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Letizia Leone, Estasi  della  Macellazione, da How the Trojan War Ended I Don’t Remember  – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20, Lettura di Giorgio Linguaglossa, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra

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(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember . Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20)

L’idea forte di questa Antologia pubblicata negli Stati Uniti con Chelsea Editions nel 2017 è la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è diventato globale e glocale e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza.

Il mio personale impegno di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anonimo Romano, Anna Ventura fino a Letizia Leone indebitamente trascurati e lateralizzati. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, compito della ermeneutica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni dettate da interessi di parte. Letizia Leone si pone nella linea di coloro che hanno optato per una scrittura poetica modernistica che si rifacesse al mito come fonte originaria di nuova interpretazione. La poetessa romana sviluppa il mito del satiro Marsia che sfidò il dio Apollo ad una tenzone musicale per essere poi sconfitta con un sotterfugio dal dio e condannata ad essere scorticata viva. La Leone adotta il traslato, immagina il mito dal vivo, entra direttamente nella «macelleria» dove è stato compiuto l’olocausto della ninfa Marsia (o del satiro Marsia?), il terribile misfatto da cui avranno inizio tutti i misfatti e i delitti perpetrati contro le donne e i diversi. Marsia è morto ma Marsia è vivo (viva?), e lo sarà per migliaia di anni fin quando ci saranno dei diversi e delle donne che vengono torturate e uccise per un ciuffo di capelli fuori ordinanza come l’iraniana Masha Amini che ha dato il via all’autunno di rivolta e di proteste nel paese islamico, ma il mito di Marsia ripreso da Letizia Leone vuole indicarci anche le tribolazioni di tutti i diversi e di tutte le donne che hanno lottato e lottano contro i soprusi e le angherie degli uomini di potere e degli dèi proconsolari, contro tutte le ideologie del potere maschilista, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra.

Anche da Letizia Leone si diparte la individuazione della linea che segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e posiziocentriche che continuano inconsapevolmente la grammatica regionale ed epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si sia definitivamente esaurita. E che occorra aprire una nuova pagina.

Riporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

(Giorgio Linguaglossa)

1] Giorgio Agamben, Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

(da Letizia Leone, La disgrazia elementare, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011)
(da AA.VV. Poesia Italiana Contemporanea, a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)
(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)

Giorgio Ortona Letizia celestina 42 x 70 olio su tela 2020

Opera di Giorgio Ortona, ritratto di Letizia Leone

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Letizia Leone

Estasi Della Macellazione
Chi conosce l’indirizzo dei mattatoi?

Supplizio fossile
(Del Satiro Marsia che osò sfidare in gara musicale il dio Apollo e finì scorticato vivo: strumento cantante.)

No,
non avresti dovuto scherzare col suono
col grido di do
questo drago illeso nel fuoco della campana,
nell’arca di bronzo. Né usare

le note
dell’uovo spaccato
quasi fossero venti, Marsia!
Per non dire delle folate d’aria
sullo scheletro vibratorio delle sillabe.

Hai immolato il tuo corpo.
Raggiante di silenzio e morte
sembra il lavoro di un sadico
ma c’è troppa letizia di un dio
in questo fasto del sangue.

E che altro?
Il canto di lode
travolse gli alberi da olocausto,
era dunque musica incosciente
la risata quadrata della natura?
Poi si sa, un dio
in questo caso Apollo,
è un mezzo vivo con poca musica,
affamata di grida guerriere
la sua sordità.
E come si canta?

I

Dapprima il gioco di Apollo

fu pantomima del tuono
grande musica totemica.
Imitava – lui, dio pappagallo-
i rumori robusti delle materie:
folgori mareggiate sfregamenti
di bestie contro cortecce
poi passò agli animali,
esaurito il coro della natura,
prese dai vivi il fiato per un canto,
l’invidioso.
Ma gli inni primaverili, l’accompagnamento
dei cembali, i tintinnii, in fondo
lo mettevano a disagio
che farsene di un Cantico solare?
Costruire un tamburo di pelle
dura e gonfia con pezzi d’animale
e assordare Marte con quest’arma sonora
al ritmo delle arterie
una crociata di rombi, urla
a squarciagola
e le lingue profonde dei selvaggi
farle volare mozzate con la freccia sibilante
di un suono e gli schizzi di sangue,
questo si che è uno strumento cantante
da pestare con mani e piedi
su una terra assetata
– se è vero che i suoni incurvano e spezzano-
e poi si potrebbe amplificare tutto in un
antro! Questo pensava Apollo.

Oppure un altro ordigno: il corno.
Con tamburo e corno
sarebbe stato più facile imboccare la via dell’inferno.

II

Ma questi, di far risuonare caverne
erano desideri inespressi
profondi. Che qui come dio
gli toccava accoppiarsi al sole
all’armonia delle piante
alla forza altalena di una scala maggiore,
una gru di toni e ipertoni
dai ritmi edificatori,
insomma
all’unisono con i bocci
tanta musica alata
a nutrire gli insetti non nati
pronti a tuffarsi nella luce.

Perché un cantare supremo era il suo compito
apollineo, celebrare il culto
della vita con la lira.
Altro che clamori infernali. Continua a leggere

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Inedito di Mario M. Gabriele, da Horcrux, Le ragazze di Kabul, I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo, poesia di Giorgio Linguaglossa, dalla Antologia How the Trojan War Ended I don’t Remember (New York, 2018), Come è finita la guerra di Troia non ricordo, La questione del volto e della autenticità, Il rifiuto del soldato di un plotone di esecuzione Josef Schulz di sparare a quindici giovani partigiani serbi

 

Polonia Esecuzione di 56 civili polacchi a Bochnia durante l'occupazione della Germania nazista della Polonia; 18 December 1939

Esecuzione di 56 civili polacchi a Bochnia durante l’occupazione della Germania nazista della Polonia; 18 December 1939

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Il rifiuto del soldato Josef Schulz

Il soldato tedesco Josef Schulz del plotone di esecuzione che doveva eseguire la condanna alla fucilazione di 15 giovani serbi, dichiara semplicemente: «io non sparo», e getta a terra il fucile. Schulz viene ritenuto colpevole di insubordinazione ed è condannato a morte a sua volta mediante fucilazione immediata.

Il gesto del rifiuto segna una linea divisoria tra l’autenticità e l’inautenticità. Posto dinanzi alla scelta se obbedire ad un ordine che la sua coscienza rifiuta e sparare o disobbedire decidendo di non sparare condannandosi così a morte certa, il soldato Josef Schulz sceglie la seconda possibilità con un formidabile atto di decisione anticipatrice della morte.

La morte è una possibilità dell’esserci, è la sola via di uscita dinanzi ad una situazione che la coscienza non può accettare, è la possibilità più propria (concerne l’esserCi), incondizionata (l’uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano tutte le altre possibilità), certa.

Con la anticipazione della morte, l’esserCi comprende autenticamente se stesso. Gettato nella situazione emotiva dell’angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, il soldato Josef Schulz opta per la morte, annullando ogni altra possibilità che lo avrebbe mantenuto in vita ma condannandolo alla inautenticità.

Dunque, l’uomo scopre di Essere-per-la-morte quando la situazione storica concreta lo pone dinanzi alla scelta radicale: vivere inautenticamente o morire in modo autentico.
La morte non va rifuggita, ma affrontata con la decisione anticipatrice, sostiene Heidegger: non il suicidio o l’attesa (forme di realizzazione che tolgono il carattere di possibilità) la soluzione, ma la scelta consapevole dinanzi al Potere opprimente, questa possibilità c’è sempre. Accettare con la decisione anticipatrice la possibilità della morte, ci richiama al nostro destino di mortali.

C’è qui una mia poesia nella quale viene affrontato problema del rapporto tra il Potere e il singolo cittadino, da da How the Trojan War Ended I don’t Remember (trad. ingl. di Steven Grieco, 2018). Il protagonista, Gaio Cornelio Gallo, scruta i volti dei suoi contemporanei e, con allarme, vi legge i primi indizi della sottomissione e del conformismo di massa dei suoi concittadini.

da Facebook

Mi ha sorpreso la citazione di Giorgio Linguaglossa quando nel suo Blog, ha citato il nome di Josef Schulz, la cui storia, eroica e personale, è quella di un soldato tedesco durante l’ultimo conflitto mondiale, chiamato a far parte di un plotone di esecuzione per fucilare quindici ragazzi slavi partigiani a Smederevska Palanka in Serbia, ma che al momento di sparare, si strappa le mostrine buttando a terra il suo fucile, dicendo al Comandante: “Io non sparo”, il cui testo è rintracciabile ne il piccolo almanacco di Radestzkj, Milano, 1983, riportato su Poesia Civile e Politica dell’Italia del Novecento, a cura di Ernesto Galli della Loggia, Bur, saggi Rizzoli, 2011. Ringraziandovi sinceramente dei vostri commenti e della vostra sensibilità di lettori e poeti. Un caro saluto a tutti.
(Mario Gabriele)

caro Mario Gabriele,

Scrivere una poesia lo considero un gesto non diverso da quello fatto dal soldato Josef Schulz che si strappa le mostrine e getta il fucile a terra rifiutandosi di sparare su 15 giovani partigiani serbi.

