silenzio» di
Dio.
Quale infinito ci salva?

Sono qui, di fronte al campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione.
Intanto scende la sera.
Ed ecco che mi decido ad andare via.
Quante volte nel tornare a casa, attraversando il giardino, mi sono fermato a sedere sulla mia solita
panchina!
Proprio come Max Brod.
Minuto, un po’ gobbo, faccia affilata, occhiali tondi, amava starsene seduto a lungo sulla sua prediletta panchina a respirare a pieni polmoni.
Nella sua casa di Tel Aviv, al numero 23 di Spinoza Street, erano conservati gli inediti di Kafka che ora
sono qui a Gerusalemme, alla Biblioteca Nazionale di Israele.
Un grandissimo piacere è stato per me poterli finalmente vedere.
Ecco le due pagine manoscritte per Il Castello.
Ecco il taccuino blu con gli esercizi di lingua ebraica che è firmato K.
In uno di quegli esercizi, affidatigli da Pua Ben Tuvim, è descritto in dettaglio, con lettere in stampatello, lo sciopero degli insegnanti di Gerusalemme nel 1922.
Dice: «Quegli insegnanti sono facili all’ira e difficili da accontentare».

Dunque scende la sera.
Prima è l’oro, l’oro che orla l’orizzonte, l’infiamma, è una striscia d’oro sempre più larga, come una corona reale posta sulla fronte della città, un vasto anello metallico, alla base, che diventa più morbido verso
l’alto, si sfuma, delicato, quasi fragile, come un merletto; poi quest’oro perde un istante il suo splendore,
diventa opaco, lancia violenti bagliori di rame e nel fondo, a poco a poco, si offusca e si spegne. Si direbbe che tutto sta per finire, come dopo una festa, ne restano solo dei residui, qualche striscia di nuvola, appena appena orlata d’oro. E invece improvvisamente tutto si riaccende e rivive. Ma ora, non è più oro che circonda l’orizzonte, e nemmeno rame: è una luce infinita che invade il cielo e anche la terra. Tutto diventa inconsistente, eterno. E questa luce resterà a lungo, la notte stessa ne sarà nutrita. Quando poi le stelle, come lanterne, verranno a prendere il loro posto nella volta del cielo, essa si fonderà con la volta del cielo negli strati insondabili e profondi.
Tutto è come nella celebre canzone di Naomi Shemer: «Gerusalemme d’oro, di rame e di luce…».

È scesa ormai la sera.
Anche la prima volta che sono giunto qui era di sera.
Shamai Street 12 c.
L’arrivo con lo sharut.
Il buio tutto intorno.
Sembrava come all’inizio de Il Castello: «Era tarda
sera quando K arrivò…».
Nel mondo di Kafka.
Se in America Kafka ha descritto l’America pur senza esserci mai stato, in Il Castello, almeno così io credo,
ha descritto Gerusalemme pur senza esserci mai stato.
Gerusalemme come Praga.
Ecco dunque: «Non era un vecchio maniero feudale, né un palazzo nuovo e sontuoso, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e molte case basse serrate l’una contro l’altra… una misera cittadina, una accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica, tranne quella di essere costruite in pietra… K. ricordò fugacemente il suo paese natale».
E ancora:

«… Vedeva davanti a sé il suo paese, e i ricordi che ne serbava gli si affollavano alla mente.
Anche là nella piazza principale c’era una chiesa, circondata in parte da un antico cimitero con un alto
muro di cinta. Pochissimi dei ragazzi del paese erano capaci di arrampicarsi su quel muro, e K non c’era
mai riuscito… Una mattina… era riuscito a salire con una facilità sorprendente… Quella vittoria gli aveva
dato l’impressione di una sicurezza che dovesse durare tutta la vita…».
La sua è un’attrazione fatale.
«Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?».
La stessa cosa è successa a me.

Quel viaggio era scritto da tempo nel mio destino.
Fin dall’infanzia avevo composto una tragedia intitolata Ponzio Pilato: «Quando le fosche tenebre /
guardie di tua persona…».
Era la ricerca del corpo di Cristo e insieme la ricerca della verità.
Considerando la questione della verità fin da allora mi interrogavo sul dialogo tra Pilato e Gesù.
Da un lato c’è Gesù che afferma «Io sono la verità».
Dall’altro c’è Pilato che chiede: «Che cos’è la verità?».
Pilato domanda.
Gesù non risponde.
Forse perché, come ha scritto sant’Agostino, la risposta era già nell’anagramma della domanda: «Est
vir qui adest».
Il cristiano, sappiamo, deve essere sempre dalla parte della verità.

Non a caso l’espressione cooperatores veritatis, tratta dalla terza lettera di san Giovanni, era il motto episcopale di Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI.
E in La moglie di Pilato di Gertrud von Le Fort al procuratore che domanda: «Un regno che non è di
questo mondo! Chi conosce un regno simile?» la moglie risponde: «Chi è dalla parte della verità».
Ponza terra d’esilio.
Il mito lega Pilato a Ponza.
Pilato e Ponza.
Quante volte a Terracina, in vista delle isole pontine, anche io, esule dalla vita, sono tornato a pormi l’eterna domanda di Pilato a Gesù!
«Che cos’è la verità?».
L’importante è credere che esiste comunque la verità.
Come Kafka che ha scritto: «Io sono molto ignorante, ma questo non significa che la verità non esista».
Del resto per lui la letteratura non era e non sarebbe stata sempre «una spedizione in cerca della verità?».
Forse Ponzio Pilato sono io.
Forse Ponzio Pilato siamo tutti noi.
E la sua è una domanda nella quale è in gioco il destino dell’intera umanità.

