Gazmend Leka, pittore albanese, 2009
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Risposta di Gino Rago alla triplice domanda:
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?
Non vi è dubbio che nel pensiero di Vattimo la crisi del senso unico e assoluto a favore di sensi molteplici e relativi fa tutt’uno con l’abbandono delle categorie forti della metafisica tradizionale e con l’imporsi di una visione debole dell’essere. Vattimo giunge a tale risultato ispirandosi a Nietzsche e ad Heidegger. Più precisamente, Vattimo deriva da Nietzsche l’annuncio della “morte di Dio”, ossia della consapevolezza secondo cui le evidenze forti dei tempi passati altro non erano che forme di rassicurazione del pensare in un orizzonte garantito; e assume da Heidegger la concezione epocale dell’essere secondo cui l’essere non è ma accade e accade nel linguaggio per cui il senso dell’essere si risolve nella trasmissione di messaggi linguistici tra le varie generazioni.
Ne consegue che questa concezione dell’essere comporta una sua temporalizzazione, ossia un suo indebolimento strutturale con il risultato che, per Vattimo, al metafisico essere forte subentra un post-metafisico essere debole.
La fine della metafisica e l’indebolimento dell’essere sono riconducibili al nichilismo, ma per Vattimo si tratta di un nichilismo debole , un nichilismo vattiano nel quale né si ricerca il nuovo, né si vive di rimpianti ma ci si abitua a convivere con il niente e cercando soltanto nella nostra condizione delle positività possibili da esperire. Così, alla idea heideggeriana di essere come stabilità, eternità e forza viene sostituita l’dea di essere come vita e maturazione, nascita e morte.
Per questo nella sua Introduzione a Verità e Metodo, di H.G. Gadamer, Gianni Vattimo scrive:
«La coscienza, la certezza che l’io ha della verità come caratterizzata da chiarezza e distinzione,che da Cartesio fino allo stesso Hegel rimane l’istanza suprema, non è più per Nietzsche un testimone attendibile. In modo più radicale di Marx e Freud, che pure sono i positivi campioni dello smascheramento nel pensiero del nostro tempo, Nietzsche universalizza il sospetto nei confronti dell’autocoscienza, introducendo in modo definitivo nella nostra cultura la consapevolezza dell’attività di mascheramento e di mistificazione in cui consiste la vita stessa della coscienza».**
Dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e rassicuranti e dopo avere assunto fino in fondo la condizione debole dell’essere e anche della esistenza, l’individuo post-metafisico è colui che ha imparato a vivere con sé stesso, con la propria infondatezza, con la propria finitudine.
Alla domanda che solleva una questioni epocali : «Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?», le risposte non sono semplici, ma una è possibile darla in riferimento al passaggio dall’idea di “uomo metafisico” a quella di “uomo post-metafisico”: è possibile scrivere poesia anche dopo la morte della metafisica, ricordando che la metafisica muore quando comincia il nichilismo secondo Nietzsche, ma è possibile soltanto una poiesis che prenda atto anche della fine della storia in un nichilismo compiuto che accetta e afferma la realtà e la vita così come esse sono senza sovrapposizioni metafisiche, nella consapevolezza dell’assenza di fondamenti che impone un carattere fittizio di qualsiasi interpretazione, nella coscienza che nel post-metafisico c’è posto soltanto per il gioco e per l’erranza.
Il poeta post-metafisico deve scrivere per l’uomo post-metafisico, ossia deve scrivere nella pratica attiva della non-violenza, del dialogo, della tolleranza e nella consapevolezza di un mondo fluido, diversificato, in cui la certezza di possedere la verità assoluta è crollata e con tale certezza è morta anche la storia la quale cede il posto alla «storialità». Una poiesis post-metafisica in cui nasce e si afferma una componente etica che è cifra esclusiva del «pensiero etico» di Vattimo, un pensiero debole in cui l’indebolimento dell’essere si configura non soltanto come destino, ma come compito.
