Archivi del mese: giugno 2014

TRE POESIE di IVAN POZZONI – “I destini dell’arte: dall’Atelier, alla «filiera»” e una pseudo poesia di Lorenzo Pezzato

Ivan Pozzoni Patroclo non deve morire    canciani

 Christopher William Bradshaw Isherwood; Wystan Hugh ('W.H.') Auden by Louise Dahl-Wolfe

Christopher William Bradshaw Isherwood; Wystan Hugh (‘W.H.’) Auden by Louise Dahl-Wolfe

L’estenuante richiamo, introdotto da ogni sorta di «autore», nell’area dell’editoria, alla teoria dei c.d. diritti d’autore mi obbliga a un breve tentativo di analisi dell’insensatezza e dell’anacronisticità di tale atteggiamento «alienato». Già nel moderno, «il grande successo mondano e di mercato dell’arte contemporanea rischiava di neutralizzare e imborghesire le tensioni più vitali delle ricerche d’avanguardia. Contro questa tendenza reagiscono le nuove avanguardie del dopoguerra […]» [F. Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2008, 18]: il «[…] successo commerciale e mondano dell’arte d’Avanguardia esplode negli anni Venti […]» [ivi, cit., 15], mettendo in crisi il modello medioevale e umanista di individualità dell’«opera d’arte»; nella definizione di «opera d’arte» cade il riferimento esclusivo al binomio artista / pubblico («La funzione del pubblico […] ha un grande peso per quello che riguarda il consolidamento e allargamento del successo di artisti e opere, ma non incide per nulla nella prima fase di selezione e affermazione dei nuovi artisti e delle nuove tendenze, dove contano solo gli addetti ai lavori e il pubblico ristretto del microambiente artistico […]» [ivi, cit., 49]). Col tardomoderno – come sostiene B. Rosenblum – il modello stesso dell’artista come unico autore dell’«opera d’arte» si sgretola, «alienando» l’artista contemporaneo, liminalizzandolo: «La situazione paradossale dell’artista contemporaneo è che, da un lato, la sua figura viene per molti versi mitizzata, in funzione dell’ideologia dominante, in quanto simbolo e paradigma “assoluto” della libera creatività individuale […] dall’altro lato, per poter emergere, affermarsi ed essere riconosciuto a livello socioculturale e socioeconomico, deve accettare, in misura più o meno pesante, di adeguare la sua produzione ai condizionamenti “normalizzanti” del sistema, con effetti indubbiamente alienanti» [ivi, cit., 175/176]. L’«opera d’arte» diviene «sistema», à la von Bertalanffy, o, meglio, «filiera», interazione feedback tra «agenti» diversi (artista / mediatori culturali / editore / tipografia / distributori / corrieri / depositi / negozi / destinatari): «[…] dalla nostra prospettiva di analisi sociologica, l’artista obiettivamente non risulta essere l’unico creatore dell’opera d’arte, ma solo uno degli agenti nel processo di realizzazione di questo specifico prodotto allo stesso tempo culturale ed economico, di questa speciale “merce culturale”» [ivi, cit., 175].

salman-rushdie-arriva-a-londra-nel-2011-con-amica

salman-rushdie-arriva-a-londra-nel-2011-con-amica

  Che senso ha, se non a scopo parassitario, come anacronistico sindacalista di diritti defunti, il reclamare e berciare dell’artista volti ad avocare interamente a se medesimo i diritti d’autore su una determinata «opera d’arte», trascurando, nella sua condizione di alienato, o, nella maggioranza dei casi, di disinformato totale sullo stato sociologico della sua stessa arte, di ricordare i c.d. doveri d’autore?         L’«opera d’arte» come «filiera» di interazioni feedback tra «agenti» diversi ha urgenza di riscoprire la sua natura contrattuale socialista, contro ogni forma di capitalismo, contro ogni logica di mercato, contro ogni incidenza assistenzialista; artista, mediatori culturali, editore, tipografia, distributori, corrieri, depositi, negozi e destinatari sono immersi in una vicendevole relazione di diritti e doveri.

warhol_marilyn

warhol_marilyn

Non essendo «autore» dell’«opera d’arte», l’artista non alienato e non ignorante, deve assumersi il dovere di concorrere ad essa, come tutti i restanti «agenti» della «filiera», in tutti i fattori di «produzione» (creatività, lavoro e finanza). Nel tardomoderno, con l’affermarsi del dato sociologico della collettività dell’«opera d’arte», è alienazione dell’intellettuale inattuale che, benché immerso in contesti di partnership estesa di creazione dell’«opera d’arte», continui a delirare, con sicumera o aggressività, di diritti d’autore, ignorare la nuova categoria socioeconomica del dovere d’autore, smarcandosi, con arroganza parassitaria, dai costi della (anche) sua attività. Col riconoscimento del dovere d’autore è finalmente in grado di nascere e sopravvivere, in editoria, contro i cartelli della macro e necro editoria, una reale microeditoria socialista, incentrata sui valori dell’equità e della solidarietà.

(Ivan Pozzoni)

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

 

 

 

 

 

 

 

Ivan Pozzoni

MALA TEMPORELLA CURRUNT

Mala temporella currunt, i tempi dell’artista raccomandato,
senza ricevuta di ritorno ad uno stile insanguinato,
i tempi delle crocchie editoriali, degni epigoni del cucchismo,
– Cucchi esordì all’Inter nel lontano 1982- un maestro d’antan-(agonismo),
i tempi delle sensuali scrittrici in versi, prostituite alla sintassi
versate, inoltre, con editor, redattori, dirigenti, a collaudare materassi,
i tempi delle riviste nazionali aperte a cooptazioni
almeno io mi vendo a tutti a 20€, senza rotture di coglioni.

O temporella, o mores! Le mie Catilinarie post-moderne
annoierebbero persino Cicerone, se non Catone,
novello uticense utente, vittima di un’editoria latente,
distinta in microeditoria, condizione di scarsità di risorse,
e macroeditoria, causa aggregata di scarsità di sonetti,
e, ultimamente, in necroeditoria, bene ipse dixit Ceronetti.

Mafia tempora currunt, et temporella fugit,
Marchesi se ne avvide in tempi di repubblica,
il Cavaliere se ne avvede in tempi di monarchia,
mafie, camorre, ndranghete s’agglutinano anche nell’editoria,
l’Atelier è dell’artista alla moda, dell’artista sbarbato,
io, sempre vestito da barba, non verrò mai apprezzato,
non mi ruga sul collo il cartellino del prezzo
come Fantozzi, azzurro di sci, a Courmayeur (credevate, a Cortina D’Ampezzo?).

Mala temporella currunt, i tempi dell’artista ermetico
che non incellofana i suoi libri insieme a tubetti d’anti-emetico,
i tempi del tutto gratis, del tutto dovuto, del tutto diritto
tutto diritto, ci pensa Rocco a pub(bl)icare il manoscritto,
dimenticando, senza commenti, che anche Dante Alighieri
dové leccar molti sederi, nel reperir finanziamenti.

andy warhol campbell-tomato soup parmesan cheese-chilli

andy warhol campbell-tomato soup parmesan cheese-chilli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA REPUBBLICA DEL PORNASIO

Finalmente, l’Italia è diventata un Pornasio,
l’amore di battere (sui tasti) ha adescato il cittadino medio,
la borghesia ex democristiana si spintona nelle redazioni di Atelier,
epigoni, a branchi, pascolano sui monti d’Elicona,
sui blog ipertrofizzano critici non degni di Nota,
sono diventati tutti vati, arroganti e maleducati,
l’attempato scrittore del ‘92 ci richiama,
con insulti d’ogni genere, alla deferenza,
lontano kilowatt dal capire che esser usciti con due plaquette
da 1000€ è indice di mera deficienza,
vallo a far intendere che la democrazia lirica non è la democrazia dei dilettanti,
non basta saper mettere una croce sotto un testo a diventare Cavalcanti.

Mettiamoci una croce sopra, dai!, e una fossa sotto,
a vecchi rincoglioniti blateranti con lo stile di Zanzotto,
c’è un ritorno ad Omero, buon’anima, nella corsa al precipizio
delle giovani promesse della poesia contemporanea, settantenni da Odissea (nell’ospizio),
i dati sociologici ci dicono che s’è alzata l’aspettativa di vita artistica,
magari con pasticche di Viagra a sbloccare afflussi alla vena conformistica,
e noi, “generazione dimenticata”, a quarant’anni vagiamo rannicchiati in posizione fetale,
accompagnati da cinquantenni e sessantenni in piena crisi prepuberale.

Pornasio, l’arte italiana è diventata una Reggenza del Carnaio,
tutti arrapati a mettere bibliografie sui siti, come scambisti nel capannone d’un materassaio,
a chiedere recensioni, a scrivere recensioni, a vendere recensioni,
a sostenere, con burbanza, che collaborare ad antologie a pagamento è un gesto da cafoni,
salvo scoprire i medesimi, coerenti, a vender corsi e introduzioni a prezzi di mercato,
l’artista mestierante vuole essere appagato, o strapagato?, lasciando a fine corso, debito, certificato.

Chi non sa fare niente scrive, o cerca di candidarsi in assemblea
di condominio, rionale, comunale, regionale, nazionale od europea,
roba che a saperlo Giordano Bruno sarebbe morto di diarrea,
senza il fastidio di dover finire al rogo nel tentativo disperato di difendere un’idea,
sono stati inutili cinque anni d’università, tre di liceo, due di ginnasio:
se avessi fatto il baby squillo o l’enfant prodige della grammatica italiana,
avrei meritato maggiore stima nell’artistica repubblica del Pornasio? Continua a leggere

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Massimo Cacciari “Labirinto filosofico” (Adelphi, 2014) letto da Antonio Gnoli

massimo cacciar

massimo cacciari

(da la (Repubblica 13 maggio 2014)

Provate a immaginare cosa sarebbe la nostra civiltà, l’Occidente, senza il pensiero greco. Se a un tratto, come per incanto sparissero – che so? – i frammenti presocratici, i dialoghi platonici, i libri di Aristotele, tanto per citare i referenti più importanti e noti. Pensereste forse che noi, gli eredi naturali, saremmo gli stessi? Non so immaginare gli effetti: ma forse che la democrazia sarebbe oggi la stessa senza quell’intenso modo di pensarla e realizzarla ad Atene tra il quinto e il quarto secolo? E la ragion e avrebbe avuto la stessa attenzione che le filosofie successive le hanno dedicato? Sicché, mentre leggevo il nuovo libro di Massimo Cacciari, non potevo esimermi dal constatare quanto rilevante e imprescindibile sia stata quell’eredità di cui oggi abbiamo perso i tratti più perspicui e filosoficamente arditi. Da decenni – da quando uscì Krisis nel 1976 (che credo egli ritenga in larga parte superato) – Cacciari esercita il suo talento sui nodi principali del pensare filosofico.

massimo cacciari labirinto filosofico Che proprio in quanto è un pensare (e un conoscere) non va confuso con la sua storia né con gli ambienti sociali da cui pure è scaturito. Di qui l’alta tensione teoretica che corre lungo tutte le pagine di questo vero e proprio Labirinto filosofico (Adelphi). E titolo non poteva essere più adatto per rilevare i dubbi, le oscurità, i tormenti che un percorso del genere provoca. Molto simile all’errare: sia in quanto possibilità di errore, cui ogni esperienza si espone, sia perché la filosofia, in ultima analisi, è un cammino complicato. Verso dove? Verrebbe da chiedersi. E la risposta chiama in causa la verità. Anche se questa non può essere ridotta ai metodi della scienza o alle estenuate versioni postmoderne, due culture che si sono dimostrate incapaci di assolvere un compito tanto estremo quanto necessario: pensare il reale.

massimo cacciar

massimo cacciari

 Pensare cioè l’Essente (o l’Ente) più che l’Essere. Vi è dunque in Cacciari un richiamo alla concretezza della filosofia estranea alla vecchia metafisica. L’Essente (la Cosa) non è semplicemente questo o quell’oggetto. Non è la penna o il computer con cui scrivo o il tavolo su cui poggia il libro: oggetti la cui conoscenza richiede astrazione (cioè predicazione). L’essente – di cui con qualche forzatura possiamo dire si componga la realtà – è certamente questo ambiente di relazioni che vive nel mondo, ma è anche qualcosa di più. Che eccede queste relazioni e tuttavia è nel mondo.

Compito della filosofia è interrogarsi su ciò che possiamo dire della Cosa, la sua predicazione in quanto Ente, ma anche sulla sua indicibilità, sul fatto che l’Ente non è riducibile interamente al modo in cui lo diciamo. Cos’è questo linguaggio specialistico – che circola nel libro – che per il solo fatto di essere formulato con estrema acribia filologica sembra rinviare alle antiche dimore metafisiche del pensiero greco? Uno degli esiti sorprendenti del lavoro di Cacciari risiede nella riabilitazione, se così si può azzardare, di quella metafisica che Nietzsche (e lo stesso Heidegger) – stante almeno le letture postmoderne – avevano condannato. Letture (si pensi a quelle svolte da Rorty e Vattimo) che hanno esecrato la metafisica per la sua natura totalitaria e chiusa. Dimenticando l’enorme apporto alla costruzione di un linguaggio senza il quale sarebbe perfino inutile immaginare di filosofare. Cacciari conosce le insidie e le aporie che da essa si sono generate.

massimo cacciar

massimo cacciari

 Ma non rinuncia a una propria idea di metafisica, o meglio di filosofia che la disincaglia dal pensiero teologico. Come quest’ultimo cerca una realtà (Dio) dietro l’apparire, così la filosofia tratta della materia dell’apparire. Cos’è l’apparire? Potremmo definirlo come l’inesauribile rapporto con l’esperienza. Con la vita sensibile. Non un’esperienza astrattamente intesa (come è quella che ci propone la scienza), ma temporalmente determinata e dunque molteplice e variabile. Che non assicura solidi fondamenti, ma dona la propria inesauribile disponibilità. Ci siamo dentro? Sì. Ma non come soggetti che potrebbero anche starne fuori, per poi, magari, conoscerla successivamente. L’esperienza (realtà) ci ricomprende. Oltre ogni dualismo. Oltre ogni artificiale separatezza tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto

 Lo stesso rapporto, che intercorre tra l’esperienza e noi, c’è tra pensiero e linguaggio. Non viene prima il pensiero e poi la maniera di esprimerlo (o viceversa): non c’è un contenente e un contenuto. Concrescono insieme. Abitano nella medesima e inesauribile realtà. Esiste qualcosa prima di questa relazione? C’è il mito che è già una “voce”, un suono prima ancora di essere linguaggio o nome: la traccia di un tempo in cui l’uomo comunicava con cenni o atti o corpi.

 La scrittura è perciò all’origine gesto e suono. Coincide con la voce mitica, dice Cacciari, che si agita all’interno di ogni parola. Ed è quel “suono” (ancora una volta indicibile) che il poeta cerca di rievocare. C’è un dire – come osserverà Heidegger – che è comune tanto al pensare poetico quanto a quello filosofico. Le due forme non si compiono l’una nell’altra. Mantengono una relazione. Ed è da questo nesso che ciascuna trae forza senza confondersi nell’altra. La filosofia che Cacciari insegue, fin dentro le più segrete interrogazioni, non è dualistica: non c’è il mondo incorrotto delle idee da un lato, e dall’altro quello, nel quale viviamo, soggetto a errore e fraintendimento. La partita, tutta intera, si gioca nell’al di qua: la filosofia ha come presupposto il mondo (e il mondo è l’interezza di fatti e di nessi). Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ di Paolo Ruffilli, Valentino Campo, Anna Ventura, Lidia Are Caverni, Luisa Colnaghi, Giuseppina Di Leo, Leopoldo Attolico

buenos aires

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia tra Atene e Gerusalemme, tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione. «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

Paolo Ruffilli

Paolo Ruffilli

Paolo Ruffilli

Andante

Nel porsi in viaggio,
prendendo prima
le distanze e tutte le
misure che si può,
considerato l’angolo di fuga
e quello di deriva andante
dentro il vuoto…
la curva sghemba
della deiezione,
lo scarto imprecisato
del destino.
All’imprevisto che è
legato al moto,
la ragione ha imposto
antidoto di linee rette:
orari, termini, binari.
Contro i rischi dell’ignoto.

In viaggio

Nel gioco mobile
di specchi
sogno e realtà,
moltiplicandosi
nell’effetto miscuglio
– cocktail o frullato,
intruglio o elisir –
hanno inventato
ed, ecco, rivelato
l’universo della vita
in una sfida stravagante,
facendo eterno andare
di ogni istante,
oceano del poco mare
attraversato
e transatlantico
del piccolo natante
che vi si è sopra
avventurato.

 Valentino Campo

Valentino Campo

 

Valentino Campo

Domenica delle Palme

Vidi, lo vidi
il nero della seppia
nel nero che recide
l’ombra dal suo doppio.
Persi la rotta nel timpano
del fiume,
gettai alla riva
all’ansa la mia voce,
al luccio chiesi
l’aria dei suoi bronchi
il filamento nel pantano;
all’onda resi
il sale dei miei anni.

Lunedì Santo

Ti so, ti sento,
ombra, mia presenza,
nel cavo dell’iride che sgrossa
il dalmata a nuoto nel trifoglio,
palla e fanciulla saldi al chiostro
stillano il miele dell’astro.
E tu ti celi nel cono
dei suoi dardi, nel midollo
delle cose, la schiena devo darti
se voglio il tuo perdono.
Martedì Santo

Mi servi i petali bianchi del loto,
è il dono che mi fai.
Tutto è ormai compiuto,
il gallo a oriente è muto
e io so ogni canto
ogni foro nel costato dell’uomo.
I tetti stridono sotto l’unghia
degli obici e gli uccelli
si destano nel tepore dei nidi.
Vidi un ragazzo gracile
stringere il suo fucile,
aveva la patta schiusa
mentre si strofinava,
il caricatore beveva
la sua rugiada.
In nome dell’uomo
non dirmi poeta,
in nome dei santi
non farti più uomo.
Mercoledì Santo

Ero solo, solo sul binario,
solo sulla lama della scure
che affetta il tempo
con la bava di un beccaio.
Aspettavo il treno da Cirene
con il naso al cielo
ed ero solo, solo con la mia croce.
E giunsero le sirene
a baciarmi di sputi,
uomini in divisa con la bocca
cucita presero le misure,
mi diedero in pasto ai cani.
Poi giunse il treno come un sudario
nessuno scese, non ci fu parola,
e fui di nuovo solo
con una fetta di sperma e pane.

(da L’arte di scavare pozzi, LietoColle 2010)

cornelius escher

cornelius escher

 Anna Ventura

Anna Ventura

Anna Ventura

Santiago

Un pellegrino partì
alla volta di Santiago.Veniva
dalle Fiandre. Di notte
dormiva nel mantello,
di giorno camminava.
All’autunno sopraggiunse l’inverno;
il pellegrino, svegliandosi al mattino,
vide che il suo corpo era coperto di neve.
Si sentì stremato, e temette
che Santiago non esistesse nemmeno,
che fosse un sogno della sua mente esaltata.
Ma un altro pellegrino sbucò dagli alberi,
lo aiutò a rimettersi in piedi,
e insieme arrivarono al santuario.
Quando entrarono, il secondo pellegrino
se ne andò dritto per conto suo
dentro la basilica, dove troneggia
il busto di Santiago. Busto
che ha due buchi al posto delle braccia, per cui
chi sta dietro l’altare
può metterci dentro le proprie,
per avvincersi al Santo.
Il pellegrino delle Fiandre
si mise in fila con gli altri .
Quando fu la sua volta
mise le braccia nei buchi
e nel volto del Santo
riconobbe il pellegrino
che lo aveva aiutato.
Commosso, gli sussurrò all’orecchio:
“Amico mio,
ti riconosco.”
Ma Santiago rimase d’argento.

cornelius escher la colomba

cornelius escher la colomba

 lidia are caverni

Lidia Are Caverni

Il Viaggio

Dall’infinita distanza
la mano raggiunge la fronte
l’assenza della corporeità
perduta nel sonno tentativo
estremo dell’essere di riconquistare
il proprio conscio
un lasciarsi andare
inerte che prende e vuol
vincere il rifiuto della mente
per il cadere che avvolge
a smarrirsi di oblio.

*

Verrebbe da dire dilaniato
corpo di fauno nelle nascoste
cortine pelle di Marsia mutata
in tamburo eco di boschi
dove non risuonano canti
parole del divino sdegno
o l’umano prostrato eterno
rituale e il sole si perde
lanciato.

* Continua a leggere

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Domenico Alvino ASCESI ED EROTISMO NELLA POESIA di MARIA ROSARIA MADONNA – con scelta di poesie da “Stige” (1992) Parte III ora in Stige Tutte le poesie (1990-2002) >Progetto Cultura, pp. 140 € 12

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Aspettavamo da venticinque anni la pubblicazione di tutte le poesie di Maria Rosaria Madonna che finalmente vengono in luce con la curatela critica di Giorgio Linguaglossa e un saggio di Domenico Alvino per iniziativa dell’editore Progetto Cultura. Di questa straordinaria poetessa, la pubblicazione di Stige nel 1992 pur con l’autorevole presentazione di Amelia Rosselli, non riscosse particolare attenzione forse a causa della difficillima decodificazione per via di quel linguaggio in «neolatino» come lo definisce la Rosselli, che certo non ne facilitava l’accesso, ma io penso anche per la drastica estraneità con cui quel linguaggio poetico si poneva in quegli anni. Con l’adozione di un geniale mix tra «neolatino» modernizzato e un italiano antichizzato, Madonna opera un vero bypass nel corpo della tradizione novecentesca, inserisce uno shifter, una deviazione stilistica, uno spaesamento, mette di colpo fuori gioco i linguaggi poetici positivizzati di fine novecento. Ecco come commenta nel saggio in calce al volume Domenico Alvino: «Nasce il sospetto che in Madonna siano fusi paradiso e inferno, o del paradiso gran parte consista in quell’inferno in cui il moralismo sacrestano fa consistere il piacere della carne. È la sacralizzazione della lussuria, che così diventa il sommo bene, il luogo mistico al quale si addice stesso il parlare proprio dell’inverso misticismo. E le sofferenze che nel Tudertino erano il prezzo (impagabile) del peccato originale o della irredimibile indegnità, in Madonna servono a frangere il guscio per raggiungere il gheriglio, il cibo dolcissimo che vi è contenuto: sono insomma il titolo di sconto del piacere sensuale. La dedizione alla preghiera, riecheggiata dalla Regola benedettina; la spietata volontà di sacrificio; la continua, feroce vigilanza sopra i movimenti della carne; perfino la determinazione a non cedere al desiderio sempre in agguato e pronto a balzare in ogni occasione ( ecc…), tutti questi proponimenti e determinazioni, a volte anche deliranti, sono i segni della sua brama di arrendersi, di cedere all’idea sottesa che in fondo il bene è quella passione lì, il paradiso in terra è quello che spalanca l’eros».

(Donatella Costantina Giancaspero)

da “Stige”, 1992

 

Pallebant ora ieunis
et mens desideriis aestuabat
in meo frigido corpore et
mea libidine incendia bulliebant.
*
Sparso crine et scissus vestibus
ex collo auro pendebat ut
mea imago patiat pulcherrima.
stecher foto d'epoca di nudo

Piero Pollaiuolo ritratto

 

Non coacto, nec castigo.
Alii aedificent ecclesias
ebore argentoque valvas
et gemmis aurea vel
aurata distinguant altaria.
*
Nel buio Tartaro, perturbationibus
libera et sine margaritas,
precipito sine intermissione.
Vigile sensus nec vanis cogitationibus.
*
In coelo fero mea virginitatem.
In illa vasta solitudine
putavo me romanis deliciis.
.
*
.
Et, ut mihi ipse teste est Dominus,
post multas lacrimas, multas difficultatis,
gratia ago Domino quod de amaro
semine vox angelorum capio.

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foto d'epoca di nudo

foto d’epoca di nudo

 

 

 

 

 

 

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Fateor imbecillitatem meam
ut ne me capiat oculos meretricis
et ne ad illicitos ducat amplexus.
*
È lecito dopo tanta immoderata
abstinentia, diverticula quaerere?
Diverticula et latronanza…
tota vita mea che fue danza
così passò il bel tempo de la giovanezza
de la mea funesta vedovanza.
Abstinentia et misticanza hodie
in paupertate.

.

foto d'epoca di nudo

foto d’epoca di nudo

.

Castigo corpus meum in servitutem etterna
castigo mei oculis in aeterna culpa
vertigo meae membra in aeterna solitudinem
redigo meae scripta in turpitudine etterna.

.

Castigo et redigo, castigo et religo.
.
*
.
In mei oculi fragmenta et ferramenta
in mei auri tormenta et placenta
in mea vagina turpitudine et abstinentia
in meae tempie rumoresque et ciarpame.

.

.

Da la intemperie de l’incontinentia
giunta sunt at paura et maledictione
tota pulchra mea bella inconscientia
toto amaro est desio et perditione.
.
*

.

Oportet agere esperientia de la corruptione
perdimento intra farsanti et servi de la gleba
intra festanti de lo carnovale
romorìo di fantocci, latroni et usurieri

.

*

.

Gallo canente, lux redit.
Sicut haec luminaria igne visibili
depellunt tenebras.

 

Commento di Domenico Alvino Stige: l’eros sacralizzato

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Non per nebulia di mente ma con assoluta, pura “trasparenza del pensiero“, l’io poetante si precipita in un “male” che scambia con “l’inequivocabile Empireo[1]. E il modo in cui ciò avviene è stesso il modo in cui la poesia si concreta in una breve lassa (4 settenari + 2 esometri) che è performativamente un lampo, un accadere improvviso, lama di luce che evidenzia e rompe il buio: come “in un volto / incognito, nell’attimo / di un profilo feroce” vi balena lividamente l’ennemi, il persecutore e il terrore: e poi la resa, l’irriflessa adesione alla violenza erotica. Ora domina la “lingua itala”, che è della coscienza, della piena e gaudiosa consapevolezza con la quale Madonna si getta “nel fiume” dell’esistenza dell’amato “come un albero sradicato / nei vortici, nei refoli / della corrente che trascina” e va incontro al “pugnale / allo scudo, alle sudice / sconcezze, all’irriguardoso / notturno furore“, augurandosi in un ritmo di danza
.
che venga sciagura e il buio Averno
benvenga scherno e dileggio
torni amore di bene in peggio
dal freddo dicembre all’ameno maggio
che il tempo come smeriglio consuma[2]
.
E si veda come la forza ispirativa non s’allenti, come vuole la Rosselli, ma piuttosto s’intensifichi in un canto puro, in cui si rinfrescano le voci di antichi Jongleurs e cert’aria di rimeria quattrocentesca (laurenziana e polizianea). E rispunta Jacopone, giullare di Dio, con tutti i mali della terra chiamati a raccolta, a sconto della colpa inespiabile che abitava la sua carne: ma lei, Madonna, li implora dall’amato, come una gola secca l’acqua nel deserto, e sono i mali dolci e luminosi della tenzone erotica:
.
puniscimi, incrudeliscimi,
assottigliami, vetrificami
come un lampadario di cristalli
che risplendono nella tenebra[3]
.
C’è un momento cupo, si spegne lo “splendore nella tenebra“, e lei d’improvviso si sente  vecchia e gira solitaria per la città. Momentanea lontananza dell’amato? Ed è per il ritorno, che la poesia di nuovo rompe gli ormeggi e va stordita e libera a cercare mondane corrispondenze?
.
Ne l’aura azzurra l’aquilone vola
tocca una vela che riposa sul mar;
*
Passa l’invidia come gonna gitana[4]
.
La vita è nominata come un gioco, gli uomini come figure di tarocchi: l’io poetante vi è perso, vede il proprio volto immerso in un acquario cristallino dolcemente “ondeggiare fra i pesci rossi e le alghe” (p. 48). E tale è il modo della poesia qui: trasparenza cristallina, liquida freschezza e dolce ondeggiamento accompagnano il dire che “doglia non viene che lui non voglia”; e la poesia ha qui un altro interessante modo, mitopoietico, giocato sull’asse detto da Saussure paradigmatico: nel noto adagio, al nome di Dio la poeta sostituisce “lui”, che la poesia conseguentemente divinizza; alla foglia viene sostituita la doglia, che ne assume la leggerezza e insieme fa lampeggiare il suo contrario, il piacere. (p. 48).
S’interrompe la storia. La poesia nomina Madonna in un arresto improvviso, toccata da una brezza che l’assimila agli immobili pendii; e poi come uno scoppio di letizia frenetica, lanciata in una “danza della solitudine”, danza che esegue “immersa nel verde fogliame”, proprio all’apparire di un giallo cratofanico annunciante la potenza di un destino ineludibile: il fuggire della vita “fra le mani come anguilla” o come un brillio di passero fra i rami. Restano alcune foglie sparse, la poesia v’induce il vento che “armilla”, infonde barlumi di monili preziosi, luminii, luccichii, ciò che occorre per nomare quanto resta di un amore-luce, o fiamma che consuma, o paura e chiarità di sole, luogo di tutta la possibile felicità (p. 50).
Dissoluzione ed arsura adesso accompagnano l’attesa, dolore e rimpianto corrono in immagini fosche, in una violenza che coinvolge la natura (p. 51). Ed è scomparsa la follia di Eros, la “vera semenza” che ci scioglie dalle cose e ci genera allo spirito, e a quella che è prima dello spirito, la poesia, sconosciuta lingua depositata lungo i tempi da mille civiltà,  toccata da mille fedi (p. 52).

Photograph of Woman in Bondage, 1920s

In questo mareggiare istantaneo di tempi l’io lirico si apre spazi ove lenire il dolore dell’attesa. Percorre luoghi ed epoche in cerca di esperienze forti. È una paideia interiore, una preparazione al ritorno dell’amato. La memoria lo rifulmina in un’immagine di torvo aspetto, che per poco non dissolve la paideia e lei stessa (“io ero” – p. 53), ma non la nostalgia, la brama del ritorno, che la poesia nomina come un vortice che trascina giù (p. 54). Comincia da una astratta volontà di vivere, simile a quella che suole conseguire alle lunghe malattie. Questa non ha tempo di tradursi in versi, balza e si rifrange nella musica, quella atonale del tempo dell’attesa che è duro a passare, e nelle esometrie sillabiche si frantuma infinitamente in giorni, in minuti, in faccende distornanti e deleterie (dēléomai: “offendo, danneggio”). Poi, approssimandosi il ritorno, in quella musica a massacro irrompe la gioia del ritorno, e l’amore alleggerisce il corpo traendone la fantasia di un “vascello dalle ali spiegate”, in un reciproco dire e raccontare, per ferire e penetrare fino al fondo buio, dove nasce Eros, dolcissimo e feroce.

Segue un po’ di minutaglia senza vita. Senza Eros c’è il grigiore e la tristezza, che sono le propaggini allungate dalla morte. La salvezza è solo in Eros, che muove la natura ad operare. Così noma la poesia il nostro essere nel mondo: si sta in bilico, si è un equilibrio instabile, un grumo d’essere dal quale può nascere il moto dello spirito ad esistere, o si può precipitare in assoluta inerzia, che è l’inesistenza. E l’anima è un brivido di carne. E stesso un equilibrio è il rapporto d’amore, ché se uno è luce di ragione in moto, l’altra si lascia muovere dalla luce e si libera del peso della terra. Altrimenti coglie rose senza più passione, si addentra nell’interno di giogaie e di convalli, luoghi remoti, ove “il senso della vita incontrollata, / senza freni, senza binari” le appare “un gioco falso e avvilente”.
.
(Domenico Alvino)

«Poiesis», anno V, n. 13, Maggio – Agosto 1997, p. 26.
[1]    Ivi: p. 44.
[2]    M.R.Madonna, Stige, cit., p. 45.
[3]    Ivi: p. 46.
[4]    Ivi: p. 47.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Adam Zagajevski, Giorgio Linguaglossa, Domenico Alvino, Francesco De Girolamo, Franco Dionesalvi, Fortuna Della Porta, Terry Olivi, Laura Cantelmo

musica tra gli egiziani Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

Il violoncello

Dicono i detrattori: è solo
un violino che, mutata la voce,
è stato espulso dal coro.
non è così.
Il violoncello ha molti segreti,
ma non piange mai,
canta solo a voce bassa.
Non tutto però si muta
in canto. Talvolta si può udire
un sussurro o un fruscio:
sono solo,
ma non posso prender sonno.

(trad. di Krystyna Jaworska)

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

Il Signor K. era là

Aveva appuntato, Cogito, l’indirizzo della Signora Marlene
su un foglietto di carta che teneva in fondo alla tasca interna della giacca.
Voleva congedarsi. Prese il foglietto in mano.

Intanto, i premorienti si affollano nei vagoni merci.
Gendarmi portano al guinzaglio i mastini,
rovistano in ogni angolo della Zentralbahnhof,
perlustrano i binari.
Nella sala d’aspetto, c’è chi gioca con i serpenti,
chi pettina i capelli alle bambole,
chi suona il violoncello.
Tchiajkovski strimpella il pianoforte,
più in là Vermeer dipinge di profilo una ragazza.

La luce si spense sul lastricato. Nella Kammerspiel
color fucsia la bella Marlene canta al pianoforte
il Lied della morte e della nostalgia.

Il Signor Cogito ama questo luogo di pace,
non saprebbe farne a meno.
Berlino. Anni Trenta.
Sulle ciglia, sulla pelliccia, sui guanti grigi
del Signor Cogito adesso cade una neve soffice.

Il lampionista si voltò, vicino a noi accese un lampione
e si mise a fischiare un’aria di Mozart.
I soldati scrivono cartoline alle fidanzate.
«Che epoca è questa?», chiede Cogito
alla bella Marlene nel salotto color fucsia.
Salieri fuma una sigaretta nel divano scarlatto,
ufficiali della Wermacht giocano a whist nel reservoir.
«Signor Cogito lei è un vero umorista», gli risponde
la Signora Marlene dall’antichambre.
C’è chi gioca con i décolleté, chi con la vedova nera,
c’è chi gioca con i serpenti, chi pettina i capelli alle bambole.
Una neve soffice si posa sulla pelliccia di Cogito
che si affaccia a una finestra. È quasi inverno.

Il cigolio meccanico degli usignoli si arrestò.
Il Signor K. era ancora là, tra lo stipite e la porta.
«Gutentag Herr Cogito…».

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel color fucsia.
Una maîtresse si trucca davanti allo specchio
con la cornice dorata. La bella Marlene
canta un Lied di nostalgia e di addio.
I treni sono carichi di soldati.
Ufficiali della Wermacht dicono «Gutentag und Gutenabend».
Il Signor K. indossa una parrucca argentata.
Il Signor Cogito inforca gli occhiali.
“Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,
lo carica –
ascolta il ticchettio del meccanismo,
che impassibile spinge avanti
le lancette e i secondi
(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)”.*
Il Signor Retro ripone l’orologio sul tavolo
e dice: «auf Wiedersehen».
Il Signor Cogito si toglie gli occhiali.
Il Signor K. si toglie il guanto sinistro.
Getta una manciata di gioielli,
(smeraldi, perle, diamanti, rubini)
sulla toeletta; il tutto, così, alla rinfusa.
L’innominato indossa una redingote
nera, lucida, lisa, occhiali di tartaruga
con le stanghette dorate.
Gli uccelli sugli alberi emettono un singulto metallico.
Marlene singhiozza il Lied della nostalgia.
I soldati sono partiti nei treni carichi di morti viventi.
Si alzano in volo col muso ad uncino i pipistrelli.
Sette corvi beccano il mangime nel letamaio.
Nella Kammerspiel è entrato il fruscio degli astri.
Il Signor K. si mette in posa nel corridoio.
«Dov’è?».
«Cosa?».
«Il quaderno nero».
* versi di Marek Baterovicz

violino_Barroco

violino_Barroco

 Domenico Alvino

Domenico Alvino

Domenico Alvino

La cantante cieca

È una cieca ora l’accompagnano
resta dietro pupille grandi.
Cerca un bandolo là sotto
medita la sua canzone al buio
dentro un buio chiuso
a lampi
aduna
corde
lorde
parole salgono a grappoli
alle note
lega
una valanga
giocata a pigli scosse luride luminose
vengon fuori anime secolari
affollano e diradano
a respiri e ad ansimi
a balzi
e poi giù ricadute
piene di salti
roteanti riverberi in sé stessi
rientri
nel buio chiuso
essi e la cieca ricurva all’applauso
infinito
di tutti
lì in piedi
annusa il loro sguardo
dietro
le loro bocche spalancate.

