Archivi tag: Nuova poesia
da Andrea Zanzotto di Filò del 1976 alla poesia di Francesco Paolo Intini del 1980, Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Baudelaire letto da Giorgio Agamben, La «nuova poesia» che stiamo facendo riprende questo assunto fondamentale, quello di «peripezia» e di «esperienza dei blablaismi» per costruire una poesia all’altezza dei tempi di oggi, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Ad un mondo che pone il soggetto al limite, Francesco Intini contrappone un linguaggio-limite, un linguaggio monstre
Archiviato in poetry-kitchen
L’epoca del liberalismo democratico corrisponde ad una forma di poiesis tramontata, Poesie di Marina Petrillo, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson, La Cosa, Struttura dissipativa,
[Marie Laure Colasson, La Cosa, Struttura dissipativa, 2020, acrilico, 50×40]
.
Il quadro raffigura l’evento di un «corpo in brandelli» come «nuda cosa». Tracce di una cosa misteriosa che è scomparsa, sottrattasi al nostro sguardo. Nuda cosa come corpi neutri, al di là del godimento e al di qua del soggetto, al di là del significante e al di qua del segno. Finché c’è il soggetto il corpo non può esserci. Se c’è un corpo, non c’è il soggetto. Il corpo è e non è, non viene incontro a nessuno. Il corpo è in quanto non è.
Agamben afferma che le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza.
L’«evento di un corpo» lo si raggiunge attraverso il «fantasma di un corpo». Si ha evento in quanto si ha un fantasma. È chiaro che qui ci si muove in un campo mondano del tutto privo di trascendenza. Un corpo abita la condizione in cui attualmente si trova. La sua condizione è quella che è, quello che fa è fare qual-cosa di quello che si è. Il corpo che conosciamo è il corpo che parla, che si esprime attraverso un sintomo che qualcuno deve interpretare; ma se il corpo diventa un sintomo, cioè un segno, allora il corpo reale svanisce, e rimane solo il significante di qualcos’altro. Nel corpo reale questo continuo slittamento di senso (di per sé inarrestabile, come quello scoperto da Saussure negli anagrammi), si arresta. Il corpo reale smette di essere sintomo, cioè linguaggio, e diventa quello che Lacan con un neologismo definisce «sinthomo», cioè un corpo che vive fino in fondo la corporeità che è. Il «sinthomo» per Lacan è allora il corpo che è passato «al livello del reale». Il nastro di Mœbius esibisce questo movimento: Il passaggio dal corpo-sintomo al corpo-«sinthomo» è di per sé un processo del tutto normale. Si tratta di vedere quello che era da sempre lì, il corpo nudo, brandelli di corpo nudi che galleggiano su un fondale di oscurità. Un corpo fatto a brandelli, brandelli di corpo, tracce di corpi dimenticati, rimossi. Tracce di tracce. Come sul nastro di Mœbius, ci si accorge che allontanandosi in una direzione dopo un tragitto che può essere anche molto lungo, si torna al punto di partenza. I brandelli di corpo che galleggiano sull’0scurità sono in viaggio, si preparano alla «traversata del fantasma». Si scopre così che non esiste un punto di partenza, o un punto di vista, e che siamo sempre stati nello stesso posto. Si scopre soprattutto che tutto è lì in vista, che non c’è un segreto, perché nel magico quadro di questa struttura dissipativa l’interno diventa immediatamente l’esterno, e vice-versa. Nel quadro non c’è né interno né esterno, c’è un corpo-superficie in brandelli. È questa la caratteristica dell’«evento di corpo», del «corpo in brandelli» che non ha bisogno dell’Altro, ma nemmeno lo teme; non ha bisogno di un significato né di un significante, che vive la vita che vive, una vita amebiotica perché essa è l’unica vita che gli è dato di vivere, di cui può fare esperienza.
(Giorgio Linguaglossa)
Cari Ewa Tagher, Giuseppe Gallo,
l’epoca del liberalismo democratico corrisponde ad una forma di poiesis nella quale lo scrittore, l’artista o creatore (parola da prendere con doppie pinze) esternava la sua, diciamo, visione del mondo o, più semplicemente, delle cose. Bene, quest’epoca è finita. Chiusa. La concessione che ha fatto il liberalismo democratico a ciascuno di dire e fare quello che voleva è sfociato nel postruismo, nel populismo e nel banalismo. Quel tipo di poiesis è diventata oggi una apologia delle cose come sono.
Leggiamo una poesia di un autore che ha pubblicato tutti i suoi libri nella collana bianca Einaudi:
Avrebbe minacciato un benzinaio
con la pistola carica
di un proiettile d’oro.
Cineasta e poeta, orafo e orco!
Ma cosa contestare a quest’accusa,
l’arma o la sua pallottola?
Cosa rivendicare,
santa Romana Chiesa o l’usignolo?
Quel colpo mai sparato
traversa la sua opera
piegandola ad un duplice ossimoro,
fantastico e fantasma
di violenza e pietà,
di sangue e alloro.
Si tratta di un commento, di una libera glossa, come si conviene all’epoca del liberalismo. Un commento dove il «poeta» fa mostra della sua intelligenza causidica e didattica che finisce non si capisce bene se in un messaggio bonifico e/o bonificato, tanto è gratuito e confuso.
Bene. Una poesia di questo tipo è semplicemente postruismo. Apologia del banale, quel banale che l’ideologia del liberalismo ha insufflato in ogni dove.
Io invece sono dell’opinione che questo tipo di poiesis possa essere rubricata nel truismario e nello sciocchezzaio dell’epoca del liberalismo pusillanime senza reticenza alcuna.
(Giorgio Linguaglossa)
Marina Petrillo
(Oltre il tempo lineare, l’indice di immortalità)
Transfugo l’indice di immortalità
dissimula la morte in baccello germinato
a soluzione insatura.
Silenzi vegliano estinti atomi.
Rarefazione dell’amore inaudito all’attesa
di un eterno sonno varcato ad unità.
E’ graffito il lascito dell’acerbo frutto.
Si palesa ogni ombra tra gli arabeschi
storditi in umano strepito.
Inclina il tempo a pallido schianto
tra innevati apici sommessi all’indugiare della notte
in sé avvolta, schiva alla resa in liturgia.
Diagramma infallibile l’armonia tra i mondi
riconvertita sponda in gematria numerica
il cui assillo precede teoremi in cerulo assioma.
Il finale della poesia di Marina Petrillo mi sembra un degno preambolo alla dichiarazione di intenti per la fine della poesia con grazioso referente con vista sul mare della datità delle cose e dei corrispondenti significati stabili. Chi volesse una poesia con il grazioso referente in vista, si legga il mio commento precedente.
riconvertita sponda in gematria numerica
il cui assillo precede teoremi in cerulo assioma.
Per me la poesia finisce qui.
Dal punto di vista del significato, possiamo dire che questa poesia non ha significato, e quindi sta mallarmeanamente fuori della poesia dell’umanesimo con il significato in vista sul mare della datità dei significati stabili. La Petrillo sta ben attaccata al suo cordone pneumatico che la tiene avvinta alla parola come desiderio, questa è la sua fortuna, o misfortuna per gli eletti della poesia che vuole un significato stabile consegnato alla glossa.
Per fortuna l’epoca del liberalismo e del neorealismo o neoverismo che ne è l’ideologema profondo è finita con il Covid19. Alla poiesis la Petrillo chiede altro, per fortuna, il sogno di una perfetta coincidenza fra la parola e la cosa, che si riduce nella seduzione di Thanatos, nel lutto come emblema della autosufficienza e auto assoluzione della parola per il lutto di non essere stata in grado di attingere l’Assoluto.
«Il vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio, apre infatti uno spazio in cui il segno poetico appare come l’unico asilo offerto al compimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia»1.
«Nel corso di un processo storico che ha in Petrarca e in Mallarmé le sue tappe emblematiche, questa essenziale tensione testuale della poesia romanza sposterà il suo centro dal desiderio al lutto e Eros cederà a Thanatos il suo impossibile oggetto d’amore per recuperarlo, attraverso una funebre e sottile strategia, come oggetto perduto, mentre il poema diventa il luogo di un’assenza che trae però da quest’assenza la sua specifica autorità. La “rosa” nella cui quête si sorregge il poema di Jean de Meung, diventa così l’absente de tout bouquet che esalta nel testo la sua disparition vibratoire per il lutto di un desiderio imprigionato come un “cigno” nel “ghiaccio” del proprio spossessamento»2.
(Giorgio Linguaglossa)
1 La «gioi che mai non fina», in Stanze, Torino, Einaudi, 1977, pp. 151-152
2 Ibidem p. 154
Giuseppe Gallo
Scrive Giorgio Linguaglossa:
“C’è nel soggetto un congegno autoimmunitario che lo mette in condizione di prendere le distanze dalla propria soggettività, a trattare sé come un altro. In tal modo il soggetto decostruisce la propria soggettività. Il soggetto è sempre in decostruzione, lo è costitutivamente, nella misura in cui in esso opera una pulsione di auto destrutturazione come condizione per la trasformazione della soggettività”.
A proposito, quindi, di “congegno autoimmunitario” del soggetto suggerisco alcune riflessioni.
Una scrittrice cinese, Yiulyn Li, laurea in medicina, emigrata negli Usa, e pubblicata da Einaudi e da NNE, confessava: “Quando rinunciai alla scienza confidavo ciecamente nella scrittura per annullare il mio io”. Il problema sembra ripresentarsi: -Abbiamo noi, come uomini , il diritto di dire ancora “io”? E i nostri testi devono registrare tale domanda o è semplice ritorno a un’istanza esistenzialistica?
Il suo testo, quello della cinese Yuyn Li, è edificato sul diritto di dire ancora “io”… che diritto ha, chi vive, di dirlo e dunque di esistere? Se la scrittura è morte o continuo suicidio, che diritto ha l’io di esistere e di continuare a sopravvivere?
“Solo ciò che è senza vita può essere immune dalla vita”.
“Mi piaceva il concetto alla base del sistema immunitario. Il suo compito è quello di individuare e aggredire il non-io”
“Come può il vuoto più assoluto dare vita a un pieno?
“Dentro di me c’è un vuoto”. Ecc., ecc.,..
È il vuoto che riempie le sue pagine… Questo vuoto lo può avvertire solo nel momento in cui intravede se stessa in qualche altro elemento o meccanismo. Distinguendo, per esempio, fra “macchina” e “uomo”. La macchina è piena, completa, agisce e interagisce autonomamente; l’uomo, invece, continua a dissipare se stesso, a non avvertire di sé la completezza.
Ewa Tagher suggerisce che “Tra il reale e la comunicazione del reale, l’esperienze del reale, l’elaborazione del reale, non vi è più alcun nesso. La narrazione del reale è così spiazzante e inconsistente, che solo una nuova poesia potrà trovare le parole per farlo”. Credo che questo sia un problema “reale”. Andiamo per ordine e cominciamo a chiederci: quali sono gli strumenti più adeguati per afferrare tale spiazzamento”? Oppure, è la scrittura la controparte della scienza? O la scienza è la soluzione per ritornare all’evento originario della parola, non perdendosi nelle fregature retoriche e ordinarie del linguaggio?
Possiamo rovesciare il discorso per essere più chiari?. Chi ha diritto di parola, oggi, non è l’uomo, ma la macchina, il robot, l’altro uomo o l’altrove distopico dell’uomo. Si prenda, ad es., il tentativo di correggere alcuni tratti dei genoma quando questi presentano alcune variazioni che trasmettono malattie. La scienza è già in grado di innestare in ogni Dna porzioni corrette. Catapultare, allora, sugli android e sulla tecnologia quelle tematiche che le spalle dell’uomo non riescono più a sorreggere? Mitizzare queste nuove figure, questi novelli esseri, e farli parlare al posto degli umani? Dare loro il linguaggio e la parola, ma non come mimesi e pretesto, ma come avviso reale del nostro disfacimento di uomini.
Tanto ormai lo sappiamo tutti, che per non far morire l’uomo, bisognerà far agire le macchine e delegare a loro il compito della nostra salvaguardia, (anche Intini, credo, abbia espresso insinuazioni simili) solo esse, infatti, hanno e avranno sempre di più, la capacità di non debordare dai nostri desideri più consoni alla civiltà e al progresso, vedasi oggi la lotta contro la pandemia del Covid-19. Se l’umanità rimanesse ancora impigliata nel pensiero e nelle azioni del genere umano e delle potenze economiche e politiche, come oggi queste concepiscono se stesse, il trapasso, il decadimento e la fine di tutto sarebbero sempre più prossimi e inevitabili… quindi è inutile pensare e ripensare al futurismo, al dadaismo, all’ermetismo, modernismo, alla pop art, al post modernismo, ecc,… al mondo come è stato finora; è tutto tempo perso!
Ci sono problemi molto più urgenti. E questo tipo di analisi va fatta, non la si può rinviare ulteriormente. Bisogna raccordarsi con i tempi, tagliare ciò che è ancora legato alla mitologia del cuore e dell’anima, della natura e della teologia, all’universo antropologico, ecc. Il mondo non è più lunare o sublunare, sembra che cominci ad avverarsi l’infinito bruniano e il suo ricorso ad una specie di nuova dislocazione dell’uomo al suo interno. L’uomo è ormai una “COSA” , come l’astronave in cui viaggia nell’universo, come la sua mente che non esiste se non nei prodotti e di cui ha quasi nostalgia perché ormai non ha la possibilità più di contenerli…
Può un uomo essere ciò che l’uomo è stato finora? O ha finora prodotto? Non credo. Così il problema ritorna. Bisogna trovare e qualificare la parola in senso attuale, senza infingimenti e perplessità. La perplessità, i dubbi, le remore sono solo e soltanto lamentazioni di carattere fiabesco e non più, nemmeno, di natura poetica. Se ne deduce che bisogna tuffarsi nella vita reale e quotidiana, in quella materiale degli oggetti di consumo e di uso, in tutti gli strumenti per le nostre operazioni e attività. In questi decenni si è constatata una divaricazione fra ciò che esiste nella nostra esperienza e ciò che esiste nel pensiero, quando fantastichiamo, quando immaginiamo, quando esprimiamo sentimenti, quando scriviamo, ecc. Da una parte le azioni hanno il loro riquadro, le loro quattro pareti, i luoghi degli avvenimenti, ma questi luoghi e questi ambienti e questi giardini e queste stanze e questi alberi e questi mari e questi panorami e questi confratelli non corrispondono più all’esperienza che li ha elaborati e che ancora permangono nella fantasia e nell’immaginario collettivo. Infatti, la letteratura, ha nell’alfabeto il proprio sistema immunitario: intercetta la vita, prima, poi l’attacca e la porta sulla pagina.
Chi scrive annulla la vita, creando poi l’illusione che sia la vita all’ennesima potenza sprigionata in chi legge. Vedasi i suggerimenti di Linguaglossa quando afferma che abbiamo bisogno di liberare la poesia e di fondare nuovi rapporti: “la nostra petizione di una nuova ontologia è quindi petizione per una nuova polis, per nuove leggi e per nuovi cittadini”. Anche qui ne consegue che noi non dovremmo annullare la vita, ma approfondirne la portata, non dico il senso, ma le sue latitudini… E magari urlare come Munch nel momento in cui gli pare di essere sommerso dal sangue dell’orizzonte e della natura. In quell’ urlo, ha suggerito qualcuno, c’è anche l’impossibilità del dire, sia dell’inizio che della fine, ma è anche l’urlo di chi esiste ed è vivo, indipendentemente dal passato e dal futuro.
Quella bocca spalancata manifestando “l’impossibilità di ogni dire; o anche la radicale impotenza” di ogni discorso, testimonia ciò che abita dentro ogni poeta prima della parola. Così tutta la poesia umana, diventata discorso, non fa altro che tradire il nostro urlo aurorale. Ma questa impossibilità di dire perché collegarla solo all’uomo e non anche alle sue macchine?
Ovvero, io considererei quel fantasma di Munch come il prolungamento dell’uomo che è stato “passato” e si appresta ad essere “futuro”, ma sempre con i piedi nel presente: ovvero un uomo qualunque, un oggetto tra gli oggetti, una macchina fra le macchine…
Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria
Nel discorso poetico della Nuova Poesia è fondamentale il gioco stesso, non i giocatori, L’Epoca del Covid19, Una Lettera di Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson Commento di Gino Rago
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa F, acrilico su tavola, 25×40 cm 2020]
L’Evento di cui questa figurazione è la rappresentazione figurale è dato da un galleggiare di forme larvali che nuotano nella processualità autofagocitatoria del linguaggio figurale. Tessere di una sequenza di RNA che nuotano nella processualità figurale di un Virus virale. Non sono propriamente delle cose quanto delle tessere, segmenti di RNA, simulacri iridescenti, accattivanti albedini di sostanze un tempo floreali diventate esiziali e virali. Da questo mondo di figure-segmenti umbratili e larvali è scomparso l’uomo e sono scomparse le cose. E ci chiediamo: Dove sono finite le cose? Dove si nasconde l’uomo? Domande forse inutili, che non ha senso più porsi dopo la fine dell’umanesimo, ma che non possiamo non continuare a porci. «La domanda dov’è la cosa?, è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona di nessuno che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi X in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa».1
(Giorgio Linguaglossa)
1Giorgio Agamben Stanze, p. 69
.
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Mario M. Gabriele
caro Giorgio,
essere poeti, e tu lo sai, non è cosa facile nel senso che bisogna essere prima critici di se stessi e poi costruire o de-costruire il linguaggio secondo le ragioni del fare poesia. Un giorno sul Corriere della Sera di venerdì 2 Luglio 2004, apparve un breve intervento di Giuliano Gallo con il titolo: “Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia”. Riferendosi al volume edito dal Mulino e curato da Ernesto Galli della Loggia e Loreto Di Nucci dal titolo DUE Nazioni. Qui si percepiva veramente un’Italia spaccata in due, anche se non vi appare il potere editoriale con tutte le sue filiali autarchiche, creando una “divisività” che ha dominato decenni e decenni di storia economica e culturale. In questo libro Paolo Mieli si sofferma, con una certa tristezza, sul fatto che “non stiamo producendo niente di nuovo, consapevole che ormai tutti i paesi hanno imparato a dividersi e a schierarsi senza volersi distruggere”.
E allora come la mettiamo nell’attuale Epoca del Covid19? La scomparsa del critico e dello scrittore ha portato a esautorare un paradigma poetico alternativo al dominio imperante del 900. Cercare punti di riferimento della fine della poesia elegiaca o di fine corrente letteraria, è molto difficile.
Secondo De Sanctis il vero declino della poesia italiana comincia a delinearsi nel Cinquecento mettendo all’ombra Ariosto, Machiavelli, e Guicciardini, dando appena un’ancora di salvezza ad Alfieri e Parini, “ma la direzione del diagramma poetico restava quella della decadenza”. Allora possiamo affermare, con Enzo Siciliano, che per il poeta resta sempre il buio in sala. Qui, non vorrei dimenticare Edoardo Sanguineti, con il quale ebbi un lungo discorso in trattoria, in occasione di una edizione a Campobasso del premio di Poesia Nuovo Molise, in cui lo stesso critico confessò che non era più tempo di Avanguardia mancando fronti culturali che si contendono una spinta al cambiamento.
Basta andare in libreria. Gli scaffali non si piegano sotto il peso di libri di poesia rimasti sempre un’arte marginale nell’epoca dei consumi. Tutto questo non ha permesso ai poeti della Nuova Ontologia Estetica di neutralizzarsi dentro apparati linguistici informali e contrastanti, che se pure esistenti tracciano la via al “senso vietato” di Deleuze proiettando il verso in un principio antropico ultimo, con la speranza di svilupparsi intelligentemente verso un paradigma che contenga al suo interno il coraggio di superare la fase di stallo del Post Covid 19, che è una vera macelleria.
Giorgio Linguaglossa
caro Mario,
scrive il paleontologo Stephen Jay Gould: «riavvolgiamo la videocassetta e, accertandoci di aver cancellato tutto ciò che è accaduto, riportiamoci a un certo tempo e luogo nel passato […]. Poi giriamo di nuovo il film e vediamo se la ripetizione è uguale all’originale».
Stanza n. 3
Duchamp è con la pipa. Madame Hanska è nuda. Siedono attorno ad un tavolo.
Hanska distribuisce le carte da gioco.
Duchamp deglutisce.
«Ecco a Lei. Io adesso Le darò le carte.
Tredici carte di Picche. Le disponga in fila, non importa l’ordine.
È la fila delle cause.
Scelga poi le tredici carte di Cuori. Le mescoli bene.
Disponga in fila sotto le carte di Picche una carta di Cuori.
E solo una sotto ogni carta di Picche.
Accade che nella stessa posizione delle due file si presenti in alto
una carta di Picche e in basso una carta di Cuori
con lo stesso valore.
Due Sette in terza posizione. Due Re in decima o quel che capita».
«La relazione di concordanza è un modello formale
della relazione di causalità:
Il Sette di Picche “causa” il Sette di Cuori,
Il Re di Picche “causa” il Re di Cuori, etc.
Il principio di identità simula il principio di ragion sufficiente.
È la rappresentazione del principio eziologico.
Se c’è il Sette di Picche sopra, c’è il Sette di Cuori sotto.
Se non c’è il Sette di Picche sopra, non c’è il Sette di Cuori sotto».
[…]
L’unghia smaltata di K. agguantò al volo un calice di Campari
che oscillava negli stagni Patriarsci.
Il direttore d’orchestra depose la bacchetta, i musicisti se la filarono,
il pubblico prese a fluire.
Zlatan Ibrahimovich prese a calci un pallone e fece goal.
«C’è un agente morboso», disse K. rivolto ad Azazello.
«Se c’è, c’è il morbo», rispose quest’ultimo.
Il quale tirò fuori dal taschino della giacca un ipotocasamo nuovo di zecca,
e con quello cominciò a frinire, a fare saltelli.
«Se non c’è?», chiese amabilmente Azazello, dopo una giravolta.
«C’è la guarigione», replicò K. passeggiando rumorosamente con i mocassini nuovi
made in Italy.
Il berretto verde di K. ebbe un sussulto.
«Il cosiddetto principio di concordanza.
Sono i risultati delle tre carte, caro Cogito.
Nient’altro che un gioco di prestigio.
Tuttavia, la poesia nasce da un lancio di dadi
su un piano inclinato…
Il Covid19?, un elemento della perturbazione che concorre
con la perturbazione generale…
Quella parte del tutto che vuole costantemente il male e invece concorre
a produrre costantemente il bene…
Al di là del principio del bene e del male.
Ovviamente.»
*
Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.
È nota la diffidenza che Heidegger ha sempre nutrito nei confronti del linguaggio ordinario. Le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.
È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e, con ciò, il gioco della metonimia, della metafora e della estraneazione. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige), implica una nuova e diversa valutazione del linguaggio non inteso soltanto in senso riduttivo come polisemia o per le sue qualità di ambiguità semantica, concetti che ci condurrebbero all’esterno del discorso critico e poietico. Proviamo a pensare il linguaggio come stazione apotropaica, evento, linguaggio come aver luogo e basta. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente pluricentrico, la messa in evidenza della policentricità non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nella polisemia del discorso poetico della tradizione, ma è ben di più, molto di più.
Il discorso poetico non è un in-differente, un indifferenziato, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare l’incontro con quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è cancellato dal linguaggio ordinario, che è interamente sussunto nel dominio dell’opinione e del «si dice». Continua a leggere
Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria
Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico, 2010
Francesco Paolo Intini
Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).
LUMACHE VS LUCCIOLE
Ampere in libertà
maniaci per le strade.
Al fulmine segue
Un calcolo tra catodo e anodo.
La chiocciola è fuori guscio.
Scivola il Sole sul muco
Uomini con la mascherina trattengono il fiato
non c’è mai stata più poesia di ora,
e in effetti al coro di antenne
segue un sussulto di Terra.
…
Il commercio di sillabe fu implacabile
Un saliscendi nella spiana di Cheope
una farfalla al prezzo di cento Nobel
in fondo si trattava dello stesso DNA
E non si poteva aspettare che spuntassero mammiferi
Da una marmitta catalitica
…
Nacque la Fontana e fu chiaro
Lo stimolo di scrivere alla vescica
…
La vite scrisse tralci sui muri
Inneggiando a Marx- Engels
…
Trovammo il dirigibile appollaiato sul camino
Il nostro salvadanaio tintinnò minestra
Per un po’ ci si era calmati perché avevamo
La medicina contro la peste
E dunque si trattava di prendere fiato.
Per colazione ceci e bucce di patate.
Non era molto stretto l’interno di calcare
Doveva bruciare idrogeno sulle nostre teste.
Tutto un susseguirsi di levatrici
per un aborto spontaneo.
Non è uno scherzo avere il 1848 a portata di mano
E lasciarlo scorrere come un granello di rosario
…
Venimmo a guardare il 2048
Putti di Leonardo nel Verrocchio.
una neve di polistirolo ghiacciava i paesaggi
Il tempo germogliava volti di pomodoro.
Ci arrestarono perché avevamo mani di bambini
al posto dei crani e rosette nelle unghie
la fisica, la chimica uscirono dai libri
e furono messi a contare sillabe di viti.
Nessun tralcio doveva eccedere i dieci viticci
Il corrispettivo dell’ ossigeno nei polmoni.
Anche la luna non doveva esagerare con la gravità
Un giro nel cortile e di notte in cella.
Per quante ce ne sarebbero state
Fu prevista una dose di neon.
Nelle stazioni cani lupo strappavano il culo
A chi si attardava a salire sui treni per il 2020.
…
Il raccordo pulsa senza articolare una sillaba
E di molto le sopravanza nel bisogno.
…
Affacciarsi ai finestrini e nella grave
Le dita del ghiacciaio.
La vita appartenne ai motori,
i Watts alla digestione.
Quando si tratterà di esistere giungerà un fascio di luce
Un rapido susseguirsi di pallottole sull’olfatto.
Gli occhi spuntano dai guard rail.
Pesci sulla cima della Sfinge.
Arrivò l’ amore delle Assicurazioni.
Esponemmo i crocifissi per essere guardati.
Piccoli bruchi sul filo spinato.
Dai numeri estrapolarono i teschi
Sbattevano i denti. Forse parlavano i fari.
…
D’altronde le auto non chiedono al sorpasso
Di azionare un tir.
…
la catalisi mischia il sangue. La farfalla
governa i passi di una prostituta.
Giorgio Linguaglossa
“Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.”
“la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento.”
“L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.”
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.”
Caro Francesco Paolo Intini,
Questi aforismi di Adorno, tratti da Minima moralia del 1951 sono il miglior commento che io possa fare alla tua poesia. Ai quali ci aggiungerei quest’altro di mia produzione: «Le parole hanno dimenticato le parole».
*
«Ciò che resta lo fondano i poeti» (Hölderlin)
E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate…
Acutamente Ewa Tagher afferma che le sue poesie «sono errori di manifattura», errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili… Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le cose combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non siamo noi i responsabili.
Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del polittico» è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici, disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Marina Petrillo
Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.
A baldanza si insinua l’ultimo detto
presago di silenzio.
Non devia del corso suo il canto.
Procede ad orma infrante duttile
all’imminente commiato dall’esistere.
Invisibile alla nullità imperante
naufraga in altra dimensione
senza porre diaframma tra il Sé
e il congiunto suo riflesso.
Attende in sospinto moto l’impresso
lascito e annulla ogni presenza.
Varca il pendio in periplo costante
sino a smarrire l’orientato senso .
Alcun filosofo attende
poiché Poesia attarda in fiacca veste.
Del non smisurato Verbo, Musa.
*
Tutti i mondi si completano a vicenda.
Il raggio divino scende nelle coscienze ad illuminare
le vette dello Spirito.
Siamo nell’assente dormiveglia sino
a quando, toccati dalla tragedia,
non cediamo campo all’invisibile assenso.
Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce
la costola dell’Assoluto Presente. Inquietudine volge
al paradosso e ogni gesto torna a lenta consapevolezza.
Si può morire nell’istante. Si muore all’istante agognato
poiché inesistente. In nullità si procede, buio nel buio,
per giungere all’assoluto.
Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». La deposizione della potenza destituente del «mondo amministrato» è una via obbligata per una poiesis critica.
Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.
Scrive Adorno:
«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.
E nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:
«l’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3
La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.
1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28
Giorgio Linguaglossa
sul concetto di parallasse
È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»
The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *
* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.
Archiviato in critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria
Francesco Paolo Intini, Frammenti d’intonaco, Inedito, Commento di Giorgio Linguaglossa, La questione della poiesis come positura di «significati», Verso una critica della economia poetica del segno