Giorgio Linguaglossa Aleph, Roma, 2017 Sabino Caronia

da sx: Giorgio Linguaglossa, Donatella Giancaspero, Franco Di Carlo e Sabino Caronia, 2017 Aleph, Roma

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2
Giù la testa. Regia di Sergio Leone. 1971.
La prima volta che ho visto quel film era al tempo del mio servizio militare a Siena.
Ripenso alla piazza del Campo sommersa dalla nebbia.
Ricordo l’ansia del dopo, il pensiero del prossimo matrimonio, gli interrogativi sul destino imminente. Rivedo nella memoria tutte le scene.
All’inizio c’è la citazione di Mao Tze Tung:

«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza».

Poi c’è Juan, il bandito messicano, che spiega a John, il rivoluzionario irlandese, cosa siano veramente le rivoluzioni: «Ci sono quelli che sanno leggere i libri, che vanno da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dicono: “È venuto il momento di cambiare tutto”. E la povera gente fa il cambiamento. Poi si siedono intorno a un tavolo e parlano e mangiano, parlano e mangiano. E intanto che cosa ne è stato della povera gente? Tutti morti. E lo sai cosa succede dopo? Niente. Tutto torna come prima».
Quindi c’è il gesto di John moribondo che restituisce a Juan la croce che quello si era strappata dal collo alla vista dei corpi dei figli uccisi, come a voler significare che la colpa della morte dei figli non è di Dio ma dello stesso Juan.
E infatti la colpa di Juan è di aver scelto la rivoluzione.
Lo dimostrano anche le ultime parole di John:
«Amico mio, che grossa fregatura che t’ho dato!»
È quello senza dubbio un momento memorabile.
Ma ciò che più rimane impresso è, alla conclusione della vicenda, il grido angosciato di Juan:
«E adesso io…?».

Come Juan dimostra col suo grido angosciato alla conclusione del film, ognuno di noi è alla ricerca del suo posto nel mondo.
William Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate scrive che la penna del poeta «dona all’aereo nulla un luogo e un nome».
Sembrano le parole del profeta Isaia: «Io darò loro nella mia casa e tra le mie mura, un monumento e un nome più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».
Un monumento e un nome.
Si chiama così, Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoà che è stato costruito sul versante occidentale del monte Herzl, il «Monte della Memoria» ovvero il «Monte del Ricordo».

Durante la mia visita ripensavo tra me alle parole del discorso tenuto in quel Mausoleo, l’11 maggio 16 2009, da papa Benedetto XVI: «“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”».
Questo passo, tratto dal Libro del profeta Isaia, offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato, yad -“memoriale”-, shem –“nome”-.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria di milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoà. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia sopravvissuti e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio onnipotente… Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo Memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome…
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei?».

Pensavo e osservavo il cono di fotografie che si alza verso la luce.
Eccolo davanti a me.
Le seicento foto si riflettono in un pozzo scavato in fondo alla roccia dove i volti sembrano improvvisamente dissolversi, ma questo effetto dura solo un attimo e basta alzare nuovamente lo sguardo per ritrovarli tutti, nitidi e incancellabili.
Ed ecco, con il cono di fotografie, il giardino dei Giusti. In un primo tempo c’erano gli alberi di carrubo, che fruttifica solo dopo settant’anni. Poi sono arrivati i muri con i nomi dei giusti. Tra i nomi riconosco quello del mio illustre consanguineo, il professor Giuseppe Caronia.
Ripeto le parole di Gesù:
«Tuttavia non rallegratevi perché gli spiriti vi sono soggetti; rallegratevi, piuttosto, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
La gioiosa aspettativa del genitore che attende la nascita di un figlio.
Ricordo bene la notte che mia figlia è nata.
Come potrei dimenticare l’ansia di quei momenti fatidici?
«Quale nome darò a questa figlia?» «Che ne sarà di lei?».
Ho riletto da poco Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati.
Era quello il racconto che quella notte avevo portato con me. Ho impresse ancora nella memoria le parole con cui inizia:

«È noto che il colonnello Sebastiano Procolo venne a stabilirsi in Valle di Fondo nella primavera del 1925. Lo zio Antonio Morro, morendo, gli aveva lasciato parte di una grandissima tenuta boschiva 18 a dieci chilometri dal paese. L’altra parte, molto più grande, era stata assegnata al figlio di un fratello morto dell’ufficiale: a Benvenuto Procolo, un ragazzo di dodici anni, orfano anche di madre, che viveva in un collegio privato non lontano da Fondo».

Ecco il reggimento che il colonnello Procolo, nell’imminenza della sua morte, vede sfilare nel bosco e che rimanda alla dimensione di eternità rappresentata dal susseguirsi delle generazioni:

«Egli guardava verso il fondo della valletta, donde si avanzava celermente una massa scura. Erano centinaia di uomini in ordinatissime file che marciavano a ritmo, con passi svelti e decisi, come se non procedessero sulla neve, ma sopra una bella strada fatta a regola d’arte… Il suo reggimento avanzava in meraviglioso ordine nonostante le accidentalità del terreno, la neve e la forte salita. Già egli distingueva le baionette scintillanti alla luce di luna e riconosceva, data la ferrea memoria, i soldati uno per uno… Con andamento trionfale, la magnifica schiera salì fino al colmo della valletta e s’internò senza rallentamenti tra gli abeti del Bosco Vecchio. Però i soldati continuarono a sfilare per lungo tempo.
Il Procolo stesso si meravigliò dapprima che il suo reggimento avesse assunto così formidabili proporzioni. Comunque ne trasse motivo di compiacimento. A un certo punto le baionette non scintillarono più perché era tramontata la luna.
La neve divenne livida.
I soldati apparvero neri, non si poteva più riconoscerli.
Ad oriente si poté distinguere qualcosa come una nuova debole luce.
Le stelle cominciavano a impallidire quando la sfilata cessò, e l’ultimo plotone fu inghiottito dalla foresta. La voce dei venti si spense, le bestie si ritirarono nelle tane e nei nidi, stanche morte per la notte bianca. Tutto restò silenzioso e tranquillo, aspettando che si levasse il sole».
Ecco, già prima, il dramma del tempo che scorre e della morte che avanza con lui:

«Egli sentì tutt’intorno il greve silenzio della vecchia casa, carico di enigmatiche risonanze, lasciò passare adagio il tempo, il tempo meraviglioso che s’ingrandisce d’ora in ora, inghiottendo senza pausa la vita, e accumula con pazienza gli anni, diventando sempre più immenso».