(Giorgio Linguaglossa)

Gif Finestra e volto

Giorgio Linguaglossa

I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso

Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;

inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave

e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.
Nel Foro non prende mai una posizione

univoca, chiara, ciò che dice in
privato non lo ripete certo in pubblico.

È abile, sfuggente come una biscia, oleoso
come la resina del Ponto Eusino,

dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,
una ipocrisia, ma ciò che è più grave,

non riesco neanche a detestarlo.
Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,

un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,
non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli

il suo faccione impolverato di cerusso?
In fin di conti è un mio simile: un teatrante, un attore,

ha un mento, due occhi, un naso aquilino, proprio come me.
«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».

Druso ha gli occhi foderati di cerone da teatro
il volto scivoloso di biacca, il mento leporino

e gli occhi cisposi per il vino in eccesso
bevuto la notte innanzi, ascolta

ciò che gli torna immediatamente utile,
quando non gli conviene fa il pesce in barile;

dei nostri discorsi sulla res publica
dice «che sì, che no, che forse, che insomma…».

Del resto, sto molto attento quando
nei conviti privati mi porge il cratere colmo di vino,

fingo di bere con un sorriso sordido…
mentre con la coda dell’occhio

sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.
Evito di guardare in volto il capo delle guardie

quando fa ingresso in casa di Mecenate
con il suo codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.

Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato

dei miei pensieri pubblici…

(2013)

Gif Bergman Persona

Il volto

I greci definivano lo schiavo, colui che non è padrone di se stesso, «aproposon», letteralmente «senza volto». Soltanto l’uomo fa del volto il luogo del suo riconoscimento e della sua verità. L’uomo è l’animale che si osserva allo specchio e, allo stesso tempo, si riconosce e non si riconosce nella immagine del proprio volto; torna a specchiarsi e di nuovo si riconosce e non si riconosce, vede nel se stesso l’altro che vi è celato, il proprio demone, e torna a specchiarsi di nuovo senza potere avere la conferma di riconoscersi eguale a come era ieri o un minuto prima. È la maledizione dello specchio che qui ha luogo, Borges docet. L’uomo maledice lo specchio che riflette la sua immagine che, giorno dopo giorno, invecchia e diventa la caricatura della immagine della giovinezza. L’uomo è l’unico animale che maledice lo specchio che gli rivela questa obbrobriosa verità, e poiché l’uomo è l’animale che rifiuta la verità è anche l’unico animale che maledice se stesso, che rifiuta se stesso. Il volto è sia la similitas, la somiglianza, che la dissomiglianza. L’uomo è l’unico animale che non ha volto, perché ogni giorno, ogni minuto, ogni attimo il suo volto cambia impercettibilmente, e lo specchio glielo rivela con crudeltà.

Un uomo senza volto è un mostro. Per questo il volto è il luogo della politica come dialettica della verità e della menzogna. Le informazioni che gli uomini si scambiano attraverso l’osservazione del volto altrui sono necessariamente menzognere, l’uomo vuole celare dietro il proprio volto le proprie reali intenzioni. Se gli uomini sapessero davvero leggere il proprio volto e il volto altrui saprebbero anche leggere la menzogna che il volto cela e rivela. Gli uomini hanno innanzitutto da comunicarsi la loro verità e la loro menzogna; il loro riconoscersi l’un l’altro in un volto, è il riconoscere la menzogna che hanno rivestito di verità. Il luogo del volto è il luogo della politica come luogo in cui gli uomini si scambiano messaggi di menzogna travestiti da verità. In questo senso il volto è il luogo politico per eccellenza. Guardandosi in faccia gli uomini possono mentire reciprocamente, e così si riconoscono e si appassionano gli uni agli altri, percepiscono menzogna e verità, distanza e prossimità.
Gli uomini sono sempre nella menzogna perché sono sempre nella verità, è questo il modo che gli uomini hanno per riconoscersi. Il volto lascia intravvedere questa commistione tra verità e menzogna, ma soltanto per un attimo a chi sappia guardare veramente, perché gli uomini sono sempre nella menzogna e sono sempre nella verità.

(Giorgio Linguaglossa)

Inedito di Mario M. Gabriele

da Horcrux

Le ragazze di Kabul sognavano le Pussy Riot
per uscire dal Ramadan.

Crescere alla pari era il sogno
di Zaira Jasin.

Scriverò, lei disse, alle amiche
che hanno visto Shailene
nella Trilogia Divergent,
per dire che qui le strade sono senza Street Art
e Coverstory.

Questa sera tornerò ad essere poltrona,
sedia,
divano,
altalena di giardino,
e poi polvere,
sepolcro,
tristezza,
prologo ed epilogo,
e nessuno mi vedrà piangere
in piena estate e con i veli,
senza skin care, e le Beauty Stars
di Madison Square.

Ieri sera il mio compleanno è morto
mentre cercavo cappotti di lino e shorts
di MOI MIMI’ in WhyNot.

Tutte le volte che canto
brucia l’ugola,
con Don’t Be That Way,
di Norman Granz
riportato sul lato A e B
del long playing.

L’esagono domestico non ha le armi
per far fuori i regni mefistofelici.

Per questo leggo il Talmud,
prego Giuda e Maria
e l’inferno è come nei racconti
di Bulgakov e Gogol’.

caro Mario Gabriele,
un tempo si pensava che porre la questione del linguaggio fosse una cosa che riguardasse l’attivismo dell’autore, il linguaggio era un corpo, erano dei «materiali» dove si poteva entrare a piacimento con gli strumenti chirurgici offerti gratis dalla nuova scolastica che era data dallo sperimentalismo, intendo qui con questo termine anche tantissima parte di ciò che veniva volgarizzato dalla estrema destra letteraria: l’orfismo con le sue adiacenze, riflesso speculare della scolastica del pensiero positivizzato. Quando invece il linguaggio è una pre-condizione che non postula nulla di in-condizionato. Un paradosso nel paradosso. Il linguaggio è una pre-condizione che postula il nulla prima di esso.
La nostra Poetry kitchen o Kitsch poetry accetta questa impostazione esistenziale e categoriale, direi ontologica. Pensare di fare scrittura poetica sulla pre-condizione di un linguaggio assunto e adottato a scatola chiusa, pecca di pensiero positivizzato e acritico, in tale pratica è sottesa l’idea della poesia come atto di «verità» che il linguaggio ha solo il compito di scoprire, dis-velare. La disaccortezza epistemologica della poesia del senso e del sensorio cade nel suadente e nel suasorio dell’io ipotenusa, cade in un nulla di fatto, mi spiace dirlo a chi continua a pensare con un pensiero positivizzato che si risolve in un risultato; così si fa poesia da risultato pronto e sicuro, così si finisce in una filosofia da elettrodomestico, così si cede alla prospettiva salvifica di un approdo, che altro non è che il corridoio pavimentato e contro soffittato dall’io e dalle sue adiacenze e del divino con le sue adiacenze.
La poesia kitchen o kitsch è precipuamente un prendere cognizione della perdita di senso dell’uomo nel mondo attuale, tensione verso un fuori-significato che si dà in modo intermittente, instabile e che solo il linguaggio poetico è in grado di registrare, come in un sismogramma di un terremoto del nono grado della scala Mercalli. Occorre al più presto prendere cognizione che la significazione è sempre in procinto di periclitare nel fuori-significato e nel fuori-senso. Per esempio, la tua poesia non mette in atto alcun tentativo di afferrare il mondo, realtà recalcitrante che sempre sfugge, il mondo è già lì, nel tuo lessico ibridato inventariato in lessicogrammi che si gettano come fumogeni nella piazza dei manifestanti che manifesta per l’ordine del senso e del sensorio e per l’ordine del discorso suasorio che ne deriva. È questa la ragione del profondo sommovimento alla nitroglicerina che la tua poesia kitchen sommuove negli animi nobili che credono nella purificazione della lingua della tribù. La poesia kitchen è invece accompagnata dalla consapevolezza della profonda accidentalità dell’homo sapiens tanto più deiettato nell’epoca cibernetica, del cyborg e dei no-vax.
(Giorgio Linguaglossa)
 

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Mario M. Gabriele, Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento, Retrospettiva storica, da Lirici Nuovi di Luciano Anceschi (1954) a How The Trojan War Ended I Don’t Remember (2019), L’individuazione di una Linea Modernista

Antology How the Troja war ended I don't remember

Mario M. Gabriele

Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento

Retrospettiva storica

Se andiamo a leggere le antologie poetiche italiane, a cominciare da: I Poeti Futuristi, con un Proclama di F.T. Marinetti, Milano, 1912, passando a quelle regionali e alle tante, tantissime pubblicazioni sulla Letteratura italiana, tra repertori e consuntivi, ci accorgeremmo subito di quanti modi, stili e manifesti è segnato il cammino della poesia, assieme al fenomeno delle omissioni, con gravi ripercussioni sull’assenza di molti poeti, condannati dalla storia che procede  per “repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica e quindi per falsificazioni specie quando il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento  sulla contemporaneità”. (Luigi Baldacci-Novecento, Rizzoli, Gennaio 2000, pp.18-19). L’invisibilità che circonda  gran parte di questi poeti ci ricorda vagamente: Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino  dei  Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti repertori, da più di 50 anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, “non si ha il coraggio di farle venire a galla”, né si può sperare in un intervento della critica poiché essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, dopo l’avvento del post-strutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste  e neonichiliste  che annientano la testualità letteraria nella sua specificità”. (Romano Luperini, Breviario di Critica, Guida, 2008, pag. 59).

