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POETRY KITCHEN, Antologia Poetry kitchen 2023, Lettura di Teresa D’Errico, “La poesia kitchen non ha identità alcuna (…) disconosce i concetti di avanguardia e retroguardia”, scrive Marie Laure Colasson, tuttavia, a una lettura attenta, la Poetry kitchen per certi aspetti può ricondursi al modello rivoluzionario avanguardistico-surrealista, pur distaccandosene sia per la mancanza di tensione polemica, di critica radicale contro la tradizione classica, sia per la perdita del carattere orfico-onirico rivelativo che ha caratterizzato buona parte della poesia d’Avanguardia

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Mentre altrove piovono bombe sparano
droni cannoni e altre simili cose
la giraffa spicca il volo supera la muraglia
sotto il rullo di tamburi a sequestrare
il cielo

(Raffaele Ciccarone, “Mentre altrove piovono bombe”, Poetry kitchen, 2023)     

Orazio nell’Ars poetica scriveva: ut pictura poesis. La tradizione ha ritenuto la poesia simile a un quadro, in grado cioè di rappresentare la realtà, e perciò sin dai tempi più remoti è stata sempre dotata di un’intrinseca comprensibilità finalizzata alla trasmissione di un messaggio chiaro e definito. Quella tradizionale si configura perciò come una poesia di “cose” nel senso che – anche quando gli sperimentalismi sono diventati più arditi e acuti –  c’è sempre stato un rapporto diretto tra le parole e le cose, tra l’idea e il linguaggio atto ad esprimerla. Tuttavia il Novecento con il suo carico di irrazionali atrocità culminate nell’Olocausto e nell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, con l’inquietante “banalità del male” commesso da persone ordinarie e ritenute benpensanti, con quella sua inquietante e forse irripetibile atmosfera che Mark Fischer ha definito wird and eerie e che ha reso la distopia un dato di fatto, ebbene il Novecento ha rotto il legame tra le parole e le cose. Quando le “follie di morte”, per usare un’espressione montaliana, hanno dettato tempi e fatti della Storia, mistificando il linguaggio e frantumando ogni orizzonte di senso, quale possibilità comunicativa può ancora essere attribuita alla poesia? Se c’è un vuoto di senso è a quel vuoto che la poesia deve dare voce.

Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus: così Umberto Eco concludeva il suo celebre romanzo Il nome della rosa. Ci restano solo nomi e ogni nome è un flatus vocis che non approda a nessun significato definito e compiuto. È desolazione? È libertà? I poeti non giudicano e non hanno risposte né perciò possono fornirle, però traducono nelle loro scelte lo Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui vivono.

Incontri di suoni, fascinazioni lessicali, accostamenti inediti e inusuali tra nomi, personaggi mitologici, oggetti tratti dalla quotidianità più ordinaria, frantumazione della metrica, scomparsa delle rime, andamento prosastico, assenza di punteggiatura sono i tratti di un modo diverso di fare poesia, come dimostrano gli artisti che nelle due antologie di Poetry Kitchen (la prima pubblicata nel 2022, la seconda nel 2023) hanno raccolto versi ricchi di una dirompente carica di libertà espressiva. Sebbene nell’antologia edita nel 2023, Marie Laure Colasson dichiari apertamente che “la poesia kitchen non ha identità alcuna (…) disconosce i concetti di avanguardia e retroguardia”, tuttavia, a una lettura attenta, la Poetry kitchen per certi aspetti può ricondursi al modello rivoluzionario avanguardistico-surrealista, pur distaccandosene sia per la mancanza di tensione polemica, di critica radicale contro la tradizione classica, sia per la perdita del carattere orfico-onirico-rivelativo che ha caratterizzato buona parte della poesia d’Avanguardia.

Nella Poetry Kitchen non c’è rabbiosa cesura con il passato, piuttosto si assiste a un riuso libero del patrimonio culturale della tradizione, dissezionata, atomizzata e riadattata per dare vita a forme completamente nuove, attraversate da correspondances capaci di avvicinare cose e parole normalmente irrelate ma che la creatività artistica può accostare e che la libertà interpretativa ha il diritto di ricomporre, scorgendovi significati possibili, brandelli di verità nascoste, suggestioni emotive: “la poesia assomiglia a un unicorno vestito da pappagallo” (M.L. Colasson, in Poetry Kitchen 2023, Dichiarazione)

La Poetry kitchen è decostruttiva, slegata dal referente.  Nell’introduzione alla seconda raccolta (2023) G. Linguaglossa osserva che la Poetry kitchen è “un gioco di specchi (…) di fuochi d’artificio (…) una bizarrerie“. 

Locandina Poetry kitchen San Basile 2023

“Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo”, scrive I. Calvino  nell’excipit del Castello dei destini incrociati. E così smembrando sintassi e ritmi, la Poetry kitchen registra lo sfaldamento delle architetture tradizionali ritenute incrollabili,  dà atto della caduta di quelle granitiche cattedrali di certezze e si apre a letture personali, sollecita contributi esegetici che mettano in gioco la creatività di chi legge, intercetta lo sguardo di chi cerca strade non battute dai più. “Il mito è falso, ha narrato il falso”, nota G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) alludendo all’inesorabile crepuscolo degli idoli  cui la tradizione si è illusoriamente aggrappata.

Eppure tra i labirinti delle possibilità sembrano farsi strada alcuni punti fermi.

Si avverte, per esempio nei versi di Raffaele Ciccarone (Poetry kitchen 2022) un acuto rilievo rivolto alla contemporaneità e alle sue derive: “una Olivetti 32 vuole descrivere la storia/ dice di averla tutta nei tasti”. Emerge chiaramente il riferimento alla manipolazione dei fatti storici operata da una sempre più incontrollabile tirannide tecnologica simboleggiata dalla “Olivetti 32”. Si tratta di una sottile denuncia contro l’arroganza di un presente dominato dal prometeico vortice di un’iper-digitalizzazione che reprime ogni tentativo di inversione della rotta: il potere dei “tasti” schiaccia ogni alternativa. Controllati da un invisibile Panopticon viviamo in una dittatura algoritmica, offrendoci spontaneamente alla sovraesposizione, sentendoci erroneamente liberi di esprimerci senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità che sconfina nel controllo. L’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti un regime di sorveglianza digitale: la macchina possiede ormai la storia e “dice di averla tutta nei tasti”. E non c’è scampo: la tirannide tecnologica non lascia spazi vuoti, profana persino gli altari delle chiese:

“il prete perdonava tutti seduto al touch screen”

(F.P. Intini, Poetry kitchen, 2023)

Antologia_poetry_kitchen_2023 Azzurra_web

Con tono amaramente ironico Giorgio Linguaglossa nei suoi componimenti, registra il definitivo tramonto della domanda e del dubbio: “i punti interrogativi si sono ribellati e sono stati sostituiti/ dai punti esclamativi” (Poetry kitchen, 2023). L’età della ricerca, dei perché, dei percorsi anche tortuosi attraverso cui si sperimentava il piacere della conoscenza fatta di curiositas, è finito e con la domanda è per sempre scomparso il tempo dell’ascolto, dell’apertura all’altro da sé. La pretesa dell’assoluta validità delle proprie affermazioni si accampa oggi con la perentorietà propria di chi è pronto a schiacciare il punto di vista altrui. Sono le domande che creano relazioni, dialoghi, attese di risposte, confutazioni, confronti, incontri, possibili convergenze, altrimenti è l’afasia. La scomparsa della domanda come sparizione dell’altro determina una «tribalizzazione» (dizione di Linguaglossa) dei comportamenti: mi confronto solo con chi la pensa come me e chi non è con me è contro di me. Persino l’algoritmo asseconda questa chiusura tribale nelle filter bubble che restringono l’orizzonte delle informazioni a ciò che asseconda i gusti e le preferenze personali. Le conseguenze sono tristi: isolamento intellettuale, riduzione del confronto, polarizzazione delle opinioni e di conseguenza incremento degli scontri a danno del dialogo e del rispetto delle posizioni altrui.

D’altra parte, se, però, mancano gli approdi, è comprensibile l’atto di ribellione dei punti interrogativi: se il verbum non riesce più a dire il verum, la domanda è inutile e la parola può diventare vocabulum, mera vox clamans in deserto con cui “giocare” come i poeti kitchen dimostrano. Quello dell’Essere resta un sogno, forse un desiderio che la storia ha spazzato via e, scrive F.P. Intini, citando i versi di Quasimodo, giace “trafitto da un raggio di Sole”, un Sole che come un dardo ferisce senza ormai illuminare più niente, senza più aura divina. E perciò quella sullo “smarrimento” del mondo contemporaneo resta kafkianamente una “domanda” senza risposta, consegnata all’assurdo: “alla domanda sullo smarrimento, la pratica passò di ufficio in ufficio” (Francesco Paolo Intini, Poetry kitchen, 2023).

Siamo immersi in un caos febbricitante: “il rumore della marmitta fracassa il tetto/il vetro si sbriciola”, (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), quello delle città è un “ruggito” che aliena (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023) e che ricorda, con la sua carica spersonalizzante, la rue assourdissante che rendeva a Baudelaire impossibili i suoi desideri d’incontro e d’amore. E in questa realtà confusa, “in assenza di una scacchiera” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), trasciniamo i nostri giorni, condannati ormai a una politica senza progetti, una politica incapace cioè di suggerire una direzione ai destini di masse travolte da false promesse e ripetuti inganni. “La lunga mano della pubblicità” (F. P. Intini, Poetry kitchen, 2023) condiziona scelte e condotte, colonizza l’immaginario, ha preso il posto della politica nel fornire risposte ai bisogni della gente.

Poetry kitchen cover

I poeti antologizzati nei due volumi Poetry kitchen (Tiziana Antonilli, Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Vincenzo Petronelli, Mimmo Pugliese, Gino Rago, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi) con il loro tocco leggero planano sul presente constatandone – senza grevi condanne o nostalgie per stagioni irrevocabili – la palustre immobilità: “la girandola è ferma, il vento assente” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Sembra non esserci più spazio per imprese eroiche, per ambizioni, aspirazioni grandiose: la poesia dà voce allo stato d’animo di chi, nella sua prigione quotidiana, si sente “come un gambero messo in padella che frigge/ e saltella” (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023). Ma forse anche gli eroi del mito sono un inganno e G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) ne rivela il vero volto: Menelao come un uomo qualsiasi, “soffre di eiaculatio praecox”, Clitennestra “posa mezza nuda per il calendario Pirelli” e Menelao, in fondo, è solo un “cornuto”: la tradizione ha mascherato la realtà, ha inventato superbe fole per nascondere l’infinità fragilità dell’umana condizione.

E nell’assuefazione generale al “collasso del simbolico” (G. Linguaglossa, Poetry Kitchen 2023) probabilmente non rimane che “contemplare (…) le acrobazie che un ragazzo fa fare al suo wifi drone” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Ebbene, questo forse oggi resta da fare ai poeti: “giocare” con le parole per “sequestrare il cielo” (R. Ciccarone, Poetry kitchen 2023), perché nonostante tutto è in quelle “acrobazie” della creatività che si nasconde la chiave che aprirà ai giovani le porte del futuro.

“Il genere umano non può sopportare troppa realtà”, osservava T. S. Eliot. Perciò, suggerisce Raffaele Ciccarone, esiste la forza della poesia, per spiccare il volo, per superare la montaliana “muraglia” di un’ingabbiante datità in cui tristemente, scriveva C. Sbarbaro, “tutto quello/ che è, è soltanto quel che è”.

Locandina Festival Poetry kitchen 2023

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Che cosa significa «poesia buffet»? Una poesia di Carlo Livia, La poetry kitchen nasce nel rivolgimento di un Nuovo Paradigma, La procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, la macchina-per-scucire, Pitture di Marie Laure Colasson, acrilico, 2020

Marie Laure Colasson Struttura 30x30, 2020

Marie Laure Colasson 30×30 acrilico, 2020 – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

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caro Gino,

in fin dei conti, che cosa significa «poesia buffet»? Significa che sul tavolo, in soggiorno, c’è una gran quantità di pasticcini, di salatini, sandwich, salamini, formaggini, crosticini, salse piccanti e bibite, vini, acqua gassata in profusione, e che ciascuno degli «invitati» al buffet può consumarli a piacimento. Il «buffet» è dato gratis. Il «buffet» è la festa della pancia e dello spirito.

Analogamente, la «poesia buffet» sa che ci sono delle parole sul tavolo, in soggiorno, in gran quantità, le parole sante e quelle laiche, quelle piene e quelle vuote, brutte e belle etc. e ciascun poeta può cibarsene, cioè usarle a proprio piacimento.

Ma questo è appunto la poesia dei parassiti delle parole! Loro si impegnano con tutte le proprie forze a fare questa poesia del cioccolato e dei pasticcini, magari condita con un po’ di angoscia ad effetto, della suspence, della salsa alla disperazione (finta) per rendere l’eloquio più coinvolgente e convincente.

Ultimamente un autore mi diceva più o meno così: Prendiamo un verso di Francesco Paolo Intini:

Angoli e corvi in lotta per un regno.

Che cosa significa? E si rispondeva: niente! E così continuava: se anche si volesse sostituire «regno» con «ragno», lo si potrebbe fare, tanto il sintagma non significherebbe niente egualmente!

Angoli e corvi in lotta per un ragno.

A questa dotta esposizione dell’autore in questione io ho risposto così. Che la sua concezione della poiesis è appunto quella della «poesia buffet» di corriva memoria oggi molto di moda, dove un salamino equivale all’altro e che basta sostituire un salamino (parola) con un crosticino (altra parola) tanto il risultato non cambia.
Questa concezione della poiesis è fondata su un valore convinzione: che essa sia un gioco nel quale a ciascuno è dato cambiare gli addendi e l’ordine degli addendi tanto niente cambierebbe nell’ordine della significazione.

Ebbene, la «poesia buffet» di Intini è invece fondata su un valore convinzione del tutto diverso: che una parola non sia sostituibile con un’altra, e che chi lo fa compie un misfatto, un atto gratuito e arbitrario. Intini la pensa così: che la parola «regno» non sia sostituibile con la parola «ragno», che lui voleva dire proprio «regno», che il sintagma non è insensato, come crede la ingenua pubblica opinio, ma che è un «fuori-senso» e un «fuori-significato», cioè che la poesia non abita più il «senso», che la sua abitazione, la sua ubicazione è invece il «fuori-senso» e il «fuori-significato».
Questo, propriamente, è la poetry kitchen o poesia buffet. È un discorso che rivela l’esser fuori senso e fuori significato di tutti i discorsi comunicazionali che si fanno oggi più o meno con buona creanza e con profonda ipocrisia. Quello di Intini è un discorso che sta fuori-del-discorso. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

(Giorgio Linguaglossa)

«Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori»
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)

«Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio».
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)

A. Emo, la voce incomparabile del silenzio, Gallucci, 2013, p. 110

Da dove viene l’inconscio?

Marie Laure Colasson, 15x30 Struttura, 2020

Marie Laure Colasson, 15×30 acrilico, 2020

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«Con concetti come quello di traccia o di differenza, si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa essere il padrone… La differenza è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto, incessantemente differito nel movimento del discorso rispetto a quello originario. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti, in una rete che lo dispiega e nello stesso tempo lo allontana. Cosa dirà dunque Lacan, se non precisamente che “il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante”, espressione celebre che consacra il fossato e la scissione del soggetto da se stesso… Come potrà il soggetto intercalarsi fra l’”io” del suo discorso e se-stesso? Come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo porta-voce e non autore in senso teologico, Lacan fa del soggetto questa presenza assente, questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più che segno, con una significanza che si libera dal rapporto fisso al significato, e si sposta al suo luogo. Dovrà così sorgere l’ermeneutica. Il soggetto, altro da sé, avanzerà solo mascherato, stabilendo la sua identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. La sua identità si realizza a questo prezzo, e questo prezzo è dunque l’inconscio. In tal modo risulta rimosso lo scarto retorico rispetto a sé, retorico perché l’identità non è più che figurata e non letterale».1]

1] Michel Meyer Problematologia. Pratiche editrice, 1991, p. 183

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Compostaggi, di Mauro Pierno (Progetto Cultura, pp. 102, € 12, 2020), Immagine della cover di Marie Laure Colasson, Ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

Mauro Pierno Compostaggi

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”
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dalla Prefazione di Gino Rago a Compostaggi (2018) di Mauro Pierno

In Compostaggi registro un mutamento radicale nel fare poetico di Mauro Pierno, un mutamento di registro stilistico-formale con approdo all’impiego del distico, come per esempio in questo componimento della sua nuova raccolta poetica:

Di ciliegio sine die
con decorazioni appese ad asciugare.

Tese alla corda orizzontali le tovaglie
rumoreggiano di primavera.

Tra il vento anche le foglie stampate
si battono indipendenti.

Quanto tempo è passato nel giardino
anche tu Raneskaja non lo rammenti più!

Segno evidente, innegabile di una evoluzione che comincia a distanziare Mauro Pierno da tutto il truismario esangue della poesia dei gregari dell’umbertosabismo diaristico, del post-serenismo minimalista, del neocrepuscolarismo dell’io sconfitto, dell’elegia del cardarellismo post-rondista.
Giorgio Linguaglossa in una nota icastica così scrive: «Mauro Pierno è un poeta in rapida evoluzione, ha mandato al macero la poesia accademica e prosegue dritto nella sua ricerca di una poesia archeologica del presente, fa una archeologia del presente, poiché il passato è stato dimenticato dalla odierna civilizzazione di massa e del futuro lui si considera un po’ un antenato, una sorta di astronauta della Terra».
Ed ecco che compare una parola-chiave del nuovo corso poetico di Compostaggi, «archeologia del presente» che nella sua apparente valenza ossimorica dice tutto di un accorto lavoro di scavo nella parola di poesia dagli strati superiori a quelli inferiori fino allo strato del grado zero del linguaggio poetico, dove una sorta di pastiche linguistico ad alta interferenza è di casa come in questi versi:

Il quadrato costruito sull’ipotenusa il teorema applicato
nella moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Nei brani sgranati si arrotolano esistenze piè
e a cena le rive si allontanano.

Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati.
Dalla forma più casuale un ricettario pubblico.

Una rivoluzione portatile per l’ipnosi.
Questa tua apparizione a capotavola,

Tomas, rimette tutto in ballo.
Lo sai che le farfalle son alte alte alte. 

Versi esemplari di un intreccio di geometria-Vangelo-canzonetta che nella ibridizzazione linguistica trova una nuova cifra e anche una nuova energia interna delle parole che il poeta impiega nella architettura della sua nuova poesia, frutto della lunga frequentazione dei temi della Nuova Ontologia Estetica attraverso la Rivista Internazionale di Poesia “L’Ombra delle Parole”, un lavoro di profondo, radicale rinnovamento della nostra poesia ben sostenuto da tutta la Redazione del blog di Letteratura Internazionale, a partire da questi versi di Tomas Tranströmer

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero…
(da La lugubre gondola, Bur, 2011)

dai quali si sprigiona tutta la forza delle immagini metaforiche e/o delle metafore cinetiche della estetica tranströmeriana, cui si approssima questo ben riuscito distico di Pierno “Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati. Dalla forma più casuale un ricettario pubblico”, quasi a preparare i componimenti dell’altra sezione della raccolta poetica di Mauro Pierno, Cose, in distici come questi:

L’ennesima fornitura li trovò spiazzati.
Un ipermercato il punto d’incontro.

Nelle ventiquattrore si apprestarono in tanti
con peluche e mascotte.

E i cani sorrisero. Si leccarono anche,
lappavano i musi, mostravano i denti. In cambio cosa offrivano loro!?

Incalzarono, “Peluche e mascotte!?” E allora sbraitarono.
Fuggirono acquirenti e mercanti.

il poeta suggella il corso nuovo della sua ricerca poetica fondata su un lavoro efficace sul logos.

Mauro Pierno 1

[Mauro Pierno]

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Retro di copertina di Giorgio Linguaglossa

«Ciò che resta lo fondano i poeti» ha scritto Hölderlin. E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate…
Le parole delle poesie di Mauro Pierno sono errori di manifattura, errori del compostaggio, errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili. Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le parole combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non è Mauro Pierno il responsabile. Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del distico è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un distico distassico e dismetrico che contiene al suo interno una miriade di dis-allineamenti fraseologici, dis-connessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo. Il distico è una gabbia metrica dinamica che contiene al suo interno le pulsioni e le tensioni che si sprigionano da decadimento chimico delle parole, che consente una sorta di compostaggio delle parole un tempo nobili e nobiliari.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, Mauro Pierno e i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. «Solo i pensieri che non comprendono se stessi sono veri», ha scritto Adorno.

Mauro Pierno

da Compostaggi (2020) di Mauro Pierno Continua a leggere

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Dialogo della moda e della morte, di Giacomo Leopardi, La moda, l’Impero dell’effimero, da Lipovetsky a Walter Benjamin, Il pluralismo stilistico della Moda prefigura il pluralismo stilistico delle merci artistiche

Gif naomi Campbel

Dialogo della moda e della morte
di Giacomo Leopardi

Moda. Madama Morte, madama Morte.
Morte. Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami.
Moda. Madama Morte.
Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.
Moda. Come se io non fossi immortale.
Morte. Immortale? Passato è già più che ‘lmillesim’anno che sono finiti i tempi degl’immortali.
Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell’ottocento?
Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno.
Moda. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.
Morte. Ti guardo.
Moda. Non mi conosci?
Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mivalgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi.
Moda. Io sono la Moda, tua sorella.
Morte. Mia sorella?
Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?
Morte. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria.
Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra.
Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra’ denti con quella vocina da ragnatelo, io t’intenderò domani, perché l’udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare diogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno.
Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l’ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano. Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l’animo di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch’io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno.
Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, ecorrendo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.
Morte. Sia con buon’ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende.
Moda. Io l’ho fatto già per l’addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuotutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che elladura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.
Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!
Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda.
Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l’usanza che non si muoia. Ma inquesto mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m’aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto chenon ho fatto finora.

Moda. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo’ dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, e più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co’ loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l’addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch’io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte di sé non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell’umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degl’immortali ti scottava, perché parea che ti scemasse l’onore e la riputazione, ho levata via quest’usanza di cercare l’immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo,volendo accrescere il tuo stato nella terra, com’è seguito. E per quest’effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l’una dell’altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.
Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo..1 Giacomo Leopardi, Dialogo della moda e della morte, in Operette morali, Saverio Starita, Napoli 1835.

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La poesia dell’«io penso dunque sono», Con la poetry kitchen non siamo più entro il campo della verità, abbiamo alle spalle la poesia rassicurante del novecento, Poesie di Alfonso Cataldi e Mauro Pierno, Commento di Giorgio Linguaglossa

gIF MAN SMOKE

Giorgio Linguaglossa

La poesia dell’«io penso dunque sono»

La poesia dell’«io penso dunque sono» della tradizione poetica del novecento, la poesia da risultato sicuro, cioè del significante e del significato, è affondata insieme alla tradizione. Dire: «Io dunque significo e posso significare ciò che voglio», è dire un falso assioma. La poesia da risultato è una poesia che deriva da un concetto di logos tutto sommato rassicurante, perché l’io ha a che fare soltanto con se medesimo: quello che l’io dice e quello che non dice  si trova nel campo della verità, non si discute. Da questa impostazione ne deriva che il non-io non esiste, e quindi è fuori della verità, fuori del campo della verità. Una posizione indubbiamente comoda, rassicurante, che non si può discutere. Un concetto, si direbbe oggi, da «dittatura sanitaria». Ipse dixit. Si potrebbe dire, parafrasando un virologo che va di moda oggi, che «l’io è clinicamente morto». L’io, il locutore, ha cessato di essere il fondatore e il fonatore.
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Nella poesia della poetry kitchen non siamo più entro il recinto o campo della verità. Ci muoviamo in un campo che non conosciamo, e che per di più ci è estraneo, in cui le strade e la mappa del territorio non possono più orientarci. È questa la ragione, ad esempio, dei «segni» che Lucio Tosi dissemina sul suo cammino perché essi sono gli unici «segnavia» che ci consentono di riconoscere i luoghi e gli oggetti e, di conseguenza, il soggetto che noi siamo e che ci è sconosciuto; questa è la ragione della «pallottola» e della «gallina Nanin» di Gino Rago che vanno dove gli pare e si comportano  in modo del tutto imprevedibile; poetry kitchen è anche la ribellione degli oggetti e delle citazioni della poesia di Mario M. Gabriele; l’avvicendarsi di Doppi e di Sosia nella poesia di Marie Laure Colasson contrassegna la dissoluzione del soggetto, la scissione, la differenza del soggetto dell’inconscio dal soggetto del conscio, la definitiva presa di congedo dall’idea del soggetto plenipotenziario dell’«io penso dunque sono».
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Tutto sommato, la poesia di un Sandro Penna, di un Bertolucci, e anche di uno Zanzotto de La Beltà (1968) ci appare «rassicurante», e perfino quella di Sanguineti del Laborintus (1956). Perché accade questo fatto? Perché? Perché quel novecento sperimentale e pseudo orfico era in effetti «rassicurante»: di qua i buoni, di là i cattivi, di qua l’Occidente con le sue democrazie, di là l’Orso sovietico con la sua nomenclatura autocratica. Adesso le cose sono un po’ cambiate, non possiamo più contare sulle divisioni del mondo, sulle censure, sulle certezze: di qua il soggetto di là l’oggetto, di qua il bene di là il male. Il romanzo (quei pochi esemplari degni di questo nome), e la poesia (quella pochissima poesia di livello) non possono che ereditare e far propria questa mancanza di «rassicurazione», questa incertezza ontologica delle istituzioni stilistiche; la tradizione non è più quella cosa più o meno rettilinea e omogenea che si doveva continuare o interrompere seguendo lo schema Avanguardia/Retroguardia, quella cosa lì è diventata qualcosa di irriconoscibile, di irricevibile, e, quindi, qualcosa che non possiamo più riconoscere, che non possiamo più né continuare, né interrompere perché non dobbiamo partecipare più a questo gioco illusorio di scacchi, quello che dobbiamo fare è rovesciare la scacchiera e declinare la sua perdita di valore normativo. E andare oltre di essa.
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Questo è il fatto e l’antefatto. Ha senso, oggi, chiedersi «Che cos’è l’arte?», cercare una definizione che ci dia l’ontos on, l’essenza dell’arte? Pensare una definizione della poiesis è uno pseudo problema, in quanto tale pensiero presuppone già un determinato modo di vedere le cose, un modo di pensare che, storicamente, si è sedimentato come metafisica occidentale: definire un oggetto e, subito dopo, rappresentarlo. Ebbene, nella poetry kitchen si dà la ribellione degli oggetti, gli oggetti stanno oggi qui, domani là. I soggetti anche. Non c’è più un solo soggetto rassicurante e prevedibile, ma ci sono tanti soggetti quante sono le duplicazioni di esso.  Nel post-moderno la metafisica occidentale è stata decostruita da un pensiero che ne ha messo in crisi la griglia concettuale e ne ha sovvertito gli ordini e le tassonomie, esibendone così l’infondatezza. Ed è su questa infondatezza che dobbiamo fare i conti. La poesia kitchen è fondata su questa assunzione, magari tutto il resto è incerto, ignoto.