Ecco infine le parole di congedo che il vecchio vento Matteo rivolge a Benvenuto alla conclusione della vicenda:

«Tu domani sarai molto più forte, domani comincerà per te una nuova vita, ma non capirai più molte cose: non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti. Anche se io rimanessi, non potresti, di quello che dico, intendere più una parola. Udresti sì la mia voce, ma ti sembrerebbe un insignificante fruscio, rideresti anzi di queste cose. No, forse è meglio così, che ci separiamo al punto giusto».
Quanto tempo è passato da quel lontano pomeriggio di inverno a Siena in cui ho visto per la prima volta Giù la testa? Come allora mi interrogavo, così ancora mi interrogo.
«E adesso io…?».

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19 risposte a “Sabino Caronia, “Tutta la vita davanti”, (anti)romanzo, Schena pp. 150 € 15, 2023 – Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, La narrativa metaletteraria di Sabino Caronia è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis-connessi, introvertita, citazionista, narrativa della crisi, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi

  1. «Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato» 1.

    J. Lacan, L’etica, p. 62

    In fondo la scrittura nel senso della poetry kitchen e della narrativa kitchen non significa nulla di che. Non è qualcosa da leggere nella consequenzialità sintattica e significazionista, più propriamente è qualcosa da guardare con la coda dell’occhio, come un susseguirsi di edifici e di strade, di semafori e di automobili, di vigili urbani e di persone che camminano senza un senso apparente.

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  2. Ecco di Antonio Sagredo una sua poesia (oserei dire kitchen alla sua maniera) tradotta e pubblicata in spagnolo, Cantos del Moncayo, da Manuel Martínez-Forega 2022

    Don Chisciotte ha l’artrosi: il menisco del deserto
    è pure una vergogna per il suo cammino e il suo bacile.
    Come resero folli i suoi sogni i Libri della Cavalleria!*
    Il suo cuore era miniato come i libri del Medioevo!
    Le quattro labbra di Dulcinea come mulini a vento
    furono il sudario di marmo delle sue imprese erotiche.
    La finzione eretica fu il trionfo di Santa Clitoride.

    Dulcinea, la Bella, soffriva di visioni in fotocopia,
    fu una femmina fatale, cavaliera, esperta di aste armate.
    Su una veronica tracciò i punti cardinali
    —ah, anima candida! —dei suoi viaggi erogeni.
    Pianse la Colomba nell’alcova – pietre!
    Era tranquilla, statuaria come una Iside sedotta dai misteri,
    lubrificava di continuo le sue quattro ali,
    perché potessero le sue ginocchia sacrileghe
    sollevare il Cavaliere in alto – pozzo o luna —
    e abbattere i malleoli del suo Minotauro!

    *Variante: per i suoi sogni, folli i Libri della cavalleria!

    Don Quijote tiene artrosis: el menisco del desierto
    es también una afrenta para su aventura y su bacía.
    ¡Como lo son sus sueños delirantes por los Libros de Caballerías!*
    ¡Su corazón era miniado como los libros medievales!
    Los cuatro labios de Dulcinea, como molinos de viento,
    fueron el sudario de mármol de su aventura erótica.
    La ficción herética fue el triunfo de San Clítoris.[i]

    La Bella Dulcinea padecía alucinaciones en fotocopia,
    fue una mujer fatal, experta amazona armada de venablos.
    Con una verónica trazó los puntos cardinales
    —¡ah, alma cándida!— de sus viajes erógenos.
    ¡Gime la Paloma en el nicho-piedra!
    Estaba tranquila, inmóvil como una Isis por el enigma seducida,
    continuamente lubricaba sus cuatro alas
    para que pudieran sus sacrílegas rodillas
    alzar en alto al Caballero —vacío o luna—
    ¡y abatir los maleolos de su Minotauro!

    *Variante: ¡para sus sueños, locos Libros de Caballería!

    [i] Traduzco imperativamente en masculino porque ‘clítoris’ tiene en español este género; no en italiano (‘clitòride’), que es femenino y, en consecuencia, sería ‘santa’ y no santo. (NdT).

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  3. La situazione di guerra ai confini dell’Europa civile “non è un eccezione: è la norma, nella storia dell’umanità”: è quanto dice a Fanpage.it uno dei più letti e rispettati autori di Storia, Sebag Montefiore. Dopo ottant’anni di pace in Europa, chi la dava ormai per scontata era un illuso – afferma lo storico – Ora c’è il pericolo che le democrazie liberali “perdano il loro potere in una febbre di moralismo ipocrita e di disprezzo di sé”. Le società aperte, secondo lo storico inglese, “devono mobilitare il potere flessibile degli stati democratici, riconquistare la fiducia perduta”. E affrontare con coraggio i tiranni. Con la coscienza che “niente batte la libertà, e la capacità delle democrazie di mettere in campo il proprio genio”.

    Lo so, è un duro pensiero quello di dover accettare e comprendere il pericolo che spira dalle autocrazie del pianeta, tutte armate di bomba atomica. Le nostre democrazie sono in pericolo, e noi stessi abbiamo dei nemici all’interno delle nostre comunità, è inutile negarlo, dobbiamo agire con cautela ma con risolutezza ad arginare la volontà di potenza delle autocrazie illiberali che sventolano l’insidia della bomba nucleare per intimidirci, le vie della pace sono irte di difficoltà. Auguro a tutti voi lettori di queste pagine un Anno Nuovo che veda il cessare dei due conflitti maggiori alle porte dell’Europa e che il mondo si incammini verso una pace globale piuttosto che verso una guerra globale, come vuole lo Czar del Kremlino.

    continua su: https://www.fanpage.it/esteri/putin-puo-vincere-in-ucraina-e-la-guerra-sara-la-nuova-normalita-in-europa-parla-lo-storico-sebag-montefiore/
    https://www.fanpage.it/

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  4. L’HOMO SAPIENS CHE VERRÀ

    Impalcature e operai per sfoltire i peli.
    Che i missili russino in pace dunque
    e i martelli pneumatici brindino al muro che verrà.