(Roma, venerdì, 27 luglio 2007)

La musica: il morire

Nella tua spessa ombra
tu pensi
ch’io entri
come d’un pezzo passando cellule
atomi
fra atomi
io ombra
in un corpo-ombra?
O che un non-spirito
entri in un non-spirito
ove né valva né vulva ti apri
tu spirito così addensato d’ombra
che esaurisci il dentro
tanto che i molti io e tu ed egli tutti
schiodati fuori?
Il noi – dice – è però da dentro.
Ma è un dentro vuoto
senza il tu e l’io certi
a ben vedere
anche il tu e il voi e l’egli
e il loro e l’essi
sono altri dentro
spesso anch’essi
vuoti
avidi
sfumanti in fuori
e vedi quanti fuori vuoti
adesso astri
che si girano
lenti
l’uno guarda fuori
l’altro
l’essere, io penso, non ha dove
sta a guardare a lato
scoppi
attende
crepe
nella materia obdura
fin che ne si sciolga
un dentro…
Lascio la musica lì
nel nulla
essa non entra
nella morte
bisogna andarci soli.

(inediti, Roma, 6 aprile 2001)

musica sassofono

 Francesco De Girolamo

Francesco De Girolamo

Cammina e canta

Cammina e canta
e insegui molti amori
impossibili e fieri
e disvela misteri e nascondi
i tuoi sogni ai veleni del giorno
livido e freddo e uguale.
Troppe bocche senza ansia di fiamma
bisbigliano il coro dell’ombra
alla folla disabitata.
E tu, sii il seme di un’alba
remota, mai sorta;
appartieniti, proteggiti
dalla vita già morta
che incalza; sii il cucciolo inerme
della tua rinnegata eternità.

Metamorfosi

Non è molto quel ramo dietro i vetri
per sapere che fuori impera il niente;
ma è tutto ciò che scorgi e che non vedi
che lo trasforma in una gemma ardente.
Che lo trasforma in una calda rosa
che accende il limitare dello sguardo
della sua sete indomita e operosa;
e ritrasfonde in musica il tuo pianto

Francesco De Girolamo da Paradigma Lietocolle, 2010

musica rinascimento

 Franco Dionesalvi

Franco Dionesalvi

La fragola e il pianoforte

Il lembo vellutato
del vestito a macchie di fragola
si acquattava sul cranio pallido
del maestro francese
al pianoforte.

L’ansia distratta di lei
raccoglieva
silenzi mielosi margherite di raso
nel pubblico a cappelli
raccogliticcio
dalla valanga appena sventata
di là dalla finestra
per nuovi messia
intagliati nell’alba;
girava le spalle nude
accostava la parete
si poggiava sul davanzale di neve
concepiva nella sua mente
il nano della montagna.

musica

 Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Musica di pentagramma,
infuriano le dita sui tasti.
La Moldava, come la vita,
me la svelò mia madre,
con appena tre note, l’udito lacunoso.
L’oboe delle ellittiche,
in movimento di danza,
l’appresi di notte
malgrado i corni latranti dei cani.
In spirito millimetrico, rispettoso,
ninnavano il sonno i cerchi di Saturno
con andamento adagio, molto cantabile
e al fondo, sempre udibile,
la grancassa in fff del big bang
favilla di prestoria
dove il prima e il dopo
convissero in un fulmine.
In perfezione di suoni
la legge di sassi e comete.
Al flauto delle tempeste solari
fibrillano i violini del fiume
le cui ripe in concerto
sbocciano a un giro di do.
Arpeggia lo spartito armonico
col sigillo -da sfinire- di scale avulse.

Stradivari 1681

Stradivari 1681

 

Terry Olivi

Terry Olivi

 

 

 

 

 

 

Terry Olivi

Blues all’Alberone

.
Occhi succosi estate
la cantante
ha un vestito rosso
sul palco gli acuti
i bassi
uno swing? so sad
tonight
una disperazione
così dolce così tacita
too bad

tonight

il plenilunio è
ancora lontano
l’oceano mi è testimone
una zattera insegue l’onda
una culla
la ragazza sulla zattera
nel suo vestito rosso
canta microfono in mano
è solo per il mare
per il vento per le instabili nuvole
per l’ampio cielo intorno.
Un’armonica risponde
così pura così lontana.

Eppure
svaniscono piano piano
so sad so sad so sad
tonight….

Roma 30 dic. 2011

Giuliana Lucchini violoncellista

 Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Papillons*

A Mirna amante dell’armonia

Nel coro turchino dei grilli coglie
l’allodola semi e granaglie
con le prime note del mattino.
Ha vegliato la notte di collina,
paventando fantasmi della Selva
Nera, ciclopiche illusioni
dell’Egeo cipriota con i venti
della steppa turbinanti sopra
una tastiera di farfalle. Le note
si fanno immateriali trilli
di cutrettola vibrante con le piume
che gonfiano leggere le frasi
di spartito.
Poi appare Leda, abbandonata
all’assoluta gioia d’un amore
divino, ignara dell’infimo
destino mortale.

*Robert Schumann, composizione per pianoforte Op. 2

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POESIE di GRACE NICHOLS, POETA DELLA GUIANA a cura di Laura Cantelmo

Grace Nichols 11.

Tra i poeti anglofoni delle Indie Occidentali non  esiste solo il grande, universalmente riconosciuto e amato Derek Walcott (Premio Nobel 1992). Un gruppo di poeti caraibici di indiscusso valore, come James Barry ed Edward K.Brathwaite, che danno lustro alla letteratura post-coloniale ponendosi in posizione dialettica con quella dell’ex-Impero britannico, scrive nella lingua ufficiale imposta dai colonizzatori  con evidente orgoglio per le origini africane e per la cultura creola che caratterizza la loro appartenenza a quel territorio del continente americano dove si favoleggiava l’esistenza dell’Eldorado.

Tra di essi Grace Nichols, nata nel 1950 a Georgetown, nella Guiana, e da tempo residente in Gran Bretagna, offre il punto di vista di una condizione femminile all’interno di un meticciato socio-culturale, reso ancor più singolare da una sensibilità  arricchita dalla sensualità spontanea insita in un temperamento erede di una tradizione “vibrante” .

Come gli altri poeti  Nichols esplora le possibilità letterarie offerte dalla lingua creola nella quale si fondono lo Standard English con il dialetto africano (Swaili/ Yoruba) e che permette di liberare un immaginario sfavillante di colori, inondato dalla luce del paesaggio naturale. La sua visione del mondo, positiva e orgogliosa, si esprime attraverso immagini lussureggianti, spesso ironiche e prive di oscurità espressive.

Grace Nichols 10 Affermando:“Come scrittrice mi sento fortemente multiculturale e profondamente caraibica”  Nichols tematizza la centralità del problema della lingua, che insieme a quello della differenza razziale e di genere sarà la cifra della sua scrittura, caratterizzata da un fiero rifiuto di qualsiasi concessione ad atteggiamenti di autocommiserazione. Nel 1983 nasce così la raccolta IIs a Long Memoried Woman (Sono una donna dalla memoria lunga), seguito nel 1984 da The Fat Black Woman’s Poems (Poesie di una donna grassa e nera), forte di un’ironia graffiante contro gli stereotipi estetici e consumistici delle donne occidentali. Vi prevale l’accettazione dell’aspetto fisico che pare richiamare gli slogan degli anni sessanta e settanta, “nero è bello”  o “grasso è bello”. La donna grassa e nera decide con ferma dignità di accettare il proprio aspetto rifiutando  modelli omologanti, ma vivendo al contempo la nostalgia della terra lontana,  simboleggiata dalla pianta di ibiscus.

In Lazy Thoughts of a Lazy Woman (Pigri pensieri di una donna pigra) del 1989 prevale il divertimento, che consente anche l’ironia dissacrante nei riguardi di miti letterari (Shakespeare) e di una  quotidianità domestica vissuta senza fastidio :”L’unto si distende come un amante/ sul corpo del mio forno” (“Unto”). Il sesso, persino il sangue mestruale vengono liberamente affrontati senza pudore e con leggerezza, in aperta sintonia con la riscoperta del corpo da parte del movimento delle donne.

 Grace Nichols 6Ed è il corpo a porsi al centro della raccolta Sunris, imperniata intorno al rito dionisiaco del carnevale di Trinidad. Il corpo è coinvolto e travolto dal ritmo  pagano del calipso in una ritualità corale nella quale converge il senso di liberazione  e di rabbia  degli schiavi africani. Il titolo è una fusione del nome della madre di Grace, Iris, intrecciato idealmente a Isis (Iside), divinità egizia.  Iris (Iride) è l’arcobaleno, l’arco policromo che annuncia il ritorno del sole (sun) dopo la pioggia. Ne sgorga il titolo Sunris, evidente assonanza con  sunrise (alba).

 La costruzione simbolica del ritorno del sole annunciato dall’arcobaleno indica il presagio di una nuova e proficua relazione con l’Occidente. Questo il tema di Sunris, nella cui chiusa la bellissima e fantasmagorica celebrazione del carnevale di Trindad dà adito a a una rievocazione della storia e dei miti della sua gente, in mezzo alla popolazione scatenata nella danza al ritmo del calipso.: “Io sono una sognatrice ibrida/ Una credente ancestrale/ Una gaudente nel sangue/ che adora nella casa dell’amore”. Alla raccolta, popolata di miti femminili, dalle Grandi Madri della cultura classica alle divinità del mondo sassone fino alla dea cinese Kuan Yin, nel 1996 verrà assegnato il Guyana  Prize for Poetry. Accolta come Fellow nella Royal Society of Literature, Nichols è anche autrice di successo di libri per l’infanzia che narrano i miti del suo paese, grazie al  percorso intrapreso che è sfociato in un nuovo rapporto con la cultura occidentale.  Lapidariamente la sua vicenda umana e letteraria è sintetizzata in pochi versi tratti dalla sua opera di esordio, I Is a Long Memoried Woman: “Ho attraversato un oceano/ ho perso la mia lingua/ dalle radici di quella antica / una nuova ne è sgorgata”. Per l’appunto  I Have Crossed an Ocean, Selected Poems (2010) sarà anche il titolo della sua raccolta più recente.

 Bibliografia

I is a Long-Memoried Woman, London: Karnak House, 1983
The Fat Black Woman’s Poems, London: Virago Press, 1984
A Dangerous Knowing: Four Black Women Poets (Barbara Burford, Gabriela Pearse, Grace Nichols, Jackie Kav), London: Sheba, 1985
Whole of a Morning Sky (novel), London: Virago, 1986
Over the River, 1986
Hurricane Hits England, 1987

Lazy Thoughts of a Lazy Woman (poems), 1989
Sunris (poems), London: Virago, 1996
Startling the Flying Fish, 2006
Picasso, I Want My Face Back, Bloodaxe Books, 2009
I Have Crossed an Ocean: Selected Poems, Bloodaxe, 2010

 Poesie per  bambini

Trust You, Wriggly, London: Hodder & Stoughton, 1981
Baby Fish and Other Stories from Village to Rain Forest, London: Nanny Books, 1983
A Wilful Daughter, London: Hodder & Stoughton, 1983
Leslyn in London, London: Hodder & Stoughton, 1984
The Discovery, London: Macmillan Education, 1986
Come On Into My Tropical Garden: Poems for Children, London: A, & C. Black, 1988
Can I Buy a Slice of Sky?: Poems from Black, Asian and American Indian Cultures (editor), Knight Books
Poetry Jump Up: An Anthology of Black Poetry, Harmondsworth: Puffin Books, 1989
For Forest

 

Poesie di Grace Nichols

Beauty

Beauty is a fat black woman
walking the fields
pressing a breezed
hibiscus
to her cheek
while the sun lights up
her feet

Beauty
is a fat black woman
riding the waves
drifting in happy oblivion
while the sea turns back
to hug her shape

Bellezza

Bello
è una donna grassa e nera
che attraversa i campi
premendo un ibisco
di brezza
sulla guancia
mentre il sole le illumina
i piedi

Bello
è una donna grassa e nera
che cavalca le onde
alla deriva in dolce oblio
e intanto il mare si volge
e abbraccia la sua ombra

Sunris

Out of the foreday morning –
They coming
Out of the little houses
Clinging to the hillside –
They coming
Out of the big house and the hovel –
They coming
To fill up like mist dis Jour Ouvert morning
To lift up dis city to the sun
To incarnate their own carnation.

Symbol of the emancipated woman I come
I don’t care which one frown
From the depths of the unconscious I come
I come out to play – Mas Woman.

This mas I put on is not to hide me
This mas I put on is visionary –
A combination of the sighful sun
A bellyband with all my strands
A plume of scarlet ibis
A branch- of – hopeand a snake in mih fist
Join me in this pilgrimage
This spree that look like sacrilege.

But those who cannot see
Into the intricacies of my blood
Better watch they don’t put
They foot in they mouth,
Aspersion cast of race
Will not ricochet
But will sink into
The objection pores
O my every bone, for,
I’m a hybrid-dreamer
An ancestral believer
A blood- reveller
Who worship at the house of love.

Sunris

Di primo mattino
Vengono dalle piccole case
Aggrappate alla collina –
Vengono
Dalla grande casa e dal tugurio –
Vengono
A colmare come bruma questo mattino di Jour Ouvert
Per innalzare al sole questa città
Per dar corpo al loro garofano.

Simbolo della donna emancipata io vengo
Non mi importa se a qualcuno dispiace
Dal profondo dell’inconscio io vengo
Vengo a interpretare – Donna Maschera.

Questa maschera che indosso non è per nascondermi
Questa maschera che indosso è visionaria –
Una combinazione del sole veggente
Un gonnellino con tutti i miei nastri
Una piuma di ibis violetto
Un ramoscello e un serpente in pugno
Seguitemi in questo pellegrinaggio
In questi bagordi che paion sacrilegio.

Ma chi non vede
Nelle spire del mio sangue
Badi invece a non burlarmi,
Calunnia diffusa sulla razza
Non rimbalzerà
Ma affonderà
Nel rifiuto di tutti i miei pori
Di tutte le mie membra, poiché;

Io sono una sognatrice ibrida
Una credente ancestrale
Una gaudente nel sangue
Che adora nella casa dell’amore.

(traduzione di Laura Cantelmo)

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Alfonso Berardinelli – IN POESIA SI PUO’ PARLARE DI TUTTO “Così la poesia si è resa irrilevante, è un nome vuoto” -da Annuario a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 1994

Selfie Raymond Queneau, 1929  Abbiamo deciso di ripubblicare questo articolo di Alfonso Berardinelli, scritto e pubblicato venti anni fa, perché riteniamo che, da allora, nulla è cambiato nella poesia italiana, e che anzi certi difetti storici si siano aggravati e approfonditi. (n.d.r)

(“Poesia ’94”, Annuario a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, Roma, pp. 190, Lire 15.000)

 1. In poesia si può parlare di tutto. Quando si tratta di letteratura, e in particolare di poesia, è sempre pericoloso parlare di “doveri” comunicativi. Certo, la letteratura comunica. E uno scrittore, un artista della parola ha capacità comunicative potenziate. Ma nel caso specifico della poesia contemporanea quello che importa è ormai rompere con certe convenzioni stilistiche di tipo gergale, auto-referenziale che si sono stabilite all’interno di una cerchia sempre più ristretta. Il fatto che questa cerchia sia da troppo tempo il solo pubblico della poesia, un pubblico fatto di gente che scrive o vuole scrivere poesie e di studiosi, ha debilitato questo genere letterario.

alfonso_berardinelli

alfonso berardinelli

 La debolezza, l’opacità comunicativa, l’oscurità o, più precisamente, l’inconsistenza semantica di molta poesia di oggi deriva dal fatto che quella piccola cerchia di lettori fa finta di capire, o accetta il fatto che non venga detto quasi niente e che non ci sia quasi niente da capire.

Il paradosso è questo: la fuga dal significato viene accettata dogmaticamente come significativa, e così l’oscurità e problemi comunicativi interessanti, anzi li annulla, li scavalca.

Eliminando dal linguaggio poetico tutta una serie di funzioni linguistiche legate al significato e alla comunicazione, la poesia non corre più nessun rischio. La sua diventa un’esistenza ipotetica, virtuale, larvale, non reale. E il codice del non-significato è diventato ormai un codice fissato rigidamente. Lo svuotamento semantico è oggi e da tempo una delle regole fondamentali che creano fra cosiddetti poeti e critici una specie di complicità, di omertà.

La poesia non si confronta con niente che stia al di fuori di essa: con nessun altro linguaggio e ambito culturale. Il valore della produzione poetica degli ultimi vent’anni (parlo degli autori che hanno fra i trenta e i cinquant’anni) è assai scarso proprio per questa mancanza di coraggio e di energia comunicativa. Si tratta per lo più di poeti (simil-poeti) che cercano di farsi accettare semplicemente non facendo niente che possa farli rifiutare.

alfonso berardinelli Certo, nella poesia possono esserci delle zone di oscurità e di difficoltà, perché la letteratura è anche una sfida ai significati stabiliti e accettati. Ma credo che ora il gergalismo poetico abbia toccato limiti intollerabili, ridicoli e si tratta di tornare, se si è in grado di farlo, a parlare in poesia di tutto, senza limitazioni preliminari. Del resto, la migliore poesia delle generazioni precedenti lo aveva fatto: da Pasolini e Caproni a Sereni… Sarebbe il caso di ripartire da zero, senza escludere a priori nessun tipo di linguaggio e nessun ambito di esperienza.

2. Modernità da rileggere. Il dibattito sul post-moderno ha fatto più confusione che altro. In un certo senso però esistevano dei chiari sintomi che in questa seconda metà del Novecento era avvenuto qualcosa di veramente nuovo e che alla Modernità era successo qualcosa: di questa categoria teorica e di una serie di opere si sapeva o si credeva di sapere quasi tutto. La Modernità non era più un’esperienza traumatica, era stata riassorbita o metabolizzata dalla critica accademica, era diventata luogo comune, convenzione, regola.

Eugenio Montale

Eugenio Montale

 Credo d’altra parte che invece, al di là delle tante etichette e teorizzazioni, la Modernità sia ancora un problema aperto. I libri sono ancora lì da leggere e da rileggere al di là degli schemi. La Modernità è ancora il nostro orizzonte. Se lo dimentica, se si dimentica che il nostro mondo, il nostro modo di vivere e pensare, tutta la nostra cultura viene anzitutto dalla seconda metà del Settecento – perché è un prodotto dell’Illuminismo e della rivoluzione industriale – se si dimentica questo, allora si finisce in quelle grottesche mascherature che vorrebbero farci credere contemporanei della Grecia classica o del Medioevo. Tutto ciò che siamo in grado di capire e assimilare delle culture pre-moderne, ci viene dalla Modernità: la filologia, il senso della Storia, il relativismo culturale, la mancanza di fede, l’esigenza critica, il bisogno di mettere insieme culture eterogenee. Non possiamo tornare ai filosofi pre-socratici, non possiamo tornare al pensiero mitico, non possiamo recuperate Tommaso D’Aquino o la mistica. Sono tutte cose che ci interessano, ma se crediamo di potercene appropriare direttamente, dimenticando la situazione della Modernità, allora finiamo nel kitsch, nella mascheratura.

Il mercato della cultura, l’industria della cultura, la produzione e il commercio dei contenuti di coscienza, la presenza delle grandi istituzioni culturali statali come la scuola e le università, è tutto questo che dà forma ai nostri rapporti con altre e diverse culture.

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

 Come ho detto, si tratta di liberare la modernità dalla vulgata, dallo scolasticismo, che tendono a disinnescare l’esperienza culturale moderna: la sdrammatizzano e fanno dimenticare che molta della letteratura e della filosofia, da due secoli a questa parte, è stata una lotta contro lo Stato e contro il Mercato, contro la riduzione della cultura a merce e a materia di studio.

3. Funzionari della cultura. La Modernità non si identifica con le avanguardie, con la liberazione ludica degli istinti e dell’immaginazione, con una pedagogia estetica da asilo infantile. I maggiori scrittori moderni, come Kafka, Svevo, Proust, Eliot, Céline, Gadda, Montale, non hanno niente a che fare con le avanguardie di gruppo, con i manifesti letterari. Sono dei solitari, vanno controcorrente da soli, con le loro sole forze. E rischiano il fallimento come individui. Non si mettono in gruppo per sentirsi protetti come i futuristi, i surrealisti eccetera.

 Oggi a volte ci si chiede come mai gli intellettuali abbiano perso autorità e peso culturale. Credo che sia perché sono diventati degli impiegati della cultura, dei funzionari che lavorano per far girare (magari a vuoto) la macchina istituzionale e produttiva. Non elaborano le loro idee e immagini del mondo rischiando di persona di scontrarsi con la società in cui vivono. O almeno questo avviene sempre più raramente. Anche perché dalla maggior parte degli intellettuali di oggi (ma lo stesso termine intellettuali andrebbe ridiscusso) la cultura non viene vissuta come una dimensione realmente impegnativa. In Italia poi gli intellettuali sono spesso arroganti socialmente, ma sul piano intellettuale e culturale in senso proprio sono timidi, vili: non osano formulare qualcosa se non sanno che quella cosa ha già avuto successo altrove. C’è poco coraggio, e quasi nessun rapporto fra ricerca intellettuale e comportamento reale. Si è mai visto da noi un intellettuale che cambia vita perché ha capito qualcosa di nuovo? Così, non c’è solo una “fine delle utopie”, ma c’è una vera e propria pacificazione nel rapporto fra Cultura e Società, e una conseguente diminuita autorevolezza degli intellettuali, perché il novanta per cento della loro elaborazione è semplicemente una risposta alle richieste delle istituzioni e del mercato. Secondo alcune interpretazioni il postmoderno è proprio questo: la fine del conflitto fra arti e società.

paul celan ingeborg bachmann

paul celan ingeborg bachmann

 4. Oscurità programmata. Non credo che le riflessioni di T. W. Adorno siano del tutto “superate”. Adorno è stato un grande pensatore, uno dei maggiori del secolo, e uno straordinario critico della società. Nella sua Teoria estetica, che spesso è contraddittoria, c’è un’interpretazione dell’arte moderna come difesa e rivendicazione dell’oscurità, di ciò che non è immediatamente comunicabile, «commerciabile» e socializzabile nelle nostre esperienze più profonde, esperienze che la società rifiuta o tende a neutralizzare e occultare. Adorno difende l’arte moderna contro l’ipocrisia e il filisteismo borghese e contro le filosofie ottimistiche dell’universale umano e del progresso. Questo non vuol dire, come molti credono, che Adorno sia un difensore delle avanguardie, che, come ho detto, sono un’altra cosa, un fenomeno più limitato: militante, pedagogico e prescrittivo.

Io tendo sempre a distinguere nettamente fra Arte Moderna e Avanguardia: intendo quest’ultima come un prodotto dell’autodifesa e dell’autorganizzazione direi “corporativa” degli artisti, che promuovono e divulgano il significato delle loro attività inaccettabili dal pubblico e dalla critica. Insomma, apprestano una specie di preinterpretazione  garantita di tutto quello che faranno.

herbert

zbigniev herbert

Ciò che fino alla metà dell’ottocento dalle filosofie idealistiche e umanistiche borghesi veniva considerato «universalmente umano», secondo Adorno nel Novecento diventa estraneo alla totalità sociale, sprofonda nell’individuazione, diventa oscuro, incomprensibile, inaccettabile, mostruoso. È insomma proprio l’umano ciò che il Sistema sociale reprime e rifiuta, facendolo passare per insignificante.

Da questo punto di vista, molte opere d’arte moderna sono risultate di fatto “oscure” non perché la loro lingua fosse tale, ma perché il loro contenuto veniva socialmente rifiutato. I poeti linguisticamente più chiari, in Italia, Saba e Penna per esempio, sono stati quelli più a lungo rimasti incompresi. Erano proprio la loro chiarezza a risultare incomprensibile ai critici, ai lettori. Il problema allora non è quello dell’oscurità o della chiarezza linguistica, ma di ciò che una cultura e un pubblico accettano o rifiutano, capiscono e non capiscono. Il problema dell’oscurità è un problema di rapporti fra opere letterarie e ambiente culturale. Oggi è l’oscurità programmata che rende pacifici i rapporti tra poesia e ambiente.

heidegger3

martin heidegger a passeggio

 5. No, Heidegger no. Io non apprezzo affatto Heidegger. Credo che sia un autore sopravvalutato, un autore che con il proprio lnguaggio ha contribuito alla formazione di una specie di kitsch filosofico: come se alzasse di continuo una bandierina per dire: «Attenzione, qui profondità filosofica». Ha mitizzato l’atto del pensare facendone qualcosa di solenne, una sorta di attività eccezionale e del tutto non comune, svincolata dalle esperienze comuni, cioè condivise, e dal linguaggio attraverso il quale queste esperienze vengono fatte. Anche qui, lo stesso paradosso. Mentre un filosofo spesso oscuro (inutilmente, manieristicamente oscuro) come Heidegger ha un successo straordinario, ipnotizza mezzo mondo e crea innumerevoli imitatori, viceversa un pensatore di straordinaria forza, attualità e limpidezza come Simone Weil stenta tuttora a farsi capire. Forse perché la sua chiarezza impegna più a fondo e più direttamente il lettore.

Comunque, semplificando molto il ragionamento, mi sembra innanzitutto che Heidegger, che ha fatto del linguaggio uno dei punti centrali della sua riflessione, abbia una consapevolezza linguistica confusa e usi spesso un gergo barbaro. Inoltre non capisco come si possa considerare grande un filosofo che ha ridotto tutto il problema della modernità al problema della tecnica, senza nominare i regimi politici, il capitalismo, la divisione di classe, le trasformazioni nella funzione sociale della cultura ecc. Crea seguaci e piace tanto ai filosofi, credo, perché è uno specialista della reductio ad unum. Per lui pensare è il contrario di osservare. Heidegger è riuscito ad assistere alla nascita del nazismo senza capire che era il nazismo…

Martin Heidegger

Martin Heidegger in campagna

 Non voglio neppure insistere sul fatto che il nazismo inizialmente lo ha entusiasmato: questo potrebbe capitare a un filosofo molto distante dalla politica. Ma poi non è riuscito né a ricredersi né a compiere un’analisi di eventi che hanno segnato l’intero secolo; eventi non marginali, ma rivelatori di quello che covava nel grembo della società moderna (e delle cultura tedesca). Heidegger è proprio l’esempio di come certa filosofia impegnata a pensare non abbia occhi per vedere ciò che è evidente. E questo è successo non solo a destra, ma anche a sinistra. La cosiddetta essenza dei fenomeni sociali non è affatto così «profonda» e invisibile come credono i filosofi di quel tipo. È invece osservabile: è un insieme di fatti empirici, di piccoli sintomi che molti scrittori avevano capito e descritto.

Si ritiene generalmente che Heidegger abbia posto la questione della natura del linguaggio – che non può essere inteso solo come strumento di comunicazione. Vorrei precisare che questa idea non l’ha inventata lui, e una delle cose che mi sorprende è che si attribuiscano ad Heidegger cose che scrittori e critici sapevano benissimo, almeno a partire dal romanticismo. La riflessione di Heidegger sul linguaggio e la poesia si limita a Hölderlin e Trakl, non è particolarmente originale né è in grado di cogliere la grande varietà della letteratura moderna, con i suoi diversissimi linguaggi. Tutta la poesia moderna, con Leopardi, Coleridge, Baudelaire, e innumerevoli altri, è una critica in atto della strumentalità del linguaggio, del suo impoverimento nella società borghese. Questa critica viene poi anche dai romanzieri (per esempio Flaubert). Heidegger fissa tutto questo in una formulazione filosofica che di fatto riduce e impoverisce la varietà e vivacità di quelle esperienze letterarie. Mentre, se si impara dagli scrittori, il senso della varietà e pluralità delle esperienze viene mantenuto.

czeslaw milosz

czeslaw milosz

 La letteratura aumenta il nostro grado di attenzione per la varietà delle esperienze reali per gli individui hanno della loro condizione personale e sociale: solo così capiamo meglio dove siamo e cosa possiamo fare, cosa che quasi mai avviene con le formulazioni di tipo teorico e filosofico. Questo lo ammette ormai anche qualche filosofo: Rorty per esempio dice che se dovesse scegliere tra Dickens e Heidegger butterebbe subito Heidegger e si terrebbe Dickens, che è uno scrittore, come si sa, poco teoretico e apparentemente superficiale, non certo fatto per ipnotizzare i filosofi, come Hölderlin…

 6. Leggere e scrivere: pratiche magiche. Il linguaggio verbale è qualcosa di molto prezioso, magari  poco appariscente, ma ci è molto vicino, molto intimo. Non richiede particolari e costose tecnologie per essere usato. Basta un foglio e una penna, si può scrivere ovunque.

La tradizione scritta ha poi nella nostra cultura un valore particolare, e io forse la apprezzo anche per una certa sua inattualità crescente: la considero come un punto di resistenza nei confronti di tecnologie comunicative più potenti. Però non ne faccio una questione di valore: la scrittura non è un valore in sé, e anzi molto spesso mi accorgo di accusare molti letterati odierni che non sentono abbastanza la sfida comunicativa che il presente pone al linguaggio scritto.

Certo scrivendo non si può sperare di avere l’impatto comunicativo di una rock-star o di registi come Spielberg. Ma proprio perché la lettura diventa sempre più un atto solitario, ostinato, individualistico, controcorrente, è tanto più importante non moltiplicare la massa dei messaggi scritti, ma diminuirla, essere più selettivi: non stampare tutto, ma stampare cose che valga la pena di leggere e rileggere. Bisogna essere efficaci, sintetici, tenere desta l’attenzione, perché non si può pensare che scrivendo si è garantiti da un privilegio, da un diritto all’ascolto, tutt’altro.

salman rushdie

salman rushdie

La poesia è stata inventata proprio per curare la qualità, essenzialità, densità e perfezione tecnica del linguaggio. È stata creata come messaggio memorabile, da imparare a memoria, da rileggere. Invece oggi la maggior parte delle poesie non solo non possono essere rilette, ma perfino impossibile leggerle. Sono labili, effimere.

La letteratura è qualcosa che ci tiene in contatto con una lunga tradizione, con qualcosa di arcaico. C’è perfino qualcosa di magico in questo, una specie di partecipazione per contatto, perché anche se non ci penso, ogni volta che mi siedo e comincio a scrivere o a leggere facendo attenzione a ogni frase e parola, in un certo senso entro in comunicazione con tutti quelli che hanno scritto e letto.

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

 È come quando, se mi sveglio per esempio alle cinque di mattina, sento che entro in comunicazione con tutti i pendolari che si sono alzati a quell’ora, anche se non li vedo. E se mi inginocchiassi a pregare, cosa che non faccio, entrerei in comunicazione con tutti coloro che nel mondo si inginocchiano a pregare o lo hanno fatto per secoli… Ecco, in un certo senso ci sono delle attività che ci mettono ancora in comunicazione diretta con parti della cultura umana che altrimenti tendono a sparire e morire.

Forse è questa la ragione per cui io scrivo ancora preferibilmente a mano, o uso la vecchia macchina da scrivere, cioè tecnologie un po’ vecchie, quelle che c’erano quando ho imparato a scrivere. Certe condizioni fisiche della scrittura tendo a conservarle così come le ho imparate, perché evidentemente sono un po’ superstizioso: temo che le nuove tecniche rubino e sottraggano all’atto di leggere e scrivere la sua forza magica…!

franco fortini

franco fortini

 7. Almanacchi, antologie. Ci deve pur essere qualche criterio di oggettività che ostacoli la tendenza dei poeti di oggi ad auto-consolarsi nel loro piccolo ghetto, nel quale niente e nessuno li contraddice. I poeti si sono ritagliati una zona protetta, si accontentano di poco, pretendono poco da se stessi, sono suscettibili e vanitosi ma non hanno vera ambizione. Non hanno più le grandi ambizioni che hanno sempre avuto i poeti – che possono anche non avere successo, ma contano sul valore e sul potere dei loro versi: la forza dei poeti è sempre stata questa.

Oggi tutto il sistema culturale tende a privilegiare il libro come merce piuttosto che come valore. Questo è inevitabile, sappiamo in che tipo di società viviamo. Ma la poesia è particolarmente sfavorita in questa lotta di mercato. D’altra parte esiste una specie di ingenuo feticismo dell’Autore, per cui anche chi scrive poesie ed è isolato e timido, è ipnotizzato dal miraggio di pubblicare il Libro.

Tra pubblicare con un grosso editore e pubblicare con una casa editrice minima la differenza è quasi nulla, perché non si viene quasi letti. I lettori sono in media qualche centinaio, se va bene: la critica quasi non reagisce, ormai non reagisce neppure alla pubblicazione di grandi poeti e di nomi famosi. E quindi per ritrovare una dimensione comunicativa, magari ristretta ma reale, bisogna liberarsi da questo feticismo dell’involucro libro, perché i libri di singoli autori vanno persi, annegano nella massa delle pubblicazioni.

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

 C’è poi anche un’altra ragione: sono veramente pochi, sono pochi  addirittura nell’intero Novecento, i libri di poesia che veramente reggano in quanto libri. Anche autori molto importanti si leggono bene in antologie: figuriamoci oggi che molti tendono a riempire di zavorra e a ripetersi, pur di avere materia sufficiente per fare il sognato libro. Sarebbe meglio trovare strumenti editorialmente più efficaci, come almanacchi e antologie periodiche che contengano il meglio di ciò che è stato pubblicato qua e là in un anno…

Insomma, quando un autore nella propria vita ha scritto una decina di belle poesie può essere soddisfatto, può essere definito poeta, lo è senz’altro. Ma se ha  pubblicato dieci brutti libri che non si leggono e non si ricordano perché non contengono neppure una poesia da ricordare, allora è stato tutto uno spreco.

8. Prima i lettori e poi i critici. Penso che la sola cosa utile sia dare forza al primo ed elementare atto della critica: distinguere coloro che sono poeti da coloro che non lo sono. Questo può apparire un atto brutale, crudele, ruvido, presuntuoso: ma una categoria pletorica, affollata di gente che si illude di scrivere poesia e scrive invece cosette avvilenti è quanto di più lontano dalla poesia.

Derek Walcott

Derek Walcott

 Molti di costoro si consolano con l’idea che la poesia è difficile e che la verità è perdente: ma è come pensare che, dal momento che molti grandi scrittori sono stati nevrotici o isterici, ogni isterico e nevrotico è un poeta. Si è scrittori e poeti per la straordinaria energia verbale, per lo “spirito” e perfezione di quello che si scrive, non per altro.

Distinguere è anche ciò che dovrebbe fare un pubblico reale di lettori: va bene, questi lettori saranno pochi, ma che almeno abbiano il senso della poesia e siano esigenti. Una critica non può fare quello che non fanno già da sè i lettori: perché un genere letterario sia vitale ci vuole certo anche la critica, ma anzitutto è necessario un pubblico, anche piccolo ma reale.

