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Il Cambiamento di Paradigma, La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione, Riflessione di Giorgio Linguaglossa con uno Stralcio di Andrea Brocchieri, Poesia di Carlo Livia, Alfonso Cataldi, Ewa Tagher, Lucio Mayoor Tosi

 

Giorgio Linguaglossa

Il Cambiamento di Paradigma II

Se il telos di un’opera d’arte è scandagliare la vita in tutti i suoi aspetti, dobbiamo chiederci: che cos’è la vita?

«La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione».1

Stavo riflettendo su questa frase sibillina e magnifica di Derrida e pensavo che un’opera d’arte che non tenti la «rappresentazione» del «non-rappresentabile» si riduce a chiacchiera scialba. Il problema è proprio lì, nella «origine», nella scaturigine delle cose. Pensavo di ribaltare il nostro comune e irriflesso modo di vedere le cose, che si riduce nell’andare «per linee esterne»; e invece dobbiamo capovolgere il nostro punto di vista e pensare di andare «per linee interne». È come passare dalla fisica classica, newtoniana alla fisica dei quanti. Dal nuovo punto di vista, cambia tutto, cambia il modo di impiego del lessico, delle strutture sintattiche e delle categorie grammaticali. È perfino ovvio che il «non-rappresentabile» sfugga alla «rappresentazione», ma il punto di evidenza sta proprio lì. Il punto di evidenza sta nel «significato». Ogni volta che accettiamo, in maniera irriflessa e opaca, il significato dato e consolidato dalla comunità e dalla tradizione letteraria, il «non-rappresentabile» si volatilizza e non torna più. Il «non-rappresentabile» sfugge al «significato», e di conseguenza sfugge anche al «significante». È questa la ragione che ci induce a fare una poesia che non impieghi le categorie della antica metafisica dell’umanesimo: del significato e del significante.
È questa la ragione che ci spinge verso un Cambiamento del Paradigma.
Ewa Tagher scrive: «è il Paradigma del mondo che si è spento».

«Ma la poesia pensante è in verità topologia dell’Essere (des Seyns).
Ad essa dice la dimora del suo essere essenziale (die Ortschaft seines Wesens).»2

Nella Erörterung (la ricerca del Luogo) è coinvolto il problema della metafora. Si tratta della sfiducia di Heidegger nei confronti del linguaggio ordinario. Per l’ultimo come per il primo Heidegger, il linguaggio ordinario resta sotto il segno dell’anonimato del man, dell’opinione, della chiacchiera e del senso comune, che promana sempre già da una concezione impropria e deietta della vera natura del linguaggio. Il linguaggio ordinario è ordinario proprio perché esso non è che l’uso della lingua; in questo uso, le parole sono destinate a logorarsi, all’usura permanente. L’uso delle parole implica la loro usura. Le «parole» (Worte) diventano «vocaboli» (Wörter). In ciò consiste la morte del linguaggio. Questa usura comincia quando le parole sono rappresentate come dei «recipienti» destinati a ricevere un certo contenuto significante. Il senso che riempie così le parole è già un’«acqua stagnante», dice Heidegger. A questa immagine dell’acqua stagnante, il filosofo tedesco oppone l’immagine del pozzo e della sorgente.

L’Ereignis, nella concezione di Heidegger, presenta una somiglianza inquietante con la metafora, concepita come uno scarto del linguaggio. Scarto come qualcosa che viene espulso dal linguaggio per poi farvi ritorno. In questa accezione Ereignis e metafora sono intimamente collegate nel linguaggio, esse si rimandano dall’uno all’altra come in un gioco di specchi e di maschere. Si corrispondono: dove si dà l’uno c’è anche l’altra. La metafora raccoglie ciò che viene scartato dal linguaggio. La metafora che fa ritorno al linguaggio è l’evento a cui il linguaggio stesso si dà, così il circolo del linguaggio viene ripristinato e la lingua può continuare a vivere. Si tratta del circolo metaforico che è in vigore in ogni atto di linguaggio. Possiamo allora dire che in questa processualità autofagocitatoria del linguaggio riposano insieme l’Ereignis e la metafora. E il gioco di specchi può continuare.

1 M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens, Pfullingen 1954 – Dall’esperienza del pensiero, 1910-1976, tr. it. di N. Curcio, Genova 2011, p. 23.
1 Jacques Derrida La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 301

Scrive Andrea Brocchieri1

2. Entschlossenheit

Il fatto è che in Sein und Zeit non c’è soltanto questo linguaggio della possibilità ma esso è in un certo senso superficiale e viene strutturalmente subordinato ad un altro linguaggio , cioè ad altre parole che hanno il compito di far emergere qualcosa di differente rispetto alle modalità dell’ontologia classica. Se ci si limita a lavorare col vocabolario filosofico tradizionale per individuare le occorrenze del discorso sulla possibilità in Sein und Zeit si rischia di non riconoscere nemmeno i luoghi testuali di tale discorso. D’altra parte Heidegger non ci vuole sviare, e basta seguire l’indagine di Sein und Zeit per trovare questi luoghi e quelle altre parole. Solo che – come sempre con Heidegger – bisogna saper leggere le parole diversamente da come siamo abituati. Ci chiediamo dunque: grazie a che cosa l’esserCi è un “poter essere” che rende possibili gli enti come possibilità (d’azione)? – Rispondiamo in una parola: grazie alla Entschlossenheit.

Questa parola non è affatto semplice, un po’ come Ereignis, di cui in un certo senso tiene il posto, qui in Sein und Zeit.
La parola Entschlossenheit non indica semplicemente una condizione dell’esserCi, ma una dinamica di chiamata-risposta (Ruf-Antwort) che costituisce l’esserCi come una determinata (cioè finita, storica) apertura del “mondo”. Ent-schlossenheit indica che la Erschlossenheit (schiusura) del mondo non avviene “per natura” (φύσει) ma nemmeno per un libero arbitrio (νόµῳ) ma nel gioco tra un “non” (Nicht: un’assenza che reclama risposta) e l’assunzione della responsabilità di questa risposta. L’essere vivente che è capace di ascoltare questo “non” e che se ne prende cura, si assume la responsabilità di dar luogo all’essere al posto di quel nulla. “Al posto di” non significa: mettere l’ente al posto del nulla, assumendosi un compito creativo (Sartre: se c’è l’uomo non c’è Dio) – ma significa: assumersi il compito di fare le veci di quel nulla come fondamento dell’ente; infatti quel“non”, essendo nullo, si presenta come Ab-grund, come un fondamento che non c’è. L’esserCi si chiama così perché esso c’è nel dar luogo all’essere dell’ente al posto del fondamento assente. Il modo in cui l’esserCi c’è non è però un autonomo sussistere ma è un e-sistere, perché c’è solo in quanto è spinto ad esserci come fondamento dall’assenza del fondamento: visto che quest’ultimo non c’è son costretto ad esserlo io.