    L’homo sapiens ha la fronte sporgente
    E un’ispida muffa ricopre i nervi.

    Superbonus intorno alla Gerald Ford e all’altra che brucia
    Perché non può mettere le mani nello stomaco.

    Tra uno stuzzicadenti e un genio che relazione c’è?

    Riflusso di droni e valzer viennese a parte
    Dove sono le ballerine in abito nuziale e le api?

    Non c’è posto per chiodi e intonachisti.
    La barba produce nostalgie fuori posto ed è attratta dal vater.

    Basta viaggi organizzati che finiscono in una finestrella.
    Non c’è nulla da vedere o da salvare
    Ma si crea confusione se a dirlo è una blatta.

    I ragazzi del 110 portano l’alba nel cortile
    Ordinano al sole di abbaiare e quello ringhia e si affaccia al Tg
    Mostrando l’ugola di una betoniera.

    Una dolce rugiada è il principio di non contraddizione
    O solo fard sui ponteggi delle guance.

    In quanto ai denti
    Ci fu un tempo che agguantavano un verso
    Per succhiare il sapore di vino.

    Ma spremendo un osso viene fuori dentifricio
    E per sciacquare sono in vendita i biglietti della lotteria.

    Buon anno a tutti gli amici dell’Ombra
    FP Intini

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    • vincenzo petronelli

      Carissimo Franco,
      intercetto adesso questa tua poesia che trovo assolutamente straordinaria. Non vorrei apparire ripetitivo, ma la tua capacità di coniugare la poetica kitchen con la qualità di saper inquadrare l'”istante”, dandoci l’inquadratura kichen dell’oggi, è impressionante. Trovo che questo tuo modello di scrittura, che sempre più riesce ad unire i due piani di lettura (quello, consentimi l’espressione un po’ abusata per tutto ciò che rappresenta e richiama nella storia dell’arte tout-court, metafisico e quello sensibile) ci offra una chiave di interpretazione della nostra realtà storica più convincente a mio avviso, di molte analisi sociologiche o geopolitiche condotte a vanvera.
      Un abbraccio.

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      • Caro Vincenzo

        Mi succede di non riuscire a pronunciare nemmeno un bip se una composizione non si completa.

        Questa per esempio, è da giorni che giace nella cartella dello scolaro.

        C’è qualcosa che non torna. E dire che questa volta ci volevo includere le ultime notizie sulla salute finendo per includerci uno spirometro.

        Ah la cura dei particolari prima di lasciarsi per l’eternità!

        Ma è proprio che ormai non ci si riesce e temo che la cronaca sia così sovrabbondante da ritrovarsela non solo al posto dei vestiti ma anche di molti tra gli organi vitali.

        È da queste raffiche di mitra che ci si deve difendere o fare buon viso a cattivo gioco adattandoli al testo come farebbe un macellaio in un convegno di animalisti.

        Sembra però che mettere accanto al grande Schliemann, gli F-14 non funzioni.

        Non so, ma è come se il grande archeologo avesse trovato casse di bombe al fosforo accatastate tra le mura di Troia.

        E allora viene il dubbio che la storia non abbia più nulla di che sorprenderci.

        Personalmente ho molta simpatia per Cassandra.

        Probabilmente è ancora lì ad annunciare la fine della città, salvo che dare indicazioni precise dell’epoca di riferimento.

        Da allora schiere di poeti si sono succeduti a riempirsi di onore e gloria fino a quando hanno trovato rifugio tra le mura dei propri ombelichi.

        Erano belli quei tempi quando a riempire le pagine dei giornali erano Achille ed Ettore. Confrontarli con gli eroi attuali corrisponde a portare in cattedra l’erba cipollina.

        Un caro saluto e grazie per la stima.

        A FINE CORSA SOLO UN BIP SUL FRENO

        Le mani addosso e sottopelle i marmi di Troia
        Un muro tra tutti subì l’attacco di bile e crollò.

        Per regolare i traffici tra sughi divampò l’incendio
        Cominciando giorni di flatulenza.

        -Dai addosso ai sintomi, stana il nocciolo fuso
        e fai bollire il novecento per tutto il secolo.

        L’osso sacro sta cedendo ma si porta dietro
        Il rumore di cappa accesa e forno crematorio talvolta.

        Cara mano che t’infili nello Scamandro, sai?
        La tavola degli elementi non è bastata a saziare la fame.

        Schliemann, adesso prova a chiedere all’ INPS!

        Risponde con lo stetoscopio posato sul canale di Suez :

        -Ci vedremo a fine rapporto quando verrà ad esalare F-14
        Inspirazione profonda e tutto d’un fiato nello spirometro.

        F.P. Intini

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  5. Non sembra un romanzo ma la testimonianza di un intellettuale che risale la corrente della (sua vasta) conoscenza (di una vita), con pensieri ed emozioni. Bel mix, e si troverà certo la quadra. Ma intanto il novecento è finito (sempre che le date abbiano significato) e parlarne a me sembra troppo presto; parlarne da un nuovo pulpito, intendo, con amorevole distacco. La lettura però sembra molto piacevole, con periodi brevi, sapientemente auto illustrativi.

