
[Struttura dissipativa 50×50 cm, 2020 – «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo»]
Sulle Strutture dissipative di Marie Laure Colasson, acrilici, 2020
È lo stato di emergenza che produce l’immagine. È l’immagine che produce lo spazio.1 L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per le composizioni spaziali dei quadri di Marie Laure Colasson. Provate a togliere l’immagine dei colori dai quadri della Colasson, e tutto cade di colpo nella insignificanza amorfa.
La pittura della Colasson non è pittura astratta ma figuralità dello spazio, figuralità delle forme nello spazio, ricerca dello spazio mediante delle forme che emergono da un luogo di cui non sapevamo nulla. Delle forme abnormi, raccapriccianti sono sorte da uno stato di emergenza. L’inconscio che vive in un continuo stato di emergenza. Forme abrupte insorgono e lacerano il tessuto delle relazioni spaziali dello spazio che precedeva l’istante del loro insorgere distruggendo i fragili equilibri architettonici sui quali si reggeva la precedente costruzione spaziale. Queste Strutture dissipative indicano una emergenza, raffigurano questo insorgimento di forme abrupte che non conosciamo, di cui non ne sappiamo nulla e di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. L’insorgenza dell’Estraneo è la tematica di questa pittura. Di qui il dis-equilibrio, il dis-formismo, il cataclisma, l’apocatastasi. Queste Strutture dissipative sono la raffigurazione dell’istante in cui una forma estranea irrompe nel nostro ordinato universo percettivo e ne diffrange il lessico e la sintassi, producendone l’implosione, la erogazione di un dis-servizio che viene ad infirmare la struttura di forme in equilibrio che preesisteva all’atto dell’insorgimento dell’Estraneo. Accade il trauma. L’insorgere dell’abrupto ci respinge, volgiamo lo sguardo altrove. Non possiamo guardare più oltre, cerchiamo inavvertitamente il corrimano della distanza, siamo costretti a prendere le distanze dall’abrupto. Ci accorgiamo di essere prigionieri di una contraddizione. Non possiamo avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza, e non possiamo anelare alla latenza di ciò che vorrebbe manifestarsi nella illatenza. Mettiamo in atto istintivamente un distanziamento sociale.
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Giorgio Linguaglossa
Lo statuto aporetico della poiesis di Jacopo Ricciardi
È la condizione di emergenza che produce nuova poiesis. La massima di Freud «Wo es war, soll Ich werden» (dove c’era l’Es, deve subentrare l’Io) riconosce il fatto che l’Io deve prendere il posto dell’Es, non indica una eliminazione delle pulsioni o dell’Inconscio, piuttosto il tentativo di prendere una posizione in quanto istanza decisionale. Un soggetto autonomo non è un soggetto che si fonda una volta per tutte, che si assume interamente il peso delle proprie scelte e dei propri desideri, ma un soggetto che si fonda volta per volta. Non si diviene Io una volta per tutte sbarazzandosi vittoriosamente dei propri fantasmi, ma si tenta di conoscerli, di dominarli, di conviverci, di circoscriverli. Entrano allora in gioco due corollari: che la verità del soggetto non gli appartiene, che la verità del soggetto è la verità dell’altro, che il discorso dell’altro è ineliminabile; ne risulta che non esiste un discorso totalmente «mio».
Nella poesia di Jacopo Ricciardi c’è l’indagine sulla biplanarità dell’io, sulla sua evanescenza e sulla sua impotenza a dominare in toto il mondo delle cose e quello delle parole. Il soggetto di Jacopo Ricciardi scopre che «non è più padrone in casa propria», che i pensieri sfuggono, si muovono indipendentemente dalla volontà della «mente», e che questo ininterrotto peregrinare è nient’altro che il destino della soggettività. L’itinerario della soggettività risiede nella distanza tra a) il percetto di una immagine; b) l’immagine; c) la rappresentanza dell’immagine nel pensiero; e infine d) l’atto del pensiero.1
La poiesis non è un dire, ma un fare, un operare concreto. La poiesis mette in atto una pratica del non dire i significati noti e acclarati, infatti non dà luogo a significati già noti, ma deve essere intesa come un gesto performativo, un esercizio «inoperoso», un fare inoperoso, un fare ricco di «inoperosità» (nel senso in cui lo intende Agamben), quando si riferisce a «un operare che, in ogni atto, realizzi il proprio shabbat e in ogni opera sia in grado di esporre la propria inoperosità e la propria potenza».2
Torniamo un momento all’inizio del discorso. Il modo in cui il pensiero può ancora distinguersi dal comune opinionare è fare ciò che né la doxa né la scienza possono fare. Questo è il compito proprio della poiesis: menzionare l’ombra (la distanza tra il percetto e l’atto del pensiero) che sempre accudisce la forma della luce. Non accontentarsi dei significati consolidati significa indagare la distanza tra il percetto e la mente, volgere l’interrogazione all’orlo, al limite, alla condizione di possibilità della significazione. Tale interrogazione è un esercizio etico, un fare che si indirizza sulle tracce del punto cieco di ogni conoscenza per mettere in luce il limite dei suoi presupposti.