3. Come l’esserCi rende possibile l’ente?

Questo “dar luogo” all’ente significa esserne la condizione di possibilità, cioè renderlo possibile. Ma com’è che l’esserCi rende possibile l’ente? La domanda che chiede “come?” intende due cose: (A) come gli è possibile? – risposta: verstehend, redend, sich befindend; (B) come realizza tale possibilità? con quale modus operandi? – risposta: als Entwurf. Continua a leggere

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Intervista a Massimo Pamio di Giorgio Linguaglossa su alcune questioni dell’arte di oggi, Immagine, Rappresentazione, Meta rappresentazione, Umweg, Einkleidung, Ritracciamento, Cartolina, il Poetico, la Nuova Ontologia Estetica, la Forma polittico, Poesia di Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa

Gif Sorridenti

qual è la natura della nudità che il racconto ricopre?

Domanda:

Nel tuo libro appena uscito con Mimesis, Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte, Mimesis, 2019 pp. 164 € 18, scrivi, a proposito dell’immagine:

«È tornato prepotentemente al centro del dibattito filosofico ed estetico il concetto di immagine, da Warburg in poi (Merleau-Ponty, Pierantoni, Didi-Huberman, Wunenburger, Garroni, Belting, Bredekamp, Gasparotti, Coccia, Weigel, Kirchmayr, Schwarte, ma anche Jean Luc Nancy). L’immagine, ciò che si vede, è un sentire essere visti…».

In proposito, la «nuova ontologia estetica» sostenuta da alcuni poeti riuniti sotto l’egida dell’Ombra delle Parole, intende il polittico di immagini e la poesia-polittico come un work in progress della fortune-telling book, un coacervo di bisbidis di quisquilie e di filosofemi, di post-it, di appunti sul recto di cartoline postali, di poscritti su attaches, di appunti persi e poi ritrovati. Sembra pleonastico dirlo ma è bene ricordarlo: ad ogni nuovo concetto di immagine corrisponde un nuovo concetto di arte.

«Ciò che preferisco nella cartolina, è che non si sa ciò che è davanti o ciò che sta dietro, qui o là, vicino o lontano, il Platone o il Socrate, recto o verso. Né ciò che importa di più, l’immagine o il testo, e nel testo, il messaggio, la legenda, o l’indirizzo. Qui, nella mia apocalisse da cartolina, ci sono dei nomi propri. S. e p., sull’immagine, e la reversibilità si scatena, diventa folle – te l’avevo detto, la folle sei tu – a legare. Tu travisi in anticipo tutto quello che dico, non ci capisci niente, ma allora niente, niente del tutto, o proprio tutto, che annulli subito, ed io non posso più smettere di parlare.
Si è sbagliato o non so cosa, questo Matthew Paris, sbagliato di nome come di cappello, piazzando quello di Socrate sulla testa di Platone, e viceversa? Sopra i loro cappelli, piuttosto, piatto o puntuto, come un ombrello. In questa immagine c’è qualcosa della gag. Cinema muto, si sono scambiati l’ombrello, il segretario ha preso quello del padrone, il più grande, tu hai sottolineato la maiuscola dell’uno la minuscola dell’altro sormontata ancora da un piccolo punto sulla p. Ne consegue un intrigo di lungo metraggio. Sono sicuro di non capirci niente di questa iconografia, ma ciò non contraddice in me la certezza di aver sempre saputo ciò che essa segretamente racconta (qualche cosa come la nostra storia, almeno, un’enorme sequenza dalla quale la nostra storia può essere dedotta), ciò che capita e che capita di sapere. Un giorno cercherò quel che c’è successo in questo fortune-telling book del XIII, e quando saremo soli, ciò che ci aspetta.

[…]

Il racconto letterario è un’elaborazione secondaria e, perciò, una Einkleidung, si tratta della sua parola, una veste formale, un rivestimento, il travestimento di un sogno tipico, del suo contenuto originario e infantile. Il racconto dissimula o maschera la nudità dello Stoff. Come tutti i racconti, come tutte le elaborazioni secondarie, esso vela una nudità.
Ora qual è la natura della nudità che in tal modo ricopre? È la natura della nudità: lo stesso sogno di nudità ed il suo affetto essenziale, il pudore. Poiché la natura della nudità così velata/disvelata è che la nudità non appartiene alla natura e che possiede la propria verità nel pudore.
Il tema nascosto de I vestiti nuovi dell’imperatore [fiaba di Andersen] è il tema nascosto. Ciò che l’Einkleidung formale, letterario, secondario vela e disvela, è il sogno di velamento/disvelamento, l’unità del velo (velamento/disvelamento), del travestimento e della messa a nudo. Tale unità si trova, in una struttura indemagliabile, messa in scena sotto la forma di una nudità e di una veste invisibili, di un tessuto visibili per gli uni, invisibile per gli altri, nudità allo stesso tempo apparente ed esibita. La medesima stoffa nasconde e mostra lo Stoff onirico, vale a dire anche la verità di ciò che è presente senza velo.»1

Risposta:

Siamo al quid. Mi poni di fronte a questioni radicali. Intanto, mi riporti a temi (quello del velo e del disvelamento di derridiana memoria) che risalgono agli anni Ottanta (Armando Verdiglione, Ettore Bonessio di Terzet, Raffaele Perrotta, Alberto Cappi, Jabés, Carifi  e altri si misuravano sul tema). La verità di ciò che è presente senza velo rimanda alla rimozione che ha operato il pensiero filosofico, riguardante la verità della percezione, che costituisce il nostro modo di essere al mondo. Ed è proprio nell’analisi del fenomeno estetico, che questa verità rimossa si mostra, che la nudità del vestito dell’imperatore appare. Il più interessante pensatore del momento è a mio avviso Fabrizio Desideri, il quale, nel richiamare le tesi di Juan Pascual-Leone, sottolinea come sia “l’instaurarsi di una circolarità tra processi di attenzionalità esogena ed endogena a generare quell’esperienza percettiva della familiarità che favorisce il formarsi nella nostra mente di schemi che possiamo legittimamente chiamare estetici” (Fabrizio Desideri, Origine dell’estetico, Roma, Carocci, 2019, p. 65). Schemi o, secondo me, matrici (chimico-fisiche, che si applicano a ogni esperienza nuova, interpretabili in termini quantistici e matematici) che impongono, attraverso il sistema percettivo, prima della riduzione linguistica, una attitudine al mondo di natura “estetica” (questa parola va presa con le molle, voglio dire che la struttura del percepibile influenza la concezione del mondo – anche se in qualche maniera la riflette, proprio grazie a queste matrici. Insomma, sostengo, sull’onda di Emilio Garroni, che il nostro percepire sia un percepire-come, un percepire-attraverso, un percepire nell’oggetto il proprio percepire (la risposta emotiva, il pudore che costituisce lo svelamento), un riflettersi nella propria percezione in qualità di oggetto del mondo, per tornare infine a sé attraverso la percezione dell’oggetto che ci interroga. “Condizione di ogni logica del conoscere, la disposizione all’accordo”, rileva Desideri, “lo è in quanto Stimmung, risuonare dell’accordo (…). Tra Stimmung e Gefühl, tra intonazione affettiva (accordo) e sentimento vi è dunque relazione necessaria e in questa relazione si presuppone logicamente  un sensus communis” (Fabrizio Desideri, op. cit,. p. 70). Chiaramente, questo discorso si pone molto prima del fatto letterario, che rinvia all’imprecisione e all’imperfezione della parola di fronte allo svelamento della verità oppure, se si vuole, riferisce della umana incapacità di creare strumenti che possano veramente com-prendere la realtà che ci circonda. Restiamo chiusi nella dimensione “estetica” e ottica, linguistica e matematica dei nostri strumenti.