Scrive Alessandro Lattuada in Philosohy kitchen:
«Uno dei temi più dibattuti nel panorama filosofico-politico contemporaneo riguarda la nozione di evento. Diversi autori (Heidegger, Deleuze, Badiou – per citarne solo alcuni) hanno tentato di comprendere in che modo l’ordine dell’essere possa tener conto di ciò che viene definito un evento. Al di là delle differenti teorizzazioni, è possibile definire l’evento come un fenomeno che sconvolge e rivoluziona l’assetto politico, sociale ed etico di un’epoca – esso è l’elemento “traumatico” che modifica sostanzialmente e imprevedibil mente il percorso della storia. Žižek lo interpreta attraverso la categoria psicoanalitica di pulsione:
Il paradosso è che un evento è un fenomeno retroattivo che si auto-pone. […] Badiou porta l’esempio della Rivoluzione Francese. Non possiamo spiegare questa Rivoluzione semplicemente con le sue condizioni sociali. Fu un atto autonomo che ci permette di leggere le condizioni precedenti come rivoluzionarie. […] C’è una sorta di atto originale di creazione; un certo universo del significato emerge, per così dire, dal nulla. Ora, penso sempre più che questa logica dell’evento sia troppo idealistica. In contrasto, la nozione lacaniana di pulsione cerca di render conto – e forse questo è il problema materialista di fondo – di come un evento possa emergere dall’ordine dell’essere. (Žižek 2004, 166) ».1
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Philosophy Kitchen #9 — Anno 5 — Settembre 2018 — ISSN: 2385-1945 — Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi p. 41

Alfonso Cataldi

[Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone.]

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Voleva solo partecipare

Il corrimano sale fino al terzo piano e buca il finestrone.
«Hai caldo pure tu Luna?»

O due calici rasi sono sufficienti a immaginarti porno?

Confucio regalava sempre una goleador
a chi calciava un esempio di virtù nella comunità avversa.

«La società liquida è durata meno del previsto»
il Covid voleva solo partecipare

però la temperatura è scesa appena di tre gradi
e i barbecue non hanno fatto un fiato.

Il basilico dei vicini la sera si finge morto
di fronte alle nostre serie TV preferite.

«Jesse, non lasciarlo andare. Getta le chiavi dell’auto nel dirupo
non resisterà più di due puntate alla tua neurodiversità.»

Con il coltello sotto il cuscino

Passa tutto il giorno attorno a un solo buco di groviera
e non lo sa che non produce ossitocina.

Il topo autistico da laboratorio
guiderà le distrazioni umane?

L’endocrinologo ha disegnato i bottoncini sotto le mammelle
La bilancia non porta un filo di trucco

e dichiara tre chili in più
da colare su una mutilazione priva di display.

Halloween non è mai presente quando serve
e non risponde al telefono.

Qui dormono tutti con il coltello sotto il cuscino
di notte girano i cacciatori di soci Coop. Continua a leggere

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Louise Glück, Premio Nobel per la poesia 2020, Poesie varie, Dialogo e valutazioni, La inadeguatezza della giuria svedese del Premio Nobel

Louise-Gluck

Louise Glück

Mario M. Gabriele

Giorgio,

che ne dici del Nobel dato a Louise Glück? Hanno premiato la poesia tradizionale confermando che altre strade non sono percorribili, mentre in Italia noi proponiamo la NOE con la Poetry Kitchen, la Poesia buffet, Pop-Spot, Pop-Bitcoin, e Pop-Jazz? Siamo da considerarci fuori gioco ? o siamo arrivati a frantumarci con i frammenti e a rivedere ogni cosa asfissiati da molti detrattori alcuni dei quali nei loro Blog non fanno che inquinare la nostra poesia?. Se la Nuova ontologia estetica è tutto questo bisogna stare attenti nel proporre testi decerebrali dando più risorse alla nostra poesia.

Giorgio Linguaglossa

caro Mario Gabriele,

che vuoi che ti dica? Il Nobel alla americana Louise Glück era nell’ordine delle cose dopo il passo falso del Nobel conferito a «Bob Dylan (poeta sui generis)», come scrive giustamente Guido Galdini. Inoltre, la giuria del Nobel è composta da persone che hanno una media di 85 anni, e a quell’età non c’è più voglia di rischiare, i gusti si sono consolidati e sedimentati, ogni novità viene vista con grande sfiducia se non con sospetto, e il risultato finale è questa immobilità del gusto complessivo della giuria; questa scontatezza delle sue scelte era ampiamente prevedibile, e pensare che negli Stati Uniti c’è un poeta che per diapason è cento volte superiore alla mite e timida voce di Louise Glück, un certo Charles Simic. Ma si sa che Simic è un poeta scomodo, visto come un protestatario, un intellettuale non propriamente allineato con l’idea di poesia che hanno i membri della giuria del Nobel che è quella un po’ vecchiotta e ammuffita di una ontologia poetica che vede la poesia come lirica un po’ sliricizzata quanto basta, una lirica che ha il suo focus sulle vicende dell’amore tradito e della umanità infingarda e fasulla.

Cosa vuoi che ti dica della poesia di Louise Glück? Mi sembra una poesia un po’ telefonata, certo ben scritta, con giri di frasi professionali ma con alcune cadute, anzi, con frequenti tonfi come quel verso:

Nessuna disperazione è come la mia disperazione…

che fa oggettivamente ridere. Si tratta di una vecchia e antiquata concezione della poesia, che comunque ci può stare, Louise Glück scrive le sue cose migliori negli anni ottanta e novanta, è una poesia che vuole essere esistenzial-quotidiana, una poesia d’amore (mi vengono i brividi…). Certo, in confronto Charles Simic è un gigante, ma si sa che i giganti danno fastidio, sono ingombranti, troppo ingombranti per l’attempata giuria del Nobel. Ma non mi sorprende questa incapacità, questa inadeguatezza, questo non essere all’altezza dei membri della giuria del Nobel ad esprimere dei verdetti sulla poesia contemporanea; il messaggio che si vuole dare con questa assegnazione nobiliare mi sembra molto ovvio ed evidente: la completa ininfluenza della poesia nel mondo contemporaneo, l’inadeguatezza della poesia ufficiale a parlarci dei problemi del nostro mondo; e leggendo le poesie di Louise Glück questo aspetto risulta evidente.

I cittadini del capitalismo globale sono consapevoli del fatto che la visione del mondo che abbiamo è distorta e dunque siamo tutti diventati dei «soggetti cinici». Questa nozione di soggetti come cinici la riprendiamo dal pensiero di Peter Sloterdijk, il quale avanza l’ipotesi secondo cui l’ideologia dominante sia essenzialmente cinica, ciò che rende inoperoso l’orientamento critico ideologico classico. Secondo Sloterdijk il «soggetto cinico» è consapevole e cosciente della distanza che c’è tra la maschera ideologica e la realtà sociale in cui vive, ma ciò non è sufficiente per far sì che non rimanga fedele alla maschera stessa. Allora, la formula marxista classica che definiva l’ideologia (non sanno quello che fanno ma lo fanno), deve essere corretta: «sanno benissimo quello che fanno, e tuttavia continuano a farlo». La differenza in gioco risiede nel fatto che la ragione di cui parliamo non è più ingenua poiché rappresenta il paradosso di una «falsa coscienza illuminata» (dizione di Slavoj Zizek); i soggetti della ragione cinica infatti sono del tutto consapevoli degli interessi particolari che si celano dietro l’universalità ideologica, cioè del fatto che l’ideologia della disperazione senza disperazione alcuna è l’ideologia dominante del nostro mondo post-ideologico e post-globale, l’ideologia che ci consente la falsa contezza della realtà delle cose, e tuttavia di agire in favore di questa falsa contezza; nonostante questo, nessuno di noi è disposto a rinunciare ai privilegi e ai vantaggi che una tale falsa visione delle cose implica. Ecco il punto. Ecco spiegata  l’ideologia dominante della disperazione senza disperazione alcuna che intride la poesia della Glück e le masse mediatizzate post-globali di oggi in pieno capitalismo globale in crisi. È l’ideologia del nostro tempo che si cura a base di aperitivi e di Roipnol. Siamo quindi giunti in un momento storico in cui dovremmo parlare di post-ideologia? Per rispondere  dobbiamo fare un passo indietro e ritornare al concetto di «fantasia ideologica», affinché si possa dimostrare come la ragione cinica, con il suo distacco ironico e istrionico, lasci comunque intatto il livello fondamentale della fantasia ideologica cioè il livello sul quale l’ideologia organizza la realtà sociale. È necessario quindi ritornare alla definizione marxista «non sanno di far ciò, ma lo fanno» per poi chiedersi se il luogo dell’illusione ideologica sia nel fare o nel sapere all’interno della realtà. Il che poi è la stessa cosa in quanto il cittadino del mondo globale agisce nella realtà a dispetto della sua parziale o totale contezza dell’ideologia che lo acceca. Questa ideologia della falsa disperazione è presente in amplissima misura nei romanzi omiletici e nelle poesie omiletiche che si fanno oggi in Occidente.
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Ma tutto ciò non significa che noi non dobbiamo continuare nel nostro lavoro di svecchiamento della poesia delle «società signorili di massa» del mondo occidentale, come sono state brillantemente definite da un economista italiano. La poesia di Louise Glück è il miglior ornamento che la società signorile di massa di oggi si può agghindare sul petto a mo’ di trofeo, è una poesia decorativa e funzionale alle attese del pubblico benestante mediatizzato e atrofizzato e in falsa coscienza che fa pubbliche donazioni ai poveri e agli orfanelli degli orfanotrofi e che vuole essere confortato, corroborato e consolato della propria falsa coscienza e del proprio squallore. Questa poesia corrisponde perfettamente al canone delle buone maniere e del buon apprentissage, come dire, della figura del poeta nell’organizzazione delle strutture della persuasione delle società signorili di massa.

La poetry kitchen è ovviamente un’altra cosa, la nostra poesia non ha nulla a che vedere con questo reliquiario di tematiche liturgiche, non abbiamo altra scelta che proseguire nel nostro lavoro, ben sapendo che troveremo ferree resistenze da parte della poesia istituzionale. Ma questo lo sapevamo già.

Poesie di Louise Glück

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore. Continua a leggere

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La poetry kitchen è un ossimoro, in greco, oxymoron vuol dire acuta follia, Poesia di Francesco Paolo Intini, Alina ovvero trottole pattinano sul fuoco, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Scultura aerea di Marie Laure Colasson

Marie Laure Colasson Scultura aerea, legamenti e cartoni colorati, 2018

[Marie Laure Colasson, Scultura aerea, legamenti e cartoni colorati, 2018]

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 

Francesco Paolo Intini

Sul principio di risparmio energetico

È da quando il principio di risparmio energetico è stato enunciato che mi tormenta e affascina. Vorrei considerarlo solo un punto di vista teorico ma la spinta a dubitarne si arresta dinnanzi alla ricchezza di informazioni in esso contenuto. All’atto pratico l’ebollizione è semplicemente un’azione tumultuosa in cui i mille Lazzari presenti nell’acqua si uniscono a sollevare il coperchio di aria. Un atto rivoluzionario insomma che la massaia o chi per lei ha imparato a sfruttare a comando, salvo scottarsi le mani o la bocca.

Un massimo di energia che rappresenta una massa d’urto contro le pareti del povero amido che si vede penetrare da un popolo affamato. Una volta dentro la fortezza, non c’è modo di sfuggire alla disfatta e alla distribuzione delle ricchezze in parti uguali. Per ottenere questo risultato bisogna saccheggiare i magazzini colmi, in cui il padrone di casa ha organizzato i suoi beni. Non c’è altro modo che mettere a soqquadro l’ordine costituito da un volere di natura che osserva regole stabilite e tramandate di generazione in generazioni.

Che tutto questo avvenga sotto gli occhi inconsapevoli della pacifica massaia e persino della pubblicità mi meraviglia non meno della poesia che nasce in presenza di scope e buste della spazzatura. Quale l’origine? Penso al rumore di fondo della statale poco lontana, alla miscela di pausa e moto della lavastoviglie, al valzer del piatto nel microonde, al fracasso silenzioso del metano arso vivo molecola dopo molecola come streghe ed eretici, alle voci familiari del risveglio mattutino, al borbottare della caffettiera e a quello più deciso del gatto che non trova suo figlio nel cortile.

Onde, che navigano in cucina, interferendo tra loro, mescolando odori a sapori, modulando pensieri e ricordi indipendenti l’uno dall’altro, afferrando questa o quella questione filosofica, senza ordine prestabilito, soltanto quello di un verso e una pausa, una cresta e una valle che procede portandosi dietro una nozione, un fatto storico, una favola, un’illusione, una legge scientifica che si allarga all’infinito e di cui è possibile averne traccia soltanto scrivendo.

Ecco, il principio del risparmio energetico è anche una via per il recupero di questa energia che altrimenti andrebbe completamente dispersa.

E la poesia?

Un tesoro nascosto che viene messo a disposizione di tutti, distribuita in parti uguali. Basta metterla tra le labbra per riconoscere il sapore di caffè o di pasta cotta al punto giusto, senza dolcificanti, adulteranti e conservanti.

ALINA OVVERO TROTTOLE PATTINANO SUL FUOCO

Eredia sogna di assomigliare a un quadro di Vermeer (…)

“La bianca geisha beve un puro élixir artigianale
si ritrova a undici anni sul ramo di un fico
mangia qualche frutto maturo mentre disegna uccelli sul suo taccuino”
(…) [Marie Laure Colasson]
….

Alina crea musica per Don Quijote
E il conto dei reincarnati non torna.

Suo il volo su un ramo d’oro e dunque
la medaglia che afferra il petto.

Alla domanda:- tu come vorresti rinascere
la gabbia rispose “cardellino”

ma si aprì un cratere sotto i piedi
per rivedere la lava del 79.

In effetti il cruscotto e le mani attaccate
vedevano un buco sul sedile del guidatore

il posto delle domande era accanto al crick
nel portabagagli ci si eleva facilmente.

:-Un’ombra seduta vale quanto un uomo?
Che serve saperlo all’estinzione?

Tutti questi sforzi per allargare
una bolla che si gonfia da sola.

Dio creò le rotatorie abbandonando i semafori.
Ora si tratta di capirne il motivo.

C’è sempre una luna verde che non cede il posto
E soprattutto crede di avere il rosso nelle vene.

: -Non mi guardano i cartelloni con la tigre.
Si esprimono meglio i pini su via Napoli

E se intervengono i colombi, è per dire
Che il neon non si mescola all’ asfalto.

Il trucco è negli occhi di Cabiria
Sotto ponte Adriatico

Nemmeno il conto dei buchi torna. Bisognerebbe stuccarli
E aspettare un miliardo di notti per farli secchi.

Ma il tempo sa come andarsene in fretta.

Il diamante sul comò mostra una crepa nelle risposte.
Il lungo periodo ha generato domande insostenibili.

Perdere acqua, sfiorire sotto gli occhi
Cotto a zero Kelvin e a cielo morto.

Quest’anno le galline partoriranno stelle
e viceversa la Via Lattea Rodolfo Valentino.

Anche la certezza si mescola ai pini.
Crea bolle e mostra che ogni tronco è un prisma.

Il gatto nero s’è dissolto nello scafo
All’ avvio modulava un lamento materno.

Ma non mosse un artiglio
per afferrare una ragno di TV.

Alina invece ha un salto triplo
Per fotoni del big bang.

Il risultato? Un Sole nella cucina
di passaggio tra frigo e lavatrice.

Uno degli Universi paralleli
al Botero sul divano, ovvio.

Giorgio Linguaglossa

Scrive Francesco Paolo Intini:

Pronto? Qui è via Omodeo, mi passa Brooklyn?

Si tratta di una permutazione: si sostituisce il nome o il pronome personale con un oggetto in-animato. Di permutazione in permutazione, di sostituzione in sostituzione, di s-postamento in s-postamento, di postazione in postazione è questo il metodo che impiega l’autore. Voi direte: piuttosto monotono. Sì, rispondo, monotono, ma vero, non fa sconti, non si stempera in compromessi e in patteggiamenti. Il metodo è la posizione nel mondo del soggetto. Scelta una posizione nel mondo, quello che ne deriva è un certo metodo, una «implantologia di elementi» come dice Mario Gabriele. La posizione nel mondo è il luogo dove il soggetto soggiorna, indica il modo di es-sere e di comportarsi, descrive un ethos, un’etica.

La poetry kitchen ha un concetto fortemente etico del fare.
Non è compito della poetry kitchen fondare scuole, istituire peripati o gerarchie poetiche, commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché; la poetry kitchen non si pone neanche come mera risorsa stilistica o come un contenuto veritativo che non c’è, ma come effetti di un contenuto veritativo che rimane occultato, effetti di effetti, riflessi di riflessi. Si pone semmai come un fuori questione della poiesis. La poetry kitchen può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere. Così è se vi piace.

La poetry kitchen è un ossimoro. In greco, oxymoron vuol dire «acuta follia». C’è, infatti, dell’acuta follia a mettere insieme termini in apparenza così distanti e inconciliabili come il pop, cioè il popolare, e la poesia, la disciplina più elitaria, almeno se la si pensa in termini di disciplina di nicchia riservata ai professionisti della «poesia». Ma, se si esce da questa visione angusta e mortifera che concepisce la poesia come un discorso fatto da cerchie ristrette di professionisti auto nominatisi «poeti» per cerchie ristrette di altri auto nominati «poeti» che non sempre si capiscono tra di loro, ecco che allora l’ossimoro non sarà più tale.

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Poetry kitchen, la nuova cottura degli spaghetti, La Ratio dell’economia politica dei significanti e dei significati, Poesie di Francesco Paolo Intini, Simone Carunchio

Magritte

[Elaborazione grafica di Lucio Mayoor Tosi, Dialogo kitchen su opera di Magritte]

Giorgio Linguaglossa

In una poesia “X” puoi rilevare che c’è un ordine dei significanti e un ordine dei significati, e che tra i due ordini c’è un nesso.

In ogni poesia degna di questo nome si dà una ratio dell’economia politica dei significanti e una ratio dell’economia politica dei significati. Ma ratio + ratio, il risultato non è una ratio al quadrato ma una irrazionalità complessiva del sistema. È questa irrazionalità complessiva della ratio che la poetry kitchen vuole scardinare. E questo è un atto politico.

Per comprendere alla radice l’operazione di Mario Gabriele e della poetry kitchen penso che si debba pensare intensamente alla parola come una rappresentazione a-patica, sostanzialmente non-emotiva, priva cioè della sua funzione emozionale.

Qualcuno si chiederà legittimamente: Ma perché occorre far questo?. È perché se noi intendiamo il linguaggio come un qualcosa che consente l’empatia tra il soggetto e la parola, allora siamo fuori binario, ricadiamo nelle poetiche del novecento italiano e di questi ultimi due decenni epigonici. Nelle versioni della nuova poesia (che vanno da Mario Gabriele a Vincenzo Petronelli), l’empatia risulta barrata, barrata dal soggetto barrato. L’empatia risulta sbarrata, impossibilitata.

Questa scissione che si è introdotta tra la parola e il soggetto è un fenomeno del novecento, ma le prime tracce di questo fenomeno si trovano in The waste land di Eliot (1922).

Se ci ragioniamo un momento, questo fenomeno di Spaltung, di Scissione, ha reso evidente una seconda manifestazione: il raffreddamento delle parole, le parole tendono a perdere progressivamente risonanza emotiva. Questo è un dato di fatto inoppugnabile tipico delle società dell’ipermoderno telematico. Questa fenomenologia indica un mutamento delle condizioni ontologiche in cui si trovano i linguaggi, e i linguaggi poetici non possono non percepire e recepire questo lento ma profondissimo bradisisma che interviene, giorno dopo giorno, a determinare enormi mutamenti del linguaggio e del linguaggio poetico.

Guido Galdini

Restando in cucina (il nostro ambiente naturale) questa è la cottura passiva: come far cuocere gli spaghetti a fuoco spento.

Quando l’acqua raggiunge il bollore, gettare gli spaghetti e dopo due minuti mettere il coperchio e spegnere il gas. Il tempo necessario alla cottura è lo stesso di quella tradizionale, ma, in questo modo, oltre a risparmiare il gas, si evita la dispersione di amido e di glutine, la pasta assume un gusto più corposo e nello stesso tempo è più digeribile.

È da provare sia in cucina sia in poesia.

Giorgio Linguaglossa

caro Guido,

il principio del risparmio energetico (del gas nel caso degli spaghetti), è sicuramente un principio degno di essere seguito. Pescare tra gli ingredienti che ci sono in cucina per fare una poesia significa proprio questo. Gettando nella discarica il Sublime, l’io, l’epifania e il significante dispotico dell’Edipo…

Tiziana Antonilli

Caro Giorgio, hai ragione quando descrivi ‘L’Immaginario del Politico’ nel nostro ‘martoriato Paese’. Penso, però, che ci siano altri Paesi che non possono invidiare il nostro circo. Inghilterra e Stati Uniti, con Boris Johnson e The Donald, ,hanno dato e danno uno spettacolo degno di Cinecittà, il grande Fellini avrebbe concepito un film indimenticabile. Anche io mi sono divertita leggendo la fuga della gallina, ma concordo con Marie Laure Colasson, non la mangerò. Complimenti per il tuo articolo,per l’antologia, per gli interventi e i per i commenti, mi sono gustata tutto.

Francesco Paolo Intini Continua a leggere

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Cover della Antologia della Poetry Kitchen, Il collasso dell’ordine simbolico, il Punto X, Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina, di Giorgio Linguaglossa, Poesie di Ewa Tagher, Marie Laure Colasson

Poetry kitchen cover

[Ecco la cover della Antologia della poetry kitchen in via di allestimento, opera grafica di Lucio Mayoor Tosi, che segnerà il coronamento di un percorso di ricerca che dura ormai da vari anni. L’Antologia, ovviamente, comprenderà gli autori che con più continuità e determinazione si sono mossi in questa direzione di ricerca]

Giorgio Linguaglossa

Il punto X

La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente, non si pone più il quesito del perché qualcosa ha ragione di esistere e qualche altra cosa no, tutto esiste contemporaneamente, magari in un’altra dimensione, e quindi tutto è contemporaneo. Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina. Tutto dipende da ciò che abbiamo in dispensa, in cucina… a portata di mano. E la poesia la si fa con ciò che abbiamo a portata di mano.

Lacanianamente, il Simbolico è sempre mancante in un punto X. Il punto X è il punto non rappresentabile della rappresentazione. In quel punto il Simbolico non è simbolizzabile. Ma questo significa semplicemente che il Simbolico è simbolizzabile proprio grazie a quel buco lasciato vuoto, grazie a quel punto non-simbolizzabile.

Il processo simbolico funziona così, da un lato opera entro un contesto fantasmatico, dall’altro implica una X non simbolizzabile, un «nucleo reale-impossibile» (dizione di Slavoj Žižek ), un punto vuoto, un punto cieco che inghiotte il Simbolico e che ne consente l’emersione. Ecco che la triade Reale-Simbolico-Immaginario comincia a prendere profondità e senso: il Simbolico è sì la dimensione dominante nell’uomo, ma essa, proprio perché umana, non è concepibile indipendentemente dal Reale (che forclude e che presuppone) né dall’Immaginario da cui è fondata e che continua a suscitare.

Nel seminario lacaniano RSI del 1974-5 questa emergenza fondamentale riveste una funzione psico-sociale, un aspetto individuale-collettivo: la costellazione Immaginario-Simbolico-Reale si dà in un nodo borromeo in quanto discende dal funzionamento dialettico: il Reale è la mancanza che si iscrive nel Simbolico, e l’Immaginario è la cornice fantasmatica che consente al Simbolico di emergere.
Quand’è che si incontra il Reale? Rispondo: la poiesis è il luogo ideale dove si incontra il Reale nel suo travestimento nel Simbolico.

«Quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio- un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic- che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso» (S. Žižek 1999, p.32)
Per esempio, ciò che emerge dal Reale è l’immagine del «tram addormentato» in questo verso di Marie Laure Colasson in chiusura di una sua poesia:

«Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato»

dove è evidente che ciò che è inverosimile e inappropriato (la metafora di «un viso mal rasato e sudato» che equivale al «tram [che] si è addormentato), diventa invece perfettamente verosimile e appropriato.
Questo verso «tradizionale», quasi lirico, posto in chiusura di una poesia kitchen, aumenta a dismisura l’effetto di straniamento della poesia, la rende inesplicabile e insondabile in quanto riporta nel Simbolico la faglia, la schisi che si è aperta nel Reale.
Il Punto X è, in ultima analisi, un Enigma.

Poetry Kitchen Topologia del poetico Cover
di prossima pubblicazione

Marie Laure Colasson

[Marie Laure Colasson è nata a Parigi il 1955 e vive a Roma. È stata ballerina di danza classica. Attualmente insegna danza classica e contemporanea, è coreografa e pittrice. È in preparazione il suo primo libro di poesia, Les choses de la vie.]

Una mia poesia kitchen, tratta dalla raccolta Les choses de la vie di prossima pubblicazione.

12.

Antibiotique citrobiotic probiotique patriotique
Napoléon des tics des tocs pour des yeux verts mimbés de soleil

Un chat voluptueux enfile sa robe indienne à pois
et discute fermement avec les angrais de compostage

Des particules élémentaires au ventre proéminent
montent dans le tramway n’aboutissant à rien

Zigzag le chien de Madame Bonjour avec un lorgnon d’écaille de tortue
lèche une glace au chocolat en conduisant sa Porsche

Eredia rapide s’habille d’illusions électrocinétiques
se rend 11 rue de Nulle Part pour y voir un film muet

Ville palladienne ensoleillée Londre est en effervescence
la couronne de la Reine Elizabeth a disparue
avec le soleil au petit matin

Le tramway s’est endormi comme un visage mal rasé et en sueur Continua a leggere

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L’implosione dell’ordine Simbolico e l’Immaginario, La poetry kitchen, La poesia buffet, Poesie di Alfonso Cataldi, Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa

 

Foto 1 2 3Giorgio Linguaglossa

L’implosione dell’Ordine Simbolico

Come si fa a capire qualcosa della poetry kitchen se non la si pensa entro quel rivolgimento che è l’implosione dell’Ordine Simbolico?

L’epoca moderna non solo tende a produrre comportamenti psicopatologici  ma si configura come una società ad alta incidenza di psicopatologie diffuse, psicopatologie di massa, innocui disturbi della psiche o perturbazioni dell’attività fantasmatica.
La diffusione del fantasma a livello di massa nella attuale fase di sviluppo del capitalismo va di pari passo con la diffusione delle psicopatologie non più come mero «sogno ad occhi aperti» di Freud ma come una vera e propria liberazione dell’Immaginario, è questa la caratteristica saliente della implosione del Simbolico.
Il postmoderno segna l’epoca della crisi dell’Ordine del Simbolico. Tale crisi nasce dal fatto che nel postmoderno vengono a maturazione due situazioni che per Slavoj Žižek sono indicative di un difetto strutturale della funzionalità del Simbolico: rimane in questo Ordine una carenza di fondo per cui vi è sempre un resto, un residuo del Reale non simbolizzato, un «qualcosa». Il Simbolico per funzionare necessita sempre di un supporto fantasmatico ovvero di quell’ancoraggio tra la realtà psichica e la rete dei significanti. Il fantasma è ciò che per il soggetto prende posto nel reale e lo supporta, lo sostiene. È destino del fantasma andare al seguito della catena del significante.
L’Ordine Simbolico o Grande Altro, per Lacan comprende la legge e il potere e si presenta con molteplici e complessi aspetti. È l’Ordine che fa da barriera al Reale con le sue forme di godimento ed è titolare dell’importante funzione di tenere insieme l’Immaginario e il Reale. L’accesso all’Ordine simbolico (rete dei significanti e linguaggio) comporta l’alienazione del soggetto, prezzo che questi deve pagare per raggiungere una identità purchessia. È il prezzo da pagare per essere assoggettato.
L’Ordine Simbolico o Grande Altro, alla fine del postmoderno tende a collassare rendendo evidenti le patologie della struttura, dando così origine alle innumerevoli patologie identitarie di oggi: psicopatologie diffuse, narcisismi patologici, fondamentalismi, misticismi, esoterismi, integralismi religiosi, integralismi politici, personalismi, presenzialismi, manie e fobie le più varie etc. Il Reale diventa un Immaginario popolato di spettri. E gli spettri ritornano nell’Immaginario, popolandolo.

Queste perturbazioni della nostra società sono presenti in amplissima misura nella poetry kitchen o nella poesia buffet che pescano le proprie risorse nelle perturbazioni e nelle patologie dell’Immaginario.

L’Immaginario

È pensiero della filosofia contemporanea che l’immaginario sia mantenuto in vita artificialmente. Ed è vero, la religione telemediatica mantiene in vita l’immaginario, lo coltiva, lo concima, lo forgia. Quando vediamo un film o leggiamo un romanzo o una poesia riconosciamo subito l’immaginario che li popola. È l’Immaginario a fornire l’alfabeto, il lessico e la sintassi delle «istanze di verità», che piega alle sue ragioni le ragioni del logos. Chiediamoci: la poesia di Gino Rago, di Francesco Paolo Intini, o quella di Mauro Pierno sono un prodotto di artificio?, di maniera? – come qualcuno ha obiettato -.

Io penso il contrario: senza una ricerca si cade dritti nella maniera e nel manierismo. È invece la ricerca che ci consente di evitare il manierismo. Di solito prendiamo per buono l’immaginario che ci consegna l’ideologia dominante, ma la poesia che ne risulta diventa un epifenomeno dell’ideologia e nient’altro. Anche la poesia fa parte dell’ideologia, ne è parte integrante, fa parte della visione del mondo di un’Epoca. Qualcuno dice che Sì, si tratta di un irreale (l’Immaginario) che procede da una realizzazione linguistica (il Simbolico). Altri sostengono che la poesia sorga da una duplice istanza di verità: è vera per me che la faccio e per te che la leggi. Ma anche questo argomento che riporta tutto al soggettivismo a me sembra specioso. Ma, in fin dei conti, che cosa significa «istanza di verità»? È il logos che muove l’istanza di verità o accade il contrario?

La poetry kitchen vuole rimettere tutto in discussione, in primis l’Immaginario maggioritario e il logos che lo racconta. Il movimento della coscienza è intenzionale e inintenzionale insieme, noi vediamo solo le cose che l’inconscio ci suggerisce e non altro. Nel caso dell’immagine il correlato della coscienza è preso di mira come ciò che non è sottoposto al mio sguardo, anzi, che non dipende dal mio sguardo, anzi, tanto meno dipende dal mio sguardo tanto più quella immagine sarà vera, sarà «istanza di verità». Sono «istanza di verità» anche ciò che viene espulso dalla «verità», ciò che non è ritenuto degno di entrare nella «verità».

È questa la novità della poesia buffet. O poetry kitchen.

Francesco Paolo Intini

 Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: “ NATOMALEDUE” è in preparazione. 

Scatto dopo scatto

Sul maniglione era scritto: “QUI SI VIVE”.
Meglio non aggiornare il tasso d’ateismo.

A ogni tocco uno scatto di mamba.
Ma qualcosa andava storto.

Cruscotto in moto. Uteri allevati da feti.
Secondo scatto, chiusura della cataratta.

Gli uomini del porto cavalcarono alici

muovendo il vento
distillarono cobalto.

Da qui non si passa.
Se guardi bene troverai una galassia.

Costruirono la Luna di Flaiano riciclando caffettiere
Così prese a pendere sugli intellettuali.

Restavano versi a sé, nudi del racconto
Senza alcun ritegno, urati del dolore

Vista sulle Alpi con bagnanti
Mossa di caffè che gira cucchiaini
.
Nessuno sapeva come trasformare un po’ di massa
in termini di Io.

Il rischio di rimanere sepolti
da una pioggia radioattiva.

Tra chi lascia l’ostrica con la perla al collo
e i forzati della parola,

Il pesce nuvola di Hiroshima.
Esploso di una brocca.

Ad oganesso sotto controllo
Il Dio delle previsioni toccava ferro. Continua a leggere

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Sulla poetry kitchen da una visione marxista, di Giorgio Linguaglossa, Strutture dissipative, acrilici di Marie Laure Colasson, 2014-2020, Una poesia kitchen, Scrive Wittgenstein: Quanti tipi di proposizioni ci sono?

Marie Laure Colasson 50x20 Struttura 2020
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×28, acrilico 2020]

Marie Laure Colasson

da Les choses de la vie

Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král

Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez

Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur

La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir

Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages

Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible

La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable

Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.

*

Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král

Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso

Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero

La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio

Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi

Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile

Finita la deboscia i gabbiani
lasciano impronte sulla sabbia

Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico 2014]

Scrive il filosofo Slavoj Žižek:

«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

La «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (Stige. Tutte le poesie 1990-2002, Progetto Cultura pp. 150 € 12) ha bisogno dell’oggetto. È solo sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto, la struttura tragica.. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati, precisi. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo.

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L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica, La poetry kitchen, Duetto in poesia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Backstage della storia di una pallottola, Storia italiana del Covid19

foto Lucio Mayoor Tosi Washington Il Colosseo

composizione di Lucio Mayoor Tosi

L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica

La poetry kitchen

Penso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non abbia a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante, nullificatorio. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
L’Evento è l’esito di un incontro con un segno.

I testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop o poetry kitchen. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica possibile che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si dis-loca in una dimensione post-metafisica.
In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio del dominio (Herrschaft) del sistema amministrato.
La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio pseudo-veritativo.
La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch.
La pop-poesia non redige alcun referto, alcun senso del mondo e nessun orientamento, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa veritativa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata tuttalpiù una pratica, né più né meno, un facere.
Così è se vi piace.

(g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Storia italiana del Covid19
VII parte

Così si espresse il Signor Covid19 nei confronti di Tomasi di Lampedusa.
«Beh, adesso mischiamo un po’ le carte, ne abbiamo abbastanza della storiella d’amore fra Tancredi e Angelica.
Il romanzo deve essere rivisitato e riscritto.
Facciamo così, caro Tomasi.

Facciamo che Angelica esce dalla sala da ballo de Il Gattopardo
di Luchino Visconti,
entra nella Tempesta di Vivaldi e balla di nuovo il valzer con il principe Salina.
Il secondo valzer di Shostakovich.

Poi, mettiamo che Tancredi cade ferito a morte nella battaglia di Calatafimi.
Diciamo che la storia finisce così e il romanziere deve scrivere di nuovo il romanzo.
E qui viene il bello.
Adesso è Nino Bixio che uccide alle spalle Tancredi
per gelosia, per invidia, per tradimento
mentre l’esercito borbonico si ritira…

Angelica fa ingresso di nuovo nel salone degli specchi
con il candido guardinfante.
Nino Bixio danza e sposa la bellissima Angelica.
E Tancredi diventa un nome tra le croci dei morti del cimitero
della battaglia di Calatafimi…

Facciamo così, mi creda, caro Tomasi.
È meglio così».*

* Ecco una variante de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
alla maniera della poetry kitchen

Gino Rago

Backstage della storia di una pallottola

Nino Bixio danza un valzer con Angelica nel film di Luchino Visconti
Il Gattopardo e la bacia di nascosto, dietro un tramezzo.
Tancredi lo scopre. Sfida a duello Nino Bixio.
I duellanti si dirigono verso una radura
nei pressi di Donna Fugata.

La pallottola di Bixio colpisce al cuore Tancredi che cade privo di vita.
E così Tomasi di Lampedusa deve riscrivere il romanzo
e Luchino Visconti rifare il film.

La pallottola poi prosegue per proprio conto.
Si traveste da Azazello
e si presenta al commissario Ingravallo
il quale nel frattempo è stato trasferito a Campobasso,
gli dice che il vero responsabile di tutto questo trambusto
è il noto critico letterario Linguaglossa
il quale ha operato con i favori del gattaccio Azazello de Il Maestro e Margherita
e la complicità del mago Woland.

E allora che succede?
Succede che la battaglia di Calatafimi è vinta dai borbonici
i quali respingono i garibaldini verso Milazzo,
li obbligano a fuggire sul piroscafo e a tornarsene verso Genova.
E Garibaldi?
L’eroe dei due mondi si ritira sull’isola di Caprera, in esilio,
la missione è fallita
e il Regno delle due Sicilie canta vittoria.

Madame Colasson accorre al capezzale di Tancredi,
gli dà un bacio sulla guancia e quello resuscita,
uccide il rivale Nino Bixio con un colpo di pistola sulla fronte
e si presenta dal romanziere Tomasi di Lampedusa
recriminando che deve riscrivere di sana pianta il romanzo
perché le cose sono andate così e così.
E allora il povero Tomasi riscrive per la terza volta Il Gattopardo
e il regista Luchino Visconti gira anche lui per la terza volta il film.

*

Foto Three Portrait

Vicissitudini di una pallottola

La pallottola in argomento entra nella camera di Kavafis, sfiora lo scaffale con i due vasi gialli senza fiori, entra nell’anta destra dell’armadio a specchio, esce dalla finestra e colpisce un garibaldino, l’attendente di Nino Bixio al polpaccio sinistro.

A meno di un metro da Artaud che sta leggendo i necrologi su “Le Figaro”. Cadono tappeti turchi, sedie di paglia viennese, federe, cuscini in piuma d’oca, un divano color amaranto, gabbie di canarini, barattoli di marmellata, bicchieri e bottiglie in plastica, posate d’argento, una confezione di guanciale di Ariccia, una copia di Ritorno a Birkenau di Ginette Kolinka.

A Piazza Santa Maria alla Minerva di Roma l’elefantino butta giù l’obelisco, entra nel Caffè Sant’Eustachio, frantuma tazze, confezioni di cioccolata, scatole di latta piene di biscotti, sacchi di iuta. Poi beve un caffè, ruba un cornetto al cioccolato, succhia il cappuccino dalla tazza di porcellana di Marie Laure Colasson la quale, visibilmente irritata, si toglie dai capelli una forcina appuntita, e la infila nella proboscide coperta di schiuma da barba dell’elefantino il quale, alla chetichella, se ne torna sotto l’obelisco.

Pennac, Robbe-Grillet, Queneau e Perec si recano all’Ufficio Affari Riservati al quinto piano di via Pietro Giordani. Il direttore, il noto critico Giorgio Linguaglossa, è assente, nessuno dei presenti ha notizie di lui. Due stanze sono affittate a uffici commerciali, le altre abitate da sensali, affaristi, lobbisti e cambia valute.

Madame Colasson lancia dal balcone di casa propria in Circonvallazione Clodia n. 21 una copia del saggio di Italo Calvino La poubelle agréée su un gabbiano che insegue un piccione che rovista in un immondezzaio.

Dall’appartamento al quinto piano di via Gaspare Gozzi piovono sull’asfalto copie di Le parole e le cose di Michel Foucault, di La vita delle cose di Remo Bodei, di Il Museo dell’innocenza di Oran Pamhuk, di Dalla vita degli oggetti di Adam Zagajeski.

Marie Laure Colasson rientrata in cucina si prepara un frullato di frutta di stagione mentre scrive l’ultima poesia della raccolta Les choses de la vie.

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Il post-moderno, L’evento, Il destino dell’arte, Monumentalità e ornamentalità, La perdita del centro, Poetry kitchen, Giorgio Linguaglossa, Poesia di Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Zero, acrilico, Struttura dissipativa

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Marie Laure Colasson Zero Struttura dissipativa 2012

Marie Laure Colasson, Zero, Struttura dissipativa, acrilico 30×30 cm, 2012

Giorgio Linguaglossa

Il Signor K. ha comprato la macchina felice, che impedisce di toccarci
e di pensare.
Così, siamo diventati tutti felici.

il post-moderno 

Il post-moderno significa pensare ciò che fa riferimento alla modernità. Noi pensiamo la modernità come «quell’epoca per la quale l’esser moderno diventa un valore, anzi il valore fondamentale a cui tutti gli altri vengono riferiti»,1 in cui, secondo Heidegger, «l’essere svanisce nel valore di scambio».

Epoca della Diesseitigkeit, dell’«Al di qua». La modernità è l’età della de-fondamentalizzazione e della fede nel «progresso» e nel «nuovo» come valori fondamentali.

Gianni Vattimo sostiene che questa «essenza del moderno diviene davvero visibile solo a partire dal momento in cui […] il meccanismo della modernità si distanzia da noi»;2 e questo avviene perché il valore dominante il moderno, il «nuovo», è entrato in crisi, si è dissolto. In questo consiste il post-moderno: in virtù della crisi del valore del «nuovo», della dissoluzione della credenza nel «progresso» il cui carattere normativo è stato sottolineato da tutte le forme di modernismo artistico e culturale, non v’è più un fine, una direzione della storia.

Dunque, non c’è più la storia.3 L’esperienza della temporalità non è più quella della successione lineare di istanti che era apparsa fino all’epoca moderna come temporalità naturale, ma quella di una temporalità circolare, eventuale, evenemenziale.
È l’evento ciò che fonda la temporalità. Questa acquisizione mette in discussione la temporalità rettilinea e naturale con la quale il moderno ha prosperato. Invece la temporalità dell’esperienza poietica diffrange e interrompe il flusso lineare della temporalità naturale, istituisce una storia che diviene la dimensione propria del post-moderno.

Pensiamo al celebre gesto di Duchamp che esibisce in un museo un orinatoio come opera d’arte. In un colpo solo Duchamp derubrica la categoria filosofica del «genio» creatore, mina dall’interno il concetto di opera d’arte, ironizza sullo statuto ontologico dell’immagine, ironizza sull’arte come istituzione, rende evidente la infondatezza delle categorie estetiche su cui si basava il tradizionale concetto di arte. Il ready made, la real thing fanno ingresso così a pieno titolo nell’arte. Anche nell’arte poetica la real thing fa ingresso a pieno titolo come citazione, articolo di cartoleria letteraria, detto comune, frase fatta, dizione scientifica, forma idiolettica, formula da bugiardino etc. Di questa pratica poetica vorrei ricordare la poesia di Ennio Flaiano che negli anni cinquanta compone delle poesie assumendo nel testo frasi fatte, luoghi comuni, dizioni pubblicitarie facendo cozzare il lessico pubblicitario e colloquiale con il lessico della tradizione illustre.
Ormai non c’è nulla di bizzarro se la poetry kitchen assume alle proprie dipendenze la real thing e ne fa una categoria centrale della prassi artistica. Ennio Flaiano rappresenta la prima geniale anticipazione di una poesia costruita interamente di rottami e di lessici pubblicitari.

L’evento

«è l’aprirsi degli orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere»; esso non è nulla al di fuori del suo accadere come prospettiva del mondo. Dunque, dire che l’opera d’arte «mette in opera la verità», significa che la verità si costituisce e si mostra nel mondo da essa fondato. Il rapporto tra opera e verità non è perciò esteriore, ma interno, perché la verità non è se non il suo accadere secondo prospettive di mondo dischiuse dall’opera d’arte. L’accadere della verità nella e attraverso l’opera derubrica la concezione della verità come adeguazione e conformità di parola e cosa, l’accadere della verità «è l’aprirsi degli orizzonti storico-destinali entro cui ogni verifica di proposizione diviene possibile».
L’arte è allora quell’evento inaugurale «in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole umanità storiche».4

Il destino dell’arte

Heidegger sostiene che l’opera d’arte è «esposizione» (Auf-stellung) di un mondo e «produzione» (Her-stellung) della terra. L’opera d’arte istituisce un mondo storico, inaugurando tra l’altro la storia delle sue interpretazioni (questo vale ovviamente soprattutto per le capolavori come la Divina Commedia, la Quinta sinfonia di Beethoven, il Guernica di Picasso, Hamlet di Shakespeare, che non soltanto esprimono il mondo da cui provengono, ma lo sovvertono e formano attorno a sé nuove comunità). L’opera produce, mette-avanti la terra, cioè «la riserva permanente dei significati, la base ontologica del fatto […] che l’opera non si lascia esaurire da nessuna interpretazione».5
La nozione di «terra» indica quella materialità dell’opera che costituisce lo sfondo del sistema dei significati aperti dal mondo. In quanto tale essa, come Heidegger invita a pensare negli scritti su Hölderlin, acquisisce i caratteri della physis, della naturalità che porta i segni del tempo, del nascere e del perire.
Questo venire in primo piano della dimensione temporale della terra differenzia l’«ontologia debole», l’«ontologia del declino» di Vattimo dalle prospettive utopiche «forti» di pensatori come Ernst Bloch, Adorno, Marcuse.

monumentalità e ornamentalità

L’opera d’arte ha per Vattimo i caratteri della «monumentalità» e della «ornamentalità». È monumento perché, come hanno sottolineato alcune teorie estetiche del novecento, suo carattere specifico è l’auto riferimento, la non transitività, la sua dimensione di «“segno” che non si lascia consumare nel rinvio».
Non bisogna però pensare l’arte nel quadro di una filosofia della coscienza, la quale non è, per Vattimo, che il risvolto della metafisica dell’oggetto. L’auto riferimento del linguaggio poetico non sarebbe da intendersi come la condizione della libertà del soggetto da contrapporre alle pratiche del linguaggio nella vita del mondo amministrato, come vorrebbero le posizioni «forti» della Scuola di Francoforte. La monumentalità si dà nel suo essere traccia, resto, residuo, segno della finitezza, della mortalità, del carattere transeunte e non trascendentale delle «forme di vita». L’arte del post-moderno è da intendersi alla luce della nozione di «ornamento», di «decorazione». Per Vattimo nella nostra epoca l’arte assume un carattere decorativo, ornamentale, in quanto oggetto di una percezione distratta, non di un atteggiamento estetico disinteressato. Nella stagione del post-moderno, dell’estetizzazione del mondo, l’ornamento è la forma in cui l’opera viene fruita, recepita, in cui essa si dà.

perdita del centro

L’arte non è più al centro della polis nel mondo amministrato e, in quanto ornamento e decorazione della vita, svolge un ruolo sempre più periferico e inessenziale. Poiché l’esperienza post-moderna è quella della perdita del centro, il ruolo periferico dell’arte diviene, paradossalmente, sempre più critico in quanto luogo della conflittualità e delle contraddizioni dell’epoca. L’opera non è un oggetto per un soggetto che, in atteggiamento «disinteressato», trovi nella verità astratta dall’opera una verità più vera; ma ciò che decora, istituendole, le forme di vita che noi viviamo. La capacità dell’arte moderna di soddisfare i bisogni spirituali dell’oggi è diventata problematica, l’arte moderna non svolge più una funzione culturale analoga a quella che le spettava nella pólis greca, non rappresenta una guida efficace per l’azione del cittadino nel mondo amministrato delle società post-democratiche. La crisi di rappresentatività dell’arte moderna la relega in una funzione decorativa e ornamentale del tutto inadeguata ad esprimere la sensibilità e la spiritualità della civiltà moderna. L’arte che richiede una interpretazione è l’arte che non è più rappresentativa del mondo e che il mondo non richiede, né interroga. In questa costitutiva paradossalità l’arte può trovare oggi la sua unica ragion d’essere e l’unica giustificazione per la sua periclitante e larvale esistenza. Nelle forme più acute di percezione di questa problematica arte ed ermeneutica si trovano su sponde opposte, divise da una scissione sempre più profonda e sempre più enigmatica. Continua a leggere

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Poetry kitchen, La poesia ha fatto ingresso in cucina, è una attività piccolo borghese, ordinaria, quotidiana, Poesie di Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Riflessione di Giorgio Linguaglossa, Particolari di Struttura dissipativa ZZY di Marie Laure Colasson

Particolare

Particolare 1

Particolare 2

[Marie Laure Colasson, Particolari di Struttura dissipativa ZZy acrilico, 50×50, 2020]

 

Sulla Poetry kitchen

La poesia ha finalmente fatto ingresso in cucina, ha lasciato i salotti degli intellettuali e gli androni con le colonne neoclassiche delle abitazioni borghesi e si è introdotta in cucina. È un’attività piccolo-borghese al tempo stesso ordinaria e generica (poiché tutti mangiamo, quindi appartiene al genere), quotidiana e individuale poiché il cibo viene preparato ogni giorno da ciascuno di noi.

Nella sua dimensione ordinaria e quotidiana, la cucina soddisfa i nostri bisogni più immediati, si lega alla dimensione intima della casa, assolve un bisogno umano ma anche, consente differenze di stile e ingegnosità, fattori che producono piaceri fisici e intellettuali. Le possibilità estetiche della cucina sono dunque presenti fin dall’inizio della storia dell’homo sapiens in quella che si può definire come il sito dell’abitare per eccellenza qual è la casa, con il suo logo più importante: la cucina come luogo di confezionamento e consumazione dei cibi.

Poetry kitchen dunque come manufatto costruito in casa con gli utensili che abbiamo sotto mano tutti i giorni: i piatti, le padelle, il coltello, la forchetta, il sale, lo zucchero, lo zenzero e la curcuma, gli aromi… senza il bisogno di indossare panni aulici o «sartorie teatrali». Scrivere in modo dimesso e dismesso, senza fronzoli o abissali angosce o insondabili epifanie; una poesia, diciamo, frittura di pesce, poesia omelette, poesia usufritta, fatta in padella, ascoltando il tiggì de “La 7” e i telegiornali di regime, magari masticando delle noccioline o trangugiando patatine fritte.

Per Platone l’essenza dell’arte (naturalmente nel significato di saper produrre) consiste nell’imitazione delle cose del mondo che, a loro volta, sono imitazioni delle idee. In questa prospettiva, dunque, la cucina sarebbe ancora più lontana dal mondo vero di quanto lo sia l’arte. Il principale argomento a tale riguardo si trova nel Gorgia. Vale la pena ricordarlo brevemente.