Ed è qui che si inseriscono la Nuova Ontologia Estetica e la Poetry kitchen, le quali ripudiano gli stucchi e le ragnatele della stanzetta del poeta dell’Io, rifiutando definitivamente la poiesis della «dimensione privata» (che ancora si fa oggi in quantità industriale) se non altro perché, per dirla con Giorgio Linguaglossa “[…] è semplicemente Kitsch, discarica di rifiuti quale è diventata la vita privata nella «dimensione privata» delle società post-democratiche dell’Occidente”. Per questo nella poetry kitchen assume una importanza decisiva il discorso serendipico che ha sempre a che fare con la pluralità delle significazioni, cioè con la nozione di essere come plurivocità e molteplicità di significazioni, ma la novità del nuovo discorso kitchen sta nella mancanza di significazione e nella falsa coscienza di ogni posizione di significato con cui si ha a che fare, con cui la soggettività dell’uomo dell’epoca cibernetica si trova a dover rendicontare.
Ciò che era fondamento, certezza e verità immediata e mediata, deve essere considerato come pregiudizio della coscienza o mito della coscienza. La coscienza di sé è un’illusione che sorge da una illusione anteriore: l’illusione della cosa e della cosa in sé. Questo perché il filosofo allenato alla scuola di Cartesio è stato defenestrato dal filosofo che sa che le cose sono parallattiche, che non sono in un luogo come appare ma in più luoghi contemporaneamente, che ci sono tante cose quanti sono gli esseri umani sulla terra, e tante altre quante sono le infinite posizioni di ogni singolo essere umano sulla terra.
Il discorso serendipico non fa riferimento al concetto di rendicontazione della cosa ma a quello di libera indagine circa l’essere o l’illusione delle cose.
Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023
L’arte moderna diventa astratta quando si accorge che non si può più raffigurare l’irrappresentabile, perché la poiesis è diventata decorativa e funzionale alla estetizzazione diffusa e fa da cornice alla immondizia e ai cassonetti dei rifiuti. Così, non è più possibile oggi fare dei ritratti che non siano kitsch o peggio, il volto umano non è più raffigurabile, così come non è più raffigurabile un paesaggio, con buona pace del zanzottismo e dei suoi fedeli seguaci. L’arte moderna diventa astratta perché ha orrore degli oggetti, che nel frattempo sono stati defenestrati dalla sanità pubblica del buon gusto. L’arte moderna diventa astratta perché ha in orrore la falsa coscienza del ‘ritratto’ con l’annessa e connessa spiritualità posticcia e invereconda delle anime belle… (g.l.)
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Risposta. Penso che più che parlare di “poesia europea del ‘900” sarebbe opportuno parlare di “poesia del Novecento in Europa”, se si considera che ancora oggi una Europa che non sia della finanza e delle banche non esiste. Così come una casa comune della poesia in Europa ancora non c’è. Così come non si può fare a meno di affermare che le grandi esperienze poetiche del ‘900, da quella di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound a quelle di Fernando Pessoa e René Char, di Ghiorgos Seferis, Dylan Thomas e Gottfried Benn, sono state grandi e influenti ricerche di poesia, ma tutte legate a poetiche ancora fortemente metafisiche. La poesia che pienamente intercetta il mio gusto estetico invece è quella di alcune poiesis post-metafisiche. Lo spatiacque e nella Nuova Antologia Estetica fondata, proposta e diffusa intorno al 2014 dalla rivista on line L’Ombra delle Parole. La differenza tra una poesia di scuola metafisica, (ma anche del tardo novecento italiano e, in genere, occidentale) e quella della NOE sta in buona parte qui: la NOE costruisce una poiesis fondata su un concetto polidimensionale dell’essere, a partire dal quadridimensionalismo, del dopo tridimensionalismo di Proust, in cui alla profondità, all’altezza, alla lunghezza la NOE aggiunge la “Memoria” come quarta dimensione. Ossia, saper cogliere con colpo d’occhio il passato, il presente e l’avvenire, non solo, ma anche il mio, il tuo, il nostro, il vostro «reale» in un unico flusso. Per dirla con Giorgio Linguaglossa: “[…] Per riuscire in questo obiettivo occorre modificare non solo la semantica, ma forzare la sintassi, agire in profondità sulla modellizzazione secondaria del verso, ridimensionare fino ad annullare il ruolo dell’«io», quell’Ego puntiforme di stampo cartesiano che oggi è soltanto un antico ricordo; significa abolire il tempo lineare e aggiungerne altri, moltiplicare i tempi e gli spazi, moltiplicare le prospettive e i punti di vista[…]”.