Domanda:

I trucchi della messa in scena letteraria

La poiesis è sempre in qualche modo servente, asservita e assolutoria. Come diceva Marx: l’arte è sovrastruttura. La poiesis rappresenta sempre il volto invisibile del potere: ne è la maschera, la maschera “estetica”, la “maschera di bellezza”, trattamento del viso.

L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte

A questa tautologica definizione sfugge un dettaglio per essere perfetta: è arte quello che un gruppo definisce essere arte (da una parte i vincenti, Cucchi, Paladino, Rotella, Chia, Pistoletto, Kounellis, Clemente, Cattelan, Beecroft; dall’altra i perdenti che alla fine non contano nulla – e ci sono tanti artisti sommi sconosciuti, oggi, come ieri).
Quindi l’arte è l’effetto di un modo sapiente messo a profitto da parte di coloro che sfruttano le opportunità offerte dal loro tempo, e comunicano, impongono la loro concezione della poiesis esprimendo la verità delle maschere o le maschere della verità… Questo modo di fare «arte» mostra lo sfruttamento, la strumentalità presente nelle democrazie rappresentative. L’arte è il modo di gustare questo piacere, che consiste nel creare sensazionalismi e personalismi e un «mondo estetico» che io preferirei definire falso, pacchiano, patinato, in una parola kitsch inconsapevole…
[…]
Per Guy Debord, l’arte, nella nuova epoca dei musei, appassisce perché la comunicazione artistica è impossibile, l’oggetto d’arte essendo divenuto un fossile da contemplare dietro una vetrina. Senonché, il gesto di un solo artista (Graziano Cecchini) che getta vernice rossa nella fontana di piazza Navona, fa il giro del mondo e ottiene quello che ormai da più di trent’anni la nostra classe politica non riesce ad attuare: il rilancio pubblicitario dei beni culturali del Belpaese. La poiesis kitchen è tutta nel gesto, in sé rivoluzionario, compiuto da un artigiano, arte anonima, sottratta alla mercificazione, alla galleria, al museo alle accademie, che perciò diventa di nuovo comunicativa. A dispetto di Debord…
Debord ci ha pure insegnato che la nostra è la società dello spettacolo, in cui l’arte diventa “evento”… l’opera è espressione del mo(n)do della comunicazione.
L’arte non fa notizia, è notizia? No, io sono del parere che l’arte non fa notizia, suo telos è restare nell’anonimato.

Rappresentazione o Metarappresentazione?

Se penso a certe figure della poesia kitchen di Marie laure Colasson: la bianca geisha, Eredia etc. a certi ritorni delle figurazioni dissestate e terremotate come nelle poesie di Francesco Paolo Intini, a certi compostaggi di varie voci della poesia di Mauro Pierno o alle figure pseudo storiche di Giuseppe Talìa (ad esempio le poesie di Germanico) etc. non posso non pensare che tutte queste figure non siano altro che Einkleidung, travisamenti, travestimenti, maschere di una nudità preesistente, di una nudità primaria indicibile, della scena primaria, della scena secondaria che richiama inconsciamente la scena primaria che non può essere descritta o rappresentata se non mediante sempre nuovi travestimenti, travisamenti, maschere, sostituzioni. Si ha qui una vera e propria ipotiposi della messa in scena della nudità primaria, secondaria, terziaria, quaternaria etc. fatta con i trucchi di scena propri della messa in scena letteraria. E se questo aspetto è centrale in tutta la nuova ontologia estetica, una ragione dovrà pur esserci. E torniamo alla domanda iniziale: siamo nella rappresentazione o nella meta-rappresentazione?

Risposta: Non c’è riposta, ma solo interrogazione. Ed ogni nuova interrogazione forgia e plasma le risposte che sono l’ossatura di altre domande. Ogni nuova immagine forgia una nuova arte. L‘arte potrà essere “enunciata” solo quando l’uomo sparirà, affermo poco dopo. La vera risposta può essere formulata soltanto quando non sarà più possibile domandare. Non esiste rappresentazione, ma solo travestimento, travisamento, tradimento, traduzione, interpretazioni di fatti (e non fatti). Fondamentalmente, essenzialmente, ogni meta rappresentazione si sostituisce alla possibilità della vera (o mera) rappresentazione.

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La Presentazione e la Rappresentazione nella poesia della nuova ontologia estetica, Poesie e Commenti di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Paul Muldoon, Paola Renzetti, Tiziana Antonilli, Lucio Mayoor Tosi, Adriano Ardovino, Kikuo Takano, Giorgio Linguaglossa

Mario M. Gabriele
inedito da Registro di bordo in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma
5

Il tempo riannodò i fili della memoria.
Uscimmo per andare ai magazzini Spandau.

Negli scaffali trovammo mostrine delle Schutzstaffel
e l’ultima edizione del Die Tageszeitung.

Un giovane livoriano lasciò i Tamburi nella notte.
Non fu facile tornare a casa.

Il triciclo portava fiori a Shiva
per una grazia a Geltrude Bisleri.

oh mammy, ora puoi salire sul Machu Picchu
e parlare con le colombe.

La ragazza sul treno adescava il Quinto Evangelio.
Al Savoia tornarono i ballerini di Grease.

Si sta in attesa di Hamm e Clov.
Beltrand si agita. Chiama un rom.

Gli dice di tenere tranquilla la notte.
Un puma fuggì dalla gabbia.

– Questa volta non lo prenderemo. Ci sono alberi e querce,
lupi e trappole nel bosco -, dissero i guardiani.

La linea della vita
è rimasta nella mano come una cicatrice.

Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.