I veri lettori di poesia hanno delle reazioni vivaci, forti. Invece non se ne hanno, prevale una forma di auto-consolazione, perché chi legge brutte poesie a sua volta scrive poesie brutte e così non c’è via d’uscita. Chi scrive poesie lo si tratta come un bambino che non va inibito, a cui non si può dire mai la verità, anche perché oggi c’è una gran confusione sul talento artistico: è cortese e democratico riconoscere che tutti ce ne hanno un po’ o potrebbero avercelo con un piccolo sforzo in più. I gruppi di poeti sono diventati come degli asili infantili dove si deve incoraggiare, si deve sempre dire a tutti «come sei bravo».

 Il fatto è che certe arti, come la poesia e la pittura o anche il teatro, la situazione è arrivata a questo punto perché sono arti che non interessano molto, vengono ignorate e lasciate sopravvivere stancamente. Se la poesia interessasse come la musica classica, o anche come il rock, ci sarebbe un pubblico che vuole qualcosa e rifiuta qualcos’altro, distinguerebbe fra prodotti buoni e prodotti scadenti.

Ciò che interessa non è la poesia, ma un certo aroma, l’etichetta: interessa entrare in qualche modo, non importa come, a far parte di qualcosa che conserva un residuo di prestigio, crea identità, magari identità fittizie, dà un piccolo status symbol culturale. Ma allora la qualità di quello che si scrive e si pubblica passa in secondo piano, diventa irrilevante. Così la poesia si è resa irrilevante, è un nome vuoto…

Alfonso Berardinelli

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Carlo Sini SULL’IDEOGRAMMA E LA POESIA CINESE ANTICA – POESIE CINESI DI LI BAI (701-762 d.C.) “Bevendo da solo con la luna” Esercizi di traduzione – Epoca Dinastia T’ang – UNA POESIA DI GU CHENG, poeta della nuova generazione cinese tradotta da Stefania Srafutti, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

cinese donna con ventaglio

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 Sin dall’età classica vige in Occidente la tradizionale distinzione che oppone le arti dinamiche del tempo alle arti plastiche dello spazio, parola contro figura, poesia contro pittura, si potrebbe dire. La contrapposizione occasionò, come si sa, innumerevoli contese e reiterati interventi volti a stabilire la superiorità estetica ed espressiva delle prime arti sulle seconde o viceversa: una contesa, invero, oggi piuttosto datata. Ma se ci spostiamo in Estremo Oriente, per esempio in Cina, le cose, in particolare la distinzione tra figura e parola, assumono un altro senso. In base a tale senso, non vi sono dubbi nell’assegnare alla pittura la palma della vittoria su tutte le arti. Ma qual è il significato profondo di tale preminenza? Per avvicinarci a una risposta, ci riferiamo anzitutto a ciò che Shitao chiama “tratto”.

cinese L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

L’empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

Shitao è il più famoso dei nomi d’arte di Zhu Ruoji, la cui data di nascita si colloca tra il 1641 e il 1642. Di famiglia imperiale, patì lo sterminio totale dei suoi parenti nel corso della guerra civile e del crollo della dinastia Ming, alla quale si sostituì la dinastia Quing tra il 1644 e il 1645. Nascosto da un servo fedele presso i monaci del monte Xiang, il bambino crebbe e si istruì in questo monastero buddista dedicandosi alla pittura. Con gli pseudonimi di Onda di pietra (Shitao) e di Cucurbita amara viaggiò poi per la Cina divenendo famoso, Negli ultimi anni (la sua morte si colloca tra il 1703 e il 1710) si avvicinò alla pratica e al pensiero del taoismo. Oltre alla sua opera pittorica, che è tra le più alte della intera tradizione cinese, egli scrisse anche un trattato “Sulla pittura”, ed è qui che troviamo le sue riflessioni sul “tratto”. “Il tratto [del pennello] è l’origine di tutti gli esseri, è la radice delle diecimila forme. La pittura non sarebbe dunque arte suprema soltanto, ma addirittura l’origine di tutte le cose? Senza pittura non vi sarebbe dunque “realtà”? Un’ipotesi che suona di certo singolare, per non dire: stravagante. Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni? Dobbiamo leggere qui delle semplici metafore? Ma metafore, “trasferimenti”, in che senso? In ogni caso il senso resta ambiguo e per aprirci la via alla sua comprensione adeguata ci riferiremo ora a un testo classico: “L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica”.

cinese drago colorato Ne è autore Ernest Fenollosa (Salem, Massachusetts, 1853-Londra 1908), poeta, orientalista e primo teorico dell’arte asiatica. Fondatore della Tokio Art Academy e autore della prima importante storia dell’arte Orientale, composta nel 1906 e apparsa postuma nel 1912 con il titolo “Epoche dell’arte cinese e giapponese”, Fenollosa donò al museo dì Boston una straordinaria raccolta di pitture cinesi e giapponesi. Nel poemetto “East and West” (1893) egli auspicò l’unione delle arti e delle culture d’Oriente e d’Occidente come preludio a una futura civiltà globale. La sua opera ebbe notevole influenza su W.B. Yeats e sull’”imagismo” e “vorticismo” di Pound, il quale si diede alla ricerca di una lingua poetica condensata, essenziale e visionaria, a imitazione dell’ideogramma inteso come stenografia pittorica, ovvero come concentrazione metaforica di richiami visivi.

cinese paesaggio

 Leggiamo l’esordio del saggio di Fenollosa: «Il secolo ventesimo non solo apre una pagina nuova sulla storia del mondo, ma schiude anche un sorprendente capitolo. Orizzonti di strani futuri si aprono all’uomo; culture che abbracciano il mondo intero, svezzate quasi dall’Europa; per nazioni e razze responsabilità mai sognate. Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo». Dopo queste rapide notazioni, che sembrano dei nostri giorni, Fenollosa elenca molti pregiudizi occidentali nei confronti della cultura orientale. L’idea per esempio che i cinesi siano un popolo di materialisti, i giapponesi di “plagiari”; il vezzo di fare dei costumi di quei popoli materiale esotico da operetta e così via. Anziché demolire i loro porti e le loro fortezze con le nostre navi da guerra (come allora accadeva), anziché limitarsi a sfruttare i loro mercati, le nazioni occidentali, dice Fenollosa, dovrebbero impegnarsi a comprendere una civiltà la cui antichità è doppia rispetto alla nostra e il cui livello è pari a quello degli antichi popoli mediterranei, «Abbiamo bisogno dei loro migliori ideali per alimentare i nostri ideali incastonati nella loro arte, nella loro letteratura, nella tragedia della loro vita».

cinese DipintoDiCapodanno1 L’arte poetica è dunque il punto di riferimento del saggio, per la quale arte è però subito necessaria una precisazione. Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo: non qualcosa di accidentale, né di astrattamente metaforico. Fenollosa esemplifica la sua tesi con un riferimento concreto a un verso poetico che, tradotto in italiano, suonerebbe “Il sole sorge all’orizzonte”. Noi ascoltiamo i significati verbali o li leggiamo attraverso la scrittura alfabetica ma non osserviamo la scrittura alfabetica. Non avrebbe alcun senso per noi descriverla e analizzarla cosi: lineetta verticale con puntino, lineetta verticale più lunga, segno a serpentina e così via. Nel caso invece del verso cinese proprio questo si deve fare: si deve osservare attentamente la figura degli ideogrammi per comprenderne il senso.

donna cinese antica Cosa vedremmo allora leggendo? Vedremmo l’ideogramma del sole che occupa la parte sinistra del foglio (una specie di piccolo quadrato), A destra l’ideogramma dell’est, cioè ancora il sole che traspare però tra i rami di un albero stilizzato. Nell’ideogramma centrale che traduciamo col verbo “sorgere”, osserviamo sempre l’ideogramma del sole, posto un po’ più in alto rispetto al precedente, e sotto di esso una linea verticale che figura il venir fuori dalla terra di quello stesso tronco d’albero che vediamo raffigurato nel terzo ideogramma, Di fatto vediamo il sole sorgere sull’orizzonte. «Con l’occhio si vedono e si leggono in silenzio i caratteri, uno dopo l’altro», dice Fenollosa. Ed è così che la scrittura cinese ingloba un antico tratto pittografico. La pittura cinese, dice ancora Fenollosa, è qualcosa di più che simboli arbitrari; essa ha il vantaggio di combinare il tempo della parola parlata con lo spazio della figura. Essa «parla simultaneamente con la vivacità della pittura e con la mobilità dei suoni. In un certo senso è più oggettiva, più drammatica di ciascuna delle due separatamente. Leggendo il cinese non stiamo ad agitare bussolotti mentali, ma osserviamo cose evolvere il loro fato».

cinese vasi cinesi Un altro esempio è riferito a un verso che potremmo tradurre così: “L’uomo vede il cavallo”. Anche qui non simboli arbitrari, ma «la vivida pittura stenografica delle azioni naturali». Dapprima osserviamo la figura stilizzata dell’uomo sulle sue due gambe. Poi il suo occhio che percorre lo spazio: una figura audace di gambe che corrono sotto un occhio che si protende innanzi. Un disegno bizzarro e insieme straordinario: indimenticabile una volta visto. Infine il cavallo, saldo sulle sue quattro zampe stilizzate e la sua coda fluente. Ecco come la poesia cinese descrive le cose.
Più che cose in realtà vediamo azioni, «pitture stenografiche di azioni o progressioni». Ecco altri esempi.

L’ideogramma dì “parlare” è una bocca da cui escono parole e una fiamma […], l’ideogramma di “commensale” è un uomo e un fuoco. Non esiste in natura un vero nome, una cosa isolata. Le cose non sono che punti terminali, o meglio, i punti d’incontro delle azioni, sezioni intersecanti le azioni, istantanee. Né è possibile in natura un verbo puro, un moto astratto. L’occhio del lettore vede nome e verbo come un tutt’uno: cose in moto, moto nelle cose, è così che la concezione cinese tende a presentarli. Il sole sotto le piante in germoglio è “primavera” […], il campo di riso più la fatica uguale “maschio”, barca più acqua uguale “scia”, “increspatura”, ecc.
 Uno dei fatti più interessanti della lingua cinese è che vi vediamo non solo le forme delle frasi, ma come le parti del discorso crescono, sviluppandosi l’una dall’altra. Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate. La lingua cinese naturalmente non conosce la grammatica.
(Carlo Sini)

Poesie cinesi di Li Bai (701-762 d.C.) “Bevendo da solo con la luna” Esercizi di traduzione – Epoca Dinastia T’ang

Bevendo da solo con la Luna (prima traduzione)

Da una brocca di vino, in mezzo ai fiori,
solo, mi verso da bere, senza un amico accanto.
Levando la coppa, invito la pallida luna.
Ora siamo in due e, con la mia ombra, addirittura in tre.
La luna – è vero – non osa bere
L’ombra, poi, si limita a seguirmi macchinalmente.
Ma, almeno per un poco ho trovato dei compagni: la luna, l’ombra,
disposti a fare allegria, per arrivare alla primavera.
Mi metto a cantare, e la luna tenta in modo maldestro qualche passo di danza.
Mi metto a ballare, e l’ombra si agita scompostamente.
Finché sono stato lucido, direi che ci siam fatti buona compagnia.
Ma poi ho preso una bella sbronza, e ciascuno se n´è andato per conto suo.
Ormai legati per sempre, senza passioni,
ci diamo appuntamento, lontano, sul fiume delle nuvole.

月下獨酌
花間一壺酒 獨酌無相親

舉杯邀明月 對影成三人

月既不解飲 影徒隨我身

暫伴月將影 行樂須及春

我歌月徘徊 我舞影零亂

醒時同交歡 醉後各分散

永結無情遊 相期邈雲漢

(seconda traduzione)

Bevendo da solo con la Luna

Dal boccale di vino tra i fiori,
Sol bevevo senza compagnia.
Alzando il bicchiere domandai la luminosa Luna,
Portami l’ombra mia e diventiamo un trio.
La Luna non comprende la mia bevuta,
L’ombra segue silenziosa la mia figura.
La Luna accompagna temporaneamente l’ombra,
Prendo l’occasione per gioire un po’.
Il chiaro di Luna fa una passeggiata quando canto,
L’ombra galleggia insieme quando danzo.
Apprezzando d’essere amici mentre son sveglio,
La compagnia termina quando divento ubriaco.
Facciamo durare quest’amicizia per sempre,
Ci rincontreremo nel vasto cielo.

(terza traduzione)

Seduto lì tra i fiori, con la brocca di vino –,
festino solitario, privo di amici intimi –,
sollevo il mio boccale e invito il chiaro di luna.
Insieme all’ombra, poi, saremo in tre,
giacché la luna non si negherà al bere.
E mentre l’ombra seguirà il mio corpo,
intanto, al fianco suo, io scorterò la luna.
La via della gaiezza termina a primavera;
mentre la luna ondeggia, al mio canto, qua e là.
Ed ha un sussulto l’ombra, fremendo, alla mia danza.
Da sobri, noi viviamo di una gioia comune;
quando poi, nell’ebbrezza, ciascuno si disperde.
Noi tre, per sempre uniti, vagando senza affetti,
infine, in lontananza, saremo alla Via Lattea.

[Poesia cinese dell’epoca T’ang, traduzione di Leonardo Arena]

CINESE ANTICO

Gu Cheng, poeta delle nuove generazioni cinesi dalla biografia piuttosto tragica. La poesia si trova in questa raccolta: Occhi Neri – poesie giovanili ed è stata tradotta da Stefania Srafutti.

不要睡去,
不要亲爱的,
路还很长不要靠近森林的诱惑
不要失掉希望

请用凉凉的雪水
把地址写在手上
或是靠在我的肩膀
度过朦胧的晨光

撩开透明的暴风雨
我们就会到达家乡
一片圆形的绿地
铺在古塔近旁

我将在那儿
守护你疲倦的梦想:
赶开在一群群黑夜
只留下铜鼓和太阳

在古塔的另一边
有许多细小的海浪
悄悄爬上沙岸
收集着颤动的音响

Ritorno

Non andare a dormire, no
Amore mio, la strada è ancora lunga
non accostarti alle seduzioni della foresta
non perdere la speranza

Per favore con gelida acqua di neve
scrivi l’indirizzo sulla mano
oppure appoggiati alla mia spalla
per attraversare la semioscurità dell’alba

Aperta la tempesta trasparente
possiamo ritornare a casa
un cerchio di terra verde
si stende vicino a un’antica pagoda

Io sarò là
difenderò i tuoi sogni sfiniti:
respingerò folle di notti nere
lascerò solo i tamburi di bronzo e il sole

Dall’altro lato dell’antica pagoda
molte minuscole onde del mare
si arrampicano sulla sabbia silenziose
raccogliendo suoni tremolanti…

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni?”.

Vorrei partire da questa semplice osservazione di Shitao. Anche quando scriviamo una poesia adottiamo un “tratto” condiviso e accettato da una lunga tradizione e solidificatosi nella sintassi e nelle proposizioni. Ma, al di là di questa ovvia considerazione, se ritorniamo con la mente al problema del “tratto”, e lo colleghiamo ad una sua configurazione non più (o almeno, non soltanto) lineare-temporale ma anche (e soprattutto) ad una configurazione spaziale tridimensionale o quadri dimensionale, ecco che il problema del “tratto” ci può illuminare su ciò che stiamo facendo oggi in Italia nella poesia. Voglio dire che se noi accettiamo l’assioma, senza discuterlo, secondo cui la poesia è costituita come un discorso che si confeziona con l’abito lineare temporale del discorso, allora mettiamo un punto alla questione sollevata e non andiamo più avanti di un centimetro. Il discorso della poesia sarà quello che si svolge come un discorso lineare-temporale. Ma se noi mettiamo in discussione questo assioma e diciamo che la poesia è un discorso che si può sviluppare nelle tre direzioni dello spazio (oltre le due direzioni del tempo) tramite l’utilizzazione del “tratto” visto come una “immagine” in movimento, ecco che avremo fatto un decisivo passo in avanti.

Quindi, è il problema del “tratto” verbale (cioè della parola), che deve essere riconsiderato secondo questa nuova impostazione concettuale.

Tynjanov ne “Il problema del linguaggio poetico” (trad. it. Saggiatore, 1968, pag. 67) scrive:
“La parola non ha un preciso significato. È un camaleonte in cui si manifestano non solo sfumature diverse, ma talvolta anche diverse colorazioni.
L’astrazione della «parola» è insomma un cerchio il cui contenuto sarà ogni volta diverso in dipendenza della struttura lessicale in cui si colloca e delle funzioni di ogni singolo elemento del discorso. Essa è come una sezione trasversale di queste diverse strutture lessicali e funzionali”.

Questo lo dico per ricollegarmi alle brillanti considerazioni espresse in altri commenti da Steven Grieco Rathgeb, la cui sensibilità di poeta è più vicina a quanto andiamo dicendo per via della sua formazione culturale non italiana essendo vissuto per quasi tutta la sua vita in Asia e per aver studiato la poesia indi, giapponese e cinese antica.

Lo riflessione sull’ideogramma cinese ci può aiutare a capire la interdipendenza, la strettissima e antichissima correlazione della «parola» intesa quale «tratto» pittografico, figurativo, proprio della scrittura delle lingue orientali (cinese) e le linguae occidentali che ormai si sono emancipate da quella antica dipendenza, e l’hanno quasi rimossa del tutto, con inevitabile svantaggio per la scrittura poetica che così è venuta a perdere la ricchezza e le sfumature insite nel concetto di «parola» quale “tratto” pittografico trimensionale.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Antonella Zagaroli, Paolo Polvani, Giuseppina Di Leo, Lucia Gaddo Zanovello, Lidia Are Caverni, Eugenio Lucrezi, Loris Maria Marchetti, Annamaria De Pietro, Leopoldo Attolico, Ambra Simeone

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

“Potrei entrare nel labirinto
in quel vortice dove tutto si confonde
e il bianco accoglie ogni senso,
forse mi scoprirei come sono

nuda vertigine profumata.

Per rivelare la cadenza al ritmo
ti incontrerei sugli scogli, vergine madre mia”.

(1998)

 

“canto e brindo
con chi sa ascoltare nomi in risonanza,
all’orecchio strumento m’inchino.”

Fra tenerezza e turbamento
madre e suo nutrimento,
dai pori della terra semente aria

la maschera ritrova il suo senso,
nella corda d’altalena
nell’occhio della memoria, a schegge:

“Arresa al mondo possibile
dischiudo il crocicchio claustrale
per te, elisir accoccolato entro ogni cunicolo.”
Da Primo alfabeto 2002
È l’ora rosa
rintoccano le foglie
sui dorsi dei cavalli
su pietre che evaporano
vita solitaria,
nella dimora a bocciolo
avanza il centro che accoglie,
lascia inermi.

Dopo gli scrosci al buio
rrurr rrurr rrurr rrurr
la tortora si risveglia alla pienezza.
La riconducono primitive dee
danzando
in mezzo a parole senza pelle.

Dal flauto l’alito cresce alto
sfiora il confine al cielo
ridiscende
lentamente
in ogni organo,
torna a terra in continuità.

Da Venere Minima 2010

 

violino_Barroco

violino_Barroco

Paolo Polvani

La violoncellista

La violoncellista estrae dal pozzo della notte
un alveare volante, le rotaie
della metropolitana, un tonfo,
un garrulo stuolo di cornacchie,
il vento che gonfia le lenzuola, il vento
che fa di marzo un maestro di nitidezze.

L’archetto si profuma di laghi.

La violoncellista ci abitua ad ogni sorta di miracolo marino
la testa gonfia di singhiozzi
percorre le incongruenze delle periferie
i sussulti dei treni inghiottiti dalla nebbia
i tornanti scoscesi dell’amore.

La violoncellista esibisce a volte un sorriso che non è di questo mondo
ricorda le beatitudini del bosco
siepi di rosmarino spalancate sulle palpebre.

Ma io voglio vedere le sue gambe voglio vedere
se l’alba le disegna una città di mare sulla fronte.

Paolo Polvani, Murge 2013

Paolo Polvani, Murge 2013

L’ultima dimora di Tchiajkovski

Di Tchiajkovski abbiamo visto l’ultima dimora
passando in pullman di sfuggita
e ora è qui che ci abbaglia
ci fa lacrimare seduti
e dimenticare che ci ospita la pancia luccicante di un teatro.

Le passeggiate lungo i viali della Neva.
Le bocche che si cercano sono finestre sigillate
che scoprono i denti in un ghigno obliquo.
Queste sono le carezze che distribuisce il violino.

Le pozzanghere riflettono il cielo
di una profonda estate
cielo di velluto e smalto col fiato di uccelli fiduciosi.
Questi sono i vibranti schiaffi dei timpani.

I fulmini che scaglia il flauto si nutrono dei brividi
che costeggiano la vita come un mare perenne,
grigio e tormentato e austero Baltico,
solcato da battelli e dalle barbe dei loro capitani.

I caldi abbracci degli ottoni convergono all’ombra dei palazzi
interrogandosi sulla direzione della notte,
sui messaggi del vento,
sul moto ondoso delle morti e sul brulicante
prato delle rinascite.
Il maestro cavalca l’onda del fiume scintillante
ne conosce le anse fruscianti d’erba, i segreti anfratti,
conosce le carezze dei salici fulgenti.

Ma è il sole che si agita e che ci fa tremare.
L’orchestra invita il sole a splendere più forte.

 

musica tra gli egiziani

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

Quaresimale
(pausa)

Chiasmo stupore e sogno.
La lingua balbetta precisi rigori
parole di fiele da stille di miele
suoni d’inverno in converse primavere.

Per due soldi e un rancio di pane
sul punto solleva a gola d’organo
il basso la nota del pianto cattedrale.

(da Slowfeet, Gelsorosso 2010)

giuseppina di leo

giuseppina di leo

Il silenzio, silenzio non è. Se in questo silenzio
si ferma il giorno. Nell’ora della compieta
le parole fanno parentesi graffe
senza testa né coda;
tra riquadri luminosi evidenzia la pietra
i solitari profili umanoidi restano assorti in posa.
Dicono che tutto viene rimandato, pazientemente
separano note taciturne da porre al fondo dell’io
da chissà quale piano virtuale racchiuso dentro.
Ora, che un acuto bizzarro scaccia via anche il sole.

(2010 / 18 giugno 2014)

Stradivari 1681

Stradivari 1681

Lucia Gaddo Zanovello

Volúmine

Tiene cosí alto il tono
questa verità
che assorda
vibrando
tutte le stelle dei sentimenti
che trapungono
di malinconica meraviglia
il cobalto della notte.

Erma salì
profetica e perfetta
èmato enfiando nelle vene
igneo sguardo
a contemplare
l’errante errare
di quest’isola nel mare
che ha radice qui nel centro
dell’abisso che non vedi.

Canta ora con un’eco di risacca
a squarcia fiordo dentro il cuore
della musica interiore

la ridico come posso,
ma è una rana dentro il fosso
che una luna ha tinto in rosso.

(da Memodia, 2003) Continua a leggere

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PAUL CELAN (1920-1970) POESIE SCELTE traduzioni di Giuseppe Bevilacqua, a cura di Giorgio Linguaglossa

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Paul Celan

Paul Celan (Cernăuţi, 23 novembre 1920 – Parigi, 20 aprile 1970), poeta rumeno ebreo, di madrelingua tedesca, è nato nel capoluogo della Bucovina settentrionale, oggi parte dell’Ucraina, figlio unico di Leo Antschel-Teitler (1890-1942) e di Fritzi Schrager (1895-1942). Sin dall’infanzia, trascorsa quasi interamente a Cernauti (oggi Czernowitz), caratterizzata dall’educazione rigida e repressiva del padre, apprende la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca in particolare grazie alla madre. I primi scrittori ai quali si appassiona sono Goethe, Rilke, Rimbaud; coltiva un certo interesse per i classici dell’anarchismo, quali Gustav Landauer e Koprotkin, che preferisce decisamente alla lettura di Marx. Nel 1938, conseguita la maturità, decide di iscriversi alla facoltà di Medicina a Tours, in Francia. Il treno sul quale viaggia sosta a Berlino proprio durante la Notte dei cristalli. È in questo periodo che Paul inizia a scrivere le prime poesie (poi confluite nell’antologia postuma “Scritti romeni”), intensificando la lettura di Kafka, Shakespeare e Nietzsche. Tornato in patria, a causa dell’annessione della Bucovina settentrionale all’URSS, non può più ripartirne; si iscrive perciò alla facoltà di romanistica della locale università. Poco più tardi, nel 1942, in seguito all’occupazione tedesca della Bucovina, Celan vive direttamente le deportazioni che condussero gli ebrei di tutta Europa all’Olocausto.

paul celan ingeborg bachmann Il giovane Antschel (Celan, il suo nome d’arte è l’anagramma del suo vero cognome in ortografica rumena Ancel, ideato solo nel 1947) riesce a sfuggire alla deportazione ma viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania; perderà però definitivamente i genitori, catturati dai nazisti: il padre muore di tifo e la madre viene fucilata nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina. Nel 1944, dopo aver lavorato perfino come assistente in una clinica psichiatrica, pur di sfuggire alle deportazioni, con la conquista da parte delle truppe sovietiche, torna a Czernowitz per completare gli studi nella facoltà di anglistica; nel 1945, dopo aver donato tutte le sue prime poesie a Ruth Lackner, attrice e suo primo amore, lascia la città natale annessa all’URSS, e si trasferisce in Romania a Bucarest, dove lavora come traduttore e conosce alcuni importanti poeti romeni, fra cui Petre Solomon; è di questo periodo la pubblicazione della prima versione di Todesfuge. È però costretto a fuggire nuovamente, attraverso l’Europa, a causa delle persecuzioni del regime comunista; raggiunge prima Vienna, dove pubblica la sua prima silloge ufficiale, “La sabbia delle urne”, e un breve saggio di movente psicoanalitico, “Edgar Jenè e il sogno dei sogni”, poi trova ospitalità in Francia, a Parigi, dove si iscrive all’École normale supérieure. Nel 1950 pubblica una raccolta di aforismi, intitolata “Controluce”. Si sposa nel 1952 con la pittrice Gisele de Lestrange e pubblica il suo scritto più famoso, Mohn und Gedächtnis, contenente la celeberrima poesia Todesfuge, cioè “fuga (termine musicale) della morte” ma anche molte poesie di ispirazione più romantica. Si appassiona in questi anni alla lettura di Heidegger, che segnerà profondamente il suo percorso poetico; ha anche frequenti contatti con René Char e, poco dopo, con la poetessa Nelly Sachs.

paul-celan Nel 1953, ormai inseritosi nel tessuto culturale francese, subisce gravissime accuse di plagio da parte della vedova del poeta Yvan Goll; Celan riuscirà a scagionarsi, ma questa vicenda minerà profondamente le sue condizioni psichiche, già provate dagli avvenimenti dell’infanzia e del periodo bellico.
Sempre più frequenti divengono in quegli anni i contatti con gli ambienti culturali tedeschi, con il Gruppo 47 (anche in seguito a una breve relazione, risalente al 1948, con la poetessa Ingeborg Bachmann) e altri poeti e scrittori. Occasione di questi incontri sono diverse letture pubbliche di poesie (peraltro inizialmente accolte con una certa freddezza dagli esponenti del gruppo 47) e, in particolare, alcuni premi, fra i quali quello della città di Brema, nel 1958, in occasione della cui consegna Celan descrive la sua poesia come “un messaggio in bottiglia”.
In particolare dalla metà degli anni cinquanta si dedica, anche al fine di mantenersi economicamente, a una intensa attività di traduttore da varie lingue: traduce Emil Cioran, Ungaretti, Paul Valéry e altri. I contatti con la Germania, dopo il premio dell’associazione industriali (1956) e quello di Brema, divengono sempre più frequenti. Nel 1959 diviene lettore di lingua tedesca all’ENS, attività che proseguirà fino alla sua morte. Un progettato incontro con il filosofo Adorno non riesce; conosce invece il critico letterario Peter Szondi, che gli dedicherà significativi scritti.

paul celan bachmann

Paul Celan

 Nel 1960, in occasione della consegna del premio Georg Büchner, pronuncia un importante discorso sul valore della poesia, dal titolo Der Meridian. Nel 1962 subisce il primo ricovero in clinica psichiatrica, derivante da un pesante sentimento di angoscia; gli sono vicini, in questo periodo, il poeta Yves Bonnefoy e lo scrittore Edmond Jabes. Proprio in questo periodo, fra i frequenti ricoveri in clinica, concepisce le sue massime opere poetiche, la prima, ispirata all’epitaffio di Rilke, “La rosa di nessuno”, e la breve silloge “Cristallo di respiro”, illustrata dalla moglie ed esposta in edizione di lusso al Goethe Institut di Parigi, nel 1965. Nel 1967, in seguito a un progressivo peggioramento delle sue condizioni psichiche, si separa dalla moglie, dalla quale aveva avuto due figli, Francois nel 1953 (morto dopo pochi giorni di vita) ed Eric nel 1955. Sempre nel 1967, dopo aver tenuto pubblica lettura delle sue poesie a Friburgo, incontra nella baita di Todtnauberg il filosofo tedesco Heidegger, cui chiederà, senza successo, un ripensamento sulla sua silenziosa complicità col nazismo.

cancianiDapprima vicino al movimento studentesco del 1968, se ne allontana temendone la svolta violenta e ideologica; nel 1969 finalmente riesce a compiere il suo primo viaggio in Israele; svolge inoltre alcune letture pubbliche, fra le quali ancora una a Friburgo, presso Heidegger, che il poeta rimprovera aspramente per la disattenzione con cui lo ascolta.
Nella notte tra il 19 e il 20 aprile del 1970 si toglie la vita gettandosi nella Senna dal ponte Mirabeau, prossimo alla sua ultima dimora di avenue Zola. Il suo corpo sarà ritrovato i primi di maggio, a pochi chilometri dal ponte. Gli eventi successivi a quella notte, che rientrano a giusto titolo in una biografia, sono scanditi dalla pubblicazione delle sue ultime raccolte di poesie: Lichtzwang che uscirà nel mese di giugno del 1970, già da tempo consegnata all’editore, Schneepart, composta nel 1968 e licenziata nel 1971, infine Zeitgehöft, che comparirà, davvero postuma nel 1976, ricomposta ed intitolata sulla scorta di una cartella ritrovata in avenue Zola, ma non ordinata dall’autore.

campo di concentramento 2.

Todesfuge, ovvero “Fuga di morte” rappresenta la più famosa poesia dell’autore: è un acutissimo grido di dolore: la realtà del campo di concentramento, la condizione dei prigionieri, la banale crudeltà dei carcerieri nazisti. Il titolo, originariamente TodesTango, coniuga la morte con il ritmo musicale proprio della Fuga, che Celan si propone di riprodurre nell’andamento dei suoi versi; in esso è da vedersi anche un richiamo diretto all’imposizione umiliante, inflitta dai nazisti agli ebrei prigionieri dei campi, di suonare e cantare durante le marce e le torture.

Celan scrisse questa poesia pochissimi anni dopo la fine della guerra, tratteggiando quindi una descrizione a caldo dell’evento; Todesfuge divenne quindi l’emblema poetico della riflessione critica intorno all’Olocausto, soprattutto essendo stata scritta da un ebreo, che aveva conosciuto la realtà dei lager, e tuttavia in lingua tedesca – la lingua materna di Celan. Celan stesso non mancò di dare lettura pubblica della sua poesia, in Germania, e di concederne l’inserimento in alcune antologie; successivamente però si rammaricò dell’eccessiva notorietà di questo testo, la cui diffusione poteva costituire anche un modo troppo facile da parte dei tedeschi, a suo avviso, di liberarsi del senso di colpa per i crimini nazisti. In questo quadro va ricordato anche il celebre verdetto di Adorno, secondo il quale non è più possibile scrivere poesie, dopo Auschwitz: in questo senso Todesfuge, e tutta l’opera poetica di Celan, costituisce una vera e propria resistenza a questa condanna, un tentativo disperato e tuttavia lucidissimo di trasformare l’orrore assoluto in immagini e linguaggio.

campo di concentramento 3.

La poesia contrappone due donne: Sulamith, ebrea prigioniera del campo, e Margarete, amante ariana dell’ufficiale della Gestapo. La lirica si apre con un ossimoro dal significato tanto innaturale quanto sconvolgente: schwarze Milch, “latte nero” simboleggia l’esperienza atroce della privazione del cibo e di tutto ciò che è necessario per vivere; inoltre l’ossimoro ritorna spesso all’interno del testo, così come gli avverbi di tempo ed alcuni verbi, mettendo in questo modo l’accento sulla monotonia che tristemente accompagnava i lavoratori dei campi di concentramento. Ed è ancora un vortice di parole che si ripetono ad inquadrare l’attenzione del lettore sulle fosse che vengono scavate, in terra e nelle nuvole, pronte ad ospitare i resti degli ebrei, controllati a vista dagli occhi blu degli uomini che “giocano con i serpenti” e che “scrivono ai capelli d’oro”, palese riferimento alla razza ariana predicata da Hitler.
campo-di-concentramento 1Nel corso del testo vi sono alcuni riferimenti biblici, di cui Celan era un esperto, ma soprattutto ritorna una frase che verrà in futuro ripresa e riutilizzata in altri contesti, fino a diventare un vero e proprio slogan dell’antifascismo in Germania: der Tod ist ein Meister aus Deutschland, cioè “la morte è un maestro (che viene) dalla Germania”.

La lirica si chiude, infine, con un ultimo ritorno, e poi si interrompe, quasi a simboleggiare la mancanza di parole per descrivere ulteriore dolore, solo un ultimo richiamo a Margarete dalla chioma dorata, e a Sulamith dalla chioma… in cenere.

I tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith.

campo di concentramento.

Fuga di morte
da “Papavero e memoria” (“Mohn und Gedachtnis”)

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo al meriggio, al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive e va sulla soglia e brillano stelle e richiama i suoi mastini
e richiama i suoi ebrei uscite scavate una tomba nella terra
e comanda i suoi ebrei suonate che ora si balla

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino, al meriggio ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Egli urla forza voialtri dateci dentro scavate e voialtri cantate e suonate
egli estrae il ferro dalla cinghia lo agita i suoi occhi sono azzurri
vangate più a fondo voialtri e voialtri suonate che ancora si balli

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca coi serpenti
egli urla suonate la morte suonate più dolce la morte è un maestro tedesco
egli urla violini suonate più tetri e poi salirete come fumo nell’aria
e poi avrete una tomba nelle nubi lì non si sta stretti

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
egli ti centra col piombo ti centra con mira perfetta
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria
egli gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

 

Todesfuge

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar
Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne
er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich morgens und mittags wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar
Margarete
Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den Lüften
da liegt man nicht eng

Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern singet und spielt
er greift nach dem Eisen im Gurt er schwingts seine Augen sind blau
stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr andern spielt weiter zum Tanz auf

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen

Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags der Tod ist ein Meister aus Deutschland
wir trinken dich abends und morgens wir trinken und trinken
der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau
er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der Luft
er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein Meister
aus Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith

 

Paul-Celan

Paul-Celan

Con alterna chiave

da “Di soglia in soglia” (“Von Schwelle zu schwelle”)

Con alterna chiave
tu schiudi la casa dove
la neve volteggia delle cose taciute.
A seconda del sangue che ti sprizza
da occhio, bocca ed orecchio
varia la tua chiave.

Varia la tua chiave, varia la parola
cui è concesso volteggiare coi fiocchi.
A seconda del vento che via ti spinge
s’aggruma attorno alla parola la neve.