Socrate e Polo stanno discutendo di retorica. Socrate sostiene che essa non sia affatto un’arte, ma una mera pratica volta a produrre piacere. Polo chiede allora a Socrate che cosa ci sia di male nel produrre piacere. A questo punto, Socrate propone il paragone tra retorica e cucina: anche cucinare è un’attività che produce piacere ma, come per la retorica, si tratta di un piacere illusorio.

È dunque attorno al tema dell’illusione che ruota l’argomento platonico contro la cucina come arte: i piaceri che lusingano sono illusori, dunque falsi, perché prodotti da attività che simulano di essere vere arti. Socrate va avanti con gli esempi mostrando che sia la retorica sia la cucina rappresentano appunto il polo negativo e illusorio dei veri piaceri dell’anima e del corpo. Rispetto alla retorica, la politica è vera arte, perché mira al bene sociale; rispetto alla cucina, vera arte è la medicina, perché mira al bene del corpo. (Platone, Gorgia 461c- 464d).

Fare poesia kitchen non vuol dire ovviamente fare poesia gastronomica, vuol dire semplicemente fare poesia con gli oggetti e gli utensili che troviamo in cucina: il martello, i chiodi, il mestolo, l’imbuto, il cavaturaccioli… e gettare nella immondizia gli alambicchi sublimi della falsa metafisica della poesia di pessimo gusto che si fa oggi. La poesia da salotto, la poesia salottiera che si fa per il circolo di letterati di riferimento è una poesia nata già morta, una poesia da obitorio. Ad essa propongo la sostituzione con la poesia da cucina.

La filosofia dell’arte è giunta a rivelare, dalla “Fontana” di Duchamp in poi, come un qualsiasi oggetto quotidiano può diventare arte. Allora, non serve necessariamente decontestualizzare l’oggetto o defunzionalizzarlo, e neppure esporlo in un luogo o in un momento determinato, dacché l’unico gesto che conta non è affatto un happening o una performance – roba per chi non si è ancora liberato del plebeo gusto dello spettacolo circense – bensì il fatto mentale, l’idea, la volontà, la pura essenza del fatto arte.
Solo così tutto può ri-diventare finalmente arte senza toccare nulla della realtà materiale, delle sue proprietà, dei suoi usi, delle sue funzioni pragmatiche.
Solo così è la piena, finale attualizzazione dell’arte che restituisce alla realtà la sua piena, originaria pienezza, come all’alba della storia, quando ogni cosa poteva essere arte, anzi, era arte.
Ci vuole un grande coraggio per decretare questo definitivo fiat iperbolico: il mondo come ready made, mi correggo, il ready made come mondo.
Wittgenstein nei suoi scritti non cerca mai di convincere i suoi lettori, piuttosto si limita a proporre delle questioni. Implicitamente chiede al lettore di rispondere.
Significativo è questo appunto:

«Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto […]. Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri».1

Analogamente, se non si capisce che qualsiasi «real object» può essere «ready made» e può diventare arte per il solo fatto di inserirlo in un certo contesto, non si può capire nulla della poetry kitchen sulla soglia della quale il guardiano del faro, Mario M. Gabriele, ci invita ad entrare.

Un oggetto può essere arte a intermittenza?

Adesso sì, tra un minuto, no? – Un oggetto può essere un semplice oggetto nella vita di relazione («real things») e poi diventare un oggetto d’arte allorché viene posto in una teca, su un podio, in una vetrina di museo, in una vetrina da bar, nella teca di una galleria, etc.?

Così, una frase giornalistica, un evento di cronaca come quello dei 5 milioni e trecentomila euro del conto dormiente alle Bahamas del governatore della Lombardia, Fontana, può diventare un oggetto d’arte se e quando verrà inserito in una mia (o di altri) poesia? Che cosa è il differenziale che decide se esso sia arte o non-arte? –

È questo quello che fa la poetry kitchen: prende un oggetto o un evento della cronaca e lo traspone in un’opera poetica. E diventa, in virtù di questo semplice atto del creatore, un oggetto d’arte.

È squisitamente poetry kitchen la consapevolezza dell’evanescenza dei limiti tra un oggetto o evento della cronaca e un oggetto o evento d’arte.

Quella consapevolezza vivissima (possiamo dire quasi poetry kitchen) che guida Gozzano nello scrivere La signorina felicita con l’inserimento di una invenzione, un vero e proprio ready made per l’epoca, la Signorina Felicita in presa diretta, dalla vita domestica al quadretto post-idillico della poesia gozzaniana, fantesca e amante del giovane avvocato senza speranze e senza virtù. Continua a leggere

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Due poesie di Mario M. Gabriele da Remainders di prossima pubblicazione per Progetto Cultura di Roma, Poetry kitchen, La poesia dopo la fine della metafisica, Lettera di Giorgio Linguaglossa

foto Sigarette nazionali

Due poesie inedite di
Mario M. Gabriele

 

Il tragitto fu di breve durata.
Non furono i Dichtung
ma le pagine 233-238,
in particolare le pp. 236-237
a cambiare la vista del mondo.

Ciò che Orwell disse, fece rabbrividire mente e pelle
tra assenso e negazione.

Mister Gab,
la Pojetika vorrebbe averla tra gli ospiti
al Convegno sulle frantumazioni dell’anima
nei distici.

Ciò che è detto è detto, si sentì dire come risposta.
Ogni ermeneutica sul verso
è una mobilitazione delle raffigurazioni
e dei momenti.

La prima questione fu di Clark
abbandonando le mani di Charlotte
per una autodifesa del Nulla.

Anche in queste cose
ogni discorso diventa un percorso.

Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog
rientri nel silenzio dell’Essere.

Le rispondo Signore, ora che ho finito il Master
e posso discutere di Friedler
e della categoria di – visibilità pura-.

E’questione di coscienza,
e di come abbiamo trasmesso la nostra ontologia.

Quel Dichtung di cui parlava
ha bisogno di un mondo reale e tattile,
come le bucce di banane alla Conad.

E’ questo il punto ontogenetico
che ha fatto dire a Sibill:
Oh Paris, le Belles Lettres
allungano i quesiti, li denudano della loro origine
fino a morire nella Senna.

7

Un cocktail di Bull Shit inaugurò l’anno cinese delle candele.
Ci minacciavano Star Wars e L’Uomo che fuma.

Così rimanemmo al tavolo con Sara e Dora Moore
pensando allo scacco matto.

Cara Ketty, sono 14 anni che non mi muovo più dal letto
e ho le allucinazioni durante il giorno, disse Arianna.

C’è un esercizio, una specie di Yoga,
che si attacca al passato come il silicone.

A giudicare le cose come sono andate,
basterebbe che la luna se ne stesse un po’ in disparte.

L’occasione è buona
per dire: Lieber Freund wie geht es dir?

Sembra che Padre Michell, non voglia liberarci dal male
perché legati alla Passione, secondo Madame Bovary.

Sissy non si fa più sentire. E’ caduta nel disincanto
in una stanza di Prinsengracht 263.

Da inizio Gennaio fino alla quarantena
Ghebby ha seguito l’andamento dell’universo digitale.

Ne sa qualcosa Keurin dal suo paesino nella Brianza
che accomuna, mese dopo mese, remainders.

Nessuno sa come prendere un vagone,
ricordare La relatività con le 4 stagioni di Durell.

Kessy ha conseguito la laurea in modalità telematica
chiudendo l’esercizio accademico 2015-2016.

Oggi compie gli anni. Le presenterò mammy,
in photoshop, come quelle in bacheca a Bergen Belsen.

*
Filippo says:
agosto 9, 2020 at 11:12 am

Straordinaria poesia, che all’improvviso appare in un mare di insignificanza poetica e di espressioni formali assurde.

Lucio Mayoor Tosi says:
agosto 9, 2020 at 12:45 pm

Non un cambio soft, è piuttosto un acuto. Anche nella forma “intervista”, estranea alla tradizione, il poeta di talento lascia sempre e comunque il segno. Il distico è alle spalle (come aver vinto la Champions, che ancora non lo sa nessuno). La vita di ciascuno è tutto sommato breve, si lascia un segno là davanti, in quel nulla di cui tutti soltanto parlano. Mando un abbraccio.

da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-del-09082020/#comment-260

Giorgio Linguaglossa says:
agosto 9, 2020 at 5:23 pm

caro Mario,

penso che la tua pop-poesia possa essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura… un negoziante, un orologiaio, un barista, chiunque tranne che da un letterato.
«Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il tuo è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. E tu, da poeta sub-atomico, lo metti in evidenza, non fai nulla per nascondere, dissimulare o vestire il vomito.

Anche in queste cose
ogni discorso diventa un percorso.

Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog
rientri nel silenzio dell’Essere

L’hai detto tu: «il discorso diventa un percorso». Andiamo tutti quanti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo, diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto una volta Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbero sottoscriverle anche un filosofo marxista e magari ne verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.
Se consideriamo la nota tesi dell’esteticità diffusa propria della post-modernità (da internet all’arte pubblica, dagli spettacoli sportivi al design, dalla moda alla pubblicità, ecc.), l’idea di poiesis che ne deriva è un’arte come capacità di formazione di campi di comunicabilità e di intersoggettività, tesi che non può essere accettata se non come principio trascendentale di possibilità, dobbiamo tornare alla lezione di Kant e abbandonare le tesi acritiche che vogliono un’arte comunicazionale intersoggettiva. In tale accezione, la tua è una operazione di dis-attivazione del linguaggio ordinario e comunicazionale per convogliarlo in una nuovo campo intersoggettivo dove quel linguaggio viene denudato e riportato allo statu nascendi, spogliato delle sue proprietà della falsa comunione e comunicabilità e ricondotto alla dignità di un linguaggio ri-appropriato dopo l’esproprio subito ad opera del brigantaggio linguistico mediatico.

Una rapida ricognizione nella nostra libreria, ma anche uno sguardo superficiale alle esperienze artistiche del Novecento (la musica atonale, l’arte concettuale, il ready made, la real thing etc.) può farci facilmente capire che l’arte si riferisce sempre a paradigmi, grammatiche e valori condivisi. Talvolta questi valori sono labili e mutano molto velocemente, altre volte sono più stabili. È che da molto tempo non abbiamo più una tavola di valori stabili e condivisi. In tal senso, l’idea kantiana del sensus communis può essere accettata, una volta sgombrato il campo dalla desueta teoria delle facoltà dell’animo, per pensare l’arte non sulla base di un mondo fattuale e istituzionalizzato, ma in virtù delle sue capacità di istituire mondi possibili di comunicabilità.

Questo è il principio trascendentale dell’arte sul quale è incardinata la proposta di una poetry kitchen. Il trascendentale che tu poni in essere è la nuova comunicabilità intersoggettiva di un linguaggio de-soggettivizzato da algoritmo non più significativo a nuovo campo di possibilità espressive che tu trasponi e traduci in nuova comunicabilità intersoggettiva. Il trascendentale intersoggettivo della tua poiesis può significare l’idea della genesi della nuova condizione di possibilità in quanto condizione di possibilità di un campo di linguaggi denudati e mutilati che vengono dis-sepolti, dis-attivati e ri-attivati in un nuovo campo gestaltico qual è la poiesis. La poetry kitchen è questa dis-attivazione e ri-attivazione di linguaggi usurati e sclerotizzati reintrodotti in una struttura testuale che ne rimarca le magnifiche sorti regressive. E questo è il luogo e la giustificazione dei tuoi sintagmi e dei tuoi polinomi frastici ri-adottati come ready made, come real things che entrano in un nuovo campo linguistico intersoggettivo.
Una volta affermata la «fine della storia» e il tramonto della metafisica, insistere sulla ricerca di una nuova definizione dell’arte, sic et simpliciter, significherebbe commettere una delitto doloso, finiremmo per riutilizzare le categorie metafisiche dell’estetica del novecento dopo averne argomentato l’inefficacia e dichiarato l’esaurimento. E infatti la nuova poiesis non va definita in alcun modo se non come ri-attivazione di un nuovo campo di possibilità comunicazionali ed espressive, messa in opera di una nuova Gestalt.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso (Molise) dove vive. Poeta della cosiddetta Quinta Generazione, è stato Presidente del Centro Studi di Poesia e di Storia delle Poetiche. Ha pubblicato per la poesia le opere:  Arsura ( 1973), La Liana (1973), Il cerchio di fuoco (1976), Astuccio da cherubino (1978)-(1985), Carte della Città Segreta  (1982), Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992), Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione galante (2004), Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016), La porte ètroite (2016), In viaggio con Godot  (2017), Registro di bordo (2018), Remainders (2020). Ha pubblicato opere di saggistica e monografie di Autori  italiani del Secondo Novecento, tra cui Poeti  nel Molise, La poesia nel Molise, Il segno e la metamorfosi, Poeti molisani tra RinnovamentoTradizione  e Trasgressione. Giose Rimanelli, da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit BluesLa dialettica esistenziale  nella poesia classica e contemporanea, Carlo Felice Colucci, PoesieLa poesia di Gennaro Morra.  La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli). È presente  in Febbre furore e fiele di Giuseppe Zagarrio,  Progetto di curva e di volo di Domenico Cara,  Poeti in Campania, di G.B. Nazzaro, Le città dei poeti, di Carlo Felice Colucci,  Psicostetica, di Carlo di Lieto, in Critica della Ragione sufficiente di Giorgio Linguaglossa, e nella  Antologia di poesia contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa con traduzione in inglese  di Steven Grieco Rathgeb e prefazione di John Taylor. Ha pubblicato sulle riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri e su L’Ombra delle parole. Alcuni suoi polittici sono stati pubblicati sul Quotidiano “La Repubblica”  pag. 19 del 15 Giugno 2019 dalla redazione napoletana, a cura di Eugenio Lucrezi. Cura il Blog di poesia italiana mariomgabriele.altervista.org.

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Poetry kitchen, Francesco Paolo Intini, Stralci di Giorgio Linguaglossa, Giorgio Agamben

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi, Falce e martello, 2020

Falce e martello, due icone esposte come in un museo e tra loro lo iato del muro. Un tempo questi oggetti significavano molto, per tanti una ragione di vita . Se ne lasciavi uno in un universo, conservava memoria dell’altro anche se collocato in una galassia, a distanza e tempi infiniti. Si alimentavano da idee come rivoluzione, giustizia, comunismo, uguaglianza, solidarietà, rivincita sociale che si elevavano sulla storia come cime dell’Himalaya e facevano tremare il nemico. Al loro allontanamento corrisponde dunque una perdita di memoria delle idee fondanti che ora si aggirano nella notte dei vascelli vuoti. Sullo sfondo il cielo rosso del nostro inferno. Una costante come quella gravitazionale.
(F.P.I.)

.

Francesco Paolo Intini

L’ESTATE, LUNGO LA STRADA

Parla l’ulivo.
Ci sono rami che sanno cosa è successo.

Un fumo ci colse in mare aperto
cenere bianca e Regina scura in coperta.

Nike all’improvviso e lignina nelle vene.

Lo scacco è stato impreciso.
Le cose hanno voce insieme.

Charlie recita per Elisabetta:
Nessuno è scontento questa notte.

Riccardo dirige le contorsioni di cellulosa.
Formiche applaudono Merna sul toro.

Fiorisce l’io nella fossa
odore di pesce morto.

Gocciolava ossigeno e tu correvi sui prati dissuadendo.
Peccato non aver incontrato gli occhi di quei giorni.

Lasciare in mano all’Elio la città

La distanza si rifocillò in bicchieri di Prigogine
Bivaccò il metro ai piedi del Municipio

la matematica avrebbe fatto correre
I teoremi sui monopattini.

Oh madame Recamier! L’unica parigina senza palmare.
Toccherà dividere Ghigliottina da Luigi Capeto

La schiera dei poeti suicidi
sagomata in bignè.

Se fioriva il ciliegio nei versi
Ora è marmellata da spalmare su burro.

E dunque nessun pensiero nella chioma.
lo scacco matto all’inizio della partita.

Si abbrevia la visuale del camaleonte.

Il museo sogna un colpo d’angolo di trecento sessanta
lo iato del muro si fa genoma.

Il rimmel è versato, la sciagura dei tempi morti.
Silenzi imbottiti di euro da cui si allontana il trucco.

Ruotava un girasole sul lungomare
jogging del poeta benedetto da Dio.

il vincitore saprà dirci due parole sante
E non questa brodazza di Marenco.

Seguirà l’arrosto di pollo
Zuppa di suola e grizzly dopo la torta.

Non c’è un grande spettacolo
La pellicola filma il suo pubblico.

Vedemmo pascere sotto lo stesso albero
termodinamica e miracolo.

La buccia aderì al frutto.
Anche il morso ripensò il piacere nella bocca

Ricoprire di polpa i semi.
Rimediare allo strappo aggrappandosi allo stelo.

-Attraversai il Louvre perché era vuoto
E c’erano atomi di oro che non potevo penetrare.

.

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

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Giorgio Ortona, Palazzina romana, 1997, olio su tavola, Poetry kitchen, poesie di Letizia Leone, Alfonso Cataldi,

Giorgio Ortona Palazzina sulla Colombo, 1997 olio su tavola 20x14 cm

(Giorgio Ortona, Palazzina sulla Colombo, 1997 – Olio su tavola 20 x14 cm)

Un ricordo del 1998 della entusiasmante avventura esistenziale e artistica con Giorgio Ortona: una veduta urbana che non esiste più inghiottita nel magma delle nuove costruzioni.

Palazzi. Un volo radente sulla città che intrappola interi quartieri, stretti primi piani di un muro condominiale, la luce opaca che ingoia la Prenestina, il taglio prospettico di un edificio che irrompe invasivamente sulla tela: è l’apparizione di Roma nella pittura. La scelta di esporre una serie di quadri sul paesaggio urbano romano non è casuale in un artista che ha eletto la sua città come fonte inesauribile di “materiale” estetico. E poi la pittura, il senso del mestiere, la necessità e l’urgenza di recuperare e affermare il valore della pittura come mezzo moderno di ricerca e sperimentazione. “Sono convinto che dopo il duemila la pittura acquisterà sempre più senso come lavoro lento, come approfondito processo di conoscenza estetica di contro al mondo-fotocopia” afferma Ortona. La sua è una ricerca attenta che parte dallo scandaglio di zone romane e laziali recuperate al degrado attraverso la visione estetica. Solo costruzioni, un accavallarsi di palazzi che lasciano lo spazio ad altri palazzi, né macchine, né presenze umane; solo lo studio sulla forma, sulla luce, sul colore. Ricordo mattine luminose o pomeriggi a girare per strade alla ricerca di luoghi definitivi da regalare all’arte, era come se le visioni chiamassero: un palazzo isolato sulla Colombo (che ormai non esiste più, coperto dalla nascita dei condomini), prospettive geometriche su campi verdi con una luce felice che riusciva a riscaldare i residui tumorali di un orizzonte industriale. Una sorta di romanticismo freddo lo definisce Ortona, e passa a dipingere nature morte; sacchi di cemento. E come se a questa mancanza di pittura si sopperisse in modo energico ponendo pesantemente sulla tela il materiale da costruzione, la corposità, il dato fenomenico, la datità da cui riprendere il cammino nel segno di un radicale e originario mestiere. Nella qualità della materia pittorica.

(Letizia Leone “Studio su Roma”)

Danto iniziò la sua carriera come pittore prima di accorgersi che la pittura non aveva futuro, letteralmente, e fu allora che decise di dedicarsi solamente alla filosofia. Negli anni Sessanta la necessità storica di uno stile nei confronti di un altro viene meno: nell’analisi critica dell’arte si crea una divaricazione tra l’interpretazione e la identificazione artistica dell’opera. Innanzitutto, questa viene meno, o almeno si riduce ad un’ombra di sé. Perché dalla Pop all’Iperrealismo all’arte concettuale essa si avvicina sensibilmente all’identificazione letterale. Questa tendenza può essere già avvertita nelle astrazioni minimali di Reinhardt (1960-66). Possiamo ben dire che c’è una superficie di una certa dimensione, macchiata di un certo colore; a partire da questa identificazione letterale l’osservatore compie una identificazione: Questa tela è una pittura astratta in quanto così è stata pensata ed eseguita dall’artista. L’interpretazione a questo punto cessa, non c’è più alcun bisogno di alcuna interpretazione visto che l’opera d’arte è auto evidente di per sé e non richiede alcun intervento ermeneutico dall’esterno. In effetti, l’arte moderna post anni ’60 non richiede alcun intervento dall’esterno che la legittimi o la spieghi ai non vedenti o ai non capenti. L’arte è diventata un manufatto non ermeneutico e la critica viene a perdere il terreno da sotto i piedi, non c’è ermeneutica che possa legittimare un qualcosa che non richiede di essere legittimata. È accaduto che in ambito artistico qualsiasi cosa sia divenuta possibile. Ma, se qualsiasi cosa può diventare arte, la conseguenza appare ovvia: nessuna cosa più è arte. 

Il vero problema dell’arte contemporanea, cui Danto riferisce col termine “poststorica”, è la saturazione,  o meglio, il dissolvimento, dello spazio interpretativo che fino all’arte Pop intercorreva tra l’identità letterale dell’oggetto e quella della resa del medesimo oggetto in arte. La parola «arte» non ha più senso, è un’entità storica e letteraria terminata: adesso l’arte vive solamente all’interno della narrazione dell’arte. Si ha narrazione in quanto si ha comunicazione.

(Giorgio Linguaglossa)

reinhardt black paintings anni 60 David Zwirner Gallery

Reinhardt, black paingings, David Zwirner gallery anni ’60

Letizia Leone

LETIZIA LEONE è nata a Roma. Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (Roma, 2000); L’ora minerale, (Perrone Editore, Roma, 2004); Carte Sanitarie (Perrone Editore, Roma, 2008); La disgrazia elementare (Perrone Editore, Roma, 2011); Confetti sporchi (Lepisma Edizioni, Roma, 2013); Rose e detriti (FusibiliaLibri, 2015); Viola norimberga (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018)  Premio L’albero di Rose, Regione Basilicata, 2019; Notazioni sui fastidi del sonno (Ensemble Edizioni, 2020). Tra le numerose antologie: Antologia del Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino, 1998; La fisica delle cose, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, Roma, 2011; Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, Giulio Perrone Editore, Roma 2007, dalla quale è stato messo in scena lo spettacolo Le invisibili, Teatro Valle, 2009; “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016; Sorridi sei a Nettuno, Fusibilia edizioni, 2018; l’antologia americana How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Edition, 2019, New York.  Redattrice della Rivista Internazionale L’Ombra delle parole e della rivista di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole (Edizioni Progetto Cultura), organizza laboratori di lettura e scrittura poetica a Roma.

I

Il sangue allaga per spaziature ametriche.
Notturne dense fiumare.

Certi odori attecchiscono
Sul simbolo sacro della Tetraktys.

Coscia, ossobuco, le mascelle. Tagli bovini
Incartati nel fieno dello scritto. 

Metti lo strutto nella tua formula di pesante incanto.
La megalopoli è Illuminata.

Odore di bruciato, che notte alla finestra!

II

«Allora rinunciamo ai saperi che sono spariti?»
«Chi ha voglia di sfogliare incunaboli?»
«Libri di conoscenza? Lana sudicia sugli scaffali?»
«E le tenebre superiori? le avete viste?»

C’è una folla sanguinolenta di suini. Tagli e zecche.

Certe domande bisogna farle al buio.

III

Hanno disarticolato migliaia di zampe ai pipistrelli.
Un pensiero fisso. Poeticamente frivolo.

Nostra Stella di Iside asfissiata.
Così in un lampo dalla Storia alla preistoria.

Per assestarsi nel movimento il suino dovrebbe calibrarsi
al moto di rotazione terrestre da ovest a est.

Vite brevi a suon di tamburo.
E infine un Virus li scaraventò nell’Epica.

Alfonso Cataldi

 Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

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La kermesse delle ampolle da riempire

Le albicocche in offerta hanno il verme con la sindrome di Asperger.
All’OVS sono andate a ruba le t-schirt “Save the planet”

Il National Geographic ci ha stampato il logo sopra
ma “visto mai?” prosegue ad esplorare il piano B. Mars. Seconda stagione.

L’impatto umano sul pianeta rosso dopo la colonizzazione.
I Benetton serviranno una cameriera ?

Bombe di testosterone neutralizzano bombe d’acqua
la pazza gioia è alle costole dell’uomo scimmia.

«A quindicianni non ho mai salvato un pomeriggio dalla noia.»
I vicini carteggiano la voce per un karaoke tenebroso.

«La matricola 249, nome in codice Clara, è appena fuggita dai concetti basilari.»
I pappagalli gracchiano sugli alberi di Roma Est.

Christine Granville spunta tra i rami consapevole della missione
deve convincere i volatili a disertare la kermesse delle ampolle da riempire

prima che Sheldon Cooper li minacci col bazooka spaziale.
Ma Van Gogh si uccise veramente?

In questa poesia di Alfonso Cataldi abbiamo un esempio di autonomizzazione degli enunciati. Ogni enunciato, ogni atto di parola, va per la sua strada e tutti insieme fanno un gran fracasso, una grande confusione. Ogni enunciato pesca in cucina le parole dismesse, usate e gettate via e, tutte insieme, indicano molto bene la nostra condizione storico-esistenziale, assai più di quanto lo possano fare migliaia di poesie monadiche e monodiche bene educate ed equipaggiate che si fanno oggi.
Questa è, propriamente, la poetry kitchen, l’ultima e recentissima propaggine della ricerca di una nuova ontologia del poetico che prendesse le misure e le distanze alla ontologia estetica del novecento e di questi ultimi due decenni.

Scrive Giorgio Agamben in uno stralcio postato sopra:

«La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato».