Francesco Paolo Intini

Il gancio di Kikuo Takano

(libera traduzione di Renato Minore)

Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando chissà perché
lasciato chissà da chi
appeso così è un gancio proprio pauroso.
e speravo davvero che con la ruggine
mai dovessi provarlo (…)

Io ci aggiungerei una certa difficoltà di fronte all’Impersonale. Con chi prendersela se qualcosa non funziona? La macchina della razionalità affonda i denti nell’individuo in carne e ossa per dialogare con un Io creato dalla macchina stessa e dunque con meccanismi di natura numerica. L’io reale, il gufo che attende il suo turno nell’ufficio postale, lamentando e spazientendo accusa la sua impotenza come un colpo mortale, come si trattasse di aver visto l’efficienza dei campi di sterminio o la potenza dell’atomo nientificare Hiroshima. Un sentimento strano che non si lascia imbrigliare dalla metrica, né dai ritmi o dalle assonanze con cui si fa ancora poesia, semplicemente perché chiede di non piacere ma di annullarsi nel poeta stesso. E dunque l’unico rapporto tra l’Io ed il Mondo si fonda sulla negazione reciproca. Occorrono dei buoni elettroni per fondare un legame, altrimenti dominano quelli cattivi che spingono in basso lo sguardo o contro un cellulare l’orecchio per trascendere il filo che si percorre, secondo R. Minore.

ALGORITMO: L’IO.

Touch-screen e Dio in alto.
L’Everest affacciato alla scrivania.

Inutile rimpiangere la genealogia dell’india.
Ossido di carbonio sorpreso a respirare.

Il Nepal di via Einaudi si collega con la Cina.
Ma bisogna acquisire pratica di sentieri.

Salto di crepaccio
quanto nella lingua.

Parità con la pazienza del proletariato:
In fondo a un libro, incatenato nel Tartaro.

Il numero non era giusto
bisognava ricomporlo.

Avrebbe risposto un impiegato delle poste
Alzando lo sguardo dalla pece dello schermo.

E poi con gli uncini nello stomaco
come si fa a digerire Marx-Engels?

Marie Laure Colasson

Fare una poesia significa trovare il collegamento filiforme nascosto che ci riporta al nostro modo di vita a alla vita che abbiamo vissuto. La ricerca del padre da parte di Renato Minore ne è la prova compulsiva e significativa. È una ricerca ossessiva. Noi possiamo scrivere poesia soltanto se comprendiamo che viviamo all’interno di un sortilegio, quel cerchio magico che è il nostro modo-di-vita. La nostra residenza è la forma-di-vita che condividiamo. A questa forma di vita corrisponde una determinata forma di poesia, e quella del poeta di adozione romana è la sola forma-poesia che oggi possiamo adottare: non più la forma-diario, non più la forma cronologica di elencazione, ma una forma topologica, un luogo che non è un luogo.

Il linguaggio che impiega Minore, a ben guardare, è un linguaggio rifritto, di seconda cottura. Tutta la poesia di oggi è di seconda cottura, ripassata in padella. Così come anche la pittura: i vari strati di pittura, gli strati di colore sovrapposti intendo sui quali il pittore stende la pittura, ehm, definitiva. Volevo dire: ultima, giacché di definitivo nell’arte di oggi non è rimasto un bel niente. La poesia di Renato Minore mi dà la sensazione di una scrittura un po’ improvvisata, come se fosse una scrittura ancora da ultimare. Ma è che non è più possibile pensare di scrivere una scrittura definitiva e definita, oggi non è più pensabile pensare di licenziare una scrittura poetica ultimata. Oggi è forse possibile soltanto una scrittura che porti con sé un quantum di improvvisazione, di oscillazione… Che poi è, mi sembra di capire, quella cosa che sta a cuore alla nuova ontologia estetica. La nuova poesia ha in sé il marchio di fabbrica della propria vulnerabilità e della tendenza alla disparizione oltre che all’ammutinamento. Non saprei come altro dire quello che volevo dire…

Giorgio Linguaglossa

Concetto presentativo dell’arte di contro al concetto corrente di rappresentazione

Pensare l’essere direttamente, in termini assoluti – al modo di Hegel – è un modo analogo di pensare il nulla. Per il nostro concetto rappresentazionale, l’essere può essere pensato come un termine della differenza ontologica, può essere cioè distinto (unterschieden) e indirettamente identificato, con l’altro termine della stessa distinzione (Unterschiedenheit). Ma questa distinzione, in quanto differenza si manifesta nello scarto discorsivo in cui viene registrata la sua aporeticità. La conclusione di questo pensiero di Heidegger è nell’indicare l’essere come il ‘non’ dell’ente, come il ‘niente’ dell’ente. È questa la ragione che ha spinto  Heidegger, nella conferenza sul Principio d’identità, ad ammettere che il nostro linguaggio non possa  procedere in altro modo che nell’ambito del discorso, distinguendo i diversi snodi della articolazione logica, per infine formulare la tesi aporetica che «molto prima che si pervenga ad un principio (Satz) di identità, parla l’identità stessa».

Un’arte che appartiene tutta intera al pensiero rappresentativo è quella che si è praticata a lungo nel corso del novecento e in questi decenni ultimi. Quello che Marie Laure Colasson dice, che la nuova poesia è attenta ad un concetto di presentazione piuttosto che a quello tradizionale di rappresentazione, lo trovo altamente proficuo di sviluppi.

Leggiamo una poesia di Paul Muldoon

(premio Pulitzer nordirlandese) pubblicata da “tuttolibri” de “La Stampa” del 22 giugno 2019:

Rovescio

Tamburellare di pioggia
sul tettuccio della mia auto
come acquasanta
sul coperchio di una bara,
acquasanta e fango
che s’abbatte come un tonfo
benché mentre ne ascoltavo
il frastuono
quello s’affievolì nel silenzio
più spietato… L’ammucchiarono
per tutto il giorno
fin quando non m’abbandonai
a una contentezza
non avvertita da anni,
non da quell’inverno
in cui avevo indossato il mondo
sulla pelle nuda,
indossato la pelliccia verso l’interno

(trad di Luca Guerneri)

È ovvio che qui siamo davanti ad un tipo di poesia generata dal pensiero rappresentativo, si vuole rappresentare uno stato d’animo che scaturisce dalla esperienza della pioggia che cade «sul tettuccio della mia auto».
La seconda parte della composizione descrive la «contentezza» dell’io derivante da quella esperienza.

Si tratta di un modo di fare poesia che la nuova ontologia estetica ha abbandonato. Noi partiamo da un concetto presentativo della esperienza, e non più rappresentazionale. La presentazione degli eventi avviene sempre in modo diretto, non in modo indiretto come accade in questo tipo di poesia secondo cui la pioggia è importante per le ripercussioni psicologiche (la «contentezza») che può avere sull’io. La poesia che adotta il concetto presentativo dell’esperienza intende l’esperienza di un evento del mondo non solo per l’importanza che può avere sull’io ma perché l’evento è importante in sé e per sé, non soltanto per i riflessi psicologici che può avere su un «io» posizionato nel mondo che viene a coincidere con l’io dell’autore.