 

Mit wechselndem Schlüssel

Mit wechselndem Schlüssel
schließt du das Haus auf, darin
der Schnee des Verschwiegenen treibt.
Je nach dem Blut, das dir quillt
aus Aug oder Mund oder Ohr,
wechselt dein Schlüssel.

Wechselt dein Schlüssel, wechselt das Wort,
das treiben darf mit den Flocken.
Je nach dem Wind, der dich fortstößt,
ballt um das Wort sich der Schnee.

cassandra_1.

Nei fiumi a nord del futuro

da “Virata di respiro” (“Atemwende”)

 

Nei fiumi a nord del futuro
getto la rete che tu,
esitante, carichi
di ombre scritte
da pietre

 

In den flussen nördlich der Zukunft

In den flussen nördlich der Zukunft
werf ich das Netz aus, das du
zögernd beschwerst
mit von Steinen geschriebenen
Schatte.

 

Celan Paul

Paul Celan

Da Brancusi, in due

da “Fotocostrizione” (“Lichtzwang”)

Se di queste pietre una
lasciasse trapelare
ciò che la nasconde:
qui, accanto,
dalla gruccia di questo vecchio,
si schiuderebbe, come ferita
in cui ti dovresti tuffare,
solitario,
lontano dal mio grido, già
sbozzato anch’esso, bianco.

Bei Brancusi, zu zweit

Wenn dieser Steine einer
verlauten ließe,
was ihn verschweight:
hier, nahebei,
am Humpelstock dieses Alten,
tät et sich auf, als Wunde,
in die du zu tauchen hättst,
einsam,
fern meinem Schrei, dem schon mit-
behauenen, weißen.
magritte-1Mandorla

Nella mandorla – cosa sta nella mandorla?
Il nulla.
Nella mandorla sta il nulla.
Lì sta e sta.

Nel nulla – chi sta? Il re.
Lì sta il re, il re.
Lì sta e sta.

Ricciolo ebreo, non diventare grigio.

E il tuo occhio – per dove sta il tuo occhio?
Il tuo occhio sta davanti al nulla.
Sta verso il re.
Così sta e sta.

Ricciolo d’uomo, non diventare grigio.
Mandola vuota, blu regale.

Mandorla

In der Mandel – was steht in der Mandel?
Das Nichts.
Es steht das Nichts in der Mandel.
Da steht es und steht.

Im Nichts – wer steht da? Der König.
Da steht der König, der König.
Da steht er und steht.
Judenlocke, wirst nicht grau.

Und dein Aug – wohin steht dein Auge?

Dein Aug steht der Mandel entgegen.
Dein Aug, dem Nichts stehts entgegen.
Es steht zum König.
So steht es und steht.
Menschenlocke, wirst nicht grau.
Leere Mandel, königsblau.

 

germaniae_antiquae_libri_tres_plate_18_clc3bcver[1]Corona

da “Papavero e memoria” (“Mohn und Gedachtnis”)

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi ci amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
E’ tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
E’ tempo che sia tempo.

È tempo.

Corona

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde,
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten;
wir sehen uns an, I
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.
Es ist Zeit.

 

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI Anna Ventura, Antonio Sagredo, Giuliana Lucchini, Flavio Almerighi, Giuseppe Vetromile, Silvio Aman, Sandro Angelucci, Marisa Papa Ruggiero, Adam Vaccaro, 

 

musica rinascimento

Anna Ventura

Anna Ventura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anna Ventura

Fitzcarraldo

Quando penso alla musica,
mi viene in mente quel bellissimo film,
Fitzcarraldo,
dove un uomo folle e affascinante
trascina una nave nella giungla
per lì ascoltare
la voce di Caruso.
Questo sì- ho pensato-
Vuol dire amare la musica!
O era la musica,
stanca di teatri e salotti,
che spingeva l’uomo e la barca,
l’altare e il suo sacerdote?

 

musica 

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

Antonio Sagredo

Angeli neri hanno spento i candelabri,
il sole è impazzito per troppa luce:
è che la gioia ha trattenuto il canto
coi passi di una danza mai più moresca.

Ma non è l’angelo il sigillo di una spada
o lo scettro del fiore nel fondo della coppa:
è che il cuore ha troppo battuto la canzone
e invano la parola detta un nuovo dramma.

E quando il suono colpirà la tempia
vedrete la fornace negli occhi spaventati,
lo squillo sfonderà il corpo innamorato,
la mano, Filli, non fermerà il sangue!

Brno 2-3 agosto 1983

*

Giocherai la sorte nella fiamma, angelo,
nero balocco o marionetta,
che dai fili non azzarda un suo respiro,
ma condanna il moto ad uno specchio eterno.

Anche le lacrime hanno un’ombra da impiccare!

Brno 5-8 agosto 1983

*

Nella cripta i cappuccini
ignorano gli orologi atomici.

Neri e immortali
costano soltanto una corona.

La santa e il cavaliere
sono molto ospitali:
formano una strana croce
dopo ogni lunedì.

Più in là, nel refettorio,
cantando i monaci mangiano le offerte –
una nuova legge li offende,
poveretti, non han di che parlare!

Brno, 9 agosto 1983

*

Che martedì!
Spade intrecciate e mute
Sono la mia corona!

Il tempo sigilla come uno sciacallo
Le leggi di una donna – rigida nell’ambra!

Lacrime crollano come ghigni neri,
cesellati sono i contorni della pietra!

Brno, 10 agosto 1983

 

 

giuliana lucchini con la chitarra

giuliana lucchini con la chitarra

Giuliana Lucchini
LC Poesia, 2012

donde hay musica, Señora,
no puede haber cosa mala

(Miguel De Cervantes)

(omaggio agli strumenti musicali)

Altero
fra le sue braccia
immenso gli spinge
il fiato, gli forza le dita –

e salta e sbuffa, respiro alle corde,
e ride e morde,
corrente elettrica –

lo piega ad arco
e suda e si spoglia, brunito
corre, sospira grida

scivola si rialza – alla rocca si fuga
delle sue mani, creaturale riflette
la mente in danza intorno al suo dio

(o mano che formi la voce
che sali e respiri la luce, ti posi, porti
ostia, eucarestia)

così piange e canta
inno dei cieli
il corpo d’amore

per ascoltarlo devo
inerpicarmi su fino ai bastioni
fino ai merli

la tastiera turrita
dalla porta più bassa
del castello

 contrabbasso

contrabbasso

 

 

 

 

 

(contrabbasso)

 

Mio legno di betulla e di ambrosia
cullami, con tutti i colori che in te
vibrano confortami, rallegrami
mentre t’abbraccio e ti ascolto

tu che sai smuovere le montagne
e fai rivivere eriche di brughiera
in turbolenze d’Ellis * sopra il mio capo
con il tuo canto, voce di campana,

o con la mano negra il duolo
di Summertime. Intorno a te allacciata,
salsa e mango
in giro vorticoso destami

e l’avvoltoio
di pietra e d’oro, dal copricapo
del Faraone

* Ellis Bell (= Emily Brontë, ‘Wuthering Heights’)

 

E .. toccami toccami preghiera, oh Crux,
improvvìsati perno, batti, metronomo,
le dita morbide sopra la pelle del pensiero,
ogni battito un tremito,
entrami ritmo, irripetibile vocale,

goccia a goccia scioglimi
il labbro e tenue aprimi
il canto liquido,
tu l’infrangibile, per un mio sorso
dentro il tuo bicchiere

Giuliana Lucchini violoncellista

(violoncello)

Si viveva in armonia di strumenti,
su nella camera vicina al sole, d’angolo lasciata chiusa
su tre finestre di pietra. Un’arpa,
di cornice d’oro, un fortepiano per dita bambine,
una grande specchiera ballerina. E la chitarra
sul tetto

A conca il letto, di piazza tesa

Di tutti gli angeli musicanti
di legno decorato
che versano suoni dal paradiso dei vasi
stretti all’arca arenaria sulla parete,
la tramontana in treno intorno alle tube,
sia sole o pioggia o vento al davanzale,

sempre sentivamo alto
uno strumento solo

la voce
umana

 

Stradivari 1681

Stradivari 1681

 

flavio almerighi

flavio almerighi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Flavio Almerighi

Stradivari faceva violini

Stradivari faceva violini,
Vannucchi la rivoluzione
col fazzoletto rosso
senza sfumature al collo:

è noto come il legno cresciuto
nei boschi della glaciazione
disperda melodie più dolci,
la musica non si imprigiona

l’altro invece va via romantico
insieme alla rivolta,
e alla parlata onesta
dell’operaio col padrone.

Entrambi lasciati indietro
da storia e geografia,
essere provvisori è una cifra
esosa da pagare,

ma oggi abbelliscono stanze
le stesse,
dove soltanto la musica
esplode

canzonette

Ogni brano vive
dei propri dialetti in posa
come prima di partire,
chi ha mani grosse
non restituisce carezze
alle poche nubi
lasciate perdere
dall’ultima perturbazione

migra senza complimenti,
e passo passo la terra
deglutisce l’ultima tempesta

intanto grate, le foglie
comprimono i nervi
dandosi del tu,
l’umano vergognoso
riporta in soffitta i dischi
di canzonette rinnegate
dopo la maturità,

fessura duro gli occhi
sugli angoli della bocca,
accende la radio. Continua a leggere

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QUATTRO POESIE DI ANNAMARIA DE PIETRO

città tram

 Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012).

annamaria de pietro

annamaria de pietro

La grida

A Roberto Bertoldo,
che non consente a bandi e gride

Serva che imprime aria alla tromba la fama
– scatole di gioielli nelle sue stanze, inclinati
specchi con le chiavette la mano il guanto di pochi gradi
toccando come la polvere ne spinge indietro la lama
– collarette di piume dentro ai suoi concavi armadi,
che il taglio attorno al collo non le si veda nel palco
dei detti e della musica, dei candelabri affamati
lingue d’aria e di vino insanguinate di tagli
– carichi d’aria i ventagli quando nel vento versati
chiamando l’aria ridente – che lentamente si scosta,
perdendo il vento che ride – con tutti i venti passati,
essi sono i ventagli che fanno il vento allo sbando
e il vento che ritornando di aria allo sbando si sfama.
Ma quella mano oltre la tenda si mantiene nascosta
(tiene un filo di corda, trattiene i geti del falco) –
contro il soffitto d’ombra volano uccelli di passo,
occhi d’incendio dallo spiraglio bui spalancando il diorama
– prendi – gridano – prendi –, sia tutta intera la posta,
una mano di piume, e di specchiere e ventagli,
e una mano a terziglio dove col due prendi l’asso,
che come scende la sera tutti discendano al basso
da pace a guerra forte dentro un maestoso calando
lungo la morbinosa tua apparatura di sbagli.
Senti?, gridano il bando il re, il fante, madama.

Il caprifoglio

A Marica Larocchi,
che pronuncia
una fiorita genetica bilingue

La chèvrefeuille io dico – cosí mi appare
scritta sonante la pianta che si gira
– io l’ho veduta sopra il giardino alto –
ma non lo mostra, e ricade anse salendo
– e io non so come, somigliante alle more,
ma con rosso di ribes traslucidamente
quello? o altro verde inestricato là
al medesimo ferro addosso ardendo –
– la domanda io trasportai giú dalla scala –
cosí le corna orgogliose ostende denso
né fugge dalle sbarre mai del cancello
– come se voglia e genio fosse restare –
né alle domande risponde con falsità
di alieni – o suoi? – gioielli di altro colore
che sue radici – o altre? – ferocemente
– radici comunque, pensai sulla scala –
sospendono fruttificati per salto
al – cosí ora dico – caprifoglio immenso
soggetto ai cieli, al setaccio che gira.

Miniera d’aria (profezia di dolce fiume)
(profezia di dolce fiume)

L’aria è spire nell’aria se un ventaglio di piume
addetto a un fuoco estinto inutilmente batte
in sé solo battendo defluenza di fiume.
Cosí l’aria rientra nelle sue stesse tasche
dopo che uscita a strisce libera si conobbe
e in sé riconoscendosi di foglie si rinfresca
e chi la vede entrando da una porta ad un tratto
piú non la riconosce, non gli sembra la stessa.
Sul piano di maioliche il ventaglio fa notte,
e dormendo dimentica l’ammirevole tresca –
cosí l’aria fa notte fra le garze rifatte
preziosamente buia come miniera di allume.

Quarta parete

A Enrica Salvaneschi,
che s’interrogò sulla sintassi
della bigiotteria

Lei stava nel sipario – lei il sipario
percorso dai pulviscoli – aria d’oro
confondeva i capelli al semicerchio
del lino bianco del colletto – vuota
intorno al suo restare era la buca
verticale, e l’unica parete
sicura della scatola, e finita
di lati quattro lei sola abitava.
Sola abitava lei il proscenio cieco,
l’estrosa tavola levata – e intanto
mentre una voce ciascuno aspettava
– di quelli dentro dico – la sua attesa
come una vena lunga camminava
il percorso del braccio duro ariete
di traverso e di sbarra urto alla mano
appoggiata allo stipite, e i pendagli
del braccialetto contro luce e d’ombra. Continua a leggere

1 Commento

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POESIE INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Antonella Zagaroli, Marisa Papa Ruggiero, Maria Pia Quintavalla, Adam Vaccaro, Meeten Nasr, Lucia Gaddo

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

 

duchamp bicycle wheel

duchamp bicycle wheel

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

da Trasparenze in vista di forma
(poesie su foto)

Ti dici arrabbiato cartone inanimato

ti senti in gabbia?

Agli incauti spettatori
la lastra gialla mostra cosa pensi

ti diverti con lo scherno
ma non starai lì a lungo a beffare
hai gli occhi ampliati dall’orrore

Divino accusatore
presto qualcuno ti coprirà
nella biacca
fino al buio delle pupille.

30 maggio 2011 (foto Uno sguardo)

*

Paesaggio d’ombre illuminate
spiraglio d’ inconcludente materia
l’ occhio cerca un nome
anche nella polvere
anche in un angolo appartato

1 luglio 2011 (foto Tre sedie)

*

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

 Marisa Papa Ruggiero

A Paxos

Il grido secco di un corvo
su rupi calve di fronde
zittisce gli uccelli
rompe la simmetria del cancello
appena schiuso

Paxos riflesso nell’occhio del corvo
strapiomba nel mio occhio

Voli plumbei di nubi corrono a Paxos
Il fragore in acqua di un sasso
La foresta di querce esce dal quadro
Intere genealogie alfabetiche
aderiscono al crollo e tacciono
Laggiù fra i sassi
la nudità di un’orma dice
la calibratura esatta del mio corpo
attraverso lo spazio vuoto che la cinge

Io non giungo né mi allontano
acque vanno nella direzione opposta
più al largo di noi
dove mai torneremo

A Paxon il mio idillio in punta di piedi con la morte

Non mi adesca di queste acque il virus
che sbianca il viso il corpo
di chi la lingua ha mozzata
ma ne allatta l’assenza la concima
Del nuovo regno riconosco le piste
le ombrose spore tra nervo e nervo
le mucillagini remote
Papille di resina fiutano antichi Sali
sottolingua e le cortecce fibrose e i succhi
sulfurei
negli antri della carne

Invio segnali da questa pagina strappata
fumo nero da comignoli divelti
in lotta sulla mia pelle
le mie dita su tavolette di cera sanno
i codici rizomatici
esposti al flash al raggio

Scavo dentro le ossa la mia fatica
di minatore per ogni segnalibro
di germi vivi
tacendo tutto gridando
la sveglia senza lancette sul cuscino
l’ininterrotto crimine

A Paxos mi corre incontro mi acceca la parola mai stata

Ha strida gelate il corvo vola in cerchio
Il concentrico volo dentro il nulla
il corvo ha nell’occhio il soffio
ribollente e il sangue di tenebra
che lampeggia a distanza tra i tronchi

L’altra faccia che mai si mostra dorme di fianco
dice l’ombra che non ha suono
nella lingua dei vivi
dice l’erranza di tutte le parole
che mi hanno bucato palato e lingua
la mia zattera sempre più al largo
che scende il fiume
il sasso in ogni tasca
l’approdo mai stato

Paxos sogna se stesso nel quadro
in qualche piega storta della galassia
che adesso è fumo
Il gabbiano è quietamente sazio
Nessun albero da nessun suicidio è scosso
Il guardiano dello scoglio
reclina il capo sull’ala

30 maggio 2014

 

Maria Pia Quintavalla

Maria Pia Quintavalla

 

 

 

 

 

 

 

Maria Pia Quintavalla

Natura morta

Un cavallo legato
ad una grande fiamma che brucia

un annegamento dolce in un fiume
che rapidamente

una strada stretta di pioggia
che appoggia
tra due campi uno verde
l’altro marrone.

 

adam vaccaro

adam vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

 

Adam Vaccaro

Nature morte

Osso era un signore duro e fragile che riteneva di
essere il perno portante di ogni massa, somma
quasi di una forma di dio. Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento

*

Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa
propria incontrò finalmente un vento così forte
che lo inebriò al punto di fargli perdere misura
senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel
delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive
del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto

*

Il Sapore di quel pomodoro in campo aperto e
suo padre che diceva un po’ di sale da esperto
le rimarranno dentro gioia di un rubino rubato
in un sogno di libertà mai più ritrovato dentro
questa città in cui cammina gobba muro muro

pronta a fare balzi appena fila odore di potere
a fare versi e dire assaporando il suo sfintere
persino in nome delle donne pur di salire
scalini pronta a offrire fessure seno e gonne
facendo misture di fiele e miele Continua a leggere

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WILLIAM BUTLER YEATS, SAILING TO BYZANTIUM (Navigando verso Bisanzio) (THE TOWER, 1927) Commento e versione di Giorgio Linguaglossa

 

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

 Sailing to Bysantium (Navigando verso Bisanzio)

I.
That is no country for old men.
The young in one another’s arms, birds in the trees –
Those dying generations – at their song,
The salmon-falls, the mackerel-crowded seas,
Fish, flesh, or fowl, commend all summer long
Whatever is begotten, born, and dies.
Caught in that sensual music all neglect
Monuments of unageing intellect.

I.
Quello non è un paese per vecchi.
I giovani l’uno nelle braccia dell’altro, gli uccelli sugli alberi –
Quelle generazioni morenti – intenti al loro canto,
Le cascate ricche di salmoni, i mari gremiti di sgombri,
Pesce, carne, o volatili, per tutta l’estate lodano
Tutto ciò che è generato, che nasce, e che muore.
Presi da quella musica sensuale tutti trascurano
I monumenti dell’intelletto che non invecchia.

Yeats 4

S.B. Yeats

 

II.
An aged man is but a paltry thing,
A tattered coat upon a stick, unless
Soul clap its hands and sing, and louder sing
For every tatter in its mortal dress,
Nor is there singing school but studying
Monuments of its own magnificence;
And therefore I have sailed the seas and come
To the holy city of Byzantium.

II.
Un uomo anziano non è che una cosa miserabile,
Una giacca stracciata su un bastone, a meno che
L’anima non batta le mani e canti, e canti più forte
Per ogni strappo nel suo abito mortale,
Non v’è altra scuola di canto se non lo studio
Dei monumenti della sua magnificenza
E per questo ho messo vela sui mari e sono giunto
Alla sacra città di Bisanzio.

III.
O sages standing in God’s holy fire
As in the gold mosaic of a wall,
Come from the holy fire, perne in a gyre,
And be the singing-masters of my soul.
Consume my heart away; sick with desire
And fastened to a dying animal
It knows not what it is; and gather me
Into the artifice of eternity.

III.
O saggi che state nel fuoco sacro di Dio
Scendete dal sacro fuoco, scendete in spirale,
Come nel mosaico d’oro d’una parete,
E siate i maestri di canto della mia anima,
Consumate tutto il mio cuore; malato di desiderio
E legato ad un animale mortale,
Non sa quello che è; e accoglietemi
Nell’artificio dell’eternità.

Yeats Walter_de_la_Mare,_Bertha_Georgie_Yeats_(née_Hyde-Lees),_William_Butler_Yeats,_unknown_woman_by_Lady_Ottoline_Morrell

walter_de_la_mare_bertha_georgie_yeats_nc3a9e_hyde-lees_william_butler_yeats_unknown_woman_by_lady_ottoline_morrell

 

IV.
Once out of nature I shall never take
My bodily form from any natural thing,
But such a form as Grecian goldsmiths make
Of hammered gold and gold enamelling
To keep a drowsy Emperor awake;
Or set upon a golden bough to sing
To lords and ladies of Byzantium
Of what is past, or passing, or to come.

IV.
Una volta fuori dalla natura non prenderò mai più
La mia forma corporea da una qualsiasi cosa naturale,
Ma una forma quale creano gli orefici greci
Di oro battuto e di foglia d’oro
Per tener desto un Imperatore sonnolento;
Oppure posato su un ramo dorato a cantare
Ai signori e alle dame di Bisanzio
Di ciò che è passato, che passa, o che sarà.

 

Yeats 1 La poesia, Sailing to Byzantium, di William Butler Yeats si può leggere attraverso più lenti analitiche. Nel quinto capitolo del suo libro, Testi e contesti, Steven Lynn discute due approcci critici alla lettura del poema, il critico presenta una panoramica dell’approccio decostruzionista di Lawrence Lipking con il nuovo approccio critico di Cleanth Brooks.

Lynn rileva che, Cleanth Brooks basando alcune sue intuizioni, almeno in parte, sull’approccio strutturalista di Ferdinand de Saussure, il testo offre, passo dopo passo, dei contrasti binari. Brooks osserva che Yeats in ogni contrasto favorisce il secondo elemento rispetto al primo. Brooks elenca, ad esempio, natura ed artificio, “quello” (in riferimento a una “realtà” non definita) contro la mitica Bisanzio, l’invecchiamento contro il senza tempo, il sensuale contro l’intellettuale, e l’essere contro il divenire. Questi contrasti creano confusione presso i lettori i quali sono spinti a risolvere il problema attraverso l’analisi della poesia.

Yeats-Quotes-2

Yeats and Eliot

 All’elenco di contrasti Per Brooks, si potrebbero aggiungere i “giovani contro la vecchiaia” e “la morte contro la vita eterna”. Yeats introduce il concetto di “giovani contro la vecchiaia” nella strofa in cui parla di “The young in one another’s arms”, quindi compensa questo passaggio con “Birds in the trees/ – Those dying generations – at their song.” Il vecchio “dying generations” (le generazioni morenti), passaggio presentato come gli uccelli che sembrano essere guardati dal giovane, nonostante il fatto che gli anziani moriranno prima.

W.B.Yeats ritratto

W.B.Yeats ritratto

Per quanto riguarda il contrasto, “morte contro la vita eterna”, la quarta strofa della poesia discute cosa accadrà una volta che il parlante è “fuori della natura.” Dal momento che l’uomo è parte della natura, quella frase “fuori della natura” suggerisce ‘fuori della vita’ o ‘morto’. Se non si è più parte della vita, o si è morti o si è in un piano spirituale più elevato (il cielo, per così dire). Il parlante dice anche che la sua forma fisica non sarà quello di una forma naturale. Lipking prende questa frase per indicare la forma di qualcosa che si trova in natura, ma potrebbe anche significare una creatura vivente in contrapposizione a qualcosa di soprannaturale o ultraterreno. L’interpretazione della stanza sembrerebbe favorire l’interpretazione ultraterrena in quanto, sebbene il parlante dichiara di assumere la forma di un uccello, non si tratta di un uccello naturale con ossa, sangue e piume ma di un uccello soprannaturale “di oro battuto e oro smalto”, che intrattiene immortali relazioni con un tribunale eterno. Invece di accettare la morte Yeats opta per l’eterna, anche se artificiale, vita di Bisanzio.

W.B. Yeats

W.B. Yeats

 Bisanzio nella visione di Yeats era una «città sacra» in quanto capitale della cristianità d’Oriente. Per Yeats nella civiltà bizantina si era realizzata la discesa del sovrannaturale verso l’uomo, mentre l’altra civiltà, quella del Rinascimento, aveva realizzato l’ascesa dell’uomo verso il soprannaturale. Scrive il poeta irlandese: «Se mi fosse concesso di vivere un mese nell’Antichità e la facoltà di trascorrerlo dove preferisco, credo che vorrei passarlo a Bisanzio, un po’ prima che Giustiniano aprisse S. Sofia (nel 537 d.C.) e chiudesse l’Accademia Platonica. Credo che potrei trovare in una qualche osteria un mosaicista ‘filosofo’ che saprebbe rispondere a tutte le mie domande, poiché il sovrannaturale discende più vicino a lui che allo stesso Plotino (…) Credo che agli inizi della civiltà bizantina, forse mai prima di allora né dopo nella storia di cui si ha memoria, la vita religiosa, estetica e pratica erano tutt’uno, e che l’architetto e l’artefice (…) si rivolgevano parimenti alla massa e ai pochi. Il pittore, il mosaicista, coloro che lavoravano l’oro e l’argento, il miniaturista di libri sacri erano quasi impersonali (…), tutti presi dal loro soggetto che era la visione di un intero popolo».

Yeats

Once out of nature I shall never take
My bodily form from any natural thing

 Brooks ritiene che la parola “artifizio”, «artifice of eternity» e i concetti correlati che suggeriscono l’artificio omogeneizzino stilisticamente l’opera. Ad esempio, nella prima strofa gli anziani sono paragonati agli uccelli che vivono sugli alberi; altrove, a Bisanzio, gli anziani sono diventati uccelli d’oro e rami d’oro, Yeats non canta “tutto ciò che è generato, è nato, e muore” ai giovani amanti in preda della passione, ma “di ciò che è passato, che passa, o che sarà” per signori e signore ultraterreni. Per Yeats «la natura è l’arte di Dio». Al contrario, nella poesia di Yeats, l’eternità, che si può rendere visibile soltanto attraverso l’arte, è considerata come l’artificio dell’uomo». L’«artifice of eternity» trova il suo fondamento in antitesi con l’artificio della natura opera di Dio. Nel suo paradiso fantastico l’artificio dell’arte è visto come preferibile alla vecchiaia nella vita reale.
Brooks fa notare l’ironia nella parte in cui il poeta che parla deve lasciare il mondo vivente, che è sempre in evoluzione e ‘in divenire’ per assumere un senza tempo, l’immutabile, l’esistenza soprannaturale prima di poter contemplare (cantare) il passato, il presente e, soprattutto, il futuro del mondo vivente.

 La lettura decostruzionista di Lipking di “Sailing to Byzantium non riesce a trovare una unità della poesia. Il critico ritiene che i versi e le strofe spesso o si contraddicono a vicenda o semplicemente non hanno alcun senso unitario. Come Brooks, Lipking osserva i modelli di opposti nella poesia di Yeats, obietta che il lettore può trovare un modo per risolvere la confusione creata dai contrasti oppositivi. Anche se Lipking cerca di trovare una logica nei contrasti di Yeats, essi lo lasciano con domande senza risposte. Come quando il poeta dice che “I shall never/Take my bodily form from any natural thing”, ma assume l’aspetto di un uccello, una creatura naturale. Anche la parola “Che” (That) all’inizio del poema genera fastidio in Lipking perché non c’è un vero modo per sapere con che cosa quel “Che” (That) sia in riferimento.
Lipking trova che, in alcuni casi, la moltitudine di significati di un passaggio potrebbe avere contribuito a confondere piuttosto che chiarire il messaggio della poesia. I versi “and louder sing/ For every tatter in its mortal dress” può avere due significati diversi, entrambi ugualmente validi; Pertanto, il vero significato del passaggio è sfuggente. Il verso “artificio dell’eternità” cattura l’attenzione di Lipking proprio come è avvenuto per Brooks. Lipking ritiene che “l’artificio dell’eternità” potrebbe anche avere un significato duale, uno che suggerisce la permanenza, l’altro l’illusione. Dal momento che entrambi i concetti sono, come mostra il passaggio precedente, ugualmente validi, i lettori non possono avere alcuna idea circa il vero significato di quei versi.

 I due critici mostrano come il significato di una poesia può cambiare a secondo di come i lettori si avvicinano al testo. Lipking ritiene che i contrasti di fondo nel poema ad un attento esame, rivelino una inconciliabile mancanza di logica interna, mentre Brooks trova unità nella ironia del poeta nel lasciare fluttuare la sua imagery. Entrambi i critici sono convincenti, ma la lettura di Brooks appare più convincente, soprattutto laddove rimarca il passaggio sugli uccelli reali che cantano tra gli alberi in una strofa che è in contrasto con il canto degli uccelli d’oro nell’albero d’oro in un altro luogo del poemetto. Particolare opposizione binaria che invece lega insieme la poesia e fa compiere ai lettori un circolo ermeneutico completo.

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SERGEJ ALEKSANDROVIČ ESENIN (1895-1925) POESIE SCELTE – Nuova traduzione a cura di Donata De Bartolomeo

sergej esenin e isadora duncan

sergej esenin e isadora duncan

 

sergej esenin con isadora duncan

sergej esenin con isadora duncan

Sergej Aleksandrovic Esenin nasce il 3 ottobre 1895 a Konstantinovo (oggi Esenino), nella regione di Rjazan (Russia); figlio unico di genitori contadini, è l’esponente più importante della cosiddetta scuola dei “poeti contadini”. Nei suoi versi traspare il mondo rurale della Russia di inizio Novecento: le sue parole esaltano le bellezze della campagna, l’amore verso il regno animale, ma anche gli eccessi della sua esistenza (Esenin fu alcolista e frequentatore di bordelli).

Cresciuto con i nonni, inizia a scrivere poesie già all’età di nove anni. Nel 1912 si trasferisce a Mosca dove si guadagna da vivere lavorando come correttore di bozze presso una casa editrice. A San Pietroburgo diviene noto nei circoli di letteratura. È grazie a Alexander Blok che viene promossa le sua carriera di poeta. Nel 1915 pubblica “Radunica”, il suo primo libro di poesie, subito seguito da “Rito per il morto” (1916). In breve diviene uno dei poeti più popolari di quegli anni.

La bellezza di Esenin è del tutto fuori del comune; bisessuale, cerca appoggio nella prima parte della sua vita presso uomini influenti, mentre nella seconda parte la sua preferenza andrà verso il sesso femminile. Dotato di una personalità romantica Esenin s’innamora di frequente, tanto che arriverà a sposarsi per ben cinque volte.

sergej esenin con isadora duncan

sergej esenin con isadora duncan

 Si sposa per la prima volta nel 1913 con Anna Izrjadnova, collega di lavoro presso la casa editrice, dalla quale ha il figlio Yuri (poi arrestato durante le grandi purghe staliniste e morto in un gulag nel 1937). Nel periodo 1916-1917 Sergej Esenin viene arruolato, ma poco dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, la Russia esce dalla prima guerra mondiale. Credendo che la rivoluzione avrebbe comportato una vita migliore, Esenin la sostiene, ma ben presto si disillude arrivando persino a criticare il governo bolscevico (di questo periodo è la poesia “L’ottobre severo mi ha ingannato”).

Nell’agosto 1917 Esenin sposa l’attrice Zinaida Raikh. Da lei ha una figlia, Tatjana, ed un figlio, Konstantin.

Nel settembre del 1918 fonda una propria casa editrice chiamata “Compagnia lavorativa moscovita degli artisti della parola”.

Conosce Isadora Duncan, già allora famosa ballerina; l’incontro sarà determinante per le sue ispirazioni poetiche. La sua relazione con lei (di 17 anni più anziana) è molto tormentata e difficile, nonché ricca di stravaganze. Clamoroso fu l’episodio in cui a Parigi i due furono cacciati da un albergo perché Isadora ballava nuda mentre Esenin recitava versi. Unitisi in matrimonio il 2 maggio 1922 (lei, bisessuale con preferenza per le donne, conosceva solo poche parole di russo: il matrimonio era per entrambi una mossa pubblicitaria), si separano l’anno successivo.

sergej-esenin

sergej-esenin

Torna a Mosca e sposa l’attrice Augusta Miklaevskaja.

Negli ultimi due anni della sua vita Sergej Esenin vive tra gli eccessi, spesso ubriaco; ma questo periodo di disperazione personale è anche il periodo in cui crea alcune delle sue poesie più belle e note.

Nella primavera del 1925 sposa la sua quinta moglie, Sofia Andreevna Tolstaja, nipote di Lev Tolstoj. La donna cerca di aiutarlo, ma Esenin non riesce ad evitare un esaurimento nervoso: entra in un ospedale psichiatrico dove resta per un mese. Viene dimesso per il Natale: due giorni dopo si taglia un polso e scrive con il suo stesso sangue la sua ultima poesia, che rappresenta il suo addio al mondo; persona violenta e aggressiva capace allo stesso tempo di grande sensibilità, Sergej Esenin muore suicida il giorno dopo, il 27 dicembre 1925, all’età di 30 anni: mentre si trovava nella stanza di un albergo a San Pietroburgo, se ne va impiccandosi alle tubazioni dell’impianto di riscaldamento. Esiste ancora oggi il mistero per il quale alcuni pensano che il suicidio sia stato una montatura: Esenin sarebbe stato in realtà ucciso da agenti del GPU.

Sergej-Esenin  una poesia

 

 

 

 

 

BETULLA

Bianca betulla
sotto la mia finestra
ti sei coperta di neve
come fosse argento.

Sui rami vellutati
come un bordo delicato
si sono schiusi grappoli
tipo una bianca frangia.

E sta la betulla
nel silenzio assonnato
ed ardono i cristalli di neve
nel fuoco dorato.

Ma l’aurora girando
pigramente attorno,
cosparge di rami
di nuovo argento.

(1913)

sergej esenin con pipa

sergej esenin con la pipa

Ehi tu, Russia mia amata,
case rustiche e immagini nelle cornici…
Non vedere fine e limite –
solo l’azzurro succhia gli occhi.

Come un pellegrino che si mette in cammino
io guardo i tuoi campi.
Ma presso i bassi recinti
sonoramente appassiscono i pioppi.

Profuma di mela e miele
nelle chiese il tuo mite Salvatore.
Rimbomba dietro chi la guida
una allegra danza nei prati.

Correrò lungo il sentiero calpestato
sulla distesa dei verdi campi,
incontro a me, come orecchini,
risuona il riso delle ragazze.

Se un esercito santo griderà:
“Lascia la Russia, vivi in paradiso!”
Io dirò: “Non ho bisogno di paradiso,
datemi la mia patria”

(1914)

sergej esenin

sergej esenin

 

 

 

 

 

 

La felicità tocca ai rozzi,
ai delicati tocca la tristezza.
A me non è toccato nulla,
non compatisco nessuno.

Un po’ mi compatisco sa solo,
compatisco i cani senza casa,
dritta dritta questa strada
mi ha condotto nelle bettole.

Ma di cosa vi arrabbiate, diavoli?
Forse non sono figlio del paese?
Ognuno di noi ha impegnato
i suoi calzoni per un bicchierino.

Sbircio torbidamente le finestre,
nel cuore nostalgia e aridità.
Rotola, inzuppatasi nel sole,
la strada dinanzi a me.

Nella strada un ragazzo moccioso.
L’aria è arsa ed asciutta.
Il ragazzo è così felice
e si fruga nel naso.

Fruga, fruga, mio caro,
ficca lì dentro tutto il dito
ma con la stessa forza
non entrare nell’animo tuo.

Sono pronto ormai…Sono timido…
Da’ un’occhiata all’esercito delle bottiglie!
Io raccolgo turaccioli
per tappare l’animo mio.

(1923)

sergej esenin in spiaggia

sergej esenin in spiaggia

 

Si! Ormai è deciso. Senza ritorno
ho abbandonato i campi nativi.
Ormai col fogliame alato non stormiranno
i pioppi sopra di me.