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile
a Socrate. Forse a la causa è una cicatrice sul vetro.
L’occhio incrinato del tempo. O forse è solo una stella
che sbraita nel vaudeville locale.
Una lunga lettera – come il mondo smisurato.
Scrivi come in vita muori. Come ai poeti
Le raccolte di versi sono andate quest’anno.
Ti chiudi il cappotto se c’è vento?
E i fiumi se piove si bagnano ancora
oppure prosciugati scorrono a ritroso?
scrive esattamente come il poeta A.
E che il signore con la camicia rossa ti parla.
E che anche due più due è uguale a due.
più prudente? più triste? col berretto?
Scrivi come in vita muori.
Aspetto la tua lettera. Lo sai, no?
ti risponderò e in sogno te la darò.
Oppure vengo io. Oh, come vorrei farlo!
Ma non so che tempo farà.
Ignoro amichevolmente.
Mi ritiro nel profondo.
Non mi stupisce la folla.
Profitti e perdite fanno tutt’uno.
Di notte nutrisco i pipistrelli.
osservo
l’ostrica del sole che tramonta.

(Poesie nuove 2000-2002)
Alle 18 in punto il tram sferraglia
Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
Il merlo gracchiò sul frontone del tempio.
La coturnice soffiò col becco rosso.
Dopo un secolo, il mare sciabordando
entrò nel peristilio spumoso
della villa e le voci degli abitanti fluirono
nella carta assorbente d’una acquaforte.
E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillano sul mosaico
della vasca dove murene sgusciano agili.
Un narciso osserva nello specchio
della vasca la propria immagine riflessa,
mentre un satiro danzante solleva il nitore
delle colonne doriche di viticci e tralci.
*
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
*
Con rumore di carrucola venne giù il temporale.
Nella piazza c’era un monumento ai caduti in bronzo
e un gelataio italiano.
Città lituana, nitida e trasparente come un merletto di Murano.
«Ricordi?».
«Sì, lo ricordo».
La gente veniva dal bosco con le ceste piene di funghi.
Io parlavo come da un altoparlante che abbia
inghiottito la voce…
Ciò è avvenuto non più di un secolo di luce fa.
Forse più, forse meno…
*
La luna splende di un lilla sempre più tenue
un cono di luce intenso e fragile.
Io sono nuda davanti allo specchio.
Sono l’amante del Faraone, le ancelle mi preparano
all’udienza con il dio vivente,
profumano le mie carni delicate.
La sfera della luna rotola nel cielo
come un carro trainato da schiavi fenici.
Forse anch’io sono intensa e fragile.
Tra me e il dio c’è una distanza d’aria.
C’è soltanto aria che puoi toccare come
una palla da basket.
Tra me e il dio non ci sono parole.
Non c’è bisogno di parole.
Isotopi delle parole i sospiri
come ondate successive di un mare
sconosciuto.
da Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2020
Alfonso Berardinelli, Anche le Lettere sono finite? La questione della Fine del Novecento – Due domande di Giorgio Linguaglossa ai poeti di oggi con un Dialogo tra gli intervenuti al dibattito e un Commento a una poesia di Franco Fortini
Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet
Recentemente ho posto ad un poeta queste domande. Penso che la risposta ad esse dica molto sulla poetica di un autore, in tal senso la ripropongo ai lettori, perché penso che siano due domande di fondo alle quali un poeta degno di questo nome non può sottrarsi.