Molti sono i poeti che hanno percorso vie opposte a quelle della  Tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico con un work in progress di febbrile spinta avanguardista.

Cosicché la scrittura, comprensiva di ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti qui presenti, un rinnovamento della forma  con il rifiuto del riflusso, riscoperto come autentica griffe dall’industria editoriale, sempre alla ricerca di “casi” letterari, con tanti curatori, sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori  di un razzismo  etnico-culturale, simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche le famigerate scritte: ”Non si affitta a meridionale!”. Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe anche confermare, in qualche modo,  la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale  il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti “I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non avere degli altri. Ciò che non sopportano è che gli altri godano di un vantaggio”. (Gunter Anders: Linguaggio e tempo finale. Micromega, 5-2002, pag. 117). Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio  meneghino o lombardo-veneto, che vuole, a tutti i costi, “creare  una brutale scissione degli “italiani al di sopra e al di sotto del Quarantesimo Parallelo”. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001. Non  due ma cinquant’anni di poesia, pag. 12).

La critica di oggi si è creata una propria nicchia, fuori  dalle Grandi Case Editrici, dopo le performance dei Lirici Nuovi di Luciano Anceschi, – Mursia 1954; dei Poeti del Novecento, di Giacinto Spagnoletti –Mondadori 1952; de I Novissimi (poesie per gli anni 60), di Alfredo Giuliani, -Einaudi 1965; di Poesia del Novecento di Edoardo Sanguineti,-Einaudi 1969; de Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli –Lerici 1975; fino alla Parola Plurale, Sossella Editore, 2005 a cura di Andrea Cortellessa con la partecipazione di 8 curatori, tutti serventi dell’ala estrema del linguaggio autonomo, dopo la frattura tra l’Essere e il Nulla. Non è un caso isolato, se dopo la fine di un periodo letterario ne succeda un altro, sostitutivo di forme e scrittura. Tra le tante categorie catalogate non sfugge il concetto di moderno e postmoderno, con valenze diverse, tra incontri culturali, e discussioni accademiche, che hanno  influito sul pubblico dei lettori, indirizzandoli anche nei campi socio-culturali  e filosofici.

Ma è a partire dal 1930 che il postmoderno ha mantenuto le fila di un predominio letterario e tecnologico, esercitando un’azione di diffusione estetica, attraverso l’uso linguistico anglo-americano, con diramazione della critica a partire dagli anni Sessanta con punte di diramazione nel campo sociologico e post-industriale, anche attraverso la diffusione di Riviste Il Verri e Officina.-

Habermas, nei suoi indirizzi operativi, ha colto nel postmoderno una forma di tardo capitalismo come pensiero post-metafisico, a cui poi si aggiunge il pensiero debole di Vattimo, corroborato dall’influsso filosofico di Nietzsche e Heidegger, con le esequie alla metafisica occidentale.

Nel settore letterario molto si è sviluppato tecnicamente. Tutte le edizioni, formato stampa, subirono variazioni estetiche differenti. Ma è dal 1968 che la tecnologia agisce sul postmoderno con  l’elettronica e il software, raggiungendo il “Villaggio Globale”. Il testo poetico subisce variazioni di ogni tipo diventando soggetto-oggetto del poeta, il quale ha anche la libertà di optare per il selfpublishing e le Case Editrici Minori senza alcuna certezza di successo. “Fine ultimo della letteratura è la creazione sintattica, lo stile, il divenire della lingua. Non c’è creazione di parole, non ci sono neologismi che valgono al di fuori degli effetti  di sintassi in cui si sviluppano. Sicché la letteratura presenta giù due aspetti, in quanto opera una decomposizione o distruzione della lingua materna, ma anche l’inversione di una nuova lingua nella lingua attraverso creazione di sintassi” (G. Deleuze. Critica e clinica, Milano 1996). È ciò che un po’ accade nella Nuova Ontologia Estetica la cui prima datazione risale, con molta probabilità nel 2017.

                

Riflessioni sulla poesia

A conti fatti, quello dei critici, è un resoconto linguistico sulle opere esaminate, senza dubbio notevole, con un elettrolux che ha illuminato alcuni spazi, oscurandone altri. Qualsiasi previsione sulla morte della poesia è temporanea, in quanto le proposte linguistiche si  alternano come  ricambi nel tempo. La parola poetica finisce con l’essere particella organica, per diventare separatista e intoccabile con la forza espressiva di un postmodernismo telematico, e l’agglutinazione delle figure retoriche, tra le più diverse come, ad esempio l’allegoria, l’allusione, l’anacoluto l’anafora, per non parlare poi delle diafanie e disfanie, integrate ai testi poetici, e riscoperte ultimamente.

Passato e presente si annullano e si dicotomizzano nella forma, secondo le macerie e le ricostruzioni esaminate dalla linguistica e dallo strutturalismo. C’è stata, col passare dei decenni, una ermeneutica di diversa angolatura, che ha emulato categorie extranazionali, fino ai suggerimenti di altri modelli attraverso le esplorazioni dell’inconscio volute da Freud e da Jung.

Moltissime sono state le ricerche sul piano ontologico, filosofico ed esistenziale,  con distinzioni politiche alla Sanguineti e alla Pasolini, come ultima tappa di alternanza linguistica, dove non sono mancate le esternazioni positive e negative. Si è provato di tutto: dalla Pop Art, alle accumulazioni narrative, tra reviews, fin de siécle, e oggettologia: una sorta di Nouveau  francese.Questa intercomunità culturale ha retto per decenni, a prescindere dallo stato di apnea delle nuove generazioni poetiche, che si sono alternate non pensando più agli strumenti umani e alla comunicazione. Ne sono una dimostrazione le zone d’ombra e gli orrori della lingua “cannibal” degli anni Novanta, con Aldo Nove e  Niccolò Ammaniti.

Tutto questo ha coinvolto, anche se per breve tempo,  “l’architettura moderna con le sue convenzioni, i suoi dogmi, le sue grandi esperienze, il grande modello archetipo, corrotto e tradito nella interpretazione, come una sorta di sacra scrittura, ma pur sempre seguito e obbedito nella letteratura- e sotto processo da lungo tempo-, ma gli attacchi subiti a ondate successive, continua a opporre una barriera fatta di indifferenza e garantita da una  alleanza con il potere.” (P.Portoghesi, Dopo l’architettura moderna).

Le strade della poesia, viste nella loro topografia sono   diverse. Non sappiamo se si debbano considerare chiuse, tanto che “l’umanità ne potrebbe fare benissimo a meno”, come ebbe a dire Montale nel suo Discorso tenuto all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975. Tuttavia, come Egli ebbe a dire: “non sempre la poesia è cancellabile dalla mente e dal cuore dell’umanità”, essendo espressione di sentimenti dichiarati tra fobie e nevrosi del nostro Tempo, con un linguaggio prevalentemente psicosomatico ed esistenziale, parapsicologico e metasperimentale. Ed è ancora Montale ad affermare che  “La poesia è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi diversi come Croce storicista-idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una Storia della poesia”.

A conti fatti, la poesia di oggi è alla ricerca di nuovi segni verbali mettendosi in ginocchio a raccogliere i frammenti con una nuova gestione del linguaggio in forma di distici, peritropè e polittici. Qui ne cataloghiamo gli esiti, diversi ed espressivi, come volontà del ricambio della forma e del verbum da parte dei poeti antologizzati. Tuttavia, nonostante queste apprezzabili opportunità estetiche e stilistiche, c’è un ramo nel giardino della poesia, che pur mancante di clorofilla alle foglie, sopravvive e si ripropone come se in questo lasso di tempo tutto fosse rimasto in stand by.

 Oggi siamo di fronte ad una manovalanza estetica che immette nel mercato una poesia mercificata come pannolini da China Town. Ognuno  può scrivere ciò che vuole, pensare come crede, narcotizzarsi ad ogni occasione, tentare perfino di scrivere poesie come favolette per i bambini iperpiretici per farli addormentare. Non c’è più un luogo sociale, esistenziale, storico, pluriculturale dove connettersi. Continuare col Novecentismo linguistico è operazione di enorme spreco, che non ha mai cessato di esistere. Oggi ci troviamo di fronte ad un concerto demagogico e populistico della poesia come fenomeno sempre più diffuso anche nelle diverse categorie generazionali.

È evidente che tutto questo non può che decretare la crisi della poesia, incapace di albeggiare.  Si rischia di rimanere nella stagnazione scivolando nella sciatteria, dimenticando  la progettualità considerata eversiva, proprio perché ritenuta un attacco all’establishement linguistico, dimenticando che ci vuole tanto di senso autocritico del proprio lavoro.

È chiaro che in questi termini la critica ufficiale non può che assentarsi, uniformandosi al culto del replay. Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi, Paperbacks poeti- New Compton Editori, 1981, pag. 17 della Introduzione:

”Bisogna operare per la professionalità che non è puro e semplice professionismo, realizzando nel massimo dell’arbitrio il massimo del rigore, operando insomma per e con una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi”.