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  6. Per l’homo sapiens che già c’è

    Se stringi il poliptoto finisci nel buco dell’ozono
    Le ballerine indossano il tutù per cuocere gli spaghetti

    Lo stuzzicadenti ha generato una pallottola
    Don Chisciotte s’è preso il raffreddore

    Il treno superveloce Milano-Parigi impiega un anno luce
    Però solo all’andata, al ritorno non arriva mai

    Un grosso vocabolario ha ridotto il tubo di dentifricio alla resa

    La parte di Gengis Khan la diamo a Putoler e quella di San Francesco al ministro Lavrov, regista Xi con sceneggiatura di Kim Jong Un

    Passa di qui il poeta Montale, legge la poèsia
    E ci fa le corna

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    • il reale è morto sotto il colpo di questa autonomizzazione fantastica del valore

      Nella poesia kitchen si tratta di una scommessa, di portare l’esperienza dell’artificialità del linguaggio fino al suo limite estremo. Fino al punto di rovesciarlo nel suo contrario. È proprio rovesciando la clessidra che si può verificare il funzionamento della clessidra, verificare che il linguaggio poetico può essere un artificiatoio, un luogo dell’artificio, magia nera, non più bianca, in quanto l’occhio che legge una frase, fissa sempre un oggetto attraverso un sistema linguistico, ma non lo fa tanto per inquadrare una scena, né per scovarvi un dettaglio ascoso; al contrario, si tratta di permettere all’occhio di perdersi tra gli oggetti, tra i segni, di farsi penetrare senza difese dagli oggetti linguistici, dai segni, affinché possano farsi essi stessi effetti cosali. Diventare effetti cosali. Non più quindi il desiderio di un oggetto in quanto mancanza, non è più importante ciò che ci manca, nemmeno ciò a cui manchiamo, quanto la consapevolezza che il Reale è ciò che può fare a meno di noi e degli strumenti linguistici dell’homo sapiens . Che il Reale è comunque sempre irraggiungibile.

      La scrittura poetica kitchen è un particolarissimo evento di linguaggio che ha cessato di essere linguaggio naturale, cioè rinvio continuo, per divenire effetto cosale, macchia d’inchiostro, gesso su una lavagna, macchia di colore su una superficie. La scrittura è quella intelligenza chimica e fisica del linguaggio che diventa macchia, cosa. Questa è la risposta di Lacan. In che modo l’homo sapiens può giungere al Das Ding se non arrestando il flusso del linguaggio in una macchia cosale. È esattamente questa la modalità in cui l’homo sapiens dell’epoca cibernetica può abitare il linguaggio se non arrestando il flusso del linguaggio in una macchia cosale. È esattamente questa la modalità in cui l’homo sapiens dell’epoca cibernetica può abitare il linguaggio, non più come machinerie del rinvio, ma come arresto del rinvio, come effetto cosale. La scrittura poetica è il divenire del linguaggio come effetto cosale, il solo modo che ha il linguaggio poetico di sopravvivere al linguaggio reificato dell’epoca cibernetica.
      La scrittura poetica in questo senso ampio è quindi l’unico modo a disposizione dell’umano per fare qualcosa di quella mancanza originaria che è al centro del sistema linguistico e della soggettività, il che implica fare di quella mancanza una strategia paradossale per la pienezza ( fatta di vuoto). La La scrittura poetica in questo senso ampio è quindi l’unico modo a disposizione dell’umano per fare qualcosa di quella mancanza originaria che è al centro del sistema linguistico e della soggettività, il che implica fare di quella mancanza una strategia paradossale per la pienezza (fatta di vuoto). La scrittura kitchen è una pienezza (fatta di vuoto) ottenuta tramite l’autonomizzazione fantasmatica del significante, del segno che è una differenziazione di sé da altro, che è ciò che costituisce il «valore», che è un nulla di che, una mera misura che consente lo scambio.

      “Ma se tutto è segno, che fine fa il mondo reale? Baudrillard, prima e meglio di altri coglie il potenziale irrealistico e irrealizzante della ‘svolta semiotica’. Che succede, infatti, della cosalità della cosa? Nel mondo segnato dal segnato ‘svolta linguistica’, che è ancora il nostro mondo della tecnica e della cura del sé individuale, «il valore referenziale» di una cosa «è annullato un vantaggio del solo valore strutturale del valore».1
      La trasformazione del mondo delle cose in segni ha un doppio effetto intrecciato; da un lato il segno diventa onnipotente e pre-potente, dall’altro la cosa diventa sempre meno importante: «emancipazione del segno: svincolato da quell’esigenza ‘arcaica’ che aveva di designare qualcosa, esso diventa infine libero per un gioco strutturale, o combinatorio, secondo una indifferenza e una indeterminazione totale».2
      Il segno sempre meno ha bisogno di riferirsi ad una cosa per avere senso, dal momento che il segno è un valore di scambio; ogni segno vale per i rapporti che intrattiene con gli altri segni, in un gioco chiuso dimentico del mondo: «il reale è morto sotto il colpo di questa autonomizzazione fantastica del valore».3
      Ora, questa di Baudrillard non è una affermazione filosofica, non è una tesi che sostiene; è una definizione dell’homo sapiens.
      L’animale che parla trasforma il mondo delle cose, indipendentemente dalle sue variabili opinioni filosofiche, nel mondo delle cose dette, pensate, sognate, detestate: valorizzate (come quando un politico parla della possibilità di valorizzare un tratto dicosta incontaminato: ecco quindi in successione aeroporto, villaggi turistici, stabilimenti balneari, locali notturni, e così attraverso). Le cose smettono di essere cose perché l’umano è quell’animale che trasforma il mondo in valore, cioè in segno. La realtà, scopre Baudrillard, è fondamentalmente artificiale”.4

      1 J. Baudrillard, 1 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte [1976], Milano 2009, pp. 17-18. [
      2 Ivi, pag. 18.3 2 Ivi, pag. 18.
      3 Ibidem.
      4 Felice Cimatti, 4 Felice Cimatti, https://www.academia.edu/33192641/Verso_il_reale_Lacan_e_Baudrillardhttps://www.academia.edu/33192641/Verso_il_reale_Lacan_e_Baudrillard

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  7. antonio sagredo

    uno dei tanti componimneti dedicati ai MASSACRI.
    inizio:

    ——————————————————–
    Potessi i mitrati inverni salmodiare
    e dal calice insidiare metafore e patiboli.
    Il trono sarà una sospetta distrofia regale,
    una rossa gorgiera di sentenze senza requie.