Questa pratica è un abitare il mondo delle parole senza adottare i significati consolidati che corrispondono storicamente a quel mondo di parole. Questa pratica, questo esercizio quotidiano implica e richiede una «torsione» delle parole per rivelare la loro ombra, quell’ombra che infirma i significati consolidati.
Il «detto» a cui la poiesis non può rinunciare, in quanto pratica discorsiva, gli è necessario per compiere il proprio gesto performativo, deve essere sempre aggirato e compreso come equivalente al non-detto o all’altro-detto. In tale esercizio linguisticamente sisifeo consiste il peculiare rigore della poiesis e, nei modi in cui è volta a volta declinato, si misura l’efficacia del suo procedere. Non c’è nessun orlo, nessun limite, nessun punto cieco, nessun fondo che va a fondo, tutti i significati sono nell’apparire contemporaneo del dis-apparire; l’«evocazione» è però funzionale alla pratica della poiesis, affinché il non-detto non resti soltanto presupposto e non sia ideologicamente assunto come un indicibile su cui, da ultimo, si dovrebbe attestarne l’evidenza. Questa pratica discorsiva implica la eliminazione di tutte le figure dell’Evento e anche dell’Evento stesso, che scompare nel gesto che lo ha figurato.
Ciò che resta lo fondano i poeti, appunto. Ciò che resta è un non-detto che non può mai essere detto con le parole adulterate del mondo amministrato. In ciò si pone e si può misurare tutta la differenza tra una poiesis consapevole del proprio statuto aporetico e una poiesis tradizionalmente acritica e inconsapevole.
La poiesis è un porre in luce la traslocazione della significazione a partire da presupposti che restano in ombra, le conclusioni che essa mette in luce, proprio in quanto messe in luce, sono evidentemente un significato «altro», il cui fondamento, retrocedendo sullo sfondo, non può essere esibito. Anche l’attività ermeneutica accade a partire dall’ombra e anche laddove essa volesse far luce dietro di sé, sulla propria zona in ombra, di nuovo, illuminando, proietterebbe l’ombra dietro di sé.
Le conclusioni a cui giunge l’ermeneutica si trovano catturate entro la stessa dinamica che vorrebbero indicare e chiarire. Questo paradosso del circolo ermeneutico è la sfida che la poiesis aporetica pone al pensiero contemporaneo con cui si trova a doversi confrontare con la riflessione teoretica successiva a Heidegger. In tale paradosso ne va del senso della filosofia stessa: il logos del mondo amministrato procede per luci e ombre, non si distingue più dal mito e dalla doxa, sicché la sua battaglia contro l’oscurità sembra franare sotto i suoi stessi colpi.
Ma allora, chiedo, dove si viene a collocare la parola del filosofo, che statuto può ancora rivendicare, che senso può ancora avere la sua prassi?, dove si deve collocare la parola del poeta se il luogo del logos non si distingue più dal mito e dalla doxa?