Quali siano i frutti di un rinnovamento linguistico non si sa. Ma intanto è lecito proporli salvaguardando le aspettative di un pubblico in attesa di un nuovo panorama storico e linguistico. Il lettore silenzioso, che non esprime giudizi, è un critico che si autoesclude da una dialettica oziosa e ostativa, in attesa di documenti e tempi migliori. Il Novecento ha indubbiamente il suo peso maggiore, senza escludere chi si attiva con le alternanze linguistiche. C’è una idea di come va rifondata la poesia. Ma anche questa va proposta nei limiti della persuasione estetica, badando ad armonizzare il tutto con un impianto pluricostruttivo attraverso i sistemi collaborativi e interdisciplinari.                           Continua a leggere

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Mario Gabriele, How The Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 $ 20.00, Poesie di Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo

Antology How the Troja war ended I don't remembercaro Giorgio,

non appena mi è pervenuta la tua antologia How the Trojan War Ended I Don’t Remember, mi sembrava di aver ricevuto un regalo da Santa Claus, dopo la lunga attesa per la pubblicazione.

Mi sono sentito tra i pochi fortunati a ricevere il volume in quanto gli altri autori antologizzati hanno dovuto attendere non poco, prima di venirne a conoscenza.
Ebbene, come fa il cane quando annusa il padrone, ho voluto captare subito l’odore tipografico, passare la mano sulla prima e quarta di copertina, sfogliando le pagine una ad una, ipotizzando la grammatura della carta e tutta la tecnica della pubblicazione.
La curiosità di leggere le poesie, ma credo l’abbiano fatto anche gli altri autori, mi ha portato a trovare subito la Sezione Contents dove si citano i nomi e le opere dei poeti presenti.

La prefazione di John Taylor mi ha sorpreso per la sinteticità espressiva, senza creare altarini e Hit Parade.Ne è un esempio la sezione che mi riguarda,dove il prefatore così si esprime: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Teniche sviluppate da T.S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C.P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.
Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola».

Certamente, per redigere queste frasi, il prefatore è stato un attento lettore dei testi. La sinteticità e l’acuta impostazione critica fanno del lavoro di John Taylor, un esempio di scrittura estetica che non è storiografia o eccesso di intrattenimento, – no stop -, come è accaduto per certi nostri antologisti del Novecento. Qui non ci sono limiti culturali e metodologici o infrazione critica. Tutto è ben ponderato e circoscritto.
Altro aspetto singolare è la traduzione in Inglese dei testi fatta da Steven Grieco Rathgeb, molto rigido nella misura dei versi e nelle rettifiche.

Strilli Lucio Ho nel cervelloOgni antologista ha di fronte a sé un compito difficile, trattandosi di selezionare opere e autori per tracciare una storia o un segmento della poesia italiana.
Scrive Giacinto Spagnoletti nella sua introduzione in La letteratura italiana del Novecento, Grandi Tascabili Economici. Newton (1994): «Se di -un sentimento- e non di un metodo – ha bisogno fortemente il critico di oggi, esso consiste nel far parlare i più interessati, gli scrittori e i suoi lettori». È ciò che hai fatto tu, caro Giorgio Linguaglossa, nel redigere questo lavoro che rimarrà un anello di congiunzione con il futuro.
Le eventuali omissioni di altri autori in questa Antologia non sono da considerare repressione, oppure ostinata invisibilità e indifferenza. Si è trattato di un dossier, di un eccellente patentino poetico in work-progress, in terra americana, cioè di un percorso estetico e linguistico che sicuramente sarà ampiamente pubblicato nella prossima antologia linguaglossiana verticalizzata sulla NOE.

“Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno) così come si fanno i codici di giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque della loro utilità. Sempre che non diventino operazione politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio” (Giuseppe Zagarrio) Ma il “frenaggio” qui non esiste, diciamolo francamente!

(Mario M. Gabriele)

Strilli RagoPrefazione di John Taylor tradotta in italiano da Mario Gabriele

Il titolo dà il tono a questa vivace antologia. I versi dei quattordici poeti inclusi in – Come la guerra di Troia è finita, non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2017)– evoca l’Eredità greco-romana in vari modi, attraverso il reale, il leggendario e le mitiche figure che vanno da Ulisse ad Apollo, da Medea e Ecuba a Gaio Cornelio Gallo, per non parlare di alcuni prolungamenti greci moderni di questa cultura ad esempio quelli di Maria Nefeli di Ulisse Elytis (riportato da Chiara Catapano).

La raffinata poesia di Steven Grieco-Rathgeb è presente anche qui, torna ancora più in profondità nel nostro crogiolo culturale e filosofico, facendo apparire il concetto sanscrito di “jaagriti”. La parola significa, come spiega, “essere sveglio (di solito associato con gli altri due stati mentali umani, dormire con sogno e sonno profondo).

È stimolante estendere la similitudine e affermare che qualcosa come “jaagriti” è forse l’obiettivo, o la motivazione, della poetica espressa da tali poeti attenti alla presenza del passato nel presente. In altre parole, una specie di visione onirica o immaginativa unita a veglia – un gioco avventuroso, un”sognare ad occhi aperti” pieno di risorse, per così dire, durante il quale il poeta afferra il presente come tessuto, non essenzialmente con ricordi personali, ma anche e soprattutto con aspetti della mitologia e della storia (e della storia delle idee) per estendersi ben oltre il sé individuale. Gli elementi archetipici sono stati scavati dal poeta di questo vasto passato, registrato o immaginato, con la funzione di illuminare il presente, anche se a volte in modo bizzarro, fantastico o comico.

Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C. P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoDetto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con “In viaggio con Godot” o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola”.

Per non dire altro. Ad esempio la poesia ludica tiene a bada la serietà. Antonio Sagredo imposta allo stesso modo “Farcical” a Roma, in cui il narratore confessa di trascorrere le sue “notti”nelle taverne / lungo la strada rossa di Scipione, / simile a un prete sotto quelli indifferenti lampioni, / con il tasso di mortalità di Roma ancora lontano dall’essere decente “, per riassumere la sua vita attuale in questo modo: “Oggi celebriamo il saggio: / Ho letto i Cantici ripetutamente / e come i Cesare sono stato ucciso mille volte!”
A sua volta, Letizia Leone, la cui lunga poesia è stata tratta dal suo libro La calamità di base si concentra su Marsia il Satiro, forgiando il satirico con la mescolanza di immagini che raccontano le apparenze del passato e del presente: “. … un peloso satiro / con un nuovo flauto luccicante, tirò fuori da una dea, / un sex toy, / un dispositivo per magia amatoriale!”

Inutile dire che queste e molte altre poesie sono piene, zeppe di allusioni culturali, sardoniche, beffarde, spoofing, con indicazioni serie a questioni filosofiche.
Anna Ventura, ad esempio, evoca Trimalchio, la tartaruga etrusca di Volterra”, Torquemada, e infine Barbablu, di cui presenta se stessa come la “terza moglie, quella / che ha osato prendere la chiave / e spalancare la porta dell’orrore “, aggiungendo che questo non deve essere detto a Cartesio il quale “giace / dentro la sua tomba piatta, all’ombra / di una chiesa poco illuminata, / ma la sua luce abbaglia ancora / la sua follower: gli illuminati, disprezzati / in un mondo che fa altrettanto /senza motivo.”
In realtà, le stesse questioni della ragione – le sue carenze e conseguenze, per non dire pericoli e catastrofi: spuntano piuttosto spesso. Un altro modo di leggere questa antologia è chiedersi come decriptarla, o come la mancanza o abuso di ciò, giochi rispetto alla condotta umana così come è stata mostrata nel corso dei secoli.

Strilli Busacca è troppo tardiGiuseppe Talia solleva espressamente questa domanda in “Paradossi” che unisce scienza (o, più precisamente, logica formale) e storia: “Le teorie di Frege sono quasi un fallimento / perse nel predicato che non puoi prevedere / quando il paradosso dell’assioma / non è altro che una contraddizione: “Cesare conquistò la Gallia. “Ma in che modo? / Con un carattere sintetico a priori diresti / in relazione allo spazio operativo / e alle semplici proporzioni analitiche/ al numero di soldati usati e civili morti/.
“Nella sua poesia” Aspetta e guarda cosa succede”, Renato Minore decolla da uno degli spettacolari risultati del ragionamento tecnologico: pixel. Mentre la poesia si svolge per mezzo di linee permutate, altre possibilità interpretative lampeggiano di tanto in tanto, anzi come i pixel, suggerendo metafore legate direttamente ai nostri tempi: “Esiste il comodo ritorno della specie / continua a rannicchiarsi nella testa di uno spillo / Ma noi sogna ciò che abbiamo interpretato / E danno quel poco che è ancora richiesto di loro “. E se siamo consapevoli di” sognare ciò che abbiamo interpretato “, non è una specie di stato “jaagriti” ancora una volta? In ogni caso, chiediamolo: dove sta andando l’umanità della nostra umanità?