La bassa casa si ingobbisce senza di me,
il vecchio cane da tempo se n’è andato.
Sembra che nelle tortuose strade moscovite
Dio mi ha condannato a morire.

Amo questa città merlettata
benché vecchia e flaccida.
La dorata, sonnolenta Asia
si è addormentata sulle cupole.

Ma quando di notte splende la luna,
quando splende…lo sa il diavolo come!
Io vado, con la testa ciondoloni,
attraverso il vicolo nella conosciuta bettola.

Rumore e baccano in questo orrendo covo
ma per tutta la notte fino all’alba
leggo versi alle prostitute e con i banditi brucio alcol.

Batte il cuore sempre più veloce
ed ormai parlo a vanvera:
– io sono come voi, un essere perduto,
ormai non posso tornare indietro.

La bassa casa si ingobbisce senza di me,
il vecchio cane da tempo se n’è andato.
Sembra che nelle tortuose strade moscovite
Dio mi ha condannato a morire. Continua a leggere

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POESIE INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Anna Ventura, Lidia Are Caverni, Paolo Polvani, Eugenio Lucrezi, Franco Fresi, Fortuna Della Porta, Giuseppe Panetta, Corrado Bagnoli, Antonio Spagnuolo, Raffaele Urraro

Magritte elective affinities 1933

Magritte elective affinities 1933

 anna_ventura

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

Anna Ventura

Anna Ventura

Anna Ventura

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza:il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi,ma
non avevamo sconfitta la paura.

Frida

Quando ti hanno estratta dal forno,
Frida,
intatta come se stessi dormendo,
tutte le tue scimmiette
si sono messe a ridere.
Perché è questo,
il loro modo di piangere.

lidia are caverni l'anno del lupo

lidia are caverni

lidia are caverni

 

Lidia Are Caverni “L’albero di pietra”

(febbraio 2010)

L’albero di pietra non germogliava
foglie né fiori lungo il viale solo
le radici vivevano abbarbicate al suolo
linfa che penetrava il cuore dilatava
le vene da troppo tempo spente arrossava
le guance ridando giovinezza come in una nuova
emozione potevano le mani protendersi rami
d’improvviso ricoperti di verde l’osmosi
era compiuta mancavano gli uccelli
il tenero levarsi del nido.

*

L’albero di pietra recava ferite
le rughe del tempo troppo aveva
vissuto al margine del bosco
sfidato il vento la pioggia folte chiome
fiorite in primavera ambito dagli insetti
colmo di frutti in estate cercato dagli uccelli
era sceso l’oblio la calcificazione del cuore
si era arrestata la linfa che lo rendeva
leggiadro dure cortecce custodivano
il tronco restavano radici il lento ingravidarsi
di terra.

*

L’albero di pietra sfidava il tempo
tacevano gli umori dei rami i nodi che
generavano germogli protendendolo al cielo
non aveva più occhi per guardare
lo svolgere dei giorni le notti fredde
irrorate di stelle gli insetti andavano
altrove il becchettio degli uccelli o nidi
per teneri scoiattoli denti che foravano
boscaglie macchine calpestavano radici
ignorando il suo vivere lo spento fluire di vita.

*

Sull’albero di pietra erano stati
tracciati nomi che il tempo non
cancellava piccoli cuori trafitti
ricordo di antichi amori gelosamente
li custodiva come fosse teca che nel ventre
ospita il frutto da lasciar cadere in estate
perché il suo essere restasse a guardare
radici il timido affiorare del germoglio
che gli avrebbe donato vita silenzioso
scorrendo nel suolo lucido serpente che
la sua preda cerca.

Wallace Stevens Coffee Oranges 

Paolo Polvani

Paolo Polvani

Paolo Polvani

Mela e bottiglia negli occhi di un gatto

Certi giorni la casa approda a un’immobilità perfetta.
Sul tavolo il gatto naufragato nel sonno dischiude
l’incandescenza dello sguardo e nelle pupille nasce
la mela addormentata nel rosso; affoga
dentro un vuoto di parole, un velluto di quiete;
divampa un verde di bottiglia ormeggiato sopra la tovaglia
in un porto privo di suono, muto di onde,
che affonda in una tranquilla polvere.
La casa si nutre del suo silenzio. Angelo
custode è un gatto.

Cosa accade alla casa
quando esco sbattendo la porta

Ci sono parole che ancora volteggiano nell’aria
prima che i loro vuoti involucri si adagino
in un residuo di polvere lungo le pareti.

Piccoli insetti diventano padroni del silenzio.
La poltrona trattiene il vuoto della forma, i quadri
mantengono un rigido riserbo.
Sul pavimento lucido un filo parla la lingua dell’esilio.
La finestra registra il profilo delle nuvole.
Il frigorifero senza preavviso si mette a borbottare.

Si assiste alla declinazione degli oggetti
durante la parabola del sole. Nella luce
si affaccia una pantofola, cerbiatta
timida prossima alla consunzione.

Il suono del postino irrompe nel vuoto della casa,
lo riempie di uno splendido interrogativo.
Il clamore del traffico accarezza le sedie in cucina.

Nei bagni le tubature se ne infischiano delle voci
dei vicini ed emettono brevi gorgoglii, guaiti
appena pronunciati, sospiri, soffi.

Forse risuonano dei passi, forse una vecchia paura
ancora aleggia nelle stanze.
Le tovaglie conservano i loro vividi colori.
Ci sono dita che si attorcigliano all’attesa.

 

Eugenio Lucrezi

Turner alla Tate Britain

In un punto centrale del tragitto
tra il molle autoritratto a ventiquattro
anni e la maschera secca che lo ferma
morto anni dopo e dopo molti venti,
nebbie e tempeste, un acquarello
ritrae due tinche, un persico e una trota
composte in lieto stile e in armonia
di cose morte che sono state vive.
Chiaroscuro aggraziato, quasi non
reminds the gap che esiste tra i due stati.

Ofelia (campanula)

Théodore Agrippa D’Aubrigné, Que de douceurs d’une douleur!

Dopo la brina, dentro la rugiada,
fai capolino, timida campanula,
spunti, reclini il capo e muori, cadi
vivida ancora e vai nella corrente,
povero San Giovanni decollato,
povera Ofelia senza la corona,
non sei bella da morta, né decente,
nessun pittore ravviva la tua grazia,
nessun serto di spine sul tuo capo,
povero fiore, povera campanula!

wallace stevens harmonium 1

Franco Fresi

Franco Fresi

Franco Fresi

Dopo la tempesta.

…e come contraltare
allo scampato pericolo,
il piccolo equipaggio della Roma
80 un freddo sorseggia
torbatino algherese al bar del porto.

Borbotta il mare scampoli di risacca
contro la banchina di ponente.
Non è buono il mare. Né cattivo.
Non pensa. Ci si può innamorare
perdutamente, ma non fidarsene.
Anima ermafrodita lo fa instabile.
Calmo,
può essere felice e generoso,
ma nell’ira il mare è solitario.
Non vuole testimoni alla sua lotta
con il vento, nemico e cantastorie.
Non sopporta
che uomo o elemento
turbi la sua regale indifferenza.

Efisio di Villacidro
li ha dipinti sulla vela
quella paura livida e quel tuono
d’onda. Ne ho colto
di trascorse bonacce il pentimento
e d’altri tùrbini furibonda minaccia.

L’anima vegetale dei colori

Nel ricordo di un’ora di tramonto
il sole rosso come la tua bocca
t’insanguina il sorriso mentre stacchi
dal ramo spoglio l’ultima albicocca. Continua a leggere

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Domenico Alvino ASCESI ED EROTISMO IN “STIGE” DI MARIA ROSARIA MADONNA – con scelta di poesie da “Stige” (1992) – Parte II

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

 

da Stige

A giudicare dal lento movimento
dei corvi che in alto nel cielo disegnano vortici
di strida
non ci resta che imitare la conversatione degli Angeli
invetrare e invetriare una lingua tutta nostra
che sia monda dagli stilemi del peccato
e dall’usura delle stelle.

E se il candido Abele è stato ucciso
il giusto Salomone e la corrotta corte
di Babilonia caddero
e il lusso di Creso disparve
quid juris?.
Aeternitas est merum hodie.

Non erubesco meae miseria
plango non esse quod fuerim.
*
Caecata sum da mea libidine
et aurum atque orpella lentescens
supra mei capillum brillabant.

Achmatova Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Ave, Maris stella
tra tutte la più bella.
Ave, gratia plena
io sola sono in pena.
*
Toto pulchro est amico meo
et macula non est in te.
*
In oculos meos sunt ferramenta
in mei auris sunt ligna
in mea mens sunt procella et turbine
et blasfemia mei persecutori resplango.

 

«Dic nobis Maria
quid vidisti in via?»
Dic nobis. Diabolus clama
blanco pomo et tortile aspide.

*

Illa quae ego amo
passata est ut blanca luna
ut blanca luna in negra terra.
Resplango et piango.

*

stecher foto d'epoca di nudo

Tibi, meo amado, Cherubim et Seraphim…

Tibi, meo amado,
Cherubim et Seraphim
inaccessibili vox proclamant.

*

Laetare et tu.
Quae est ista quae progreditur
ut blanca luna, pulchra ut virgo,
electa ut colomba?
*
Pateat mihi pulsanti janua tua,
iube, queso, atque impera quidquid vis.
Recipe auro argentoque intra meos capillos.
*
Nihil aliud habeo quam cupio dissolvi.
Lieta et electa atque virgo est
mea amada blanca colomba.

*

Lucifero, la stella del mattino,

si desta tra coorti di erranti astri
quae in caliginem transcurrunt.
*

Ego sum flor campi,
surgo pulchra tra i lampi.
*

Tota mea est amaritudine pulchra
nec perspicio aliud quam veneficio.

*

Quando ero giovane e bella
la solitudine del deserto
mi difendeva, benché luxuria
tegumentum meo cerebro frangerem
tamen cogitationibus aestuabat.

*
Si fugero mi sottraggo a morte
si stetero il gladio crudele dovrò affrontare.

*

Nulla securitas est accanto serpente dormire.
Nulla infermitas est accanto angelo dormire.

*

Ignota iacula vibravit diabolus
sed excipientur scuto meo.

*

Icaro in coelo tentò corruptione angeli
et forsitan ideo corruit.
Pietas in haec fiori est crudelem.

*

Et iaculo illius vulnerata respondebo:
«non sunt digna, hoc non est pugnare sed fugere».
Et diabolus dixit:
«immediata et lucida vocatio rerum finitarum».

 

apollo e dafne

apollo e dafne

Stige: misticismo ed eros

Queste, di autori della Mediaetas, sono del resto “presenze” che potrebbero essere confermate dal fatto che Maria Rosaria Madonna, posto che esista, pare sia addentro alle cose medievali, “medievalista quanto a letture”, a giudizio almeno della Rosselli, che così nota in capo al libro. Ma niente puntuali coincidenze di pensiero e di spiritualità con i mistici indicati, le cose stanno in Madonna al rovescio. In loro, il male è il nemico da schiantare con flagelli e cilici, e questo male è sì la lussuria, ma più in senso latino di vita voluttuosa e intemperanza, tanto da confondersi col male in generale. In Madonna invece il male è la lussuria nel senso moderno di passione carnale intemperante, che una disastrosa paideia cattolica o panreligiosa ha demonizzato da millenni, fino a rendere uomini e donne minorati sessuali, spauriti e inetti ad ogni approccio amoroso, con che sconquasso e scasso di storie bellissime è facile  immaginare. Ed è un male da estirpare per un motivo solo, quello dovuto ad una nebulia di mente calata da quella paideia, ma col procedere dell’io lirico a più lucido giudizio, quel “male” diventa iocundissima ferita, iocundo delitto, non certo più da cassare dalla carne e dalla mente, ma da aurire anzi e godere come un “male” sublime, che a dirlo non basta la comune lingua, come  “insufficiente e improprio” era per Caterina il suo “discorso mentale”, ove “trasferire un’esperienza puramente intuitiva”(Battaglia). Ma stesso quella di Caterina è un’esperienza dove tra eros e ascesi non trovi confine ma limine (lino) consunto e liso da un andare e venire, sì che i due relativi linguaggi si confondono e compenetrano: come in un parlare che fa Caterina di Cristo, che Continua a leggere

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LA POESIA di LAURA CANCIANI “ESSERE NELLA PAROLA” (Passigli, 2014)  – Commento critico di Giorgio Linguaglossa

 

Laura Canciani Essere nella parola Passigli, Firenze, 2014 pp. 80 € 12

La poesia di Laura Canciani proviene da una metafisica delle parole per poter giungere alla loro fisica. La metafisica scandisce il tempo interno e interiore delle parole e lo spazio a-topico entro il quale sostano. Poesia che ha la purezza del cristallo, come il suo profilo, bellissimo, algido come quello della Achmatova, puro come l’«ippocampo» che appare all’improvviso in una sua composizione metafisica. Poesia a-topica, cioè priva di uno spazio esterno ma che abita uno spazio interno, fitta di scarti, di deviazioni di immagini e di senso, di retromarce verso un “dove” che si rivela essere un “altrove psichico”. Poesia di interrogazioni caute, incaute, pensierose, insidiose, numinose che non conducono in alcun luogo del mondo «reale», quel reale ordinato dall’azione dell’amministrazione totale ma in un luogo psichico. Poesia che insegue un tempo interno, interiore, interiorizzato che vuole sfuggire allo spazio e al negativo della storia. C’è come un’insidia che sovrasta e minaccia il quadretto lacustre di certi suoi «paesaggi interiori», con quella «fontana psichica» che fa convergere la poesia verso un punto che non è un punto ma una dimensione… di purezza e di spietata durezza, di gelido biancore. C’è il senso della macchia che sovrasta, c’è la paura del peccato che inquina, il terrore del «contagio dell’acqua», il timore per un «reato di parola» che è stato commesso all’origine dei tempi, e che si ripete, dal tempo dei tempi, c’è la delicatezza di uno sguardo gentile ed effrattivo. Una poesia fatta di sensazioni evanescenti e di immagini che si collegano alle sensazioni. Quanto di più difficile a farsi. Dove il non-detto collima con il detto rendendo l’espressione poetica antica e moderna, interiore, elusiva, esclusiva. Poesia olistica e solitaria dove possono vivere soltanto sintagmi di emozioni, isolazionismi, psichismi… che si difende dall’Estraneo con tutte le proprie povere forze:

canciani

Una lampada viva
non elimina il buio ma consente di attraversarlo.

*

nella libreria infinita
tutti i libri erano trasparenti:
tra le mie dita esitava, come forma che trascende,
una busta verde trasparente: «Profumo»
e il profumo c’era e c’era un uomo anche
come il libro trasparente che leggeva.
Tra le sue dita il libro che cercavo.
nell’attimo di averlo scomparve.

È scomparso tutto.
Resta la curvatura di profumo convergente. Continua a leggere

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LA NUOVISSIMA GENERAZIONE DEGLI ARRABBIATI – Ivan Pozzoni, Mariano Menna, Valerio Pedini, con un preambolo diseducativo di Ivan Pozzoni su “La tentazione di esistere”

valerio pedini 

valerio pedini

valerio pedini

 

 

 

 

 

 

 

 

Valerio Pedini

LA TENTAZIONE DI ESISTERE
(a Mariano Menna)

Accartocciato in una vita lapidica
Mi vergogno un poco
-e quindi molto-
Di cacare su prati sconfinati
-autostrade-

Ma bisogna avere coraggio,
un po’ di sangue amaro
che sai quanto sai che la merda la devi fare per forza
giusto per inquinare un po’ le prove di una pulizia
estranea al linguaggio di una quanto mai scontata quintessenza,
estranea a qualsiasi linguaggio.

Ciò che mi blocca
È ciò che mi spinge,
ciò che mi atterra
è ciò che mi solleva:
come una morsa gelida che ti distrugge l’esistenza
tu apri gli occhi e sai

che vivi in un mondo di nailon e plastica
lubrificato dalla vaselina delle tue parole

e quindi ti alzi e ti chiedi:
“Ma che cazzo di tentazione è?”

mariano menna

 

mariano menna

mariano menna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mariano Menna

LA TENTAZIONE DI ESISTERE
(a Valerio Pedini)

Il rumore dei passi nella mia mente
è come una nebbia che non si dirada:
la gente corre ed io passo le ore
a vederla imprecare con rabbia per strada.
Questa gabbia ha le sbarre di tempo
e una chiave non è mai esistita.
Una salma ha più seguaci di un vivo,
ma è più invidia che venerazione;
alla mia tentazione di esistere
danno il valore di un morto in guerra,
ma io suderò per non farla finita!
La vita è una malattia grave
che porta per certo alla morte;
la sua morfina è una tragica corsa:
vince chi giunge per primo alla fine,
ma sarà un risultato beffardo
poiché non c’è premio oltre il traguardo.

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

  Ivan Pozzoni Patroclo non deve morire

 

 

 

 

 

 

Ivan Pozzoni

LA TENTAZIONE DI ESISTERE
(a Mariano Menna e Valerio Pedini)

La tentazione di esistere della vostra generazione,
si trasforma, nella mia, in esistenza tentata ad equazione:
19 + 19 = 38 + x, resta sempre un’incognita,
nella speranza che invertendo il numero dei fattori
la fattoria non fallisca, lasciando, in cambio, una generazione attonita
a contarsi le ferite, ipocondriaca, in balia di accademici e dottori.

Questo toccherà alla vostra generazione:
la nuova nobiltà cafona, nata nelle culle d’oro della necrofinanza da córsa,
risponderà abbassandovi i calzoni e mostrando il sedere
all’idiota dito medio (art marketing), ubicato, a Milano, fuori dalla sede della borsa,
e ai milanesi, in fila Caritas, a chieder l’elemosina alla neo-invasione dei tedeschi,
abituati, ormai, a sostituire il finale della Nona Sinfonia con la marcia di Radetzky.

Questo toccherà alla vostra generazione:
i concerti di Ligabue davanti a 50.000 somari in branco,
Mussolini, almeno, riusciva a far ballare 80.000 idioti alla volta,
magari sarà stato un indifendibile, discreto, saltimbanco
dichiarare guerra all’Etiopia coll’esclusivo uso di lubrificatori,
senza aver l’opportunità di servirsi di chitarre elettriche e amplificatori.

Questo toccherà alla vostra generazione:
i nuovi cantautori defilippisiani alla Marco Carta,
-“Carta canta e (François) Villon dorma” –
vi condurranno, cojon cojoni, alla scoperta
di vivere di notizie date in mondovisione,
schiavi di una verità farneticante fatta d’indecisione.

Mariano e Valerio, due ventenni in cerca di evasione
due inammortizzate, mortacci vostri!, vittime della televisione,
olocausti alla rincorsa della fame di fama, dei vostri cinque minuti di celebrità,
trascorsi a rilasciare interviste a Paola Perego in tutta automaticità,
o, tardomoderni arditi, discepoli d’un impresentabile sprezzante «guastatore»,
in conflitto inimmediabile e mortale col «potere»?

Questo toccherà alla vostra generazione:
schierarvi, col coltello tra i denti, oltre il Brillo Box
o, come Roberto da Crema, vendere batterie d’acciaio inox,
ahrarara, spacciare Delorazepam in versi che ci faccia ardere
o vendere appartamenti in centro con servizi in periferia, non ideale per famiglia che non ami correre. Continua a leggere

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SULLA POESIA di ALFREDO DE PALCHI: Antologia poetica da “Foemina tellus” (2010) L’ESTETICA DELLA DENUNCIA  – Commento di Antonio Sagredo. Parte IV

i-grattacieli-di-new-york

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grattacieli-new-york

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Da uno scritto di Luigi Fontanella: «Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

 

alfredo de Palchi

alfredo de Palchi

 

 

 

 

 

 

 

I testi che seguono sono tratti da Alfredo De Palchi Foemina tellus Joker, 2010.

 

Sembri fragile
ma quale patrizia barbarossa
di unica natura
sorpassi Verona e la “bassa” che mi vide
saltare i fossi con la pertica;

ora macilenta
a mani bianche di guanti
mi vuoi conquistare tra questi banchi di frutta
passo dopo passo
penetrando ancestralmente il corpo
che nel miasma di spezie tu smanii
di sbranare.

(Estate 2005)

*

Sono la coscienza
della voce che perpetua il corpo
aggredito dall’immagine a somiglianza
di chi insulta
e in me s’incarna in lezzo di cadavere

(19 settembre 2005)

alfredo_de_palchi2

 

 

 

 

 

Dimentichi
che potrei espandere il vortice
dentro l’oceano del tuo corpo smaccato
mosso
tracotante di sbalzi improvvisi
delle verdi vallate che scrosciano
rotolando cupe di acqua
cupa incessante
che ti schiuma la concimaia sterile

(3 marzo 2006)

*

Autunno
preocemente m’inganni con un giorno di luce
e un altro di acqua che svuota le panche
della piazza e vento
che spiazza i colombi le passere
e scombuglia gli scoiattoli tra ventagli
di ramaglie tenaci a tenersi un po’ di foglie

non come tu sei
io sono tale e qual ero nel tuo corpus
mistico di vulva
un giorno così e un altro così
senza la fretta di arrivare là dove tu arrivi.

(17 ottobre 206)

*

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra questa palude
di fiumi che scorrono detriti e veleno
e la sinergia dell’oceano
l’acqua spiove dagli alberi in autunno
e mi sciacqua la morte
che si sconta vivendo nelle fogne
dall’alba
all’orizzonte del tramonto
perch’io viva nel decesso la sua vita.

(5 novembre 2006)

*

Alfredo D Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo D Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

M’indovini
felice nella confusione di libri
carte e foto del futuro eterno
in cui decido di sporgere la mano
per assistere la tua faccia che mi fissa
io assetato
bocca aperta a ricevere la tua saliva
mista di sale sperma vaniglia fuoco
quando un grido di sorpresa
mi rapprende il sangue
scaccia la mano
per meglio serrarmi negli occhi pazzi
che inceneriscono la carta
dove tracciavo una curva
per dove e come indovinarmi.

(24 novembre 2006)

*

Saprò negarti come Simone
tre volte nella sinagoga della tua carcassa

non sei tu Cristo, è lei,
subdola esistenza
che negherò a bocca marcia
all’ultima proprio al’ultima cena di sapori
che lievitano nel cibo
di cosce lucide d’ambra
di seni svuoti
di pancia squarciata per entrare completo
nel centro della concimaia che mi marcisce
per germogliare un’altra mia nascita
imprevedibile

saprò negarti senza una parola
gli occhi entreranno profondi nelle occhiaie
dicendo le verità indivisibili della mia morte

(1 dicembre 2006)

*

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, claudia marini e luigi manzi - Roma, 2011

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, claudia marini e luigi manzi – Roma, 2011

Fredda
brilla di sole freddo al mattino
la zolla capovolta
con svolazzi di passere
su mucchi di letame che fumano l’odore
astringente
intorno gli spineti fioriti di ghiaccio sulle spine
i cortili medievali
che ti svuotano ai campi dove nei solchi
calchi il brulichio di verminai

di semenze
che a caso crescono gramigne
fiori campestri
spighe di grani selvatici
e papaveri per sfogliarsi
alla tua presenza losca di nero
nella calura che vibra

di clangori
dissonanze d’ogni
città al di là del fiume

(4 dicembre 2006)

*

Impensabile
quel buco tremendo di spazio
svuoto di stelle galassie buchi neri nello spazio

da confrontare al deserto che tu sei
esangue
snervata d’ogni verde e germe

solo sabbie e rocce
nell’aridezza agghiacciante del vuoto

dove tu residuo di niente circoli
la tua curva perpetua
senza mai scostarti dalla ignobile
presunzione.

(28 agosto 2007) Continua a leggere

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FLAVIO ALMERIGHI – POESIE INEDITE – “Caleranno i Vandali” (2014) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos,1999), Vie di Fuga (2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (2007), durante il dopocristo (2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011), Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sonostati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura quali Tratti, Il Guastatore, Il Foglio Clandestino, Prospektiva. Nel 2016 esce il volume Caleranno i vandali che ricomprende le poesie qui pubblicate, (Samuele).

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Flavio Almerighi la tradizionale struttura gerarchica dei parametri compositivi (la concatenazione paratattica, quella ipotattica, la metafora, la metonimia, il parlato, il ready made, il commento, il discorso, il meta discorso etc.) che pone al primo posto per importanza, ad esempio, il «parlato» e che relega a un ruolo secondario tutto il resto, va a farsi benedire. Ad esempio, l’intensità e il timbro delle parole e dei polinomi frastici, vengono messi in un piano subordinato. In questo concetto di strutturazione gerarchica degli elementi compositivi non ha importanza quale parola debba essere pronunciata, né la sua concatenazione o la sua posizione nella frase, né la sua durata (se sia cioè breve o lunga o in un qualsiasi rapporto temporale con un’altra parola), o il suo significato; ad avere importanza è invece il suo aspetto di sorpresa, il suo aspetto filmico, la sua collocazione registrica all’interno della composizione e, soprattutto, il suo attacco, che dev’essere, per così dire, privo di origine e di nesso causale. Tipico è l’incipit della poesia di apertura del volume, con la sua dinamica minimale, ai limiti del non sense della prosa, ai limiti della battuta di spirito, del casuale, dell’involontario. Infatti, grande ruolo riveste in questo tipo di poesia il senso dell’humour, la battuta di spirito, la fumisteria fine a se stessa e il sarcasmo che, come una macchina celibe, gira a vuoto in un tempo vuoto e in uno spazio anch’esso sostanzialmente vuoto.
Ecco, direi che tutta questa impalcatura registica serve ad individuare il «vuoto» della condizione umana.

Di sette mattine
cinque sono sbagliate
due superflue.

Questa caratteristica stilistica costituisce una dichiarazione di poetica e di estetica estremamente significativa. Si tratta, in sostanza, di concepire la composizione poetica secondo la sequenza tipica dell’illogismo, cioè di quel procedimento che ha l’apparenza di voler significare un discorso causale ordinato, ed invece ne ha uno illogico e disordinato, frastagliato. In questa procedura compositiva, il dettaglio e il frammento assumono una connotazione particolarmente privilegiata a discapito dell’effetto macroscopico all’interno della composizione. Le componenti elementari del linguaggio poetico sono le parole, ma dislocate in modo che esse non siano più significanti, non poggino su significanti musicali, quanto invece rinunciano a qualsiasi forma di orchestrazione semantica e semasiologica o sinfonica. Anche la struttura metrica incardinata sul verso breve è funzionale alla esigenza di non offrire respiro al lettore, che viene condotto per mano da una improprietà all’altra, da un disformismo all’altro, direi senza tregua, senza fornirgli alibi. Si ha una netta ripulsa per la costruzione d’insieme per movimenti sintattici consequenziali, quanto invece un riconoscimento, una presa d’atto della costituzione per segmenti e per differenze tra i segmenti della composizione poetica. Con quel che ne segue nei confronti dei riflessi della musicalità che diviene atonale, spezzata, a singhiozzo, «dodecafonica» quasi, con quei respiri stretti e chiusi e, spesso anche claustrofobici, incidentati, accidentati forniti dal verso breve.
Si può parlare di espressionismo distratto (cioè con delle distrazioni, dei lapsus, delle obliterazioni, dei tic), là dove si intendono gli effetti della poesia come affini alla performance logologica. Possiamo dire che la mancanza di una dimensione progettuale è tipica di questo tipo di poesia che vive nell’esecuzione del momento, nella attimità del compositore e del lettore, in questa coniunctioimpossibile e incredibile. Poesia tipicamente moderna, che fa uso del montaggio, dei relè, delle valvole, degli scambi, che ha saputo apprendere e mettere a frutto la lezione della pubblicità, delle scritture e delle immagini mediatiche che oggi ci invadono in ogni dove in modo parossistico e nervoso. Poesia fatta di filamenti dendroidi, ricca di elettricità che percorre circuiti elettrici imprevedibili.

.

Caleranno i Vandali

Niente fuga in ferrovia,
nessun distanziarsi in autobus
schiacciati senza intimità
dentro tripudi d’indifferenza,
dove cortili più che brevi
scordano poche soffitte rosse.

Caleranno i Vandali
pochi e male armati
spaventati cederanno
al ritardo che li acceca,
scagliati già supini
dai mari alla Penisola.

Noi dietro il vetro in utopie,
ogni cosa non va bene
qualche idea da collezione
nasce morta, già rubata
paia di ciabatte all’ombra
di vecchie colonie estive,

caleranno i Vandali,
gli Unni sono qui.

 

Linguaglossa H. Bosch Cristo portacroce

H. Bosch Cristo portacroce

 

nei giorni d’Avvento

nei giorni d’Avvento
niente amori a controllo numerico
ma folate di vento nudo
vergognavano la pelle
tanto da sentirla svestire,

eravamo un continuo specchiarci,
siamo usciti a fumare spesso,
una si chinava addosso
l’altro rovinava, un acero a guardare
ed era tutto molto bello

 

Radio Monte Ceneri

I giorni della vecchiaia,
quando tutti amano chi
non si vuole più vedere,
tutti quei giorni, tanti,
tanti da venirne a noia

fuori veloci, distratti,
pensando a tutto fuorché,
e le stagioni sono caldo
freddo, niente più
il pensiero scivola oltre,

verso chi è fatica cercare,
vuoto come un salice,
ma quando sarà il momento
l’eredità è la stessa sedia
lasciata libera un momento.

 

Linguaglossa Hieronymus_Bosch Il giardino delle delizie

H. Bosch Cristo portacroce

Fuori tema

Non andrò fuori tema,
voglio solo sapere
che strada è questa,
senza sapore e avvitata
come un sommergibile,
se sarà lunga finché vivo,

voglio giornate meno storte,
qualcuno starà peggio di me,
scrivere gesta d’illusi
aspiranti bancari
che non conoscono
il pollice opponibile
unico vero requisito
per questa professione,

fibrillazioni ottiche
ne ho vedute tante
e la vista non è più
gagliarda come un tempo,
sarò fan di Vernon Dexter
sempre accapigliato
a luci spente col destino
sognante Passatore,

andrò fuori tema,
andrò fuori strada
laterale di campagna
ostinatamente silenziosa

 

 hieronimus bosch Inferno

hieronimus bosch Inferno

 

Diari del roseto

La mia vita, l’osservo,
uggiola di vento prezioso
porta e si dimentica
ferma per sempre,
il bello senza vendemmia
muore di fame.

Perso il filo del proemio
diventa l’anagramma
profumato di tappo,
solleva tutta la gonna
fino al petto ricolmo
di allettanti promesse.

Credo sia tempo di siccità
per me, roseto senza volo
spine dappertutto,
aspettando la pioggia
morto di sete.

Uomini e altra gente

Spiegami tu quei fiori
freschi per poche ore,
le tante audizioni
fatte a nessuno,
che, come bianco
degli occhi o nei capelli,
crescono durante il sonno.

Non mi perderò
mai più nella nebulosa
di margherite e oceano
ha detto il ministro
dei poveri cristi,
non ce n’è più, ha gridato
correndo verso il mare.
La sera tardi
uomini e altra gente,
volti da sciacquare,
da quel punto guardano
ognuno a modo suo
fondi di caffè.

Linguaglossa H. Bosch Le tentazioni di sant'antonio particolare

H. Bosch Cristo portacroce

Ho visto tanta pioggia

Oggi mi sono buttato fuori,
ho fatto un segno di croce
e mi sono sentito solo
si dice d’uomini e cani,
ho detto e scritto parole
non ne ho inventata una.

Ho visto tanta pioggia,
caduta nottetempo di nascosto,
dormire nelle buche
dimenticate in strada.
Mia figlia
mi ha mandato a quel paese.

Il mondo non ha luce interiore,
solo finestre accese
viste da fuori, senza vetro
dove la nebbia entra
e non chiede permesso.
La stazione deserta

mentre leggevo il giornale
mano a mano si è riempita.
Basterà un trapianto di cuore
da amante ad amante
a tutti gli scomparsi
dalle finestre senza vetro.

Mentre sediamo di fronte
siamo sorpresi, dispersi,
la pioggia dorme ancora
nelle buche in strada.

 

Linguaglossa h. bosch

H. Bosch Cristo portacroce

ancora mare

Avrò tempo di riflettere
sull’infinita concia del pensiero,
che la mia vita non vale l’altra

sibila ogni steccato,
il passato emozionato dimentica
ossida ogni argento

sul mio bagaglio di fragori vuoti
differenza con quel che sono,
avrò tempo di riflettere

ancora mare, il mare
indimenticato rigurgito di spine
mi dà il braccio.

 

cargo

è stanco non ha voglia
di farsene carico,
l’emozione pesa
come ogni macigno,

è passato un cargo ferroviario
interminabile, scoperto, carico
di furgoni bianchi
freschi d’aria e di fabbrica,

allora ti ha pensato
come succede ogni giorno,

senza pubblicità

Linguaglossa Magritte elective affinities 1933

H. Bosch Cristo portacroce

Il calicanto lo sa

I Beckett,
originari della Louisiana Francese,
sfidarono a lungo la sorte
con la caratteristica approssimazione
da cittadini del nuovo mondo.

Anch’io penso a te ogni giorno
nervoso come un violino,
il freddo è finito
il calicanto lo sa.
Ricordi il loro ultimo rampollo?

Venne fulminato dal temporale
durante un duello di spade,
fu ritrovato morto per l’appunto
nel sepolcreto di Hart Island
dove nessuno è mai nato,

ovunque, persino nel silenzio,
ogni lettera mai vergata nega
per principio che saremo salvati,
noi pattume degli dei
lanciato in corsa dai finestrini.

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Iosif Aleksandrovič Brodskij PENSIERI SULLA POESIA “Arrivederci, o magari addio”, a cura di Giorgio Linguaglossa  

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

 cop iosif brodskj dolore e ragioneUn romanzo o una poesia non è un monologo, bensì una conversazione tra uno scrittore e un lettore; una conversazione, ripeto, del tutto privata, che esclude tutti gli altri – un atto, se si vuole, di reciproca misantropia.

Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-àtête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.

Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.

iosif brodskij 10Ai nostri giorni è piuttosto diffusa l’idea che uno scrittore, in particolare un poeta, debba usare nella sua opera la lingua della strada, la lingua della folla. Nonostante la sua apparente democraticità e i tangibili vantaggi che ne derivano a uno scrittore, questa pretesa è semplicemente assurda e rappresenta un tentativo di subordinare l’arte, nella fattispecie la letteratura, alla storia. Solo se abbiamo deciso che per l’ homo sapiens è venuto il momento di fermarsi nella sua evoluzione, solo in questo caso la letteratura dovrà parlare la lingua del popolo. In caso contrario sarà piuttosto il popolo a dover parlare la lingua della letteratura.

iosif Brodskij Discovery Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di  «buono» e «cattivo» sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del «bene» e del «male». In etica non «tutto è permesso» proprio perché non «tutto è permesso»in estetica.

Questa generazione  la generazione nata proprio nel momento in cui i forni crematori di Auschwitz lavoravano a pieno regime, in cui Stalin era allo zenit del suo potere divino… questa generazione è venuta al mondo per continuare quello che, in teoria, doveva interrompersi in quei forni crematori e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano. Il fatto che non tutto si sia interrotto – almeno in Russia – è un merito che va attribuito in misura non trascurabile alla mia generazione; e io sono fiero di appartenerle. E il fatto che io sono qui oggi è un riconoscimento dei servigi che questa generazione ha reso alla cultura; anzi – vorrei aggiungere ricordando una frase di Mandel’stam – alla cultura mondiale… Esisteva, presumibilmente, un’altra via: la via di un’ulteriore deformazione, la poetica delle rovine e dei detriti, del minimalismo, della voce strozzata […] Noi l’abbiamo rifiutata perché la scelta in realtà non è stata nostra, è stata una scelta della cultura – ed è stata, ancora una volta, una scelta estetica piuttosto che morale.

iosif brodskij sulla scrivania Ciò che si suole chiamare volgarmente voce della Musa è in realtà il dettato della lingua; che non è la lingua a essere un suo strumento, ma lui stesso è il mezzo di cui la lingua si serve per continuare a esistere. E la lingua… non è capace di una scelta etica.