«Trasformare, transformer, forse Tranströmer», verso di F.P. Intini
Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).
Francesco Paolo Intini
Frammenti d’intonaco
Le insegne si misero in proprio
La distruzione impersonò vecchie stive
trovò la via di fuga su petroliere al largo.
Riempire le strade di merletti indistruttibili.
Andava salvaguardato l’onore del zigrino
Troppi avannotti guastavano il buon nome dell’ Adriatico.
La marea divenne una superpotenza.
L’atomica in mano a rocce senza scrupoli.
…
Il sussulto non fu solo sotto i piedi
S’incamminò sulla via Appia e venne crocifisso.
A senso rivoltato corrisposero semi di quercia.
D’ora in poi si sarebbe camminato verso l’anno mille.
Il periscopio incontrò sé stesso
Occupare il posto dell’occhio era stato frustrante.
L’obbligo di vedere non era pari
al diritto d’essere osservato.
Partimmo nel 2020 ma non giungemmo mai al 1989.
Scomparse le tracce di Spartacus e dunque soltanto ambra.
A Hiroshima un attacco di panico
si trasformò in neutroni.
Intravvedemmo pallottole indietreggiare
Riversarsi nelle mitraglie. Biglie nelle buche.
Fu un risalire ad Archimede
Un cercare di capire dove fosse il suo compasso.
…
Non è che i gigli siano da meno
Si sta davanti a polline di piombo.
Piegare a verso, farne conferenza
Ubbidire al morso del calendario.
L’ordine arrivò che stavamo in trincea
Il gelo scaldava le bisacce.
Piovve un meteorite.
Ci dirottarono su un ciliegio.
Ambra e dentro formiche
In lotta contro un T-rex.
Avemmo tette per il caldo.
Allo zero sopravvisse l’inverno.
…
Le epoche iniziano dalle fiamme.
Piegare un vetro, soffiarci dentro.
Non tutte le mani danno ordini alle dita
Alcune tentennano perché amano lo smalto.
A volte capita di sedersi accanto
ad uno che ha mani nelle labbra.
Qualcuno scrive la coscienza
un lettore le parole
…
Il polpo s’è fatto capire
sullo stesso piano ventosa e colpo di genio
…
l’arte fa sesso sporco, la serva
ci mette la parola buona
…
Capire le traiettorie, assimilarle a versi
Una costante di Boltzman per parola.
Deriverà l’esistenza da qualche parametro
Ne trovammo tracce in un punto.
…
Il rosso riempì due mani e scrisse su un muro.
Una possibilità al bianco di diventare tigre.
Perché la misura era colma e non valeva sporcarsi
Per costruire uffici, appendere lenzuola.
Il sottopasso: quanto si era combattuto per un pertugio!
Ora due occhi scrutavano, di topo combattivo, in attesa di istruzioni.
Trovarono i depositi sguarniti. Nessuna difesa per il corallo
Il porpora riprendeva a combattere. Polmoni secchi e neve arida.
Con questa bisognava sopravvivere alle rigidità.
Chi gridava alla vigliaccheria non aveva mai vissuto.
(Mario Lunetta e Agota Kristof)
Il ragazzo sa cosa deve fare, non c’è nulla da dire o da contrattare. I gesti sono automatici e dunque non occorre un dialogo e nemmeno molta attenzione, tanto che continua a parlare sul cell con la sua ragazza mentre innesta il bocchettone della pompa del gas sul serbatoio. Apro la portiera e lascio che un po’ del mio Lolli invada la piccola area della colonnina del metano. All’improvviso l’attenzione si focalizza su di me, su quel brano che parla di borghesia. Qualcuno dall’interno del cell ha ascoltato e fatto risvegliare l’attenzione del ragazzo. Ho la netta sensazione di trovarmi in un esperimento dove l’esistenza umana è o non è, a seconda dell’osservatore. L’aspetto interessante è che questo avvenga indirettamente, come si trattasse di un gioco di biglie messe in moto da un suono la cui origine è remota, come la luce di un microscopio.
Poco lontano una grossa civetta appollaiata su un palo dell’ illuminazione, non sa nulla di fisica, ma vola via non appena capisce di essere osservata. Chissà se ha provato la stessa mia sensazione e che pallettoni lo hanno colpito. Non poteva sentire le parole né vedere i miei gesti e l’auto procedeva senza alcun segno di distinzione tra le tante.
…
Era Stalingrado conquistata, l’esploso di radice in marsina.
Fuoco germogliato nelle ossa.
Un bivacco di cemento divenne aghi e gemme
brace con l’occhio bianco davanti alla vetrina di un negozio di scarpe.
Esponeva il grigio, l’azzurro rattoppava i suoi camosci
Le narrazioni, le astronomie, i razzi tornati indenni da Orione
Erano trasformati in Volga.
Brindisi col nemico seduto in una ruga di corteccia.
Gli avvenimenti trovarono il delitto al loro interno.
L’entrata trionfale di Von Paulus.
Farfalle sulle gru emulavano geometri comunali.
Nella spinta all’universo il lebbrosario della coscienza.
Si trattava di negare la fuga alla gabbia di ferro
E rendere arancio un geco.
L’alba colmò di chiodi la buca del sole.
Il cuore di un notaio pompò linfa nei plinti blu. Continua a leggere
Archiviato in critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria
Cinque Esempi di nuova poesia, Poesie di Marina Petrillo, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa, Mauro Pierno, Francesca Dono

Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla
La poesia si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.
Al poeta è assegnato il posto nel “frammezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.
Vera aspirazione della poesia è quello essere di casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque ci si trova spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso.1
Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.
Sono due miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un referente, come del resto anche nelle tue poesie non c’è nulla del concreto-presente. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione. Ereignis. La poesia avviene perché la poesia è evento. Ma che cosa significa questo? La mancanza di evento è l’Evento centrale della nostra epoca. A questo Heidegger non era arrivato. Così l’arte si riappropria di ciò che era andato perduto durante l’espropriazione epocale. È paradossale ma pensabile, la nuova arte, la nuova poesia eredita l’eredità della mancanza dell’evento. E con ciò muore davvero, muore quell’arte che contemplava la vecchia metafisica e l’ontologia del novecento. Scrive Roberto Terzi:«Che cos’è assegnato come compito da-pensare al pensiero raccolto nell’evento e quale può essere la maniera adeguata del dire che vi corrisponde?». La formula das Ereignis ereignet, «l’evento fa avvenire», ha innanzitutto la funzione di mettere in guardia «da come non va pensato l’evento», ma lascia aperto il problema di come pensar-lo «in positivo», problema che si riformula nella domanda: «che cosa fa avvenire l’evento? Che cos’è fatto avvenire dall’evento?»
(Giorgio Linguaglossa)
1 Cfr. M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” a cura di W. Biemel, in Gesamtausgabe, cit., vol.LIII, p. 22; tr. it. a cura di C. Sandrin eU. Ugazio, L’inno, Der Ister di Hölderlin, , Mursia, Milano 2003
Marina Petrillo
Ti dissi persa tra stralunate vie
mentre giaceva calco dell’ immagine
a sua insaputa.
Nel disconoscere ogni tratto dell’ umano
un Leviatano dimora in angusta forma.
A nausea di vento, in grigio amplesso
con le vie, il contemporaneo assilla in decadente stella.
Cereo, l’etere volteggia in serialità postuma
alla sua essenza.
L’ identità spinge il molteplice a frammento
e sconosce il lamentato io.
Vissute ad altra sponda, creature muovono
loro l’incanto, in sbadigliante forma appresa
in mutilata sinapsi.
Perviene mappa dell’insoluta distanza
terracquea tra i non finiti e gli estinti,
limite forse avverso alla vita.
Ad Edith, Marina P.
Marina Petrillo parla… E si chiede: che significa ‘vi è linguaggio’?, che significa ‘io parlo’?… Significa che le s-grammaticature, la dis-tassia inter-vengono nel discorso ad inter-rompere il flusso semantico e sintattico; significa che ciò che il linguaggio dice e non dice è sempre un mentire, che il linguaggio mente, è ambiguo, privo di fondo, di fondamenta, e questo dis-ancoraggio del linguaggio dal linguaggio è un dis-ormeggio del Sé da se stesso… è questo vagare tra dis-tassie combuste e s-grammaticature… Così, Marina Petrillo è costretta come una sibilla Cumana ad ordire parole e frasari senza senso alcuno, a seguire a ritroso e contro corrente il linguaggio, venire dalla traccia per ad-venire ad un luogo dove il linguaggio cessa di essere significante e rivela il nulla di cui è composto e da cui proviene.
Paradossalmente, la credente Petrillo giunge a lambire il nulla del linguaggio molto di più dei mis-credenti che ripongono una ingenua fiducia sulle virtù salvifiche del linguaggio.
I limiti del linguaggio non sono trovati al di fuori del linguaggio, in direzione del suo riferimento, ma in un’esperienza del linguaggio come tale, nella sua pura autoreferenzialità.
(Giorgio Linguaglossa)
Giorgio Linguaglossa
Ecco due mie prove di post-pop-poesia. Non saprei dire se c’è un evento. Di sicuro, siamo fuori del vecchio concetto di «rappresentazione», ormai obsoleto.
Esercizio con violino e tamburo
K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]
Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.
«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere
e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.
«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.
Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.
«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.
Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.
Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»
[…]
Il commissario fece un buco nel muro. «Qui c’è la refurtiva.
Sì, che da qualche parte lei esiste», disse.
«Ne sono certo». Annuii. Guardai il cielo color lavagna,
e mi lavai le mani.
Yolande è piccola,
così porta sempre scarpe con tacchi 12 e cappelli esagerati.
Sopra il cappello c’era un ombrello.
«Si chiama Yolande, ma non so chi sia…
Un tempo è stata la mia amante».
Però, era già notte. Entrai nel bosco. La pioggia era fitta, mista a neve.
Così ho preso il bus notturno per arrivare più in fretta.
Erano le tre.
Glossa
[1] Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) della decisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia Continua a leggere
Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria
Il polittico è un sistema instabile che fa di questa instabilità il suo punto di forza, Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Talìa
Giorgio Linguaglossa
il «polittico» è un «sistema instabile» in sommo grado
Sia la poesia di Alfonso Cataldi che quella di Giuseppe Talìa, con “Peter Knut” sono degli esempi, riuscitissimi. C’è da dire che la «nuova poesia» è attraversata da forze trasversali e centripete che portano la forma-poesia verso la soluzione del «polittico». Nel «polittico» queste linee di forza possono trovare una co-abitazione non forzosa, una temporanea com-posizione tra dis-equilibri divergenti e dissonanti.
Il «polittico» è un «sistema instabile», formato da una materia verbale e iconica altamente infiammabile, precarizzata dalle forze motrici storiche.
È necessario non cessare mai di problematizzare la soggettività, anche e sopratutto quando gli esiti di questa operazione critica ci conducono lontano da quelle che sembravano le nostre certezze. La soggettività, come le sfere della verità e quella del gioco, sono questioni politiche, costruzioni della polis; ed è ovvia la considerazione secondo cui la soggettività nel «polittico» sia cosa diversissima dalla soggettività della tradizione del novecento, ad esempio della Camera da letto (1984, 1988) di Bertolucci o di Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, una soggettività fondata sulla forma tradizionale della poesia dell’io panopticon. Ogni forma poetica adotta un determinato paradigma della soggettività, quello che consente una migliore omogeneizzazione, rebus sic stanti bus, delle linee di forza stilistiche di un campo di forze storiche.
In fin dei conti, il «polittico» è un metodo di sovra impressione di segni su un pre-testo che sta dietro il testo visibile. Nella forma-polittico tende a scomparire l’io panopticon, l’io plenipotenziario che governa il logos. Il «polittico» è un sistema di segni che, per apparire, non deve essere affatto visibile. Il trucco c’è ma non deve essere visibile, in tal modo appare alla luce della visibilità come un fenomeno naturale.
«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), il poeta francese indica la necessità di impiegare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo super Sapiens.
Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» del poetico, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» (Agamben) ad economia globale; è una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica poetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte, paradossalmente e in modo auto contraddittorio, impegnata, una poiesis della polis per la polis.
La globalizzazione è un processo ancipite e auto contraddittorio in cui agiscono vettori e linee di forza divergenti: non vi è soltanto sconfinamento e apertura al «globo», ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile se si prescinde dalle conflittualità delle forze estetiche: le consonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse operazioni complesse. Non esiste, in questo senso una «poesia europea» in sé, se non come una poesia che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova unicamente nell’orbita patriottica: dalle Alpi al mare Jonio, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla forma-poesia.
Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardi. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dis-mettere per ri-fondare una nuova Ragione del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico. Oggi è urgente riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.
Scrive Giacomo Marramao:
«Sono ancora convinto che il nocciolo duro della concettualizzazione del nostro presente, un presente in cui il tempo-del-mondo sembra essere interamente risucchiato nelle logiche non-euclidee dello spazio globale, rimanga, oggi più di ieri, quello della secolarizzazione. Ma è una categoria che va assunta in un senso radicalmente diverso tanto dalla versione unilineare quanto dalla versione dialettica: essa può funzionare come criterio per evidenziare la compresenza, a un tempo non-lineare e adialettica, delle analogie e differenze, delle congiunzioni e delle disgiunzioni, delle convergenze e dei contrasti, in breve della “sincronia dell’asincronico” che caratterizza la logica e la struttura della modernità-mondo. Muovendo da questo sfondo, penso si possa provare a elaborare un concetto, per usare l’espressione di Bataille, “a-teologico” del politico: su questo e altri aspetti sto scrivendo un libretto per Bollati Boringhieri, nel quale intendo dedicare una parte alla teologia politica e discutere criticamente temi di Esposito e Cacciari. La mia idea è che un’effettiva e radicale secolarizzazione del politico debba essere operata non in senso anti-teologico ma a-teologico: l’anti-teologico è un momento in tutto e per tutto interno al paradigma teologico. Almeno su questo punto, non si può dar torto ad Heidegger: il rovescio di una posizione metafisica resta una posizione metafisica. Ma qui si pone un grande punto interrogativo rispetto alla stessa operazione benjaminiana, alla quale mi sento molto legato per tanti aspetti. Dovremmo forse cominciarea d ammettere che quello benjaminiano è rimasto necessariamente un programma abbozzato, che rischia di sfociare in un pericoloso cortocircuito fra due dimensioni concettualmente e simbolicamente differenti, se non addirittura divergenti: il nesso ‘energetico’ tra il politico e il messianico, ela relazione ‘costitutiva’ tra il politico e il teologico. Si potrebbe a questo punto aggiungere, per inciso, che forse proprio questa incompiutezza carica di suggestioni può gettar luce sul fatto che la resa di conti filosofica con Heidegger sia rimasta in sospeso: malgrado l’appunto in cui si afferma lanecessità di “distruggere” la filosofia heideggeriana, Benjamin non ci dà una chiave per farlo. Per questo, pur facendo tesoro dei suoi straordinari spunti, sui quali non cessiamo di ritornare, si tratta ora di andare oltre. La vera posta in gioco del dualismo occidentale di immanenza e trascendenza consiste in una semplice e drastica formula: secolarizzare la stessa categoria di secolarizzazione».1
1 https://www.academia.edu/9199181/La_differenza_italiana._Filosofi_e_nellItalia_di_oggi_XV_2014_II_?email_work_card=thumbnail
Francesco Paolo Intini
19 dicembre 2019 alle 9:01
A-tomismo
L’intercapedine non si fece attendere.
Un io senza io sventolò lenzuola
e disse che il balcone ci sarebbe stato.
Passavano di sotto,
avrebbe preferito lisciarsi le unghie
Ma ognuno aveva un catena al collo
Le falangi di marmo sul volante
…
Il flusso in cui affoga il rosso.
L’auto portavoce del verde.
Un rosicchiare e passare indisturbati
per poi organizzare ossa e carne.
Fu salvo da ogni colpa, libero di andarsene
Sbattendo lunghe pinne contro i muri
…
L’equazione sovrasta le antenne:
tornano nel conto i fili dei pianeti.
Colpi di cemento completano i denti.
Ma poi sorridono guardando lo specchietto.
…
Se una banca soffoca
un ragno succhia il cuore.
Troppe mischie intorno agli uffici.
Se cola sangue da una crepa
l’ascensore chiede di allargare la sua vena.
…
Un gruzzolo di numeri guasti
Fa bene all’esattezza dell’oracolo.
Nelle banche depositano i semi
Nascono fichi dalle casseforti
…
Passano il tunnel sotto il muro
Linea di potenziale in cui scorre il calcare
Poi d’improvviso il vuoto riempie il centro città
Un mucchio di protoni confusi sui segni.
Ruotano gambe scopando orme.
Di fronte la statua di Albanese, martire 1799.
…
I simboli s’affaticano.
Ergono muri intorno Stalingrado.
Chi le gira attorno sa che non resisterà.
Alesia e Vercingetorige
Bufere di voci, scatenamenti d’incubi.
Il vaticinio scorre il futuro con cavalli di ghiaccio
Si rumina senza abomaso si violenta senza uomo.
Puntò Serse le sue meduse. Toccare di tentacoli
E freddare la gazza nel nido.
In fondo anche Cesare non è mai esistito
Soltanto cellule su una scacchiera
Lewis di polmone e calcolo combinatorio.
Folte schiere nelle trincee senza inizio fine.
….
Alla previsione mancò l’ estate.
Doveva essere vento e mandorlo caldo
Successero Giga con le piume di chioccia
e uova infeconde.
Mezzogiorno mise il sole
in una buca di golf.
Palline in orario
si rincorrevano su un tavolo verde.
Nacquero vecchi col secolo in polmone.
Elettroni rifiutarono la carica
nuclei sostituiti da alveari morti.
La dipendenza dal carbonio
sconfitta per sempre.
Il tritolo aveva scelto dicembre
per competere con il DNA.
…
Il cupo chiuso di una borsa
Polvere brucherà l’ erba.
Mischia di aggettivi al ferro.
Percentuali esatte navigarono l’Europa.
E dunque nessun testimone oserà cantare.
L’enfasi trasformata in orbitale.
Ogni nascita di Stukas un canto gregoriano.
…
I vichinghi sbarcarono nel 2020
preceduti da un uragano di nero.
Percorreranno il Volga, cercando ere.
Caricavano bottini e violentavano la Russia.
Bocche e vaticini da prendere agli uncini.
Arrotolarono l’asfalto e ne sparsero il seme.
…
La vista impedita dai globi.
Nel cavo d’occhi la visione.
D’ora in poi nittitanti senza palpebre
E martellarsi di chiodi nell’ acciaio.
Etica temperata da Efialte.
Finestre obbedienti a un algoritmo.
Giuseppe Talìa
19 dicembre 2019 alle 13:34
Trovo gli aforismi-polittico di Francesco Paolo Intini interessantissimi: ossimori, sinestesie, non-sense, metafore, iperbole… Una vasta e ricca gamma di figure e di bersagli centrati in pieno. Un ottimo esempio di poesia apofantica.
La poesia di Francesca Dono mi ha fatto pensare alla sceneggiata napoletana, Isso, issa e ‘o malamente, dove il personaggio del ‘o malamente è dio che nella sua onniscienza non riesce a soccorrere Lilith, la donna che divide le crepe dal deserto, dai molluschi, dall’uccello strappato che sembra immobile rispetto al movimento della montagna in una sinestesia psicologica che pervade l’intero testo dove gli stimoli sensoriali non sono distinti ma concomitanti: che dio non sappia di bings maps?
Ci sarebbe tanto altro da dire su questo testo liturgico.
Alfonso Cataldi, invece, ci conduce da una aspettativa (intenzioni pre-matrimoniali) ad una realtà molto diversa da quella che ci si aspettava: il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozzago (la poiana), passando tra parole in decantazione, equilibri “sulla trave” e “calce che bolle.” Un pezzo di vita un resoconto tra un ideale e un quotidiano.
Tosi, sceglie, ironicamente “parole d’amore” per “alzare insieme la tapparella”, in uno scambio continuo, un mashup di domande che tolto il punto interrogativo potrebbero benissimo essere delle semplici constatazioni.
In definitiva, tra i quattro, Dono e Cataldi parlano di sé stessi, Mayor e Talìa parlano di altro (?). Da notare, nella poesia a quattro mani, “gli autoreggenti di pizzo…” Chissà quale delle quattro mani, o meglio, “Chi delle quattro mani?”
Carlo Livia
19 dicembre 2019 alle 11:10
Vorrei esprimere la mia sincera ammirazione alla ignita tensione decostruttiva e alla violenza centrifuga e allucinatoria che percorre e organizza, in un codice sommerso, inafferabile, i testi di Cataldi. Ma , se mi è permesso, forse sarebbe necessario un elemento organizzativo, equilibrante, che funga da centro di attrazione e coesione di sintagmi, icone oniriche e frammenti narrativi, che personalmente vedo come un’energia emozionale, aggregante, effusiva di una sorta di logos metarealistico e visionario. In Cataldi questo filo conduttore, forse, si interrompe troppo frequentemente.
Tempo di raccolta
I sessi scuri pregano, indifferenti alla tempesta di bambole.
La gentilezza delle chitarre forma un toro rosa, che illumina la malattia sopra la cattedrale.
Signore, tu hai divorato con noi l’agnello, ora immobile contempli gli universi, i millenni morti.
La sorgente impazzita esporta profeti dilaniati, il nero delle loro anime scende e riempie l’offerta, l’attesa. Nella pausa piena di morti.
Il tuono soffice si schianta nell’alcova, sugli spigoli biondi della dea, in fondo al peccato.
L’amplesso precipita verso l’alto, nell’aria densa di pianoforti a coda.
Io sono l’unico portale senza uscita, la stanza verde mi sogna nell’Eden appena risorto. Un giocattolo gettato via dalla principessa.
Hai troppi desideri, troppi tentacoli – dice il dio vagante nelle praterie – hai la malattia immortale, la stella fissa, l’incendio nel duomo.
Entro nella stanza retrostante. Un intero secolo in rovina. C’è solo la donna- serpente, che si trucca davanti allo specchio. Mi ordina di fermare i risorti.
Cerco il pensiero per spegnere l’incendio. E’ un sogno di lampi immobili, in fila per il bacio di geranio. Della sovrana infedele, che muore sorretta dai suoi celibi.
Il vagone viaggia verso l’Eterno. Ma è fermo in una giungla di metallo. Belve dementi bevono la lacrima immensa. Che è stata Dio.
La sposa-bambina mostra l’ultimo istante. Un macigno di delizie, spesso viola. Lo usano i muri pazzi, per diventare cieli.
Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2019 alle 15:47
Mi sembra che le superfetazioni poetiche di Alfonso Cataldi, Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Paola Renzetti e altri di questa pagina dell’Ombra vadano nella direzione di uno smontaggio dis-articolazione della struttura predicativa e del linguaggio sintattico unilineare. Finalmente, la poesia della nuova ontologia estetica è diventata adulta, si è lasciata alle spalle la struttura predicativa classica: soggetto-predicato-complemento oggetto, per sostituirla con una struttura non-predicativa. È stata sufficiente questa presa di possesso del cardine della nuova poetica per liberare le energie poetiche come un vaso di Pandora.
Scrive Emanuele Severino:
«l’aporia sorge perché dopo aver detto che il significato in un contesto diverso non è più lo stesso, si ripropone a proposito di questo significato la situazione di isolamento che gli conveniva con l’insorgere dell’aporia».
La tautologia è il segreto del linguaggio: dire l’identico in modi sempre diversi. È da qui che ha origine il linguaggio. La tautologia crea la differenza e quest’ultima ripropone la tautologia. La struttura originaria parla il linguaggio della tautologia.
Non posso che complimentarmi con tutti i protagonisti di questa pagina, sono convinto che stiamo scrivendo tutti insieme una nuova pagina della poesia italiana ed europea.
«Entro nella stanza retrostante. Un intero secolo in rovina. C’è solo la donna- serpente, che si trucca davanti allo specchio. Mi ordina di fermare i risorti.»
Questo distico di Carlo Livia, da solo è sufficiente per cancellare migliaia di pagine di pseudo poesia che circola in Italia. È un colpo di scopa che spazza via tutta la pseudo poesia di questi ultimi decenni.
Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria
Poesia di Alfredo de Palchi recitata da Diego De Nadai, Per il 93° compleanno di Alfredo de Palchi, Parte IV, Poesie di Alfonso Cataldi, Luciano Nota, Sabino Caronia, Giuseppe Gallo, Guglielmo Aprile, Mauro Pierno
Scrivere una poesia priva di identità. È questo uno dei compiti della «nuova poesia». Alfredo de Palchi, come tutti i poeti dell’epoca del post-moderno, ha perseguito una poesia della identità, dalla identità fortemente definita, ma oggi forse siamo entrati in un nuovo eone, ci viene richiesto di fare una poesia senza carta di identità, senza indirizzo del mittente e del destinatario.
Forse oportet insegnare ai poeti a non essere un poeta, che la poesia è una pratica di vita, forse la più alta e astratta, che da essa possiamo imparare a seguire le nostre passioni, le nostre inquietudini, che essa è un’etica proprio in quanto esula dall’etica, o è vero il contrario, che l’etica viene prima dell’estetica, perché essa ha a che fare con il «sacro», con il recinto, il «versus», il recursus delle parole che abitano la patria metafisica. E un poeta non può tradire le sue parole (ma le parole, sì, le parole lo possono tradire).
Oserei dire che la nuova poesia è un tentativo radicale di costruire una nuova ontologia modale, un nuovo modo di porsi tra il linguaggio e il mondo. Una sola sostanza per tutti gli attributi. Fantasia e realtà, dopotutto, sono fatti della medesima sostanza, no? Forse, davvero, dobbiamo tornare a pensare che tutto è sostanza, e tutto è fantasia. L‘ idea di Agamben della possibilità che la nostra vita plasmi l’archetipo sulla base del quale siamo stati creati, dice con tutta evidenza l’importanza assegnata dal filosofo al principio poetico dell’immaginazione. E dato che non vi è memoria senza immagine e senza immaginazione, come ci ricorda Agamben per il tramite di Aristotele, la storia dell’umanità è sempre una storia di immagini e di fantasmi, più precisamente, è vero il contrario di quanto comunemente si crede: è la realtà che viene edificata tramite l’immaginazione poetica.
(Giorgio Linguaglossa)
Per il 93° compleanno di Alfredo de Palchi, Parte IV
Alfonso Cataldi
«A rivederci dalla balaustra al ginocchio
sulle intenzioni pre-matrimoniali.»
L’incipt è disdicevole, si vocifera nei portierati, più dello strapiombo reale
tra il leggìo e le parole in decantazione.
Sul lato di via San Barnaba il procuratore capo distribuisce volantini
“vietato sporgerti se non sei degli anni 30”
Meno slanciati, certo, ma tutti ritiravano
le uova cautamente allo sportello del new deal.
«Giacomo è tardi, andiamo a fare la doccia»
«La doccia no, preferisco a spezzatino»
col corpo in equilibrio sulla trave
in equilibrio sulla calce che bolle
Anas Al-Bashar sbilenca il cravattino
e prepara il piano terra per i futuri sposi.
“Deontologia professionale” insiste il picchetto antistante
l’onore e l’ossobuco sfrigolanti. Col naso all’insù
il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozzagro
appena fuori città.
Luciano Nota
Nessuno al mondo è rondine
Poggia il sesso sul rizoma delle felci
e muori eiaculando sulla linfa
affinché tu rinasca sulle acque dell’oceano.
E parla d’amore, dei sogni revocabili
dello spazio nelle stanze perpendicolari.
Non chiedere la primula al primo passante
a chi transita granitico sulla festa della vita.
Nessuno al mondo è rondine
ma strascico del proprio cammino.
Sii il silenzio dell’essere definito
nascosto per essere visto
da un occhio e da un tormento profumato.
(da Intestatario di assenze, Campanotto, Udine, 2008)
Giuseppe Gallo
Zona gaming 22
per A. De Palchi
Nessuna certezza…
Ancora senza isole…
Il gabbiano, escrescenza arcaica,
gesticola sul cratere spirituale.
Ovunque bocche sbilanciate a mordere
vesciche d’alghe.
Esistere significa. Annerire il cielo.
Capovolgerlo come uno specchio.
Zona gaming
…it’a macht…
A volte il nostro nihil
per un cavallo zoppo.
Per la sua bocca a fico d’India.
Per il fruscio di un cyborg.
Avevo uno zio. Si chiamava Alfredo.
Finse un suicidio d’amore.
Zona gaming
… it’ a macht…
Non esistere significa.
Stringiamo al petto croci di cioccolata.
-Scopri l’infinito!
-Fai un carico di energia!
-Scegli la tua destinazione!
Il trionfo della spazzatura * (E. Montale)
Cos’è la vita? Nessuna certezza.
Abbaglio di isola nell’occhio distorto del gabbiano.
Zona gaming
… it’s a macht made in heaven… Continua a leggere
Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria
Una missiva di Tallia a Germanico, Risposta di Germanico, Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere, Filosofia del frammento, Poesie e Riflessioni di Giuseppe Talìa, Ágota Kristóf, Durs Grünbein, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa, Renè Char, Paolo Tamassia, Martin Heidegger, Gino Rago, Paola Renzetti,
Giuseppe Talìa
Missiva di Tallia a Germanico
Caro Germanico,
è inutile scrivere ai vivi e per i vivi, scrivo a te perché
so che puoi capirmi essendo morto. Tu sei morto.
Io, invece, sono mezzo morto, dunque mezzo vivo:
I morti respirano la polvere, i mezzi morti la masticano.
Lavoro in un enorme cimitero a Ossulston Street
con milioni di lapidi che continuo a chiamare
libri, dalle 8 alle 15.
Poi torno a casa e fingo di essere vivo
e scrivo a quei morti, ai miei morti ricordi,
al mio morto bambino, a tutti i morti morti
che ho conosciuto.
Risposta di Germanico
Giorgio Linguaglossa
caro Tallia,
mi ripugna l’idea di essere considerato morto
da un «mezzo morto» come tu ti sei definito.
Ebbene, sì, io sono morto. Sono caduto a Idistaviso.
Così, almeno, ho fatto credere a Cesare.
In realtà, sono vivo e vegeto, e presto tornerò nell’Urbe.
Il cialtrone di Cesare tremerà. Lui sta già tremando.
Il Prefetto del Pretorio ha triplicato le guardie,
ma io sono qui, con i miei fidati legionari.
Sono vivo, Tallia, unisciti a noi, ce lo chiede il popolo bue,
quel popolo che ha acclamato il Cesare di turno,
Acclamerà anche noi, stanne certo, inneggerà a Germanico,
il vincitore di Idistaviso e il vendicatore di Teutoburgo.
Unisciti a noi, Tallia, ce lo chiede la plebaglia di Roma,
verremo incensati e innalzati alla gloria, alla folta schiera dei cesaricidi,
E vivremo felici. Felici.
«L’observation et le commentaire d’un poème peuvent être profonds, singuliers, brillants ou vraisemblables, ils ne peuvent éviter de réduire à une signification et à un projet un phénomène qui n’a d’autre raison que d’être».
(René Char)
Già all’epoca di Essere e Tempo (1927), per Heidegger, si era reso evidente il fatto che il linguaggio della filosofia occidentale non consentiva, e non avrebbe consentito in alcun modo, di uscire dalla metafisica. Nel tentativo di dire la «Differenza ontologica», di dire l’«Essere», che non rinvia a un ente né a un concetto, ma a un evento, all’«Evento» che rende possibile ogni ente, il filosofo si rende conto di non poter utilizzare un linguaggio predicativo, logico, apofantico, e avverte perciò la necessità di ricorrere a un linguaggio totalmente diverso: un linguaggio che non sia mero strumento di espressione della cosa, come avviene per il pensiero rappresentativo e calcolante
Sarà dunque il linguaggio della poesia a poter dire ciò che tale pensiero tace, in quanto i poeti «arrischiano l’essere stesso e si arrischiano nella regione dell’essere», in-vece di limitarsi al commercio dell’ente: i poeti, evidentemente, per i quali il linguaggio non può essere considerato solo un mezzo di comunicazione, perché l’essere della cosa è nella parola che la nomina.
(Paolo Tamassia)
«Mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il framezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due, nel framezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco.L’intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del framezzo, è nella dif-ferenza (Unter-Schied)».1
1 M. Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, 1994, Mursia, p. 37.
«Comunque sia, certo è che poetare e pensare corrono su strade quanto mai divergenti. / Noi vorremmo tuttavia familiarizzarci con l’ipotesi che la vicinanza fra poetare e pensare si celi in questo amplissimo divergere del loro dire. Questo divergere è il loro vero essere l’uno difronte all’altro. / Dobbiamo liberarci dall’idea che la vicinanza tra poetare e pensare si esaurisca in una confusa, intrinsecamente vuota mescolanza di entrambe le forme del dire, in una maldestra mutuazione di elementi, che l’una faccia dall’altra. Può darsi che qua e là debba sembrare così. In realtà, in forza della loro natura, poetare e pensare sono tenuti distinti l’uno dall’altro, ciascuno entro la propria oscurità, da una differenza sottile ma chiara: due parallele – in greco
παρὰ ἀλήων – che corrono l’una accanto all’altra e di cui ciascuna supera a suo modo l’altra in questo starsi di fronte».1
1 M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, p. 154
Gino Rago
Filosofia del frammento. l’Arte contemporanea verso una nuova Estetica
– I segni dello sfacelo sono la cifra di autenticità dell’arte moderna.
– Dalla ‘morte di Dio’ e dalla crisi della visione platonico-cristiana, l’arte contemporanea registra la fine del “centro” e della verità dogmatica, con la conseguente deflagrazione del senso.
– L’arte contemporanea assume il ‘frammento’ come il sigillo del mondo contemporaneo e della moltiplicazione della prospettiva.
– Il ‘frammento’ è l’intervento della morte nell’opera d’arte.
– La filosofia del ‘Frammentismo’ non è una tecnica ma è la visione del mondo dell’Artista.
– Il ‘frammento’ quindi è nella nuova estetica la Weltanshauung dell’artista, da tradurre in opera d’arte.
– Il “Tutto” è ormai frantumato, disperso. Può essere ritrovato soltanto in forma di frammento.
– Il frammento, dunque, come parte del “Tutto”, ma come parte compiuta e finita.
– Pertanto, spostando nell’opera su una tela un frammento da una posizione a un’altra, l’economia estetica generale dell’opera rimane intatta, inalterata.
– L’Opera nell’arte contemporanea fondata sulla ” filosofia del frammento” annulla l’effetto d’ogni dislocazione sulla tela d’un frammento da un punto a un altro e conserva inalterata tutta la sua resa estetica poiché tale filosofia assume l’assioma che “ogni frammento contiene in sé il tutto disgregato”. Da qui il dolore che irrompe nell’arte moderna frammentata.
– Non l’arte moderna è in crisi ma è la crisi nell’arte contemporanea.