1) Che rapporto ha la tua poesia con la tradizione del Novecento?
2) All’interno del Novecento (italiano ed europeo) quale linea intendi rintracciare e tracciare per il presente e l’avvenire?
Colgo l’occasione per ripostare un articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato nel 2014 che fa il punto della questione della Fine del novecento.
(Giorgio Linguaglossa)
Anche le Lettere sono finite? di Alfonso Berardinelli (2014)
Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”.
Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica, è mutata la figura dello scrittore: hanno vinto consumo e mercato. E ora siamo nell’epoca in cui tutti scrivono.
Nessuno può dubitare che il Novecento sia finito. Ma quando e come è finito? Da quali segni e fenomeni si evince che la continuità è interrotta? L’edizione aumentata e aggiornata dell’ultimo volume della Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni è uscita già da un anno, ma continuo a sfogliarla e rileggerla cercando di capire che cosa contiene, che cosa rivela o nasconde quel nuovo sottotitolo:
«Il Novecento e il nuovo millennio». A che cosa sostanzialmente fa pensare una tale formula, che sembrerebbe soltanto informativa? È certo che gli anni passano, che qualcosa di nuovo si aggiunge al passato. Qualcosa cambia, qualcosa si perde e si dimentica. Soprattutto se si tratta di un’intera letteratura, i cambiamenti sono molti e possono confondere le idee. Oggi c’è un clima generale diverso. Ma d’altra parte si ha o si vuole avere l’impressione che “tutto sommato” si vada avanti più o meno come prima. Gli autori hanno altri nomi, ma non cambia il nome di quello che fanno: si scrivono romanzi e poesie, si fanno recensioni, escono libri di saggistica e di critica. Ci sono, come prima, il premio Strega e il premio Campiello, che ogni giovane vuole.
A Torino c’è la Fiera o Salone del libro. Poi c’è la Milanesiana, c’è Massenzio, e poi “Libri come” e “Più libri, più liberi”… Ma se devo interpretare il punto di vista di uno storico della letteratura, in questo caso Ferroni, mi sembra che sia lui per primo ad avvertire la fine di un’epoca letteraria che aveva mantenuto per cinquanta o cento anni caratteristiche relativamente costanti, anche nel passaggio da modernità a postmodernità. Pubblicando nel 2012 un saggio su Giudici e Zanzotto, non sarà un caso se Ferroni lo ha intitolato Gli ultimi poeti, cosa che ad alcuni, specie ai più giovani, non è affatto piaciuta. Ultimi? Ma come? E noi chi siamo? La poesia continua a vivere.
Il presente esiste, ha preso il posto del passato e guarda al futuro. La parola “ultimi” non credo però vada presa troppo alla lettera e in assoluto. Si dovrebbe intendere come: “gli ultimi poeti di un’epoca in cui i poeti avevano certe caratteristiche oggi più difficili da trovare, perché loro appartenevano a pieno titolo al Novecento, un secolo finito”.
Dunque: quando è finito il Novecento? La sua fine non mi sembra sia un fatto accaduto fra il 1999 e il 2000. Il Novecento ha cominciato a finire prima, è finito più volte, potrei dire che è finito tre volte. Si è trattato di un processo scandito in circa tre decenni, mentre per altri versi qualcosa di quel secolo vive tuttora. In questo o quel punto del sistema letterario la memoria della cultura novecentesca agisce ancora.
Due critici nati negli anni Cinquanta e dotati di un notevole senso del passato e della storia (ma un critico smemorato non è un critico), come Giorgio Ficara e Raffaele Manica, intitolarono alcuni anni fa le loro raccolte di saggi rispettivamente Stile Novecento ed Exit Novecento. Non può essere una banale coincidenza. Credo che ci siano state da parte degli autori una precisa intenzione e una chiara intuizione di ciò che è avvenuto. Almeno nella letteratura italiana, uno stile è finito, uno stile che nonostante le sue varianti, ramificazioni e divaricazioni si spiegava e si generava a partire da presupposti che da un certo momento in poi (nel corso degli anni Novanta, mi pare) sono venuti meno.