    Torvo il sentiero nero come una cornacchia
    becca i campi la mia parola cordigliera.
    Non so se festini e maschere creano convegni:
    la segnaletica degli occhi è un dono irriverente.

    Dalle soglie ai portali l’anima eretica ci spia
    col suo sguardo di corsaro… guercia sarà la preda!
    Questo secolo non sarà migliore del trascorso:
    i massacri saranno il nostro pane quotidiano.

    Le Madri senza fede né speranza spolperanno
    i figli prima d’una condanna o una guerra.
    Il boia cercherà invano gli occhi di un poeta disossato
    o lo sguardo impietoso d’una carcassa che t’accusa.

    Non esiste un Nulla che mi conforti, il resto è Delirio!

    antonio sagredo

    Vermicino, 17 ottobre 2003

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  8. ,…..,,,,,….. ,ò,

    Con gatto Montale e bricco del latte.

    Giorgio Morandi.

    LMT

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  9. milaure colasson

    Esercizio:

    A chi dice che scrivere una poesia kitchen è facile, prenda un foglio, un lapis, e ci provi (con divieto di parlare dell’io). Si accorgerà che non è affatto facile. Anzi difficilissimo.
    Un complimento allo pseudo post-romanzo di Sabino Caronia, la cui lettura è godibile. Un intarsio di citazioni tra le quali si insinua l’io con i suoi ricordi e le sue ossessioni, l’io non è altro che un buco vuoto. Che altro potrebbe essere?, sarebbe superfluo cercare di otturare questo buco, non si riuscirebbe a riempirlo mai. E allora, la narrativa dell’esistenza giunge alla sua fine annunciata (e sempre prorogata). L’unica narrativa che gode di buona salute è il poliziesco, il noir. Che sembra godere di buona salute (i nostri moderni graffiti sulle pareti). Poi, tutte queste citazioni convergono e divergono al medesimo tempo, è inutile trovar loro un centro, probabilmente non c’è nessun centro, siamo diventati a-centrici, occorre rassegnarsi. E chi non si rassegna è perduto. Giorgio dice che è la nostra nuova dimensione metastabile, l’ontologia del pressappoco. Forse sì. Forse no. Chissà.
    Già oggi è possibile, tramite la AI scrivere romanzi in qualche secondo, tramite gli algoritmi intelligenti della AI. E anche ottime poesie, tramite la AI. Nel prossimo futuro avremo milioni di ottimi romanzi e ottime poesie scritte dalla AI. Giornalisti e scrittori saranno inutili perché sostituiti da algoritmi intelligentissimi. Tutto questo la poetry kitchen lo aveva anticipato da almeno due anni. La causa intentata dal New York Times contro Open I è solo l’inizio di una grande battaglia per la libertà dell’informazione.
    Un Augurio a tutti i lettori di Felice Buon Anno. Putin e Xi nei loro discorsi di fine anno hanno ribadito la loro amicizia senza limiti. Le prossime guerre verranno combattute con la AI in prima linea. È un’ottima notizia.
    “L’art c’est la pagaille”
    (dice mon ami Ben)

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  10. In paradiso, due chiacchiere con il leone che ascolta e sbadiglia. «Vivere in eterno, che idea, 70/90 anni sono già una bella misura.» E il leone: «Forse perché non sai stare come me, qui dove sono adesso, all’infinito.» «Ah, sai anche parlare…» «Sono telepatico. Ma solo da vicino, se ci guardiamo negli occhi. In Paradiso non c’è nessuno. Quando erano piccoli, Adamo ed Eva giocavano con me a Qui la zampa». E aggiunse «Bei tempi». Mamma non era ancora nata.

    Buon inizio 2024

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  11. antonio sagredo

    DOMANI 3 FEBBRAIO: ANNIVERSARIO DEL MATRIMONIO DI MIA MADRE E… DATA DEL MIO PENSIONAMENTO, E ALLORA PREGO, LA PAROLA AI LEONI-DEMONI:

    —————————————————————
    Hic sunt leones

    Felicità – tavoletta d’argilla,
    creta che canta dal fondo degli argini,
    un qualcosa mi dovevi portare,
    come un cieco tu hai abdicato.

    E mi portavo dietro la vita come una cerniera,
    come una soglia che non sapevo oltrepassare.
    Non avevo la gola pronta al canto del gallo,
    non sapevo come uscire dal rimorso, e dalla notte.

    Mi hai stupito come un aurora recidiva
    che a Leuco oppone un ritegno implume,
    perché il volo di una scrittura sia più d’un calco
    sulla tradita pietra che la storia non sa amare.

    E pure mi dovevi un esangue frangere di suoni
    che ai gridi e ai pensieri incisi con la selce,
    e agli sguardi, e a un futuro ignoto e disatteso
    un aiuto dagli occhi e dalle mani un grecoro – reclamava!

    antonio sagredo

    Roma, 3 febbraio 2011
    (primi alborei)

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  12. Tiziana Antonilli

    ‘ L’animale che parla trasforma il mondo delle cose, indipendentemente dalle sue variabili filosofiche, nel mondo delle cose dette, pensate, sognate, detestate ‘. E ancora ‘ Le cose smettono di essere cose perché l’umano è quell’animale che trasforma il mondo in valore cioè in segno.’
    Traggo spunto da queste riflessioni di Giorgio Linguaglossa sopra riportate per rispondere brevemente al poeta Francesco De Girolamo intervenuto nello spazio che Più libri più liberi ha dedicato alla poesia kitchen il 10 dicembre scorso . De Girolamo in quella sede ha definito le poesie kitchen divertenti, ma prive, a suo avviso, di spessore filosofico. A mio parere e sulla base della mia esperienza di autrice kitchen posso dire questo : la filosofia ci è servita e ci nutre ancora, ma soprattutto per sapere e capire il tipo di poesia che NON vogliamo, per scegliere con consapevolezza il linguaggio che NON vogliamo usare. Se nelle poesie kitchen ci fosse filosofia sarebbe una contraddizione, la negazione delle nostre riflessioni sui linguaggi e sulla poesia. Poesia e filosofia non coincidono, la poesia non può essere filosofia per tanti motivi, se non altro perché non vuole fare da guida a nessuno e non insegue la saggezza. Abbiamo cercato di far uscire la poesia dall’Accademia per farla poi entrare nel regno della filosofia?