La dipendenza [del poeta dalla lingua] è assoluta, dispotica; ma è anche liberatoria. Infatti, pur essendo sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora la smisurata energia centrifuga che le è conferita dal suo potenziale temporale, cioè da tutto il tempo che ha davanti a sé. E questo potenziale è determinato non tanto dall’importanza quantitativa della nazione che parla (benché sia determinato anche da questa) quanto dalla qualità della poesia scritta in questa lingua. Basterà ricordare gli antichi autori greci o latini; basterà ricordare Dante. E quello che oggi si va scrivendo in russo o in inglese, per esempio, garantisce l’esistenza di queste lingua anche nel corso del prossimo millennio.

iosif brodskij giovane Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere. O, come ha detto il mio amato Auden, è colui in cui e per cui la lingua vive. Io che scrivo queste righe scomparirò; e scomparirete voi che leggete; ma rimarrà la lingua nella quale esse sono scritte e nella quale voi le leggete: rimarrà non solamente perché la lingua è cosa più duratura dell’uomo, ma anche perché più di lui è capace di mutazione.

Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.

cop iosif brodskij dall'esilio Esistono, come si sa, tre modi di cognizione: quello analitico, quello intuitivo e il modo noto ai profeti biblici, la rivelazione. Ciò che distingue la poesia dalle altre forme letterarie è che usa insieme tutti e tre questi modi (orientandosi prevalentemente verso il secondo e il terzo).

Tutti e tre sono infatti presenti nella lingua… Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Quando si è provata una volta questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere questa esperienza.

[Iosif Brodskij, Dall’esilio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1988, pp. 46, 59-60]

Iosif brodskij 5

La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.

Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo. Continua a leggere

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   POESIE di  MAHMOUD DARWISH (1941-2008) IL CANTORE DELLA RESISTENZA PALESTINESE a cura di  Laura Cantelmo

M. Darwish

M. Darwish

 darwish_palestine_tell_themMahmoud Darwish (1941-2008) è uno dei cantori della Resistenza palestinese. Nei suoi versi rivivono il deserto, i profumi, i fiori della Palestina e l’intera sua opera resta nel cuore del suo popolo come segno d’amore ed inestinguibile grido di disperazione.

La sua vicenda umana ha inizio  nel 1941 in un villaggio della Galilea, successivamente cancellato dalla guerra del 1948, che aveva sancito la nascita dello Stato di Israele, precipitando i palestinesi nella nakba, la catastrofe e causandone la diaspora.

Una vita, la sua, marchiata a fuoco dalla storia del suo territorio,  La fuga in Libano con la famiglia sarà seguita dal ritorno clandestino in patria: «Il viaggio del ritorno avvenne di notte: strisciavamo pancia a terra…Dopo tanta fatica mi ritrovai in un certo villaggio. Che  delusione! Non era il mio…Non capivo…come fosse accaduto che l’intero mio mondo fosse sparito» Al posto del villaggio era sorto un insediamento ebraico.
Il senso di smarrimento e di perdita si radica nell’animo del poeta, che da allora e per sempre si sentirà “infiltrato” nel suo paese. Nei suoi versi la categoria di “straniero” non si limita a definire l’Altro,  la “vittima vittoriosa”  insediata nel territorio natale del poeta – diverso dal nemico, il quale è pur sempre un uomo che ha una voce ed ha diritto ad esprimersi. Lo straniero, egli dice, è dentro di noi. L’ambivalenza di questa categoria compare nel riferimento alla storia d’amore con una donna ebrea: «Ebrea era la donna che mi amava, ma anche quella che mi odiava».

M. Darwish

M. Darwish

 Il forzato nomadismo lo porta a Parigi, negli Stati Uniti e  infine a Ramallah ed Amman.
Benché  egli  riconosca la poesia come unica patria, «una patria di parole», nella sua condizione di straniero Darwish afferma con determinazione la propria essenza di “arabo” collocandosi all’interno di una realtà molto più ampia, comprendente una lingua, una cultura, una religione.
E, in quanto arabo, egli tende a coniugare il ritmo, la forma epica e lirica costitutivi della sua tradizione con gli autori “occidentali” che sente maggiormente affini – Lorca, Neruda, Bréton, Char, T.S.Eliot e l’amatissimo  Dereck Walcott. Ma la tensione principale è indirizzata alla definizione  di una estetica personale avendo come punto di partenza una domanda: «Da dove viene la poesia?/  Dall’acume del cuore o dal primitivo senso/ dell’ignoto?»

Al fine di  superare la forzata subalternità  culturale derivante dalla negazione della cultura palestinese da parte dell’invasore, il poeta  s’investe del ruolo di cantore” troiano”, descrivendo la distruzione della sua “città” dal punto di vista degli sconfitti.
Assunta la propria terra  come metafora della condizione  umana, la sua scrittura si discosta gradualmente dal piano realistico a quello metafisico con un linguaggio intensamente onirico.
Nella fase della diaspora, la Palestina acquista così per il poeta una funzione metastorica:  Paradiso perduto,  terra che rivive oggi l’esodo degli arabi dall’Andalusia nel 1492.

da una poesia di Darwish "Potete legarci mani e piedi"

da una poesia di Darwish “Potete legarci mani e piedi”

 L’opera Undici astri sull’epilogo andaluso (1982), rievocando insieme alla gloria araba di Granada la poesia degli arabi andalusi prima della Reconquista spagnola, canta il rimpianto per un’epoca di tolleranza nella civile convivenza delle tre religioni monoteiste entro un’area, quella del Mediterraneo, che per Darwish è  il principale riferimento storico-geografico e culturale.
La dimensione tragica dei suoi versi si coagula nella ricerca di un linguaggio atto a creare una forma di “epopea lirica”, i cui protagonisti perseguono una ricerca individuale come «creature marginali, che si interrogano sulla loro esistenza.».  Pur restando immutato l’attaccamento alla terra d’origine, cantata come l’innamorata, o come terra madre, la delusione derivante dalle risoluzioni dell’ONU disattese da Israele unita al disaccordo con la dirigenza  palestinese lo allontanano dall’impegno attivo.

La morte, sopraggiunta all’improvviso il 9 agosto 2008, ha risvegliato un immenso cordoglio dovunque (meno che in Italia), confermando la grandezza dei suoi versi, che, come la Fenice, annunciano una certezza di eternità: «Un giorno sarò uccello, dal nulla/ trarrò la mia esistenza. Ogni volta che le ali bruciano/ avvicino la verità, rinasco dalla cenere.» ( Murale, p.11)

M. Darwish

M. Darwish

Bibliografia minima
 Memoria per l’oblio,  Jouvence 1996
Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?,  a cura di Lucy Ladikoff  Guasto, San Marco dei Giustiniani,  2001
La mia ferita è lampada a olio, De Angelis 2006
Oltre l’ultimo cieloLa Palestina come metafora, epoché,  2007
Murale, a cura di Fawzi Al Delmi, epoché 2005
Il letto della straniera, epoché 2009
Come fiori di mandorlo o più lontano, epoché 2010

Molte poesie, come quelle riportate qui di seguito,  sono comparse in Italia  singolarmente nei siti web dedicati al poeta.

 

M. Darwish

M. Darwish

Poesie di Mahmud Darwish

Carta d’identità

Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità e’ la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
ne’ ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
Prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa e’ come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!

 

M. Darwish

M. Darwish

darwish 1 jpg

Il sogno dei gigli bianchi


Io sogno gigli bianchi
in un ramo d’olivo
un uccello che abbracci il mattino
sopra i fiori di limone …
Io sogno gigli bianchi
in una strada di canto
e una strada di luce…
Io sogno
e voglio un cuore buono
che non sia pieno di fucili
e un giorno intero di sole …
Voglio un bimbo che all’alba sorrida
non un pezzo di ricambio
in strumenti di guerra.
Son venuto per vivere il sole
che sorge, ma non quello che tramonta.
E non ho voglia di morire
e combattere donne e bambini … Continua a leggere

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MARIA ROSARIA MADONNA POESIE SCELTE da “STIGE”  (1992)  ASCESI ED EROTISMO IN STIGE   Commento di Domenico Alvino – Parte I

 

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

da Stige (1992)

Egredientes latrinitatibus meo pectore
armet oratio, regredientibus de platea
mea mens armet fortitudo atque
ad omnem incessum manus pingat crucem.

*

Cave, ne aures perfores, ne cerussa
et purpurisso consacrata Cristo ora depingas,
né collane d’auro et perle ornino
meo volto, nec capillum irrufes.
Habeat alias margaritas.

*

Oratio sine intermissione, ut sempre
me diabolus inveniat occupatam.

*

Così coltivo l’anima, quae futura est
templum Domini; non est obiurgare
si tardior procedo. Nihil aliud convenit audire,
nihil loqui. Turpia verba non intelligo.

*

Horam tertiam, sextam, nonam,
diluculum quoque et vesperam.
Nec cibus nisi oratione praemissa
nec luxuria nisi intercessione gratia.
Noctibus legere, orare, psallere.

*

Nihil ita offendit deum quam desperatione
quia desperatione incredulitatis indicium est.
Si petenti datur et quaerens invenit et
pulsanti aperitur… me misera.

Si caeca fuero oratio me consolabitur.
Unicum raptus est luxuria.
Plango quod accidit sed quia placet Domino
aequo animo sustinebo.

Extremam expectabo mortem et breve putabo
malum, quod finis melior subsequetur.
Nihil aliud nisi Dominum cogitabo.

*

Bello birth-of-venus-model-the-history-of-simonetta-vespucci-renaissance-most-beautiful-woman

In fusca tunica incedo,
intra inopia cellula in trono.
Lingua et focum fero.

Frigus, languor et nuditas.

Intra caecos reddit mea cupiditas
atque avarizia hominum.

*

Onusta incedo in capillos auro splendente.

Intra serpentes et scorpiones
secura ingreditur.
Nuditas intra serpentes et scorpiones

*

Hostium plena sunt omnia.
Caro fragilis, et cinis futura
post modicum pugnabo sola
cum pluribus.

Et ferarum in amaritudine repleta.
*

Memini me clamantem
in cellulam meam prisquam
Domino rediret increspante tranquillitas.

Foto Man Ray 1922

 Inteso come opera d’una sconosciuta o come straluno di un indotto ignaro di regole e principi linguistico-espressivi, questo libro, Stige, uscito nel ’92 a Roma (Scettro del Re), non ha avuto dalla critica recensione o scheda o annuncio: niente. O forse in tutt’altro affaccendata, la critica non s’è accorta d’un libro che, considerato in sé e per sé, poteva rivelare una sua propria identità, e di conseguenza aver titolo perfino ad un luogo della storia che gli competesse e starvi a viso aperto, senza finzioni o mascherature, turlupinanti o meno che esse fossero.

Ma la critica poi non aveva mica questi gran torti. Davvero il libro si presentava irto di sconquassi d’ogni genere, e qualcuno si chiese perfino se davvero esistesse una Madonna poeta o se questo nome fosse apposto all’ombra d’uno inteso a mettere a berlina le pompose scritture classicistiche, sempre lì a pavoneggiarsi, non per altro, che per un agghindo loro greco o latino, che Madonna o chi per lei forse non riteneva più oramai decifrabile da nessun pur sagace comprendonio di questi tempi – e a ciò alluderebbe il subbuglio maccheronico di un testo che si presentava composito, zeppo di reminiscenze scolastiche molto vaghe, di prestiti forse, ma più di furti da opere di mistici e teologi e fondatori d’ordini religiosi, prestiti e furti per di più stravolti non si sapeva se ad arte o per imperizia. Si poteva anche pensare che si trattasse d’un gesto vendicativo sotto specie di burla contro il mondo accademico, la critica o la stampa, da parte di chi se n’è veduto regolarmente sbarrate le porte, essendo essi attesi unicamente a qual si fossero classicismi e a forme artistico-letterarie sancite dai soliti baronati accademici o dai caporioni della cultura in generale, pregiudizialmente alieni dal considerare proposte nuove, che cestinano a priori con l’incarto e tutto, senza curarsi di vedere se avessero o meno qualche oggettivo valore.

pittura parietale romana epoca pompeiana

pittura parietale romana epoca pompeiana

Ma pur così scombiccherato, questo libro ha la curiosa caratteristica – forse ignota all’autore stesso, inteso com’era solo a un gabbo vendicativo – che fin gli “scombiccheri” si mettono a far da tecnemi e attivano operazioni di poesia insospettabili in un libro simile. Ne consegue  che esso, magari anche fuor d’intento, s’inserisce di forza in una bene attestata tradizione di poesia, ma per romperla dal di dentro, e in più avvalorandosi nell’atto di mettere allo scoperto un sacer innominabile, tenuto finora nascosto, per un sentore sulfureo che per la loro piccineria mentale ne avevano la letteratura e l’arte, nonché la critica e la cultura in generale. Proprio ciò è invece sufficiente per aprire il libro e leggerlo, vedere quel che in se stesso sia e se un posto gli competa nella mente umana, ove si conservi a fare storia delle lettere e dello spirito. Per cominciare, eccone qui un campione:

Veniat sua jurisdictione terribilis
Supra mea culpa tollita, veniat
Sua maledictione supra mea carne bollita,
veniat Arcangelo superno supra mea
jocundissima ferita, veniat mea glabra
infernalia supra infermità condita,
veniat mea liquidissima suspicione
supra intenzione amarissima, veniat
asprissima dipartita post meo iocundo
delitto.

*

Si cum tuo licore nel mio core
versato, si cum tuo livore sul mio
onore posato, si cum tuo stiletto in mio
diletto infernato, si cum tua malia
in mia regalia instanato, si cum mea
trebile ardua Canossa supra tue
ossa annerato, sic transeat mea amaritudo.
Interceda tunc lux sancta et benefica
affinché lo mattino more ustorio
vampa infuocata discacci l’ombra
e mora lo demonio dello inferno!
io sempiterno dolzore amo e rinsavisco
e marcisco e porto lo crocefisso sulle spalle
leggero come l’albero di betulla Continua a leggere

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LE DUE STORIE DEL RITRATTO di PICASSO a MARIA LUISA SPAZIANI di Giorgio Linguaglossa

spaziani-montale-e-la-volpeSpaziani Montale http://www.fotografarefacile.it/002014_roma-ritratti-di-poesia-anche-fotografici-al-tempio-di-adriano/

 A fine gennaio del 2012 mi recai alla sesta edizione dei “Ritratti di poesia” al Tempio di Adriano curata da Vincenzo Mascolo per la Fondazione Roma dove erano esposti i ritratti fotografici di 12 poeti realizzati da Dino Ignani. La mia attenzione fu subito attratta dalla foto che ritraeva la poetessa Maria Luisa Spaziani della quale si vedeva soltanto la testa sovrastata da un grande disegno, il tutto sommerso da scaffali carichi di libri. Per caso, passando accanto a Dino Ignani che colloquiava con Romano Maria Levante, udii che il fotografo asseriva che il disegno era di Picasso. D’istinto, guardai il ritratto. Ignani stava dicendo che il pittore lo aveva disegnato, in miniatura, su un tovagliolino di carta di un ristorante, e che quello era il ritratto di Picasso successivamente ingrandito.

Questo l’antefatto.

M.L.  Spaziani foto di dino ignani

M.L. Spaziani foto di dino ignani

In questi giorni, 7 e 8 giugno a Roma, al Ninfeo di Villa Giulia, e il 15 giugno alle Terme di Traiano a Civitavecchia, si sta tenendo un festival di poesia femminile dal titolo “Eros e Kairos” nel quale è esposto il ritratto fotografico della poetessa Maria Luisa Spaziani dove appare in evidenza, alle sue spalle, una litografia. Poche righe sottili che incorniciano un volto ovale. Bello, non c’è dubbio, si riconosce la maestria del tocco di Picasso.

Torno a casa e, come colto da un’improvvisa ispirazione, guardo la mia libreria dove sono accatastati migliaia di volumi in un terribile disordine e mi capita sotto gli occhi il libro di memorie della Spaziani dal titolo “Montale e la Volpe”, edito da Mondadori,  dove lei parla della sua vita, lo apro a caso alle pagine 87-88 e leggo il passo nel quale racconta la storia della nascita del “ritratto” che l’autrice fa risalire al 1955:

«…raggiunsi Aix-en-Provence dove mi aspettava l’amico egiziano Aziz Izzet… Abitavamo nella “torre di Cézanne” e da lì ogni giorno si facevano visite ai pittori e prati di lavanda. Un giorno Aziz mi dice, come se niente fosse: “Perché non andiamo a trovare Picasso?”. “Ma perché no?” dissi ridendo. Sapevamo delle difficoltà che i miei amici giornalisti avevano più volte incontrato chiedendo un’intervista al pittore più famoso del mondo. “Proviamo” dice Aziz. “Qui siamo a Parigi. Non tutti sanno che ogni tanto scappa a Vallauris tutto sol, senza telefono, a fare le sue amate ceramiche.” Andiamo, nessuno al cancello dell’orto, la porta dell’atelier è aperta. Picasso ci vede, grida comunque un suo buongiorno e s’informa se siamo giornalisti. “Ma no, siamo poeti!” “Allora entrate e servitevi, c’è dell’acqua e del vino di Malaga, ditemi quello che avete da dire ma non interrompete il mio lavoro” Ci avviciniamo. Lui alza il braccio destro forse per mostrarci la mano sporca di creta, e così facendo gli casca dai fianchi una specie di perizoma o asciugamano, per cui rimane completamente nudo. Con disinvoltura si china, raccoglie quell’unico drappo, e lentamente, senza scusarsi, se lo annoda intorno ai fianchi dicendo, chissà perché, “Rubens è il più grande” con il tono assolutorio e conclusivo con cui in ambito diverso si sarebbe detto “Allah è grande” o “a tutto c’è rimedio”. Poi mi guarda di profilo, decide che sono “un bel tipo di spagnola”, e mi fa quell’abbozzo di ritratto che doveva poi comparire sulla copertina di un mio “Oscar” Mondadori».

Foto manichino con vestiti su stampelle

Ma una diversa storia del ritratto è raccontata dal figlio del barbiere di Picasso, di nome Eugenio Arias, intimo e fraterno amico del pittore, il quale rivela che la litografia, dal titolo “La Espagnola” fu messa in vendita nel 1960 a Parigi per aiutare gli esuli spagnoli. Il ritratto, secondo la versione datane da Eugenio Arias rappresenta la madre di Arias la quale impersonava, secondo Picasso, la donna tipicamente spagnola (edizione limitata, litografia originale, numerati a mano 500 esemplari) datata ottobre 1960, litografia su carta Fabriano mm 690×520, es. 37×141 Editore e Stampatore il Bisonte Edizioni d’Arte – Firenze.

http://hapenas.com/shopping/shopping/shopping/picasso-p-litog-orig-assinatura-numer-hand-femme-c14-i28454-d.aspx

A pochi chilometri da Madrid sorge oggi il Museo Picasso che espone le opere regalate dal pittore al suo barbiere ed amico Eugenio Arias. Da lui prende il nome l’intera collezione che comprende 71 opere tra dipinti, porcellane e libri realizzati dall’artista tra il 1948 e il 1972. Le opere sono state successivamente donate da Arias alla Comunità Autonoma di Madrid nel 1982. Visitando il museo si può osservare anche il ritratto “La Espagnola” della madre di Eugenio Arias.

Queste sono le due versioni, certamente molto diverse, sull’origine del “ritratto” di Picasso alla poetessa Maria Luisa Spaziani (secondo una versione) e del “ritratto” alla madre del barbiere di Picasso, Eugenio Arias, esposta al museo Picasso (secondo la seconda versione). Per mia parte, mi sono limitato, diciamo, per pari opportunità, a presentarle entrambe al lettore affinché si faccia una propria opinione in proposito.

In proposito c’è anche un appunto di Renato Minore il quale riferisce il “racconto” della Spaziani secondo questa versione nel 1955 Picasso le avrebbe fatto in margine a un pacchetto di sigarette un ritratto… e che poi, «dieci anni più tardi l’ho trovato riprodotto in una litografia alla libreria Einaudi di Roma. L’ho comprato per 50.000 lire». (tratto da “La promessa della notte”, pag. 207, cap.  Maria Luisa Spaziani una parola che non mente. di Renato Minore. Donzelli).

Il che sarebbe una variante del “racconto” principale.

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Jorge Luis Borges (1899-1986)  CINQUE POESIE METAFISICHE «L’arte vuole sempre irrealtà visibili» con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

http://www.letteratura.rai.it/articoli/jorge-luis-borges-il-mio-rapporto-con-il-tempo/993/default.aspx

http://it.radiovaticana.va/news/2016/09/22/teatro_della_misericordia_alcuni_versi_di_jorge_luuis_borge/1259943

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo nasce a Buenos Aires il 24 agosto 1899 e muore a Ginevra il 14 giugno 1986. Nonostante sia stato uno dei più importanti scrittori del ventesimo secolo, ed abbia ricevuto importanti riconoscimenti, non gli fu mai conferito  il Premio Nobel. Più volte il suo nome è apparso nella lista dei candidati ma le sue idee politiche conservatrici e filo-occidentali gli hanno alienato i favori dei membri della giuria svedese.

Borges è famoso per i suoi racconti nei quali  ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, la contemporaneità del tempo).

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Molti sono gli scrittori che sono stati influenzati dalle sue opere: Cortazar, Philip K. Dick, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Italo Calvino. Oggi l’aggettivo «borgesiano» definisce una concezione dell’arte e dell’esistenza, l’opera come menzogna, intersezione e sovrapposizione di reale e immaginario ( famose le sue recensioni di libri immaginari).
Dal 1914 al 1921 è con la sua famiglia in Europa; dapprima in Svizzera, a Ginevra, dove frequenta il Collège Calvin, che gli consente di conoscere molti autori europei, apprendere il latino, il francese ed il tedesco, poi Lugano, Maiorca, Siviglia e Madrid.
Nel 1925, Borges incontra Victoria Ocampo, la musa che sposerà quarant’anni dopo. Con lei stabilisce un’intesa intellettuale destinata a entrare nella mitologia della letteratura argentina.

Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges

 Nel periodo successivo ad un incidente che lo costringe all’immobilità e ad un attacco di setticemia che mette in serio pericolo la sua vita, Borges concepisce alcuni dei suoi capolavori che verranno pubblicati dopo 6 anni, nel 1944 col titolo di Ficciones e dopo altri cinque anni anche i racconti di Aleph, ispirati all’immortalità, all’idea del tempo infinito. Nel 1955 viene nominato direttore della Biblioteca Nazionale, ciò che aveva sempre sognato di fare. Con spirito eminentemente borgesiano, lo scrittore commenta così la nomina: «E’ una sublime ironia divina ad avermi dotato di ottocentomila libri e, al tempo stesso, delle tenebre».
E’ l’inizio di un lungo e fecondissimo tramonto. Nonostante la morte avvenga molto più tardi. Gli sarà accanto la sua seconda moglie, l’amatissima Marìa Kodama, una sua ex allieva divenuta poi sua segretaria.

Ha scritto Addison che quando sogniamo l’anima «conversa con innumerevoli individui di sua creazione e si trasferisce in diecimila scene di sua immaginazione»: l’anima è, insomma, «il teatro, l’attore e lo spettatore». Ma anche, soggiunge Borges, l’autore della storia cui assiste, sicché i sogni rappresentano un vero e proprio «genere letterario».

Nel saggio Kafka y sus precursores, pubblicato nel 1951, Borges sostiene che «cada escritor crea a sus precursores. Su labor modifica nuestra concepción del pasado, como ha de modificar el futuro. En esta correlación nada importa la identidad o la pluralidad de los hombres». Sta qui la chiave per entrare dentro la produzione letteraria di Borges, l’idea di una letteratura che crea i propri lettori creando un nuovo genere letterario. I racconti e le poesie di Borges vogliono essere non qualcosa di «nuovo» quanto un nuovo genere letterario. È questo il punto decisivo della sua poetica tipicamente modernista.

Lungi dal trattasi di una esperienza del sublime come quella che commuove Dante nel Paradiso, El Aleph evoca l’abietto mediante l’apparizione di immagini sgradevoli e impensate e mediante l’allusione a una realtà multipla, inconoscibile, governata dalla incertezza e dalla mutevolezza degli spazi e dei tempi. In realtà, la sua poesia e i suoi racconti sono una brillante interpretazione degli incubi e dei sogni dell’uomo contemporaneo, scritture libere da qualsiasi pensiero mimetico del reale. La scrittura è simulacro, immagine riflessa di un simulacro, simulacro di un sogno e ciò che l’uomo considera «reale», è semplicemente il frutto dell’abitudine alle credenze, non diversamente dalla mentalità primitiva che crede negli sciamani. Per dirla con Ortega y Gasset, l’uomo borghesiano è un animale «fantastico tecnologico», ha bisogno di creare continuamente i propri mondi irreali e fantastici per poter sopravvivere e utilizzare al meglio la tecnologia. 

Per Borges il tempo è il problema centrale della metafisica e l’inesplicabile costituiscono alcuni dei temi centrali della sua opera. Come il punto microcosmico può contenere l’universo, così un istante può significare la eternità. La prima ipotesi si fonda sul misticismo panteista, la seconda un avatar del paradosso di Zenone: «William James niega – scrive Borges, que pueda transcurrir catorce minutos, porque antes es obligatorio que hayan pasado siete, y antes de siete, tres minutos y medio, y antes de tres minutos y medio, un minuto y tres cuartos, y así hasta el fin, hasta el invisible fin, por tenues laberintos de tiempo». Borges pensa che la dialettica di Zenone è una irreltà che conferma il carattere allucinatorio del mondo; nelle sue narrazioni la dialettica opera all’interno della irrealtà dell’arte, per questo i suoi racconti, come la tartaruga di Zenone, hanno un colore di irrealtà nel mentre che sono retti da una logica irrefutabile. Russell ha scritto che «lo scetticismo universale, quantunque logicamente inconfutabile, risulta praticamente sterile». Borges sa che gli schemi temporali della metafisica, come le sue teorie, sono irrealtà, sa che l’uomo non può negare la sostanza di questo fatto – il tempo -; sa, e lo ha detto, che in una gran parte della sua opera palpita uno «scetticismo essenziale». Analogamente, sa anche che l’arte non è «uno specchio del mondo, ma una cosa aggregata al mondo», e che sul piano della letteratura lo scrittore diviene un artigiano che tratta schemi temporali come Dio scrive le pagine dell’universo. Di tutti gli schemi temporali, quello preferito che ricorre con maggiore frequenza nella sua opera è il tempo ciclico o circolare. In molti dei suoi saggi Borges ha approfondito le vicissitudini di questa dottrina: dalla sua genesi platonica alla rinnovata formulazione di Nietzsche. Di tutte le versioni dell’eterno ritorno, quella che Borges preferisce è la ipotesi che considera che i cicli che si ripetono infinitamente non sono identici ma similari. Tale concezione del tempo permette una feconda interpretazione della realtà che lo scrittore argentino applica nei suoi racconti e nelle sue poesie.

«Por qué nos inquieta – chiede Borges – que el mapa esté incluido en el mapa y las mil y una noches en el libro de Las mil y una noches? ¿Por qué nos inquieta que Don Quijote sea un lector del Quijote, y Hamlet espectador de Hamlet? Creo haber dado con la causa: tales inversiones sugieren que si los caracteres de una ficción puede ser lectores o espectadores, nosotros, sus lectores o espectadores, podemos ser ficticios»(O.I. 68-69).

Se l’arte è sogno o magia, l’esito del mago è questo istante nel quale il reale sembra fittizio e il fittizio, reale. Il programma della sua narrativa Borges lo definisce così:

«creare irrealtà che confermano il carattere allucinatorio del mondo, come è dottrina presso tutti gli idealisti»(D.136), come appare evidente dal seguente paragrafo di Schopenhauer: 

«Se il mondo come idea è solamente la visibilità della volontà, l’opera dell’arte restituisce questa visibilità della volontà, l’opera dell’arte restituisce questa visibilità più precisa. È la camera oscura che mostra gli oggetti  in modo più puro e ci fornisce la possibilità di esaminarli e comprenderli meglio. È il dramma dentro il dramma, lo scenario sopra lo scenario in Hamlet

Per Schopenhauer, l’arte è una irrealtà all’interno di un’altra, come il dramma dentro il dramma in Hamlet, che ha però la strana virtù di proiettare una immagine più chiara della realtà che per lui è un prodotto della volontà. Borges si propone, sul piano della letteratura fantastica, il compito che mette insieme la metafisica idealista con il piano della realtà: se il mondo esiste come una mia idea del mondo, allora io, come parte di questo mondo, sono solo una idea all’interno di questa mente che mi percepisce o mi proietta come una percezione. Crea con esso personaggi fittizi, sempre nell’ambito della finzione, nel mentre che li pensiamo reali. Borges insomma converte personaggi storici reali in personaggi fittizi e favolosi come quel Marco Flaminio Rufo comandante di una coorte romana al tempo della guerra di Diocleziano contro i mitici popoli degli agili e dei garamanti nei pressi di Berenice, di fronte al mar Rosso.

(Giorgio Linguaglossa)

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Il sogno

Quando gli orologi della mezzanotte elargiranno
un tempo generoso,
andrò più lontano dei rematori di Ulisse
nella regione del sogno, inaccessibile
alla memoria umana.
Da quella regione sommersa recupero residui
che ancora non comprendo;
erbe di botanica elementare,
animali un po’ diversi,
dialoghi coi morti,
volti che in realtà sono maschere,
parole di lingue molto antiche
e talora un orrore non comparabile
a quello che può darci il giorno.
Sarò tutti o nessuno. Sarò l’altro
che ignoro d’essere, colui che ha contemplato
quell’altro sogno, la mia veglia. La giudica,
rassegnato e sorridente.

El sueño

Cuando los relojes de la media noche prodiguen
un tiempo generoso,
iré más lejos que los bogavantes de Ulises
a la región del sueño, inaccesible
a la memoria humana.
De esa región inmersa rescato restos
que no acabo de comprender;
hierbas de sencilla botánica,
animales algo diversos,
diálogos con los muertos,
rostros que realmente son máscaras,
palabras de lenguajes muy antiguos
y a veces un horror incomparable
al que nos puede dar el día.
Seré todos o nadie. Seré el otro
que sin saberlo soy, el que ha mirado
ese otro sueño, mi vigilia. La jurga,
resignado y sonriente.

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Cosmogonia

Né tenebra né caos. Esige occhi
che vedano, la tenebra; così
suono e silenzio esigono l’udito,
e lo specchio, la forma che lo popola.
Né lo spazio né il tempo. E neppure
una divinità che concepisce
il silenzio anteriore all’iniziale
notte del tempo, che sarà infinita.
Il gran fiume di Eraclito l’Oscuro
non ha intrapreso il corso irrevocabile
che dal passato va verso il futuro,
che dall’oblio va verso l’oblio.
Qualcosa che già soffre. Che già implora.
Dopo, la storia universale. Ora.

Cosmogonía

Ni tiniebla ni caos. La tiniebla
requiere ojos que ven, como el sonido
y el silencio requieren el oído,
y el espejo, la forma que lo puebla.
Ni el espacio ni el tiempo. Ni siquiera
una divinidad que premedita
el silencio anterior a la primera
noche del tiempo, que será infinita.
El gran rio de Heráclito el Oscuro
su irrevocable curso no ha emprendido,
que del pasado fluye hacia el futuro,
que del olvido fluye hacia el olvido.
Algo que ya padece. Algo que implora.
Después la historia universal. Ahora.

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[poesia attribuita a Borges ma scritta alla maniera di Borges. In tal senso riteniamo questo tentativo di imitazione un esperimento interessante»

Istanti

Se io potessi vivere un’altra volta la mia vita
nella prossima
cercherei di fare più errori
non cercherei di essere tanto perfetto,
mi negherei di più,
sarei meno serio di quanto sono stato,
difatti prenderei
pochissime cose sul serio.

Sarei meno igienico,
correrei più rischi, farei più viaggi, guarderei più
tramonti, salirei più montagne, nuoterei più fiumi,
andrei in più posti dove mai sono andato, mangerei più
gelati e meno fave, avrei più problemi reali e
meno immaginari.

Io sono stato una di quelle persone che ha vissuto sensatamente e
precisamente ogni minuto della sua vita; certo che ho avuto
momenti di gioia ma se potessi tornare indietro cercherei
di avere soltanto buoni momenti. Nel caso non lo sappiate,
di quello è fatta la vita, solo di momenti;
non ti perdere l’oggi.

Io ero uno di quelli che mai
andava in nessun posto senza
un termometro,
una borsa d’acqua calda, un ombrello
e un paracadute; se potessi vivere di nuovo
comincerei
ad andare scalzo all’inizio della primavera
e continuerei così fino alla fine dell’autunno.
Farei più giri nella carrozzella,
guarderei più albe
e giocherei di più con i bambini,
se avessi un’altra volta la vita davanti.
Ma guardate, ho 85 anni e so che sto morendo.

buenos aires

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Il guardiano dei libri

Là sono i giardini, i templi e la giustificazione dei templi,
la retta musica e le rette parole,
i sessantaquattro esagrammi,
i riti che son l’unica sapienza
che agli uomini concede il Firmamento,
la dignità di quell’imperatore
la cui serenità venne riflessa dal mondo, specchio suo,
così che i campi davano i loro frutti
e i torrenti rispettavano le sponde,
l’unicorno ferito che ritorna per indicare la fine,
le segrete leggi eterne,
il concerto dell’orbe;
tali cose o la loro memoria sono nei libri che custodisco nella torre.
I tartari vennero dal Nord su piccoli criniti puledri;
annientarono gli eserciti
che il Figlio del Cielo aveva inviati per punire la loro empietà,
eressero piramidi di fuoco e tagliarono gole,
uccisero il malvagio con il giusto,
uccisero lo schiavo incatenato che vigila la porta,
conobbero le donne, le scordarono
e andarono oltre, al Sud,
innocenti come animali da preda,
crudeli come coltelli.
Nell’alba dubitosa
il padre di mio padre salvò i libri.
Sono qui nella torre dove giaccio
e ricordano i giorni stati d’altri,
gli stranieri, gli antichi.
Mancano i giorni ai miei occhi.
I palchetti son alti, non ci arrivano i miei anni.
Leghe di polvere e sonno cingono la torre.
A che ingannarmi?
La verità è che non seppi mai leggere,
ma mi consolo pensando
che immaginato e passato sono tutt’uno
per un uomo che è stato
e contempla quel che fu la città
e toma ora ad essere deserto.
Che cosa m’impedisce di sognare
che decifrai un tempo la sapienza
e tracciai con attenta mano i simboli?
Il mio nome è Hsiang. Sono il custode dei libri,
che sono forse gli ultimi
giacché nulla sappiamo dell’Impero
e del Figlio del Cielo.
Sono là nei loro alti palchetti,
remoti e prossimi a un tempo,
visibili e segreti come gli astri.
Là sono i templi, là sono i giardini.