Un amico che fa poesia mi ha detto ieri al telefono che non riesciva a capire la poesia di Marie Laure Colasson, quella enumerazione gli sembrava stucchevole. Al che io gli ho risposto semplicemente che il suo gusto è stato rovinato dalle migliaia di pseudo-poesie bene educate che si sono fatte in Italia e si continuano a fare oggi. E che magari dovrebbe leggere con più frequenza le poesie dell’Ombra delle Parole.

(Giorgio Linguaglossa)

Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso (Molise) nel 1940. Ha pubblicato per la poesia le seguenti opere: Arsura (1973, La Liana (1975), Il cerchio di fuoco. (1976, Astuccio da cherubino (1978),  Carte della Città Segreta (1982), Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992), Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione galante (2004), Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016), La porte ètroite (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020). Ha pubblicato  opere di saggistica e monografie di Autori  italiani del Secondo Novecento. È presente in Febbre furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, (1983), Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, (1994), Poeti in Campania di G.B. Nazzaro (2005), Le città dei poeti, di Carlo Felice Colucci (2005), Psicoestetica di Carlo Di Lieto (2006), in Critica della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) di Giorgio Linguaglossa (2018) e nella Antologia AA.VV. Come è finita la guerra di Troia, di Giorgio Linguaglossa, con traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb e prefazione di John Taylor, Chelsea Editions 2019. Alcuni suoi polittici sono stati pubblicati su la Repubblica di Sabato 15 Giugno 2019. La critica più qualificata si è interessata alla sua opera su Tuttolibri, Quinta Generazione, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri e su L’Ombra delle parole.

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Ti parlo, ma non mi ascolti.
Come è andata con Omar? Si è innamorato di Salomè?

Allora si spiega tutto
perché ha ucciso il serpente a sonagli.

La signora Hanna odia i positivisti
dopo aver letto la Pontificia Opera Cristiana.

Ogni giorno cerco nella cassetta
una piuma dal cielo.

Piqueras e Sweneey
non attendono le donne di Michelangelo

All’ultima curva della strada aspetto Milena
con Panetti e Shoppers.

Guardo il vestito, la maglietta a pailettes.
Controllo i Covered Bonds e le fake news.

Tommy è venuto a potare la siepe
per lasciare il posto al ruscus di Settembre.

Mark Strand si è rifatto ai quadri di Edward Hopper
diventando spiritualista.

Guardando la camera da letto di Van Gogh
sono riuscito a dormire senza EN.

Il Servizio urbano si è rinnovato
inaugurando vicoli con l’insegna: La tomba è il bacio di Dio.

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Estratti di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte,  Poetry kitchen, Sugli stagni Patriarsci, di Giorgio Linguaglossa, Dio non è mai nato -, disse Azazello, Poesia di Francesco Paolo Intini, Come tu ora parli, questo è l’estetica

Bulgakov Behemoth

Illustrazione del romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov

Esempi di Poetry kitchen

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa è nato ad Istanbul nel 1949 e vive a Roma. Ha diretto la rivista di letteratura “Poiesis” (1993-2015). Ha pubblicato i seguenti libri di poesia, Uccelli (1992), Paradiso (2000), La Belligeranza del Tramonto (2006), La filosofia del tè (2013), Il tedio di Dio (2018). Per la critica militante si segnalano, Dopo il Novecento (2013), Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica (2018). Ha curato le antologie Il rumore delle parole (2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016).

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Sugli stagni Patriarsci

«Dio non è mai nato” », disse Azazello.
«Questi umani sono davvero degli imbecilli se hanno potuto credere in una tale panzana», appoggiò il mago Woland.
«Dopotutto, gli abbiamo concesso il libero arbitrio, no?», interloquì il critico letterario Bezdomnyj.
«È stata quella la fregatura», caricò il mago Woland.
«Non ce ne sbarazzeremo facilmente di questa inutile buffoneria», aggiunse il gatto Azazello il quale nel mentre si asciugò il baffo destro.
«Dovremmo organizzare un grande Circo e metterci dentro tutti gli attori di questo lungo metraggio»,
disse Bezdomnyj, il quale però aveva sete; cambiò direzione e si diresse verso gli stagni Patriarsci.

Giunti che furono presso gli stagni Patriarsci, i tre inquilini del mondo si diressero verso un chiosco che, in alto, sventolava una targa con la falce e il martello dipinta in rosso.
Chiesero una bevanda.
«Avete del Campari?».
«No, caro compagno, abbiamo soltanto della risciacquatura di tubi,
una aranciata della Lega lombarda».
«Possibilmente ghiacciata», ordinò il critico Bezdomnyj…

Fu a quel punto che spuntò fuori del chiosco Belfagor,
con una giacca a quadretti e una cravatta sgargiante
il quale affermò di aver chiuso nell’armadio una farfalla de l’Opéra de Paris di nome Onilde
vestita con delle bretelles e une pagne con una bottiglietta di acqua minerale
e un pappagallo del Madagascar appollaiato su un trespolo
per farle compagnia…

«Il libero arbitrio è stata una brillante idea, eh? », disse il pappagallo
interloquendo in modo sgraziato.
La cosa gettò nello sconforto il quartetto il quale arretrò verso il succo di albicocca
con della schiuma giallastra di sopra. Che ribolliva.
Fu Bezdomnyj a replicare dicendo che «il tema era fuori tema e il contesto fuori contesto»,
e che «Dio non c’è, non è mai nato».
E così liquidò la questione.
Però non del tutto, perché intervenne Azazello il quale apostrofò
così il pappagallo:
«La questione del MES salvastati è alquanto dibattuta,
ne riparleremo a settembre».

Nel frattempo, proprio davanti agli stagni Patriarsci
un tram bolscevico attraversò di corsa i binari
e la testa del critico letterario Berlioz rotolò davanti al bizzarro quartetto.
«E quindi non può essere morto chi non è mai nato»,
chiuse la questione Bezdomnyj…

Bulgakov Azazello

Azazello, illustrazione

Sulla Poetry kitchen

caro Lucio Mayoor Tosi,

la poetry kitchen assume in sé il più alto grado di consapevolezza della negatività. Oltre di essa la nuova poiesis non può andare, la nostra epoca ci sbarra la strada.

Scrive Agamben:
«Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica
[…]
La negatività entra nell’uomo perché l’uomo ha da essere questo aver-luogo, vuole cogliere l’evento di linguaggio» (Il linguaggio e la morte, p. 43). Subito dopo Agamben si chiede: «che cosa, nell’esperienza dell’evento di linguaggio, getta nella negatività?
[…] Com’è possibile che il discorso abbia luogo, si configuri, cioè, come qualcosa che possa essere indicato?» (ibidem).

Le domande inquietanti di Agamben gettano un fascio di luce sulla nuova poiesis, la decostruzione agambeniana giunge al suo compimento. La risposta è nell’individuazione della «voce» come dispositivo fondamentale, nel senso di dialettica del fondamento, della negatività, come «dimensione ontologica fondamentale»(p. 45), e dunque come luogo negativo (non-luogo) dell’aver luogo dell’onto-logia dell’Occidente.
In questo passo giungiamo all’ultimo lido del nichilismo della ontoteologia. Nel futuro soltanto un’altra ontoteologia non più fondata sulla negatività della «voce» potrà liberarci da questa condizione di negatività.

Aggiungo una postilla.
Stavo pensando che la dialettica del fondamento sulla quale si iscrive il linguaggio, non può soltanto essere pensata come fondamento negativo (fundamentum negativum), ma come un fondamento negativo che diventa «positivo» proprio in quanto assunzione del linguaggio su di sé della negatività. Il fondamento che va a fondo dà luogo alla positività del linguaggio che accetta di accogliere il negativum.
L’accettazione del negativum è questo lasciare andare a fondo il linguaggio della tradizione.

(Giorgio Linguaglossa)

Sì, lo penso anch’io. E si metteranno a ridere perché nulla ha importanza se non nell’immediato. D’altronde questo ci viene insegnato anche dalla privazione, lo stato di necessità, l’angoscia.

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

dal punto di vista del nostro fare poiesis la nostra poesia è il nostro linguaggio, la nostra estetica è la nostra poetica e la nostra poetica è la nostra politica.
Non si danno sfere separate, come credeva la metafisica del novecento, ma siamo tutti abitanti di una unica dimensione. «Come tu ora parli, questo è l’etica», scrive Agamben. «Come tu ora parli, questo è l’estetica», chioserei io.
Nella modalità in cui tu parli, in cui e per cui qui noi parliamo, il linguaggio ha positivamente luogo, qui è l’etica. E io direi che qui è anche la poetica. L’etica e la poetica sono, in quanto coincidono, nel ‘come’, nella modalità, e la modalità è, in quanto è nell’aver-luogo della parola.
In gioco, nell’etica come anche nella poetica che sono in qui in questione, sono tanto il linguaggio quanto l’ontologia: l’onto-logica.
Oggi soltanto attingendo una parola senza destino e senza identità, possiamo accedere alle regioni della poiesis.

Il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico) positivo senza negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si scopre internamente bifide e auto contraddittoria. Perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.

(Giorgio Linguaglossa)

Bulgakov decapitazione

decapitazione…

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

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Zone d’ombra non comprese nel prezzo

Svolazzano le mie molecole per l’aria
-previsione di Margherita Hack-

Capitassero i baffetti di Baruch
non quelli di Himmler.

Ne faremo un corvo –dicono le leggi fondamentali
E appena accalappiate le invieremo la ricevuta di ritorno

Oggi si va oltre i raggi gamma. Ombra non c’è
E nemmeno gravità.

Fossero almeno scritte sulla Gazzetta Ufficiale.

C’erano di mezzo le stragi e si affacciò l’herem
Bannato anche l’ Io pace all’anima sua.

(In ricordo dell’ herem pronunciato il 27 luglio 1656 contro Baruch Spinoza) 

Giorgio Agamben

La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tutta la riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2

Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo essere spaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nel luogo del linguaggio, il Dasein trova un’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3

… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4

1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76

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Covid garden 3(particolare)BASSACovid garden 2BASSAcaro Lucio,

il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico); non si dà il positivo senza il negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si rivela internamente bifide e auto contraddittoria: perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giorgio Agamben

Stralci

La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tuttala riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2

Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo esserespaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nelluogo del linguaggio, il Dasein trovaun’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3

… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4

1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden 3 acrilico, 50x70 cm, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, olio, 2020

Marie Laure Colasson

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Marie Laure (Milaure) Colasson  francese, nasce a Torino nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in gallerie di Parigi, Bruxelles, Roma, Buenos Aires. Sue opere si trovano nei musei di Giappone, Francia e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È redattrice della rivista lombradelleparole.wordpress.com

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Poetry kitchen

L’ultima poesia di Les choses de la vie
di Marie laure Colasson.

33.

un deux deux
si si non
ouvre la valise
deux un cinq
non non si
cri d’un oiseau
deux cinq sept
non si non
monte les escalier
trois deux deux
non si si
dans la valise une robe en dentelle rouge
deux un sept
si si non
enfile la robe en dentelle rouge
deux un deux
si non si
c’est ton tour
cinq un deux
si si si
mèfiez vous d’elle
trop belle envoutante
fermez les portes les fenêtres
c’est la mort la mort
ne sait pas compter
ne sait pas dire non
mais n’oublie pas del mettre du rouge à lèvres

*

uno due due
sì sì no
apri la valigia
due uno cinque
no no sì
grido di un uccello
due cinque sette
no sì no
sali le scale
tre due due
no sì sì
nella valigia una veste di pizzo rossa
due uno sette
sì sì no
infila la veste di pizzo rossa
due uno due
sì no sì
è il tuo turno
cinque uno due
sì sì sì
diffidate di lei
troppo bella invitante
chiudete le porte e le finestre
è la morte la morte
non sa contare
non sa dire no
ma non dimentica di mettersi il rossetto sulle labbra

La collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è una ubicazione privilegiata, un luogo abitabile? Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana di nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», comprendiamo appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale.
Il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia ed approdano sulla pagina bianca. Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile.

(Giorgio Linguaglossa)

Alfonso Cataldi

Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.
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Omaggio contemporaneo

La conversione stupisce sempre un metro più avanti
Il posto di blocco scompagina gli appunti.

L’ampio parcheggio ospita la povertà di un resoconto
matrimoni combinati omaggiano il bric-à-brac contemporaneo.

Akiva è caduto nel tranello dei ghost painter
dipinge a tempo pieno reprimende da pensionare

la tenda mancante alla finestra
i panni arrotolati in fondo al letto

Dettagli. S’incollano in due ore alla barba di rappresentanza.
Cosa twitterebbe l’Incompiuto?

Un necrologio che penzola distratto
e nessuno ha il coraggio di afferrare.

Giacomo ha cinque anni e non ha chiesto mai perché
In emergenza le risposte sono appese alle finestre dell’albergo.

 

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Mini Antologia di Poetry kitchen, Poesie di Gino Rago, Guido Galdini, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa, Giovanni Giudici, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa 

Marie Laure Colasson ZY Struttura dissipativa acrilico 50x50 cm, 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa ZX 30×80 cm, acrilico su tavola, 2020

Qui Marie Laure Colasson fa esperienza originaria del linguaggio del colore. Fare esperienza originaria del linguaggio (dunque della storia) come linguaggio del colore è fare esperienza del gioco del colore. Esperienza, linguaggio e in-fanzia (il non-colore) coincidono in quanto origine. Origine, esperienza e linguaggio coincidono in quanto in-fanzia del non-colore; origine, esperienza e in-fanzia del non-colore coincidono in quanto linguaggio.
In origine, linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto gioco, esperienza fondamentale.
È questa coincidenza confluenza nel gioco ciò che consente il dispiegamento della ‘storia’, a fondare la possibilità che vi sia qualcosa come una ‘storia’ e un significato. L’in-colore, ovvero il fatto che l’uomo non sia sempre già (stato) un parlante, che il linguaggio giunga all’uomo dall’esterno, dall’altro,  scindendosi e articolandosi in lingua-e-discorso, semiotico-e-semantico, essenza-ed-esistenza, si annuncia come quel luogo che, indugiando sulla soglia, al limite delle scissioni, nel loro punto d’insorgenza, inaugura la loro destituzione nella forma della di loro originaria esperienza, nell’esperienza del gioco, cioè nella forma dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. In questo modo essa, l’in-fanzia, il non-colore acquista colore, profondità e storicità e può fare esperienza dell’origine della differenza in quanto esperienza fondamentale. Ciò che implica, anche, esperienza della storicità.
«Se noi non possiamo accedere all’infanzia senza urtarci al linguaggio che sembra custodirne l’ingresso come l’angelo con la spada fiammeggiante la soglia dell’Eden, il problema dell’esperienza come patria originale dell’uomo diventa allora quello dell’origine del linguaggio, nella sua doppia realtà di lingua e parola». (G. Agamben, Infanzia e storia, p. 47) 
(Giorgio Linguaglossa)

Gino Rago

Gino Rago è nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

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Storie di Passages n. 1

La caffettiera di van Gogh
per tutta la notte ha litigato con il manichino di de Chirico.
Diceva che lei almeno sa fare il caffè, invece un manichino
è solo un manichino.

Allora, è successo che De Chirico
si è spazientito e ha disegnato un sole con i raggi
che si mette in cammino, attraversa a piedi le montagne e le nuvole
entra nell’atelier di Marie Laure Colasson,
si ferma allarmato davanti ad una “Struttura dissipativa” della pittrice
posta sul cavalletto.
e chiede: «E questo cos’è?»,
domanda che ha molto seccato la pittrice francese la quale per ripicca
lo ha punzecchiato con una forcina per i capelli
dicendogli che era uno spazzacamino, un presuntuoso, un leghista, un feticista
e un fascista…

Squilla il telefono al 6° piano di via Domodossola n. 25.
Sylvie Vartan parla con George Perec.
«Monsieur Perec, c’è un figuro che ci segue,
dice che abita nel futuro e che è capitato per sbaglio
nel presente».

«È Jèrôme Lapalisse, di professione crittografo, di mestiere ammazza parole
e aggiustalampadari.
Abita nel condominio al numero 11 di Rue Simon-Crubellier…
Tappeti Bukhara, due dobermann, libri rilegati in pelle,
porcellane cinesi, uccelli esotici, un pappagallo gialloverde del Madagascar,
tavolini africani in mogano».

Jèrôme Lapalisse a Sylvie Vartan:
«Madame, quella signora elegante ci osserva».

George Perec:
«È Madame Colasson, pittrice, vive a Roma,
ogni tanto torna ai passages, nei boulevard, passeggia con dei foulard colorati,
si ferma sempre davanti alle pasticcerie,
pensa che il segreto delle sue “Strutture dissipative”
sia racchiuso nelle torte con la panna…».

 

[Ecco un tipico esempio di poesia con oggetto, o poesia sull’oggetto, cmq poesia oggettiva, che altro non è che una poesia pensata come uno stampo mimetico-realistico dell’oggetto, che gira intorno all’oggetto…]

Giovanni Giudici (1924-2011)

Descrizione della mia morte

Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l’avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L’avvenimento era importante ma non grave.
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?
Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C’era un bel sole non caldo, poca gente,
L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,
Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrota o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.

(da O Beatrice, 1972)

Marie Laure Colasson

caro Gino,

questa volta ti meriti i miei complimenti, hai raggiunto la légéreté tipicamente francese che consente di rendere più leggera una realtà in sé asfissiante e l’hai trasposta nella poesia italiana come meglio non si poteva,
Ha ragione Lucio Mayoor Tosi quando dice che la tua poesia è di stampo giornalistico, è vero, e ben venga finalmente una poesia che impiega il linguaggio dei rotocalchi e lo converte in opere letterarie. La poesia di Giudici postata sopra era un tentativo di scrivere una poesia giornalistica, purtroppo non riuscito; al contrario, il tuo tentativo è, a mio avviso, riuscito. Se Giudici avesse scritto la poesia invertendo gli addendi, cioè mettendo la morte che osserva e descrive l’io, avrebbe ottenuto risultati migliori, ma le sue convinzioni neoveriste non gli consentivano neanche di immaginare un tale salto immaginativo. Un bravo anche al pittore Giorgio Ortona. È problematico per un pittore fare oggi un ritratto di figura umana per tantissimi motivi che non sto qui a ripetere. Ma lui c’è riuscito in modo brillante. Io ci vedo anche un lontano ricordo di Bacon. Ma è che dopo Bacon fare un ritratto o autoritratto è diventato ancor più problematico. L’autoritratto è come una poesia lirica, un racconto dell’io sull’io. Qualcosa sfugge sempre. E allora devi inseguire ciò che sfugge. 

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Lucio Mayoor Tosi, Quattro poesie inedite, Oasi, Poesie per Petr Král, Giorgio Linguaglossa, Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi, Falce e martello all’epoca del Covid19, 2020

Questa immagine di Lucio Mayoor Tosi, con la falce e il martello che se ne vanno per i fatti loro, e il rosso bolscevico che fa da innocuo sfondo, è un esempio di picture kitchen; la falce e il martello sono diventati degli emblemi come il coltello e la forchetta, come la macchinetta da caffè Moka, sono diventati oggetti del design alla moda, desueti e dimenticati, de-storicizzati, de-realizzati. E la picture kitchen ne prende atto, Lucio ne fa un manifesto del fuori-senso, un simulacro senza più originale, un dispositivo imaginale senza più un linguaggio storico. Sono oggetti dis-ancorati dal quotidiano, come tutti gli altri oggetti del quotidiano, del resto, che appaiono fuori-contesto, fuori-senso, fuori-significato.
(g.l.)

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Oasi. Poesie per Petr Král

di Lucio Mayoor Tosi

N. 1

Noi siamo abbandonati. Il mondo va nei bar mentre si discute
di Covid 19, maiuscolo. Ma io ci faccio una pippa.

Mascherina in fronte, suggerisce l’ascoltatore, un rapper
d’alluminio anni 2030. Per chi ama le farfalle.

Senti, ti chiamo. Abbiamo stenografiche del paleolitico
ancora funzionanti. Codici a barre, cose così.

La prima luna deroga d’affitto, un insieme di lampi
al cherosene di marca comunista, Cose che mettono nostalgia.

Ma naturalmente, sai, per via dei distici, guarda:
mancano denti a sinistra, sotto. Alcuni scrivono

come piovesse. Oddio, sempre come piovesse. Ripeto.
Stile mio di carrozza a sonagli, d’altronde siamo,

sono come sul vacillare del forno le cornucopie,
direbbero certi scrittori del realismo. Fantastico,

puoi toccare parole chiudendo gli occhi, Uh uh uh,
queste sono vere farfalle. Quasi un digiuno.

Cappotti che hanno perduto la fodera. Critici
che andrebbero da Michelangelo a correggere baffi.

Perché chissà quale odore, profumo di passato
si nasconde nella terrapieno delle azalee. Comunque,

difendersi dal senso di colpa, se viene Natale
e non hai niente da regalare ai nipoti.

Zio d’America scrive poesie ma è sfortunato.
O ha qualcosa che non va nella testa. Karma negativo,

quando le cose vanno bene, ecco che si rompe
un bicchiere dei due che sono rimasti.

L’effetto è immediato. Significa che siano a un passo
dal tesoro, Antartide. Ora o mai più!

N. 2

Così se ne vanno in volo, il coro figli angeli
in una faccia di vecchio inchiostro. Le spalle curve,

gli anni a chiedersi come mai, e risponde Minosse
ti sbrano in un hamburger. Più o meno

un trapassare di scaltre fanciulle sopra il divano
(oh! Sempre piove), ma come derelitti sperare

nel flusso di corrente, che arrivi Broadway
come Singapore chissà perché, tabacco a ciocche.

Quindi sterminare mosche, sole amiche.
O prendersi l’intervallo su cornicioni in centro città.

Un po’ più in basso, ecco, dove scorre vecchia poesia
e l’autore frigge uova – come piovesse. D’altronde

piove sempre. I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.
E noi, chi noi, io, ecco. Allora infilo perline.

N. 3

L’archivio portaricordi in fretta seppellisce
voli che altrimenti, morisse il gatto, le lune sarebbero

filo d’aria in ascensori per paradise, non ricordo.
Quindi scrivo Mio caro… Mia cara. Punto.

Oggi molte teste in controluce sembrano ostriche
che nel corpo riflettono sentimenti. Provare

per smentire se altrimenti – e sempre piove –
forse e volendo, anche l’angolo in cui saremmo morti.

«Sono un pericolo pubblico, ecco perché
vivo solo. Conto i giorni col loro nome».

«Prima era diverso, fingevo luce alle finestre,
Ma non vale. Finisce per strada un convoglio

di idiozie».

N. 4

La durata di un film, e non andiamo oltre.
Miss prevosto, prima che diventasse l’ultimo dei bastardi

disse tra i quartieri il nome di ogni colpevole,
più o meno all’ora dell’aperitivo.

A destra fecero commenti di destra, a sinistra
si stracciarono le vesti. I colpevoli sono parole

marionette. Dimmi prima chi sei. Poi traduci
per la folla. Sanno già tutto ma preferiscono

sentirselo dire, che sono stronzi. Sì, come è vero
lo sbattere d’ali di piccione sul sagrato. Niente più

che somarelli addomesticati a rabbia latente,
per via di congiure spropositate a danno di tutti.

Ma che fa? L’azienda auto pensieri ha per nome
meraviglia in dodici lingue, non una che vada bene.

Al complotto finanziario aggiungiamo chiavi
di violino, la caca-forte dei rimandi accesa.

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Polittico, acrilico, 2017

Giorgio Linguaglossa

Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

Sembra quasi che una zona di auto sospensione del e dal linguaggio si sia verificata, che sia accaduta quella cosa magica per cui il linguaggio si stacca da se stesso e va per i fatti suoi, indipendente dall’io e dal noi, questi maledetti pronomi personali che hanno infestato la poesia del novecento e hanno dilapidato le esistenze degli uomini del XXI secolo… C’era da aspettarselo che un giorno sarebbe arrivato un poeta auto sospeso dall’io che fa una poesia come l’avrebbero desiderata i dadaisti e gli eslegi di tutte le avanguardie. È che Lucio Mayoor Tosi ha compreso fino in fondo che cosa significhi fare oggi una poetry kitchen, fare una poesia con gli utensili che stanno in cucina, accettare di impiegare le parole con contratto a tempo determinato, senza alcuna presunzione di durata, di voler durare per l’eternità! Ah, che brutta parola l’eternità, Lucio Tosi  la scapperebbe, lui che fa una poesia dell’effimero, che dura appena un battito d’ali, friabile e leggera che appena l’afferri e ti accorgi che ti è rimasto sulle dita il polline malinconico delle sue ali… E anche il gozzaniano «archivio portaricordi» ormai è in disuso, seppellito dai suoi stessi ricordi… E anche «l’azienda auto pensieri» è finita in rigatteria, con tutti i rigurgiti versali delle poetiche normative e oggettuali del post-moderno… E poi quelle frasette messe lì come per sbaglio: «I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.»;  «quando le cose vanno bene, ecco che si rompe/ un bicchiere dei due che sono rimasti», che sono davvero eccellenti per il loro non voler dire nulla di serio o di faceto o di accettabile, per il loro essere assolutamente transeunti, per elencare il fuori-senso delle parole che usiamo ogni giorno  come carta moneta. Questa è, per l’appunto, poetry kitchen, il cui aedo, Mario Gabriele, le ha dato i natali con L’erba di Stonehenge del 2016. Lucio Tosi si è inoltrato molto in avanti in quella zona di confine, di indistinzione, di indiscernibilità, di enigmaticità propri del linguaggio della transvalutazione del banale, quella zona in cui avviene che tra le parole cessano i collegamenti di senso e di significato per via di una auto sospensione del linguaggio, come se quelle parole avessero raggiunto il momento temporale che precede di un attimo la loro rispettiva differenziazione, non per via di una dis-somiglianza quanto per via di uno slittamento di senso, per via di una vicinanza prossima che si è poi rivelata una lontananza estrema, quasi che quella contiguità tra le parole, quella colla che le teneva insieme si fosse all’improvviso dissolta e quella antica alleanza, quella antica filiazione si fosse convertita in dis-alleanza, in fibrillazione. Tutto ciò apparirebbe contro natura, sembrerebbe contro la natura della parole, che sono fatte per stare insieme accanto ad una stufa, la stufa del significato, e che invece si sono ritrovate all’aperto, esposte alle intemperie e alle basse temperature, al gelo del nostro modo di vita e dei nostri valori de-valorizzati e tra svalutati… ma è che le parole non sono fatte per comunicare, Lucio Tosi lo sa bene, sono ordigni fatti per ingannare e irretire gli uomini, non sono portatori di buone intenzioni o di alate metempisicosi dello spirito, sono degli strumenti acuminati e affilati con cui puoi far male se davvero le pensi in relazione ai loro significati consolidati.