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  13. antonio sagredo

    Sono stato il primo a pubblicare i miei componimenti poeti su questo, BLOG con grande e grave scandalo dei poeti di allora e di alcuni di adesso che sono sopravissuti … sembrava che avessi compiuto chissà quale delitto, e delitto era poichè sono statto il primo a disvelare il velo di un malcelato disappunto: quello di essere un poeta e non poter pubblicare su un blog che si occupava di poesie e suoi problemi alcun verso!!!!
    poi squarciato il velo, i poeti fecero a gara a pubblicare i loro versi.

    ma accade:

    Glorificatemi!
    Non sono pari ai grandi.
    Sopra tutto ciò che fu fatto,
    pongo il mio nihil.

    Non voglio mai leggere nulla.
    Libri?
    Che sono i libri?

    Io un tempo pensavo
    i libri si fanno così:
    arriva il poeta,
    lievemente disserra le labbra
    e d’improvviso si mette a cantare il sempliciotto ispirato.

    Prego!

    Ma risulta che prima
    che cominci a cantarsi,
    camminano i poeti a lungo incalliti dal vagabondare,
    e dolcemente sguazza nella melma del cuore
    la stupida tinca dell’immaginazione.

    Mentre sbolliscono, strimpellando rime,
    una brodaglia di amori e di usignoli,
    la via si contorce priva di lingua:
    non ha con che discorrere e gridare.

    (V. Majakovskij – da “La nuvola in calzoni, trad, di A. M. Ripelino)

    ————————————————————-

    Ma nei miei confronti perdura un ostracismo – non nei miei confronti, ma riguardo ai mei versi, colpevoli di essere troppo elevati o certe volte sublimi come qualcuno non avventatamente ha scritto.
    Bontà loro e bontà mia.
    Comunque è merito di questo blog ad avermi ospitato senza alcun problema, se non soltanto all’inizio, e continuo….

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  14. Bello e interessante il metaromanzo di sopra che sembra raccontato da un tritacarte colossale. Quando poi ci si immerge nella striscia di “Giù la testa” per me diventa davvero intrigante. Ecco il Rod Steiger di “Mussolini ultimo atto” , diventare Juan e suo malgrado un personaggio rivoluzionario.

    Rod Steiger non è più Benito.
    ora è il bandito Miranda, Juan.

    Dinamite su un treno improbabile
    con traditori molto probabili sull’unico binario.

    Sonnecchiare mentre arrivano gli opliti.
    Dov’è il fronte?

    Truppe scelte, pezzenti campesinos
    abitué di jene e pulci nel ventre del pitone.

    Il tempo è la pozzanghera di Brown
    sbattono qui e là gli Eroi irreversibili.
    (Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Pag.36)

    Già!
    Gli fa compagnia John e una famiglia impossibile come un esercito spumeggiante di piccoli diavoli che non vede l’ora di menare le mani su una carrozza elegante ed esclusiva, rea di percorrere la rotta sbagliata con tutta l’arroganza e l’indifferenza della classe sbagliata. Da che mondo venga e dove vada, non è dato saperlo ma se ne vede l’esito finale in quei corpi nudi impossibili da distinguere sulla base del censo. Il metaromanzo non insegue alcun risultato se non quello di percorrere infinite strade e incontrare altrettanti infiniti personaggi. È dunque dalla nostra parte che pende , o almeno a me sembra, dove a fare la differenza è la larghezza delle strisce. Le nostre hanno l’ampiezza di uno spaghetto e a volte di un filo di cotone. La scomposizione ne scopre i lati che danno sul nulla e le allinea per compattarle e cercare il lato che dà sull’arte. L’uno e l’altro sono la cruz sulle spalle del toro, la via maestra in cui infilare la spada della creatività che non è esattamente una maniera di questionare di metafisica e affini e non porta sicuramente la poetry kitchen nelle stanze della filosofia come giustamente scrive l’amica Tiziana Antonilli.
    Un caro saluto a tutti
    F.P. Intini

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  15. L’inizio della fine

    Il Corriere della Sera scarica Giorgia Giorgia Meloni: il credito di cui ha goduto fin qui è finito. Ma solo le europee possono sbloccare una alternativa, tra Conte e Schlein
    STEFANO FELTRI JAN 3 su Appunti

    Il continuo ricorso alla giustificazione sanitaria rafforza l’impressione di una leadership fragile, schiacciata forse da un carico di responsabilità che l’inesperta Meloni non sa gestire (è in politica da una vita ma senza aver mai amministrato nulla)

    L’inizio della fine di Giorgia Meloni è arrivato. Ancora lei forse non se ne è resa conto, ma l’inevitabile legge dei cicli politici che logora una leadership nel giro di un paio d’anni sembra verrà rispettata anche questa volta.

    L’editoriale del direttore Luciano Fontana sul primo numero dell’anno del Corriere della Sera del 2024 segna un cambio di linea del giornale e certifica un’evoluzione nell’atteggiamento dell’establishment che in questi due anni è stato molto indulgente con Giorgia Meloni e le varie destre di governo.

    Fontana scrive, a proposito del paese, “servirebbe una svolta ma non se ne vedono le tracce”. E poi, sulla maggioranza e Meloni: “la prudenza, aver evitato danni, non può essere l’orizzonte di un governo che vuole durare cinque anni, e che deve fare i conti con un periodo elettorale in cui le tensioni dentro la maggioranza possono rappresentare la vera spina nel fianco”.