panoramica dell’agguato-via-Fani Roma, 1978
Letizia Leone Continua a leggere
Steven Grieco-Rathgeb, AGORAFILIA, UTAMAKURA, DISFANIE, tre parole-concetto per una nuova poesia

Steven Grieco Rathgeb, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi
Steven Grieco-Rathgeb
Questo testo ha origine da una conferenza che ho fatto a Trieste nel marzo 2019, al Festival di Poesia di Duino. La mia intenzione allora era riassumere nello spazio di un’ora una mia visione della poesia contemporanea, basandomi sulla esperienza che ho in questo campo. Avevo scelto i tre termini che in massima parte definiscono il mio specifico percorso poetico: “agorafilia”, “utamakura”, “disfanie”. La poesia oggi è bloccata nel passato, dove sembra dilaniarsi in una crisi profonda. Qui io propongo questi tre termini, così come sorgono dall’insieme dei miei dettagli biografici, esperienza personale, studio e riflessione sulle cose, come contributo a quello che alcuni di noi qui in Grecia, e in India, e anche in Italia, stiamo cercando di fare: creare una rinnovata idea di poesia nel 21° secolo.
Il testo, completo di tutte e tre le parti, è già in procinto di traduzione in lingua Hindi per la pubblicazione in “Samas”, una delle maggiori riviste letterarie indiane. In accordo con Giorgio Linguaglossa, direttore dell’Ombra delle Parole, la seconda parte e la terza – “Utamakura” e “Disfanie” – seguiranno su questa rivista online nelle prossime settimane. Per tuttavia conservarne l’interezza per il lettore, qui sotto definisco brevemente i tre termini:
- Agorafilia: uso questo termine per indicare la specifica creatività immaginifica che la mente umana possiede. Aspetti di questa sono ciò che l’artista poi sviluppa e mette a frutto nelle sue opere. Si dice infatti che l’arte eserciti un effetto “illuminante” tanto sul creatore quanto sul fruitore. Ma io vedo l’arte più come mezzo per veicolare ad entrambi l’effettiva coscienza di questo processo mentale. Leggere un racconto di Chekhov significa essere in grado di immaginare ciò che l’autore ha immaginato. È una capacità che dovrà tornare ad essere riconosciuta oggi, come in passato, una delle fondamentali funzioni della poesia.
- Utamakura: “guanciale della poesia”. Figura retorica usata nel waka Heian. È costituita da una parola semplice o composta che fornisce il primo impulso allo sviluppo della poesia. Il fatto che l’utamakura spesso evochi un luogo geografico, lo rende emblematico anche della mia esperienza vissuta, fatta di innumerevoli viaggi ed effimeri approdi.
- Disfanie: nel contesto della società distopica in cui viviamo oggi, indica intravedere la ‘realtà’, ‘l’Oggi incandescente’, come attraverso una fessura nella monolitica facciata del nostro mondo ipermoderno; coglierne il deforme, l’obliquo, ma anche il sublime. Nella scrittura, disfanie è il वहन, il vahana o veicolo, la modalità retorica che permette all’autore di esprimere questo particolarissimo sentire. Lo scritto disfanico invita il lettore a trapassare il velo delle apparenze, per scorgere il mondo libero da filtri ideologici, idealizzazioni, travestimenti e inganni.

Steven Grieco Rathgeb
PARTE PRIMA – AGORAFILIA.
Curiosamente, ho scoperto di recente che in psicologia, l’agorafilia rientra nel complesso di illusioni e delusioni che l’adolescente affronta nel processo lento e spesso doloroso di diventare adulto. (Vedi Adolescenza. II parte – Il Giornale della Società di Psicologia Clinica Medica. http://www.psicoclinica.it/adolescenza-ii-parte.html) A proposito, agorafilia indica anche il “desiderio ossessivo di praticare sesso all’aperto” (!!), cosa che io in persona non ho mai avvertito, almeno non come ossessione…
Seppure la consapevolezza di un’agorafilia creativo-artistica fosse in me già dall’adolescenza, il senso di essa forte e inequivocabile iniziai ad averlo quando intorno ai 25 anni insegnavo inglese agli studenti universitari italiani, e quando poco più tardi diventai traduttore “a vita”, chiuso lunghe ore dentro una stanza per guadagnare il minimo per assicurarmi una magra sopravvivenza. The mind’s eye (“l’occhio della mente”) mi portava a vedere proiettati negli spazi impalpabili davanti a me luoghi che ben conoscevo e amavo, ma che in quel momento erano lontani: Istanbul, Venezia, la Grecia, i paesaggi balcanici, gli sterminati campi di girasoli della Serbia, un racconto di Chekhov. Provavo gioia che questo succedesse a me, e un senso di meraviglia di essere pienamente vivo.
A 35-38 anni, mi era abbastanza chiaro che la funzione di compensazione psicologica di questo insondabile pozzo di potenzialità ideative era solo la sua avara e scontatissima superficie; che le immagini non erano propriamente luoghi, quanto stati d’animo – meglio ancora, stati d’essere. Allora per la prima volta usai la parola agorafilia per esprimere questa esperienza complessa: come avviene che nel dormiveglia, quando siamo concentrati su qualcosa di specifico o rivolti altrove, appaia il cosiddetto sogno a occhi aperti. Le sue immagini traspaiono impalpabili, sovrapposte sul cielo, sul muro di fronte, su un altro paesaggio. E scompaiono non appena ne prendiamo coscienza; ma anche dopo essere “tornati in noi”, di esse serbiamo l’inafferrabile scia d’immagine, immagine che possiede tutte le qualità di un organismo vivente.
Per parafrasare C.G. Jung, gli archetipi insediati nella psiche umana si manifestano a noi vestendosi nel mondo fenomenico delle forme e dei colori con cui hanno particolari affinità.
Come negare che la “immaginazione” abbracci innumerevoli aspetti contrastanti della percezione che noi abbiamo delle cose, e incida molto più fortemente sulle nostre azioni e decisioni di quanto non vorremmo ammettere? L’illogicità del tracciare linee troppo nette fra essa e quella realtà che pensiamo di controllare, diventa evidente quando un sentimento di panico fa crollare le borse del mondo, o un uomo assennato prende una decisione che un giorno rimpiangerà amaramente. L’unico modo per uscire da questo paradosso è di spostare sempre la colpa verso “qualcos’altro”. Sarà invece che la potenza immaginifica della mente è sempre presente nel nostro stato di veglia, dove influisce sulle altre attività mentali e volta dopo volta piega la nostra volontà.
Agorafilia è una esperienza che apre la vastità dello sguardo, diventa l’immagine desiderata, lo specchio chiarissimo di verità interiori, per quanto rimosse. Ecco forse perché i luoghi di Grecia o Turchia o Sicilia che avevo visto con i miei occhi, mi davano un curioso senso di impavidità. E Galata Sarayi a Istanbul esprimeva allora per me tutta la complessità dell’essere umano. I luoghi noti e ignoti, il loro aspetto duro e attraente, rispecchiavano la mia personale situazione, e allo stesso tempo ci cozzavano, invitandomi ad affinare i miei strumenti espressivi perché potessi raggiungere il massimo nella vita e nella poesia.
E mi aiutavano anche a intravedere le frontiere del desiderio, i varchi oltre i quali niente può essere. Perché l’esperienza agorafiliaca mi insegnava in quale modo l’irreale si trovi profondamente insediato nel reale. Presto la mattina una macchina vuota con i finestrini abbassati, ferma sul ciglio della strada in riva al mare, può scatenare un intero cosmo in cui l’immagine delle montagne, delle colline e dei promontori tutto intorno si mescola con i ricordi e le immagini mentali di quella stessa immagine, moltiplicata in miriadi di immagini. È questo cosmico interfacciarsi tra pensiero, memoria e ciò che vediamo nell’attimo, che noi chiamiamo “esser desti in questo mondo”.
Dunque molta arte e molto pensiero poetico nascono da simili processi immaginifici. La scrittura poetica ha sempre significato prendere le parole di uso quotidiano e trasporle su un piano più concentrato, di maggiore densità, dove il loro senso è libero di vibrare quasi interamente su registri in genere (ma non sempre!) ignoti a forme di scrittura quali la commerciale o la scientifica.
Una mia poesia inglese del 2005 (da Entrò in una perla, Mimesis, Collana Hebenon, 2016):
Nel silenzio la poesia parlò,
le sue parole liane
di un rampicante
che sale
ogni nodo più alto
verso un aprirsi
una trama sorpresa
in altro esistere,
un altro punto del mondo
che ruota
pronto ad offrire i suoi significati,
un’altra faccia gelosa sul prisma
scintillante.
E cosa cercavi di afferrare
che risuonava là dentro
ma non era al suo interno
era solo il fervere d’immagini,
i suoi riflessi incancellabili
Anche la scienza si trova a dover usare usare immagini per veicolare le sue scoperte, non soltanto al pubblico inesperto, ma agli scienziati stessi, pena la incomunicazione e la non-inclusione in un discorrere più vasto sulle cose. Cito una frase da un testo sulla materia scura, e la dinamica delle collisioni galattiche: “le stelle sono meno interessate dal trascinamento dei gas, poiché occupano molto meno spazio, dunque passano vicine le une alle altre, scivolando come navi nella notte.” (http://chandra.harvard.edu)
Quando ero adolescente suonavo il Flamenco sulla chitarra. Le scale, i ritmi e lo specifico modo di impostare le diverse modalità di questa musica sono rigorosamente dettate dalla tradizione, che nel contempo lascia molto spazio alla improvvisazione. Quando io allungavo o accorciavo le note pur sempre rispettando il tempo, intuivo come ciascuna nota contenesse una capacità illimitata di contrazione o estensione temporale – in tutte le direzioni, su giù, lateralmente. Lo smisurato e davvero un po’ misterioso potenziale di questo mondo matematico di suono, ordinato-inordinato, lo potevi toccare con mano. Me ne stupii: ecco, dunque come l’immaginazione e la realtà esterna continuamente s’intessono. Anni dopo scoprii Giacinto Scelsi, che in molte sue opere esplora l’universo sonoro dentro la nota singola.

Steven Grieco Rathgeb
Possiamo infatti chiederci se tutte le attività umane non siano in effetti forme diverse del nostro “pensare il mondo”. Il modo specifico in cui il musicista elabora la nota all’interno del suo preciso spazio temporale, sarebbe allora dare “senso”, “significato”.
Tutto ciò che vivevo da uomo molto giovane, mi mormorava questo; e come la visione deterministica delle cose ne uscisse con le ossa rotte. Eppure da ogni lato mi si diceva il mondo ideale ma non idealizzato essere l’esatto opposto della realtà. (Ahimè, conoscevo Bergson solo di nome.) Poteva la mia consapevolezza aiutarmi a vincere questa assurdità, mi chiedevo? No, a giudicare da una poesia italiana che scrissi nel 1974:
ON HIS 25th BIRTHDAY
Andandomene così,
nell’improvviso riquadro di fari accesi
balza un’ombra al muro notturno
urta nella luce
cercando di ricordare
di notte un cane travolto sull’autostrada
come attraversare, le auto che corrono,
come riprendere il corpo
portarlo in salvo fra i fasci luminosi
(un cespuglio emetteva brani di musica
l’uccello trasognato s’involò,
da tempo la tristezza pungente
era scesa sulla lastra del ricordo)
come attraversare le grandi corsie
le auto che passano volando
il cane scomparso nel buio balzando su
più morto nelle ruote di luce
Salgono schegge, frantumi di poesia
un’immagine si apre franando
inghiottita dalla lente che concentra –
Raccolti in un punto gli anni spersi,
funi sgomitolate, ruotanti al cielo stellato
Torno brevemente alla trasmutazione di realtà vissuta in espressione poetica, per dare un’idea della estrema precisione che questo processo richiede al poeta, citando un brano da “Il viaggio”, Parte Prima, sempre del 1975:
L’erba ondeggia nello stagno
il faro preme al mare annuvolato
un radar scruta il cielo:
vuoti i segni, il peso scompare,
su per gli occhi inerti sale il pensiero
fra i violenti rami intrecciati,
volando verso il grande respiro.
Le mani guida a tastoni il cieco senso
le mani cercando. Un qualcosa di duro.
Tastano, palpano. Schiocco. Rugosa superficie, angoli, lati:
profonda volando. Non angoli, rotondità,
il profondo torna di scatto.
Poi afferrano, il senso cresce si forma
particelle di luce si muovono, viaggiano verso la mente
– fotogrammi, nero, grigio, più chiaro –
generando la pura immagine,
memoria di forma ondeggia frondosa nel vento.
Dice infatti Bergson:
“Quel est l’objet de l’art ? Si la réalité venait frapper directement nos sens et notre conscience, si nous pouvions entrer en communication immédiate avec les choses et avec nous-mêmes, je crois bien que l’art serait inutile, ou plutôt que nous serions tous artistes, car notre âme vibrerait alors continuellement à l’unisson de la nature. Nos yeux, aidés de notre mémoire, découperaient dans l’espace et fixeraient dans le temps des tableaux inimitables.”
Ecco come iniziai – da qualcosa di simile alla réalité di Bergson circa le cose e noi stessi; che l’arte, dice lui, esprime meglio di altre forme di comunicazione umana. Ero convinto che una rinnovata, forte visione poetica potesse suggerire aspetti fondamentali delle cose all’uomo, soprattutto a coloro che credono ciecamente, come dice Edgar Morin, nello “slancio della scienza su basi empirico-razionali”, quella scienza partita da “Galileo, Descartes e Bacone,” la quale “permette di conoscere, ma separando gli oggetti di conoscenza gli uni dagli altri e separandoli dal soggetto conoscente, insomma dissolvendone la complessità” (“Au delà des Lumières”, in Vers l’abîme, Editions de l’Herne, 2007). Con quella cieca fede scientifica si sono costruite le visioni del mondo fasulle di cui sono disseminati i secoli più recenti.
Io sognavo una visione più completa. Molto più tardi, nel 2008-10 scrissi Agorafilia, un lungo racconto anche autobiografico sui miei rapporti con l’immaginazione e la poesia. Quel racconto inizia così: Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria
Antologia bilingue How the Trojan War Ended I Don’t Remember (Chelsea Editons, New York, 2019, pp. 330 $ 20, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Fine della dicotomia tra la linea innica e la linea elegiaca di Gianfranco Contini, Giorgio Linguaglossa Inaugurazione della linea modernistica della poesia italiana, con un brano di Giorgio Agamben
È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926 anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura il cui primo libro è del 1978 Brillanti di bottiglia, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Versi di Lucio Mayoor Tosi
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
cari amici e interlocutori,
penso che l’idea forte di questa Antologia sia la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è cambiato e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza. Voler fermare la nascita di nuove proposte è, ripeto, un atto di cecità, un atto di conservazione faziosa di posizioni istituzionali.
In tal senso, il mio personale sforzo di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica, dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anna Ventura, Roberto Bertoldo, Luigi Manzi, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero indebitamente trascurati e intenzionalmente dimenticati e rimossi. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, e compito della critica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni estetiche da interessi di parte.
Altra cosa è la individuazione della linea che naturalmente segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e acritiche che continuano inconsapevolmente la grammatica epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana è definitivamente terminata. E che occorra aprire una nuova pagina della poesia italiana. Con una sola parola: sono convinto che occorra discontinuità, imboccare con decisione la strada che ci conduca verso la nuova poesia, verso una nuova ontologia positiva, verso una nuova ontologia estetica.
Riporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:
«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]
1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114
La Grundstimmung della nuova poesia, La nuova ontologia estetica, Poesie di Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Riflessioni sul nulla di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa
[È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan war Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura di Roma, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.]
Marina Petrillo
Esiste un’attitudine al Vuoto… Inebriato istante cancellato in spazio a-dimensionale, geometria sacra. Parrebbe avanzare ciò che indistintamente non lascia traccia. Ma, l’addensarsi plastica di un tempo consapevole, abita forse quel Vuoto. Ne è dinamica costante, come fosse non variabile l’umano approcciarsi al cammino evolutivo se non per quella esperienza unica, imprescindibile che è il vivere. Sottratti ad essa, vaghiamo in una interlinea assente, posta in ombra da incombente abisso. In un ‘nulla’ divagato a metamorfosi continua, incessante. Battito del cuore, metronomo in universo dilatato pur se indicibile. Per quale profilo avanzi il Tutto in assenza di sé, non è dato comprendere se non per brevi intuizioni. Sprazzi celesti in accordo all’ottava superiore. Scesi agli inferi, procediamo a tentoni, ciechi vati, Tyresia nell’ambiguità del sesso.
Appartiene al passaggio, l’Essere, in quel vuoto relativo poiché l’Assoluto richiede altra forma e il limite posto è contagio di infinito.
[Per lei, carissimo Lucio Mayoor Tosi]
Visse in maestria difforme
del non diviso Logos ancella.
Memoria del fu, il Nulla,
ad incarnare il possibile umano.
Sospeso inverno o primavera dello Spirito.
In dolci acque, ad ogni tocco, sulla superficie
un brillare di infrante stelle.
Non vento, solo alito di vita
immerso in silenzioso spazio.
Il contatto in telepatia fuggevole al respiro umano.
Il viaggio è nel ritorno, in quell’indugiante sorriso di eternità.
Giorgio Linguaglossa
Questo è un punto cruciale della indagine sulla Nuova Poesia.
Vorrei sapere (domando) se anche gli autori e gli interlocutori della nuova ontologia estetica condividono questo punto cruciale: se anch’essi percepiscono il nulla (Nichts) come una sorta di tonalità di fondo (Grundstimmung) del mondo dell’uomo, cioè dell’esistenza, e come uno stato emotivo ineliminabile della Nuova Poesia. Il “nulla” ( Nichts) sarebbe il vero motore nascosto della nuova poesia.
Se leggiamo la prima strofa di questa poesia di Marie Laure Colasson, ci troviamo di fronte ad una serie di sentenze stenografiche che non hanno alcun rapporto tra di esse, ma che, tutte assieme costituiscono una «questità di cose» che conformano una Grundstimmung, una tonalità emotiva di fondo. Ed è appunto questa la procedura della nuova poesia, della nuova ontologia estetica.
Marie Laure Colasson
(trad. di Edith Dzieduszycka)
Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique
Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe
Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres
“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour
Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………
L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane
Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d ‘ enfants “
Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet
Miss vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable
*
Rullo di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico
Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte scavalca la sua Harley Davidson
Scappa
Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri
“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle
Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………
L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio
Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”
Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet
Miss vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile
Francesco Paolo Intini
SINCROTRONE
Le grandi macchine conoscono il nulla.
Suggeriscono di guardare nei cassonetti.
Dove un occhio mescola una gamba c’è anche un orizzonte.
L’aspirina scaduta sa di Euclide marcio.
Conosce la fionda che rovina David.
La lussuria ha sapore di latte e sprofonda le mammelle.
Venere sussurra nel broncio di Bukowski.
Scoppiano i semi del non sapere.
Nel parlarsi inverso degli atomi la cristalleria del senso.
Insegnano ai neuroni la mortalità dell’anima.
Spalla a spalla la fatica dei quark. Ebola gioca con l’agnello.
Ma l’Eden appende nelle strade un editto di Ferdinando e Carolina.
La non forma cospira nel nido d’ape
McCarty ha la meglio sugli elettroni del ferro.
C’è un niente da portarsi dietro. Cancro all’esagono..
Un carico di mitra per combattere i pulcini di vespa.
Salire il castagno, immergersi nel nettare
Convincere Robespierre all’ineguaglianza.
McCarty succhia sangue di farfalle.
Il sincrotrone sibila triangolo e piramide.
Impara a dire SI dai NO che fermentano Aprile
Uccide con occhio giacobino la libellula.
Nascerà il Logos da uno spigolo.
Un’ incertezza nel calcolo genera guasti di Tempo.
Marx-Engels sa di lettere ogni volta che si aspetta
un infinitesimo di Tutto accelerare il Nulla.
Lucio Mayoor Tosi
Il nulla è pieno essere, ed è alternativo all’essere parziale condizionato dall’esserci in quanto persona, ego e conseguenti implicazioni esistenziali e psichiche. Quindi sono pienamente d’accordo con Giorgio Linguaglossa, quando scrive:
“La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica”.
Il nulla è pieno ascolto e silente attenzione – attenzione: è il nostro vedere interiore; in senso heideggeriano è componente della “cura”.
Per il nulla, tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Se ogni cosa è bella e perfetta, in quanto naturale e in quanto ogni cosa “è”, per contrasto ne deriva chiarezza sul vivere naturale e innaturale. E qui troviamo l’angoscia, che giustamente Heidegger segnala come avvertimento dell’essere al cospetto del nulla, e prova filosofica della sua essenza.
Nulla pensiero, nulla desiderio, nulla speranza. Sono queste alcune tra le proprietà esistentive del nulla esserci. Ma queste sono anche qualità del pieno ascolto, e della piena partecipazione, quindi dell’esserci.
La contraddizione è solo apparente: si suppone infatti che vi sia la possibilità di un esserci nel nulla; le cui modalità, e l’efficacia, sono ampiamente dimostrate, in primo luogo dalle numerose pratiche ascetiche appartenenti alla religiosità orientale, particolarmente nel buddismo e nell’induismo. Si parla qui di ascetismo senza finalità ultraterrene, che ha valenze tout court di esercizio-per.
Infatti Giorgio parla di “meditazione poetica”. Che qui può essere intesa come pratica, o tecnica, per esperire il nulla: la sua pienezza, l’indifferenziabile perfezione. Momentaneo esserci nell’essere. In questo spazio collocherei la meditazione poetica. Il pieno e perenne conseguimento dello stato di ascolto, l’esserci costante dell’essere, per la religiosità orientale appartiene alla natura umana, a patto che si sia ben vista, vissuta e quindi superata l’angoscia di vivere; perché oltre l’angoscia si ha piena partecipazione a tutto ciò che è. Tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Ivi compreso l’uragano Florence.
Giorgio Linguaglossa
(E, del resto, sapete: sono convinto che noi del sottosuolo bisogna tenerci a freno. Siamo magari capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant’anni, ma se una volta usciamo alla luce, e ci apriamo un passaggio, allora si parla, si parla, si parla…)
Fëdor M. Dostoevski
Se prendiamo, ad esempio, una poesia della nuova ontologia estetica, ci troviamo davanti al tentativo di forzare al massimo grado le porte del «dicibile» per sondare la dimensione dell’«indicibile». Se avete la bontà e la pazienza ad esempio di leggere una mia poesia, «Il bacio è la tomba di Dio», già dalle prime righe siamo proiettati in una situazione ultronea: una «Torre» immersa nella neve (l’immagine mi è stata suggerita dalla fotografia di Evgenia Arbugaeva); la torre reca una scrittura sopra la porta d’ingresso, misteriosa e terrifica. Quella scritta è la chiave di violino che apre una partitura: si apre una dimensione ultronea nella quale il lettore abita una «questità di cose» poste da un punto di vista inusuale ma non impossibile, una situazione-questità che chiunque di noi avrebbe potuto esperire nella propria esistenza.
«La nuova questità delle cose» per essere nominata richiede un nuovo linguaggio poetico. I continui salti spazio-temporali, l’apparizione in presenza di personaggi storici (Wagner, List) o inventati, le voci esterne e le voci interne che confliggono, insomma, tutta l’architettura complessiva delle voci che intervengono nel testo, tutte queste «cose» formano una «questità di cose», ci dicono che siamo in presenza di una situazione «indicibile» che richiede un modo di dire dell’«indicibile». E allora, il primo pensiero è stato pensare una poesia che ponesse una «situazione delle cose», che potesse essere detta tramite un quid di «indicibile» non presente nella tradizione della poesia italiana del novecento. E allora occorreva andarsi a costruire una nuova ontologia estetica che creasse un nuovo utilizzo della sintassi e della grammatica, un diverso impiego della iconologia.
Voglio dire che una tale «questità di cose» come quella esposta nella poesia della nuova ontologia estetica non sarebbe stata possibile mediante il linguaggio referenziale che va di moda oggi in poesia, dei Marcoaldi-Magrelli-Cucchi, sarebbe occorso un ben altro concetto ed impiego del linguaggio poetico: pensare il linguaggio poetico come portatore di una entità di significazione «indicibile», in grado di illuminare, appunto, il lato in ombra delle cose.
Era necessario fare un passo indietro rispetto ai linguaggi referenziali, in quanto la nominazione poetica si dà soltanto nella forma del congedo, del ritrarsi dalla soglia della significazione e delle cose; nel congedo è implicito il saluto; il salutare le cose nel loro esserci e nel loro esserci state, per noi, è un atto massimamente umano, implica il riconoscere la profondissima umanità delle cose, la quiete delle cose, il loro silenzio, il loro essere lì per servire l’uomo, non per essere asservite dall’uomo.
Se riflettiamo un momento sull’«indicibile» (concetto sul quale viene costruita la poesia della nuova ontologia estetica), ci rendiamo conto che è proprio la necessità di indicare-accennare-alludere all’«indicibile», cioè al lato in ombra del linguaggio, al lato in ombra delle cose, a rendere necessario un diverso modo di intendere ed impiegare il linguaggio poetico.
La nuova poesia ci svela la nuova mondità del mondo.
Finirei col dire, parafrasando Giorgio Agamben, che «non il dicibile ma l’indicibile costituisce il problema con cui la poesia deve ogni volta tornare a misurarsi».
La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci, Il paradosso della forma-poesia del polittico, Il capovolgimento, la peritropè, il salto sono le categorie dominanti del polittico, Poesie di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Riflessioni di Maurizio Ferraris, Giorgio Linguaglossa