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Jorge Luis Borges

È l’amore

È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire.
Crescono le mura delle sue carceri, come in un incubo atroce.
La bella maschera è cambiata, ma come sempre è l’unica.
A cosa mi serviranno i miei talismani:
l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione,
le gallerie della Biblioteca, le cose comuni,
le abitudini, la notte intemporale, il sapore del sonno?
Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.
È, lo so, l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce,
l’attesa e la memoria, l’orrore di vivere nel tempo successivo.
È l’amore con le sue mitologie, con le sue piccole magie inutili.
C’è un angolo di strada dove non oso passare.
Il nome di una donna mi denuncia.
Mi fa male una donna in tutto il corpo

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Steven Grieco, Antonella Zagaroli, Flavio Almerighi, Giuliana Lucchini, Silvana Baroni, Pasquale Vitagliano

Jeff Koons Ballon dog

Jeff Koons Ballon dog

 Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

 

 

 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven Grieco

a Bombay

Meravigliati, entrammo nella poesia
proprio quando questa si apriva:

una stanza in cui stava sul tavolo
un vaso di fiori freschi, divinità
inconsapevoli venute da un prato lontano;
il divano e i suoi cuscini vivaci,
una veena, che adesso compariva
sul tappeto;

l’aria leggera, piena del librarsi
di pensieri appena dischiusi: e l’attesa
di una presenza incantevole.

In questa estrema chiarezza, difficile
dire da dove il poeta osservava
la scena,
la sua attenzione in bilico
tra il freddo calcolo e il sogno

(trad. dall’inglese dell’autore)

*Nota: la veena è uno strumento a corde.

 

Still Life

 

Nei giorni estivi, quando gli alberi

persero le foglie, e le stanze
si moltiplicarono in altre stanze,
io ero sveglio

tu venisti in punta di piedi
ti sdraiasti accanto a me,
smarrita tra i miei fogli

Cercando il riverbero muto nelle parole,
non seppi coglierlo nel tuo silenzio iridato,
mentre giacevi sul lenzuolo rosso-scuro,
eri così assorta
sembrava dormissi

Provai tenerezza per il tuo corpo inquieto,
il sorriso coraggioso
quando io uscii nella notte

In questa devozione totale
sul viso mi spuntarono mille occhi

mentre tu dormivi,
tornavi
dentro la tua ombra in fiamme*

(trad. dell’autore)

 

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

*UNA NOTA

Quante volte ho intuito la profonda aderenza della vita al mito.
Un giorno scrivi una poesia in inglese, mesi dopo la traduci in italiano. In inglese la poesia è una poesia di addio, estrema poesia d’amore. Mentre lavori sulla traduzione – in piena libertà, così da permettere al significato di liberarsi dalle corrispondenze troppo rigide tra parole inglesi e parole italiane: mentre fai questo, ti rendi conto, stupito, che la poesia esprime una volta ancora la terribile storia di Orfeo. I segni sono infallibili – l’uomo che cammina avanti nell’oscurità (l’incertezza della sua vocazione poetica), la donna che lo segue (il suo muto tentativo di vincere l’impenetrabilità di lui), il mondo degli inferi, l’incendio (l’irrimediabile spaccarsi di un rapporto tra uomo e donna), e infine la separazione – lui va avanti e lei rimane dietro, avviluppata nelle fiamme della dimenticanza.
Eppure tu avevi in mente tutt’altra cosa, volevi solo dire di un rapporto fra due persone, come andò che quel vincolo così come era esistito fino ad allora si spezzò, probabilmente e soprattutto a causa della vocazione che nel poeta distrugge ogni calore umano. Quando avverti la presenza di questo doppio binario – da una parte la vita reale e vissuta, e dall’altra la potenzialità sfuggente, caleidoscopica del mito, che ne è l’ombra – non dubiti che in un altro tempo sia esistito o esisterà un senso del destino umano più grande di quello che normalmente avvertiamo. Tale senso si manifesta negli stampi infinitamente elastici e sempre cangianti della narrazione mitica: e in un attimo ci appare come totalità dell’esperienza umana.
Se ti puoi avvicinare ad esso: girarti di colpo, con un brivido riconoscere ciò che è assolutamente nuovo e profondamente strano – se puoi fare questo, allora saprai anche che il mito illumina volta dopo volta le nostre orme, il nostro stesso essere. Quale che sia, e ovunque realmente stia, questo nostro essere.

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

“Tre rose”

Rosa aborigena

Una veste davanti al volto
impallidito. Fiore senza nome
alla donna ondeggiano i riccioli
sorride a chi si presenta a piedi nudi
per rispetto delle anime antenate.

Al centro del villaggio
sotto il tetto del dio
una valigia, due candele accese

 

Rosa antico

Seno di primi vagiti per la sconosciuta
nei giardini di tè, vaniglia e cannella

le gambe si riposano
sotto banani e bambù
sfiorano i corpi agli elefanti.

la scalata agli avi.

 

Rosa allo specchio

 

Profumo di isola sognata
abituo l’assenza ad ogni suo fruscio

le giunture si estendono senza traumi
la corolla ascende

discende

 

Flavio Almerighi

Flavio Almerighi

Flavio Almerighi

sull’amore sfinito

 

Piero si vede con dio
nei bicchieri di glengrant,
fuma fino al filtro
dentro una cabina senz’anima
e gettoniera sventrata,

magro scannato, niente impermeabile
la fede portata a stringere
da un orafo tornato al mare
per tracciare segni sulla schiuma,
la serranda chiusa come un uovo,

e lui dentro a fare nembo kid,
col buon senso di successi estivi
modellati sulle anche di due amiche
in spiaggia a farsi spine
per il solito di passaggio che,

piccolo com’è sembra lo zero,
aspetta un giorno
va via deluso, smarrito
nella natura morta
senza fine degli ombrelloni,

un po’ di brezza sospira
sull’amore sfinito

 

bagni Eden

qua non è più mare
solo vernice di barche
e mignotte slave

entrate in acqua
a vostro rischio,
nessuno vi salverà.

Turisti senza amore
tra le onde fangose
assaggiano brezza salata

qualcuno ha dimenticato
le scarpe sul molo

 

natura morta di Ilva Lucchini

natura morta di Ilva Lucchini

Giuliana Lucchini

Giuliana Lucchini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuliana Lucchini

Natura morta

 

Fra una finestra e l’altra
il suo profilo severo e di trequarti
la bella bocca di bacca rossa.

Fra il vero e il falso il colore della mela
e con il gelo di gota immobile, la
solitudine.

Guarda lontano. L’albero spoglio
di tutti i frutti cede al vassoio una dolcezza
che non sarà più scossa.

Natura morta natura viva,
fra l’una e l’altra neppure uno iato:
silente fiato.

Potenze Principati Dominazioni.
Un verso finito. Occhio fisso, la mutezza
del servizio.

Come hai potuto irrigidirti,
felicità – senza toccarti,
d’ali ti fai l’ombra leggera.

(inedito)

 

Giuliana Lucchini

Giuliana Lucchini

 

natura morta di Van Gogh 1887

natura morta di Van Gogh 1887

La lentezza della beltà.

Separarsi.

Spararsi. Un colpo e basta.
Con il fucile. Fra costole. Cadere.
Nella culla del letame.

Poi camminare. Camminare è bello.
E’ necessario.
Stormi di storni, il roteare.

Orecchio mozzo, fiato corto
il sangue a caglio fra sciarpe. Nessuno
che ti conosca. Andare.
Per la via nota, fuori campo.
Alla città di luce. Alla salita.
.. rue Lépic. Giungere al portone.
Aprire. Salire le scale fino al quarto piano.
Girare la chiave nella porta.
Entrare. Chiudere.
Disordine.

In ordine soltanto i quadri –
quadri appoggiati a terra, quadri alle pareti
quadri allineati. Nella stanza, di nebbia.
Arrivare al letto. Un’eternità.
Distendersi. Restare immobile. Pensare (a cosa ?)

Respirare.

Morire dopo quattro giorni. Continua a leggere

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SEI POESIE di SAURO ALBISANI da “Orografie” (2014) – Commento di Giorgio Linguaglossa

sauro albisani Orografie 

Sauro Albisani

Sauro Albisani

Sauro Albisani Orografie Passigli, Firenze, 2014 pp. 130 € 15

 Sauro Albisani (Ronta 1956), poeta e drammaturgo, ha curato l’edizione delle Poesie del sabato (1980) di Carlo Betocchi, al quale è stato profondamente legato, come amico e discepolo. Ha scritto con Miklos Hubay il dramma I segugi da un frammento sofocleo, pubblicato su “Sipario”. È stato assistente alla regia di Orazio Costa Giovangigli, che egli considera, dopo Betocchi, il suo secondo maestro. A Costa Albisani deve alcune memorabili letture drammatiche del proprio teatro e importanti interventi critici. Ha pubblicato drammi: Campo del sangue (1987), Il santo inganno (1997); saggi: Il cacciatore di allodole. Per Carlo Betocchi (1989) Ippocrene. Riflessioni sull’ispirazione poetica (1991), Verso casa. Soliloqui sulla poesia (1992) Cieli di Betocchi (2006); poesia: Terra e cenere (2002), La valle delle visioni (2012), Orografie (2014); traduzioni: Vangelo secondo Giovanni (1994), Marziale Roma liberatutti (2010).  Premi: Lericipea, Viareggio-giuria e Gradiva-New York. Sito ufficiale: http://www.sauroalbisani.com

cop sauro Albisani la-valleE’ come se una maledizione avesse tolto la gravità da sotto al tavolo del mondo. I personaggi di questo libro sono gli studenti e le studentesse del prof Sauro Albisani, i suoi doppi, le sue ossessioni. La nuovissima generazione (al pari della nostra), dunque, che già fa apparire invecchiata quella appena precedente, che galleggia sul mare dell’inessenza, sbattuta di qua e di là, senza tempo e senza autenticità, in una dimensione sottile come la pellicola di un film di Woody Allen. Il poeta docente fa da contro canto e da specchio alla condizione giovanile nel mentre che riflette sulla propria esistenza e su quella dei suoi studenti ma in modo leggero, con uno stile colloquiale, con un tono disilluso, quasi scettico. È a suo modo un canzoniere d’amore questo di Sauro Albisani, che può venire alla luce in un mondo dove tutte le luci sono spente.

Bello birth-of-venus-model-the-history-of-simonetta-vespucci-renaissance-most-beautiful-womanLa poesia di Orografie nasce dalla condizione umana desublimata della attuale e della futura generazione: la scuola, il lavoro, lo studio, gli amori degli studenti, etc. Nell’età che è trascorsa dal ciclostile degli anni Sessanta al computer portatile dell’era internettiana, nel mentre che sono perente, in caduta libera, tutti gli avanguardismi e le parole innamorate, tutti i manierati eufuismi delle poetiche posticce, Sauro Albisani ci racconta con un linguaggio trasparente e leggero, sul filo di rasoio del tratto di penna agile ed leggero, i destini di questi giovani colti come in una serie di fotogrammi. Ogni composizione è un fotogramma, sottratto al tempo. C’è della dis-autenticità in questi racconti in versi e l’autocoscienza stilistica del poeta ce la riconsegna colta nel parlato, nei gesti del quotidiano, nei tic di tutti i giorni. Ciò che rimane è un profumo, un alone, un’aura desublimata come solo è possibile nell’età del «caos scandaloso» o della leggerezza dell’essere. E che la leggerezza sia una tremenda croce che si abbatte sugli abitanti del nostro tempo epigonico, opino non c’è dubbio alcuno, se appena gettiamo lo sguardo su queste poesie così accuratamente sofisticate da apparire denaturate.

Sauro Albisani

Sauro Albisani

 Che un poeta contemporaneo riesca a scrivere in un parlato così verosimile non deve in alcun modo meravigliare, Albisani ha affinato una scrittura poetica che del parlato ne reca il calco e la traccia, tanto più vitale in quanto sono venute a cadere le ipotesi di scritture modernistiche o post-modernistiche, per il loro non essere più all’altezza dei tempi, se per modernismo si intende una poetica che alligna, come un alligatore, sulla superficie della pellicola del Novecento. E non v’è cupezza in questo canzoniere di storie prosaiche, non v’è magrezza, c’è la scioltezza e l’agilità di un’età che ha perso essenza, e così la passione è occasionale e fuorviante, gli incontri imbarazzanti mistificazioni o divertite dissimulazioni. Non c’è più il volo di un Hermes in grado di gettare un ponte tra gli umani e le persone restano confinate nella loro unidimensionale incomunicabilità. Gli studenti sono trattati come figurine di seta o trapezisti mossi da una mano invisibile, le loro storie stereotipate sono il frutto del sogno di un burattinaio misterioso che forse ha dimenticato che la vita ha la stessa stoffa del sogno e i burattini, a loro volta, sono il sogno di un orco denaturato e immaginario, e l’orco è l’invenzione di un dio assente, un deus absconditus dell’epoca che ha perduto tutti i suoi dèi e i suoi idoli.

(Giorgio Linguaglossa)

Sauro Albisani 1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il custode che guarda le ragazze
baciarsi nel cortile a ricreazione
passa indolente con un foglio in mano
da consegnare in vicepresidenza.
Col fiato corto sale la sua balza
di purgatorio, una rampa di scale.
A pochi metri si aggiusta la calza
una Matelda sedicenne, persa
tra mille fiori, decalcomanie
impresse sullo zaino: la sua guancia
si gonfia per la noia dell’attesa.
Per la noia si gonfia anche la pancia
del custode, a quest’ora, ogni mattina
davanti al bar. Non sembra vecchio, salvo
la stempiatura che lascia alla brezza
di marzo i pochi capelli arruffati.
Non capisce il perché di tante cose:
– Vent’anni fa, giura puntando l’unghia
sull’ombelico, anch’io ero un ragazzo –

Che ne è stato di noi? perdio, rispondi!

Pietà di me, io non so quel che dico.

 

Google maps – Street view

Sono dentro il satellite che vola
seguendo la sua orbita, intravedo
nel traffico lo scooter in via Prati
svoltare l’angolo: sto andando a scuola.

sauro albisani

 

 

 

 

 

 

Testamento del nullatenente

Testardamente tu non volesti essere
che avresti tuttavia potuto essere;
fingesti sempre di credere d’essere
la preda, e intorno ti lasciasti tessere
una rete di tante servitù
mitigando il dolore con il gusto
d’ingannare, di fingere una parte.

E tuttavia, tu non potesti essere
chi avresti eroicamente voluto essere.
Il responsabile del tuo malessere
restava quello che ti elesse re.
E eri lontanissimo dal giusto:
nessuno nel dividere le carte
sceglie con libertà. Nessuno: tu. Continua a leggere

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AUTOANTOLOGIA CON INEDITI 10 POESIE DI LELIO SCANAVINI

lelio scanavini Litosfera lelio scanavini Hacker_1Lelio Scanavini è nato a Milano nel 1939, dove tuttora risiede. Dal 1961 al 1991 ha insegnato nelle scuole elementari. Dal 1968 cura le pubblicazioni letterarie dell’Editrice I Dispari. Nel 1980 ha fondato, con altri poeti milanesi, una cooperativa editrice che ha diretto per sei anni. È condirettore della rivista letteraria «Il Segnale». Ha pubblicato: Per Lucio Fontana, in collaborazione col poeta Enzo Bontempi, nel 1968; Sequenze Rosso Uno, in collaborazione col pittore Adriano Foschi, nel 1968; Quattro «M!» per voce sola nel 1969; Litosfera nel 1978; Pane giallo pane nero, in collaborazione con Alfredo Tamisari, nel 1995; HACKER: poesie di Formigoni, Colombo, Dulbecco, Eco; in 4 voll., nel 2000. È autore di una collana di classici italiani tradotti in italiano di oggi per i ragazzi (Dante, Boccaccio, Bandello, Leonardo, Basile) pubblicati tra il 1994 e il 1997 e di La vita e le sue origini (per la scuola primaria, 2011).

 

lelio scanavini Quattro_M  Due ipotesi di lavoro

Sotto ogni grano di tempo
riscoprire lucide tessere
esatti tracciati

protonotizie di poesia
sepolte nel sole falso
della stanca foresta
Un umile lavoro
da servo del mondo

In ogni deserto fermarmi
chinarmi

e raccogliere fra le scorie
tutta la luce nascosta
Da Quattro «M!» per voce sola, Milano 1969

 

lelio scanavini

lelio scanavini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bambino

Il bambino blu
alla ricerca di briciole
nella tasca dei jeans
non sa ancora chi lo ucciderà
eppure tutto è già pronto:
lo spago e il bavaglio
la droga e la cella…
ma tutto sarà lieve
dolce come un tramonto
Da Litosfera, Milano 1978

 

giorgio ortona Corpo,_2012,_olio_su_tela_incollata_su_tavola

giorgio ortona Corpo,_2012,_olio_su_tela_incollata_su_tavola

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Speranza

Sono ancora miliardi
i corpuscoli minerali
in moto perenne
sulla litosfera

L’ultima forse
delle creazioni
misteriosa fermenta

Da Litosfera, Milano 1978
In morte del poeta Enzo Bontempi

Nascono forse i poeti
per degenerazione spontanea.
Muoiono senz’altro rumore
che di pagina voltata.

1978, inedita

Dopo i funerali di Bologna

Sull’Autostrada del Sole
ho visto passare il dolore:

era in corsia di sorpasso

 

Autostrada BO-Mi, agosto 1980, inedita

 

giorgio ortona-autoritratto_senza_volto_ma_con_stratocaster_2003_olio_su_tavola_54_x_30_cm.jpg 8 giugno 2014

giorgio ortona-autoritratto_senza_volto_ma_con_stratocaster_2003_olio_su_tavola_54_x_30_cm.jpg
8 giugno 2014

 

In attesa degli Unni

 

Alle pendici d’ogni rilievo dell’essere
pernotta – lunatica medusa –
la resa al piacere dominante
la lusinga del vivere conforme
in questa gomorra audiocoprovisiva

Non essere quindi necesse
e farsi indifferente salnitro
nell’incerta geografia del tempo
tracciata su absidi tirreniche

 

1987, inedita Continua a leggere

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Wallace Stevens (1879-1955) “Sunday Morning”(Mattino domenicale, 1924) – Commento di Giorgio Linguaglossa, traduzione di Massimo Bacigalupo

wallace stevens sunny-breakfast

  In un articolo del 30 luglio 1992 apparso su la Repubblica Alfredo Giuliani scriveva: «Nei primi versi di Mattino domenicale l’autore ambienta la situazione e disegna uno stato d’animo. Ne deduciamo che lei quella mattina s’è compiaciuta di far tardi, non è andata in chiesa, e per un po’ si sente a suo agio, come se l’angoscia cristiana del rito della messa (“sacrificio e resurrezione”) si fosse dissipata. Ma poi comincia un intenso dialogo di toni alti, tra lei e lui, pro e contro la religione. L’attacco era stupendo:

Complacencies of a peignoir, and late
coffee and oranges in a sunny chair,
and the green freedom of a cockatoo…

Poggioli traduceva “Lusinghe di vestaglia”; bello ma una forzatura, si attribuiva al peignoir  un atteggiamento compiacente di colei che lo indossa. In seguito un altro traduttore cercò di cavarsela con un calco: “Compiacimenti del peignoir”. Ora, il carattere particolare di quell’attacco è nell’uso deliberato di due parole inglesi di stampo francese, e lo stretto accostamento produce un effetto irriproducibile in italiano».

Io, approfittando della parentela tra il lessico italiano con quello francese tenterei quest’altra traduzione:

Complacencies di un peignoir, e a tardo mattino
caffè ed arance su una sedia soleggiata
e la verde libertà di un pappagallo

Wallace Stevens Coffee Oranges

 Il poemetto ha inizio con alcuni indizi di una natura morta piena di colori: c’è un «pegnoir», una «sedia soleggiata», un verde pappagallo, «caffè ed arance», e la descrizione di una ricca signora di condizione borghese seduta nel suo giardino una domenica mattina colta mentre esprime felicità e benessere per il lusso e le belle cose che la vita le offre. Nella prima strofe è detto chiaramente della vita ricca e della bellezza naturale del luogo che dissipa «the holy hush of ancient sacrifice». La signora sta fantasticando, ed avverte tutta la mostruosità dell’interferenza da parte della morte nel processo della vita. Anche il fraseggio stilistico vuole accentuare la soddisfazione dello sguardo e dei pensieri della signora borghese nei confronti della bellezza della vita e della natura mediante una mal dissimulata onustà del dettato. Si evince la sua naturale ritrosia per  « The holy hush of ancient sacrifice» e per la assurde pratiche religiose ad esso connesse.

Wallace-Stevens-mind-Meetville-Quotes  Sunday Morning si presenta come una raffigurazione pittorica, come un polittico della borghese incredulità nell’ombroso dio colui che dispone del «Dominion of the blood and sepulchre». L’attrice del quadro è lì, colta all’improvviso, in un momento di distrazione, di indugio recalcitrante, forse. Ha fatto tardi a recarsi alla messa del mattino, una improvvisa e imprevista languidezza le ha fatto perdere tempo, forse il subconscio le detta questo ritardo inspiegabile rispetto agli obblighi societari borghesi del rito mattutino della messa. Pochi tocchi, pennellate essenziali: «caffè e arance su una sedia soleggiata», con quell’ammicco alla «verde libertà di un pappagallo» In questi primi tre versi abbiamo il quadro completo con i suoi colori primaverili e una inquietudine appena accennata e subito rimossa tra la «verde libertà» del pappagallo e la crisi della signora borghese alla ricerca di una « imperishable bliss» (da notare la raffinatissima coloritura ironica di quest’aggettivo). Lei sogna «She dreams a little, and she feels the dark / Encroachment of that old catastrophe»; «antica catastrofe» come tradurrei io, ma accettiamo «antico sacrificio» come traduce Bacigalupo. Si evince da subito la dicotomia antinomia tra la «verde libertà del pappagallo» e il «Dominion of the blood and sepulchre» (Dominio del sangue e del sepolcro).

 Wallace-Stevens Quotes Sunday morning è un poema in chiave meditativa su una figura femminile che consciamente rifiuta la credenza in una vita dell’al di là; è la vita di qua che ella desidera, anche se non «meaningful», anche se priva di  «imperishable bliss».

Nelle prime quattro strofe la signora borghese dichiara espressamente la sua propensione per le bellezze della vita, per la natura e la sua bellezza, e rigetta esplicitamente i dogmi della religione del sangue e della morte.

Wallace-Stevens-Quotes-2  A questo punto, però, interviene la voce narrante del poeta il quale interrompe la meditazione della signora per esporre la tesi secondo cui «beauty» è «death» e che la morte ha un ruolo supremo nel rivolgimento dell’essere. Ma l’argomentazione di Stevens è sibillina, è una confutazione della confutazione. Dapprima sembra voler confutare la meditazione della signora borghese, sembra parteggiare per  le ragioni che stanno alla base della religione della «morte» e del «sacrificio», ma in realtà il poeta si fa beffe del «heaven» e degli sforzi vani degli uomini per raggiungere quel luogo dove la vita non è più macchiata dalla morte, perché la vita è una buona cosa, e la morte, dalla quale la vita dipende, deve essere anch’essa una buona cosa, afferma con paradossale spirito umoristico Stevens. Cosa c’è nell’immaginario «paradiso»?, «no change of death», i fiumi scorrono verso nessun mare, i frutti maturi non cadranno mai dagli alberi, le immagini associate con la religione e la vita in un al di là, sono tristi e prive di vita.   Come si vede, una argomentazione dal duplice risvolto, che potrebbe apparire ambigua ma che in realtà è chiarissima ed esposta con un fraseggio colloquiale di grande compostezza e, direi, sostenutezza formale. In alcuni passaggi anche  il lessico di Stevens opta per il desueto e l’arcaico come per sottolineare l’austerità e l’importanza di quanto si viene dicendo. Per Stevens compito della poesia è quello di sostituire in qualche modo il ruolo svolto dalle religioni moderne nel fornire forma e significato alla vita umana («poetry and poets must take the place of religion and priests to provide form and meaning for human life»).

Faulkner, Others Get Book Awards

wallace-stevens-riceve-un-premio-1951.j

 La terza strofe esalta la serena numinosità della religione pagana greco-romana attraverso la figura di Giove a fronte della più democratica religione cristiana; la quarta strofe segna invece il passaggio ad una maggiore consapevolezza: sia la religione pagana che quella cristiana sono opera del passato, sono tramontate per sempre. Nella quinta strofe di nuovo affiora il pensiero della morte e la signora è tentata dal bisogno di una duratura beatitudine. Ogni strofe introduce una variazione e una contraddizione rispetto alla precedente.

Uno dei punti più importanti della poetica di Stevens risiede nella convinzione che la bellezza è preda dell’attimo, della sua transitorietà. Tutti moriamo e tutto cambia, così l’idea della permanenza è una pessima e falsa idea, una illusione funesta che preannuncia l’altra grande illusione del «paradiso».  Cristianesimo, induismo e qualsiasi altra religione che si basi sulla permanenza è una illusione, frutto di un desiderio, una proiezione. La permanenza non è altro che il circolo di vita e morte. Religioni, miti, filosofie, culture sono tutte finzioni destinate ad essere dimenticate. Il poemetto vuole dirci qualcosa intorno alla gioia per la scoperta che l’uomo è un essere tendenzialmente e intimamente gioioso: « this happy creature-it is he that invented the Gods».

istevew001p1 Nella sesta stanza il poeta medita sul luogo chiamato «heaven»: “Is there no change of death in paradise? Does ripe fruit never fall?“. Se i fiumi scorrono ma non raggiungono gli oceani, se i frutti maturano ma non cadono dagli alberi, se c’è solo «beatitudine» e non il suo contrario che solo le darebbe significato e consistenza, ne dobbiamo dedurre che esso non sia propriamente questo luogo della eterna felicità, in esso sarebbe impossibile vivere, esistere, e sarebbe oltremodo noioso, insignificante soggiornarvi.

Wallace-Stevens-Quotes-1 Nella settima stanza Stevens descrive la religione del futuro, il nuovo paganesimo nel quale l’intero universo è fatto oggetto di adorazione, nel quale gli esseri umani saranno uniti in fratellanza, uniti nella convinzione che ogni uomo è transitorio, che anche Gesù  (Dio) è morto, è una figura storica e come tale anch’egli sottoposto alle leggi del mutamento e del ciclo vitale della natura. La conclusione è dichiaratamente panica, liberatoria, gioiosa: una voce si annuncia con queste parole alla signora borghese:

Lei ode, su quell’acqua senza suono,
una voce che annuncia: « La tomba in Palestina
non è un chiostro di spiriti indugianti,
ma la tomba di Gesù, in cui egli giacque ».
Viviamo in un vecchio caos del sole…

(Giorgio Linguaglossa)

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Sunday Morning (Mattino domenicale)

I.
Complacencies of the peignoir, and late
Coffee and oranges in a sunny chair,
And the green freedom of a cockatoo
Upon a rug mingle to dissipate
The holy hush of ancient sacrifice.
She dreams a little, and she feels the dark
Encroachment of that old catastrophe,
As a calm darkens among water-lights.
The pungent oranges and bright, green wings
Seem things in some procession of the dead,
Winding across wide water, without sound.
The day is like wide water, without sound.
Stilled for the passing of her dreaming feet
Over the seas, to silent Palestine,
Dominion of the blood and sepulchre.

I.
Compiacenze dell’accappatoio, caffè e arance,
a tarda mattina su una sedia al sole,
e la libertà verde di un cacatua
sul tappeto si coniugano per dissipare
la sospensione religiosa del sacrificio antico.
Lei sogna un poco, sente l’oscuro
peso dell’antica catastrofe, quasi
una bonaccia che oscura luci d’acqua.
Le arance pungenti e le ali luminose, verdi,
paiono oggetti in una processione di morti,
che s’inoltra su acque ampie, senza suono.
Il giorno è un’acqua ampia, senza suono,
calmata perché lei vada coi piedi sognanti
sopra i mari verso la silenziosa Palestina,
dominio del sangue e del sepolcro.

wallace stevens harmonium
II.
Why should she give her bounty to the dead?
What is divinity if it can come
Only in silent shadows and in dreams?
Shall she not find in comforts of the sun,
In pungent fruit and bright green wings, or else
In any balm or beauty of the earth,
Things to be cherished like the thought of heaven?
Divinity must live within herself:
Passions of rain, or moods in falling snow;
Grievings in loneliness, or unsubdued
Elations when the forest blooms; gusty
Emotions on wet roads on autumn nights;
All pleasures and all pains, remembering
The bough of summer and the winter branch.
These are the measure destined for her soul.

II.
Perché dovrebbe dare le sue sostanze ai morti?
Cos’è la divinità se giunge solo
nei sogni e in ombre silenziose?
Non troverà forse nel conforto del sole,
In frutti pungenti e ali verdi, luminose,
o in ogni balsamo e bellezza della terra
Cose da amare come il pensiero del cielo?
La divinità vivrà dentro di lei:
passioni di piogge, umori di nevicate,
dolori in solitudine o esaltazioni incontrollate
quando il bosco è in boccio; folate d’emozioni
su strade roride nelle notti autunnali;
tutti i piaceri e le pene, ricordando
la fronda estiva e il ramo dell’inverno.
Queste le misure destinate a lei, all’anima.

Portrait of Wallace Stevens Wearing a Suit
III.

Jove in the clouds had his inhuman birth.
No mother suckled him, no sweet land gave
Large-mannered motions to his mythy mind.
He moved among us, as a muttering king,
Magnificent, would move among his hinds,
Until our blood, commingling, virginal,
With heaven, brought such requital to desire
The very hinds discerned it, in a star.
Shall our blood fail? Or shall it come to be
The blood of paradise? And shall the earth
Seem all of paradise that we shall know?
The sky will be much friendlier then than now,
A part of labor and a part of pain,
And next in glory to enduring love,
Not this dividing and indifferent blue.

III.
Giove ebbe un parto inumano fra le nuvole.
Nessuna madre l’allattò, né terra dolce diede
movenze ampie alla sua mente mitica.
Passò fra noi, come un re bofonchiante,
magnifico, passerebbe fra i vassalli,
finché il nostro sangue, unendosi, virgineo,
al cielo esaudì il desiderio a tal punto
che anche i vassalli lo videro, in una stella.
Fallirà il nostro sangue? O diverrà
sangue del paradiso? E sembrerà
la terra tutto il paradiso che sapremo?
Il cielo sarà molto più amichevole che ora,
parte fatica e parte anche pena,
secondo in gloria all’amore duraturo:
non questo blu indifferente e divisorio. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Anna Ventura, Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Annalisa Comes, Antonio Sagredo, Laura Cantelmo, Giuseppina Di Leo, Ivan Pozzoni, Ambra Simeone, 

rene magritte les deux mysteres 1966

rene magritte les deux mysteres 1966

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

Magritte elective affinities 1933

Magritte elective affinities 1933

Anna Ventura

Natura morta con insetto

Dalla vetrata aperta, una mosca entrò, perentoria,
quando la signora appese al muro
della sala da pranzo
il quadro appena acquistato
in un’asta di Montecatini. Quel quadro
era un simbolo di gioia,
per lei, donna fortunata
e consapevole di esserlo.
Sulla felicità delle sue scelte
nessuno avrebbe osato dubitare Eppure
in quel quadro
c’era qualcosa che stonava:
forse l’opulenza eccessiva
delle uve, l’arancione forte
di una fetta di melone, il rosso acceso
di una granata aperta. La mosca
ronzava intorno al quadro. La padrona di casa
volle scacciarla, agitando un panno
inumidito, ma quella
era più tenace di lei:
all’improvviso entrò nel quadro,
si attaccò a un acino d’uva,
e lì rimase. Non ci fu verso
di allontanarla. Ma la signora
non poteva- ne andava della sua reputazione-
farsi beffare da un insetto. Chiamò un pittore
di buona fama e gli fece dipingere una mosca
proprio lì, su quell’acino d’uva
dove l’intrusa giocava a rimpiattino.
Il giorno dopo,
l’insetto dipinto era scomparso.
L’acino d’uva, liscio, tondo, viola,
l’aveva nascosto
nel folto delle foglie di vite che,
maestose,l’assediavano dal basso.
La mosca viva ronzava per la stanza.

Anna Ventura

Anna Ventura

 

 

 

 

 

 

 

Club

Un sospetto di neoclassico fascista
sfiora le squallide rotondità
di poltrone, angoli, tende
senza colore.
Passa il cameriere basso,
con tre tazze fumanti sul vassoio.
La sala di lettura: deserta,
un uomo solo, nascosto dal giornale.
Corridoi lunghi, pavimento screziato,
archi.
Ripassa il cameriere,
con le tre tazze vuote.
La stanza del bridge è piccola,
colorata di verde e rosso-i tavoli-,
tenue fumo ristagna
tra gli occhi fissi.
“Siamo noi. Siamo arrivati.”
Morti?
No, vivi di una propria vita.
Rossa è la tentazione socialista,
azzurro
il fascino discreto della monarchia.
Ripassa il cameriere, ossequioso,
con quattro tazze colme.
La stanza proibita
È all’angolo,
dopo l’ultimo corridoio.
Bordello?
No, si gioca d’azzardo.
La porta è chiusa, peccato!
E il vetro ha un’ombra di liberty.
Il cameriere è vivo:
fa parte del copione,
e ci crede.

(da Tu quoque” Antologia Poesie (1974-2013) EdiLet 2014

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

Francesca Diano

Natura morta veronese

Otto pesche ed un vaso –
Di ceramica azzurra
Opaca ed all’interno traslucida
Di biancore cinereo –
Otto pesche sparse sul tavolo
Privo di gambe e confini
Soltanto un piano che linea
Ombrosa ha come sua fine.
Trasmutante il colore
Avvolge la forma nella sua eternità.
Invisibili due bambine
Nascoste dall’ombra
Sottratte alla visione

francesca diano

 

 

 

 

 

 

 

 

Donna nuda con fiore

La Madre siede
Composta nell’azzurro
Velato di fili
Il corpo solido di materia
Scolpisce lo spazio
Lo colma di peso
Pesanti le cosce il ventre
Nudo che è cupola sciamana
Seni robusti venati di marmoree
Correnti promettono mondi
Sommersi da un fiore
Che la mano porge.
Congela in sé il flusso
Di particelle raccolte
In atomi e molecole
E morule e organi
Infinitamente diversi
Nella ripetizione del modello
Eidetico utero cosmico
Matrice d’universi fecondati.

opera di Giuseppe Pedota

pianeta bianco di Giuseppe Pedota anni Novanta

 

 

 

 

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

Atropo

Colei che non si volge è qui:
Atropo. Indossa un vestito nero
che le fascia il corpo come un guanto.
Suoi attributi sono gomitoli e forbici
con le quali taglia il filo della vita.
Osserva una sfera di cristallo
e legge su un rotolo misteriosi geroglifici:
il destino degli umani.
È la più vecchia delle sorelle Cloto e Lachesi.
Guarda sempre in avanti, così ha decretato Zeus.
Ha una gorgiera di ferro che le impedisce il respiro
e non può voltarsi né a destra né a sinistra né indietro.
È sempre in affanno.
Ruota in eterno tra le sue mani la sfera di cristallo
legge il rotolo di pergamena
e col gomitolo avvolge la sfera
che ruota attorno al proprio asse magnificamente.
Ma lei, la megera, non sa
né quando né come né perché
taglierà il filo del gomitolo.
La vecchia pazza gioca con le forbici
e il gomitolo. E ride, ride.