Secondo alcuni pessimisti non si è perso “uno” stile, si è perso o è sempre più raro “lo stile”: almeno se si pensa che lo stile sia un valore e non un fatto che in arte si dà comunque, buono o cattivo che sia. Mi sembra che stia aumentando il numero di coloro secondo i quali tutto “a suo modo” è cultura ed è a suo modo arte anche l’intenzionale o inconsapevole negazione dell’arte intesa come lavoro sulla forma, eccellenza tecnica, abilità e originalità artigianale.
Per chi crede che lo stile sia un valore, la critica non ha senso se non valuta e giudica. Per chi crede invece che lo stile sia un fatto, la critica è registrazione di eventi che esistono come puri eventi, tutti di pari dignità, per i quali viene rivendicato il diritto di ricevere attenzione. Piacciano o non piacciano e quanto valgano, è allora del tutto secondario: ogni prodotto è artistico se si presenta come artistico e va quindi accuratamente descritto e interpretato.
Le avanguardie novecentesche fondavano su questo principio la loro strategica e tattica forza d’urto. Non importa che molta letteratura futurista e surrealista risulti illeggibile: è indubbiamente un fatto e quindi anche un valore letterario. Non importa che molta pittura e scultura moderna (ammesso che la distinzione sussista) siano a malapena guardabili dopo un primo sguardo: sono prodotti esposti e conservati nei musei e nelle gallerie d’arte, critici autorevoli si sono applicati a darne sofisticate o sofistiche interpretazioni e dunque guai a chi osa dire, ad esempio, che da un certo punto in poi Picasso ha prodotto solo merci artistiche facilmente realizzabili da vendere a caro prezzo, che Duchamp è stato solo un brillante provocatore e Andy Warhol un astutissimo mercante.
umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo
Nelle arti visive il Novecento non è ancora finito, le repliche continuano. In letteratura molta della qualità novecentesca si è perduta.
Già con la seconda metà del secolo il romanzo, la poesia e la critica non hanno dato più niente di paragonabile alle opere di Proust, Joyce, Svevo, Mann, Kafka, Musil, Yeats, Apollinaire, Blok, Machado, Eliot, Lorca, Benn, Lukács, Spitzer, Šklovskij, Benjamin… La postmodernità ha prodotto Borges, Auden, Camus, Beckett, Nabokov, Grossman, Morante, Yourcenar, Celan, Calvino, Enzensberger, Barthes, Steiner… È con questi autori che il Novecento si conclude. Ognuno di loro è stato consapevole del suo venire dopo, del suo essere “post” rispetto ai classici di primo Novecento. Anche questa coscienza era un tipo di continuità.
Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”. Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica non cambiò solo la società letteraria, cambiò l’idea di letteratura, la figura dello scrittore e il modo di produrre, consumare, interpretare la letteratura. Generi lungamente e anche proficuamente messi in discussione, come il romanzo e la poesia, riacquistarono una forma convenzionale, quella che permette oggi al romanzo di “fare mercato” (a dominare è il modello del best seller narrativo, reale o potenziale) e che permette alla poesia di entrare in una circolazione fluida, fra letture pubbliche e presenza in rete, una circolazione che quasi non prevede più una vera e propria lettura, il che mina la stabilità formale dei testi, dati per poetici perché si presentano come poetici.
Una simile situazione non è più neppure postmoderna, non presuppone la modernità, la ignora e quindi non può che mettere in difficoltà il lavoro e il ruolo della critica. Anche uno storico e critico molto informato e militante come Ferroni da anni parla ripetutamente di “angoscia della quantità”. Il post-Novecento è dunque, come disse Cesare Garboli, l’epoca in cui “tutti scrivono” rivendicandone anzitutto il diritto. La scena letteraria è affollata di decine e centinaia di nuovi autori in cerca di “visibilità”, mentre la qualità dell’atto di leggere tende gradualmente a scadere in “lettura distratta”. Dilatandosi enormemente, la nozione di letteratura perde la fisionomia che aveva conservato ai più alti livelli nel corso del Novecento, quando l’idea di testo letterario e della sua priorità, le tecniche di analisi formale e linguistica, l’enfasi sull’importanza della lettura avevano provocato riflessioni e discussioni ininterrotte e appassionate.