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Giorgio Linguaglossa, Poetry kitchen, Storia italiana del Covid19, I parte, scaricabile e acquistabile a 750 €,  La lampadina, di Maurizio Cattelan, acquistabile a 750 €

Maurizio CattelanMaurizio Cattelan 1

Maurizio Cattelan torna a far parlare di se con una nuova opera (se così si può definire), acquistabile dallo shop della famosissima galleria Marian Goodman. Si tratta di una lampadina con le sembianze del celebre artista italiano, passato recentemente agli onori di cronaca per Comedian, la banana in vendita ad Art Basel. Yes! non è un costosissimo pezzo unico, ma un multiplo con un prezzo conseguentemente più abbordabile: per comprarsi una lampadina di Cattelan bisogna infatti sborsare “solo” 750€.

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caro Lucio,
dal punto di vista del nostro fare poiesis la nostra poesia è il nostro linguaggio, la nostra estetica è la nostra poetica e la nostra poetica è la nostra politica.
Non si danno sfere separate, come credeva la metafisica del novecento, ma siamo tutti abitanti di una unica dimensione. «Come tu ora parli, questo è l’etica», scrive Agamben.
Nella modalità in cui tu parli, in cui e per cui qui noi parliamo, il linguaggio ha positivamente luogo, qui è l’etica. E io direi che qui è anche la poetica. L’etica e la poetica sono, in quanto coincidono, nel ‘come’, nella modalità, e la modalità è, in quanto è nell’aver-luogo della parola.
In gioco, nell’etica come anche nella poetica che sono in qui in questione, sono tanto il linguaggio quanto l’ontologia: l’onto-logica.
Oggi soltanto attingendo una parola senza destino e senza identità, possiamo accedere alle regioni della poiesis.
(Giorgio Linguaglossa)

Giorgio Linguaglossa
Storia italiana del Covid19 II parte

[Poetry kitchen, scaricabile e acquistabile a 750€]

«Questo è il Re, si può muovere così e così»
«Questa è la Regina, si può muovere così e così»
«Questo è il Fante, si può muovere così e così»
«Questa è la Torre, si può muovere così e così»
«Questo è il Cavallo, si può muovere così e così»
«Questo è quanto», concluse Azazello.

Il quale guardò dalla finestra la pioggia fitta. Prese l’ombrello tricolore, lo aprì
e uscì sotto il sole cocente.

«Ecco, io per esempio, in una poesia di Giuseppe Gallo, trovo “cespuglio di ginestre” che, per un lapsus, è diventato “cespuglio di finestre”.
Ebbene, preferisco di gran lunga “cespuglio di finestre”, perché segna un allontanamento dal significato corrivo della prima versione: “cespuglio di ginestre”.
Affacciarsi dal balcone e scorgere in lontananza un “cespuglio di finestre”, lo trovo in linea con il nostro imperativo di prendere le distanze dai significati»,
disse il poeta Linguaglossa.

Anche «il quadrato rotondo prende le distanze dal significato», replicò un interlocutore striminzito e altissimo presente in quel momento negli stagni Patriarsci.

«Whatever it takes!», replicò il Signore con il papillon bordò.
Detto questo, Azazello si leccò i baffi, fece dietro front.
E scomparve.
Un attimo dopo anche il signore altissimo fu inghiottito dal nulla.

«Qual è lo scopo del pensiero? Trovare una via d’uscita dalla trappola»,
disse Wittgenstein.
Un gatto saltellò sulla tastiera della calcolatrice. Premette i tasti 25, X e 30.
Il risultato fu 500.
«Questo è un inganno!», replicò il filosofo «Non si può dimenticare
ciò che non si può ricordare».
E tornò ai suoi quaderni.

Il cardinale Tarcisio Bortone accusò la stampa di «procurato allarme».
La femboy thailandese Asiaboy indossò la mascherina bianca con la bandiera tricolore.
Vennero chiusi alberghi, bar, ristoranti, luoghi pubblici.
Venne istituito il contact tracing anche per le crossdresser di via Solferino.
Furono sospese messe e funerali.
Fu dichiarato lo «stato di emergenza».
La gente fece man bassa di carta igienica dai supermercati.
Dalle farmacie scomparvero mascherine e gel disinfettanti.
Il governatore del Veneto, Zaia, disse che «i cinesi mangiano i topi vivi», quello della Lombardia, Fontana, mise una taglia sul virus.

In via Gabriello Chiabrera il furgone dell’accalappiacani si scontrò contro una autoambulanza.
Un gabbiano beccò la testa di un corvo morto sul cofano di una Peugeout.
I malati di Covid19 vennero trasferiti nelle RSA.
Vennero sospese pure le partite di calcio.
Un politico cialtrone disse che il contagio era portato dai migranti sui barconi.
Un critico d’arte invece appurò che trattavasi di una lieve influenza.
I medici andavano alla ricerca del paziente Zero.

Vennero proibiti gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche, alcuni legulei sporsero denuncia contro il Presidente del Consiglio.
La Chiesa, per voce della Congrega dei Vescovi, espresse disappunto per la chiusura dei luoghi di culto.
Il mercato del pesce venne bannato e disparvero anche le prostitute dalle strade.
Un cardinale accusò il divorzio e l’aborto, qualche prete dichiarò venuta la punizione divina per le pratiche contro natura…
Ci fu persino una protesta di squillo e crossdresser davanti a palazzo Chigi.

Da una porta di Borgo Pio uscì il cardinale Tarcisio Bortone a braccetto con il gatto Azazello.
Si diressero agli stagni Patriarsci dove ordinarono un succo di albicocca.
Un bicchiere si riempì di liquido giallastro con della schiuma sopra.
«Il Falcon 9 è sulla rampa di lancio 39/A, gli astronauti sono pronti»,
disse Azazello.

Il Covid19 saltellò qua e là, poi si diresse verso il succo di albicocca e venne inghiottito dal gargarozzo del cardinale il quale qualche giorno dopo venne portato in sala di rianimazione in stato confusionale.

Un corvo prese a beccare nel «cespuglio di ginestre» citato dal poeta Gallo presso la sede del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani e rimase stecchito.

Il poeta di Milano scrisse su un quotidiano che la «società letteraria» era defunta.
Un altro poeta di Genova scrisse che il «bello» era morto.

Il giorno 23 aprile la società “Word and Flat” s.r.l. con sede fiscale in Lussemburgo incassò 25 milioni di euro come anticipo per delle mascherine chirurgiche, mai arrivate, provenienti dalla Cina.

Un branco di gabbiani affamati si levò in volo verso il Campidoglio.
I cassonetti delle immondizie tornarono vuoti.
Come un tempo.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Di genitori siciliani, nella sua stirpe convivono tracce degli antichi colonizzatori della Sicilia: fenici, cartaginesi, greci, siculi, spagnoli, francesi, arabi. Ha una laurea in Lettere. Per la poesia ha pubblicato nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019

Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, ha lanciato  una nouvelle vague, un nuovo modo di pensare la poesia denominata: Nuova Ontologia Estetica. Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poesia della nuova civiltà telematica che teorizza la scomparsa dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico, ovvero, una poesia che contempli la contemporaneità e la  molteplicità di tempi e di spazi entro una unica cornice di poesia. Una forma-poesia come cornice di una molteplicità di fotogrammi e di enunciati.

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Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

Marie Laure Colasson, Gambe con calze rosse, e acrilico 30×25 cm, 2020

[L’idea del quadro è nata dalla vista di un manifesto strappato e lacerato dappertutto; rimanevano solo due gambe con calze rosse su delle scarpe nere. Marie Laure Colasson fotografa l’immagine e, giunta nel suo studio, monta l’immagine su una superficie aggiungendovi dell’acrilico]

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Benvenuti in tempi interessanti

di Slavoj Žižek

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

top pop poesia, poetry kitchen, soap poetry e top picture

Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto,
Faust chiama mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini.

Sorprendono gli intenti esecutivi della coloristica di Marie Laure Colasson e gli incisi narrativi di Vincenzo Petronelli e di Giuseppe Talia, la maestria comune ad entrambi nel modo dei tocchi, degli affondi, degli incisi, del fraseggio, delle citazioni, nel recupero fulmineo di tracce di memoria e di tracce di rovine, di avatar, di esperienze stracotte. D’istinto, c’è il seguire i punti culminanti o luminosi d’un oggetto; vengono esasperate le relazioni, in modo da imporre all’attenzione dello spettatore il reticolo accidentale o, semplicemente, evenemenziale della datità. Le sensazioni dello spettatore vengono così dinamizzate in un difficile gioco tra la volontà di vedere tutto e magari anche la rimembranza e la negligenza di non vedere null’altro che inezie, aspetti secondari, modellizzazioni esornative. Vengono ad evidenza l’arabesco del contorno e l’intreccio dell’incontro con il superfluo, tra rapide indicazioni, masse cromatiche, stadi accennati, intensità di luci e di ombre, schermi ottici e leggi morfologiche che convivono beatamente, in bilico tra un’ottica coloristica e un’esigenza tattile e mnemonica.

Momenti percettivi dissonanti si continuano e si accostano delineando i contorni di un immaginario già cinematografico. Un racconto visivo con una trama fatta di orme invisibili, di legami celati, di ripostigli oscuri, segmenti letterari, citazioni simili a inquadrature, che ritraggono volti, occasioni, scenari, situazioni, flâneries per disegnare un ordito libero, eppure segretamente organizzato, che sembra replicare le disarticolazioni del nostro modo di vita, tra percorsi, reti, rinvii, in-direzioni, parti che collegano e s-collegano altre parti. Flussi che si intersecano, trasformano il testo in una sequenza che contiene altre sequenze, citazioni che contengono altre citazioni in un gioco di rimandi e di rinvii caleidoscopico. Scrittura narrativa caratterizzata da sorprendenti interruzioni – impressioni quotidiane colte con agili tecniche della ripresa continua e interrotta –, che potrebbero essere interpretati anche come volontarie citazioni del linguaggio filmico.

L’occhio sensibile ai dettagli, alle casualità, a ciò che abitualmente si trascura nella quotidianità, il desiderio di toccare la realtà mentre si fa e si disfa dinanzi a noi, il culto per ciò che è stato dimenticato, smarrito, rimosso. Una visione dialettica della immobilità. Questo è propriamente una scrittura top pop oggi.

Il flâneur, gli avatar, i personaggi da fumetto sono, al pari del regista del film, dei detective, come i commissari ontalbano e Ingravallo nelle poesie di Gino Rago, che si consegnano alle incursioni del caso. Ad accomunarli è il bisogno di saldare sguardi e luoghi, in un gioco che tende a rendere ogni dato liquido e instabile. Fanno il reportage, perlustrano regioni inesplorate, intrattengono un costante dialogo con la datità e la surrealtà, il tutto per avversione della normografia opprimente del mondo odierno. Vogliono captare tutte le voci che, in contemporanea, insistono nella datità. Elaborano una filologia disinvolta per entrare dentro le tessiture del mondo. Analogamente allo straccivendolo benjaminiano, essi si aggirano negli anfratti di una temporalità frantumata e disgiunta, che non si srotola come un filo, ma appare come una corda sfilacciata in mille matasse che pendono come trecce sciolte. Per loro, uno specifico motivo non è un punto fisso, né un processo, non è una linea, ma un arabesco di traiettorie e di conflitti, di spostamenti e di salti. Sanno porre in relazioni tracce marginali, cuciono insieme vestigia, rifiuti, cadute, equivoci, ordinano un catalogo di cascami e di rovine, rinunciano alla facile sintassi del racconto, collezionano minuzie, raccolgono reliquie e oggetti disparati, interrompono cliché, conferiscono spessore a rimozioni e a dimenticanze. Catalogatori di merci usate, interagiscono con il paesaggio delle merci contraffatte e demiurgiche della civiltà globale. Fanno un archivio del disutile e del rimosso.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle cianfrusaglie, dei pettegolezzi sciorinati fatti passare per analisi psicologiche. Ma restano pettegolezzi senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia narrativa postata ieri di Giovanni Giudici è un esempio di poesia racconto (con qualche rima interna) che sarebbe stato meglio trascrivere direttamente in racconto.

La poesia kitchen, invece, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messe lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol, a distanza di settanta anni da Warhol. Celan è ancora un poeta dell’umanesimo, probabilmente l’ultimo. In lui non c’è mai un racconto, come invece avviene per la poesia italiana dagli anni sessanta in poi. E poi, mi chiedo, che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o la storia di “una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews”.
Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità del raccontare, di fare racconti in poesia. Non ha ancora capito che i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, non c’è nulla da raccontare che non sia già stato raccontato dai media, la poiesis deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace anche la poesia di Vincenzo Petronelli e di Nunzia Binetti (anche loro aborriscono il racconto). I loro avatar, i loro sosia io li leggo in versione pop, come una versione dopo la fine della storia, dopo la fine dell’umanesimo del modernismo.

I poeti e i narratori che continuano a scrivere racconti in versi e in prosa non si rendono conto della vacuità e obsolescenza di un tale indugio?

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

 VENERE

Una pentola suona il flauto
e Mission dà il LA a Master Chef

“Notizia di una pulce nata mamba.”

Si apre la bara delle chiavi.
E tu risorgi rossa. Ogiva sul tramonto.

Difficile distinguere i putti di Raffaello
Da una sedia elettrica.

Sacco, Vanzetti…”SILENCE”
La clessidra dei bimbi morti al secondo.

Tecnologia che affranca la pantera dall’ indios
contraddice Bolsonaro.

Te ne vai ma la pubblicità resta salda ai pubblicitari
Nano-cellula contro nano-offerta.

Filini arbitro e santo subito.

Yersinia questa volta
Come a rifocillarsi del pan degli angeli

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Tre Strutture dissipative del 2020 di Marie Laure Colasson, Il gesto linguistico e il gesto pittorico, Dalla scrittura a frammenti al polittico e alla poetry kitchen, L’arte insegue il reale o è il reale che insegue l’arte? Dialogo tra Lucio Mayoor Tosi e Giorgio Linguaglossa, Scopo dell’arte è reinventare il reale, Poesie di Mario M. Gabriele, Carlo Livia

Marie Laure Colasson XY Struttura dissipativa 25x60 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa XY, acrilico 80×30 cm, 2020

Marie Laure Colasson YY Struttura dissipativa 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa YY, acrilico 50×30 cm., 2020

Marie Laure Colasson XX Struttura +dissipativa

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa XX, acrilico 50×30 cm., 2020

Ed ecco che la struttura dissipativa di Marie Laure Colasson giunge alla sismografia della luce e delle forme, alla spettrografia come sismografia del frammento, al frammento come linguaggio originario, linguaggio allo stato aurorale incipitario. Perché lo scopo dell’arte è oggi quello di reinventare il reale. Occorreva ripartire dall’alfabeto e dal lessico del frammento e dalla forma frammento, dalle forme primordiali della curva e della semiretta, dalla luce e dal colore per poter costruire una nuova sintassi dove la forma-colore e la forma-limite assumessero un ruolo determinante. Il tratto, il graphein singolare trascrive la sismografia del testo, il luogo-non-luogo che soltanto il frammento può abitare. Ha scritto Lucio Mayoor Tosi: «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto, senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Il commissariamento della poiesis

Il tedio di Dio, la mia ultima opera, pubblicata nel 2018 per i tipi di Progetto Cultura di Roma segna un punto: la scomparsa dell’io  totalitario e panottico che ha fornito il binario della poesia europea dal 1970. L’io oggi non è più il punto di riferimento del discorso poetico. La poesia dell’io e delle sue adiacente che si fa in Europa da alcuni decenni è Kitsch e conformismo senza neanche avere coscienza del kitsch.

 «Il frammento è il sigillo di autenticità dell’arte moderna, il segno del suo sfacelo», ha scritto Adorno nella Teoria estetica nel 1970pensiero quanto mai vero che si insinua all’interno del facere della «nuova poiesis» con lancinante attualità. L’aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre («il tutto è il falso») è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia di Hegel che recita: «Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]». La poetica del «frammento» e la poetry kitchen sono la risposta più drastica che la poiesis oggi dà alla Crisi dell’arte, con la consapevolezza che la poiesis del «frammento» è la poiesis del negativo, della negatività assoluta che confuta il «vero» e il «falso», il «vuoto» della «totalità» che abita l’ideologia della compromissione in cui oggi tutti siamo coinvolti. Le immagini della poiesis diventate effimere, serializzate, moltiplicate, e quindi de-realizzate, precipitano nel valore di scambio e nella inautenticità di qualsiasi enunciato che oggi la poiesis possa abitare.

Ad essere revocato nel nulla, e cioè nell’inesistente, è il «valore» della poiesis, è la posizione nel mondo della poiesis, tant’è che non suscita più alcuna meraviglia che le immagini dell’arte siano state sostituite con gli avatar, le copie, le icone. In questo contesto, la diagnosi di Fredric Jameson sul postmodernismo (secondo cui le tipiche armi dell’avanguardia novecentesca: lo choc, la rottura, lo scarto, l’incomunicabilità, il nuovo sono diventate variabili richieste dal sistema, replicabili e serializzate all’infinito) coglie nel segno. Parlare del valore di posizione, di op-posizione della poiesis, è oggi una utopia da anime intonse. Semmai, lo scopo della poiesis non è tanto creare un varco nella significazione ma negare la stessa significazione per sostituirla con il «vuoto» del segno.

«È ormai ovvio che niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza», ha scritto Theodor W. Adorno nella Teoria estetica.

(g.l.)

Mario M. Gabriele

Una Jeep  Renegade ferma davanti alle VideoNews.
Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
dove  meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

Non dicono molto
ma rappresentano episodi di prosa spontanea.

Esterno. Campo vietato. Bandiere a mezz’asta.
Resiste in classifica
L’Enigma della camera 622 di Joel Dicker.

Meg ha in mente un viaggio,
lasciando la speranza ai poveri  e i copecki ai ciechi.

Un Web-designer accende il PC
per correggere i fogli di Criminal Found.

Rivediamo i Mondi di Oz
anche se Turner lo fa di malavoglia.

Il cane bassotto
non trovò le tracce dell’assassino della piccola Maddie.

Tace la radio Deejay. Non c’è nessuno
che ascolti gli Scorpions.

Tornano in gioco Hamm e Clov
nella Febbre del Sabato Sera.

Volano i tweet. –Andrà tutto bene.
Ne sono sicuro- ,  disse il tutor su Instagram.

Si è fatto tardi. Silenzio blu notte
con flash mob lungo il colonnato.

Una farfalla muore sul poster di Guernica.
La guardo se mai dovesse volare via.

TM 22 è il numero del Call Center
per vedere Shining di Stanley Kubrick.

-Manca l’attitudine a produrre verità e trarre un film-
disse il critico all’autore della sceneggiatura.

Schermo piatto.Colore nero.
Diffusione di lampade Led in Galleria.

Miss Klary  stava dietro ad una storia
dopo i dati dei subplots.

Voce di fondo e inquadrature a fumetti
nelle mani  di un viaggiatore nel mondo.

Dolly voleva riprendere il cielo con uno Zoom
e ricavarne una Metafisica.

-Va bene, puoi provarci.
Saranno le nuvole a distrarti-,
disse  Seanbook, manager del Progetto Outline
affiliato alla Glenn Artur jr e Company di Filadelfia.

Ginsberg, in quarantena, chiedeva Howl.
Voleva mettere qualcosa di suo e della Corea
con uno shock  stellato di misericordia.

caro Mario,

Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
La tua poesia, caro Mario, è l’epitaffio più sincero che oggi si possa scrivere per il cadavere della poiesis.

(Giorgio Linguaglossa)

caro Giorgio,

La mia perplessità è un’altra: ci sono voluti anni per mettere a punto un discorso critico sulla scrittura a frammenti, anni per creare in distici (tra l’altro, allo scopo, penso io, di stabilire una situazione d’obbligo alla poesia, non divagante ma per aprire gli occhi, svegli nel sogno), anni per la struttura a polittico (come per allargare confini), per poi ripiegare sul verso libero, anche se in forma di casamatta, cioè di architettura non per upper class… ora Pop, tra Rushdie e il Tarantino di Pulp Fiction, la più avanzata cinematografia. Tutto questo mentre sento crescere, nel mio piccolo mondo, il bisogno di riordinare (il mio stupore nell’accorgermi di stare nel marasma con simil doppi ottonari e novenari)… Abbiamo riaperto le danze?

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

penso che scopo dell’arte sia quello di reinventare il reale. Come apparirà chiaro leggendo la poesia di Intini o di Gino Rago, nella nuova ontologia estetica, la forma grammaticale non è una eco visibile di un pensiero invisibile che si trova nella cellula monastica dell’io del poeta. Al contrario, è la forma grammaticale che determina ciò che io penso, è la struttura grammaticale e la struttura sintattica che determinano ciò che io penso. L’io è quindi un epifenomeno. Ecco spiegato perché nella nuova ontologia estetica l’io è quasi assente, o, se è presente, è presente come un io tra i tanti. Il significato è un evento secondario del linguaggio, direi un evento terminale, l’evento primario sta a monte del significato e, a rigore, a monte del linguaggio, alla sorgente del linguaggio. L’evento è l’atto sorgivo del linguaggio.

Per Wittgenstein il significato non è un evento mentale: Quando Wittgenstein nelle sue osservazioni filosofiche, analizza il grido «Lastra!» che il muratore dice al manovale di passargli una lastra, cioè che qualcuno deve portargli una lastra, vuole far capire che tutto dipende dal modo in cui quel grido è usato, dal contesto in cui accade e, più in generale, dall’insieme delle relazioni che sussistono tra i parlanti, non da ciò che eventualmente passa per la mente di chi parla. Ma ciò è quanto dire che non possiamo fare riferimento al pensiero per considerare incompleta una forma linguistica: ciò che pensiamo, per Wittgenstein, non determina il significato delle nostre parole.

Quando metto sotto accusa il capitalismo internazionale non mi passa per la mente un giudizio già preso perché so che ciò che io chiamo il mio pensiero è una diretta conseguenza dello stato delle cose che il capitalismo determina nel mondo. Io non sono un populista che mescola patate e pomodori e arsenico, io mi limito ad argomentare che le patate e i pomodori sono cose diverse dall’arsenico, anche se tutti e tre questi prodotti sono manufatti del capitalismo. Il marxista comunista che esprime un pensiero critico sa che il significato che noi diamo alle nostre parole è un epifenomeno del linguaggio che viene impiegato. Ma una poesia di Intini o di Gino Rago o di Marina Petrillo sono cose diverse proprio in quanto manufatti distinti, ma sono tutti prodotti del sistema capitalistico e del pensiero critico che si innerva nel linguaggio.

Wittgenstein ci dice che un gesto linguistico ha un significato non già in virtù dei pensieri che attraversano la mente di chi parla, ma in ragione della sua appartenenza ad un determinato «gioco linguistico». Ne segue che alla forma grammaticale del linguaggio non è affatto chiesto di rispecchiare i pensieri che abitano e sgomitano nella nostra mente mentre la esterniamo, poiché il senso di una proposizione dipende dall’uso che se ne fa in una circostanza determinata. E ogni nuova circostanza determina un nuovo «gioco linguistico», e così il «gioco» va avanti e il «significato» delle parole cambia, si modifica. Ciò che pensiamo non determina il significato delle nostre parole. Il significato è determinato dal «gioco» di innumerevoli fattori che intervengono all’interno del campo del linguaggio.

Scrive Wittgenstein:

«quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? — Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici (come potremmo dire) sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «gioco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: comandare e agire secondo il comando — Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni — Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) — Riferire un avvenimento — Far congetture intorno all’avvenimento — Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova — Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi — Inventare una storia; e leggerla — Recitare in teatro — Cantare in girotondo — Sciogliere indovinelli — Fare una battuta; e raccontarla — Risolvere un problema di aritmetica applicata — Tradurre da una lingua in un’altra — Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare».1

(Giorgio Linguaglossa)

1 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 23.

caro Giorgio,

Ma tu pensi davvero che io abbia avuto un pensiero a monte, o peggio una opinione in merito alla vicenda di Silvia Romano, tale da dover essere comunicata in poesia? Questa mia è una risonanza, un prestito, un guazzo figurativo, una restituzione dovuta a quanto nella mente ho recepito della bagarre pseudo politica di questi ultimi giorni.
Di solito evito la poesia dedicata, ma ho avvertito il momento favorevole al non senso. In momenti così posso scrivere qualsiasi cosa. E’ accaduto.
Il non senso è scrittura che si fa con il vuoto, non può darsi con alcun progetto. Quindi, per restare nel tuo pensiero, il non senso sfugge al sistema capitalistico, come a qualsivoglia ideologismo. Caro Giorgio, io non mi pre-occupo di essere di sinistra, penso di essere l’unico comunista sereno che esiste al mondo. Non indugio su l’istinto di morte perché so che morte e vita, una forza e l’altra, sono Yin e Yang che si intersecano, e una va nell’altra sicché l’immagine a me non pare affatto divisa, o contrapposta. Anche questo è “pensiero critico che si innerva nel linguaggio”.