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1 Cfr. https://www.academia.edu/36179508/Arte_e_linguaggio_Il_problema_dellesperienza_estetica_visiva, Felice Cimatti: «Il punto chiave della questione del “cambiamento d’aspetto” è nella contemporanea presenza di continuità (è sempre lo stesso oggetto) e di discontinuità (il cambiamento di aspetto). In questo senso si tratta di un fenomeno, cioè di qualcosa che si mostra. Ma si mostra in modo affatto peculiare, perché il «cambiamento d’aspetto» non si percepisce, così come invece si può percepire il volo di un gabbiano nel cielo. Non è qualcosa che si vede. Ma non è nemmeno qualcosa che si pensa: “il ‘vedere come…’ non fa parte della percezione. E perciò è come un vedere e non è come un vedere”.3 Il “cambiamento d’aspetto” è un peculiare fenomeno logico, nel senso che si presenta, ma non si presenta né allo sguardo né al pensiero. O meglio, si presenta sulla soglia fra sguardo e pensiero: «e perciò è un balenare improvviso dell’aspetto che ci appare metà come un’esperienza vissuta del vedere, metà come un pensiero» ( Ibidem). È importante ribadire che non si tratta di una situazione che abbia a che fare con un indicibile intuizione interiore. Il «cambiamento d’aspetto» non rientra nel campo della fenomenologia. Al contrario, è qualcosa che può essere ‘sentito’ solo da qualcuno che sia in grado di ‘vedere come’, cioè appunto da un animale linguistico. È come se, nel «cambiamento d’aspetto», l’essere umano facesse esperienza del fatto del linguaggio, cioè del fatto che il vedere è appunto un ‘vedere come’ . Infatti il “cambiamento d’aspetto” è un (apparentemente) impossibile sostare fra i diversi ‘veder e come’, cioè appunto fra i diversi modi di darsi del linguaggio attraverso i diversi ‘vedere come’ (perché “il nome, è l’immagine del portatore”,4 cioè il nome appunto mostra, rende visibile, ciò a cui si riferisce, il suo «portatore»). È come se chi parla riuscisse – per un istante senza tempo – a tirarsi fuori dal linguaggio.
2 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, 2004, p. 376.
3 L. Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, Rouledge, London (trad. it. Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916 Einaudi,Torino 1995, p. 124.
4 Ibidem
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Jacques Rancière (1940), in La parola muta (1998) propone di leggere gli sviluppi della letteratura contemporanea a partire da una ‘rivoluzione’ poetica intervenuta durante il XIX secolo che ha trasformato radicalmente il modo d’intendere ed intendersi della produzione letteraria. Gli effetti di questa «parola muta», secondo Rancière, non riguardano esclusivamente il mondo delle arti. Nel suo breve testo intitolato L’inconscio estetico (2001) la tesi centrale è che la scoperta dell’inconscio da parte di Freud sia stata resa possibile proprio da quel regime estetico di pensiero che ha spodestato il precedente sistema «rappresentativo» vigente, per esempio, nel teatro del periodo classico francese.
Poesie inedite di Jacopo Ricciardi
Si tengono per mano in cerchio
i bambini di cinque e sei anni
fanno un girotondo intorno a un commissario
vestito con un impermeabile beige.
Egli si vede centro di una rotazione
che sfugge verso destra e poi verso sinistra
senza poterlo prevedere. Corrono
a perdifiato in là poi in qua. Cantano
una filastrocca tutti insieme
di un uomo che non incontra mai nessuno
nel mentre le parole lo attraversano tangibili.
Lo stesso cerchio di cerchi in rotazione inversa
toglie il respiro in un respiro
che non appartiene. Ecco l’indagine.
Inizia scalando una montagna
di asperità di pietra acuminata
poi scende portato dal peso di una caduta
gradini d’aria affianco alla stessa parete
più in basso avvertendo distintamente un mondo
di cose non raggiungibili. L’indagine
continua. Ascolta senza capire
dei rumori in lontananza.
Una sedia che si sposta
contro un albatro che vola.
Una cerniera che scivola sul mare
incantando lo stormo che passa di là.
La donna che parla in un bisbiglio di campana.
Un treno che deraglia sotto la scarpa.
Il frinire delle cicale adulte
che rovescia le coperte.
La buccia di banana che affranca
una sinfonia Fantastique di Berlioz.
L’indagine prosegue ben oltre.
Cani che saltano per leccargli il mento.
Segugi a turno che lo trovano
mentre cammina e si ferma in un punto.
Deve rinascere nella morte per proseguire a raggiera.
La foresta è abbattuta dal cielo.
Saltella sui ceppi cammina tra i ceppi.
Capisce che ogni passo è un orizzonte
e lì davanti e dietro ci sono mal di testa.
Strette di mani senza corpi
sentono l’ardere di falò.
Nascosto come tutti dietro un gatto
si dissimula a saltelli dietro le fiamme
apparentemente nevrotiche sul dorso a riposo.
Lì sotto si cala – sente ancora un rumore
di voci lontane – nelle acque solforiche di una terma
per poi uscirne e indagare ancora.