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci
Gino Rago
Giorgio Linguaglossa porta Stige. Tutte le poesie a Maria Rosaria Madonna
Museum Theautrum. Dimensione atemporale della Estetica.
Eusebio:«L’elegia mai si farà inno …»
Nebbie sulla laguna. In Venedig in un sotoportego
Milaure Colasson pensa di essere al Bolshoi.
Sulle punte danza Il-lago-dei-cigni sull’alluminio di un tavolino.
Giorgio Linguaglossa e un marxista-leninista bevono un’ombra.
Una voce o un fiato: «Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi..». Tchaikovsky su una gondola
Piante. Carriaggi. Alberi senza rami. Frammenti di città.
Fumi dai fiumi. Persone. Immagini di piogge nella pioggia.
Materia redenta. Marina Petrillo. Lo choc di Baudelaire.
Nell’onda d’urto del tempo fra il vecchio e il nuovo
« Involve lo Spazio in azzurrità». Autoannientamento
Dell’ Arte. Il nulla che annienta sé stesso.
[…]
Cabaret Voltaire. 2016. Zurigo.
La signora Hennings e la signora Leconte
Cantano in francese e in danese.
Un’orchestra di balalaiche. Danze russe.
Tristan Tzara legge il manifesto dadaista.
[…]
La stampa di una foto di Degas
Vicino a un grande specchio.
Nella foto di Degas si vede Mallarmé.
E’ in piedi contro il muro. Renoir è sul sofà.
Nello specchio Lo stesso Degas
E la moglie di Mallarmé con sua figlia.
Paul Valery entra dopo lo scatto.
Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:
«Il prezzo di questa opera d’arte?»
Nove lampade a gas
E un istante di completa immobilità.
Donatella Giancaspero fotagrafa
La foto di Degas.
Pone sulla stessa linea di mira mente, occhi e cuore.
Trattiene il fiato e scatta.
Nella stampa della foto di Degas
Donatella ha messo tutto.
I libri. I viaggi. Gli amori.
Gli appuntamenti mancati. Le promesse mantenute.
Un lampo al magnesio. Una vita in frantumi.
[…]
Nell’entanglement quantistico
L’azione su un atomo entangled si riverbera sugli altri…
In un polittico poetico in distici entanglati
L’atto su un verso si propaga su altri versi.
Uno sciame di protoni di rubidio.
[…]
«Amleto è morto …»
Ne dà l’annuncio Lorenzo Pompeo dall’Ungheria.
Ma da Cracovia Lorenzo invia a Giorgio Linguaglossa
versi di Ewa Lipska tradotti in italiano.
Virna Lisi e Marlene Dietrich entrano con Kafka
nello studio di Sabino Caronia,
Tre ombre nella consolazione della sera.
Faber Nostrum canta Il Bombarolo…
[…]
Pino Gallo arringa da Roma la Fata Morgana,
Sotto gli affacci di Scilla il mare si fa di olive acerbe.
Pino Talìa porta un Mattia Preti
Da Taverna a Firenze. Botticelli si inchina.
Francesca Dono da Biffi regala bergamotti,
Davanti alla Scala tutti si mettono in fila…
Una poesia di Mauro Pierno sul Corriere della Sera.
[…]
Visioni mistiche a san Francesco a Ripa.
Marina Petrillo davanti a Ludovica Albertoni.
Marmo. Drappeggio. Diaspro. La beata in estasi.
Verso l’altare della cappella
Marina abita parole d’amore.
Un raggio di sole sul marmo.
Le visioni. La tela di Gaulli. La finestra.
Bansky-street-artist: « How the Troian War Ended
I don’t Remember…
Edited by Giorgio Linguaglossa»
Letizia Leone a Mario Gabriele:
«Chelsae Editions. Miracolo.
Bellissima la cover di copertina»
[…]
Toscanini posa la bacchetta:
«A questo punto muore Liù.
Turandot finisce qui. Pekino è a lutto.
Il cancro alla gola ha ucciso il Maestro».
Creatura che crea nella luce sul mare
Marina Petrillo va incontro a Puccini.
Giorgio Linguaglossa commenta
La lettera scarlatta a Mario Gabriele
e a Lucio Mayoor Tosi. Giorgio Agamben:
«L’uomo di gusto nella dialettica della lacerazione..»
Ready-made. La compagna di Duchamp usa un Rembrandt
come tavolo da stiro.
[…]
Edith Dzieduszycka parla di Michele. Traduce in italiano
Le lacerazioni di Marie Laure Colasson.
Maria Rosaria Madonna scrive lettere a Kavafis,
Non sosta mai dove i treni si fermano.
Al centro della Marketplatz
Giorgio Linguaglossa le porta tutte le poesie
In un trolley che sulla ghiaia d’un prato fa scintille.
Roland Barthes parla da solo nella chambre claire:
«Operator. Spectrum. Spectator. Studium. Punctum.
Cerco mia madre nel portacipria d’avorio»
Edith Dzieduszycka cerca la sua
In una boccetta di cristallo intagliato.
(9 luglio 2019)
Giorgio Linguaglossa
La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci, Il capovolgimento, la peritropè e il salto sono le categorie dominanti del polittico
Il luogo dei personaggi e delle situazioni indicate dalla poesia di Gino Rago è un particolare mix di «questità», di ciò che è qui ed ora, di ciò che figura nel presente (Edith Dzieduszycka, Marie Laure Colasson, Marketplatz, Giorgio Linguaglossa, Roland Barthes, Stige. Tutte le poesie, chambre claire, Maria Rosaria Madonna, Kavafis etc.). Tutto ciò configura il possibile come pensabile vero. E all’inverso, ciò che può essere pensato e detto è anche possibile, perché l’ontologia positiva è ciò che si dice, e il possibile, anch’esso può esser detto e, in quanto detto è quindi possibile, è una figura dell’esistente sub specie del possibile. Come dire che è tutto vero nel suo attuale esser-presente, in quanto l’attualità è tutto quel che si fa avanti nel presente, e anche quel che si fa indietro dal presente, come «altro» rispetto a quel che è dato nel presente. L’attualmente esistente è il presente, l’esistere qui ed ora come indicazione di qualcosa che sarebbe potuto essere presente in altra guisa in luogo di quel che ora si dà.
Nel polittico la predicazione della possibilità allarga il campo d’azione dell’esser-questo in quanto coincidente con il non-essere-questo in quanto ricadente nella possibilità che ciò accada. La più radicale delle contraddizioni equivale perciò alla possibilità che le cose stiano in altro modo e in altra guisa da come si offrono alla apparenza del senso comune, per cui il possibile sarebbe questo esser-così e il questo non-essere-così, in quanto quello che decide è l’essere presente nel presente come figura del presente, nell’attualmente presente, e l’essere del passato nel presente come figura del presente, nell’attualmente presente.
Il venire alla manifestatività dell’esserci di un questo equivale alla predicazione di una infinità di possibili «questi» di mondi «altri» rispetto a cui l’attualmente esistente è soltanto una delle possibili modalità del manifestarsi. In ciò risiede il paradosso della forma-poesia del polittico la cui pensabilità stessa ci conduce da subito alla forma paradossale secondo cui tutto il pensabile è esistente al pari di ciò che è esistente nel presente come figura del presente.
L’esserci delle cose è il loro non-esserci se non nella manifestatività del presente, onde ne deriva che il non-esserci gode dello stesso accredito dell’esserci (equivalenza dell’esserci con un «altro da se stesso»).
La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci in ciò che è detto e per come è detto, non c’è nessun mistero che non sia solubile nella manifestatività dell’esserci nel presente; la forma polittico implica il negare e l’affermare la questità delle cose, la forma della presenza di ciò che è presente e la forma della possibilità della presenza, implica la incondizionatezza del condizionato, la inclusione dell’escluso nell’orizzonte destinale della manifestatività in ossequio al principio del: ciò che c’è è ciò che si dice, e ciò che si dice è ciò che c’è. Nel polittico ciò che si manifesta nella forma del possibile equivale a dire ciò che si manifesta nella forma non contraddittoria di ciò che esiste nel presente. Il capovolgimento, la peritropè e il salto saranno le categorie dominanti questa forma d’esistenza che perviene al presente come figura del presente, in quanto gli accadimenti accadono in quanto predicabili e, quindi, immaginabili, possibili.
Lucio Mayoor Tosi
Nessun nome.
«Ora non posso. Mi viene a prendere l’autobus parlante. Ho già
il Crocifisso alle pareti. Barbara non c’é. Lo ripeterò sempre».
Nessun nome da ricordare. Nessuno abbastanza famoso, o sono io
senza memoria? Angelino dice. Marta. Mi fa una pugnetta.
E’ l’orizzonte. Le marmotte ne sono ammirate. L’opaco viandante
e le carrozzelle; prima, quando mancavano. Babele di stracci
e mascolina. Maschile di “Patria”. Prime gazzose. Ah, bianco
spinami il cuore! Abbiamo ancora da cominciare. Continua a leggere
Si va verso la costruzione della forma poesia a polittico: Poesie di Marie Laure Colasson, Carlo Livia, Giorgio Stella, Francesco Paolo Intini, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Anche il multiverso è ragguagliabile a una costruzione a polittico, La questione del finito e dell’infinito nella nuova poesia

«Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito»
Intorno alla costruzione della forma-poesia a «polittico»
La costruzione a «polittico» è un assemblaggio di «finiti». Ogni immagine, ogni personaggio, ogni icona è un «finito». «Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito». Parlare e pensare quindi la poesia come «colonna sonora» di significati e di significanti, di «composizione chiusa» o «aperta» è, dal punto di vista del «polittico», un non senso; quella è stata la poesia del novecento, che si è chiuso in un brusio generalizzato e insignificante, un rumore di fondo postruista. Sembrerà ovvio dire che per afferrare la «nuova poesia» occorrono nuove categorie, ed è quello che sta cercando di fare la nuova ontologia estetica. Andiamo alla ricerca delle nuove categorie del pensare ermeneutico.
Il problema è: parlare e pensare la forma poesia come collezione e collazione di «finiti». Considerare una parola, un nome, una immagine come figurazione di un «finito». Finora invece la poesia ha considerato il «nome» (cioè il «finito») all’interno di una colonna sonora che lo portava con sé, lo faceva viaggiare dentro la carlinga del discorso sintattico semantico unidirezionale. Ma, è ovvio che questa è una convenzione, un patto di solidarietà tra il lettore e un emittente, secondo il quale il ricevente accoglie il «nome» come facente parte di un discorso tenuto da un io plenipotenziario che sta sul podio e stabilisce le gerarchie dei significati e dei significanti. Questo, detto in breve.
Ebbene, la nuova ontologia estetica infrange questa convenzione pattizia, ci dice che quella convenzione non è più in vigore e che la nuova poesia ne farà a meno. Penso che sia legittimo. Nessuno ci potrà negare la facoltà di pensare e operare in costanza di caducazione di questa convenzione.
Se non si comprende questo assunto di base, non si comprende nulla della «nuova poesia» NOE, e si continua ad operare secondo quel rispettabilissimo patto che è stato in vigore nell’era copernicana dell’io governatore che arriva dall’inizio del Novecento con il deflagrare delle avanguardie fino ai giorni nostri postremi ed epigonici.
Adesso, con l’ontologia positiva, ne siamo fuori. La poesia dell’ontologia negativa di Heidegger ha dato risultati brillanti ma, quella ontologia fa parte ormai del passato, un passato glorioso, ma passato.
Il «finito», ogni volta che lo nominiamo, è già nell’«in-finito». E già qui siamo fuori della ontologia negativa, siamo entrati in un altro demanio concettuale. Il discorso poetico richiede la predicazione del «finito», una predicazione che non avrà mai fine e che pone stabilmente il «finito» nell’«infinito». Se riusciamo a pensare il discorso poetico in questi termini, non potremo mai più fare poesia come lo si è fatto nella tradizione poetica occidentale.
Sono stato chiaro?
E con questo penso di aver risposto in qualche modo ad Antonio Sacco che mi chiedeva lumi sulla NOE, il tempo, interno, il tempo esterno, lo spazio, la tridimensionalità, la quadri dimensionalità, la disfania, la diafania etc.
Il «non dicibile» abita la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito. Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica ad esempio della poesia di Mario M. Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi.
Nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tra-dizione filosofica occidentale.
(Giorgio Linguaglossa)
Marie Laure Colasson
[Milaure Colasson (Marie Laure), nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie].
Le miroir jaloux
De leurs ébats
Comme chante Oscar
Se brise
En mille éclatements
Au travers des paupières
L’écume des jours
Sa bouche ouverte
Un naufrage
Sur quatre couches
De tulle superposées
Un magma savamment coloré
Aéré de plages vides
Renato peint sa magie inventée
Autour de la table
En haute voltige excelle le protagonisme
Chacun se conjugue
À la premiére personne
Exister à tout prix
Les cris stridents des mouettes
À ciel ouvert
Semblent menacer la ville
Putréfaction
“ et moi et moi et moi
Et des millions de petits chinois “
Chantait Jacques Dutronc
La suite en devenir.
*
Le specchio geloso
Dei loro trasporti
Come canta Oscar
S’infrange
In mille frammentazioni
Attraverso le palpebre
La schiuma dei giorni
La sua bocca aperta
Un naufragio
Su quattro strati
Di tulle sovrapposti
Un magma sapientemente colorato
Alleggerito da spiagge vuote
Renato dipinge la sua magia inventata
Volteggia alla grande
intorno al tavolo ed eccelle
il protagonismo
Ognuno si coniuga alla prima persona
Esistere ad ogni costo
Le grida stridenti dei gabbiani
A cielo aperto
Sembrano minacciare la città
Putrefazione
“… e io e io e io
E dei milioni di piccoli cinesi…”
Cantava Jacques Dutronc
Il seguito in divenire.
(trad. di Edith Dzieduszycka)
Carlo Livia
Cenere
È grigio eterno. La macchina dura, malata al posto del cielo. La furia di metallo al posto di Dio. Mia madre si affanna a salire, lasciando un solco di pena. I morti prendono alloggio nella pausa, fitta di pugnali femminili.
L’Essere si lacera sul fondale scosceso. Grida: fuori dallo specchio! C’è l’orfano che uccide. La rosa inesorabile fuggita dal duomo. Che non ricordo più.
Affilate le colpe del deserto. Dice il profeta vestito di arida pace. Col vento della scure come preghiera. Il padre intoccabile. Il suo sonno nero. Ritratto in lacrime che oscura le marine.
L’estranea col peccato entra ed esce dal sogno. La musica dell’amata diventa verticale. Mi chiede l’ombra delle navate. O il viale dei quindici anni. Nella gabbia delle chitarre, con l’embrione infelice.
Sono nel terzo silenzio. Senza promessa. Una vecchia macchina fruga nel mio cuore. Per addormentarmi nel lunario rosa. Passa un morbo triste. L’angelo che non mi ama.
Carne rosea e riccioli d’oro. L’apparenza viziosa. Si accartoccia subito al vento degli ulivi. Dall’alto non ci vedono. Troppo nudi nel ripostiglio. Col lume votivo che piange nel millennio.
Senza bambini. La giostra desolata.
Aspettando il tuono
Entro nello sguardo della bambina. La sua tristezza mi dissolve. L‘anima resta sola. Mi prende per mano e mi porta nel bosco. E’ Il corpo dell’antica Signora. Cresce e s’inazzurra. Dalla sua testa si staccano tre grandi uccelli. Sono orfani. Pregano il quadro vacillante.
Ho ucciso una favola di fonti. Lascia che risorga in me – dice il fiume. Fuggo nel cielo malato, con l’amante in pena. La notte sacramentale mi avvolge, travestita da eclissi contagiosa. La danza dei pianeti piange rugiada di fanciulla.
Il cielo dimagrito per le nozze. Dai più lontani luoghi di sepoltura, al ripostiglio dell’Enigma. L’algebra defunta nell’estasi d’alabastro. Il profumo della Dea langue sugli spalti. L’angelo implacabile è la sposa. Perduta nell’immenso tabernacolo.
Porta un sogno verde sulle spalle. Non sa quanto pesa. Mettilo giù – le dice il cielo. E’ un’arpa folle d’amore. Mi abbraccia nella pioggia nuda. Triste di non essere qui. Con l’addio che cambia forma ad ogni vento.
La donna che amo nasconde in sé il segreto. Cammina davanti a me nella pioggia triste, circondata dagli angeli sterminatori. Non mi consentono di raggiungerla, minacciandomi con le lingue infuocate.
Seguo la processione dell’aborto infelice. Il branco mi attraversa per copulare con la reliquia. Perdendo la vita entro nel cerchio di luce. E’ la radura boschiva da cui nasce l’apparenza. La statua senza testa decreta il mio destino: uno stuolo di manichini che parlano ma non capiscono. In fondo la foresta di sogni senza sguardi.
Dal cielo malato cadono estasi di corallo. Il ragno che inghiotte la notte fa infuriare le ombre. L’addio è troppo timido per abbracciare la sua particola. La curva paranoica cresce inglobando terribili sagrestani.
Un suicidio disadorno oscilla nella cella. Un tentacolo dell’enigma esce dal confessionale. L’eclissi contaminata si confonde col roveto ardente. L’angelo sigillato rovescia la clessidra. Nella città appena risorta preparano il giudizio.
Giorgio Stella
Il Conte Beppe Salvia è a cena con la
Marchesa Amelia Rosselli…
Entrambi hanno deciso di tenere
le finestre aperte per volarci per primo
ma tra Salò e Bètlemme il miele rosso
del piccione da caccia ha il tappo in
bocca… Guarda bene di non poter volare
male la lingua che ha dovuto rinnegare
tra le rovine del panforte e altre
lucurnie del proprio paese –
– all’altro capo dello stesso –
è rotta la macchinetta delle foto
per il censimento del primo dell’anno
mille quando la Florida fu invasa da Cuba
ed Hernry Miller si chiedeva se Tropico del
cancro fosse superiore a Tropico del capricorno:
Una veggenza in piena regola come
Il Tallone di ferro di London o Sotto il Vulcano
cantava: ‘strano il destino, arde la terra mentre un
fiume è in piena’
ma al nono piano del civico 27. di Centocelle
alle 17 del pomeriggio, morte nel pomeriggio,
la vecchia ballerina impartiva lezioni di danza
a giovani ragazze che aspettavano i genitori…
dal vetro pare che l’anziana donna parli da
sola e che all’orologio non sia stata
cambiata apposta la batteria in maniera
tale che la retta stabilita sia saldata
per la festa d’OGNI SANTI.
(Roma,1 luglio, circa le 11.00 del 1, luglio, 2019)
.
Giuseppe Talìa
L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
E lava il mondo nottetempo, dice Celan.
In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
E Kant, di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.
Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.
Spesa settimanale: un po’ populista un po’ liberista.
Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.
Grammi di differenza. La psicologia giustifica:
Nuova esperienza, porta pazienza contano i residui
Del vissuto: la buccia, la polpa e il seme, la tridimensionalità
Del frutto. Quel che è fratto è fratto dice A. L. Lohman. Attrice.
Lucio Mayoor Tosi
In tempo
– Cosa si dovrebbe mai trovare nel nulla,
se proprio lì ogni cosa sparisce. Che vai cercando?
Seguì un concerto di dromedari. Le vacche
avevano da ridire. Eravamo capitati in un gorgo di tempo.
– Se invece che il nulla, covassi l’ambizione di poterlo
attraversare. Magari a costo di restarci secco…
E il nulla fu: lo sferragliare del tram (Primavera, nel segno
di Botticelli), l’alpino tosato, e tutte quelle… parole,
come essere in convento. A pochi metri dal mare, gente
che va su e giù per le scale mobili. – Che esista anche
un nulla virtuale? – Sarebbe il benvenuto. Nulla lo spaventa.
Il nulla è sia qui che lì. Tiene in vita le cose, le sostiene.
– Nel nulla-spazio si muore. Nel tempo dimensionale,
è pieno di tamerici in fiore. La freccia è ormai scoccata. Continua a leggere
La fine del Progetto culturale egemonico-accademico di Le Parole e le Cose e la nascita della Nuova Ontologia Estetica. Commenti di Giuseppe Cornacchia, Mario M. Gabriele, Anna Ventura, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Nunzia Binetti, Sabino Caronia
Giuseppe Cornacchia
Il poetico invece della poesia 2019
http://www.leparoleelecose.it/?p=35516
https://poesiafutura.wordpress.com/2019/05/01/il-poetico-invece-della-poesia-2019/
http://www.leparoleelecose.it/?p=34560
“Le Parole e Le Cose” versione 1 ha in effetti ricollocato la competenza specialistica in cima, a mo’ di classe col professore dietro la cattedra ed i banchetti in fila zitti ad ascoltare, travasando in rete parte della cultura scritta negli anni Dieci per la carta e da lì espulsa, devitalizzando di conseguenza la partecipazione della classe fino ad estinguerla. Ha in sostanza subito il mezzo più che cavalcarlo come fece “Nazione Indiana”, motivo per cui la vivacità si e’ trasferita sui social, anche per narcisismo ma essenzialmente come playground. La pretesa fondativa del tecnico competente abilitato a parlare rispetto all’onesto incompetente che deve solo ascoltare, oggi divenuta identità politica e sociale di massa, non ha aiutato ad indagare perché tanti competenti, seppur meglio equipaggiati degli incompetenti, sbaglino puntualmente le previsioni sul futuro esattamente come questi ultimi. Probabilmente il settarismo e la malafede bilanciano verso il basso la competenza, così come l’onesta’ bilancia verso l’alto l’incompetenza, facendo pari e patta nei fallimenti predittivi? Anche dal punto di vista teorico, il contributo vitalistico e’ stato qui marginale, anzi anti-vitalistico proprio nella visione di Guido Mazzoni e repressivo in quella di Gianluigi Simonetti. Nazione Indiana si chiuse sostanzialmente con la farsa a tavolino del New Italian Epic ed il miglior contributo teorico-letterario internettiano degli ultimi tempi arrivi dalla Nuova Ontologia Estetica di Giorgio Linguaglossa & sodali su L’”Ombra delle Parole”, un blog di vecchi che ha progressivamente affinato e reso presentabile la frustrazione mentre qui infuriavano Erinni e si proponevano come novità epigoni trentenni e quarantenni di epigoni cinquantenni e sessantenni, tutti ancora fermi al 1975 ed immersi nel rimpianto nostalgico. Siete stati pompieri ma la biblioteca in fiamme era forse vuota, i libri erano stati trafugati e portati altrove mentre qui si discuteva cenere?
Giorgio Linguaglossa
caro Giuseppe Cornacchia,
“Le parole e le cose” nasce come progetto culturale egemonico: impartire lezioni di letteratura e altro da una cattedra, dove ovviamente i cattedratici sono loro, i possessori della cultura «alta», i sacerdoti culturali, i quali si concedono al pubblico della rete internet per educarlo ed emanciparlo alla cultura d’élite. Impostazione tipica di una supernicchia culturale che intende la cultura come Verbo da non mettere in discussione e come Autenticità della lezione impartita agli sprovveduti utenti della rete. Le conseguenze di questo progetto sono state ovvie: l’esaurirsi di una esperienza fallimentare, quella supernicchia si è rivelata una scatola vuota dove non soltanto le previsioni sul «futuro» erano saccenti ed erronee, ma anche le diagnosi sul presente e il passato culturale erano stantie e accademiche, prive di alcuna capacità di elaborare una piattaforma di pensiero critico alternativo a quella elaborata nelle accademie e negli uffici stampa degli editori maggiori.
L’unica volta che il blog si è trovato di fronte ad un intervento critico che non rientrava nei suoi schemi (un mio commento di alcuni anni fa nel quale sollevavo una domanda di metodologia critica), la discussione si è infilata subito in un tunnel di muro contro muro, il blog, nella persona della signora Claudia Crocco, si è dichiarato altezzosamente non disponibile a fornire alcuna spiegazione sulle questioni che avevo sollevato. La discussione che ne è seguita tra lo scrivente e gli avvocati d’ufficio della Crocco è andata a finire in un insulto scritto rivolto alla mia persona con conseguente mandato da parte mia al mio legale di fiducia per procedere a querela avverso le offese ricevute ai sensi dell’articolo del codice penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa.
Esempio probante della incapacità culturale del blog di sostenere una discussione di livello critico elevato quando si profilava un interlocutore capace di mostrare le contraddizioni e le debolezze della sua impostazione culturale arroccata su una dogmatica intangibilità e superiorità di principio.
In un’altra occasione, ho sollevato alcune problematiche circa la poesia di Mario Benedetti; anche quella volta il blog decise di chiudere unilateralmente la discussione che stava prendendo, a suo parere, una direzione che non aveva preventivato.
Questo per dire della incapacità culturale e non volontà da parte della direzione del blog a sostenere una discussione su una posizione di pari dignità intellettuale, sulla presupposizione del dogma della superiorità della cultura chiericale di cui i suoi detentori si ritenevano possessori esclusivi e intangibili.
La posizione dell’Ombra delle Parole è tutt’altra, è un luogo di ricerca letteraria e filosofica e di libero confronto intellettuale, e sicuramente la rivista si è sempre resa disponibile a fornire ampia delucidazione delle proprie posizioni a chiunque le abbia rivolto delle questioni o considerazioni.
Anna Ventura
8 maggio 2019 alle 16:40
Mi piace tanto, questa frase: ”Siete stati pompieri ma la biblioteca in fiamme era forse vuota “Mi fa pensare a questo nostro continuo correre dietro alle parole, come il criceto intorno alla sua ruota: un lavoro apparentemente inutile, eppure importantissimo. Non sottovalutiamo il dono della parola,che distingue l’uomo tra tutte le creature della terra. Come tutti i doni, la parola nasconde più di un pericolo, Perciò dobbiamo conoscerla a fondo, meditare sulle possibilità varie che offre; è un delta immenso, ma navigarci dentro può essere esaltante.
Ecco qui un sonetto in romanesco di
Sabino Caronia
A Linguagro’, ma va a magna’ er sapone,
nun me scoccia’, nun me sta a rompe er cazzo,
è da ‘na vita che me faccio er mazzo
pe resta’ sempre er solito fregnone.
Passi pe quelli che nun so pippette,
pe Gino Rago, Steven ed Arfredo,
passi pe tutti, puro pe Sagredo,
ma che c’entreno mo ste suffraggette.
Fossi ‘n’omo, vabbè! ma ‘na sciacquetta
ha da venicce a smove li sbadijj
a furia de libbracci e paroloni!
Fili, fili, lavori la carzetta,
lassi perde de dà boni conzijj,
abbozzi, e nun ce scocci li cojjoni.
Giorgio Linguaglossa
7 maggio 2019 alle 12:20
Se leggiamo una poesia di Mario Gabriele ci rendiamo conto che si tratta di fraseologie, spezzoni di dialoghi intersoggettivi tra un mittente, un destinatario e un terzo (che è l’occhio del lettore). La parola aspetta sempre di essere validata (autenticata) dall’Altro; è questa autenticazione che rende adeguata la parola a se stessa, la rende significante, e non l’oggetto; o meglio, l’oggetto viene identificato per il mezzo dell’Altro che convalida e autentica la parola come proveniente da un soggetto e diretta ad un oggetto. La parola è un atto, e in quanto tale presuppone un soggetto, il quale a sua volta per essere validato deve presupporre l’autenticazione dell’Altro.
La poesia di Gabriele, la struttura frastica impiegata in realtà vive in una gabbia sintattica che rende manifesto come la comunicazione sia semplicemente una finzione, un allestimento del discorso tra interlocutori estranei ed estraniati e che da questa gabbia non sia possibile sortire fuori in nessun modo.
Il messaggio ritornerà dall’Altro al mittente locutore sì, ma in forma invertita, con un segno meno. E così via. Continua a leggere
Il «soggetto-polittico» della Nuova Poesia, Il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, Poesie di Donatella Giancaspero, Gino Rago – Commenti di Giorgio Linguaglossa
Donatella Giancaspero
Alla fine di aprile
L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana.
Attraversando un flash, tocca il fondo.
Una lesione sul bordo per gli anni a venire.
A pranzo, in cucina, la sedia occupa il posto estraneo.
Sfilano i bar di passaggio. Le arance spremute nei vetri opachi.
Da un isolato all’altro, le parole sbirciano vetrine
– “per caso, senza l’idea di comprare qualcosa.
Cercando, magari una volta soltanto
e fuori stagione, un gelato al limone…”
Alla fine di aprile, i gabbiani qua intorno. Tanti.
Sui tetti. In cima ai comignoli. Appollaiati.
Chi punta il dito, in un ritaglio tondo di cielo
Commento di Giorgio Linguaglossa
Anche Donatella Giancaspero costruisce per polittici le sue poesie. È un «soggetto-polittico» che qui ha luogo. Si va per audaci scorci e scorciatoie, per abbreviazioni, per fulminanti asimmetrie ed ellissi come nella poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non si era mai visto. La poetessa romana preferisce al distico, i gruppi, strofe ben nutrite, complesse e compresse; in questo modo ottiene effetti di profondità e densità spazio temporali. Frequentissimo è il punto, impiegato per spezzare, frantumare lo strofeggiare pallido e assorto dei frequentatori della poesia narrativa di oggidì. Direi che la «nuova poesia» la si può riconoscere dall’impiego, dalla frequenza e dalla dislocazione del punto; più frequente è il punto, più la poesia assume la connotazione sintattica della interruzione, della marcatura, della dissimmetria. Ogni emistichio e ogni singola tessera del verso ha un proprio peso specifico differente da quello di ogni altro emistichio e di ogni singola tessera frastica.
Anche la sineddoche, la metonimia e la procedura straniante vengono impiegate frequentemente però in momenti strategici, in particolari luoghi delle singole strofe a sottolineare la forte morfologia della costruzione sintattica (la sedia occupa il posto estraneo./ …. Le arance spremute nei vetri opachi).
La poesia tratta della descrizione di uno scorcio di Roma invasa dai gabbiani che ormai passeggiano tranquillamente in mezzo ai pedoni e al traffico della capitale alla ricerca del cibo delle pattumiere. Ma è anche la descrizione di una Stimmung, di una tonalità emotiva. La poesia non è una descrizione di un paesaggio, ma è la rappresentazione con mezzi poetici e tecnica da NOE della Stimmung della persona che sta là fuori e osserva tutto questo degrado. Eppure, c’è della bellezza in questo degrado, anzi, il degrado del nitido quadretto alla Pisis, ha qualcosa di accattivante, di emolliente e di repellente. Gli interni sono tutti disadorni (elemento questo tipico della poesia giancasperiana), per non dire squallidi, ma di uno squallore ricco di vita trattenuta, deflorata, consumata, violata, inautentica, sordida, felice…
La Giancaspero non indulge mai ai buoni sentimenti, non alletta il lettore, non lo illude… è sempre oggettiva e disadorna nelle sue rappresentazioni. Nelle sue poesie non c’è mai un Inizio, come non c’è mai un Finale. Il Finale di partita è che non c’è, non si dà mai nessun Finale di partita, perché non c’è partita. Ovvio.