Sebbene ci siano eccezioni, tra cui poesie di alcuni dei suddetti poeti (cioè pezzi che dissezionano le “affiliazioni”, come quelle tra poeta e genitore, tra poeta e fratello, o esplorando altre chiavi personali eventi), l’antologia tende a mettere in luce versi che sono molto più massimalisti che minimalisti. Raggruppando le sue poesie sotto il titolo Dovrei tornare a Caesar’s Court?, “Giorgio Linguaglossa (che ha messo insieme questa antologia) sfida implicitamente i poeti contemporanei a rispondere alla stessa domanda. Si hanno pochi problemi a percepire che ci si rivolge in particolare ai poeti orientati verso i particolari modesti della vita quotidiana in sé o verso le loro vicissitudini, le proprie esistenze attuali, anziché verso quelle storiche, mitiche, scientifiche, e sfondi filosofici rovistati dalla maggior parte dei poeti in questa antologia. Tale, ovviamente, è solo una delle linee di battaglia che possono essere tracciate tra poeti contemporanei in Italia o altrove.

Le differenze radicali che possono esistere tra i tipi di soggetti considerati, sono visibili anche nella poesia di Gino Rago: titolo generale per i suoi pezzi interconnessi. “We are Here for Hecuba” sicuramente suggerisce l’intenzione di aprire una prospettiva più ampia di quella delimitata nel bene e nel male da un’ispirazione strettamente autobiografica o da un oggettivismo del genere “niente idee ma nelle cose”.
In una delle sue poesie, Donatella Giancaspero sottolinea: che “nulla di ciò che siamo / mostra la superficie. ”L’osservazione definisce appropriatamente il non autobiografico orientamento di questa antologia.

Eppure, come dovrebbe anche essere chiaro, le variazioni di questa poetica generale sono molte. Anche la poetica contrastante viene prodotta, sebbene essa non sia necessariamente rappresentativa di tutto il lavoro del poeta in questione.

Antonella Zagaroli, che ha citato teorie scientifiche in alcuni suoi testi precedenti, aspira ad essere “Saffo crudo e ribelle” (al contrario di”Emily”) e offre un’immagine personale toccante alla fine della stessa poesia dichiarando: “Io sono il raccolto, poi appeso indietro la mela / nel giardino appartato.”Altrove, dichiara, in modo evidente riguardo al contesto generale di questo antologia: “A chiunque cerchi ancora una voce con risposte / il passato insegna niente ”. Alcuni dei pezzi più stravaganti di altri poeti raggiungono o rappresentano la stessa conclusione: nemmeno il passato può aiutarci a capire cos’è il presente. Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ”— come un’epigrafe, a condizione che le sue parole solenni siano stati seguiti da diversi punti interrogativi.

E poi c’è Alfredo de Palchi. Nato nel 1926, è il poeta più anziano selezionato e autore di un’opera che è allo stesso tempo tematicamente coerente e variata. Le poesie qui scelte appartengono ai suoi pezzi relativamente recenti, e costituiscono un angolo autobiografico piuttosto diverso da quello espresso in alcuni dei suoi primi scritti, che raffigurava la sua sofferenza durante le conseguenze della seconda guerra mondiale. Eppure anche allora, come ora, le analogie sono presenti nel suo lavoro. Qui, in una poesia del 2009, scrive: “Se solo io potevo rivivere l’esperienza / l’inferno sulla terra dentro / la fisica dell ‘”oscurità” la materia “sta crollando / in un buco pieno di vuoto / finché non diventa” energia oscura ” in qualche altro / universo in qualche altro vuoto / dove / la sequenza di la vita si ripeterebbe. “La poesia procede verso una conclusione tipicamente tonica, per non dire altro, ma non bisogna trascurare l’immagine di Alfredo De Palchi della sequenza di vita che viene “ripetuta” e che individua ordinatamente uno dei punti centrali di questa antologia. La necessità di una ripetizione, per così dire, è formulata in vari modi, implicitamente o esplicitamente, a seconda del poeta, e la domanda di fondo che tende a unificare molte delle loro singole poetiche è quindi questo: per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo prima di tutto cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o attraverso alcuni paralleli ingannevolmente inverosimili?

Renato Minore 1

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Dopo gli ultimi post sulla Antologia di poesia italiana contemporanea How the Trojan War Ended I don’t Remember, (Chelsea Editions, New York, 2019), torniamo per un momento al capostipite della nuova poesia europea, a Tomas Tranströmer (1931-2015), Commenti di Francesco Paolo Intini, Gianna Chiesa Isnardi

foto-ombre-sfuggenti

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Scrive Tomas Tranströmer

nel risvolto di copertina del libro di esordio 17 poesie (1954):

«Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, cultura e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha lì’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati e concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una contro tendenza nei confronti di questo processo. Le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare».

Foto fuga nel corridoio

Così chiosa Gianna Chiesa Isnardi

«Per corrispondere a questo intento occorrerà dunque un approccio completamente diverso, una diversa capacità di osservare il mondo. Non si dovrà partire dunque tanto da tecniche e strategie comunicative, quanto, piuttosto, da stimoli esterni – trascurati dalle strutture convenzionali e spesso all’apparenza incoerenti – che siano capaci di destare impulsi interiori: frammenti che infondano una ispirazione. Un atteggiamento di sostanziale passività, di ascolto e ricezione cui solo in un momento successivo seguirà l’elaborazione poetica nella quale coscienza, capacità analitica e intelletto saranno chiamati a operare. La difficoltà (il lavoro segreto del poeta) consiste in questo: far emergere questi frammenti, rivestirli di immagine, di suono, di ritmo, in una parola di poesia. Il che significa anche, forse soprattutto, creare un insieme senza falsificare ciò che in questi frammenti portatori di ispirazione vi era di originario o di poco chiaro… Il testo poetico si pone dunque come luogo d’incontro in cui si congiungono sul piano dell’accostamento orizzontale e su quello dell’intersecazione verticale da un lato le immagini e dall’altro tutto ciò che esse simboleggiano o evocano.

La poesia dunque piuttosto che un centro statico in cui gli elementi convergono verso una definitiva collocazione, è un luogo dinamico nel quale essi possono, nella loro intrinseca fragilità e mutevolezza, manifestarsi e interagire per esprimere intuizioni, visioni, illuminazioni, squarci di verità ma anche, ma anche e contemporaneamente, riflessioni sempre nuove, incertezze, ambiguità e non da ultimo, dubbi. Nella poesia di Tranströmer l’uomo sta al centro di un mondo nel quale non è più capace di orientarsi e con il quale ha perso il contatto… Una poesia dunque ‘aperta’, un’arte che si sforza di indagare l’ininterrotto fluire della vita…

Estrema semplicità significa in Tranströmer estrema concisione. la prima impressione che scaturisce dalla lettura dei testi di questo autore è infatti quella di un perfetto nitore delle figure poetiche proposte cui fanno da immediato contrappunto le riflessioni che ne scaturiscono. Pressoché totale è l’assenza di elementi non direttamente aderenti all’immagine e alla sensazione evocata e la concentrazione – che egli stesso ha definito come essenza del parlare poetico – è massima. precisione nelle scelte lessicali e strutturali, prevalenza delle frasi affermative e della struttura lineare, relativa povertà verbale, laconicità, ricorso in misura minima agli elementi connettivi del discorso, frasi talora apparentemente frammentarie, costruzioni ellittiche, uso misurato della ripetizione con l’unico scopo di ricondurre l’attenzione del lettore al punto focale della riflessione poetica, attrazione reciproca fra elementi contrastanti, ossimori, associazione (seppure non immediatamente percepibile) di immagini e conseguentemente di idee, forza espressiva della parola portata all’estremo: un’arte della concisione che risle, almeno in parte, a grandi modelli del ‘900 come, soprattutto, Ezra Pound, T.S. Eliot o il grande Harry Martinson.»*

Si tratta di un documento assai importante perché ci rivela una concezione della poesia molto distante da quello in auge negli anni cinquanta in Italia. Ancora oggi queste parole del poeta svedese suonano come un invito a cambiare la prospettiva dalla quale consideriamo il linguaggio e il mondo. È da queste semplici osservazioni di Tranströmer che nasce la nuova sensibilità che condurrà alla nuova poesia della nuova ontologia estetica.

foto donna con ombrello

Ancora Tranströmer

«…la musicalità delle parole nel senso che uno sperimenta con vocali e consonanti in un certo modo, non è mai stata una attrattiva particolare per me». Tuttavia, nella stessa occasione, parlando del proprio desiderio giovanile di divenire compositore, rivela: «… ma poi ci sono sempre taluni impulsi musicali, che mi arrivano e a volte ciò succede in relazione a una poesia, così c’è come una sorta di ombra della poesia che si fa avanti sotto forma di esperienza musicale. Il che io non registro ma resta là in qualche modo nella coscienza». Inoltre, il poeta svedese precisa che la musica è da lui considerata comunicare direttamente e ispirare in modo straordinario.