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

io alle poesie a tema non ho mai dato credito. Si tratta di poesia-a-tesi. E la poesia, la Musa rifugge da ogni tesi, foss’anche la più nobile. In questo senso la tua poesia è bella, ma è troppo «direzionata», alla fine non dice niente di più di quel che dice, rientra nel «significato» che volevasi dismettere e far uscire dalla finestra.

Se leggi la prima e poi la seconda versione della “Storia di una pallottola” di Gino Rago, ti accorgerai che nella prima stesura la poesia era troppo fedele al «significato», nella seconda invece si è liberata del e dal «significato» e il risultato è senz’altro migliore.

Questa strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica, è una lotta incessante perché il «significato» ci circonda da ogni parte e ci soffoca e la Musa muore soffocata dai truismi.

Tu dici che «il non-senso sfugge al sistema capitalistico»? Io invece penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore e della accumulazione del capitale che, in sé è un non significato, è un atto di fede. Nient’altro. È una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede. Se cessa la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cessa di colpo anche il capitalismo. Ma queste cose le ha ben spiegate Agamben (per ultimo).

Io penso che quando tu fai poesia per scherzo, dissipi le tue migliori qualità. La poesia non è uno scherzo, e anche quando assume la forma di un divertissement, dice cose molto serie.

(Giorgio Linguaglossa)

Carlo Livia

UNA CANOA DI LAMPI

Se Tu
( in sogno )
ritorni nella Pausa
( capovolta invano )
sospinta in alto verso
( nuvole, sospiri, particole svanite )

Se Lei
( nella pioggia pallida )
ti chiede la gioia suprema
(del mondo senza di te )

Se Tu rifiuti e ti armi di
( parole, tenebre, farmaci, spigoli )

Assassinando la sera il lampione
( il cuore ) sbaglia tristezza

( l’addio è pieno di germogli di donna
ma ha la malattia immortale )

Se il suo corpo ti dice assente ma
( ha canti e prigioni inesplorabili
decompone l’angoscia in sette precipizi morbidi )

In fondo ad ogni anima
c’è la stessa Vergine implacabile
che aspetta

Ai suoi piedi il livello dell’amore
( dell’orrore )
cresce come un fiore

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La top-pop-poesia erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna, Storia di una pallottola n. 6 e 7 di Gino Rago, da Wittgenstein a Žižek di Giorgio Linguaglossa, Uomo in canottiera di Giorgio Ortona

Uomoincanottiera,2012,oliosutelaincollatasutavola,32,2x16,2cm

Giorgio Ortona, Uomo in canottiera, 2012, olio su tela incollata su tavola, 32,2 x 16,2 cm.

La figura in canottiera colorata ritratta da Giorgio Ortona può essere considerata una segnatura. Che cos’è la segnatura? Possiamo dire che è qualcosa che rende possibile la significazione, la forma primordiale che conferisce significato e senso alla immagine ritratta, la quale «non coincide con il segno, ma è ciò che rende il segno intellegibile»,1 scrive Giorgio Agamben. Il segno, infatti, in sé sarebbe muto e necessita, per produrre significato e senso, di essere animato in una segnatura. La segnatura non è soltanto il significato a cui il segno rimanderebbe, ma è ciò che, insistendo sulla relazione fra signans e signatum, la sposta e la disloca in un altro ambito, «inserendola in una nuova rete di relazioni prammatiche ed ermeneutiche».2 Come i segni dello zodiaco sono delle segnature che rimandano ad una relazione di somiglianza fra la costellazione e i nati sotto il segno, implicando una relazione fra il macrocosmo e il microcosmo, così la segnatura originaria, ovvero, la lingua, si definisce a partire da una somiglianza fra i nomi e le cose, ma proprio questo obbliga a intendere la somiglianza non come qualcosa di fisico, bensì come qualcosa di immateriale. Ecco perché, per Agamben la lingua, in quanto «scrigno delle segnature», è l’«archivio delle somiglianze immateriali»,3 così come la figura ritratta nel dipinto di Ortona costituisce un archetipo umano nel quale tutti possono riconoscersi per qualche somiglianza immateriale.
(g.l.)
1 G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 38.
2  Ivi, p. 35.
3  Ivi, p. 44.

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La top-pop-poesia erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna

scrive il filosofo Slavoj Žižek:

«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

La «struttura tragica» di Madonna ha bisogno dell’oggetto. È sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo. Non sono d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica. La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.

Io penso invece che lo scacco matto del capitalismo globale è proprio l’aver rimosso la pulsione di morte, averla addomesticata e averla cancellata e rigenerata sub specie della «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito. La pulsione di morte è il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia sulle merci come un mana, un sortilegio che accalappia tutti gli umani post-umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.

Già Marcuse nei tardi anni cinquanta affermava che oggi le categorie psicologiche sono diventate categorie politiche. Che io chioserei così: oggi le categorie del politico sono diventate categorie della nuova psicanalisi e dei versanti cognitivisti della psicologia contemporanea.

La top-pop-poesia che stiamo facendo ha questa chiarissima consapevolezza, questa auto evidenza, che «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger) e che tutte le categorie della retorica della vecchia poiesis sono diventate categorie della nomenclatura psicologica; psicologismo ed estetismo si equivalgono e sono equipollenti nella inanità complessiva del pensiero filosofico sotteso.

Così, il «soggetto» della nuova pop-poesia diventa una «pallottola» sparata non si sa da chi e contro di chi. E qui il commissario Ingravallo fa cilecca perché le sue categorie indagatorie fanno cilecca, si rivelano carta straccia. E non potrebbe non essere altrimenti.
La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della pop-poesia o top-poesia che dir si voglia.
Penso che la pop-poesia abbia scoperto la valenza gestuale del linguaggio, a prescindere dal significato e dal senso. Cioè il linguaggio ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non vedeva, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo, eppure un pensatore come Wittgenstein lo aveva chiarito da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è parte di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. E una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La pop-poesia è linguaggio gestuale e figurato allo stato puro. Ma ciò non significa che sia senza significato o senza senso come pensava l’ontologia del linguaggio poetico del novecento, al contrario, nella pop-poesia la valenza e la potenza del linguaggio figurato e gestuale ne viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

Scrive Wittgenstein:

«Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia».2

(Giorgio Linguaglossa)

1 Slavoj Žižek e Glyn Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Intervista a Žižek, Dedalo, 2004 p. 92
2 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche § 11

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa.. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

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Gino Rago
Storia di una pallottola n. 6

Marie Laure Colasson accende la sigaretta elettronica
nel salone congressi dell’Hotel Excelsior.

Ha i nervi a pezzi, non riesce a completare una “dissipazione”.
Con la mano destra sfiora il manico di madreperla del revolver,
con la sinistra tira fuori rossetto e specchietto dalla Birkin.

La Colasson: «Non credete nella Memoria…
è un deposito di bagagli, di oggetti smarriti».
Entra Tristan Todorov: «Madame Colasson, Lei ha torto:
Il problema della memoria è che il passato
è una scatola vuota…
Affinché possa servirci occorre che venga riempita».

Il Covid19 interroga i topologisti di Mediolanum
i quali si alterano, litigano e strappano i manifesti dei formalisti russi.
Mimmo Rotella di soppiatto stacca le locandine
delle Opere in programma alla Scala.

Pietro Citati parla dell’armonia del mondo,
e dell’opera d’arte.
«Ippocrate dice che il sangue ha sede nel cuore, il flegma risiede nella testa,
la bile gialla nel fegato, la bile nera invece nella milza.
La melanconia dipende dalla bile nera…».

Il dottor Ingravallo irrompe nella sala congressi dell’Hotel Excelsior,
strappa il revolver dalla mano di Marie Laure Colasson.
«Madame, la dichiaro in arresto».

Parte un colpo.
La pallottola colpisce un carrello della spesa
del supermarket di via Galvani, corre verso il cesto della biancheria,
coglie lo spigolo del frigorifero della cucina dell’Hotel di fronte,
attraversa il cassetto del comodino, sfiora l’anta di un armadio
dove c’è Carlo Emilio Gadda davanti al lavandino che si rade la barba.

Marie Laure Colasson ripone il revolver nella borsetta.
Chiama qualcuno con il cellulare.
«Dottor Ingravallo è un sogno!, non sono io l’assassina, mi creda
ma il poeta Gino Rago.
È lui l’autore di tutto questo trambusto!»

Marc Fumaroli ama l’arte della conversazione,
conversa amabilmente con il Signor Shakespeare e il Signor Brodskij.

«Il mio gatto Proust, solo lui capisce i miei sogni!»,
si lamenta Madame Colasson, la quale è ancora impegnata nella destrutturazione
delle sue “Strutture dissipative”. Continua a leggere

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Dopo le avanguardie, L’età dei Manifesti è finita, Il Brillo box di Warhol (1964), La pittura pop corn, la soap pittura, la poiesis top-pop, la poetry kitchen, Covid garden di Lucio Mayoor Tosi, Poesia, Storia di una pallottola n. 16 di Gino Rago, Dopo le avanguardie, di Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden 3 acrilico, 50x70 cm, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 50×70, 2020

Dopo le avanguardie, che nell’idea di Danto (2009) hanno avuto il loro momento culminante con l’opera di Andy Warhol, l’arte è entrata in una «dimensione post-storica» in cui nulla sarà più come prima e tutto, almeno sotto il profilo artistico, diventerà davvero possibile…

In Dopo la fine dell’arte, Danto compie una operazione storico-filosofica. Prescrive cosa pensare dell’arte dopo la caduta dell’idea di un progresso storico dell’arte. L’arte, secondo Danto, è prima divenuta autocosciente e quindi auto-riflessiva perché ha smesso di concentrarsi sulla rappresentazione del mondo. “L’Età dei Manifesti”, peculiarità dell’epoca “moderna” (poco meno di un secolo dall’Impressionismo al Brillo box del 1964 di Warhol), si caratterizza per un’altra direzione di ricerca: non più l’imitazione del mondo, ma l’affermazione di volta in volta di sé come verità del proprio concetto.

Scorcio, chiaroscuro, prospettiva, fisiognomica… queste furono le scoperte del Rinascimento che consentirono di produrre immagini che apparissero fedeli agli oggetti rappresentati. Fu una scelta di poiesis decidere come dipingere, ma non come «vedere», il «vedere» resta immune da interventi di carattere «politico». Il «vedere» dell’arte del medioevo era il vedere dei cristiani che guardavano le immagini di Gesù, santi e di madonne e restavano estasiati… Il «vedere» era in funzione della ideologia teologico-politica della Chiesa e dei suoi committenti al sorgere del capitalismo.

Non ogni sistema di rappresentazione figurativa ha comportato quella scelta di poiesis. Per esempio, nelle pitture parietali romane di Pompei la preminenza assoluta è a un sistema del «vedere» che coinvolge gli abitanti della Domus., Cioè il «vedere» della pittura parietale è in funzione del dominus e della sua famiglia, il «vedere» le pitture fa parte di un certo modo di vita dei romani dell’epoca in cui l’arte parietale ne era parte integrante.

Con l’impressionismo il «vedere» cessa di essere un atto della polis, non è più un atto politico. Con gli impressionisti la pittura diventa un fatto privato, un affare del soggetto e della soggettività.

Mi scuso con Lucio Mayoor Tosi per questo fugace e rapido accenno a questioni molto complesse, la sua pittura del Covid garden con il signore o la signora sdraiata in giardino è, propriamente e letteralmente, una pittura privatistica, quel signore è un privato che si sta godendo un po’ di ozio grazie alla clausura dovuta alla pandemia del Covid19.

Quello che Lucio ci mette di suo è nel rendere evidente, in modo pop e soap, la manifesta privatizzazione del signore o della signora sdraiata, costui-costei sembra fregarsene della pandemia e dei morti e del disastro dell’economia e di tutto il resto… Quel signore è ormai un privato cittadino con il suo bravo conto in banca i cui titoli investiti in rendite gli consentono di poter vivere comunque con una certa garanzia di agiatezza. Lucio Mayoor Tosi rende evidente questo guasto, questa mostruosità antropologica del cittadino delle società post-democratiche dell’Occidente che è diventato un privato il quale se ne frega (nel senso che ne è inconsapevole) delle ripercussioni del Covid nell’economia planetaria. Questo signore sdraiato è un mostro incosciente, è perfettamente incosciente di tutto ciò, è un privato cittadino che magari vota Lega o 5 Stelle o PD, ma nulla cambia, lui è un egoista che bada soltanto alle sue rendite di posizione.

Lucio Mayoor Tosi ha fatto la scelta di un «realismo» temperato. Fa un passo all’indietro per poterne farne due in avanti, in direzione di una pittura pop e pop corn: conserva il «figurativo temperato» in frigorifero per quanto riguarda la figura umana e lascia il non-figurativo in lavatrice per quanto riguarda gli sfondi che restano non figurativi. E ciò in consonanza con la caratteristica fondamentale del nostro tempo di fine della metafisica, e quindi di fine della rappresentazione realistico-mimetica con gli sfondi realistici.

Michelangelo Buonarroti adottò uno stile diverso da quello dei fiamminghi che avevano optato per il realismo, scelta in un certo senso più convenzionale e «divozionale», quella dei Fiamminghi. La sua adesione al realismo, quella di Michelangelo, è una scelta precisa. Lasciamo la parola al pittore italiano:

«La pittura fiamminga… generalmente soddisferà un devoto qualunque più che la pittura italiana; questa non gli farà versare una lacrima, mentre quella di Fiandra gliene farà versare molte, e ciò non per vigore e bontà di quella pittura, ma per la bontà di quel tal devoto… Molte volte le immagini mal dipinte distraggono e fanno perdere la devozione almeno a quelli che ne hanno poca; e al contrario quelle che sono divinamente dipinte anche ai poco devoti e pronti a ciò, provocano e traggono le lacrime, ed ispirano col grave aspetto riverenza e timore». A questo punto però ci si dovrebbe domandare se il progresso della pittura non si sia davvero fermato già con la produzione tardo-rinascimentale, dato che, ad esempio, l’illusione dello scorcio, raggiunto progressivamente da Michelangelo «nell’arco dei quindici anni in cui realizzò la volta Sistina … acquistò importanza nel XVI secolo fino a diventare, più tardi, un luogo comune della tecnica artistica.»1

L’adesione di Lucio Mayoor Tosi ad un «realismo temperato» gli consente di fare una pittura pop corn. Del resto, non aveva altra scelta che ritornare al realismo mimetico per poter sferrare un colpo al realismo ipofisario e apologetico dell’arte accademica di oggi.

L’individualismo dell’arte del novecento va di pari passo con l’auto consapevolezza degli artisti di punta ed è testimoniato da quel prodotto eminentemente modernista che è il manifesto. Il manifesto è un decalogo che esprime i criteri secondo i quali narrare la storia di un determinato stile o opera d’arte. Come le poetiche degli artisti stessi e dei poeti (ad esempio quelle di Malevich, Mondrian, Reinhardt, Kandinsky, Marinetti, Bréton, Tzara, Dada, i cubofuturisti, gli acmeisti ecc.) possono essere considerate dei manifesti, e i manifesti possono essere considerati opere d’arte in sé, le opere sono degli epifenomeni eventuali che potrebbero anche non arrivare. Tra l’arte come manufatto e la teoresi subentra una scissione, una Spaltung.

(Giorgio Linguaglossa)

1 Francesco d’Olanda, Dialoghi michelangioleschi, cit. in F. Zeri, Pittura e Controriforma, Einaudi 1957, pag 32

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden Blues 40x50 cm acrilico

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Blues, acrilico, 40×50, 2020

Una domanda:

Se un museo, una galleria o una istituzione universitaria o un editore esponessero pubblicamente un avviso, un risvolto di copertina, una didascalia, un manifesto etc. in cui si avvertono i visitatori, i lettori, gli utenti che non si può essere tanto sicuri che gli oggetti esposti siano delle opere d’arte, cosa accadrebbe?

Risposta:

a) Si rischierebbe di compromettere non solo la credibilità dell’istituzione stessa ma anche il ruolo, il valore e il significato che la società annette proprio a quel tipo di oggetti.

b) Si rischierebbe di compromettere la credibilità e la veridicità di quelle didascalie che accompagnano le opere d’arte.

c) Il risultato sarebbe la de-valorizzazione di tutti i manufatti artistici. Situazione nella quale già siamo da tempo.

d) Come si può essere certi che il Brillo Box di Warhol sia un’opera d’arte e non una cosa comune, quand’anche diversa da una confezione di detersivo o di lucido per scarpe o una lattina di fagioli?

Lucio Mayoor Tosi Covidgarten, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 50×40, 2020

Gino Rago
Storia di una pallottola n. 16

Ufficio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani.
Il titolare, Giorgio Linguaglossa, riceve il commissario Belfagor
che ha sostituito gli incompetenti Ingravallo e Montalbano:
«Dopo mesi di indagini, intercettazioni, pedinamenti e appostamenti
quei due incapaci non hanno ancora detto una parola chiara
sul revolver calibro 7,65
e sulla pallottola di Marie Laure Colasson.
All’Ambasciata di Francia di Piazza Farnese c’è aria di maretta».

Piazza Cavour. Davanti al Palazzaccio scoppia una rissa.
I poeti del “Verri” e di “Officina” si avventano contro i nuovi scrittori di “Nuovi Argomenti”,
Luciano Anceschi è furioso con Moravia,
Roberto Roversi aggredisce Enzo Siciliano.
Alfredo Giuliani vuole strangolare un tizio della parola innamorata,
un celerino prova a separarli.
Arriva il commissario Belfagor.
Scappano tutti verso il circo alla Circonvallazione Clodia
per confondersi con la folla degli avvocati e degli assistenti alle udienze.

Luna Park dell’Eur.
Dal tiro a segno un colpo va a sbattere sulle montagne russe.
Entra nell’atelier di Madame Colasson.
La pallottola squarcia la Birkin posata su un divanetto rococò
e buca la gonna della pittrice
che sta terminando il collage “Notturno n. 14” in acrilico.
Fa volare pennelli, tele, vinavil, tubetti di colore,
limature di ferro, cartoncini, risme di carte, cartoline illustrate,
album di foto, macchine fotografiche, cavalletti ed entra
nel sogno del poeta ceco Karel Šebek.

La pallottola viaggia così lenta che il commissario Belfagor
riesce a seguirne la traiettoria sempre nello stesso sogno.
Infine si spiaccica sul busto di bronzo di Eugenio Montale.
E qui finisce la storia.

Il commissario Belfagor telefona a Giorgio Linguaglossa
all’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani.
«Dottor Linguaglossa, ho risolto il caso,
la pallottola dell’egregio poeta Gino Rago ha finito la sua corsa.
Si è spiaccicata sulla statua di bronzo di Eugenio Montale…
Dia la notizia all’Ambasciata di Francia».

Gare de Lyon. Louis Malle gira l’ultima scena del film
“Zazie dans le métro” e festeggia con Queneau e Philippe Noiret.
Madame Colasson beve un pernod con ghiaccio.
Telefona a Madame Philoméne Ragò: « Finalmente tutto è finito.
Era diventato un incubo.
Madame Ragò, accetto il Suo invito.
Questa estate, verrò in vacanza all’Antica-Dimora-Palazzo-Rovitti». Continua a leggere

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C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea, top-pop-poesia, poetry-kitchen, pop-corn-poetry, Poesie inedite di Guido Galdini, Carlo Livia, Francesco Paolo Intini, L’esperimento non è riuscito, Caleidoscopio della caduta di Marie Laure Colasson, commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Caleidoscopio, acrilico 30x30 2008

Marie Laure Colasson, In frantumi, acrilico 30×30 cm, 2012

La scrittura poietica di Marie Laure Colasson mette in scena il «In frantumi», un caleidoscopio della caduta verticale, la de-valorizzazione di ogni valore, la «caduta» fino al punto zero della significazione, fino ad un fondo senza sfondo. Di qui la figurazione dei libri in caduta, lo smottamento delle poltroncine  e delle sedie. Ogni elemento del sistema reticolare dei rinvii è se stesso soltanto perché è già in rapporto differenziale con tutti gli altri elementi. È se stesso (autos) in quanto non rimanda a se stesso. Tale è il nomos  che detta all’esperienza della vita il suo ordine  come Lebenswelt  da cui proveniamo ma al quale non possiamo mai attingere in modo diretto, giacché la vita stessa è disseminazione, traccia, rinvio, diversione da se stessa,  espropriazione, spettro dell’auto-distanziamento psicologico e sociale dell’“io”. Ogni segmento di Erleben  è in se stesso sempre altro. La autoeterootobiograficità della poiesis colassoniana è qualche cosa che eccede di gran lunga il genere dell’autobiografia.

 L’autootoeteronomia del discorso poietico innerva l’esperienza di questa scrittura figurale al di fuori dei generi in quanto in-differenza al campo del racconto, in-differenza fra narrazione cronologica, mimetica, figurativa, affresco epistolare, diario, confessione, mixage  di generi allotri. Non vi si trova mai un moto centripeto perché l’“io” non c’è, al suo posto v’è un cinetismo di apertura centrifuga verso l’altro, la disseminazione dei  frantumi e dei sentieri e delle tracce. La caratteristica più evidente della poiesis colassoniana è la  finzionalità, in quanto qualcosa sta sempre per qualcos’altro.

 Così, il finzionale induce il soggetto che si  racconta a indossare maschere, a inseguire la polifonia, la politonia, a dis-identificarsi, e questo accade nel momento in cui la tensione auto-poietica del soggetto tocca il suo apice, rivelando l’autoinganno come necessità per la propria sopravvivenza in quanto soggetto. Il riprodursi della vita è presupposto nel concetto di «sopra-vivenza», in quanto la vita stessa (autos) è «dissimulazione».

 Questa scrittura figurale ospita la disseminazione del sé. Da qui l’insistenza sul tema della «caduta», della de-valorizzazione, della de-fondamentalizzazione del valore e dei significati, della in-differenza tra testimonianza e finzione, tra finzione e lutto. La de-valorizzazione non lascia tracce ma macerie e rottami, la poiesis colassoniana si occupa di questo, della «caduta» di un intero mondo di significati.

 Nel tracciare il profilo di se stessi, disegnando l’autoeterootobiografia, la Colasson aderisce alla poetica della disseminazione, della traccia, del rinvio e delle maschere. La vita è innanzitutto maschera e survie: «dal momento che vi è una traccia, quale che sia, essa implica la possibilità di ripetersi, di sopravvivere all’istante e al soggetto del suo tracciamento, di cui essa attesta così la morte, la scomparsa, o almeno la mortalità. La traccia configura sempre una morte possibile, essa firma [signe] la morte».1

 La traccia rimanda al dialogo fra “auto” e “oto” (radicale che rimanda all’orecchio, organo del corpo sempre aperto all’esterno) e alla scrittura poietica come processo dialettico fra auto, oto ed etero.

(Giorgio Linguaglossa)

1 J. Derrida, Papier machine, Paris 2001, p. 393.

 

Giorgio Linguaglossa

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea

questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecenteschi, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito. A questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1

Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

L’esperimento non è riuscito

l’esperimento non è riuscito

di ricongiungere rallentare e disperdere
le cianfrusaglie della nostra vita

di rinunciare prima di aver desistito

di accostare i lati opposti dell’ombra
per ottenere un terzo lato segreto

di sottomettere l’euforia di un ruscello

di avere fatto finta di capire
senza destare il minimo sospetto

di far sempre qualche sogno indeciso
ogni volta che termina l’estate

di restituire quello che ci hanno rubato

di confidare a qualcun altro
ciò che andava taciuto anche a noi stessi

di guardare lo specchio all’improvviso
per smascherarci prima d’esserne delusi

di coniugare tutti i verbi al futuro
per dimenticare un po’ più in fretta il passato

di coniugarli al passato
per difenderci dalla fretta del futuro

di chiedere a chi si sta allontanando
perché cammina fingendo di ritornare

di contare le lettere della parola felicità
ed arrivare sempre fino a sette

di far rotolare le biglie giù da un piano inclinato
per misurare la solitudine dell’attrito

di tracciare due rette parallele
che si separeranno all’infinito

di rallentare la velocità degli istanti

di prevedere il passaggio della cometa
dalla sua coda riflessa in una pozzanghera

di sottintendere quel che c’era da scavalcare

di credere alle promesse dell’equinozio

di attraversare tutto il mondo a occhi chiusi
per rinunciare al fasto dell’apparenza

di ingarbugliare fino a che diventi più chiaro

di sopperire alla cautela dei ricordi
rovistando tra le rovine e i miraggi

di accorgerci che abbiamo seguito
un sentiero che non c’era mai stato

di impedire che l’arrivo diventi
un’abitudine da raggiungere verso sera

di imparare a memoria
le poesie partendo dalla fine
per non raccogliere la sfida dell’impazienza

di separare ciò che resta da vendere
da ciò che si può soltanto regalare

di regalare a tutti qualcosa di rosso

di riconoscere la fuga delle stagioni
dalla diminuzione delle parole
e dall’aumento dei sottintesi

di terminare prima che faccia buio
gli esperimenti non riescono quasi mai

 

Carlo Livia

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.

Un amour appelé adieu

La Visione mi trasforma in ripostiglio.

È l’urlo dell’insetto che solleva la notte.
Mostra la soffitta malata, senza Padre.