Dagli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio è cresciuta piuttosto l’importanza del mercato, del consumo librario come che sia, della presenza del personaggio-autore nei festival e nei media di massa vecchi e nuovi. Per tutto il Novecento, anche nelle sue ribellioni e turbolenze, la letteratura viveva tenendo presente la storia della letteratura. Oggi si va verso una letteratura o postletteratura che vive in uno spazio non più storico e che sembra “non fare storia”. Per questo, sebbene priva dell’autorità che ha avuto in passato, la critica sta diventando il solo luogo in cui la letteratura continua almeno in parte a prendere coscienza di se stessa, dei propri precedenti e del proprio passato.
Se mi si chiedesse quali sono stati gli ultimi scrittori italiani ancora pienamente, esemplarmente novecenteschi e con i quali il secolo scorso si è chiuso, credo che farei i nomi di Raffaele La Capria, Cesare Garboli, Piergiorgio Bellocchio. Scrittori al di là dei generi letterari, che hanno praticato tuttavia in prevalenza il genere saggistico. Eppure in tutti loro agisce sotto la superficie una vocazione e attitudine di narratori superiore, mi sembra, a quella che si trova in molti autori di romanzi. È la narrazione autobiografica, è la critica in senso lato culturale (“critica della vita”, direbbe Massimo Onofri) che fanno la sostanza e l’energia della loro scrittura.
La Capria ha scritto romanzi, il più famoso e apprezzato dei quali, Ferito a morte (1961), è però già un romanzo più autoriflesso e poetico che propriamente narrativo. In quel libro La Capria sembra influenzato dalla tessitura musicale e saggistica dei Quartetti di Eliot più che da altri romanzieri. Tutta la seconda metà della sua opera, da L’Armonia perduta (1986) in avanti, è saggistica autobiografica per episodi ed emblemi (Guappo e altri animali), autobiografia di un lettore (Letteratura e salti mortali) e critica sociale.
Cesare Garboli ha sempre negato di essere un critico letterario, pur essendo stato colui che ha più modificato lo stile della critica, i temi della critica negli ultimi vent’anni del Novecento: accentuandone a volte scandalosamente il carattere soggettivo. Come quella di Roberto Longhi o di Giacomo Debenedetti, la sua prosa è una delle più complesse, analitiche, perfettamente scandite e visionarie della nostra tradizione novecentesca. Scritti servili (poi Storie di seduzione) e Falbalas sono indagini sulla fisiologia dell’invenzione letteraria e diagnosi delle patologie che legano ogni autore al suo habitat.
Piergiorgio Bellocchio è uno scrittore morale e satirico, viene da una lunga tradizione che va da La Rochefoucauld a Flaubert, da Kraus a Kubrick. I suoi libri sono fatti di aforismi, micro racconti, recensioni e pirotecnici pezzi comici sull’inaridimento e le parodistiche deformità della vita nella società contemporanea. Il modo borghese di un tempo era certo affliggente e ipocrita, ma quello postborghese è l’apoteosi della stupidità fatta metodo. È così, secondo Bellocchio, che il Novecento è finito.
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[Alfonso Berardinelli è uno dei critici più originali della cultura contemporanea, con una profonda esperienza della poesia e del romanzo. Collaboratore di diverse testate, tra le sue opere ricordiamo: La poesia verso la prosa (1994); Casi critici (2007); La forma del saggio (seconda ed. 2008); Poesia non poesia (2008); Non incoraggiate il romanzo (2011); Leggere è un rischio (2012)]
[grafica di Lucio Mayoor Tosi]
dai Commenti del 3 agosto 2018 a cura di Giorgio Linguaglossa Continua a leggere →
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