In un’altra occasione, dice: «Io sono stato influenzato dal linguaggio della musica, il linguaggio della forma, è difficile dire in quale modo». Qualche tempo dopo, a chi gli domandava se sentisse le limitazioni imposte dalla lingua, il poeta rispondeva così:

«Le sento in modo straordinariamente forte – e forse la mia poesia è una sorta di compensazione per ciò che in realtà andrebbe espresso in musica. «La musica mi dà sempre forti emozioni. Senza musica non posso vivere. Tuttavia io non credo che si possano trasporre automaticamente le forme della musica nella lirica… Spesso forse c’è una sorta di orchestrazione nelle mie poesie. La musica ha questo in comune con la poesia, che è uno spazio di tempo, con un inizio e una fine, a differenza delle arti figurative.»

La musica. E io resto prigioniero
nel suo arazzo

*

La musica è una casa di vetro sul pendio
in cui le pietre volano

*

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

* Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003, p 58 e segg.ti

La Lugubre gondola, composizione per violino e pianoforte. In visita a Venezia presso la figlia Cosima e il marito di lei, Richard Wagner, nell’inverno 1882-1883, List si era ispirato al passaggio di gondole funebri dirette al cimitero, e aveva tentato d di riprodurre in musica l’impressione che ne aveva ricevuta. Trauergondel fu, secondo una dichiarazione dello stesso autore, una sorta di composizione profetica in quanto qualche tempo dopo (il 13 febbraio del 1883) Wagner moriva.

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

Tomas Tranströmer

da La lugubre gondola (1996)

I
Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida
quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner.
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.

Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata. Continua a leggere

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Intervista di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa sulla pubblicazione della Antologia della poesia contemporanea italiana, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions di New York, pp. 330 $ 20.00

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan war Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura di Roma, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Strilli RagoIntervista  di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa

Domanda:

La prima domanda è molto semplice, anzi, ingenua: Perché una Antologia della poesia contemporanea italiana?

Risposta:

Era necessario mostrare un percorso significativo della poesia italiana contemporanea, indicare alcune radici, da dove si viene: dal modernismo europeo, e dove si va: verso un nuovo modernismo. Il mio intento è quello di mostrare come certe linee di forza che hanno attraversato e fermentato l’area della poesia del modernismo europeo agissero, fossero presenti da lungo tempo anche in Italia.

Domanda:

Nei tuoi scritti critici ripeti di frequente che la poesia italiana dal 1971, anno di pubblicazione di Satura di Montale, non ha prodotto poesia di alto livello. E allora, ti ripeto la domanda: Perché una Antologia della poesia italiana contemporanea?

Risposta

Riformulo in altro modo la mia precedente risposta. Perché uno o due poeti di altissimo livello possono trovare terreno fertile per svilupparsi soltanto quando il terreno della koiné linguistica e stilistica è stata messa a punto da un lavoro a monte, quando è stata preparata dal lavoro di almeno due, tre generazioni di poeti, quando sono state messe a punto quelle condizioni filosofiche di poetica, lessicali e stilistiche che soltanto possono consentire la nascita e lo sviluppo di una poesia italiana di alto livello.

Strilli Gabriele2Domanda: Qual è il progetto culturale che ti ha guidato?

Risposta: Detto con parole semplicissime, trovare la via verso una nuova ontologia estetica nell’orbita della poesia modernistica che si è sviluppata dopo la fine del Moderno, dopo la fine della Metafisica. Rispondere in qualche modo alla domanda: Quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?

Domanda: Come si pone la tua Antologia? Voglio dire: immaginiamoci la poesia come un Parlamento, un emiciclo che va dalla destra alla sinistra, la tua Antologia come e dove si colloca? A destra?, a sinistra?, al centro?

Risposta: La poesia di una comunità nazionale trova le condizioni favorevoli per la sua espressione soltanto quando si pone «al centro» del fare estetico, quando la «nuova poesia» si pone strategicamente «al centro». L’opera di «opposizione», come tu la definisci, alla fin fine finisce per impoverire l’opzione della «nuova poesia», perché la relega in una funzione ideologica, strumentale agli altri interessi in competizione.

Domanda: Cosa intendi con «altri interessi in competizione»?

Risposta: Voglio dire che nel secondo e tardo novecento, diciamo, dagli anni sessanta in poi, le petizioni di poetica sono diventate posizioni di poetica, in quanto erano il prodotto di interessi di parte di certe aree di letterati (Roma e Milano); si è trattato di petizioni ed attività auto promozionali, prive di retroterra culturale, filosofico. Si è fatta della agitazione, della propaganda, della comunicazione. I più esperti hanno puntato sulla auto storicizzazione.

Strilli Busacca Vedo la vampaDomanda:

È noto che tu sei da tempo il sostenitore di una linea che va dalla poesia modernista europea che fa capo a Tomas Tranströmer di 17 poesie del 1954 alla «nuova poesia» della «nuova ontologia estetica». In questo tragitto, meglio sarebbe chiamarlo ventaglio di possibilità espressive, quale è il percorso che tu hai tracciato con questa antologia?

Risposta:

È in questo nuovo orizzonte culturale che lentamente si fa largo anche in Italia che nasce la «nuova poesia», preannunciata da libri  stilisticamente innovatori come Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, ripubblicato con tutte le poesie inedite nel 2018 con Progetto Cultura di Roma, Stige. Tutte le poesie (1990-2002), e Altre foto per album (1996) di Giorgia Stecher la cui opera completa è in corso di stampa per Progetto Cultura.

Loquor ergo non sum, può essere questo il motto da cui partire per il posizionamento della nuova ontologia estetica. Al di sotto e dietro del loquor non c’è nulla, non c’è un «io» se non come costellazione di significanti inconsci. E così cade la stessa opposizione tra il letterale e il figurato che ha retto la poesia tradizionale del novecento. Con la caduta di quell’opposizione è caduto anche un certo «modello» di forma-poesia che implicava un certo modo di considerare i problemi di natura estetica. Con il libro di Tranströmer del 1954 quel «modello» va in disuso, ma da noi lo si è iniziato a capire con quaranta anni di ritardo, quando sono comparse le prime traduzioni in italiano del poeta svedese. La poesia del «nulla» di Tranströmer era in realtà «pieno» di cose, solo che non lo sapevamo e non lo potevamo immaginare.

Così, tra essere ed ente si è aperto un abisso incolmabile. Si è scoperto che l’ente non rimanda all’essere se non da un luogo lontanissimo qual è il linguaggio. È da qui che parte la nuova ontologia estetica di cui il padre nobile lo rinveniamo in Tranströmer.

Nella poesia, diciamo così, tradizionale, il letterale e il figurato funzionavano come categorie proposizionalizzate proprie della differenza problematologica (e ontologica). All’interno di questo quadro concettuale si cercava sempre «altro» rispetto ad un significato-significante e in quell’«altro» si cercava il contenuto di verità; in quello che si era detto si cercava il non-detto, nell’espresso l’inespresso. Si cercava insomma il «senso».

Nella nuova ontologia estetica siamo fuori di questo orizzonte culturale che vede le categorie come proposizionalizzate, nell’ottica della NOE il letterale e il figurato sono sinonimi, sono sovrapponibili, è questa la grande rivoluzione che riesce arduo comprendere da parte dei letterati digiuni di letture e di riflessioni filosofiche.

Strilli Tranströmer 1Domanda:

A tuo parere la poesia italiana del secondo novecento è all’altezza della più alta poesia europea?

Risposta: È dagli anni settanta, dall’anno di pubblicazione di Satura (1971) di Montale che la poesia italiana ha cessato di produrre poesia di alto livello; si è invece prodotta una «discesa culturale» dalla quale la poesia degli anni seguenti non si è più ripresa; le generazioni più giovani si guardavano bene dal mettere in discussione i risultati raggiunti da quella precedente. E così via, a catena. Il risultato è stato che per trenta anni la poesia italiana ha vissuto una situazione di stallo. Ed è evidente che in queste condizioni lo sviluppo di una nuova poesia e di una nuova poetica sia stato oggettivamente reso difficoltoso.

Domanda: Hai scritto di recente questa frase sibillina: «Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci». Vuoi spiegarci meglio cosa intendi?

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaRisposta: C’è nella nuova ontologia estetica quello che possiamo indicare come una intensa possibilizzazione del molteplice. Continua a leggere

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Letizia Leone, Le ragioni di una antologia americana di poesia italiana contemporanea, How the Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 & 20.00, Poesie di Chiara Catapano, Alfredo de Palchi, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, (Edited by Giorgio Linguaglossa, Preface by John Taylor, Translated from the Italian by Steven Grieco-Rathgeb)

Antology How the Troja war ended I don't remember

È uscita negli Stati Uniti la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese curata da Giorgio Linguaglossa e tradotta da Steven Grieco Rathgeb con prefazione di John Taylor, edita da Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, How the Trojan War Ended I Don’t Remember, titolo che ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per Progetto Cultura, Come è finita la guerra di Troia non ricordo. I poeti si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926 anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura il cui primo libro è del 1978 Brillanti di bottiglia, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti sono: Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Antonella Zagaroli.