fotogramma del film Nostalghia di Tarkovskij
Donatella Giancaspero
Cari amici,
per prima cosa, voglio ringraziare Giorgio Linguaglossa per aver pubblicato la mia poesia “Alla fine di aprile” e per averla commentata così bene. Inoltre, condivido moltissimo il pensiero del filosofo Andrea Emo citato qui nel post. E tengo a evidenziarlo:
«Non è vero che la poesia sia pura fantasia, pura immagine, che la filosofia sia puro pensiero. L’immagine senza pensiero è vuota, il pensiero senza immagine è muto. Ciò che non si saprà mai è questo: quale dei due sia l’origine o la speranza dell’altro. Ma questo è forse necessario. Poiché se il pensiero, guardandosi non vedesse in sé, come suo fine, l’immagine, e l’immagine, guardandosi, non vedesse in sé, come suo fine, il pensiero, forse all’uno e all’altra potrebbe sembrare di essere fondamento, costruzione o conclusione del tutto. Ma questo loro reciproco esser fondati sull’altro fa a noi intendere come pensiero e immagine siano la forma umana della contemplazione, che muta volto e delude se stessa».
Credo che questo discorso possa applicarsi alla mia poesia.
Proprio in questi giorni, dopo un lungo (e direi estenuante) lavoro di ricerca e di riflessione, ho composto un testo. La mia ricerca si è incentrata sulla storia urbanistica e sociale di un luogo della periferia romana, sulla filmografia che lo descrive (principalmente quella di Pier Paolo Pasolini), nonché su alcune tecniche cinematografiche essenziali. Ma non solo. Nella scrittura mi sono trovata ad affrontare proprio quella stretta e misteriosa connessione tra pensiero e immagine di cui parla Andrea Emo. È stato in funzione di questa che ho stabilito la mia ricerca lessicale e sintattica. I dati oggettivi derivati dal lavoro teorico preparatorio si sono mescolati con i frammenti di una mia vaga memoria personale: più che di veri, coscienti ricordi, si tratta di flash, di echi, in certi casi soltanto di sensazioni: tutto ciò che la mente è stata in grado di recuperare, sollecitata anche dalla visione delle immagini reperite nel web.
*
Lungo piano sequenza
Nel colore digitale, la sfocatura dello spazio:
gente, alberi, automobili. Le scritte e i murales dei writers.
Un software smonta i semafori, i parcheggi lungo il marciapiede…
Sulla sponda destra dell’asfalto, una landa sbiancata.
E un accenno nero di arco, tra gli sterpi, oltre il senso della Storia.
Di contro, la campata vuota del Boomerang. I monoliti stellati.
Su Google Maps, via Lucio Sestio evoca il mercato rionale.
Lungo piano sequenza di luce, col cinquanta* che sfonda.
Il bianco e nero sui volti. La fissità del moto.
Antonietta, dietro le verdure. Il coltello nella tasca ruvida
e l’offerta consueta per la bambina di passaggio:
non si spiega il filo teso dei palloncini oscillanti al vento.
Tra i banchi, se ne veste un vecchio ragazzo con la faccia da ladro,
la maglietta bucata. Ne stacca uno per due lire…
Un punto bianco, nel bianco: sopra la torre di largo Spartaco.
*Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Tutte le Poesie, vol. I (Mondadori, 2003)
Scrive Pier Aldo Rovatti:
«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?
Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.
Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 2]
2] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7
Scrive Jacques Lacan:
«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.
Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]
Giorgio Linguaglossa
Qualche considerazione sul «soggetto-polittico»
Ciò che mi costituisce come soggetto, ecco la questione centrale. Non è dal soggetto che dobbiamo partire, ma dall’esterno, da ciò che ci rende soggetto, che sono gli Altri e l’Altro. È da qui che dobbiamo ripartire per una perlustrazione del cosa è il soggetto.
Questo esercizio di porre da parte il soggetto è una vera e propria «iniziazione» come dice Rovatti. Il soggetto è veramente soggetto soltanto quando si sdoppia, si triplica, si quadruplica; quando il soggetto abbandona se stesso, prende le distanze dal se stesso, quando è impegnato a costruire una nuova soggettività, quando lateralizza se stesso, si decentra, quando subentra un altro soggetto che prende il posto del primo e lo mette tra parentesi, lo spiazza, lo decentralizza.
Quando tutto ciò accade, allora il soggetto diventa pienamente se stesso in quanto è Altro e di Altri.
Allora, da questa molteplicità di soggetti, da questo indebolimento del soggetto, proprio da qui può nascere un soggetto fortificato, un soggetto invincibile. Un soggetto nuovo. Un «soggetto-polittico».
Il soggetto che si riappropria del soggetto non finisce mai di essere soggetto ma lo diventa sempre di nuovo. E qui il problema della «identità» sa di calcolo combinatorio, calcolo stocastico. Gli enunciati analitici non li si può ridurre alla formula A è B. Ogni volta il soggetto ricomincia daccapo, riapre lo scarto con il proprio mondo pulsionale e rappresentativo.
Con le parole di Giorgio Agamben, diremo che il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, cioè dal punto di vista musicale è eminentemente cacofonico, la cacofonia è la legge segreta che muove il «soggetto-polittico». Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria
Mauro Pierno, poesia in distici, La polvere esatta, con Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.
Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Penso da tempo che ogni nuova poesia porti con sé una propria Grundstimmung (per Heidegger, una «tonalità emotiva fondamentale») che dà alla poesia non soltanto una tonalità dominante ma anche una individualità tono-fono-simbolica individuale e inimitabile. Però è paradossale che i singoli modi di fare poesia siano incomunicabili proprio in quanto trattasi di individualità assolute, vasi in comunicanti, asimmetrici; di qui la estrema problematicità nell’individuare le singole Grundstimmung. Di solito accade che quando sei nella nuvola tonale di una Grundstimmung non riesci ad uscirne se non a prezzo di ostacoli molto grandi e con grandissima fatica; più grande di tutti è la difficoltà di superare il proprio gusto pregresso, abbandonare le confidenze musicali acquisite, l’accordo musaico della tradizione. La «tradizione», da questo punto di vista, è il repertorio delle «voci» che hanno parlato musaicamente, ovvero, musicalmente, ma che oggi non ci parla più se non come un repertorio di voci morte. Di qui la necessità di rivivificare la tradizione come Ueberlieferung, come trasmissione della tradizione.
In tutte le epoche, ma nella nostra in particolare, si assiste al fenomeno dell’epigonismo di massa per cui un certo linguaggio poetico che, a detta dei più, contiene una «tonalità emotiva fondamentale», tenda ad essere replicato all’infinito dalle tecniche di riproduzione di massa ma al punto più basso, quello raggiungibile appunto dalle masse e quello consentibile dalle istituzioni pubbliche e private che veicolano quel linguaggio musaico e musicale. Penso che le moderne democrazie dell’Occidente non si distinguano in nulla, da questo punto di vista, dalle demokrature di stampo putiniane, orbaniane, salviniane e trumpiane. Lo scarsissimo livello «musaico» delle democrazie occidentali trova il suo equivalente nello scarsissimo livello «musaico» della poesia che esse producono. Il fenomeno è fisiologicamente diverso da quello che filosofi come Horkheimer e Adorno tratteggiavano negli anni cinquanta quando parlavano di «industria culturale» e di «società di massa», oggi le nostre demokrature si avvalgono in larghissima scala della pessima musica che si veicola nel loro ambito, in tal modo trovano più agevole imporre una pessima politica demagogica e una demagogia millantatoria. Il decadimento del linguaggio «musaico» in auge nelle nostre democrazie occidentali è e sarà, presumibilmente, un fenomeno stabile indispensabile per la stabilizzazione e la standardizzazione delle democrazie al loro livello più basso, al livello appunto delle demokrature.
Questo per dire che la cacofonia che serpeggia come un virus in questi dieci pezzi di Mauro Pierno è l’espressione di quella a-musicalità che caratterizza la fase attuale della civiltà occidentale. Già Adorno negli appunti della Teoria estetica metteva in guardia contro la «pacchianeria» e il Kitsch di coloro che vogliano produrre eufuismo; le opere «finite» finiscono inderogabilmente nel contenitore della spazzatura, sono spazzatura, sosteneva. Le opere autentiche invece cercano la loro fine senza finalità ma con ferrea intenzionalità, tra ironia e disinganno, auto ironia e auto straniamento. Ma già parlare di autenticità dell’arte nella fase attuale della civiltà occidentale è una contradictio in adiecto, l’unica autenticità che un poeta può mettere nelle proprie opere è la vernice dell’imbianchino, può verniciare la pagina bianca con delle parole non tranquillizzate, traumatizzate da ciò che c’è là fuori, parole interrotte, inquiete, che si ritirano nel loro guscio come le lumache nel loro carapace. Le parole si sono intimidite, fuggono via a chi le voglia apprendere. Le Muse si sono intimidite, si sottraggono al valore d’uso come anche al valore di scambio. Le parole non sono fatte per lo scambio, sono simboli, con loro si può fare soltanto uno scambio simbolico, ma un simbolismo senza metafisica è un falso simbolismo. Ed è questo quello che ci racconta Mauro Pierno con queste sue quisquilie, con questi suoi bisbidis.
In una certa misura la problematica del Fattore T. (tempo) è anch’essa centrale nella «nuova poesia». Qui Mauro Pierno si arrischia a scrivere una poesia fatta tutta nel «presente», una poesia irriflessiva, estemporanea, casuale… si badi, non affatto parole in libertà quanto parole del presente, che galleggiano solo nel presente. Cosa affatto semplice. Incredibile. Anche questa è una modalità per catturare il Fattore T.
Io, invece, adotto un’altra strategia. Lascio le mie poesie per molti anni sempre vive, nella memoria del computer (Fattore T.) e nella mia mente (due modi di esistenza del fattore T.); in questo modo la poesia resta aperta come sul tavolo dell’obitorio, dissezionata. All’improvviso, accade durante gli anni che varie esperienze di letture e di vita mi portano nuovi stimoli, nuove idee, nuove frasi che mi chiedono di entrare in quella o in quell’altra poesia. Così le mie poesie crescono e concrescono, come foreste tropicali, grazie all’ausilio attivo del Fattore T.
In questo lavoro di attivo coinvolgimento del Fattore T., il Tempo interviene attivamente, si introduce nella casa linguistica come un padrone; io, il mio Ego, si è nel frattempo fatto da parte, anzi, è stato fatto sloggiare. Adesso la casa linguistica è abitata solo dal Fattore T., è esso che guida la composizione verso il suo sviluppo. Proprio ieri, ascoltando delle canzoni jazz della cantante svedese Gunhild Carling con la sua band straordinaria, ho avuto in regalo la visita del Fattore T.: molti spezzoni di frasi hanno bussato alla porta delle mie case linguistiche e sono entrate, alcune sono entrate di prepotenza senza neanche bussare o chiedere permesso, sono loro, mi sono detto, i veri padroni delle mie case linguistiche!.
Invece, Mauro Pierno procede in modo opposto, vuole abitare esclusivamente il «presente». Ma, caro Pierno, il «presente» assoluto non esiste! Questo lo sappiamo da Agostino di Ippona e da Derrida i quali hanno fatto una disamina precisissima della inesistenza del «presente»; anche Husserl ha precisato che il «presente» in sé non esiste, che il «presente» è fatto di un «non-presente»… E allora cosa dovremmo dedurne? Che la poesia di Mauro Pierno non esiste? In effetti è così, la poesia di Mauro Pierno nei suoi momenti più riusciti, è fatta di presente e di non-presente, di presenza e di assenza.
È proprio questa l’aporia della «cosa» di cui dicevo in un precedente commento, la «cosa» che esiste soltanto nel «presente», o che addirittura è scomparsa dal «presente» perché si è persa, è andata distrutta, è stata rubata etc… Ecco, dicevo, quella «cosa» misteriosa costituisce una insopprimibile aporia del mio pensiero, sta qui e non sta qui, è nella mia memoria e non più nella mia memoria… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà…
Mauro Pierno
La polvere esatta (inediti)
Batteria esausta, primavera in esaurimento, solo l’8 %
da pretesa residua commutazione.
Ancora pochi baci. Il solletico che soffri sotto le radici dei piedi, improponibile. Primavera! Stento la mia, lo strofinio di labbra accorte.
Fa lo stesso. Scorri pure lievemente dal finestrino
accanto, verde, inafferrata.
Spingeva il limite sparso. Il luogo fisso, quel tramonto
bloccato alla parete, ovunque nelle strade quei divieti.
Gli sbarramenti. L’abitudine di sedere sull’uscio inconsapevoli.
Pendeva la folla. Ridevamo pure. Nelle piazze,
alle pareti scorrevano le nostre vite.
Poco sangue, soltanto a tratti esploso.
Semplice. Sulle spalle gli zaini colorati, in fuga
i cervellini negli smartphone.
Saranno rimasti in dieci sul terrazzo,
nel bel mezzo di una scuola.
Semplice a quell’affaccio desiderato.
Liberi di studiare. Una versione che scagiona tutti.
La terza fornitura li trovò piazzati, attesi al punto d’incontro,
all’ora prestabilita, al buio inesploso.
Nella tenebra allegra, si apprestarono in tanti
soltanto con Peluche e Mascotte. Ed i cani sorrisero. Si leccarono anche.
Ridevano i musi, mostravano i denti, cosa offrivano in cambio?
E loro incalzarono, “Peluche e Mascotte!”
E allora sbraitarono.
Fuggirono, fornitori e mercanti.
Della scomparsa.
Della stessa distesa che una metamorfosi incontra.
Quella è una risalita, questo intendi? Un acquietarsi,
un riscontro di eternità. Sulle foglie intendo non ragionare
ma limitarne e distinguerne la forma,
il ripudio di una intera esistenza.
Un tempo, quale tempo, se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge, se nella mano
un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire che non dovrai riscrivere mai.
Un cielo sereno, sgombro di nuvole, profondamente sereno.
Un antefatto. Inquietante.
Presumo un apriscatole
usato fino all’alba, che gira nelle mani
e non affonda. Le macchie hanno un calibro distinto.
Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.
Intravede l’ozio delle parole la propaganda dei nostri sguardi.
Tra nuvole filiformi di batteri incompresi che attraversano le mani.
Questi mostri di discorsi. Nei gesti le estenuanti nude dichiarazioni.
Questi fumi di vento hanno un volto perso.
Ecco l’occhio indiscreto che coglie il fallo, l’ascesso furibondo
l’oriundo cigolio dell’ ombra.
Ecco accingersi tra le sinapsi del vento quella soave intermittenza delle idee
quello che dolore onora
e fa da stimolo agli inventari della memoria.
Ecco, la seconda martellata fu letale.
L’incudine molle
non assorbe le grida lontane e spesso nel vuoto dei colpi si avverte un dolore.
Nel ricordo si ammala la polvere esatta. Le spighe volentieri risponderebbero assorte e la sorte ingannare vorrebbero i papaveri rossi.
Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria
Le installazioni ipoveritative e i video di Gianni Godi, Due poesie inedite di Giorgio Linguaglossa
Giorgio Linguaglossa
Nota a margine sulle istallazioni ipoveritative di Gianni Godi
Il 17 aprile 2019 sono andato a visitare la installazione ipoveritativa di Gianni Godi al Macro di Roma, in via Rebbio Emilia e sono entrato all’interno di un cubo cilindrico luminescente denominato dall’artista «Viaggio cilindrico nella materia». Alle pareti c’erano i manifesti della video-poesia o poesia volumetrica di Gianni Godi in bianco e nero. Sotto ai piedi uno specchio, sopra la mia testa un altro specchio. Due specchi che specchiavano il vuoto di sotto e di su. Una esperienza fun, ipoveritativa, surrazionale. Poi Gianni proiettava su uno schermo questo e altri video da lui prodotti. Ho trascorso il tempo a ridere di gusto. Commentavo con Gianni che trovato i suoi video divertenti e inesplicabili, un mix di truismo e di magia. E dicevo che oggi si deve accettare un certo tipo di arte che prende lo spunto dalla «superficie» del reale, che oggi sembra coincidere con il reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè un’arte che assume come incontrovertibile che le parole e le immagini siano libere rispetto alle cose, che le interpretazioni possano essere infinite e che l’arte diventa sempre più leggera, fino a diventare evanescente, perdere gravità fino a che le cose scompaiono dall’orizzonte degli eventi percepiti. Secondo il filosofo italiano, partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo, si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 Le istallazioni di Gianni Godi, accettano una visione non veritativa del discorso artistico, quest’ultimo non corrisponderebbe più ad un referente che non sia se stesso. Ed entriamo a vele spiegate nella liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso del tradizionale discorso artistico che conservava un valore veritativo critico ed entriamo in un nuovo demanio secondo il quale l’istallazione cessa di contenere un valore veritativo tout court.
In tal senso, le istallazioni di Gianni Godi sono il proseguimento e la conclusione di quella parte della cultura artistica del secondo novecento che è approdata ad una pratica di non verità del discorso artistico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità».
Scrive un filosofo del nostro tempo, Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3
Direi che il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-artistica come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2 Ibidem p. 122
3 Ibidem pp. 115,116
Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:
«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1
Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta, in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio, è Figura del presente. La impossibilità del linguaggio ad ospitare tutto il dolore del mondo coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.
Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguito da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.
Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.
1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521
Due poesie inedite di Giorgio Linguaglossa
Disse che aggiustava le ombre
La bellissima Dama attraversa il Ponte di Rialto,
crinolina, paillette e ventaglio.
Avenaius si presentò con due doberman, al guinzaglio,
mi disse che avrebbe patteggiato la pena con il rito abbreviato,
che trattava con le ombre, del passato
e del futuro,
farfugliò qualcosa di indistinto in quella sua lingua di eptaedri,
disse che aggiustava le ombre, e gli ombrelli.
«È questo il mio mestiere».
In quel frangente uno scroscio di tormenta si abbattè sul ponte.
«La felicità sono i suoi fogli vuoti».
«Le sue parole, caro Signor poeta, sono ponti interrotti
i ponti delle parole che nessuno
sa dove condurranno».
Poi, per soprammercato, aggiunse delle frasi sconnesse,
del tipo:
«Ella accoppia sublime e immondizie
sigizie di correaltà, apparenta
Storia ed eoni, platonismi e crudeltà.
Storialità…»
.
inserisco qui una mia poesia, fatta con gli scampoli e gli scarti di altre mie poesie, frutto di spazzatura della spazzatura, quindi spazzatura di seconda mano. Non ho alcuna pretesa di fare il Bello, come tanti letterati illustri intendono, né di fare il Brutto. Assemblo semplicemente degli scarti in rigorosi distici. Scarti di scarti di altre mie poesie già fatte di scarti. Non voglio apparire né rivoluzionario né conservatore, né innovativo o altro di che… Non intendo provocare né apparire ingegnoso.
Giocatori di golf impugnano il bastone da golf
Un prato verde. Persone in tweed fumo di Londra
camminano in fila,
si tengono stretti alle spalle di chi precede.
« …….»
Avenarius suona il campanello di casa Cogito,
ha litigato con il Signor Retro.
Il Signor Google fuma un sigaro di Sesto Empirico
e il filosofo va su tutte le furie.
Persone in casacca gialla e pantaloni bleu giocano a golf,
giocano a golf.
Una pallina bianca rotola di qua e di là.
Un valletto percuote il gong.
Una folla tra la ghiaia, il prato verde e lo specchio.
Un pappagallo verde. Un orologio giallo.
Hockey in casacche striate, pantaloni bleu.
Palline bianche che rotolano sul tappeto verde
di qua e di là.
Giocatori di golf impugnano il bastone da golf.
Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria
Giorgio Stella, Poesie da Montando la croce alla torre, plaquette, Il Ponte del Sale, gennaio 2019 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in Dialettica dell’Illuminismo (1947):
“La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”. Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti, agli scrittori e ai poeti di oggi, che sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…
È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri, che impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica», chiama se stesso «Udeis» che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa», una ambiguità; Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa) il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».
La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.
Scrive Giorgio Agamben:
Legein, «dire», significa in greco «raccogliere e articolare gli enti attraverso le parole»: ontologia. Ma, in questo modo, la distinzione tra dire e essere resta ininterrogata ed è questa opacità della loro relazione che sarà trasmessa da Aristotele alla filosofia occidentale, che l’accoglierà senza beneficio di inventario.1
Questo passo di Agamben rivela in modo inequivocabile che i veri problemi del «dire» sono ontologici; anche il problema dello stile è un problema, al fondo, ontologico, non è una questione letteraria o privata, e non si tratta neanche di messaggistica che un mittente scambia con un destinatario, qui la semiotica non ci può suggerire nulla di utile; il «soggetto» non è una questione privata, non lo si può ridurre a questione grammaticale o a una questione di «stile» letterario, come lo intendono i poeti inconsapevoli e ingenui che oggi occupano i file degli uffici stampa; la questione del «soggetto» è, in ultima analisi, anch’esso una questione ontologica; quando adoperiamo le parole in poesia dobbiamo essere consapevoli di questo dato di fatto, di questo plesso problematico. Certo, per chi pensa con la propria testa non è difficile capire che pensare in modo ontologico il «soggetto» implica un diverso orizzonte di pensiero e di ricerca. Qui quello che è in questione è nientemeno che il «cambio di paradigma».
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«Il cambio di paradigma tocca il discorso poetico alla radice».
Mi riallaccio al precedente post-riflessione di Steven Grieco Rathgeb per riaffermare: il problema è che cosa noi vogliamo rappresentare mediante la poesia, mediante la de-soggettivazione dell’io e la de-oggettivazione dell’oggetto, mediante l’uso del linguaggio, perché sia chiaro: noi tutti usiamo il medesimo linguaggio ma è il modo, le categorie con le quali impieghiamo il linguaggio che fa la diversità. Se l’io è considerato come il luogo fonte di ogni espressione, da questo punto di vista dobbiamo ammettere che la poesia di Zanzotto non differisce dalla poesia di Giorgia Stecher o di un qualsiasi autore di oggi, compreso Giorgio Stella, e così possiamo considerare il discorso chiuso ancora prima di iniziare a cogitare. Pensare il luogo dell’io come il luogo privilegiato dal quale prende l’abbrivio la narrazione poetica, è una testi molto discutibile, per non dire erronea: non si dà nessun «luogo privilegiato» nell’io; innanzitutto: quale io, tra i molti? Possiamo pensare tutto ciò che c’è nell’io come una «scatola magica» all’interno della quale avvengono delle situazioni «magiche» (nel senso wittgensteiniano) che noi traduciamo in un certo linguaggio poetico?, ma questa tesi è quantomeno invalidata dal corso della psicanalisi e della filosofia da almeno un secolo in qua. E allora, il problema concerne il cambio di paradigma dove l’io è stato de-soggettivizzato e l’oggetto de-oggettivizzato. Se invece mettiamo in discussione e prendiamo le distanze dalla concezione della poesia come espressione della «scatola magica» dell’io, allora ci accorgeremo che le cose stanno in modo diverso, non si tratta di un collegamento tra vasi comunicanti, ma tra vasi incomunicanti. Il problema è tutto qui. Il cambio del paradigma comporta il cambiamento della questione della poiesis, ed è il percorso intrapreso dalla nuova poesia, dalla nuova ontologia estetica.
La soggettivazione dell’essere, la presupposizione di un giacente-sotto è inseparabile dalla predicazione linguistica, è parte della struttura stessa del linguaggio e del mondo che esso articola e interpreta. La poesia di Giorgio Stella pesca nelle profondità della «scatola magica» come un mago che va a tentoni cercando di fare luce sul lato notturno dell’io, lì vi trova la dismetria e la distassia e la distopia ma non albeggia ancora la consapevolezza di un nuovo orizzonte degli eventi, di un nuovo paradigma, la sua poesia si ferma un momento prima di oltrepassare quella soglia, ricade indietro nel paradigma del tardo novecento.
«L’essere è considerato dal punto di vista della predicazione linguistica, dal suo essere accusato (kategorein significa in greco innanzitutto «accusare») dal linguaggio, esso si presenta nella forma della soggettivazione. L’accusa, la chiamata in giudizio che il linguaggio rivolge all’essere lo soggettivizza, lo presuppone in forma di hypokeimenon, di un esistente singolare che giace-sotto-e-al-fondo.
L’ousia prima è ciò che non si dice sulla presupposizione di un soggetto né è in un soggetto, perché è essa stessa il soggetto che è pre-sup-posto – in quanto puramente esistente – come ciò che giace sotto ogni predicazione.
La relazione pre-supponente è, in questo senso, la potenza specifica del linguaggio umano. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata presupposta come il non-linguistico o l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione entra nel campo della evidenza semantica».2
Nella poesia di Giorgio Stella ciò che non si dice è ciò che risiede nella «scatola magica» dell’io. E si ricomincia daccapo a narrare dal punto di vista dell’io in un corto circuito tautologico e auto fagocitatorio. Ciò che la nuova poesia dovrebbe fare è invece togliere credenziali a quella pre-supposizione di un giacente-sotto cui la poesia italiana sembra accreditare il più ampio e incondizionato credito. Ma, in realtà, si tratta di una fede, di una pre-supposizione. Però è anche vero che tutto ciò che c’è dentro la «scatola magica» dell’io, nella poesia di Giorgio Stella, venga defenestrato e reso irriconoscibile: l’io diventa non-io e la terza persona singolare prende il posto della prima persona singolare. C’è in Giorgio Stella questa preveggenza di ciò che potrebbe comportare nella sua poesia dalla abdicazione dell’io: la dissoluzione dei nessi sinallagmatici e logici del linguaggio poetico come risultato diretto della distassia imperante nei linguaggi relazionali in vigore nella comunità dei parlanti.
Siamo agli antipodi della soglia che divide la nuova ontologia estetica dalla poesia della tradizione del secondo novecento, appena un passo prima di inoltrarci consapevolmente oltre la soglia della nuova ontologia estetica.
1 G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014, p. 158 Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria
Dialoghi e Commenti del 29 e 30 settembre 2018 sul Punto di vista, la poesia monocratica, la nuova ontologia estetica, la nuova poesia – Poesie di Eugenio Montale, Keepsake, Carlo Livia, Alfonso Cataldi, Mauro Pierno
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«La scarpa da donna dipinta da Maria Rosa presenta un vistoso errore: dal punto di vista compositivo è decentrata a sinistra. Maria Rosa non ha tenuto conto della superficie da occupare, non la ha preventivamente organizzata, e ha certo disegnato in modo frettoloso. Pare il fotogramma di una carrellata cinematografica scelto a caso. Tuttavia a me è piaciuta proprio per questo errore: è possibile che la scarpa si trovasse alla sua sinistra, a sinistra del tavolo dove Maria Rosa stava disegnando. Anche nella scrittura a frammenti può capitare che la “cosa” si presenti nel posto sbagliato, a interrompere un pensiero, oppure per creare una situazione imperfetta, casuale.
Credo si possa dire che la casualità è una delle componenti estetiche della Nuova ontologia estetica. Ovviamente si tratta di casualità voluta, composta con elementi estranei al discorso. Parole e cose decentrate, esattamente come la scarpa di Maria Rosa, concorrono a creare quell’anarchia compositiva che è parte costitutiva della scrittura viva. Così come appare nella percezione, la realtà è autentico disordine.»
Giorgio Linguaglossa
caro Lucio,
il problema è molto semplice. Il problema è: se noi osserviamo il mondo dal punto di vista della logica dell’identità, tutti gli oggetti, tutta la variabilità del mondo ci appariranno da quel punto di vista identitario: il punto di vista dell’identità che risponde alla logica di un «soggetto» monocratico che legifera attraverso le parole e la sintassi e le regole retoriche. Il fatto molto semplice che i poeti di fede non riescono a capire che il mondo è composto da una infinita quantità di variazioni e di variabili e voler ridurre tutta questa variabilità ad un discorso monocratico è un atto di sciocchezza estrema e di arroganza illimitata (le due cose vanno insieme)… quella «anarchia compositiva» cui tu accennavi, è una autentica fortuna, infatti Maria Rosa deve ringraziare l’errore del «punto di vista» se ha fatto un dipinto interessante… un pittore più professionale non avrebbe commesso quell’errore e avrebbe raffigurato una «scarpa» che rispondesse alla logica di un soggetto monocratico e identitario…
Quello che noi stiamo cercando di spiegare in tutti i modi a chi ci legge è che anche nella poesia le cose non cambiano: se si accetta senza pensare il pregiudizio, la logica del punto di vista unico, monocratico, identitario, si finisce inevitabilmente per scrivere una poesia monocratica, forzosa, forzata a rispondere alla logica identitaria, cioè una poesia già scritta una infinità di volte…
Il poeta, il pittore, lo scultore, l’architetto etc se fanno professione di fede, se compiono un atto di fede, creeranno delle cose che fanno tutti e che saranno presto dimenticate, cose antiche, antichizzate, replicate miliardi di volte…
caro Giorgio,
ero indeciso se inviarti una mail per ringraziarti di questo tuo ulteriore intervento sulla mia poesia perché tutto rimanesse in forma privata. Poi ho ritenuto che tutto si svolgesse alla luce del sole e alla conoscenza dei lettori dell’Ombra. Devo confessarti una cosa: tu hai ricoperto il vuoto che la critica ufficiale del Secondo Novecento ha lasciato sulla mia poesia, fatta eccezione per Giuseppe Zagarrio che mi ha inserito nel suo Repertorio della poesia italiana degli anni 1970-1980. e di altri riscontri critici, svolazzanti di qua e di là. Non è, sia ben chiaro, che io li richiedessi. Non me ne sono mai interessato. L’unica cosa a cui tenevo era produrre una buona poesia per me e gli altri. Forse, alla fine, ci sono riuscito, non lo so.Certo è che mi trovo a mio agio con un postmodernismo linguistico che fa da ponte con i miei sensori psichici,con un notturno metafisico che giustamente e con grande sensibilità Carlo Livia ha messo in evidenza in un precedente post, rispetto alla poesia di Eliot. Per questo ho un grande debito con te, che mi accompagna nel corso della giornata. Sta qui l’elemento di riconoscenza che non si dissolve nel tempo e che diventa motivo in più per non dimenticare. Grazie.
Carlo Livia
Sentieri Interrotti
per Mario Gabriele
Ogni fanciulla è un rifugio dell’amore.
Ogni amore un fiore del tempo.
E il tempo è un pensiero di Dio.
Un pensiero d’amore.
Nessuno volle più abitare il silenzio.
Preferirono il nulla.
Quando nasce la musica
l’eternità lascia le rovine del sonno
Chi mi ama prende la mia forma
e siede sull’orlo del precipizio.
Fra la moltitudine dei paradisi
scegliamo sempre il più lontano.
Il mondo che mi aveva visto sparire
si coprì d’una pallida tenerezza.
Mi fermai per sempre nel cuore del mistero
e tutti gli sconosciuti mi chiesero perdono.
Un sospiro fra altre grida:
il Signore muto mi fece cenno.
Che dire, gentile Carlo Livia, del suo testo poetico? I distici risuonano di una musica verbo-iconica che si armonizza con l’uso del frammento. Lei opera con disinvoltura anche sul piano della nuova ontologia estetica, inserendo scatti esistenziali e metafisici all’interno di una scrittura poetica che si lascia leggere volentieri. Con cordialità e grazie.
Alfonso Cataldi
In un sussulto
«Lasciarsi alle spalle il bouquet
in un frangente di tiepido sole»
ammise il life coach, di ritorno
da un breve volo interno.
La curva vagabonda di lamiere e fiamme sorseggiava un drink
il maltempo fu deviato dai ritagli di giornale.
Un accumulo di ordini e contrordini
arrestò il malessere
l’attività della buca delle lettere
al culmine del dibattimento
è necessario svenire, fingere un collasso
nel covo inesplorato di corpo contundente
[…]
L’assistente si toglie il grembiule.
Esce fuori dallo story-telling
coi primi lampi del mattino
distrae il giro della morte
al Nürburgring. L’incubo d’oro è sotto controllo
tra lingue biforcute e calici serrati
si nutre dei rantoli di luce la chiaroveggenza
in un sussulto di selvaggia abnegazione.
Archiviato in critica dell'estetica, Senza categoria
Dialogo e poesie sul concetto di nuovo in arte, di disfania e sulla nuova poesia – Poesie di Mario Gabriele, Carlo Livia, Francesca Dono, Donatella Costantina Giancaspero, Anna Ventura, Gino Rago, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, e Due brani musicali di Pierre Schaeffer