    In questa frase c’è il bilancio di un percorso della destra, di Fratelli d’Italia, ma anche di quello del suo alleato più rilevante, cioè il Corriere e il mondo che rappresenta: negli ultimi anni il più influente quotidiano del paese ha accompagnato l’evoluzione della destra un tempo postfascista con indulgente fiducia, un po’ come aveva fatto con il Movimento Cinque stelle (in particolare nella versione di Gianroberto Casaleggio).

    Invece di denunciarne le incongruenze e stigmatizzarne le degenerazioni, il Corriere ha contribuito a legittimare la nuova destra in nome di un pragmatismo mai nascosto e sempre rivendicato, anche in questo editoriale del direttore Fontana: se forze potenzialmente antisistema e destabilizzanti intraprendono un percorso di moderazione, di accettazione delle regole del gioco democratico, il ruolo del Corriere e dell’establishment non può essere quello di denunciarne l’incoerenza rispetto alla radicalità originaria, ma piuttosto di favorire questa maturazione.

    Il problema è che, come ha sempre scritto il politologo Marco Tarchi, quando le forze populiste e antisistema smettono di essere populiste e antisistema, non diventano partiti moderati e affidabili, restano l’accozzaglia di personaggi improbabili che erano ma perdono voti. E’ successo ai Cinque stelle, sta succedendo a Fratelli d’Italia.

    Fontana chiede a Meloni un ultimo sforzo, in questa evoluzione, cioè fare una “scelta europeista coerente” che “non è più rinviabile”. E poi far pagare le tasse invece di incentivare l’evasione, smetterla con misure bislacche come il divieto di vietare i presepi o il bando alla carne coltivata.

    L’alternativa, e qui Fontana ci va giù pesante, è “precipitare in una stagione simile alla fase finale dell’ultimo governo Berlusconi, tra show, conflitti istituzionali e isolamento internazionale”.

    Fontana omette, ma non sfugge ai lettori, che in quella fase l’Italia è arrivata a un passo dall’insolvenza sul suo debito pubblico e soltanto la drastica cura del governo Monti ha evitato il peggio (un governo tecnico, come quelli che la riforma proposta dalla destra vorrebbe rendere incostituzionali).

    Il Corriere può continuare ad aspettare questa ulteriore svolta di serietà da parte di Giorgia Meloni e dei suoi, ma se non è arrivata nel primo anno abbondante di governo senza elezioni significative e con tutte le stelle allineate, è impossibile aspettarsela a pochi mesi dalle elezioni europee quando la competizione interna alla maggioranza tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia spingerà i vari partiti a connotarsi con identità sempre più marcate, invece che a convergere verso il centro della moderazione.

    Unfit for the Job
    Nel 2023 Giorgia Meloni ha fatto di tutto per meritarsi un titolo analogo a quello celebre dell’Economist su Silvio Berlusconi nel 2001: unfit to lead Italy, inadatta a guidare l’Italia.

    Negli Stati Uniti – o in qualunque altra democrazia tranne che in Francia, dove stampa e opposizione si autocensurano su queste cose – la salute di Giorgia Meloni sarebbe già un problema politico.

    Non si è mai visto un leader occidentale che continua a saltare impegni ufficiali adducendo ragioni di salute. Neppure l’ottantenne Joe Biden che, anzi, si sente costretto a dimostrare continuamente il suo vigore.

    Giorgia Meloni passa da un’influenza all’altra, già un anno fa a dicembre prima e poi a gennaio annullava Consigli dei ministri e disertava vertici internazionali. A fine 2023 di nuovo lo stesso schema, niente saluto al Quirinale, due volte rinviata la conferenza stampa di fine anno, in mezzo la diserzione perfino dalla sua festa di partito, il 24 ottobre, questa volta per gestire la rottura con il compagno, Andrea Giambruno.

    O c’è una questione sanitaria che comincia a compromettere la capacità di Meloni di esercitare le sue funzioni (contro l’influenza basterebbe vaccinarsi, ma a destra certe scelte sono poco popolari…), oppure l’Italia è guidata da una premier che usa le stesse scuse di un liceale che vuole saltare la lezione. E che da febbraio non si espone a una vera conferenza stampa, con domande non concordate.

    Il continuo ricorso alla giustificazione sanitaria rafforza l’impressione di una leadership fragile, schiacciata forse da un carico di responsabilità che l’inesperta Meloni non sa gestire (è in politica da una vita ma senza aver mai amministrato nulla).

    Chi ha sfidato la sua autorità, è rimasto al suo posto: la ministra del Turismo Daniela Santanché ha mentito in aula sulle indagini a suo carico per bancarotta ma non si è dimessa; il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi – anche lui indagato – è stato sfiduciato dal suo ministro di riferimento, Gennaro Sangiuliano, perché gira l’Italia a pagamento tra consulenze e perizie, ma Meloni lo lascia al suo posto; il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro va a processo per rivelazione di segreto sul caso Cospito, non solo rimane in carica ma festeggia pure Capodanno con Emanuele Pozzolo, deputato di Fratelli d’Italia (ovviamente) che spara, ferisce un ragazzo e poi usa l’immunità parlamentare per ostacolare le indagini.

    Meloni non caccia nessuno, non sacrifica qualche testa per dimostrare che è lei che comanda, viene travolta dagli eventi. Nelle dinamiche interne come in quelle internazionali: il ministro dell’Economia (leghista) Giancarlo Giorgetti sconfessa il nuovo Patto di stabilità e crescita che ha negoziato, Giorgia Meloni lo fa approvare mentre boccia la ratifica del trattato di modifica del fondo salva Stati Mes.

    Col doppio risultato di dimostrare che il ministro dell’Economia non conta nulla e che a livello europeo gestiamo i negoziati incrociati senza alcuna strategia.

    E quindi?…

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    • Quindi aspetteremo luminose soluzioni da una sinistra pronta ad eseguire, meglio della Meloni, tutto ciò che l’UE deciderà di fare. E senza una propria proposta, a parte il MES… che certo risolverà tutte queste problematiche.

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