*
Un podista va e dietro di sé trascina
l’intera storia oppure in avanti
spinge l’intera storia: automobili
e cani mesopotamici rivoltati con impeto
l’uno sull’altro contadini egiziani
in tenuta guerresca nuvole di quel giorno
l’interno di mulini studiati da Rembrandt
clave e lave primordiali telefonini
ammassi di molte lingue albicocche
davvero gialle e sempre splendide
insenature. Il tutto avvolto dalle polveri
delle storie. La marcia del podista
disperato non avrà fine e lui lo sa –
la sua fascia spugnosa sulla fronte
entra nel turbine i suoi occhi
i vasi sanguigni sgarbugliati
i suoi piedi la marcia i suoi peli uno a uno
dispersi nella baraonda che mescola
tritura confonde e rigenera –
dalle carote si formano cani da guerra
da alcune ossa di volpe sgorgano onde marine
braci calde ali di insetto – il mondo
rigenerasi volenteroso roteando in uno spazio
perso nei cerchi successivi di un respiro
e di altri di molti altri per intervalli
di lingue di cane e segugi altrove –
cade il piede nella fossa d’acqua
dopo l’ostacolo e l’acqua si inghiotte
in quel dinamismo sottomesso
ma anche il piede è inghiottito
e l’altro piede in altre pozze d’acqua
rettangolari – sui molti brandelli
di fili lasciati senza attenzione
sul pavimento della sartoria. Lo
slancio sull’ostacolo fa volare
il corpo incontro ai miliardi
di uncini dell’aria
e cade sull’aria coi miliardi
di uncini del corpo.
Un gruppo di uncini è un ceppo
pressato dal piede sulla terra
in un luogo estraneo al pavimento
della sartoria ma dentro quell’universo.
La rimanenza del podista si chiede
se la caviglia reggerà a tanto infinito
andare se l’anca per quanto lo sorreggerà o
verrà frantumata prima ma già lo è
presa nel turbine dove volano falò
come frammenti intatti e popolazioni
di gatti che contagiati dalle fiamme
passano da un’esplosione all’altra
legandole in nuovi mondi di storie
parallele per altre trasformazioni
di mal di testa in podista
che sbatte il piede nell’acqua
poco fonda al di là dell’ostacolo
schizzandosi le tibie coperte e le scarpe
con acqua maleodorante e calda piena di bolle
sorgive di una terma assente
risucchiata assente in una baraonda
che risale al caseggiato portato via
in un risucchio della storia.
*
Un mal di testa è di pietra
una roccia nella corsa – pesa
il piede nel falò allagato
nel respiro fermo che dilaga solo
soffiando via o insaccandosi
diffusa aria in aria
e condotta nella miriade interna di un corpo
mentre un numero fissato di licenze
arriva sul tavolo in fogli gestuali
parti di ceppi caduti dal cielo
nelle orecchie troppo morbide
sparse dappertutto e i segugi
che leccano ogni cosa
fino alla pianta del piede
nel gatto morbida tra le fiamme
che lo decorano vive – i polpastrelli
esposti dal riposo languido felino
esposto alle scintille del falò
parente della roccia del mal di testa
che affonda tra grappoli di bolle sorgive
e l’odore impregna l’aria con l’acqua
calda minerale –
intorno è consumato un gruppo murario
inservibile – un vortice
percorre le radici della Terra
fino all’ultimo confine delle particelle
dell’aria prive di gravità
lungo la faccia che inghiotte
ciò che mostra senza espressione.
*https://twitter.com/i/status/1405867460029554695
Un passo poggia e sa e poi non sa più –
senza fermarsi corre in ogni spazio.
Degli occhi portati in giro
vedono meraviglie meno importanti.
La vista sbatte nel proprio fondo
lì resta intrappolata
non può muoversi e non incontra mai nessuno
e pure la cosa continua ad apparire –
l’immagine è una pellicola
sopra concentriche ondulazioni circolari pulsanti.
Resta la forma dell’impronta
tra la pianta del piede e la polvere compressa.
Una lingua frenetica di cane cerca di infilarsi
in quell’interstizio avendo fiutato con esattezza –
l’impronta può essere soltanto odorata e cercata.
I recettori del segugio raggiungono la scorza ruvida
saporita dei ceppi e la resina che s’imbolla
riflettendo l’ardere di falò non distanti –
bruciano fieri in una notte vasta e chiara
popolata di gatti che mandano una luce bianca
di fiamme mosse in un movimento di spazio
di terme frantumate e isolate disperse
per orecchie disseminate in rilievi di paesaggio
sotto ogni passo in un mal di testa che guarda.
da sx Ennio Flaiano, Federico Fellini, Anita Ekberg, 1960, «Per fortuna il meglio è passato» (E.Flaiano)