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Apro la prima porta a sinistra

… Apro la prima porta a sinistra:
ci sono tre donne sedute intorno ad un tavolo:
stanno per parlare ma non parlano
sembrano in ascolto ma non ascoltano,
indossano vestiti bianchi, hanno il plettro
e una chitarra azzurra,
ciascuna guarda davanti a sé ma ognuna
in direzione diversa,
ogni direzione è una dimensione;
il loro volto non ha volto, e guardano
con un solo occhio; «che cosa guardano
– ci chiediamo noi – se non il vuoto?»;
non possono uscire dal solco tracciato dal fonografo
non possono uscire dalla foto scattata dal fotografo:
traducono la traccia magnetica in onda sonora,
possono cantare soltanto ripetendo il medesimo ritornello
come gli uccelli sugli alberi:
«ciò che noi siamo voi mai sarete
e ciò che siete noi mai saremo».
La prima, Lachesi, canta le cose che furono,
la seconda, Cloto, canta le cose presenti
e la terza, Atropo, canta le cose che saranno;
cantano le tre signore un coro discorde
che neanche Zeus, loro padre, può appianare.
Cantano? È questo il destino del canto?
sì, è questo, e il loro canto è nemico della morte.
Ogni canto è nemico della morte?
Ogni canto è amico della morte.
Lachesi ha il volto rivolto al passato
Cloto ha il volto rivolto al presente
soltanto Atropo ha il volto rivolto al futuro
ma Atropo, la terza tra le donne, è cieca
e non può vedere ciò che taglia
e taglia con robuste cesoie il filo della vita
che non vuole cessare. E canta.

 

acrilico su tela, anni Sessanta, di Giuseppe Pedota

acrilico su tela, anni Sessanta, di Giuseppe Pedota

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annalisa Comes

Natura morta e partenze

Parte di questo mondo se ne va.
Se n’è già andata una manciata d’anni,
una famiglia con quattro rampe di scale e una torre
a via Mantova.
Se ne sono già andati lontano lontano,
senza che faccia la minima differenza,
un gatto e un padre.
Se ne sono andate via brezze invernali, estive e piogge
in gocce leggere.

Un vestito blu troppo stretto, il cappello di paglia, il vaso di violette
ch’era ai piedi del nostro letto.

 

annalisa comes

annalisa comes

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamento in domestica natura morta

Foglie di vite e
grappoli di uccelli.
Sull’orlo delle pagine :
l’orlo della tovaglia,
le posate,
beccano senza sosta mani
e unghie.

Allora, ecco, posso ringraziare questi lavori domestici,
per il sapone che lava piume e
scaglie,
e il vino che arrossa il fondo dei bicchieri,
brocche da impugnare e tazze e tazzine.

E per le storie che ho detto e per quelle che ho ascoltato,
– grembiule e alfabeto dei miei giorni-.
E per la pelle liscia delle patate
che fanno il nido, qui,
dopo vetri e ringhiere,
qui,
docilmente.

ardengo soffici donna seduta con finestra

ardengo soffici donna seduta con finestra

Antonio Sagredo

I ricordi beati dei poeti

sulla Montagna dei Passeri
dove mai sono stato
né mai ho pestato un’ala
io vidi le vostre dita
intrecciarsi come fiocchi invernali,
carezze crollavano come chicchi di sinistre stelle!

Se ne andavano in slitta i due poeti
sapevano le destinazioni egiziane:
il riposo in un’algida fossa mozartiana,
la Marina sul molo dei Nodi scorsoi.

Cantavano con avanzi di grida e parole la propria epoca,
conteggiavano dal passato il martirio dei loro giorni luciferi.

La corda e la trave smaniavano per un collo
che non soffriva ancora – che ancora non si offriva!
L’esilio dantesco come un deterrente sognava
un requiem, un trionfo d’ossa, una fine comune.

Una nera carrozza notturna brillava di neri stivali,
non più cortese si fermò sotto un fanale d’orange
in Via della Mortalità dell’Arte:
c’era posto soltanto per milioni di poeti…

il primo – ucciso per asfissia ovvero mancanza d’aria – il cigno
il secondo – ucciso dagli stenti – il prigioniero d’assonanze
il terzo….
ecc. ecc.

ma il Tempo si ritrasse come un verme….

oggi Basquiat Jean-Michel è evirato dai colori

non c’è scampo
per i suoni, e la parola!

Roma, 25 maggio 2014 Continua a leggere

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SALMAN RUSHDIE: SU UNA DEFINIZIONE DELLA POESIA Parte II – Inedito, traduzione di Giorgio Linguaglossa da poemshape.wordpress.com 12 maggio 2013

Salman Rushdie, Vargas Llosa, Umberto Eco

Salman Rushdie, Vargas Llosa, Umberto Eco

 

 Così, dopo aver informato il lettore che nessuna definizione sarà dirimente, i redattori (senza un pizzico di ironia) affermano che la Bibbia (o una parte non specificata di essa) è poesia. Tutto ciò che serve, a quanto pare, sono alcuni thees e thous. Quello che i redattori apparentemente non riescono a considerare è che la “poesia” della Bibbia di Re Giacomo non può essere la “poesia” dell’originale. The King James Version, infatti, non era una nuova traduzione svolta da zero, ma una revisione del Bishop’s Bible 1568 e del Nuovo Testamento di Tyndale del 1526, tra le altre. Oltre a ciò, vi è una notevole controversia sulla fedeltà della Bibbia di Re Giacomo. E’ molto probabile che la Bibbia di Re Giacomo è migliore e più poetica, scritta durante la gloria della poesia elisabettiana, rispetto all’originale. Potrebbe essere più esatto chiamare la Bibbia di Re Giacomo una translitterazione piuttosto che una traduzione.

salman 13Proviamo a tradurre King James in greco e poi ne riparliamo.
Britannica segue questa con una curiosa rivelazione:

“Quando le persone sono presentate con una serie di brani tratti indifferentemente da poesie e racconti, ma tutti stampati in prosa, mostreranno una tendenza dominante ad identificare tutto il possibile come prosa.”
Come ciò è rilevante per una definizione della poesia non è esattamente chiaro. Ad esempio, quando i personaggi vengono presentati mediante passaggi in pentametro giambico, essi lo hanno frainteso regolarmente (vedi Iambic Pentameter da Shakespeare a Browning ), leggendolo come prosa. Dobbiamo quindi concludere che non c’è alcuna differenza tra versi sciolti e in prosa? Entrambi gli studi probabilmente dicono di più sulle “persone” che sulla poesia o sul pentametro giambico.

salman-rushdie-arriva-a-londra-nel-2011-con-amica

salman-rushdie-arriva-a-londra-nel-2011-con-amica

Anche così, nonostante le riserve di apertura, riserve e cautele a discarico, Britannica parteggia con Justice Potter Stewart (Jacobellis v. Ohio), quando utilizza essenzialmente la prova dell’oscenità (o era la pornografia?) per definire la poesia. A Pentecoste: “Noi conosciamo quando lo vediamo.” I redattori di Britannica offrono la scelta di un pezzo di “pornografia”:

“Fortunatamente, se la poesia è quasi impossibile da definire, è estremamente facile da riconoscere nell’esperienza; anche i bambini ignoranti sono raramente in dubbio quando appare:

Little Jack Jingle,
He used to live single,
But when he got tired of this kind of life
He left off being single, and liv’d with his wife”

Piccolo Jack Jingle,
Egli viveva solo,
Ma quando si stancò di questo tipo di vita,
Lasciò la sua scapolaggine e visse con sua moglie.

salman rushdie

salman rushdie

Subito dopo, gli editori finalmente rivelano il loro vero volto:

“Si potrebbe obiettare che questo piccolo versetto non è sufficientemente importante e di peso per fungere come esempio per la poesia. Dovrebbe essere ricordato, però, che ha dato alla gente un tale piacere che essi continuavano a chiamarlo poesia fino a quando e dopo essere stato scritto, fin quasi due secoli fa. Il versetto è sopravvissuto, e la sua sopravvivenza ha qualcosa a che fare con il piacere, la gioia; e mentre vive ancora, quante più imponenti opere di poesie in lingua-epico, libri di scienza, filosofia, teologia, sono scesi, meritatamente o no, nella polvere e nel silenzio. Essa ha, ovviamente, una forma, una disposizione di suoni in relazione a pensieri che rende in qualche modo il suo nonsense gradevole, chiuso, completo e decisivo. Ma questa

salman rushdie

salman rushdie

materia dalla forma un po’ confusa merita un titolo e un’istanza tutto per se stessa.”

Non avrei potuto dirlo meglio. Non solo, si potrebbe riconoscere un tema comune: “ha, ovviamente, una forma, una composizione di suoni in relazione ai pensieri …”. Eccolo di nuovo – il linguaggio (e la forma anche). Questa canzoncina è una poesia a causa del suo linguaggio, a causa del modo in cui sfrutta il linguaggio, non per il suo contenuto nozionale e semantico (che è privo di senso), ma per le proprietà estetiche del linguaggio – la rima (suoni paralleli) e per il metro (accentuativo). La Poesia sfrutta le proprietà del linguaggio (indipendentemente dal contenuto del poema) per formalizzare ed elevare il contenuto semantico. Questo è ciò che distingue la poesia dalla prosa. Questo, tradizionalmente, è stata la ragion d’essere della poesia. La prosa può essere poetica, e mostrare alcune delle stesse tecniche della poesia (anche se non finiscono mai in rima o in ritornelli), ma questo non è il suo scopo e la sua ragion d’essere.

Salman-Rushdie-New-York

Salman-Rushdie-New-York

Quanto dovremmo aspettare le definizioni per cambiare?

La mia ipotesi è che se qualsiasi obiezione deve essere fatta, è che le definizioni cambiano. Occorre abituarsi a questo fatto. Va bene, ma allora che cosa è ora?

salman rushdie con la moglie

salman rushdie con la moglie

Si è detto che se non rimava, non era poesia. Se rima è intesa nel suo senso più ampio figurato (nel senso di un’opera di letteratura che riguarda non solo il contenuto, ma l’estetica del linguaggio stesso), allora io sono ancora propenso ad accettare. Io non sono disposto ad ammettere che tutto e qualsiasi cosa è o può essere una poesia. Io non sono contento di chiamare la poesia non cooperativa una brutta poesia o, se vogliamo essere alla moda, un proto-poema, un oggetto secondario e solitario che è abbastanza interessante, ma non sufficiente per avere abbastanza materiale per diventare una poesia in piena regola. In realtà, preferisco questa definizione.

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Penso che sia giusto per noi strappare alla comprensione della poesia che ha lavorato per centinaia e migliaia di anni, il nervoso auto-indulgente del XX secolo in deroga. E possiamo cambiare la nostra definizione di “rima”, in senso figurato, per includere il linguaggio figurativo a disposizione di versi liberi – assonanze, allitterazioni, e tutta la retorica che è sempre stata più comune alla poesia che alla prosa. La poesia di Allen Ginsberg è pieno zeppo di figure retoriche e schema, perché non si pensi che la retorica si applichi solo ai frusti manoscritti medievali (e alla poesia di Walt Whitman anche). Sarei disposto a dire che la poesia di Ginsberg, metaforicamente parlando, ha “rima”.

Salman Rushdie and Olivia WildeIn ogni caso, la prossima volta che qualcuno abbia il suo momento Kumbaya, proclamando che la poesia è come il vento, o una farfalla o che una definizione avrebbe schiacciato il fiore delicato che è la poesia, è possibile tornare a questo post per un sorso di analcolico.

La poesia è dura come l’inferno. Continua a leggere

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SALMAN RUSHDIE: SU UNA DEFINIZIONE DELLA POESIA – Parte I –  “On a Definition of Poetry” – Inedito, traduzione di Giorgio Linguaglossa

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da poemshape.wordpress.com 12 maggio 2013

Non è poesia, se non Rima

Questo è il titolo di un recente post che ho letto, e mi ha fatto pensare. Prima di tutto, si tratta di una definizione della poesia. Esso definisce la poesia come qualcosa che fa rima e, se presa alla lettera, esclude quasi tutte le opere di Shakespeare e Milton. Essi hanno scritto principalmente in blank verse. Più spesso, i lettori che dicono questo usano “rima” in senso figurato. Quello che stanno realmente dicendo è che la poesia senza forma non è poesia. Forma include rima e metro. Quindi, ciò che qualcuno sta realmente dicendo è che il verso libero non è poesia. Oltre al fatto che la definizione sia giusta o sbagliata, ciò mi ha portato a chiedermi perché le definizioni sono importanti.

salman rushdie

salman rushdie

 

Foto Arsenij Tarkovskij

Foto Arsenij Tarkovskij

Sono importanti le definizioni?

Non c’è dubbio che le definizioni cambiano nel tempo, ma cionondimeno le abbiamo. Non troppo tempo fa, la definizione dei pianeti è stata rivisitata e Plutone è stato retrocesso a proto-pianeta. C’era disaccordo, ma non il tipo che otterremmo da certi tipi di poesia o poesie che fossero retrocesse a proto-poesie (anche se penso che alcuni lo dovrebbero essere).

Ma ecco perché sono importanti le definizioni: Senza di loro, nessuno potrebbe eccellere. Senza maestria la realizzazione non esisterebbe. Ad esempio, se non per definizioni, non esisterebbe lo sport (per non parlare delle Olimpiadi), da qui il motivo della celebre battuta di Robert Frost: Scrivere in verso libero è come giocare a tennis con la rete abbassata. Ogni regola, in uno sport, è una definizione che definisce lo sport. Baseball è definito dal suo numero di outs, basi, giocatori, ecc … Una volta che si comincia a giocherellare con le regole che definiscono il baseball, allora cessa di essere baseball. Se non ci fossero regole nel baseball, nel tennis o nel basket, chiunque potrebbe giocare e ognuno potrebbe portare le proprie regole e ognuno potrebbe essere un Babe Ruth o Michael Jordan. Per parte mia, la prima cosa che farei è quello di abbassare il cestello in modo che potessi cestare la palla. Mi piacerebbe anche fare il cestello molto più grande – ma solo per me. So che mi farei un gran numero di nemici seguendo questo comportamento, con l’evidente analogia: Non c’è alcuna differenza tra abbassare il cestello (o rete) e la scrittura senza rima. Non c’è alcuna differenza tra il darvi 12 outs, invece di 3, e scrivere senza metro. Scrivere poesie senza rima e metro è di gran lunga più facile. Caso analogo è inzuppare un pallone da basket quando il cerchio è a soli sei metri da terra. Il fatto che la NBA non cambierebbe mai le regole per tutti gli aspiranti, ciò vuol dire che la restante parte di noi va vedere chi sono i veri professionisti.

salman rushdie con riya sen

salman rushdie con riya sen

 Questo fa alcuni tipi di poesia, migliori di altri?

Questo significa che alcune cose che sono chiamate poesie, in realtà lo sono?
Sì e sì. Preferisci guardare il basket con o senza regole? Avere regole che definivano la poesia ha permesso a una grande varietà di poeti di eccellere. I giochi non sono altro che un modo definito di giocare e i bambini amano giocare. Perché? Perché i giochi offrono ai bambini la possibilità di essere migliori di altri ragazzini. Le regole danno ai bambini la possibilità di essere competitivi, di eccellere, di realizzare e di padroneggiare.

Quando ero in età adolescente negli anni Settanta, la poesia veniva insegnata con una nebulosità che ha finito per far sì che le nubi sembrassero determinanti. La poesia era un sentimento. Non c’erano regole; e si potevano ancora trovare quei Pensieri profondi fino ai giorni nostri. In About.Com, Mark Flanagan, a quanto pare con il compito di definire la poesia, se ne viene fuori con il seguente motto:

“… Definire la poesia è come afferrare il vento – una volta che la si coglie, non c’è più il vento.

Il risultato finale di “pensieri profondi” come questi è che ho perso interesse per la poesia. Chi vuole giocare un gioco senza regole? Così, ho deciso che la poesia è la forma d’arte più stupida del pianeta. Se ho visto un gioco che viene giocato senza regole, io penserei la stessa cosa. E’ una cosa particolare che lo sforzo della prima generazione di fare poesia come qualcosa che “chiunque può fare” l’ha rovinata agli occhi dei bambini come me. E’ stato solo quando ho iniziato ad insegnare a me stesso la poesia che ho imparato la verità. Là è una definizione di poesia. Non è facile. Non la si può riassumere come un ingresso di Miriam Webster, ma c’è una definizione e ci sono regole. Ecco, quando mi sono interessato alla poesia, in primo luogo, ho voluto imparare le regole. Successivamente, ho voluto giocare secondo le regole. Volevo dimostrare che potevo farlo. Successivamente, ho voluto eccellere. Ho voluto dominare il mistero. Anche l’haiku apparentemente diminutivo è definito da secoli di tradizione.

Salman-Rushdie-Quotes-1È utile una definizione della poesia ?

La prossima generazione di poeti. Per curiosità, ho cercato su Google la seguente: “Definizione di poesia” “Poetry Foundation”, non ho trovato niente, semplice. Il fatto che la Fondazione Poesia, il premier (e auto-nominato) curatore della American Poetry non offrano una definizione della poesia (o anche una negazione che una definizione sia possibile) è una disgrazia.

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

 Che dire allora?
Dove si può trovare una definizione? Ci sono tutti i tipi di battute e una tantum da una varietà di poeti.

La poesia è la verità nei suoi abiti della domenica.Joseph Roux

La poesia è ciò che in una poesia ti fa ridere, piangere, aculeo, in silenzio, rende le unghie dei piedi scintillio, fa venire voglia di fare questo o quello o niente, ti fa sapere che siete soli nel mondo sconosciuto, che la vostra felicità e la sofferenza è sempre condivisa e per sempre tutto tuo.Dylan Thomas

La poesia è, in fondo, una critica della vita.Matthew Arnold

Vladislav Chodasevič

Vladislav Chodasevič

Non potrei definire la poesia più di quanto un terrier può definire un topo.A.E. Housman

Alcuni lettori potrebbero obiettare che la poesia non può essere paragonata allo sport. Il punto, però, non è quello di paragonare la poesia allo sport, ma paragonare una definizione di poesia al tipo di regole che definiscono uno sport, o la musica, o l’architettura o la falegnameria. Se non si dispone di una definizione, allora non si può avere un gioco. Se non si dispone di un gioco, allora chi sta a guardare?
Le definizioni, come le regole, sono utili perché ci danno modo di accertare le abilità dei giocatori. Esse ci permettono di giudicare come il giocatore sta giocando.

J.L. Borges

J.L. Borges

 Una delle caratteristiche del critico di poesia contemporanea è la sua evasione completa e non-discussione delle questioni di estetica o di meccanica della poesia. La stragrande maggioranza della critica contemporanea si limita al contenuto della poesia. Perché? Perché, come nella precedente citazione di Flanagan, critici e poeti contemporanei si sono convinti che la definizione della poesia, per citare di nuovo Flanagan, sia “una sorta di lasciarti sentire a buon mercato, sporco, tutto vuoto, e vuoto dentro, come il cibo cinese.” Tuttavia, per poter criticare la meccanica / stilistica di una poesia, devi avere una definizione della poesia. Non può essere altrimenti. E devi avere una definizione di ciò che distingue la scrittura mediocre da quella buona.

Nel corso di una controversia nel 2009, la Poetry Society di Inghilterra ha offerto al mondo questa definizione della poesia:
C’è poesia in tutto ciò che diciamo o facciamo, e se qualcosa è presentato a me come un poema dal suo creatore o da un osservatore, io accetto quel qualcosa come un poema.

In altre parole, la poesia è tutto quello che vuoi che sia, e se lo fai significa nulla. Poetry Magazine, da parte sua, ha preso a pubblicare fumetti, tra le altre cose, e chiedere poesie. Che cosa tutto questo significa è che se ognuno può farsi le proprie regole / definizioni, allora non c’è modo di giudicare le capacità del poeta o le realizzazioni della poesia. Se non ci fossero regole nel Basket, un giocatore come Michael Jordan non sarebbe mai emerso. O come con la ginnastica. Non avremmo nessun mezzo o vocabolario con cui contrastare lo scarso ginnasta rispetto al grande ginnasta. Nessun Tiger Woods potrebbe emergere perché ognuno sarebbe un Tiger Woods. Stanno tutti giocando la loro partita speciale del golf e il critico non ha modo di poter confrontare o contrastare.

sergej esenin e isadora duncan

sergej esenin e isadora duncan

 Senza una definizione di poesia, non si può avere una critica della poesia.

In verità, non si può nemmeno avere poesia perché se la poesia è qualche cosa, allora è anche niente. Oppure, come la sindrome di superman nel film Gli Incredibili : “Se tutti sono super, allora nessuno è un super.” Chi non può definire la poesia di certo non dovrebbe insegnarla. Che cosa esattamente insegnerebbero? Una definizione della poesia non è solo utile, è fondamentale. Gli individui e le organizzazioni che non riescono o si rifiutano di affrontare una definizione della poesia fanno un cattivo servizio al lettore, alla poesia, e alla prossima generazione di poeti.  Per curiosità, ho cercato su Google la seguente: “Definizione di poesia” “Poetry Foundation”, non ho trovato niente, semplice.  Il fatto che la Fondazione Poesia, il premier (e auto-nominato) curatore della American Poetry non offrano una definizione della poesia (o anche una negazione che una definizione sia possibile) è una disgrazia.

 Che dire allora?

Dove si può trovare una definizione?  Ci sono tutti i tipi di battute e una tantum da una varietà di poeti.

La poesia è la verità nei suoi abiti della domenica. – Joseph RouxJoseph Roux

La poesia è ciò che in una poesia ti fa ridere, piangere, aculeo, in silenzio, rende le unghie dei piedi scintillio, fa venire voglia di fare questo o quello o niente, ti fa sapere che siete soli nel mondo sconosciuto, che la vostra felicità e la sofferenza è sempre condivisa e per sempre tutto tuo. – Dylan ThomasDylan Thomas

La poesia è, in fondo, una critica della vita. – Matthew ArnoldMatthew Arnold

Non potrei definire la poesia più di quanto un terrier può definire un topo. – AE HousmanA.E. Housman

La poesia è il linguaggio universale che il cuore tiene con la natura e se stesso.William Hazlitt

La poesia non è solo sogno e la visione; esso è l’architettura scheletro della nostra vita. Essa pone le basi per un futuro di cambiamento, un ponte attraverso le nostre paure di ciò che non è mai stato prima. – Audre Lorde

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

La poesia è tutto ciò che vale la pena ricordare nella vita.William Hazlitt

Il lavoro di un poeta è di nominare l’innominabile, indicare le frodi, schierarsi, avviare discussioni, plasmare il mondo, e impedirgli di andare a dormire.Salman Rushdie

La poesia è come fare uno scherzo. Se metti una parola sbagliata, alla fine dello scherzo, hai perso tutto.WS Merwin

La poesia è un modo di prendere la vita per la gola. – Robert Frost

La poesia è il ricordo dei migliori e più felici momenti delle menti più felici e migliori. – Percy Bysshe Shelley

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Al tocco dell’amore tutti diventano un poeta. – Platone

La poesia è una ricerca di vie di comunicazione; essa deve essere condotta con apertura, flessibilità, e una costante disponibilità ad ascoltare.Fleur Adcock

Sapete come la poesia ha cominciato? Ho sempre pensato che è iniziata quando un ragazzo grotta tornò di corsa alla grotta, attraverso l’erba alta, gridando mentre correva, “Lupo, lupo”, e non c’era nessun lupo. I suoi genitori babbuino, molto pignoli per la verità, gli diedero un nascondiglio, non c’è dubbio, ma la poesia era nata, la storia di altezza era nata tra l’erba alta.Vladimir Nabokov

anna achmatova

anna achmatova

 La poesia è la ribellione dell’uomo contro l’essere quello che è.James Branch Cabell

La poesia dovrebbe sorprendere da un bell’eccesso e non per singolarità, che dovrebbe colpire il lettore come una formulazione dei propri pensieri più alti, e apparire quasi una rimembranza.John Keats

Tutta la poesia è falsa rappresentazione. – Jeremy Bentham

La poesia è spennare le corde del cuore, e fare musica con loro. – Dennis Gabor

La poesia non è una svolta sciolta dell’emozione, ma una fuga dall’emozione; non è l’espressione della personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che hanno personalità e emozioni sanno cosa vuol dire voler fuggire da queste cose.TS Eliot

La poesia solleva il velo dalla bellezza nascosta del mondo, e rende oggetti familiari come se essi fossero non familiari.Percy Bysshe Shelley

derek walcot

derek walcot

La poesia è almeno un’eleganza e al massimo una rivelazione. – Robert Fitzgerald

La poesia. . . è un piccolo mito della capacità dell’uomo di rendere la vita significativa. E alla fine, la poesia non è una cosa che vediamo: è, piuttosto, una luce tramite la quale possiamo vedere, e ciò che vediamo è la vita. – Robert Penn Warren

Tu puoi strappare una poesia a parte per vedere ciò di cui è fitta. .. Sei tornato con il mistero di essere stato mosso da parole. Il miglior artigianato lascia sempre buchi e lacune. . . in modo che qualcosa che non è nel poema può strisciare, sfrigolare, illuminare o tuonare dentroDylan Thomas

Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi

Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi

 La poesia è il linguaggio con cui l’uomo esplora il proprio stupore. . . dice il cielo e la terra in una sola parola. . . parla di sé e della sua situazione come per la prima volta.Christopher Fry

La poesia non è una professione, è un modo di vivere. E’ un cesto vuoto; mettete la vostra vita in esso e farà qualcosa di questo. – Mary Oliver

Scrivere poesia è il duro lavoro manuale della fantasia.Ishmael Reed

La maggior parte delle persone ignora la poesia perché la maggior parte della poesia ignora la maggior parte delle persone. – Adrian Mitchell

pessoa

pessoa

 Prosa, si potrebbe ipotizzare, è un discorso; poesia puntini di sospensione. La prosa si parla ad alta voce; la poesia sopra l’udito. L’una è presumibilmente articolata e sociale, un linguaggio condiviso, la voce della “comunicazione”; l’altra è privata, allusiva, vergognosa, idiosincratica, sorniona come la delicata tela del ragno, una sorta di stregoneria insondabile alle menti ordinarie.Joyce Carol Oates

La poesia è la rivista della vita animale del mare sulla terra, vuole volare in aria. La poesia è una ricerca di sillabe da sparare alle barriere dell’ignoto e dell’inconoscibile. La poesia è uno scritto fantasma che ci dice come sono fatti gli arcobaleni e perché se ne vanno. – Carl Sandburg

La poesia è il respiro e il più fine lo spirito di tutta la conoscenza. – William Wordsworth

La poesia è un affare di gioia e di dolore e stupore, con un pizzico di dizionario. – Kahlil Gibran

La poesia è come il pesce: se è fresco, è buono; se è raffermo, è cattivo; e se non ne siete certi, provatela sul gatto. – Osbert Sitwell

majakovskij volto

vladimir majakovskij

Gli elementi essenziali della poesia sono il ritmo, la danza, e la voce umana. – Earle Birney

La poesia è pensiero che respira, e parole che bruciano.Thomas Gray

La poesia è il linguaggio ordinario elevato alla ennesima potenza. La poesia è fatta di ossa di idee, nervata e insanguinata con le emozioni, il tutto tenuto insieme dalla delicata dura pelle delle parole. – Paul Engle

La poesia è la creazione ritmica della bellezza a parole. – Edgar Allan Poe

Poesia: le migliori parole nel miglior ordine. – Samuel Taylor Coleridge

La poesia è ciò che viene perso nella traduzione. – Robert Frost

salman rushdie

salman rushdie

E ci sono molto più in Goodreads. Si potrebbe pensare che non c’è nulla di molto utile in tutte queste citazioni, solo poeti che vogliono apparire svegli e intelligenti, ma non c’è, in realtà, una comunanza sottile che attraversa alcuni di loro. “La poesia è la verità nei suoi abiti della domenica.” Che cosa ci vuole dire Roux? Che la poesia non è solo i vestiti di tutti i giorni ma linguaggio che è elevato mediante il metro, la rima, le figure e lo schema della retorica (e questi includono metafora, similitudine, e tutto il linguaggio figurativo). Hazlitt, “… il linguaggio universale …”; Keats, “La poesia dovrebbe sorprendere mediante un bell’eccesso [e] colpire il lettore come una formulazione dei propri pensieri più alti …”; Tommaso: “Sei tornato con il mistero di essere stato mosso da parole …”; Fry, “… la lingua in cui l’uomo esplora il proprio stupore …”; Oates, “… privata, allusiva, che prende in giro, sorniona, idiosincratica, delicata come la tela del ragno…”; Sandburg, “… una ricerca di sillabe …”; Birney, “L’essenziale … sono il ritmo, la danza …”; Engle, “La poesia è il linguaggio ordinario elevato alla n-esima potenza …”; Poe, “la creazione ritmica della bellezza mediante le parole …”; Coleridge, “le migliori parole nel miglior ordine …”; Frost, “ciò che si perde nella traduzione …”

salman rushdie

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Quello che tutti costoro hanno in comune è l’idea della poesia definita come un modo di usare il linguaggio. La poesia è un’arte che utilizza il linguaggio non solo per il suo contenuto semantico, come un modo per comunicare, ma come un’esperienza estetica in sé e per sé – la sua “musica”: i suoni, i ritmi, onomatopee, assonanze, allitterazioni, e rime. Rima e metro sono le espressioni più estroverse, una mostra di un’abilità linguistica per produrre suoni ripetuti e ritmo mentre le numerose figure retoriche, come la similitudine, endiadi, anthimeria, giochi di parole e metafore verbali (e linguaggio figurativo in generale) sono un più introverso modo di giocare con la lingua – usando le parole per esprimere idee che sono inattese e inconsuete. La Prosa, in quanto utilizza anche queste tecniche, può essere poetica, ma gli obiettivi estetici di prosa e poesia sono diversi.

salman rushdie

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Pensate alla citazione finale di Robert Frost, che ho volutamente messo alla fine:. Poesia è ciò che viene perso nella traduzione. Rimarca l’enfasi della poesia sul gioco linguistico, la poesia è notoriamente difficile da tradurre. Qualcosa di così semplice come un gioco di parole, un fiocco di molti haiku, si perde meno se entrambe le lingue hanno la fortuna di condividere giochi di parole. Il disprezzo all’ingrosso di rime, interne o altrimenti, quando si traduce in versi liberi è un altro esempio. Il Metro è molto più facile da riprodurre, ma non ogni metro inglese davvero può riprodurre la musica del metro cinese o del metro quantitativo latino. Che ne dici di onomatopea, allitterazione o assonanza? Questi sono tutti essenziali per la poesia, ma sono quasi impossibili da catturare, del tutto, quando si passa da una lingua all’altra. La poesia è veramente ciò che si perde nella traduzione.

salman rushdie

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 Così molti scrittori, poeti e organizzazioni sembra abbiano patologicamente paura di escludere qualcuno. Ma piuttosto che fare alla forma d’arte un favore, la loro riluttanza a escludere tanto la lista degli ingredienti che Mac & Cheese ha fatto e continua a fare ha finito per denigrare la forma d’arte che molto dicono di amare e incoraggiare. Personalmente ho remore a disegnare una linea nella sabbia. Se tutto quello che uno scrittore sta facendo è “lineating” prosa, allora non è poesia o, nella migliore delle ipotesi, si tratta di cattiva poesia. Se lo scrittore non fa altro con il linguaggio che quello che mi aspettavo da un manuale di istruzioni IRS, allora non è poesia. Il Contenuto, a mio avviso, è secondario; e che è probabilmente strofinare un sacco di poeti e lettori nel modo sbagliato; ma a differenza della presa di posizione pubblica di numerosi poeti e organizzazioni, penso che valga la pena avere qualche idea, alcune regole, che definiscono ciò che la poesia, e la grande poesia, veramente è. Dà alla prossima generazione qualcosa per cui o contro cui combattere.

Per citare di nuovo Salman Rushdie:

Il lavoro di un poeta è di nominare l’innominabile, per puntare a frodi, a prendere posizione, avviare discussioni, plasmare il mondo, e impedire di andare a dormire.

salman rushdie

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Prendere una posizione. Definire la poesia. Scrivere secondo tale definizione. Non deve essere compito mio. No, qualunque cosa tu faccia, acquisita nella nozione esangue secondo cui nulla e tutto è poesia. La poesia non è come il vento. Come ogni poeta giapponese senza esitazione vi direbbe, il vento è come il vento.

Britannica e una definizione della Poesia

Ci sono alcune fonti che hanno affrontato la definizione della poesia. Ho allegata una definizione fornita da Poetry.Org. La loro definizione è stata originariamente copiata da Wikipedia (che da allora è cambiata). La voce corrente di Wikipedia è meno di una definizione di un quadro storico. Tuttavia, una delle voci più interessanti è quella di Britannica.
L’ingresso di Britannica sulla poesia inizia con un urlo primordiale di terrore presentato con il labbro superiore rigido. Non provateci a casa. Solo Britannica può farlo; l’autore dell’articolo scrive: “Questo articolo considera la difficoltà o impossibilità di definire la poesia …”. Come tutti sanno, ci sono due reazioni quando si terrorizza – lotta o fuga. Britannica sceglie di combattere. I redattori iniziano la loro definizione rimproverando sonoramente il lettore. Pensi davvero che si giunga a Britannica in attesa di una definizione?

salman rushdie

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 “Ragione del Popolo per volere una definizione è quello di prendersi cura dei casi limite, e questo è ciò che una definizione, per definizione, non farà. Cioè, se un uomo chiede una definizione di poesia, non sarà molto probabilmente perché non ha mai visto uno degli oggetti chiamati poesie che si dice impersoni la poesia; al contrario, egli è già discretamente certo su ciò che la poesia in generale è, e la sua ragione di volere una definizione è di una persona la cui certezza è stata contestata da qualcun altro o che vuole prendersi cura di una deroga possibile o apparente da essa: da qui la lite perenne in merito al distinguere la poesia dalla prosa, che è un po’ come distinguere la pioggia dalla neve: tutti sono ragionevolmente in grado di farlo … “.

Hai capito? Lasciatemi tradurre: “Se siete venuti all’Enciclopedia Britannica alla ricerca di una definizione della poesia, è perché si ha un ordine del giorno e gli augusti editori di Britannica non, dico non, faranno parte della tua dubbia crociata. Così.” Apparentemente, l’autore dell’articolo non ha mai tenuto il memo: le definizioni sono quelle che fa Encyclopedia. Ma le Enciclopedie non dovrebbero avere atteggiamenti poliziotto quando i lettori vengono in cerca di informazioni.

Britannica subito dopo offre una confutazione alla battuta di Frost secondo il quale la poesia è ciò che si perde nella traduzione:

«E ancora così a una definizione così acuta l’ovvia eccezione è un sorprendente e un formidabile uno: una delle più grandi poesie del mondo è in Versione Autorizzato della Bibbia, che è non solo una traduzione, ma anche, per il suo aspetto in stampa, identificabile né con versi né con la prosa in lingua inglese, ma piuttosto con una cadenza debitrice di qualcosa ad entrambi “.

(n.d.r domani verrà pubblicata la seconda parte dell’articolo)

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POESIE INEDITE DI JOSE DALISAY – Cura e traduzione di Gëzim Hajdari

jose dalisay

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 dalisay 9Gezim Hajdari da diversi anni promuove la poesia filippina in Italia. Nel 2009, il poeta nazionale delle Filippine, Gémino H. Abad ha vinto il premio Feronia a Fiano Romano con l’antologia Dove le parole non si spezzano, (di prossima uscita presso Ensemble), tradotta dallo stesso Hajdari. Mentre nel 2005, il suo connazionale, Jose Dalisay, ha vinto il premio Cervara di Roma.

Jose Dalisay è il maggior narratore contemporaneo delle Filippine e straordinario poeta. Insegna inglese e Scrittura creativa presso l’università delle Filippine. Ha pubblicato decine di libri di narrativa e di saggistica. E’ vincitore per ben cinque volte del premio National Book Award from the Manila Critics Circle. In Italia ha vinto il premio Cervara di Roma nel 2005. Nel 2009 ha pubblicato il romanzo Soledad, con Isbn Edizioni di Milano.