La NOE si limita a prendere atto che certi eventi (ad esempio, la pioggia) accadono e che sono importanti non perché suscitano la «contentezza» di un «io» (che è un modo riduttivo di fare esperienza degli eventi), ma perché sono importanti anche per tutti gli altri «io» che ci sono intorno, e sono importanti in sé e per sé, perché un evento è un evento per tutti. Ne deriva che la sintassi del modo presentazionale degli eventi muta di colpo, totalmente, muta la sintassi, che non sarà più narrazionale ma presentazionale.
Penso sia chiaro ai lettori che un tale approccio alla «narrazione» di un evento sia diametralmente lontano da quello rappresentativo vigente nella ontologia estetica del novecento che pensa l’arte in un modo che si limita a ripercorrere l’impiego delle categorie estetiche della tradizione senza innovarla, e senza neanche pensare di volerla innovare.
Per usare una formula di Giorgio Agamben che la impiega riguardo alla fotografia, penso che sia possibile utilizzarla anche per quanto riguarda la poesia della nuova ontologia estetica, la quale vuole «Dentrificare il Fuori» e, al contempo, direi: Fuorificare il Dentro. Continua a leggere

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APPUNTI PER UNA FONDAZIONE  DEI CONCETTI di RAPPRESENTAZIONE e di PUNTO DI VISTA – Commento di Giorgio Linguaglossa su Las Meninas di Velazquez – Il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa – L’absentia per Foucault, costituisce il punto centrale di ogni representatio. Il Soggetto battezza il Moderno. E viceversa. Entrambi si giustificano a vicenda. Il Moderno viene legittimato dal nuovo Soggetto.  Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente, E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano, L’espressione è il volto codificato del dolore

Riflessione di Giorgio Linguaglossa

“Las Meninas” di Velazquez – “Il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa”

Come è noto, la lettura di Foucault del quadro Las Meninas (1656) di Vélazquez si incentra sulla tesi della rappresentazione dello stesso atto della rappresentazione: «pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano: da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione».1 Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, soggetto e oggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non equivale ad una mancanza, quanto una figura che nessuna teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.

[In primo piano e in posizione centrale troviamo una giovanissima principessa: si tratta dell’Infanta Margherita Maria Teresa d’Asburgo, figlia del re Filippo IV il Grande e della sua seconda moglie Marianna d’Austria].

La principessa [Nonostante il centro fisico della scena sia occupato dal volto della bambina, che si trova sulla mediana verticale a un terzo dell’altezza del quadro, il vero fuoco del quadro non è nel quadro, ma fuori di esso]  è attorniata da figure di corte: due dame di compagnia, una delle quali nell’atto di porgerle un vasetto su un vassoio, da due nani e un cane; dietro di loro sulla destra un uomo e una donna in abito da monaca, nel ruolo di paggio e dama di corte. Tre delle figure in primo piano sembrano guardare verso di noi, spettatori di fronte alla tela e non sono le sole perché spostando lo sguardo a sinistra troviamo altri due occhi puntati nella nostra direzione. Sono quelli di Diego Velázquez medesimo che si è autoritratto nell’atto stesso di dipingere. Impugna un pennello e la tavolozza ma non ci è dato vedere cosa stia dipingendo, poiché della alta tela che gli sta davanti è curiosamente rappresentato in nostro favore non il fronte ma il retro. Sullo sfondo notiamo una porta aperta con un personaggio in piedi sulle scale: si tratta del ritratto di un personaggio che porta lo stesso cognome del pittore.

Quest’ultimo è José Nieto Velázquez,ciambellano di corte. Alla sua sinistra colpisce l’attenzione  un riquadro abbastanza luminoso da poter essere considerato uno specchio, il quale ospita il riflesso di due figure. Si tratta dei reali di Spagna, anch’essi con lo sguardo puntato verso noi spettatori. La luce entra da destra, presumibilmente da una finestra che non è stata ritratta; illumina la fascia centrale della scena e si arresta sull’alto rettangolo di legno.

Cosa sta dipingendo Velázquez? Tutto sembra suggerire che il modello del quadro debba essere ciò verso cui il suo sguardo, insieme agli sguardi di quasi tutti gli altri personaggi, è puntato e che si troverebbe nel prolungamento ideale dello spazio della scena. Il fatto che lo specchio rifletta il re e la regina, e che la sua posizione sembrerebbe frontale alla posizione del modello del quadro, lascia ragionevolmente credere che sebbene la coppia reale non sia rappresentata nello spazio pittorico,essa debba essere postulata come implicitamente presente. Alla coppia reale di Spagna non rimarrebbe altro posto che il nostro, precisamente quello che occupiamo in quanto spettatori.

L’intera scena sembrerebbe avere il suo centro fuori di sé, in uno spazio che non è stato dipinto ma che ordina a sé tutto ciò che compare in raffigurazione: spostando «il fuoco […] da ciò che il quadro effettivamente mostra a ciò che guardano i personaggi […] è come se la scena dipinta fosse una dépendance, colta in relazione al suo centro spostato» n.d.r.]

Ecco quanto ne scrive Gianfranco Bertagni: «Questa lacuna è dovuta all’assenza del re – assenza che è un artificio del pittore. Ma questo artificio cela e indica un vuoto che è invece immediato: quello del pittore e dello spettatore nell’atto di guardare o comporre il quadro. Ciò accade forse perché in questo quadro, come in ogni rappresentazione di cui, per così dire, esso costituisce l’essenza espressa, l’invisibilità profonda di ciò che è veduto partecipa dell’invisibilità di colui che vede – nonostante gli specchi, i riflessi, le imitazioni, i ritratti.

“Tutt’attorno alla scena sono disposti i segni e le forme successive della rappresentazione; ma il duplice rapporto che lega la rappresentazione al suo modello e al suo sovrano, al suo autore non meno che a colui cui ne viene fatta offerta, tale rapporto è necessariamente interrotto.

È questa lacuna, questo vuoto, oggetto di sguardi, ciò intorno a cui la rappresentazione sorge. Nel quadro si ha un principio di dispersione, in modo che per chi osserva sia innestato in un gioco di rimandi continuo, sfiancante, entro cui si dà la scena del quadro: lo sguardo del pittore sull’oggetto della rappresentazione, la piccola principessa colta nel momento in cui sembra stornare gli occhi dalla coppia reale, la governante che riserva invece tutta la sua attenzione alla piccola principessa, e dietro le due figure di un uomo e di una donna, l’uno con sguardo”1   compiaciuto ma quasi cancellato, l’altra che sembra in atto di rivolgerli parola distraendosi da quel che  accade.