Tornarono i rifugiati dell’aldilà
Mario M. Gabriele
Introduco un mio testo inedito da Registro di bordo, facendolo confluire nel discorso critico di Giorgio Linguaglossa. Spero che altri poeti facciano altrettanto presentando poesie attinenti alla NOE. Qui farebbe bella figura il testo di Lucio Tosi: se non ricordo male “due simil gatti”.
Una sartoria dalle grandi firme.
-Meglio una tuta blu- dicevi,
-che un vestito da playboy-.
Nel bagaglio della Fusstemberg
c’erano piante del Guatemala,
orchidee selvagge, primeroses.
Tornarono i rifugiati dell’aldilà.
Maxwell ha tenuto una lezione
nella Socialist House.
Jukebox all’idrogeno mi fa star bene
come Woodstock ai ragazzi nel 69.
Due Gendarmi cercavano David
per un viaggio a Dachau.
E’ tutto quello che ricordo dell’infanzia,
profumo hashish e di castagnole.
Nella tua mano ho letto la linea della vita.
Se non ci saranno sorprese
dovresti farcela contro le fratture
e le linfoadenomegalie.
Stilford gestisce due cafesterias.
Ha bisogno di un cassiere durante il giorno.
Sarebbe un’occasione, William,
per finire con questa povertà che ti affligge tutto l’anno .
L’unico amico, veramente discreto, è stato Salomon
con le sue letture afroamericane.
Karl Randolph ha fotografato sandali e visi per un album privè.
Sei tornata da Guadalupe ma senza il coro degli angeli.
Qui le stelle sono sparite. Riappaiono a Londonderry
dove una blues singer se la cava cantando Summertime.

un genere che non si rinnova, che non produce il «nuovo», invecchia e muore
Giorgio Linguaglossa
Sulla categoria del «nuovo» in arte
A proposito del concetto di «innovazione» quale componente decisiva di un’opera letteraria, cito un brano di Robert Weidman in Teoria della ricezione (Einaudi, 1989 p. 99):
«L’innovazione a qualsiasi costo produce una cattiva poetica e una storia della letteratura ancora peggiore. L’estetica della ricezione, che fa propria l’idea formalistica di evoluzione letteraria, critica, è vero, la pura “canonizzazione del mutamento”, perché la “variazione estetica” non basta di per se a spiegare lo sviluppo della letteratura, dato che “l’innovazione per sé sola non costituisce ancora carattere artistico”.L’innovazione andrebbe compresa come una categoria storica, e non solo estetica. Di qui nasce inevitabilmente la domanda volta a investigare “quali siano in realtà i fattori storici che rendano veramente nuovo ciò che è nuovo di un fenomeno letterario”.
Questa domanda in merito al rapporto fra l’evoluzione letteraria e il mutamento sociale supera in un punto decisivo l’ottica astorica dei formalisti, ma non supera, tuttavia, il principio modernistico dell’innovazione oggettiva e assoluta».
Siamo arrivati al punto:
Il «nuovo» è una categoria storica, non estetica, scrive Weidman. Il «nuovo» è una necessità quando la conservazione diventa immobilismo… le forme estetiche sono forme storiche; le forme estetiche pubblicitarie e autoreferenziali fanno parte integrante della pubblicità… un genere che non si rinnova, che non produce il «nuovo», invecchia e muore. Tanta parte della «poesia» contemporanea è scrittura priva anche della cognizione della conservazione delle forme estetiche e storiche (che pure avrebbe una sua funzione, cioè quella di conservare qualcosa in frigorifero). La poesia squisitamente «narrativa» che oggi si scrive è, rigorosamente parlando, una para scrittura, una scrittura endofasica, una scrittura mimetica di se stessa; voglio dire una cosa semplice: oggi tutti scrivono allo stesso modo con una scrittura senza stile, e una scrittura senza stile non è neanche scrittura letteraria ma para scrittura.
Credo che una scrittura alla maniera della nuova ontologia estetica la si possa riconoscere subito per certe caratteristiche che non sono imitabili o esportabili, caratteristiche che ciascuno può sviluppare secondo la propria sensibilità artistica e secondo la propria inclinazione. In tal senso non è e non può essere una scuola ma una officina…
Ad esempio, il concetto di «disfania» poetica (ma si può utilizzare anche in altri campi dell’esperienza artistica: musicale, figurativa, etc.) è tale in sé da essere un concetto rivoluzionario che offre grandi possibilità di sviluppo stilistico a chi è in grado di capirne le ragioni storiche ed estetiche. La «disfania» è, a mio modesto avviso, un concetto storico e antropologico prima ancora che estetico…
Per esempio, nella poesia di Mario Gabriele è agevole intuire la presenza della «disfania» tra una immagine e l’altra; la «disfania» è quella irregolarità, quella differenza, quel non combaciare di una tessera con l’altra, di una icona con l’altra che crea attrito, ma non semantico quanto iconico, uno sfrigolio delle immagini, un inceppamento continuo della sintassi. Il risultato è un andamento zoppicante, a singhiozzo, un andamento obtorto collo… Oltre alla «disfania» nelle poesie di Mario Gabriele si può rinvenire anche una «disfasia», una non-coincidenza di due fasi e di due polinomi frastici…
Però è anche vero che una «poesia» che non contenga un quid di innovazione è non-poesia.
Gino Rago
Su invito del nostro Giorgio Linguaglossa con-divido l’essenza del mio estemporaneo intervento al Caffè Letterario “Il Mangiaparole”
Roma, 18 maggio 2018
[è un omaggio anche all’ottima intervista di Mario Gabriele a Giorgio Linguaglossa per i significativi nodi poetici che intervistato e intervistatore provano a sciogliere]
Mauro Limiti e Il Mangiaparole, ovvero «La strategia del colibrì»
In un giorno qualsiasi di un anno qualunque, forse per un eccesso di calura o forse per il gesto criminale di un piromane, nella foresta d’Africa scoppia un incendio, così, all’improvviso.
Tutti gli abitanti del villaggio cercano la salvezza verso il fiume. Così fanno anche tutti gli animali,
terrorizzati come non mai prima, con alla testa proprio colui che si fregia del titolo di “Re”, di “Re della Foresta”, che senza vergogna capeggia il frenetico esodo verso il vicino fiume, il Re per primo preso dal panico all’idea di morire arrostito tra le fiamme.
Soltanto un colibrì non cede alla paura e anziché fuggire come tutti gli altri dalle fiamme,
con una goccia d’acqua nel suo becco penetra nella foresta, vola sulla fitta vegetazione divorata dal fuoco improvviso con l’appassionato intento di spegnere le fiamme che divampano.
E fa la spola volando tra la foresta e il fiume ma sempre con una goccia d’acqua nel suo becco.
Il Re della foresta, che di lontano segue la scena, con un misto di baldanza, sarcasmo e derisione si rivolge al colibrì:«Ma sei matto, ma cosa credi di fare, non vedi che tutta la foresta sta bruciando?»
E il colibrì, volando a becco vuoto verso il fiume da cui succhiare un’altra goccia d’acqua, senza scomporsi risponde al Re leone:
«Mentre tutti fuggono io faccio la mia parte».
Riuscirà davvero il colibrì a spegnere a goccia a goccia il fuoco nella foresta?
Importa davvero saperlo o è ben più importante che il colibrì creda nel buon esito della sua impresa?
Ecco la «strategia del colibrì», tanto semplice quanto contagiosa: basta che tutti siamo disponibili a “fare la nostra parte”, a dare il nostro ancorché modesto apporto per rendere il mondo migliore di come lo abbiamo trovato. Ma il vero nucleo della metafora del colibrì che a goccia a goccia corre verso la foresta in fiamme per spegnere l’incendio è che non ci facciamo scoraggiare da coloro che già in partenza si dichiarano sconfitti di fronte a ogni impresa, da tutti quelli cioè che già prima di osare considerano inevitabile il disastro o più semplicemente l’insuccesso.
La «strategia del colibrì» fa del semplice gesto d’ogni giorno la sua cifra vera, quella cifra alla portata quotidianamente di tutti che può dare sapori, colori, significati nuovi al nostro mondo.
Ed è strategia contagiosa.
E Mauro Limiti lanciando il trimestrale di Letteratura e di contemporaneistica Il Mangiaparole si è fatto contagiare in questa prova editoriale. E ha contagiato anche tutti noi, a iniziare da Giorgio Linguaglossa, ciascuno con una goccia d’acqua nel becco a volare sulle fiamme alte del mondo.
Gino Rago
A proposito della poesia del nostro tempo, alla prima domanda di Mario Gabriele [intervista nella pagina del blog] Giorgio Linguaglossa chiosa:
“[…] il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…
Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:
Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.
(Gino Rago)”
citando i versi miei tratti dalla poesia ‘Lilith racconta Lilith’ che propongo alla vastissima e fine platea de L’Ombra delle Parole integralmente.

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta
Lilith racconta Lilith Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, nuova ontologia estetica, Senza categoria
L’oggetto in poesia – La debolezza degli oggetti – Poeti a confronto: Tomas Tranströmer, Iosif Brodskij, Francesca Lo Bue, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Raffaele Greco – L’ontologia del declino del soggetto e dell’oggetto a cura di Giorgio Linguaglossa

La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente
Giorgio Linguaglossa
A proposito della «noia» e del «vuoto» e dell’«oggetto»
«La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente. La parola tedesca è langweile: un lungo indugio, una piccola sosta protratta lungamente nel tempo. Il tempo che si caratterizza per una ripetizione infinita: non solo la mancanza della novità ma soprattutto la mancanza della speranza stessa che qualcosa di nuovo possa accadere. È l’esperienza del soffocare, che può aprire alla disperazione, questo è ovvio, ma anche al salto, religioso e filosofico. Senza questo senso di soffocare nel vuoto è impensabile anche solo pensare di uscirne. Quando giungi al limite in cui il passato ti sembra niente puoi immaginare un oltre. La noia direi, quindi, ha una duplice faccia: consuma il tempo passato, consuma il presente ma non è detto che si fermi lì, può portare ad una novitas, il tempo si è esaurito ma può esserci dell’altro.
Poi non citerei sempre lo straniero, citerei Leopardi, è un discorso tipicamente e completamente leopardiano, ma direi anche tipicamente italiano, anche del Tasso e di tutta la grande lirica italiana.» (da una intervista a Massimo Cacciari)
La debolezza degli oggetti
Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità, assumono una grande carica simbolica. Il «lungo indugio» richiede che il punto di vista della noia si posi sugli «oggetti» per rivelarne la loro intrinseca debolezza ontologica: l’oggetto diventa «debole», e anche il soggetto diventa «debole». Si va profilando la «ontologia del declino» degli oggetti e del soggetto di cui ci ha parlato Gianni Vattimo. La «debolezza degli oggetti» va di pari passo con la appercezione annoiata del mondo tipica della attuale fase della civiltà del capitalismo finanziario e globale; è la conformazione indebolita degli oggetti quella che appare alla epoché dello sguardo annoiato, ma, appunto, questo sguardo indebolito richiede una sintassi indebolita, e così le giunture razionalizzatrici della sintassi si indeboliscono, la direzione unilineare e unitemporale della sintassi diventa fragile e si disintegra; analogamente avviene con la appercezione dello spazio-tempo: lo spazio tempo, liberato dalla costrizione della sintassi, si moltiplica in una pluralità di spazi e di tempi, e arriviamo alla appercezione indebolita della «nuova poesia», cioè della «nuova ontologia estetica». È un movimento epocale che qui ha luogo, un movimento innervato nella «ontologia del declino» del soggetto e dell’oggetto.
Pensavo in questi giorni leggendo la poesia di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi che la poesia della nuova ontologia estetica dà molto credito alla noia. La noia è una ottima maestra dell’arte poietica; la disarmonia di cui parla Leopardi a proposito della musica (intuizione brillantissima), pone la musica alla stessa stregua della poesia, entrambe sono una interruzione della noia, della noia come rallentamento del tempo e dilatazione dello spazio; la musica questo lo sa da tempo immemorabile e la musica di Rossini e di Paganini ne è un esempio impareggiabile…
In tempi moderni la musica di Giacinto Scelsi mette in opera il principio della noia: gli «oggetti», i «suoni» della musica tradizionale scompaiono, per Scelsi la musica è interna al suono (ascolta Quattro pezzi su una nota sola, per orchestra da camera, del 1959), il musicista che abita davanti al Foro romano distingue la musica dei suoni dalla musica del suono, e la sua ricerca musicale si concentrerà sulla musica che scaturisce da un suono solo, un suono dominante che si può dilatare e temporalizzare all’infinito. Scelsi compone sempre più a rilento, spesso rielaborando opere precedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto.
Analogamente, la noia per la orchestrazione sonora della tradizione poetica, sostanzialmente elegiaca e monocorde, spinge la «nuova poesia» che vuole essere inusitata e dissonante a ricercare nuove soluzioni di conflittualità e di dissonanza, ma tutto ciò all’interno di una tonalità dominante, non più entro il perimetro di un concetto di panlogismo zanzottiano e sanguinetiano che accosta parole-suoni diversi e differenti in un conglomerato unilineare e unitemporale, nella «nuova ontologia estetica» la differenza e la diversità si possono trovare soltanto all’interno di una metafora dominante o una tonalità emotiva dominante.
La «noia» è il vuoto che si apre, che apre spazi e spalanca tempi; soltanto la «noia» ti consente questa esperienza fondamentale… ti fa esperire il tempo e lo spazio attraverso le parole… e le parole vengono ad essere temporalizzate e spazializzate… Il punto e la spaziatura tra i singoli versi e le singole strofe sono balconi che si affacciano sul vuoto della pagina bianca… Il «vuoto», dunque, insieme alla «noia» sono esperienze costitutive della poesia della nuova ontologia estetica; per «vuoto» intendo qui qualcosa di affine alla «noia», qualcosa che consente la traslazione di essa nella pagina bianca, perché è la «noia» che può spalancare la impalcatura del «vuoto», solo la «noia» per la parola panlogistica.
Due parole sull’oggetto
l’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto; l’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo. La «questità» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, la possibilità del loro essere e la non-possibilità, cioè il loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]
La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in oggi oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.
Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3] –
La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.
1] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 41
2] Ibidem p. 39
2 Ibidem, p. 168

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità
Francesca Lo Bue
Una parola e una poesia sull’oggetto “lampada”.
Nel nominare gli oggetti la loro “specifica ” oggettualità, o precisione è già implicita la loro vaghezza, perché comporta la “condanna del linguaggio”: il suo essere scarso, limitato, approssimativo. Ma pure paradossalmente, nominare gli oggetti è aprire con una “chiave” la infinita possibilità di dire, nominare in un altro modo. Come una lampada che gettando luce su gli oggetti li chiama alla visibilità, alla loro presenza ed uso.
La poesia è questo oggetto “lampada” che è capace di potenziare la nominazione, quindi arricchire la esistenza materiale e spirituale del mondo.
Cercare
Come fossi lo spirito della lampada
cerco il luogo del Nome e della cima innevata,
cerco nel gioco delle mani la scrittura fatale del tuo destino.
Visione..
Barbaglii di brace in desolato suono.
Mano che afferri
oltre pareti di ferro,
scarlatto che ammicchi una chiave di silenzio e presagio.
Buscar
Como si fuera el espíritu de la lámpara
busco el lugar del Nombre en la cima nevada,
busco en el juego de las manos la escritura fatal
de tu destino.
Visión,
destello que abrasa en desolado sonido.
Mano que aferras
más allá de las paredes de hierro.
guiñas una llave de silencio y presagio.
Lucio Mayoor Tosi
18 maggio 2018 alle 18.02
La maniglia argentata
di una vecchia macchina da scrivere.
Questo lento a capo.