Il Santo beve l’ultima goccia di sposa dal canto dei boscaioli.
Nel lampione drogato la morte alleva i suoi tesori.
Gesti d’acquario, solitudini olandesi. Volti velati intorno all’amplesso che brucia.

Nous vivono dans un suicide eternel, de l’istant blesse’ par le filles en fleur.

Lei m’invoca dal buio ornamentale. Libero la sua tristezza dal bestiame furioso.

Nel viale appena risorto, mangiamo e beviamo la sera che ci ha diviso.
Insieme possiamo capovolgere l’abisso – dice.

La via è piena di cadaveri ribelli, coperti di lunghe estasi.
Canzoni nubili espatriano in un autunno osceno.
Passano cipressi, in un sogno torbido.

Sotto il piedistallo vuoto, bestie dementi danzano e sventagliano l’Immortale.

/…/

Lady Dark, sauve-nous de ton eclair initial.

Uccelli e orologi trapuntano l’angoscia. Gridano che l’ora è giunta.
Invece giunge l’Altro. Il Raggio Fossile, che distrugge il tempio.
Il profumo della Dea fugge sugli spalti.

Qualcuno, che mi sognava, si è svegliato.
O è la mia anima, che falsifica gli approdi.

Anche se il cielo svende i suoi celebri dipinti,
il vento fruga le nudità delle navate,
un tumulto di bambole tramuta la pietà in seta,
lei emigra in trasparenza su antiche praterie,
tutta sola e nuda come una vaga promessa,

la Mariee mise a nu par ses celibateires, quittez la ceremonie,

noi non possiamo più svanire.

 

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017) e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Ha pubblicato nel 2020 Faust chiama Mefistofele per una metastasi(Progetto Cultura).

JEAN

Il volo ebbe una fermata.
Una fantasia Disney in una macelleria.
Foto di gruppo con dama di carità

Alla discesa di deportati seguì
il licenziamento di Heydrich solo perchè
l’ammoniaca usciva dalle piombature
E avrebbe fatto bene uno scolo nell’inconscio.

A Long Island si assistette all’ irruenza di un vagabondo.
Il Tempo si poteva regolare anche così.

Ostriche e vuoti sostavano nei campi del Sud Est.
Greggi e poi eserciti, trincee che rifiutavano la datazione
Pur di stare in un frullato..

Non s’era mai visto perdere così lo scappamento.
Qualcuno deve divertirsi a costruire orologi
per differenziarli dagli Dei.

Stalattiti che tornavano dalle doline.
Cartesio rottamato nell’ Origine del mondo.

Sull’ asse si piazzò il denaro, a sbalzi,
con un passo di trapezista e uno da croupier.

Ordinate addolcivano le battute
come un parrucchiere i bigodini di Jean Harlow.

Quanto vale la bellezza di un verso?
Meglio un proiettile o un neutrone?

Da “capitale umano” al rigo successivo
Col passo di una chiave inglese sull’avambraccio
l’imbottitura di una tigre morta.

Basta dire che l’enjambement è perfetto
per aguzzare le orecchie a una tuba:
-Ho visto un banchiere nuotare da una tempia all’altra!

Il tempo di accendere un fiammifero
E vedere penne smuovere il culo.

-Era tango ma sembrava olio di ricino
per convincere una rosa al sonoro.

 

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Storia di una pallottola n.13 di Gino Rago, Poesia di Marina Petrillo, top-pop-poesia, poetry kitchen, pop-poesia, pop-corn-poetry, La poesia è il fuori-significato, il fuori-dimensione, La Cosa, Das Ding, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Mario M. Gabriele Gino Rago

Lucio Mayoor Tosi gallina 2020

Lucio Mayoor Tosi, Gallina, acrilico 50×70, 2020

Due campiture di colore. La parte superiore rosso magenta, la parte inferiore, che occupa due terzi della superficie, di un verde ricco di giallo. Perfettamente al centro una gallina di colore nero con cresta rossa. È una magnifica rappresentazione del «bello» della nostra epoca. Il «bello» è ciò che si presenta come un fuori-piacere, un fuori-rappresentazione. Il «bello» è ciò che non può essere fondato, perché prima di esso non c’è nulla. Il «bello» è un fuori-significato. Ciò che la poetica pop-corn indica è proprio questo. E, se non v’è significato, non vi può essere neanche una ermeneutica. Il punto di inizio è, immediatamente, anche punto di fine. Non v’è nulla oltre di esso e non v’è nulla prima di esso, il quadro mostra una icona assoluta che non parla né all’intelletto né alla ragione né all’inconscio, che non si dà come un sapere ma neanche come un non-sapere. Semplicemente, è un fuori-significato, un drastico rifiuto del significato, un drastico rifiuto del giudizio e del valore di scambio. E qui cade ogni contraddizione, se pur ve ne fosse alcuna. Tutto e nulla potrebbe essere detto, ma ciò non infirmerebbe il fuori-significato del quadro il quale è bastante a se stesso, non dice nulla, precede la logica del linguaggio articolato. È un assoluto. E, come ogni assoluto, non parla.
(Giorgio Linguaglossa)

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Fantastico commento! Luce che rischiara le menti. Io troppo preso a capire il nuovo rosso-Ferrari, il giallo acido delle mele acerbe, quali simboli di vita, odierna e futura.
(Lucio Mayoor Tosi)

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Sono contento Lucio che il mio commento ti sembri illuminante. Ne ho parlato ieri sera con Marie Laure Colasson e lei è rimasta molto impressionata dalla tua “gallina”. Ha detto che è qualcosa che sconvolge. Ma non mi ha saputo dire nient’altro, tranne che la gallina è stata posta perfettamente al centro del quadro. Al centro della rappresentazione una volta c’era l’uomo. L’umanesimo europeo ha sempre tenuto fermo questo punto…Oggi, dopo la fine della metafisica e la fine dell’umanesimo, abbiamo le idee più chiare. E pensare che la Colasson fa una pittura apparentemente molto lontana dalla tua, eppure ha immediatamente colto il nocciolo della tua “gallina”. È evidente che certe cose sono nell’aria, e tutti possono coglierle. Tutti e Nessuno. Senza ricerca, senza semina, non c’è raccolto. Molti pittori o poeti cercano le scorciatoie, ma con le scorciatoie non si va da nessuna parte. La tua “gallina” è un Assoluto. E nell’Assoluto c’è Dio. Ovvero, il Nulla.
(Giorgio Linguaglossa)

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Gino Rago

Storia di una pallottola n.13

Burt Lancaster nella famosa scena de “Il Gattopardo”.
Sala degli specchi di Palazzo Rovitti.
Marie Laure Colasson esce da un quadro di Matisse
ed entra nel film “Il Gattopardo”.

Confessa ad Angelica che ama Tancredi.
«Il Logos è la questione fondamentale»
replica Angelica prima del famoso valzer.
«È colpa del regista, dopo quella scena non fui più la stessa.
I merletti, le sete, i pizzi, il guardinfante,
il bustino stretto alla vita…».

Una comparsa con la camicia rossa da garibaldino
irrompe nella sala.
È geloso di Angelica.
Uno sparo nella sala degli specchi.

La pallottola colpisce il lampadario di Murano,
vaga per il soffitto,
cade un candelabro con tutte le candele,
sfiora un comodino laccato con i fiori appena arrivati da San Remo,
manda in frantumi alcuni specchi,
e si infila in un guanto, in un tiretto rococò del salone da ballo
del Palazzo del Principe di Salina.

Dal balcone del Palazzo cadono reggicalze francesi, portafiori,
una giara, cannoli, frutta candita,
ricotte, cassate, biscotti di marzapane,
una granita di caffè,
e il libro di Filomena Rago, “Immagine di una immagine”.

Il Principe Fabrizio telefona all’Ufficio Informazioni Riservate.
«Arrestate Tomasi di Lampedusa. È lui l’assassino.
Bisogna fermare la storia,
altrimenti Antonioni ne farà un film
e lo scrittore ci scriverà un romanzo.
Se vogliamo che tutto rimanga com’è,
bisogna che tutto cambi».

Marina Petrillo

THE FACTORY- LA SERIALITA’ DE “IL SENZA NOME”-

Seriale, il mondo attraversa la sua primi-genia.
Ibride contaminazioni permeano volti in disuso.

The Factory accresce l’immortalità a coefficiente numerico.
Volge il tempo enucleando suoi gli atomi.

Il tredicesimo Arcano soggiace al sofismo
se sia la Caballah il vertice del Nulla.

Expinge in battito la popular art condivisa
a metamorte, già traccia di transumanesimo.

In exemplum irrompe il bassorilievo dell’esistente replicato
a indivisa specie, ove sogni espirano virtù.

Trae nettare il disperante gesto a immota Genesi
mentre ultima la divinità trafuga la Sua immagine iconoclasta.

(Ispirata a SPARI DI WARHOL di Francesco Paolo Intini)

Una piattaforma multimediale, toponomastica evocativa. Entropia del divenire avverso alla statica. Suono di Cage invariato nel silenzio cosmico. Memoria della musica inferta a vedovanza. Traduce assenza il movimento, apice e abisso. L’ipotesi virtuale àncora il reale a grado infermo. Pone dicotomia l’assenso in negazione, bipolarità umana ascesa. Vertigine.
Punto di rientro metafisico antecedente ogni piano di realtà. “Significante fluttuante”.

(Suggestioni evocate dal video di Gianni Godi).

Giorgio Linguaglossa

la Storia di una pallottola (nn. 1-13) di Gino Rago è la folle ricerca della Verità, la Cosa perduta e mai più ritrovata. È un nostos, un viaggio a ritroso e sghembo tra realtà, finzione, fantasia e rappresentazione… in una dimensione che è, esattamente, il fuori-dimensione, il fuori-significato.

La Cosa perduta non è d’altronde qualcosa di effettivamente perduto che possa essere ritrovato magari attraverso un ritorno alla natura originaria. La Cosa è il prodotto del “taglio significante” che ha permesso al soggetto di diventare “soggetto umano”, gettato in una (per sempre) “imperfetta” esistenza nel simbolico. L’allucinazione della Cosa perduta attesta proprio la strutturale imperfezione della soggettività umana; segna ciò che “ci manca”, sia nel senso che è “quel che” ci manca per “essere”, sia nel senso che “ci manca”, ciò che va da un’altra parte permettendoci così di esistere. La Cosa, das Ding, è l’attrazione fatale potremo dire, perché è ciò che manca ma anche è ciò che, se (ci) fosse, sarebbe per noi la distruzione e la morte. Cercata in quanto causa di un desiderio che può perdersi fino alla morte, con essa il soggetto ha a che fare da che eksiste al/nel mondo; da che eksiste il soggetto deve fare i suoi  conti con questo “fuori mondo”, con questo “immondo”.
Scrive Lacan:

«Das Ding è originariamente ciò che chiameremmo il fuori-significato. È in funzione di questo fuori significato,e di un rapporto patetico con esso, che il soggetto conserva la sua distanza e si costituisce in una modalità di rapporto e di affetto primario, antecedente a qualunque rimozione».1

1 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), testo stabilito da J. A. Miller, edizione it. a cura di G. B. Contri, Einaudi,Torino 1994, p. 65.

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Per Nietzsche l’arte è «il massimo stimolante della vita»1, ma solo perché l’arte è una forma della “volontà di potenza” e non perché sia un mero strumento di sovra-eccitazione nervosa. Già nel 1882 Nietzsche scriveva:

«La nostra epoca è un’epoca di sovraeccitazione, e proprio per questo non è un’epoca di passione;si surriscalda continuamente perché sente di non essere calda – in fondo ha freddo».

L’epoca a lui contemporanea gli si manifesta come un’epoca di affetti frenetici e fugaci ma anche come epoca priva di grandi passioni. Chi è in preda agli affetti si disperde in uno stato sentimentale confuso, vago, sovra-eccitato ma senza centro, mentre la passione, specie la grande passione, raccoglie la soggettività nel suo centro di forza e le consente di aprirsi al mondo,
volendo al-di-là-di-sé, ben al di là delle proprie convenienze e interessi. La passione così intesa ci fa capire qualcosa di ciò che Nietzsche chiama “volontà di potenza”. Continua a leggere

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Video di Gianni Godi con musiche di Antonio Amendola, Poesie, Storia di una pallottola di Gino Rago, Al 103esimo KIRK, di Francesco Paolo Intini

[il video di cui al link sopra riportato, è stato costruito utilizzando le notazioni grafiche su fogli di carta di Antonio Amendola e ascoltando il suono da lui creato. Poco prima della fine del video  potrai leggere spiegazioni più dettagliate.
Gianni Godi]

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caro Gianni,
grazie innanzitutto per il tuo lavoro, per noi è importantissimo questo incontro tra arti e poetiche artistiche diverse: poesia, romanzo, pittura, video-art e musica. È questo il nuovo modo di pensare e di condividere la nuovissima pop-arte, pop-poesia, pop-video-art, la poesia non può vivere da sola, non può sopravvivere nel suo «splendido» isolamento che è diventato solipsismo autarchico, la poesia ha bisogno del confronto critico e dello scambio tra tutte le arti e con il pensiero filosofico.
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione; si tratta piuttosto di porre in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
L’altra sera Marie Laure Colasson, dopo aver visionato il video di Gianni Godi, ha riconosciuto la grande capacità dell’autore di reinventare il linguaggio poetico in un altro linguaggio, un linguaggio simulacrale fatto di avatar, emoticon, figure tridimensionali che si avvale della stessa grammatica del web per ricostruire un video secondo un modernissimo concetto di spazio simulacrale-virtuale. Ha fatto un pop-video, se così possiamo dire.
(Giorgio Linguaglossa)
Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)
…lo finisco il pensiero. Il pop pensiero è l’autentico presente che a un certo punto ci siamo dimenticati che per una serie di ingolfamenti temporali torna finalmente a galla. Dalla deriva, dall’esclusione, a cui era stato sottoposto o riapparendo se preferite. Mi vengono in mente le tanto care missive che quell’instancabile di Rago ha inviato a Ewa Lipska, il prototipo delle lettere alla Maria nazionale. Ergo, quindi Ingravallo e li che deve indagare. Madame Colasson ha un gancio perfetto col buona camicia televisivo. (Uno dei miei scrittori preferiti è Sebastiano Vassalli per come riesce ad essere cronista e protagonista in una sua storia è strabiliante. Un teatro tutto suo, grande!). Termino. Cosa voglio dire? Appunto. Che c’è sempre una parte del presente che dovrà diventare futuro, e viceversa, che dovrà diventare passato.
La pop poesia è il presente che affiora.
(Mauro Pierno)

Gino Rago

Storia di una pallottola n. 10

Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.

Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.

Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».

Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».

Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.

Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettili fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.

Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.

Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.

Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.

Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:

«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».

Marie Laure Colasson

Egregio poeta Gino Rago,

innanzitutto prendo le distanze da quel poliziotto in borghese che mi ha pedinato durante tutto il mese di agosto in pieno solleone… il figuro non faceva che sbirciare la mia gonna… e poi sono desolata che in questa triste vicenda con il commissario Ingravallo sia stata investita anche l’Ambasciata di Francia cagionando un incidente diplomatico. Tutto ciò per le intemperanze di un commissario inadeguato e incompetente. Sono contenta che Ingravallo sia stato rimosso dal suo incarico e rispedito a Campobasso, suo paese natale. Questo pettegolezzo mi è stato riferito dal Signor Linguaglossa il quale è un notorio “sovversivo” come bene sanno i servizi deviati di stanza nel bel Paese.
Però devo dirLe che il mio incontro con Catherine al caffè Rosati di piazza del Popolo è stato molto piacevole e con lei ho scambiato due chiacchiere sulle nostre rispettive “nudità”.
Non le nascondo, comunque, il mio apprezzamento franco e disinteressato per la sua Storia di una pallottola n, 10…
Aspetto con impazienza il seguito della Storia malfamata. Ma, per favore, non mi faccia più incontrare con quel buzzurro di Ingravallo!
Affettuosamente,
Milaure

Francesco Paolo Intini

Al 103esimo KIRK

Caricare Kirk di responsabilità.
Metterlo in un quadro e fargli suonare la chitarra
Perché non ha fatto “La strada” e non è entrato nel cast di “ Persona”

Kirk non ebbe scelta, rientrò dai 104 nel 70 a.C.
Fu vera gloria suonare sul monocordo “Libertà o Morte”
E Goya alla cinepresa
-Non è così che si alzano le braccia e si pronuncia “VIVA”.
stai presenziando l’ Oscar o l’Aspromonte?

In un genoma comunismo e critica cinematografica:
a ognuno secondo il sogno.

Mc Carthy? Una funzione di stato.
Il leninismo una vampa di calore.

Uomini e caporali sul campo di battaglia.
Da che parte è la guerra?

La classe operaia impara dai ricci a sotterrarsi.
E dopo i titoli di coda la Via Lattea fino a Capua.

Scartavetrando azzurro cenere
Soltanto un lampo di pessimismo
croce n. 2020 in un campo di papaveri

Si intravede l’etichetta di un pomodoro
Spartacus con le istruzioni di una battaglia 3D.
Michelangelo al rifiuto della Pietà

Poi perde la vita banalmente
per evitare che un ramarro finisca tra le ruote

 

SPARI DI WARHOL

C’è uno sbuffo tra le silver clouds
e dalle inferriate sfugge acroleina.

L’ala del corvo fa un cigolio
-Papà è lo sportello della cinquecento

L’albero della piazza ha dato i fichi in pegno
ma ci ha guadagnato investendo a Singapore.

C’è da credere a quello di Hong Kong.
Ride Ollio della libertà.

Bisogna riscaldare la scena milioni di gradi
per avvicinarlo a Lenin.

Dopo tutto la produzione di un pensiero pulito
richiede che si brucino due cartoon.

È’ scritto che qualcosa si perda nel telecomando.
Partono missili a zig zag. Acqua brucia nei polmoni.

L’accostamento in olio bollente
schiude l’uovo dell’universo.

Bucefalo scaccola le sue narici.
Alessandro ride a quaranta denti.

Totò compra la Cappella Sistina.

 

FIRME DI PRESENZA.

L’uomo di Cromagnon si affacciò con un pacco da firmare.
Chi era Dio tra loro?

L’autentica è scomparsa e duole stare in piedi dal big bang.

La penna è sul muro.
Calcinaccio che conserva gli occhi di cerva
E l’ordine dal più sudato al meno.

L’ odore ha la sua parte proibita.

HAL 9000 dunque e dopo un astronauta.
Palpa la camicia per riconoscere il male al petto.

Graffio di Caino sulla visiera.
Si diede da fare nella metallurgia e scoprì qualcosa che poi gli fruttò ricchezza.

Assomigliava al Neanderthal,
un brav’uomo deceduto durante una rapina in banca.
Ci morirono delle guardie giurate.

Sbrigarono la faccenda all’alba
e si accusarono a vicenda pur di nascondere
un tizio somigliante a Lorca.

La conservazione nell’inconscio è perfetta.
Soltanto di notte esce qualche indizio sulla vera identità.

In sostanza anche i versi furono assorbiti,
caddero giù per il pendio e si fissarono nella foiba.

Una stalattite ride del cobra su Wall Street

 

Giorgio Linguaglossa

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia moderna e contemporanea, questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecentesca, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito; a questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1

Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

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Sulla pop-poesia, top-pop-poesia o poetry-kitchen, Poesia inedita di Mauro Pierno, Pop è scrivere nel geroglifico del banale, Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 2020, Commento di Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden Blues 40x50 cm acrilico

Lucio Mayoor Tosi, Covid Garden Blues acrilico 50×70 cm, 2020 – 

Non il prodotto in sé né soltanto il suo significato, ma gli stessi significanti sono diventati ormai oggetti di consumo, che raccolgono il proprio potere e fascino dall’essere strutturati per costituire un codice segnaletico. Il colore-segno è stato talmente svuotato di soggettività, analogamente alla merce, che vive nella cromia e nella cromatura, nella doratura metallizzata delle automobili bicolori e del design di questi ultimi anni. È stata questa la triste sorte capitata al colore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tanto da renderlo inutilizzabile ai fini dell’arte figurativa e figurale, in quanto il sistema figurativo è stato catturato dal sistema di significazione che lo ha ridotto a stigma di differenze e sintesi di un macro processo di differenze sempre eguali. Il valore dell’oggetto-colore si è venuto così a costituire a partire dal codice di correlazione, che a sua volta non richiede alcuna ermeneutica semiologica o semantica. Il feticismo della merce si riflette nel feticismo del colore sul piano del significante nella produzione degli oggetti seriali e delle forze (ri)produttive. Non è tanto il significato del singolo oggetto a conferire valore all’oggetto, ma è la struttura di significazione relativa e di scambio quella che decide del suo valore. Non è il feticismo dell’oggetto-colore a sostenere lo scambio, ma è il principio sociale dello scambio che sostiene il valore feticizzato dell’oggetto-colore.
In Lucio Mayoor Tosi l’oggetto-colore esercita il proprio fascino in quanto il soggetto dimentica in esso la propria soggettività alienata, proprio come in un taumaturgico gioco di specchi. Il feticismo è alimentato dal gioco di specchi e dal desiderio di socialità che si esprime appunto come sistema di scambio di segni, come sortilegio, atto magico, struttura di differenze che agisce attraverso il coinvolgimento di un soggetto preso e catturato nel sistema di differenze sempre eguali, nel sistema semiotico-semantico. Il valore non si acquisisce nella differenza e nello scambio che, tra l’altro, coinvolge e struttura gli stessi soggetti come oggetti, quali partecipanti affascinati dalle regole del gioco, ma in un sistema di relazioni segniche che decidono del valore. Ed è quello che fa Lucio Mayoor Tosi ribaltando i piani e rovesciando il tavolo di gioco. Simulazione, dissimulazione, reversione dell’ordine simbolico appartengono al gioco simulatorio del sortilegio. Lucio Mayoor Tosi decide di impiegare il sortilegio. Il “garden” del Covid19 mette allo scoperto la inanità di ogni figuralità che voglia porsi il compito della mimesis. Anche l’astratto viene colpito dal tabù della nominazione e della rappresentazione, ciò che resta sono dei segnetti di colori su spazi tonali di acrilico, spazi neutralizzati di segni neutralizzati. Così, a neutralizzazione avvenuta, si avvera il naufragio della pittura post-Covid, possibile soltanto nella forma della pictura-kitchen, pop-pictura, pittura come simulazione in vitro del banale-reale, pittura come replicazione all’infinito della propria inibitoria capacità di replicazione nel reale. Pictura come capacità virale di replicazione nel tessuto recettorio della ricezione semantica. Pictura come deposizione della propria potenza semantica inibita nell’atto imbonitorio del fare poiesis.
(Giorgio Linguaglossa)

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Ringrazio, Giorgio. Vero, le relazioni segniche decidono del valore… il piacere estetico è rivivere l’atto, il gesto (come appunto nella passata corrente della pittura gestuale, occidentale e orientale). Però manca lo psico dramma informale, dove si riempiva tutto… Al contrario, io metto vuoto e segni di diversa grafia. Come di un Pollock rasserenato, non più tormentato da se stesso ma aperto a diverse contaminazioni. Come dici tu: ” è il principio sociale dello scambio che sostiene il valore feticizzato dell’oggetto-colore”. In qualche modo, questo mio “Covid Garden Blues” è un’opera partecipata. Voci diverse, musiche e rumori. Il tempo, poi, unisce i colori.
Dal pensare postmoderno ho tratto maggiore libertà d’azione. Posso fare un’operetta come questa con citazioni Pollock, Keith Haring o Basquiat, e altre dove recupero Kandinsky. Ma ragionando, non ci si ammala di aids o di alcolismo. E’ pittura fredda.
(Lucio Mayoor Tosi)

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È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione, di un gioco di carte; la pop-poesia o la poetry-kitchen di Mauro Pierno pone in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
(Giorgio Linguaglossa)

*

Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)

Lucio Mayoor Tosi royal-coronavirus

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden 40×50, acrilico, 2020 – Se guardo portando attenzione agli spruzzi e ai segni, l’opera diventa pioggia che cade su l’ombra di un’astronave di passaggio. Più spesso, rivedendolo in fotografia, è l’ombra ad attirare l’attenzione. Sembra la testa di un cane, o di un cavallo. Ma il tema è Coronavirus in dose massiccia. Nell’aere, tra fili di paglia e sangue.

Lucio Mayoor Tosi Covid garden, 40x50, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden 40×50, acrilico, 2020

Mauro Pierno Compostaggi

Libro di Mauro Pierno in corso di stampa

Mauro Pierno

Tutti allo stesso tempo
(Ossia un concerto di voci
Ovvero coincidenze)

Personaggi:
Emme
Erre
Emmea
Ci
E
Gi
A
Effe
Esse

L’operatore, ovvero

studio teatrale 22.04.90
rivisitazione maggio 2020

AMBIENTAZIONE: (nove posti a sedere disposti a diversa altezza; agli estremi di essi alcune file di scatole tutte uguali. Nove individui occupano i rispettivi posti e a ritmo si passano le scatole. Tutti sono vistosamente scalzi. S, ad un estremo, avrà il compito di ripristinare la fila di scatole; dall’altro capo, M, avrà cura di riproporre il giro delle stesse. Gli altri personaggi: R, Ma, C, E, G, A, F.)

(Terminando il giro silenziosamente)
M
R
Ma
G :
A :
F :
S : vuota!

M: Incomincio ad essere stanco.
R: che senso ha?
Ma: appunto che senso ha?
C: …” Che senso ha?” Cosa?
E: questa ricerca suppongo?!
G: no, no…forse il senso…
A: …ho inteso!
F: io niente!!!
S: centro quarantatré! Vuota! Continua a leggere

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