 

Più avanti una coppia di nani, anche in questo caso, come nota Foucault, uno dei due guarda la coppia regale mentre l’altro svia lo sguardo affaccendato in altro. Sulla sinistra invece, ecco parte della scena che il pittore va dipingendo, al confine fra la tela, di cui vediamo il telaio, e il presunto oggetto della rappresentazione, ci sono i due regali. Nello specchio s’incornicia l’immagine riflessa dell’assenza, di quanto resta invisibile allo spettatore e di cui, in verità, non si può dedurre la natura di riflesso: se sia cioè immagine del dipinto o immagine diretta della coppia regale che giace in posa dietro la tela. E infine sul fondale, dietro una porta, appare una figura vestita di nero, che sembra di passaggio, ferma sulla soglia, come se fosse emersa da altrove. Resta lì, immobile, assumendo la posa di uno sguardo che si dispiega su tutta la scena a mo’ di osservatore distratto ma incuriosito. È lì, forse, che si raccoglie, magari non nelle intenzioni del pittore, la dimensione visiva della rappresentazione, quanto insomma oltre a dare profondità al dipinto sembra alludere a una sorta di mise en abîme.

In questo ordito di sguardi, in questa trama di ottiche, nella visibilità della vista entro cui si

descrive la traiettoria di ciò che Foucault definirà come la nascita della rappresentazione nell’epoca

classica, resta impresso il marchio di un’assenza».2

Las Meninas si configura, in tal modo, come una scena ingegnosamente architettata per indicare la centralità di una mancanza. L’absentia segnala dunque, in Foucault, il punto centrale di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo cerchio il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore non può osservare se stesso ma soltanto il suo simulacro o la sua immagine riflessa nello specchio che in Las Meninas sostituisce il fuoco della composizione. Il Soggetto adesso può assurgere a momento centrale della rappresentazione soltanto uscendo dalla rappresentazione stessa e ponendosi al di fuori di essa. Il Soggetto battezza il Moderno. E viceversa. Entrambi si giustificano a vicenda. La legittimità del Moderno viene legittimata dal nuovo Soggetto riflettente.

L’«ente» si qualifica come prospettivistico, dotato di una molteplicità di punti di vista di cui soltanto uno è quello che può fornire la legittimazione all’ente. «Nell’affermare il “carattere prospettivistico dell’ente” Nietzsche non farebbe, per Heidegger, altro che portare alla luce il “tratto fondamentale” che, da Leibniz in poi, è latente nella metafisica. Vale a dire quella “costituzione prospettivistica dell’ente che trae origine dalla perceptio e dall’appetitus, dall’impulso a “rappresentare” (vorstellen) l’intera realtà a partire da un point de vue: quella stessa pulsione che sta, nietzscheanamente, alla base della creazione del Valore come condizione di “mantenimento e accrescimento della potenza”».3

Con Cartesio la tradizionale domanda metafisica «Che cos’è l’ente?» viene sostituita dalla questione del «metodo», cioè del percorso che conduce l’uomo alla certezza al fundamentum absolutum inconcussum veritatis. Per Heidegger siamo alla svolta copernicana del pensiero filosofico dell’Occidente, facendo dell’Io, dell’Egoità (Ichheit) o Ipseità, il solo autentico subjectum, Descartes pone il mattone decisivo per l’età seguente che diventa una nuova età (Neuzeit), cioè l’età moderna.

Con il dispiegarsi del Moderno inoltrato, nel mezzo della crisi del pensiero tra le due guerre mondiali, si pone la definitiva scissione e frammentazione dell’Io, la cui caduta segna la fine della legittimazione dell’Egoità, e la sua definitiva deriva psicologistica. Fine del fondamento del pensiero filosofico. Fine del pensiero. E ripresa del Pensiero dalla disarmante presa d’atto della scomparsa dell’Io. Il pensiero moderno prende forza appunto da questa sua intima debolezza; da qui ha origine il relativismo e il pensiero debole da taluni vituperato e diffamato come debolezza del pensiero.

Così, la Rappresentazione odierna  segnala non solo una assenza del fuoco, delle linee di forza della visione prospettivistica, ma anche una assenza dell’Io, come dissoluzione e dis-locazione del punto di vista unico (o privilegiato) da cui ha inizio la representatio. Fine del Moderno ed inizio del Post-moderno. Fine della rappresentazione unica e privilegiata. Declassamento di tutti i punti di vista e di tutte le Rappresentazioni ad una multilateralità della visione. Il punto di vista è, aristotelicamente, una «immagine mobile dell’eternità»,  Aion auto dislocantesi, privo di legittimazione e privo di legittimità. Esso è, appunto, un punto nella dispersione implosione di tutti i punti di vista.

Il Presente è la sede dell’Esperienza. Si ha esperienza soltanto nel presente, non si può avere esperienza del Passato se non come ricordo, rammemorazione; e, si sa che il ricordo implica già una falsificazione di esso medesimo, implica una ricostruzione assiale e geodetica di esso medesimo. Quindi, si può affermare che tra Esperienza e Rappresentazione c’è sempre un campo di interazione, di conflitto, di tensione. Ed è proprio questo campo di tensione, di conflitto che l’arte e la poesia indagano. Esperienza e Rappresentazione sono i due corni dilemmatici entro i quali vive un’opera d’arte. E tra esperienza e presente c’è un nesso irresolubile, non si dà l’uno senza l’altro. Ma allora il piano di indagine si sposta: si dà presente soltanto nello spazio, in un luogo preciso dello spazio. A rigore, quando c’è il presente, l’esperienza è già nel passato, è corsa via, inghiottita nel buco nero del passato.

L’esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici”.4 Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.5

Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

L’espressione è il volto codificato del dolore.   Continua a leggere

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Angela Greco, Fuori le mura – POESIE INEDITE, con una Nota critica di Mario M. Gabriele un Appunto di Giorgio Linguaglossa sulla Rappresentazione e una riflessione dell’autrice

foto-tritticoAngela Greco è nata il 1 maggio del ‘76 a Massafra (TA), dove vive con la famiglia. Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, 2012 di cui è in preparazione la seconda edizione); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini); Anamòrfosi (in uscita per le edizioni Progetto Cultura di Roma con prefazione di Giorgio Linguaglossa). È presente anche in diverse antologie e in diversi siti e blog.

È ideatrice e curatrice del collettivo di poesia, arte e dintorni Il sasso nello stagno di AnGre (http://ilsassonellostagno.wordpress.com/). Commenti e note critiche ai suoi versi sono reperibili all’indirizzo https://angelagreco76.wordpress.com/.