Letizia Leone

Le ragioni di una antologia

Un lettore forte americano che si trovi tra le mani questo elegante volume di 330 pagine rifletterà inevitabilmente sul fatto che in Italia la poesia non è un ‘vuoto a perdere’ ma, erede della più nobile tradizione dantesca, sia ancora in grado di armarsi di una forte autoriflessività filosofica e critica. Insomma, anche nel post-moderno o tardo-moderno l’arte della parola, «l’anello più debole della catena dei linguaggi» (1), riesce ad esprimere una densità gnoseologica tracciando un solco invalicabile con l’atmosfera politico-culturale del paese che la esprime. Naturalmente questa sarà una prospettiva distorta dalla mancanza di informazioni. In Italia si potrebbe morire per intossicazione da scrittura consolatoria e minimalista. Tante piccole e usurate cronache emotive dell’io come pacchetti vuoti di sigarette compilano le collane degli editori storici. Il target promozionale è precostituito. Libretti di stagione, foglie morte per colmare la misura pubblica della futilità, si sa, mentre i Poeti, in numero esiguo, scrivono come antichi amanuensi trecenteschi ai margini. A latere non più dei grandi volumi in folio delle cronache domestiche ma all’ombra dell’audience del reality show di una «letteratura postuma», ingenua e sentimentale, nell’accezione di Ferroni.

Dunque poesia facile, quella che oggi va per la maggiore, operazione di superficie, gioco linguistico incapace di ogni interrogazione sul senso o su presupposti ontologici: «Accade che nella poesia meno accorta di questi ultimi tre decenni le ipotesi poetiche che operavano sull’assunto di una lettura diretta del reale, che il ‘reale’ fosse lì, stabile e duraturo, almeno quanto si pensava che lo fosse, si sono rivelate ingenue e acritiche, si sono rivelate essere ipoteche poetiche piuttosto che ipotesi di poetica.» (2)

Nella sua introduzione critica John Taylor individua il comune taglio prospettico di questa ars poetica. I poeti selezionati dal curatore Giorgio Linguaglossa, nella loro eterogeneità propongono una sorta di nuova poesia modernista italiana (a colmare una lacuna importante nella nostra tradizione) le cui peculiarità il critico statunitense assomma nella formula «versi più massimalisti che minimalisti» affermando che l’elemento più macroscopico è l’orientamento non autobiografico e il riciclo o riuso sincronico dei materiali mitici, soprattutto della tradizione greco-latina.

Scrive John Taylor: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o riutilizzare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste Land e “The Love Song di J. Alfred Prufrock” vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti qui antologizzati.. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare le poesie storiche di C. P. Kavafis che resuscitano questa o quella figura del passato. Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Kavafis, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, per tutto il tempo dando una svolta metaforica al “tonno in scatola”.»

Per John Taylor una domanda è sottesa alle poetiche esplorate nel libro (collegata alla questione dell’oblio della memoria e di una nuova percezione del fattore tempo): «per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o ingannevolmente attraverso qualche improbabile parallelismo?»…«Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ».

Di certo «Il Logos è diventato spazio problematizzato» scrive Linguaglossa in merito al forte ripensamento teorico-metodologico dei poeti antologizzati quasi tutti reduci dall’officina a cielo aperto della Nuova Ontologia Estetica. Una riflessione critica a vocazione interdisciplinare, questa, che si concretizza in una ricca dialettica sulle pagine telematiche della rivista on line L’Ombra delle Parole.

In un pressoché quotidiano engagement dialogico la questione cardine (sebbene sempre presente) non è più quella dei linguaggi, «la verità è che non siamo più dentro la problematica dei linguaggi, per via del fatto che i linguaggi non fanno più testo, si sono extra-territorializzati, sono diventati delle zattere significazioniste…» (3)

Dunque con l’uso di una strumentazione complessa si tratta di ripensare una filosofia dell’arte. Una riflessione disposta trasversalmente tra scienza, filosofia, sociologia e ‘scienze umane’ che porti alla rielaborazione poetica di tutte quelle categorie de-valorizzate dal nichilismo (soggetto, linguaggio, verità, storia, etica). Progetto ambiziosissimo, arduo che si basa di una forma «eterodossa del sapere».

Partire dalla certezza che per oltrepassare il guado di tutti i cliché post-moderni, (dalla perdita del fondamento al crepuscolo del soggetto…) è necessario un cambiamento di paradigma. Una rifondazione, una nuova maniera di pensare il discorso poetico. Una frammentazione di vuoti e di pieni dove il nulla (Nichts) quale tonalità di fondo (Grundstimmung) del mondo dell’uomo, cioè dell’esistenza, risulti «come uno stato emotivo ineliminabile della Nuova Poesia.»

È questa è in fondo la tonalità emotiva fondamentale, la spia rossa che fluttua tra questi testi, la dove l’invito a leggere una certa poesia significa anche quello ad inoltrarsi nell’abitare spaesante, nell’enigma, nelle crepe che si aprono tra i versi.

Da un dialogo impossibile tra Linguaglossa e Heiddegger:
Martin H.: «La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica.»

Giorgio Linguaglossa: «Ma noi non poniamo nessuna domanda al niente, noi ci limitiamo a prenderne atto, ad accettare, come tra due parentesi tonde, che qualcosa aleggi come tra due parentesi graffe all’interno di un grande mare dell’immobilità assente che sta al di là del Nulla e lo contiene e lo sdogana, per così dire.»

Chiara Catapano_2

CHIARA CATAPANO

A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita

1
A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita,
Dovrò presto fare i conti con quanto fa pendere la bilancia
Oltre i confini estremi della misura.
Quando morirò vorrei leggessero Elytis al mio capezzale:
Nessun Cristo migliore della sua Maria Nefèli potrebbe
ungermi la fronte
Prima che il nero mi raggiunga con l’ultimo respiro.
Accompagnatemi a Oxòpetra e abbandonatemi distesa sulla roccia
Come un frutto di mare aperto.
Lasciate che mi dissipi l’aria e non siano i vermi giù in profondità
a svezzarmi:
Sia la natura a pedinarmi e, in segreto, mi assolva
Benché anche per un sol giorno avrò creduto che concretezza è male.
Basterebbe levarsi di torno l’opinione come gli abiti la sera:
Invece stiamo ancora a implorare l’un l’altro approvazione
Per il modo in cui mordiamo il frutto appena spiccato.

Non esiste religione che non comprenda in segreto violazione
Nelle segrete stanze della fede.

Ho chiuso gli occhi come per un miracolo.
Era gennaio e dentro l’estate già s’apre un varco:
Il mio errore sta nell’imporre un tempo unico alle cose
Ed io viverci male, col ritmo del rammendo.
In silenzio l’uomo raccoglie dalla bianca roccia piante selvatiche,
E il poeta dà loro un nome:
E nella pausa tra il gesto e la parola vive l’eternità iterata mille
e mille volte,
Finché anche l’oro dell’icona non avrà rivelato il tuo stesso volto
dipinto da Dio
Sulla tavola nel legno della croce.

Finiamola qui. Voglio abbandonare la paura al crocevia
Dove con mani leggere accetterò la soma della Sfinge
E i quesiti che valgono anche quando ormai tutto è svelato.
Tebe è chiusa in un morbo d’ignoranza, nessun assedio
abbastanza definitivo
Per abbattere le mura ed espugnare la città affamata.

Siamo vivi per puro caso: divinità luminosa liofilizzata
in equazioni
O deposta con velluti e porpora nel più remoto dei remoti cieli,
Porterai sempre il nostro nome.

Cerchiamo comprensione,
per non doverci assumere la responsabilità di noi stessi.

1
Judging by how things go along the ridge of life
Soon I must reckon with what tilts the balance beyond all sense
of measure.
When I die I’d like them to read me Elytis at my bedside:

No Christ better than Maria Nefeli could anoint
my forehead
Before blackness reaches me with my last breath.
Take me to Oxopetra and leave me there lying on the cliff
Like an open oyster.
Let the air waste and scatter me, lest the worms wean me deep down:
Let Nature shadow, and secretly absolve me
Even though I may for a single day have found evil in concreteness.
We would only need to shed opinions like our clothes at night:
Instead here we are still imploring each other’s approbation
For the manner in which we bite the freshly plucked fruit.

There is no religion that does not include a secret violation
In the secret chambers of faith.

I closed my eyes as if by miracle.
It was January, and a passage already opens in the summer:
My mistake is to force a single time upon things
And then live poorly, in rhythm with the darning needle.
In silence man gathers wild plants from the white rock
And the poet names them:
And in the delay between act and word, eternity lives many
thousand times over
Till the icon’s gold also reveal your countenance painted by God
On the panel in the wood of the cross.
Let’s finish it here. I want to abandon fear at the crossroads
Where with light hands I will accept the Sphynx’s burden
And the queries that are still valid after all is revealed.
Thebes is shut inside a plague of ignorance, no siege so final
To knock down the walls and overwhelm the starving city.

We are alive by pure chance: divinity, luminous and rarefied
in equations
Or laid down with velvet and purple in the remotest of remote skies,
You shall always bear our name.
We seek understanding So that we need not be answerable to our own selves.

Onto De Palchi

ALFREDO DE PALCHI

da Paradigma / from Paradigm

Sono il dilemma
che oltraggia la veste monacale usata dalla mente,
e per il suo corpo incolume
sono lo sposo della mensa
adorato ogni notte in ginocchio presso
il letto spogliato quanto te;
la veste intatta ad un chiodo a poco a poco si chiazza
di unguenti spalmati sulle piaghe dell’intimo punire
mentre tenti di fermare la mano surreale che ti accende
e ti invischia nella sua potenza.
La finestra della cella è chiusa, l’uscio sbarrato,
i muri calcinati assorbono le urla mute;
e tu, monacale, divarichi le carni ustionate,
e con bocca saturnina piena di lingua che serpeggia lucifera
avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale — prendimi come vuoi,
in tutte le bocche gonfie di rosa, turgide di passione,
riempiti del tuo salvatore.