Man Ray, Lee Miller
Giorgio Linguaglossa
19 maggio alle 19.28 alle 18.02
Due poeti a confronto: Tomas Tranströmer e Iosif Brodskij – L’uso degli «oggetti» Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, nuova ontologia estetica, Senza categoria
Invettiva di Giorgio Linguaglossa ai poeti di oggi – Il monito di Franco Fortini: Spostare il centro di gravità della poesia italiana – Il monito di Eugenio Montale: La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio di sartoria teatrale

dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Giorgio Linguaglossa
26 settembre 2017 alle 14:17
In onore di Alfredo de Palchi, pubblico qui questa mia invettiva:
LA VOSTRA GENERAZIONE SFORTUNATA
à la maniére di Trasumanar e organizzar (1971)
Cara generazione sfortunata dei poetini di vent’anni,
di trent’anni, di quarant’anni, di cinquant’anni, di sessant’anni…
Vi scrivo questa lettera.
Guardatevi intorno:
dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti
vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,
leghisti, sfigati, banali, balneari…
Che tristezza vedo nelle vostre facce,
che ambiguità, che feroce vanità, che feroce mediocrità:
CL, PD, PDL 5Stelle, Casa Pound, destra, sinistra, pseudo destra, pseudo sinistra,
immigrati, emigrati, referenziati con laurea, senza laurea,
con diplomi raccattati, rattoppati, infilati nel Sole 24 ore,
settore cultura, nella Stampa,
a scrivere le schedine editoriali degli amici e degli amici degli amici,
nelle case editrici che non contano più nulla…
Guardatevi allo specchio: siete sordidi, stolidi, non ve ne accorgete?
Guardatevi allo specchio! Siete dei Buffoni, dei malmostosi!
Che tristezza questa italia defraudata,
derubata, ex cattocomunista, leghista, cinquestellista, renzista…
Voi, Voi, Voi soltanto siete responsabili
della vostra inaffondabile mediocrità,
e non chiamate in causa la circostanza della mediocrità altrui,
della medietà generalizzata,
la responsabilità è personale ai sensi del codice penale
e del codice civile…
Voi, unicamente Voi siete i responsabili
della vostra insipienza e goffaggine intellettuale…
Che tristezza: non avete niente da dire, niente da fare,
disoccupati dello spirito e disoccupati
della stagnazione universale permanente che vi ha ridotto
a mostri di banalità con i vostri pensierini
paludosi e vanitosi alla ricerca di un grammo di visibilità
nei network, nei social, con il vostro sito di leccaculi e di paraculi,
svenduti senza compratori…
Che tristezza vedervi tutti abbottonati, educati e impresentabili
in fila dinanzi agli uffici stampa degli editori
a maggior diffusione nazionale!
Che tristezza nazionale!
Caro Pier Paolo, quel giorno di novembre del 1975
io ero a Roma, scendevo alla fermata del bus 36
(catacombe di Sant’Agnese) per andare a via Lanciani
al negozio di scarpe di mio padre quando seppi del tuo assassinio…
Capii allora che un mondo si era definitivamente chiuso,
che sarebbero arrivati i corvi e i leccapiedi
e i leccaculo, i mediocri, i portaborse…
Lo capii allora scendendo dal bus la mattina,
erano le ore 8 del mattino o giù di lì,
e capii che era finita per la mia generazione e per quelle a venire…
Lo ricordo ancora adesso. È un lampo di ricordo.
(scritta in diretta, su L’Ombra delle Parole)

Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti/ vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,/ leghisti, sfigati, banali, balneari…
Il monito di Franco Fortini
Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi».
«La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
Ritengo queste osservazioni di Fortini del tutto pertinenti anche dopo cinquanta anni dalla loro stesura. I problemi di fondo, da allora ad oggi, non sono cambiati e non bastano cinquanta anni a modificare certe invarianti delle istituzioni stilistiche. Vorrei dire, per semplificare, che certe cattive abitudini di certe istituzioni stilistiche, tendono a riprodursi nella misura in cui tendono a sclerotizzarsi certe condizioni non stilistiche. Al fondo della questione resta, ora come allora, il «consenso sui fondamenti della commozione». Insomma, attraverso la lettura e l’ingrandimento di certi dettagli stilistici puoi radiografare e fotografare la fideiussione stilistica (e non) che sta al di sotto di certe valorizzazioni stilistiche; ed anche: che certe retorizzazioni sono consustanziali alle invarianti del gusto, del movimento delle opinioni, alla adesione intorno al fatto poetico… insomma.
Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966): «La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con “martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine economico che le sostiene».
In Italia è stato dismesso il pensiero sulla poesia Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria
Mario Fresa – Poesie scelte da Svenimenti a distanza (il melangolo, 2018) – Presentazione di Eugenio Lucrezi con una Lettera di Giorgio Linguaglossa

Mi sembra che tu ti sia risvegliato nel bel mezzo di un sogno o di un incubo e hai visto certe cose che non avresti voluto vedere
Mario Fresa, 10 luglio 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Esordisce in poesia alla fine degli anni Novanta, con l’avallo di Cesare Garboli e di Maurizio Cucchi. Ha collaborato alle principali riviste culturali italiane, da «Paragone» a «Nuovi Argomenti», da «Caffè Michelangiolo» all’«Almanacco dello Specchio». Suoi testi sono presenti in varie antologie, pubblicate sia in Italia sia all’estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) alla recente Veintidós poetas para un nuevo milenio, numero monografico della rivista spagnola «Zibaldone. Estudios italianos» (Università di Valencia, 2017). Nel 2002 pubblica il prosimetro Liaison, con la prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Plectica; Premio Giusti Opera Prima, Terna Premio Internazionale Gatto); seguono, tra le altre pubblicazioni di poesia, il trittico intitolato Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008); Uno stupore quieto (Stampa2009, a cura di M. Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); La tortura per mezzo delle rose (nel sedicesimo volume di «Smerilliana», 2014, con un saggio di Valeria Di Felice); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (prefazione di Eugenio Lucrezi; il melangolo, 2018). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (nella collana «I Classici» di Rocco Carabba, 2010) e la traduzione e il commento dell’Epistola De cura rei familiaris dello Pseudo-Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). È redattore del semestrale «La clessidra» e della rivista internazionale «Gradiva» (Università di Stony Brook, New York). Ha tradotto Catullo, Marziale, Sarandaris, Baudelaire, Musset, Apollinaire, Desnos, Frénaud, Cendrars, Char, Duprey, Queneau.
Le principali pubblicazioni che parlano di Mario Fresa sono: M. Cucchi, Dizionario dei poeti (2005); M. Merlin, Mosse per la guerra dei talenti (2007); S. Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza (2009); P. Mattei, L’immaginazione critica (2009); V. D’Alessio, Profili critici (2010); G. Linguaglossa, Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945- 2010 (2011); S. Guglielmin, Blanc de ta nuque. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea (2011); N. Di Stefano Busà, A. Spagnuolo, L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (2013); G. Calciolari, Caviale & Champagne. Scritti di letteratura (2013); M. Germani, Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (2014); S. Spadaro, Lontananze e risacche. Saggi di critica letteraria (2014); M. Ercolani, Annotando. Poeti italiani contemporanei 2000-2016 (2016); C. Mauro, Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei – Seconda serie (2017).

leggi, questo libro, e torni a chiederti che cosa resta da fare, oggi, di quel grandioso edificio storico che è stato chiamato, per secoli, letteratura
Presentazione di Eugenio Lucrezi
Lo leggi, questo libro, e torni a chiederti che cosa resta da fare, oggi, di quel grandioso edificio storico che è stato chiamato, per secoli, letteratura. Oggi che sempre di più si apre, in un mondo del tutto estetizzato perché antropizzato e dunque messo in posa ad uso della specie che, suprematica, incessantemente tutto guarda e in tutto si rispecchia, la forbice tra la vita vera e il racconto per figure caparbiamente svolto dagli scriventi che in tutto questo tempo l’hanno tentata, la letteratura.
Che ha sempre indagato, nei suoi secoli, la relazione tra esistenza dell’individuo e spazi esteriori della società e della natura, entrambi intesi come paesaggi e scenari all’interno dei quali l’individuo potesse tessere, o – Penelope sempre più dimentica, con l’avanzare della Modernità, del suo Ulisse – decostruire, la tela della propria vicenda esistenziale. La vita vera dell’interiorità e della carne ammutolisce, oggi, nell’attesa di una mutazione che già si annuncia nella luminescenza dei pixel, promessa non più soltanto della potenza illimite delle conoscenze ma addirittura dell’imminente balzo in una eternità scorporata, finalmente dimentica dell’attesa della fine; mentre la forbice di cui si diceva, aprendosi, allontana i paesaggi fino all’orizzonte dello sperdimento.
Tramontata la letteratura, restano però intatte le possibilità dell’arte. Che non più racconta per figure l’esistenza del soggetto e l’avvicendarsi dei paesaggi, ma il loro tramonto, i cortei funebri che ne accompagnano l’estinzione. Tale racconto è perturbante al limite dell’insopportabile. Il mercato non sa che farsene di opere di questo genere, del tutto estranee alla fiera dell’intrattenimento. La quale, non escludendo del tutto la schiera non estesa dei fruitori non soltanto scolarizzati, ma addirittura acculturati, che chiedono al prodotto artistico di distinguersi per i caratteri di una qualche precipuità di linguaggio, lascia spiragli di visibilità e di circolazione ad alcune opere di scrittura in grado di esibire abiti di sartoria eccentrica, di suggestione sperimentaleggiante.
Ed eccoci a questo libro di Mario Fresa. Che, pur presentandosi nell’abito, dall’antico pedigree letterario, del prosimetro, non è un’opera letteraria di impianto tradizionale o di taglio sperimentale e non esibisce ascendenze avanguardistiche; non guarda indietro per nostalgia o in omaggio a una qualche tradizione del passato e non guarda in avanti per urgenza di palingenesi venture. Essendo un manufatto di parole, Svenimenti a distanza non può che svolgersi, nell’estensione del suo corpo fatto di pagine, in forma di racconto, ed è il racconto di un’esperienza di sofferenza e di perdita, anzi di sofferenza risultante da una successione di perdite che non trova composizione o sollievo nella circostanza che lo scrivente sia qui a darcene conto. La narrazione dell’esperienza del dolore è qui insieme centripeta, in se stessa raccolta solipsisticamente perché dal gelo incandescente che ne costituisce il nucleo non può alzare lo sguardo di un millimetro, neppure per un istante; e dispersa per fuga dal centro come in esplosione sporadica, perché la piega che curva lo scrivente sulla sua scrittura è a tal punto ampia da incontrare in ciascuno dei suoi punti una folla innumerevole di personaggi − deuteragonisti e comprimari −, di scenari, di ambientazioni, di detriti memoriali e di reperti provenienti da diverse storiografie: dalla storia della musica d’opera, per esempio, richiamata a testimone di quella che è stata la funzione teatrale della narrazione; e dalla storia della frenologia, che nei secoli della modernità si è stancata baloccandosi, non infrequentemente con malcelata voluttà, sulle bizzarre costellazioni sintomatiche dell’isteria. A tale ultima storiografia pare alludere il titolo del libro; e non pochi svenimenti affiorano qua e là nelle pagine, tra una convalescenza e un espediente di fuga relazionale. Nell’estesissimo campo tensivo che si estende tra il polo centripeto e il polo di dispersione si svolge tutto il racconto.
La vita vera è tutto ciò che c’è: ma la forbice di cui si diceva all’inizio ne fa figura sindonica: indecifrabile. A raccontarne la leggibilità con la sensibilità del secolo che precede questo che stiamo attraversando ci hanno provato maestri del comico come Kafka, Beckett, Bernhard; e maestri del tragico come Levi e Sebald. Fresa presenta qui il suo tragitto nei nove grani di rosario o nelle nove stazioni di via crucis di capitoli che s’intitolano Convalescenza, Alta stagione, Nodo parlato, Medusa della specie, Galateo per un abisso, Morphing, L’oggetto del desiderio, Falsa testimonianza, La mala fiaba: il primo e l’ottavo in prosa, gli altri prevalentemente in versi. La malattia e la morte sono le evenienza che chiedono, con urgenza, di essere raccontate, e l’unica maniera praticabile è il farsi strada, con la forza che loro viene dalla sostanza ineludibile di presenze dall’invasività “novissima”, nel vivo della carne del vissuto quotidiano di ciascuno e di tutti, che per durare nei giorni e negli anni non chiede altro che − non può fare a meno del − l’anestesia, l’elusione dello sguardo dalla medusa (della specie e di ogni suo individuo rappresentante), la spensieratezza, la speranza dell’eden. La ferita del quotidiano sanguina in un linguaggio inconcluso, depistante, incalzato e sommerso dalla folla delle afferenze interlocutorie: scene ospedaliere, siparietti scolastici, teatrini familiari. Al centro di ciascuno dei quadri, degli acquarelli, degli schizzi soltanto abbozzati, la statua muta del lutto, intorno alla quale gira e rigira, torcendosi senza requie, la scrittura: che più e più volte, con insistita ricorrenza, si ferma come frastornata dal rumore delle afferenze. Lo scampo, allontanandosi, scampana fino ad assordare.
Questo torcersi delle frasi − l’abbiamo detto − non è una pratica avanguardistica ed è tutt’altro che la professione di un qualche nichilismo fine a se stesso e snobisticamente esibito. Si tratta piuttosto di un ritrarsi del linguaggio dagli atteggiamenti della compiutezza (dall’illusione della forma, armonica o difforme che si voglia e che sia) che è segnale di resa e atto di coraggio nello stesso tempo.
Atto di resa perché questa incompiutezza (scompiutezza; inconclusione; sconclusione) della scrittura ci dice che le afferenze percettive e la percezione degli affetti non arricchiscono i cassetti della cognizione; che, pur essendo il logos non Ragione o Linguaggio astratto, ma, così come vuole la Retorica aristotelica, discorso relazionale nell’ambito delle comunità, l’esercizio della funzione dialogica del discorso non riesce, in realtà (o meglio: ci riesce solo in quel particolare stato di sospensione del lutto che è la vita di comunità nel suo ordinato svolgimento rituale nei perimetri dell’agorà), a mitigare l’angoscia che ci procura la presenza dell’altro-da-noi che a noi si rivolge: prossimo o alieno, in carne e ossa o fantasmatico, l’altro che a noi si avvicina non si rivolge, piuttosto contro di noi minacciosamente agisce, in gesto di rivolta e di minaccia.

Da morti a fantasmi. Da 22 a 28.
Il segreto è nello scheletro, mi pare
Ma questa scrittura che pare ritrarsi dalle convenzioni eleganti o ineleganti, dalle buone e dalle cattive maniere del linguaggio, è anche un atto di coraggio del tutto autonomo rispetto alle sanzioni del “fine vita”, dovuto a ineludibile consunzione del Letterario, che da più parti insorgono. Iscritto nei registri di una tradizione artistica più di pennello che di penna (Bacon, Freud), che potremmo dire di esecuzione viva del perturbante, il prosimetro di Mario Fresa, vestito com’è soltanto di nudità, sordo ai richiami delle sirene dello stile, cieco ad ogni bellezza di musica e di canto, si vota per intero, nel suo incedere cocciutamente determinato all’inciampo e all’incertezza del passo, ad un discorso di rara forza espressiva, di verità inaudita per verità violenta del dettato, per forza di disgusto per il gran Male metafisico che tutti ci tiene e per il male più piccolo, ma non meno nefasto, che di fronte agli assalti insostenibili che tutti ci troviamo, senza speranza di riuscita, a dover fronteggiare, ci fa vili per aver chiuso gli occhi una prima volta, e rassegnati poi, per sempre, alla viltà. Continua a leggere
Gianni Godi – Viaggio cilindrico nella materia – Poesia volumetrica in 15 tavole – Videopoesia – La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica – Commento critico di Giorgio Linguaglossa
Gianni Godi è nato a Monte Porzio (Pesaro-Urbino), è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. Ha pubblicato il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia (date le dimensioni da lui richieste, 160×220 cm e forse anche per altri motivi, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia.
Commento di Giorgio Linguaglossa
La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica
La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica… è possibile che sia la poesia del prossimo futuro, un tipo di scrittura sganciata e slegata dalla necessità del supporto cartaceo, una poesia che si libera nello spazio virtuale di un universo ologramma. Sono convinto che la ricerca iconica e poetica di Gianni Godi sia di questo tipo, l’artista romano che si dichiara «totale» si è liberato della «totalità», una categoria che anch’io usavo trenta anni fa ma che adesso è caduta nel dimenticatoio; forse oggi ha poco senso parlare di «totalità delle cose» in un universo inflazionario che, si calcola, tra ventimila anni luce sarà talmente diradato e freddo che le luci delle galassie si saranno spente del tutto e i pochi atomi rimasti galleggeranno nell’etere a distanza di milioni di chilometri l’uno dall’altro, allora, a quel punto, di tutto ciò che conoscevamo come il nostro universo non rimarrà che un immane buio e un immane freddo, e un altro universo giovane prenderà il posto del vecchio. E tutto ricomincerà di nuovo in un orribile e spettrale eterno ritorno.
Tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto
Nella grafia di Gianni Godi tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto, il non detto; qui si rende evidente che l’essere si differanza nel linguaggio, l’essere si aliena nel linguaggio e nel linguaggio diventa altro da sé, si rende presente e assente in un medesimo tempo; diventa segno, traccia, vuoto tra i segni dei grafemi; la verità si trasforma in traccia, si contamina, si incide nel linguaggio che è segno. Non c’è nessun linguaggio che possa vantare un privilegio ontologico sugli altri linguaggi tantomeno quello poetico. Pensare alla verità del linguaggio è già un porsi nella dimensione del tempo, è già un temporalizzarsi e uno spazializzarsi del tempo; ci sono solo tracce, dei grafemi, di qua e di là che però non conducono ad alcuna verità, c’è una differance e una moltiplicazione di grafemi che si insinuano tra l’essere e il linguaggio. Il grafema è tutto ciò di cui possiamo essere certi ma di una certezza che non ha nessun punto di contatto con la verità. La verità (l’essere) è differantesi-differente nel-dal linguaggio, è lei il vero errante della nostra epoca. Noi sappiamo ciò che il linguaggio dei segni ci dice ma la verità non la conosceremo mai per via della struttura aporetica di essa, l’essere è il non detto del linguaggio, sta tra gli interstizi del linguaggio.
Nella spazializzazione dei grafemi di Gianni Godi l’essere diventa visibile proprio in quanto inghiottito dai vuoti interstiziali. In queste spazializzazioni grafematiche il tempo sembra essersi volatilizzato, non c’è più, o meglio, le sue tracce sono i grafemi, simulacri di originali mai avvenuti, mai pervenuti.
Adesso possiamo dire che questo «Viaggio cilindrico nella materia» di Gianni Godi altro non è che la traccia dell’erranza della verità che si dà nella configurazione del tempo in quanto il tempo è il venire a manifestazione della struttura aporetica della verità.
La verità-essere non è nel «testo scritto» ma «tra le righe», «nell’interlinea» del testo, nel «non detto» del testo di cui esso testo è la «traccia», il grafema. Il grafema non è niente, è un non-niente, ma non è nemmeno la cosa, è una presenza che si dilegua e rimane il niente… L’IO è liquidato, scomparso tra i flutti del vuoto, e con esso la «materia». Non è un caso che l’ultimo grafema suoni «e lasciaci in pace nel morchio limaccio».
Gianni Godi
Breve nota sulla Poesia Volumetrica in relazione al manufatto Volume “Viaggio Cilindrico nella Materia”.
Mi sembrava di avere esaurito tutte le parole. O perlomeno credevo di aver esaurito tutte le combinazioni del mio miserrimo bagaglio di parole adatte a far poesia. Ritenevo che la maggioranza delle parole in uso fossero irrimediabilmente logorate dalla pubblicità per finire nelle osterie e nei bar del mondo. Si era all’inizio degli anni ‘90 e la voglia di sperimentare era rimasta intatta. Per esempio non sopportavo le parole bidimensionali distese sul foglio di carta. Di 3D si parlava ancora poco, però pensavo ad una possibile fuga in altra dimensione del testo piatto…e le voci da ogni luogo che si sovrapponevano mi fecero capire che l’esposizione lineare di un concetto era indubbiamente vantaggioso per indicare le regole e le procedure costruttive di un qualsiasi manufatto seriale però inadatta all’innovazione, specialmente nell’espressione artistica in senso lato. Se hai la pretesa di fare qualche cosa di nuovo, devi cercare di conoscere, per quanto ti è possibile, “tutto” quanto hanno fatto gli altri per cercare di non rifarlo. Da qualche parte avevo letto che Claudio Monteverdi, lo ripeteva spesso ai suoi allievi.
La scrittura della prima poesia volumetrica segue una logica non lineare. Le parole e la grafica si susseguono in modo spontaneo, credo, sulla base del “mio totale sapere”. Al posto dei mezzi tradizionali (penna o matita) usai un desk top PC munito di un generico programma di scrittura tradizionale e di un potente programma di creazione e manipolazione grafica. Un anno di immersione mattutina nel caos cerebrale, forse con l’intento di dare un senso alla nebbia intellettiva. Ne uscirono poco meno di 50 paginette piatte quasi totalmente incomprensibili. Però ero io. Nessuno avrebbe comunque “letto” il mio lavoro. Non mi sembrava giusto. Al fine di rendere comunque visibile il “mio pensare”, decisi in modo stavolta razionale, di trasformare in un volume la mia fatica. La forma cilindrica mi sembrò la più adatta. Oltretutto un cilindro vuoto e di adeguate dimensioni avrebbe potuto catturare l’attenzione e “ospitare” all’interno un possibile lettore. Mentre procedevo in modo razionale con il pensiero, mi resi conto della fatica che avrebbe dovuto fare l’ipotetico lettore nel cercare di carpire il significato di una simile scrittura. Nacque così l’idea di distrarre il futuro malcapitato utente indirizzandolo verso concetti immediatamente fruibili. Stampai le pagine su fogli A3. Dopo un’accurata plastificazione le incollai fra loro ottenendo un lenzuolo lungo più di 4 metri. Preparai due piattaforme circolari di 160 cm. Sulle piattaforme furono incollati due specchi. Una piattaforma specchiata divenne il pavimento l’altra il soffitto. Arrotolai il lenzuolo attorno alla struttura, fissai una lucetta alogena al centro in alto e subito mi recai all’interno. Rimasi per un po’ senza fiato. Avevo ottenuto un “libro” che moltiplicava se stesso e il lettore verso l’infinito inferiore e superiore. Non mi passò minimante l’idea di leggere l’illeggibile da me creato. E così fecero tutte le persone che ebbero l’opportunità di entrare nel libro-cilindro.
In sintesi il manufatto si presenta come una sorta di libro tutto aperto. L’ultima chance della parola scritta pronta a migrare dal supporto cartaceo verso nuovi mezzi espressivi. Entrato all’interno del cilindro, il lettore privo di scarpe (nudo sarebbe meglio) si trova “sospeso” a mezz’aria tra gli infiniti sopra citati. Illusione dovuta ai due specchi paralleli. Il “viaggiatore” resta fermo, però s’accorge che la sua materialità resiste alla frantumazione e che frapponendo il suo corpo fra il pensiero e l’infinito gli viene preclusa la vista estrema del punto di convergenza. Per intravedere un possibile infinito deve necessariamente rimuovere il suo corpo.
Per i curiosi posso aggiungere che in effetti la mia intenzione iniziale era quella di raccontare l’avventura di un individuo che via via si trasforma in coppia e che senza volerlo si ritrova ad un convegno di fisici su di un grattacielo a New York. I fisici discutono della materia e di come afferrarla e possibilmente possederla. Al convegno è presente Dio. Durante il cocktail si straparla e tutti si ubriacano. Vengono inventate le parole per spiegare l’inspiegabile. A piedi nudi i fisici cercano di frantumare la materia. I due partecipano attivamente alla sbornia collettiva e credendo di aver afferrato il senso del convegno si eccitano un po’ troppo e per una distrazione materiale sporgendosi oltre misura dal grattacielo cadono sull’asfalto di New York. Dopo vari rimbalzi finiscono nella zona Infernetto-Ostia.
Ridotti in frantumi infinitesimali, hanno la possibilità di vivere la natura biologica risalendo le radici delle piante verso le foglie e i fiori o vivere la natura inorganica dei cristalli di sabbia-silicio e ritrovarsi come parte fisica in qualche schermo televisivo o agitarsi freneticamente nel luminoso buio di componenti microelettronici o rimanere in apparente quiete in attesa di imprevedibili eventi.
Qui finisce l’avventura a noi narrata con un linguaggio fortemente influenzato/storpiato dai discorsi orecchiati durante il convegno.