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Mario M. Gabriele

 Nota critica di Mario M. Gabriele (dicembre 2016)

Nella raccolta inedita dal titolo Fuori le mura del 2016 di Angela Greco, la tipologia linguistica, moderna e per frammenti, punta tutto sul fermo immagine, nel tentativo di recuperare universi statici e in movimento, con proprie frazioni temporali e metaforiche. La parola poetica si forma ad ogni scatto di foto flash, mentre lo sguardo si fissa sulle “facciate in ristrutturazione”, su tutto ciò che proviene dall’esterno. E’ un reportage multiforme, coloristico, percepibile come illuminazione del momento nel tentativo di scoprire l’attimo ineffabile, fluidificante fra soggetti e oggetti. L’occhio è il periscopio puntato sul mondo. Le campionature dell’esistenza, polverizzate dal tempo giacciono su un terreno deflorizzato, tornando a esistere nel momento in cui il Vuoto, la frantumazione, il senso deleuziano di una “totalità perduta” finiscono di essere tali, per integrarsi nel corpo dei frammenti, che ridanno essenza, all’assenza, in un viaggio della mente e della psiche. Qui “l’effetto di superficie” diventa armonizzazione delle cose, categoria rifondatrice della materia, volontà di ricostruire tutto ciò che resta nel cuore e nella mente. Non c’è bisogno delle narrazioni, perché il discorso si affida al frammento, che svolge un ruolo di determinazione delle cose, con piccoli squarci dialogici, in una spirale di frantumazioni e di intuizioni che si fissano in una sorta di fotoni poetici.

Il postmoderno ha ucciso i cantastorie e gli aedi del lirismo. Si è istituito così l’ideale storico della liberazione da ogni contatto con la metrica, che governava rigidamente la struttura del verso nel Novecento. Oggi il criterio di validazione di un testo poetico, non può prescindere dalla ricostituzione della parola, che resta l’unico mezzo progettuale del divenire poetico. La modernità culturale lo esige. Profondità e altezza si annullano con una descrizione del mondo esterno e di quello interno nella configurazione della realtà attraverso i vari stadi, provvisori e fluidificanti. L’autrice annota tutto questo con ritmo crescente, misurando la propria lunghezza visiva su sfondi catarifrangenti formalizzati poi con i versi.

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Angela Greco

Nota dell’autrice.

Queste composizioni inedite narrano incontri e situazioni reali e realmente accadute, che a loro volta hanno rimandato ad altri luoghi anch’essi spesso reali, ma ancor più simbolici e metaforici, inseriti per rimando d’immagine, mischiando soprattutto i piani temporali.

La scelta del frammento si è adattata alla perfezione all’esigenza che da tempo avevo di rendere materialmente il problema del tempo sfuggevole e fuggente e del ricordo.

Il momento, l’attimo, fosse del ricordo o dell’emozione, ho ritenuto opportuno renderlo in frammenti appunto, in flash, come fossi un fotografo, che sceglie (perché la stesura di un verso comporta delle scelte precise, delle decisioni da prendere) lo scorcio più idoneo, il taglio, l’angolazione, l’esposizione e solo dopo scatta la foto, dove “scattare la foto” qui sta per imprimere l’attimo su un supporto.

Rimanendo nell’ambito delle scelte, per me la poesia è simile ad un taglio chirurgico, dove il chirurgo, deve sapere con esattezza dove incidere e ridurre al massimo l’indecisione (mancanza di decisione o indeterminatezza, ossia mancanza di definizione e torniamo così ancora all’immagine, che deve essere definita, precisa, e non generica) pena la vita del paziente. Così in queste poesie: i luoghi, i tempi, gli spazi, sono identificati con precisione, per catturare – non senza sforzo s’intenda – quel momento e non un altro; il momento preciso rimasto in me e che l’elaborazione-sedimentazione ha restituito soltanto dopo in poesia.

giorgio-linguaglossa-15-dicembre-2016Appunto di Giorgio Linguaglossa sulla «Rappresentazione»

Il tratto caratterizzante della forma artistica del Moderno va individuato, secondo Foucault in quell’opera fondamentale che è Les Mot et les choses, nel concetto di Rappresentazione (Darstellung) attraverso la diagnosi di Las Meninas di Velazquez. I termini del problema sono presto detti. Si rappresenta l’atto stesso della rappresentazione: pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano; da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione.

Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, oggetto e soggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non è propriamente una mancanza, è piuttosto quella figura che “nessuna” teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, il produttivo “fuoco” che la sorregge, le coordinate, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.

L’absentia segnala dunque in Foucault la chiusura di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo circolo il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore, per cui la rappresentazione è allestita, non può osservare se stesso, ma solo il suo simulacro, o, come in Las Meninas, la sua immagine riflessa nello specchio. La forma-poesia dell’età moderna rientra in questo schema epistemologico: il soggetto viene ad eclissarsi, viene detronizzato della sua presunta centralità e la sua visione diventa strabica, eccentrica, parziale, s-focata, fuori fuoco, fuori gioco, insomma, non è più centrale, ha perduto la sua centralità… ma questa intrinseca debolezza del soggetto, della centralità del soggetto, invece di rivelarsi una debolezza ontologica può, paradossalmente, riabilitarsi in una nuova volontà di potenza, in una nuova messa a fuoco del problema della rappresentazione e del soggetto che sta al di fuori di essa. In una parola, in una continua de-angolazione prospettica tipica delle moderne (o meglio post-moderne) forma-romanzo e forma-poesia.

È proprio il concetto di de-angolazione prospettica quello che vorrei mettere a fuoco nella poesia di Angela Greco. La de-angolazione prospettica in un testo letterario fa sì che si ha un inizio ma non una fine, non solo, e che all’interno dello sviluppo della rappresentazione non si dà un filo conduttore stabile ma un susseguirsi di punti di vista, di angolazioni prospettiche che confluiscono in un sistema di scrittura caratterizzata dalla multi prospezione prospettica; particolarità costruttiva che investe sia la forma-poesia che la forma-narrativa odierne.  Caratteristica della poesia di Angela Greco è il suo procedere per «tagli» dell’oggetto, per sovrapposizioni e accostamenti di «pezzi», e successivo montaggio, per dis-locamento dell’io parlante, per «slittamenti» frastici, per «sviamenti» e «deviazioni» dall’ordito principale del discorso; c’è insomma, una dis-locazione, un andamento a zig zag, che va di qua e di là, che porta il discorso poetico attraverso deragliamenti di significati e di direzioni, quasi che il senso, se senso c’è del discorso poetico, fosse possibile afferrarlo soltanto tramite una serie continua di deviazioni e di smarcamenti dal filo del discorso, mediante illogicismi, inserzioni di onirismo, di surrealtà, di fatti del quotidiano, di relitti linguistici che galleggiano in un mare di prosasticità.

 

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Angela Greco

Angela Greco

Incontri urbani

Il cerchio perfetto dei tuoi occhiali
è sottrazione d’azzurro,
segna il confine dell’immagine riflessa
che accoglie il flash della macchina fotografica.
(Il fondale è lo spazio tra gli alberi
e la città in lontananza)
Nuda esco dalla Tempesta.
Settembre. Il giorno ha precisione meteorologica.
Il metal detector passa attraverso il suono delle campane.
Il treno esce allo scoperto lungo il muro disegnato.
Due file di auto e aceri a mosaico. La visuale.
Ti seguo.
In mezzo, un discorso sulla poesia.
Prima strada a sinistra. Facciata in ristrutturazione.
Le porte da saloon dell’ascensore stridono
e lo specchio ci riflette nei due angoli opposti.
Un metro quadrato fa procedere lentamente il tempo,
mentre al muro bianco si alternano vetro e luce.
Sesto piano. Rumore di chiave nella serratura.
Due porte. Corridoio con libri. Finestra aperta.
Interno giallo con legni scuri. Finestra chiusa.
Stapelia Variegata apre il suo fiore fuoristagione
e non ha più importanza quel che accade all’esterno.
«Sono uno dei tuoi angeli relegati in Paradiso».
Ridi.