4 febbraio 2000

I am the dilemma
that outrages the nun’s habit used by the mind,
and for your unharmed body
I am the groom of the altar,
adored by you on your knees each night
next to the bed undressed as you are.
The garb intact on a nail bit by bit is stained
by unguents smeared on sores in the intimate punishment
as you attempt to stop the surreal hand that ignites you
and entangles you in its power.
The cell window is shut, the exit blocked,
the whitewashed walls absorb your silent screams
and you nun-like divaricate your scalded flesh
and with saturnine mouth full of meandering luciferian tongue
you envelop in the concept my inflamed calvary,
conquered with the religion of your carnal essence—
take me as you will, in all your mouths swollen with rose,
turgid with passion,
fill yourself with your savior.

4 February 2000

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana — la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo il vino
“bevete, questo è il mio sangue.”

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino — simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;
e tu inchioda sulla stessa croce il mio amore
per le sue carni maestose.

Grace Church, NYC, 11 giugno 2000

I
immerse myself in you Christ,
unharmed spirit of my carnal religion
of human beast—my sacred communion
is the manifestation of all you express breaking the bread
“here, eat, this is my body”
and offering the wine
“drink, this is my blood.”

I break myself like the dinner bread
and bleed, like the offering of wine—symbol of precious
blood; I’m the carnivore
the tonguing cannibal devouring the body
drinking the blood of the wound
so that I’ll be remembered:
and you nail my love on the same cross
for her majestic flesh.

Grace Church, NYC, 11 June 2000

*
Perché brucio di calce nel sangue
porgi la tetta nutriente di succhi
all’età che sgela il siero
nella radice ossea

sbiancata
ramifica germi sotto la pelle
terragna di raccolti cereali
verdure al mattino di brina
zucche e vendemmie

dal fondo ciclico di filari con pioppi
e olmi sulle rive del fossato
guizzante di pesci all’alba
arrivi quasi sveglia
nel circolare vortice

hai il sapore del riposo
non gli ultimi voli della notte e il brucare in silenzio
l’odore acre del letame fumigante a mucchi
per i campi di novembre
e la crescita nei solchi con il sole che scala
l’orizzonte della perfetta curva

che si allontana
si allontana e visibilmente si fonde
nel turbine che trascini nell’aria

19 novembre 2007

*

Because my blood is burning white with lime
you feed me the nourishing juices of your breast
at an age when serum thaws
in the bone root

off-color
it spreads seeds under the skin
earthy from the harvest: cereals
vegetables in the dewy morning
squash and vintage grapes

from the cyclical depth of rows of poplars
and elms by the banks of the moat
that flickers with fish at dawn
you arrive almost awake
in the whirling vortex

you taste like sweet repose
with the last nocturnal flights and the silent grazing
the acrid smell of manure steaming in pats
through November fields
and the growth in hedgerows under the sun as it scales
the horizon of a perfect curve

that moves away
moves away and visibly melts
into the whirlwind you drag through the air.

19 november 2007

Mario Gabriele Lucio
MARIO M. GABRIELE

da In viaggio con Godot / from Traveling With Godot

Un Ermitage con combine paintings
di Rauschenberg
e un guardiano al limite degli anni
dove chi va oltre non lascia traccia;
— tanto vale restare qui — ,
disse Alicia che temeva il cambio di stagione.
Non è stato facile lasciare la casa in via delle Dalie.
Giose è rimasto con Benedetta in Guysterland
e con le piccole gocce di lacrime amare.
Quando non è nel Vermont
manda romances and poems.

Non basta un dollaro per incontrare — la Bella Carnap
fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro — .
Sweeney ha oltrepassato il confine,
lasciando un Frammento di prologo
dopo aver salutato per sempre Mrs. Turner.
Abbiamo trovato serpenti nel giardino.
Una sofferenza l’ha patita la farfalla
prima di volare sul concerto
per pianoforte e orchestra di Richter.
Kafka uscì distrutto nel Processo.
Ci fu chi riferì su l’Assassinio nella Cattedrale,
ma i vecchi del borgo giocavano a poker
senza fare nomi.

*

A Hermitage with combine paintings
by Rauschenberg
and a keeper on the verge of retirement
where those who go beyond leave no trace;
“We might as well stay here,”
said Alicia who feared the change of season.
It wasn’t easy to leave the house in Via delle Dalie.
Giose stayed back with Benedetta in Guysterland
and with the little drops of bitter tears.
When he is not in Vermont
he sends romances and poems.
A dollar is not enough to meet The Carnap Belle
made of goat skin and golden hoofs.

Sweeney has now crossed over the border
leaving a Fragment of a prologue
after saying goodbye for ever to Mrs. Turner.
We found snakes in the garden.
The butterfly suffered some distress
before flying onto Richter’s
Concerto for piano and orchestra.
Kafka came out of The Trial in pieces.
There were some who reported on Murder in the Cathedral,
but the old men in the hamlet played poker
without revealing names.

*

Donna Evelina piantò le orchidee nel giardino.
Lucy mi volle con sé a vedere l’erba sotto la pietra.
Un abate ci invitò a salvare l’anima.
— La città — disse, — è un luogo proibito
e l’azzurro è il centro dell’iride — .
Un cappellino di velluto rosso
accolse le lacrime dal cielo
come un’acquasantiera.
Alle nostre panchine tornammo
a spargere semi,
germogliando e appassendo dentro casa.

A piedi nudi ci avviammo
in un bosco di prataioli notturni.
Il freddo ci lasciò contriti,
non indietreggiò davanti ai rami
abbattuti dalla neve.
Non sapeva che da lì, a breve,
sarebbero venute le idi di marzo.

Fernandez non conosceva — Caroline in Sickness — .
“Buenos dias, Senior. Siamo turisti,
veniamo dal Sud per vedere Guernica
e il Ritratto con Maternità
su fondo bianco di Francoise Gilot
e dei suoi due bambini. Ne sa qualcosa? — .
— Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National” — .

*

Lady Evelyn planted the orchids in the garden.
Lucy wanted me beside her to see the grass under the stone.
An abbot called on us to save our souls.
“The city,” he said, “is a forbidden place
and blue is the center of the iris.”
A little red velvet hat
gathered the tears from the sky
like an aspersorium.
Back we went to our benches
to scatter seed
as we sprouted and wilted indoors.

We set off barefoot
in a wood of night champignons.
The cold left us feeling remorseful,
it didn’t retreat before the branches
knocked down by the snow.
It never knew that soon enough
the Ides of March would be with us.

Fernandes was not acquainted with Caroline in Sickness.
“Buenas dias, Señor. We are tourists,
we’ve come from the South to see Guernica
and Portrait with Maternity
on a white background, by Françoise Gilot
and her two children. Do you know anything about it?
“Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National.”

*

Sulla Swiss Air leggemmo I Racconti Ginevrini
e La Salamandra di Octavio Paz.
Si fa colazione insieme, questa mattina, Miriam,
dopo il saccheggio dei sogni.
La notte è cuscino e coperta.
Oh, Principessa, qui davvero comincia il count down!
La stanza accumula fumi, si ridesta al mattino.
Tutto si rallegra in un Buon giorno Madame.
La terra è un braciere. Non vale discuterne ancora.
Già le cose, come sono, ci spezzano le dita.
Non c’è porto sicuro dove andare.
Aspettiamo un miracolo
da Nostra Signora di Guadalupe.
Ora siamo in due a sognare una gita
non prima aver chiuso il giardino,
ritoccato il viso a Marybloom,
così non può dire che la giovinezza è sparita.
L’anno è passato.
La pioggia rivuole le sue note da pianoforte.
Una musica dal sottoscala saliva al cielo.
Natalie Cole cantava Unforgettable.
Ora i miei morti sono quelli che non ricordo.
Gli altri, figuranti nella memoria,
vivono in orizzonti stretti,
se ne stanno in silenzio nel giardino di Klingsor.

*

On Swissair we read The Geneva Stories
and The Salamander by Octavio Paz.
This morning it’s breakfast together, Miriam,
after the plundering of dreams.
The night is pillow and blanket.
Oh, Princess, here the countdown begins in earnest!
The room builds up fumes, reawakens in the morning.
Everything brightens up in a Buon giorno, Madame.
The earth is a brazier. There’s no point discussing it any more.
Things as they stand are already breaking our fingers.
There’s no safe haven to go to.
We await a miracle
from Our Lady of Guadeloupe.
Now it’s two of us dreaming of an outing
not before we’ve shut the garden,
given Marybloom a face enhancement
so she can’t say her youth is gone.
The year is over.
The rain wants its piano notes back.
From the basement some music rose to the sky.
Natalie Cole was singing Unforgettable.
Now my dead are those I don’t remember.
The others, picturing in my memory,
live in narrow horizons,
they keep silent in Klingsor’s garden.

donatella-giancaspero

Costantina Donatella Giancaspero

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