Gianni Godi, Cilindro
Gianni Godi
Viaggio cilindrico nella materia
Poesia volumetrica
Tudela appare giovane. Quando Tudela entra nei pensieri i familiari preoccupati si fermano a guardare i suoi occhi; credono stia male. Di fatto, in pochissimi anni ha subito diversi trapianti di memoria perdendo quasi del tutto il senso del tempo. Ad alta voce dice di aver detto più volte nel passato, di voler andare libera da vincoli ad acquistare varie concretezze da cerimonia (fra l’altro, un paio di scarpe con tacchi a spillo). Non specifica di quale cerimonia si tratti e tutti affermano concordi di non averla mai udita fare simili affermazioni. Tudela non sa in quale anno, mese, giorno si trovi e pare aver perso anche il senso di spazio. A dire di Tudela, Fiacre, intimo suo amico, di cui fra l’altro è dubbia l’esistenza (non essendosi mai visibilmente presentato ad altri) condivide il desiderio di incamminarsi verso acquisti concreti. L’equivoco sul vero scopo del viaggio non potrà mai essere chiarito per deficienza dei mezzi di comunicazione. Così il giorno xx T&F decidono di partire entrando nel cilindro dell’arte riflessa. Continua a leggere
Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria
Tiziana Antonilli – Nove poesie inedite con un Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

L’unica colpa delle scarpe infilate / – sono bianche – hai detto
Tiziana Antonilli è nata a Campobasso dove insegna lingua e letteratura inglese. Ha pubblicato Incandescenze (Ed. del Leone), Pugni e humus (Tracce) e Foglia del vostro ramo, silloge poetica vincitrice del Premio Montale in 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller, Milano, 1997), e il romanzo di denuncia Aracne (Ed. Il Bene Comune). È presente nell’Almanacco poetico iPoet (dodici poeti italiani), LietoColle, 2016.
Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa
Un linguaggio poetico deve essere incoglibile per essere significativo e significante, altrimenti ricade nella accessibilità tipica del linguaggio informazionale. Il linguaggio poetico di Tiziana Antonilli ha questo di buono, che ha preso congedo dalla facile accessibilità della poesia che confida nella comunicazione, per questo riesce incoglibile e inaccessibile al lettore medio, per il semplice fatto di voler dire qualcosa a cui il «detto» recalcitra; perché ciò che è essenziale di dover dire non rientra nella casa del «detto», il voler dire si è irrimediabilmente allontanato dal «detto», gli è divenuto estraneo. Ed ecco comparire la figura dell’«Estraneo», come avviene nella «nuova ontologia estetica». Il percorso fatto dalla poetessa di Campobasso da altre sue precedenti prove da me lette nel passato è stato grandissimo, ed è arrivata a questo suo meta linguaggio tutto particolare che impiega la ridondanza interna al significato, vale a dire, il significato non è quello che la frase dice ma altro, si è lateralizzato, si è spostato:
Lo zero l’aveva già detto:
sono io al quadrato, non ci credi?
È ovvio che qui siamo al di fuori della utilizzazione informazionale del linguaggio, anzi, è vero l’opposto, il linguaggio poetico risponde al richiamo della distanza, in primo luogo della distanza dall’io, e in secondo luogo dalla distanza dalle parole, ed è tanto più significativo quanto più lontano risiede nella sua intolleranza alla comunicazione, ma non per questo si tratta di una poesia incomprensibile, è comprensibilissimo, tanto più quanto più ci allontaniamo dal concetto di un linguaggio che «indica» un qualcosa che sta al di fuori di esso. Il significato è sempre all’interno del linguaggio, ma è il modus di avvicinarsi ad esso che è cambiato, è la strategia di accerchiamento che è cambiata.
restiamo / senza dover aspettare lo Straniero
scrive la Antonilli. Ed è questa la nostra stazione esistenziale. Il linguaggio poetico può rispecchiare questa situazione esistenziale solo perdendocisi come un oggetto (e come un soggetto), solo sottraendosi agli imperativi dell’Ego e alle sue istanze auto organizzatorie; solo resistendo alla dittatura della fagocitazione dell’informazione si può raggiungere la significazione.
Come in ogni autentica poesia di ispirazione esistenzialistica, la Musa della Antonilli si trova a suo agio nei non luoghi: un bar, un corridoio, una strada anonima etc: «- un bar in blackout / è l’inutile fattosi luogo – / si vaga per strade lucidate / e liberate dall’idea assurda / di dover per forza condurre a un luogo». Si sta «In piedi, contro il muro della scuola di musica», al buio, «-La centralina elettrica è saltata –»; di frequente sono inserite locuzioni stranianti di traverso al contesto, con la finalità di accentuare l’estraneazione della condizione esistenziale rappresentata:
L’unica colpa delle scarpe infilate / – sono bianche – hai detto
Non c’è nessuna ridondanza acustica, il verso spezzato è modellato su una sintassi nominale, dichiarativa.

Il Vuoto – A porta serrata / – un bar in blackout / è l’inutile fattosi luogo –
Scrive Lacan:
«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.
Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]
Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo In viaggio con Godot (dal titolo del libro di Mario Gabriele), solo che non ce ne siamo accorti; Tiziana Antonilli ha intuito che era ora di mettersi in viaggio verso la pagina bianca della nuova forma-poesia.
«Il linguaggio – ci ricorda Giorgio Agamben – deve necessariamente presupporre se stesso». Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati, residui, scarti, scampoli, «Ritagli di carta e cielo» (1996) dall’omonimo titolo di un libro di Donatella Costantina Giancaspero. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra suggerirci Mario Gabriele, il quale sa bene che bisogna tenere in piedi le fila del discorso poetico rispetto all’indicibilità come condizione assoluta della dicibilità.
1] J. Lacan, Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293
Tiziana Antonilli
Nove poesie inedite
28 agosto
Venuto per raddoppiare i giochi,
sembrava altri compiti non avesse
in quel giorno fra i residui di agosto,
rendere pari l’unicità.
Ridiventarono insieme uno
quando gli ideatori del doppio
incamminandosi
lasciarono una fontana sola
ma ricca d’acqua
per irrigare la vigna. Continua a leggere
Rossana Levati: Fattore Tempo e Fattore Spazio nella poesia di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Giorgio Caproni, Zbigniew Herbert, Il frammento e la nuova ontologia estetica, con traduzioni delle poesie in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità
Due poesie di Gino Rago
Il Vuoto non è il Nulla
Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
Non come vada il cielo”.
(…)
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio… Il vero poeta lo sa.
E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
(…)
In principio. Nei primissimi istanti… È solo il Vuoto.
Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. È un Vuoto zeppo di cose.
E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
(…)
È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.
(apparsa su L’Ombra delle Parole del 9. 8. 2017)
Emptiness and Nothing
He preferred talking to himself. He feared the other’s deafness.
“The will of the Holy Spirit is like going to the sky.
It’s not as if the sky comes to you”.
(…)
In Pisa everyone trembled.
The true poet loves the imperfect birth of things. As it were.
The beginning…The true poet knows it.
It is in the very first instant of the material universe.
There is no space. There is no Time.
Nothing can be seen. Because to see, photons are needed.
But in the beginning there were no photons.
Nor can one ‘stay’. Because for staying, the Space is needed.
No one can ‘attend’ (or ‘wait’).
Because to be able to attend or wait, Time is needed.
(…)
In the beginning. In the very first instant…There is only Emptiness.
Only Emptiness which isn’t as Nothing. It is an Emptiness full of things.
It is like the number zero. The zero that contains all numbers.
The negatives and the positives that summed up make zero.
In the Beginning… In the very first istant Emptiness. And Silence.
But a silence containing all sounds. Cage’s silence.
And the material universe? It comes from the fragmenting of perfection.
(…)
Was it imperfection that created this marvel?
Yes. The Whole comes from imperfection.
But the new paradigms struggle at length before being accepted.
Until Light isn’t detatched from opaque matter.
But if the Light detatches itself, photons, motion, attrition exist.
Time and space. The Man who writes life.
Poetry that explodes from fluctuating emptiness.
(appeared on L’Ombra delle Parole on 9 August 2017)
Cattedrale delle ombre
[…]
Perché non è la notte
Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
Temendo l’ombra.
Tremando di paura di fronte all’infinito.
Se non pianti le parole come chiodi
Non sei poeta
Perché quelle parole se le prende il vento.
Se dici «morte» la falce si scatena.
Muore la Parola. Non soltanto il fiore.
Senza Parola in fiore tutto il mondo muore.
Ma se non sei poeta e nomini la morte
Muori solo tu.
Non varchi la soglia della cattedrale delle ombre.
Cathedral of the Shadows
[…]
Why is there no night
That hides God. It is you who hides him
Afraid of the shadow.
Trembling with fear in front of infinity.
If you don’t pound in words like nails
No poet are you
Since those words the wind swipes away.
If you say «death» a scythe goes wild.
The Word will die. Not only the flower.
With no Word as the blossoming flower, the whole world expires.
But if you are not poet and are naming death
You only die.
You won’t cross the threshold of the cathedral of shadows.
© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of two poems by Gino Rago: Il Vuoto non è il Nulla and Cattedrale delle ombre. All Rights Reserved.

Giorgio Caproni
Commento di Rossana Levati
Tornando a riflettere sulla specificità della poesia di Gino Rago Il vuoto non è il Nulla e su come in essa venga delineato in modo nuovo il fattore Tempo, il fattore Spazio e il cosiddetto “tempo interno”, credo possa essere utile un breve confronto con questo testo di Giorgio Caproni, L’idrometra.
Giorgio Caproni
L’idrometra
Di noi, testimoni del mondo,
tutte andranno perdute
le nostre testimonianze.
Le vere come le false.
La realtà come l’arte.
Il mondo delle sembianze
e della storia, egualmente
porteremo con noi
in fondo all’acqua, incerta
e lucida, il cui velo nero
nessun idrometra più
pattinerà – nessuna
libellula sorvolerà
nel deserto, intero. Continua a leggere
Nicola Vitale, Poesie scelte da Chilometri da casa, Lo Specchio, Mondadori, 2017, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il post-moderno – Dopo il Moderno – La derealizzazione – La Lingua di relazione si è de-psicologizzata – La lingua anestetizzata di Nicola Vitale. I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza

Milano, Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio
Nicola Vitale, poeta e pittore, è nato a Milano, dove vive, nel 1956. I suoi dipinti sono stati esposti in mostre personali e collettive, in gallerie private e spazi pubblici, in Italia, Svizzera, Stati Uniti e Islanda. È stato invitato alla 54° edizione della Biennale di Venezia, Padiglione Italia. Dal 1991 è docente dei corsi di pittura organizzati da Unicredit Milano. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: La città interna (1991), Progresso nelle nostre voci (1998), Finalista premio Gozzano 1998, La forma innocente (2001), Condominio delle sorprese (2008). È incluso nell’antologia Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi (2004).
Giorgio Linguaglossa
Il post-moderno
non è affatto la riduzione di esso alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tensione «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico»,1 chiosa Gianni Vattimo. Ma se la tecnica è la realizzazione della fine della metafisica, un pensiero post-metafisico ci conduce da subito alla critica dell’ideologia del «Progresso», del «nuovo» e di quelle istituzioni culturali che nel Novecento hanno svolto il ruolo di supplenza e di sostegno a questa ideologia.
Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso, tutto il pensabile si trova all’interno del linguaggio, è sufficiente perlustrare il linguaggio, la «fodera dell’essere», come lo chiama Merleau Ponty. Quello che resta della destituzione dell’ontologia heideggeriana è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, sulla dissoluzione della Storia, ridotta a storialità, sulla dissoluzione della narrazione, ridotta a narratura, ergo dissoluzione della Ragione narrante, che non ha ormai ben nulla da narrare che non sia stato narrato in abbondanza dalle emittenti televisive e mediatiche. In queste condizioni avviene anche la dissoluzione della forma-poesia, perché non si dà più alcuna ragione del «poetico», non c’è più certezza del «poetico», nessuna «garanzia» del suo territorio. È perfino ovvio quindi che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria legislazione interna.
Oggi, il concetto di «contemporaneità», il concetto di «nuovo» sono qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarli che già sono nel passato, legati all’attimo, sono già sfumati non appena li nominiamo. Penso che da questa situazione della condizione post-post-moderna si dovrà pur uscire prima o poi, si dovrà pur ricominciare a pensare in termini di discorso poetico per porlo stabilmente entro le coordinate della sua collocazione nel Dopo il Moderno.
Per Vattimo «si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 2

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery
La collocazione estetica della «verità»
Dopo il Moderno
Possiamo affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di eventi. Se intendiamo in senso post-metafisico, la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come in una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium virtuale, non c’è che un passo: Siamo entrati per la porta d’ingresso dentro il «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale. Da questo momento, il sentiero della «via inautentica» che dà accesso al discorso poetico sarà una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Dalla «totalità infranta» del primo Lukacs siamo arrivati ai frantumi, agli stracci di quello che un tempo lontanissimo era la «totalità». Il discorso poetico al tempo del minimalismo sarà questo suo porsi in maniera irresponsabile e inoppugnabile.
Forse il significato più profondo della «nuova ontologia estetica» sta nella spinta ad uscire fuori dal novecento e da quella ontologia estetica. Forse è qui il distinguo, la petizione fondamentale attorno a cui ruota l’impegno della «nuova poesia». Ma questo è un altro discorso che dico qui per inciso.
La «derealizzazione»
che ha colpito gran parte della poesia e del romanzo contemporanei fa sì che i contenuti di verità tra i vari tipi di poesia e di romanzo siano tra di loro indistinguibili in quanto contigui alle esperienze deculturalizzate che si possono fare in tutto il mondo occidentale, con una prosa aprospettica, lineare e progressiva, in una parola: giornalistica e comunicazionale.
È invalsa la moda secondo cui si crede possibile dire in «poesia» tutto quello che si dice nel «romanzo» e negli articoli della carta stampata, per non parlare di internet; si ha l’illusione che tutto sia dicibile ed esprimibile in «poesia», come se il discorso poetico fosse un contenitore che va «riempito» di materiali linguistici del tutto esonerati dall’«esperienza» individuale dell’autore e dal filtro di una tradizione letteraria.
Ad esempio, la poesia di un autore umanistico come quella di Pier Luigi Bacchini pensa ancora in termini post-moderni. Stabilita la «tematica» della «natura», Bacchini procede per «variazioni». È questa la tavola di lavoro del poeta di Parma. Fatto sta che la sua scrittura, da Distanze e fioriture (1981), Visi e foglie (1993), Scritture vegetali (1999), Cerchi d’acqua (2003), fino a Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e Canti territoriali (2009), altro non è che lo sfruttamento intensivo di un demanio linguistico e iconico; ma così facendo la poesia di Bacchini non accenna al minimo mutamento interno, non ha sviluppo, risulta priva di prospettive stilistiche interne; è scrittura «vegetale», di «cerchi d’acqua», «territoriale», e quindi sempre eguale a se medesima, può continuare all’infinito ripetendo la medesima falsariga della propria petizione di poetica «vegetale», naturista con stile naturalistico. Si tratta, appunto, di «contemplazioni» di una tematica «naturista», di considerazioni contemplative della natura martoriata.

Milano Periferia, scorcio
Quando affermo che la poesia di Andrea Zanzotto e di Bacchini è «irresponsabile»
intendo dire che la poesia degli ultimi due autori eredi dell’umanismo novecentesco, Andrea Zanzotto (1921–2011) e Pier Luigi Bacchini (1927–2014), è priva di risvolto «pubblicistico». La «natura» di cui parlano Bacchini e Zanzotto semplicemente ha cessato di esistere in Italia dal saccheggio edificazionista e speculativo del territorio messo in atto da tutti i governi del dopoguerra, non esiste più da tempo immemorabile, è il prodotto di un esercizio di stile, stilematica, una proiezione dell’io umanistico. Nelle loro poesie il lettore è avvertito come «esterno», «estraneo», un «intruso» al quale è sbarrato l’ingresso all’interno di quell’hortus conclusus. Il luogo del poetico è il frutto di una «contemplazione» privata (ma non è dell’esperienza estetica ciò di cui trattiamo?), prodotto di contemplazione di «piccoli erbari», di «quadretti» separati dal mondo «di fuori». La poesia di Andrea Zanzotto e di Bacchini è «irresponsabile» nella misura in cui non deve nulla al lettore, non è pubblicistica, non riconosce il ruolo del lettore perché gode del privilegio di essere incentrata su un io contemplativo, sulla assolutezza di un io privato. Mi chiedo quanti poeti del tardo novecento hanno avuto una qualche consapevolezza critico-culturale della mutata funzione del discorso poetico nel Dopo il Moderno. Ho il sospetto che in molte scritture poetiche che si situano a ridosso del tardo novecento si verifichi una nuova modalità di petrarchismo e di evasione dalle responsabilità della scrittura letteraria, innocua contemplazione del mostro del Moderno. Mi chiedo, e lo chiedo ai lettori, se c’è spazio, oggidì, per una poesia adamitica della natura o per una poesia della souplesse ironico-istrionica. Ho il sospetto che tutta questa «poesia» condivida una motivazione pleonastica che lascia intatti i rapporti di produzione delle istituzioni letterarie e la logica dell’accumulo del capitale letterario immunizzato ed eternizzato nell’istituzione «poesia». Per esempio, non capisco che cosa significa la locuzione «contemplazione pneumatica e meccanica» della «natura». E mi chiedo se abbia ancora un senso critico-stilistico esperire una poesia che si trova a vivere a ridosso della segnaletica simbolico-iconica del novecento tardo. Bacchini e Zanzotto sono poeti che gridano e gesticolano per la natura incorrotta e avverso lo sviluppo tecnologico. Si tratta, credo, del prodotto di una funzione letteraria.
Montale nel 1971 pubblica Satura, opera di svolta della sua poesia e della poesia italiana, mette in archivio il linguaggio simbolistico e adotta un linguaggio giornalistico; scende dal podio simbolistico e si ritira nel suo olimpico scetticismo domenicale. Questo è il quadro macro storico. Nel piccolo microcosmo della forma-poesia avviene una mutazione genetica che va di pari passo con la «mutazione antropologica» del proletariato in piccola borghesia di cui parlava in quegli anni Pasolini, la poesia si avvia verso una progressiva democratizzazione e si appresta a diventare una pratica di massa. Oggi, in epoca di stagnazione, si assiste al fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del genere, tra i singoli sotto-generi, devitalizzati a «genere indifferenziato». Avviene così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i connotati di differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la identificava, per trasformarsi in un «contenitore», in «palinsesto», che si tende ad un «genere indifferenziato», ad un non-stile indifferenziato, cosmopolitico, transpolitico: chatpoetry, infantilismo da lettino psicanalitico: Vivian Lamarque; pettegolezzo da intrattenimento ludico-ironico: Franco Marcoaldi, flusso di coscienza positivizzato espresso con un linguaggio giornalistico; utopia agrituristica nel migliore dei suoi rappresentanti: Umberto Piersanti; monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con qualche complicazione intellettuale, tanto per apparire à la page e intellettuali: Valerio Magrelli.
La Lingua di relazione si è de-psicologizzata
Ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata». E che di conseguenza si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico e un banalismo della poesia italiana di questi ultimi decenni; chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una «cosa» nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo in atto: il raffreddamento delle parole. Le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi; è ridicolo, ma si riparte dall’io; la poesia diventa nominalistica nomina la lingua telemediatica, giornalistica, interviene una sciatteria giornalistica e, a volte, nei casi più acuti una sciatteria ergonomica.
Nella poesia che invece ha acuta consapevolezza di questi processi, nella poesia della «nuova ontologia estetica» entra l’aforismario, entra l’assemblaggio di icone, la raccolta di stracci delle parole dismesse, entrano i rottami rottamati nelle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms, il linguaggio della incomunicazione interpersonale… Non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di tanti frammenti. È triste dirlo ma bisogna ammetterlo, essere sinceri. Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie più nitide, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, e non ce ne siamo accorti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel grande circuito che è il CERN di Ginevra che identifica un giorno sì e un altro pure, nuove particelle che non conoscevamo, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando sulla natura bella e incorrotta.
La poesia italiana si è prosaicizzata e prosasticizzata. Si è elasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952, foto Mario De Biasi
La lingua anestetizzata di Nicola Vitale. I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza
Giunti a questo punto, si comprende come la poesia di Nicola Vitale si è trovata di fronte il linguaggio anestetizzato della lingua di relazione e non ha potuto far altro che ripartire da essa, da «una cosa qualunque che rimane», sgomitolare dal livello prosastico tutti i fili che si erano ingarbugliati. La sua ricerca del senso parte dalla riflessione su Leopardi e Edward Hopper. Dalla nitida asciuttezza del loro dettato linguistico ed iconico in un mondo nel quale sembra essersi «esaurita la spinta verso il nuovo», come ricorda il risvolto di copertina del libro. Quello che un poeta può fare è riflettere sulla «banalità dei suoi meccanismi sociali, di affermazione e di potere» (sempre citando il risvolto di copertina). Il poeta milanese si regola di conseguenza, adotta un discorso poetico prosastico e prosaicizzato che abolisce una volta per tutte la linea dicotomica che storicamente separava la poesia dalla prosa, confeziona un percorso poetico in veste prosastica, rinunciando alla dizione poetica con i suoi annessi retorici.
Nicola Vitale sceglie spesso dizioni filosofiche, dizioni quasi casuali, dice della nostra «irrimediabile coscienza dell’impermanente», che «occorre ricominciare, perché «tutto è pronto/ per la partenza/ di un nuovo cuore»; dice di «un errore, due errori, tre errori»; dice «il giorno più bello, ferragosto a Milano», dice «non importa la camicia stirata», di questa condizione esistenziale, «morire a rate» seguendo i «teleromanzi a puntate»; dice che «essere o non essere / questo è il falso problema».
56 anni, non li ricordo tutti
trascorsi senza permesso
qualcuno perduto in bancarotta
già stornato.
Non mi sembra vero questo tempo che pesa
sulle irreali mattine dell’estate
che cominciano a raffreddarsi
mutando di colore le foglie.
Sarà tempo perso quello
delle stagioni che cambiano?
Silenzi che tergiversano
senza reale comprensione delle cose,
sospettandone l’immenso brulicare.
*
Dal Supermarket anche oggi
Margheritine Bianco Forno
Dio vi benedica sostanze candide
non se ne può fare a meno
per ringiovanire la giornata.
Kilocalorie appropriate, zuccheri addomesticati
per un sangue in fuga
da una nottata da dimenticare.
Oggi è un altro giorno,
via col vento sui pensieri di festa
assaporiamo queste gradite proposte
senza lamentarci degli andamenti del mercato
delle insufficienze dei figli
e dei padri,
delle ferite alla coscienza
che ancora dorme sul crinale dell’alba. Continua a leggere
Joseph Cornell, scatola magica
.
Giorgio Linguaglossa
da Andrea Zanzotto di Filò del 1976 alla poesia di Francesco Paolo Intini del 1980
Si riproduce in lingua italiana parte del “Filò” di Andrea Zanzotto, riprodotto in, Andrea Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009 (Quodlibet, 2019); una edizione del “Filò. Per il Casanova di Fellini” è stata pubblicata, con prefazione di Giuliano Scabia, da Einaudi nel 2012
Vecio parlar che tu à inte’l tó saór
un s’cip del lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se á descunì
dì par dì ‘inte la boca (e no tu me basta);
che tu sé cambià co la me fazha
co la me pèl ano par an
(…)
Girar me fa fastidi, in médo a ‘ste masiére
De ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
Inte ‘l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
De tut i zhimiteri: òe da dirte zhimithero?
Elo vero che pi no pól esserghe ‘romai
Gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal
Ai fiói ‘l petel e i gran maestri lo sconsiglia?
(…)
Ma ti vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi –
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à in parà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbria.
[da Andrea Zanzotto, Filò, 1976]
Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato come la mia faccia
con la mia pelle anno per anno
(…)
Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero?
E’ vero che non può più esserci oramai
nessun parlare di néne nonne-mamme? Che fa male
ai bambini il pètel e gran maestri lo sconsigliano?
(…)
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli –
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via -:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.
Francesco Paolo Intini
Sta qui il mio Sud (1980)
Sta qui
il mio sud
dove
il sole arde
-con fiamme d’ invidia-
talenti quasi artistici
poeti disperati, falliti, anarchici.
Pozzanghera dove pullula in miniatura
la lotta di classe.
Lotta tra amici
sotto un cielo di bolle.
Si rosicchia come tarli
la stessa porta
lo stesso gusto d’arraffare.
Reduci del ‘68
grassi e ricchi
di un ’68 mai vissuto
con ferite dentro al corpo
ma violente discussione
quelle sì
con fucili e cannoni
che sparavano sogni
frustrazioni non più represse
Rivoluzioni.
Ancora urlano
da una porta all’altra
dialettiche prese di coscienza
sensibilizzazioni di massa
ed un sangue
vernice rossa sui muri
testimonia ancora il fuoco nelle vene
di folli incazzati col potere
ora panciuti impiegati
ex intellettuali.
Teatro di gran battaglie
sul filo del suicidio sotto i treni
e d’aneddoti maliziosi
da ridacchiare insieme.
Con radio che educano all’ idiozia
nullità geniali che s’ingozzano d’avanguardia
ed il gioco della birra
a dettar legge nei partiti.
Miserabile teatro dei quattro venti
dove il sole si schifa di sorgere personalmente
partorisci imitatori
mimi
del gran baccano che chiamano
Arte, Cultura, Politica.
Sopra le antenne
vive una tribù di corvi,
qualcuno era di passaggio
ma ora è un piatto prelibato
questo paese di vive carogne.
Scrive Zanzotto:
«la mia infanzia è stata ricca di emozioni anche se non felice, ricca di stimoli di ogni genere, anche culturali, e (a proposito delle lingue) essendo sempre stata la nostra una zona di emigrazione, soprattutto francese e tedesco echeggiavano facilmente. […] mi venivano frammenti di tedesco minimo dalla nonna paterna che era stata, a Vienna, cameriera di una Prinzessin austriaca… mio padre Giovanni lavorò all’estero, soprattutto in Francia; ma nella prima fase era stato anche lui emigrante in Austria, cioè a Trieste. E già il nonno Andrea e suo fratello continuavano una tradizione secolare di migrazione in Cacania e più in su».
Il dialetto zanzottiamo vive in osmosi con il francese, il tedesco e l’italiano in un conglomerato linguistico che, in quanto tale, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla lingua materna, dalla lingua «latte di Eva» del paradiso terrestre. Zanzotto da una parte tiene ferma la lingua del latte materno, una lingua ipotetico originaria, dall’altro innesta su questa lingua lessemi scarti e sintagmi rammemorati da altre lingue, in una certa ampia misura contraddicendo l’ipostasi di una lingua edenica e materna.
Logos erchomenos, la “parola che viene”. Andrea Zanzotto si è servito più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il Messia, logos erchomenos, per definire il dialetto come sorgività della parola, qualcosa che viene direttamente dalla immediatezza di una pura interiorità.
Io ho sempre sospettato che dietro questa tesi si celasse un sottocosto, un prezzo aggiuntivo. L’etichetta della «immediatezza» e del «latte materno» linguistico mi ha sempre fatto venire l’orticaria… penso, anzi, sono convinto che non ci sia nessuna immediatezza alla base del linguaggio poetico, perché di questo passo finiremmo per divinizzare e teologizzare il mito della sorgività e dell’origine. La poesia non ha niente a che vedere con questo pseudo mito.
Tanto è vero che, in un momento di rara sincerità, Zanzotto ha detto che «il mio linguaggio poetico in lingua era fasullo», pronunciando un verdetto inequivocabile di discredito sulla sua produzione poetica in italiano.
Che Francesco Paolo Intini abbia potuto scrivere questa (tra l’altro molto bella poesia) nel 1980 non mi stupisce, ha fatto una poesia singolare-plurale che ha raccontato la storia di una generazione sconfitta e disillusa in pieno rigoglio e riflusso alla utopia della poesia rurale e della poesia adamitica in pieno inverdimento negli anni ottanta. Quella era una poesia con certificato vidimato di inautenticità e di programmatica falsa coscienza. La poesia di Intini io la leggo, oggi, come reazione a tutta quella fumisteria di buoni sentimenti e di buone intenzioni, di cuore aperto… le buone intenzioni lastricano sempre la via verso l’inferno.
Adesso capisco come l’ultima poesia kitchen di Intini sia in un certo senso imparentata con la sua produzione degli anni ottanta; nella poesia ultima di Intini non c’è nulla della immediatezza, tutto è meditato e mediato dal mondo del contemporaneo e dalla distanza che lui ha saputo mettere tra il linguaggio poetico e la sua interiorità. È stato il prezzo che Intini ha dovuto pagare per transitare, trenta anni più tardi, verso una idea di poesia oggettiva, che impiega le parole come oggetti linguistici e non come oggetti liturgici o mitologici, quello che ha fatto invece, con falsa coscienza, la poesia elegiaca.
(g.l.)