Il nono secolo è stato un tempo di battaglie, per me;
per te, il tempo del testo kashmiri e della sua filosofia.
Uno di fronte all’altro: clangore di spade e fruscio di pagine.
Le porte del tempio di Giano ancora aperte
oggi si chiudono in questo inizio. Siamo il passaggio
e la doppia fronte nel suo significato originario.
Il Novecento è la cicatrice ombelicale da disinfettare,
perché si occluda e possiamo allora dirci adulti.
Procediamo un millennio alla volta: il terzo,
dall’anno 753 dalla fondazione di Roma, ci sorprenderà.

 

Tra me e dio

Di quante parole ha bisogno un dialogo?
Pavimento coperto da schegge di vetro.
Lo specchio rotto e l’immagine in frantumi.
Guardo in basso. Ogni frammento amplifica la visione.
Black out. La midriasi svela una presenza.
Pugni chiusi. Prendo la direzione opposta.
In silenzio. Ascolto.

Siamo nel 1987. Giugno. L’ulivo è in fioritura.
Non ci sono nuvole dopo pranzo. Passeggiamo.
In lontananza la strada scende verso il vigneto.
Il cane abbaia ad un’auto di passaggio. Io gioco
a raccogliere le pietre lisce verdi e grigie del fiume
che nasconde la sua acqua in profondità.
Siamo nel 1987. Sto imparando a scrivere.
In quel preciso momento abbiamo smesso di parlare.

Ho incontrato Dio una notte del 1928. Primi giorni di gennaio.
Mi dissero che era nato da poco.
Ebbero paura morisse subito, la mattina stessa del parto.
Per questo giunse a gennaio.
Mi domandai dove fosse l’altra metà da cui anche quel dio era nato.
19 ottobre 1959. Paese in festa. Le campane suonano alle 11.
Sono passati cinquantasette anni e trenta secoli
dal giorno in cui le due parti si sono ricongiunte.

Pagina bianca. Mitra uccide il toro. Qualcuno muore sempre.
Dalla giugulare fiotta la fertilità della terra. Pagina scritta.
Ogni dio ha un sacrificio da compiere. Il mio è vivere.
L’immortalità è scrittura nell’agonia del foglio immacolato.

Ultimo atto. Quattro i cavalli e quattro i colori. Sette i sigilli.
Il giorno successivo al primo flagello ho imparato a cavalcare.
Una filastrocca scioglie la lingua e segna la strada.
Primo giorno di scuola. Finestra aperta. Siedo nel banco
vestita di bianco e tu sorridi lasciandomi la mano.
Dio è una promessa di ritorno.

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Angela Greco

Strada senza uscita

Da tre anni aspetto la fioritura dell’iris aucheri
affresco di Tebe e gioia del giardino del faraone,
introdotto in terra egizia dalla bella Siria.
Aspetto la scia colorata della buona notizia
l’attimo preciso in cui rileggere la carta delle vie
e lasciare alle stelle la decisione dell’esito finale
di questa strenua battaglia che lo specchio conosce.

La finestra è aperta su un nuovo documento word,
ultima versione, stessi caratteri, spaziatura e margini.
La seconda finestra si apre su una strada senza uscita.
Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto di bestia macellata annuncia la notte.
Il toro muggisce nel recinto di pietra all’ombra del castello:
il compianto è per un’altra morte, questa volta
non è Ignacio a lasciare la scena eppure l’odore è lo stesso.

La camicia azzurra stirata alla perfezione
induce ad allontanarsi dal tuo petto
per timore che linee segnino il desiderio.
Basta una stretta di mano, affare concluso
senza altre parole si stipula il contratto:
coltiveremo iris e alleveremo bovini per gli dei.
Ci occuperemo anche della morte,
in un secondo momento.

Il castello è chiuso al pari di un ufficio comunale.
A questo si riducono i viaggi, alla burocrazia.
Riprendo il cammino con l’indice tra le pagine
e mi fermo al quadrivio segnato dalla croce.
Leggo ancora un verso, quello in cui descrivi la città
e tutte le variazioni del suo nome. Siamo ad Oriente
e il ritorno all’ora legale affretta la sera e le sue ombre.
Scrivo un altro rigo seguito da puntini sospensivi.

Le colombe al mattino tubano sul balcone.
Il computer illumina la stanza centrale della casa.
La mattina inizia sempre con il caffè amaro
ed una lettura che mi restituisce il sogno.

 

Fuori le mura

Crollano all’esterno del palazzo
le mura, il re, pietre e attese.
Si spezza dell’abito dai bordi d’oro il filo
con cui era unito alle sete. Cadono bottoni.
Il telaio s’inceppa sull’ultimo punto:
un giorno di novembre ed un ritorno.

La regina ed i suoi enigmi destano Salomone.
Possono disconoscersi ed invertire i ruoli:
lui farà domande e lei avrà saggezza, ma
il deserto non cambierà la sua natura
e della sabbia si occuperà la carovana.
La notte segnata dalla stella riconduce a casa.

Living con divano in pelle e libreria. Terzo ambiente.
Orologio fermo all’ora del decesso. Dodicesimo anno.
La data immobile sul calendario dice che è dicembre
nuovamente il quindici.
Come numeri dalla faccia d’un dado, ha detto il poeta,
mentre imperterriti perdiamo tempo in domande inutili,
distraendoci con risposte di comodo.
Ricorrenze

#1

Novembre è entrato alla tua uscita
per fumare e telefonare.
Ha posto due domande:
«Continuare fino alla fine?»
«Fermarsi al 23, mercoledì, ore 19 e 40?»

La pioggia mi sorprende a ridere
incredula della voce alla compieta,
preghiera esaudita, immagine nitida
nella sera incipiente. Poi la cena, per prassi.

Si è abbreviata la distanza dalla luna.
Nuovi eventi hanno permesso l’avvicinamento
e non occorre più rivolgersi ad alcuna agenzia.
Per esplorare il cosmo basta guardare la foto:
quella dove stringi tra le mani l’ultima ora del giorno.
#2

«Dimmi cos’hai»
40 anni. Una penna. Fame.
Il libro degli astri. Un ricordo.
Scegli.

«E cosa vorresti?»
Un biglietto per l’Orient Express.

La voce legge Tranströmer:
un chiarore blu…una fessura
attraverso la quale i morti
passano clandestinamente il confine.
Mentre ci diluiamo con le ore della notte,
una lampada velata aspetta l’alba.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

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