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Intervista a Andrea Temporelli a cura di Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?, Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Foto Man Ray nudo

Man Ray, nudo

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Figlio di un fiore e di un piccolo merlo, Andrea Temporelli con la poesia ha esplorato Il cielo di Marte (Einaudi, Torino 2005), prima di far ritorno alla Terramadre (Il Ponte del Sale, Rovigo 2012), ma i conti con il mondo letterario contemporaneo li ha risolti con il romanzo Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, Rimini 2015) e con il volume di interventi critici militanti Smarcamenti, affondi e fughe (Ladolfi, Borgomanero 2016). Insegna nella scuola secondaria a Borgomanero (dove è nato nel 1973) e interviene su YouTube con un personale Dis/corso di scrittura creativa, che s’interroga sul senso della scrittura in un tempo in cui la società letteraria non esiste più.

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Domanda

Gentile Andrea Temporelli le pongo la domanda che ho rivolto ai poeti italiani:

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Question

Dear Andrea Temporelli, I ask you the question I asked Italian poets:

– What poetry can you write at the time of the end of the story?

– What poetry to write at the time of the end of metaphysics?

– What is the task of poetry before these epochal events?

Answer

Premessa: non esiste la poesia, esistono i singoli gesti poetici. I vari “oggetti linguistici” che accorpiamo sotto l’unica sigla di genere possono essere anche radicalmente diversi. Ciò significa che il discorso sulla poesia conta poco e deve essere sottoposto alla verifica del testo e della sua ricezione storica. Così, più che ragionare in astratto su quello che penso, cercherò di mostrare come mi sembra di aver risposto nei fatti, ovvero con i testi appena usciti nel libro L’amore e tutto il resto (Interlinea).

Ciò detto, verrebbe da affermare che “fine della storia” e “fine della metafisica” siano altrettante etichette, mentre la poesia lavora sull’esperienza concreta e reale. Però devo ammettere che, quando ho iniziato il lavoro che si è ora compiuto nel libro, percepivo effettivamente in me un senso della fine. Non era il semplice giro del millennio a dare questa percezione, era la sensazione concreta che ciò che io definivo “Novecento” si era esaurito. Tutti i poeti con cui mi confrontavo, sia i maestri riconosciuti sia i poeti contemporanei, mi parevano ancora prigionieri di un orizzonte che mi appariva come ormai privo di senso. Il Novecento è il secolo dell’ironia che distrugge ogni visione del mondo presupponendo alternative che in realtà non sa elaborare: una forma di intelligenza che si limita alla pars destruens, insomma (con ciò che di sano porta con sé, contro ogni bigottismo o fanatismo, per esempio). Il Novecento è il secolo anche della sperimentazione formale estrema. Il suo personaggio ideale è la figura umana dell’“inetto”, dell’uomo senza qualità, dell’anti-eroe (anche qui, con aspetti positivi: nessuno crede più nella figura romantica, tutta d’un pezzo, dell’eroe capace di cambiare la storia). Il suo lascito complessivo è il male di vivere, la depressione, la disillusione estrema. Ecco, io ho percepito nettamente questo senso della fine: forse non è esattamente la “fine della storia” della domanda, ma credo che la presenza nella mia raccolta di una poesia intitolata Novecento sia significativa. E dunque, che fa la poesia al tempo della fine? Rintraccia possibili indizi di un altro principio.

La “fine della metafisica” mi fa venire in mente alcuni versi da Verifica della storia: “vivere non basta / e dio non è possibile. Da secoli”. Eppure, se la cultura occidentale ci ha davvero condotto qui, su questo fronte, la poesia percepisce, senza barare, senza pretendere di non vedere il presente o di rendere reversibile il tempo, l’evoluzione ulteriore. E si tratta magari di un evento non prevedibile, non logico, propriamente poetico. Mi sembra di dire questo nella poesia Epoca. La penultima strofa afferma: “Per ciò elemosina giorno su giorno / un senso, scava nelle mani aperte, / dona a tutti un destino. Inventa. Annuncia: / un nuovo mondo dietro l’angolo aspetta”. Sottolineerei l’uso del verbo “elemosina”: la poesia non è fonte di un sapere precostituito, va oltre la cultura stessa: è sapienza primigenia, vitale. Può trovare la ricchezza nelle mani vuote. Può inventare un destino, come anticamente i miti “servivano” la vita, la favorivano. E se qualcosa di nuovo esiste, è già potenzialmente qui, dietro l’angolo: occorre solo trovare uno sguardo capace di dargli credito e di offrirgli la cura necessaria per svilupparsi.

Il “Novecento” che sentivo alle spalle sembra, storicamente, riproporsi ciclicamente (basti pensare alla guerra attuale), ma forse una parte dell’umanità incarna una figura umana già esausta e superata, anacronistica, mentre altri sono già altrove, già cercano di fissare i tratti distintivi di una nuova figura di uomo. Nella mia poesia il richiamo a Marte è probabilmente l’emblema di quell’altrove verso cui ci stiamo indirizzando. Dunque, il compito della poesia è di guardare “l’ultimo orizzonte” e cercare, fino alla fine, di glorificarne la bellezza – nella speranza, certo, che sia la traccia di un inizio. Ma, se anche così non fosse (come si lascia intendere nella poesia con cui chiudo il libro, Postilla per l’alieno), la poesia ha il compito di registrare e certificare la verità di quella bellezza che la morte stessa non potrà comunque smentire.

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(Andrea Temporelli)

Domanda

– Qual è la sua posizione rispetto alla poesia europea del novecento?

Question

– What is your position with respect to 20th century European poetry?

Answer

Caspita, la domanda fa venire le vertigini. Se per “posizione” si intende un giudizio critico sulla poesia europea, presuppone una levatura intellettuale straordinaria. Se per “posizione” si intende il collocamento della propria esperienza stilistica, presuppone parimenti un ego sconfinato. Di primo acchito, verrebbe da sentirsi soltanto piccoli e inadeguati, del tutto disorientati. In effetti, la risposta più corretta sarebbe: “Non so”. Avrei una nube di pensieri in movimento, e anche di sensazioni tutte da verificare… Balbetterei ipotesi su ipotesi, contraddicendomi ripetutamente.

Ma cerco appigli nel libro. Geograficamente, i richiami a luoghi di provincia sono dominanti: torrenti, montagne, boschi, ma anche cascine, case specifiche, vicini di casa… e poi il cortile, gli interni… La poesia si radica in un territorio preciso e in una lingua precisa. Dunque, guardo all’Europa da qui, dalla lingua e dalla cultura italiana. Ma l’Europa entra anche nei miei versi, sia come paesaggi (in Ballata del mese di maggio per esempio si richiama lo scenario della guerra nel Kosovo del 1999) sia come cultura: l’epigrafe del libro è di Mandel’štam, la “terra marcia” di Fronte del bene comune è prossima alla terra desolata di Eliot, l’angelo della mia poesia sembra un richiamo a Rilke (che però si innesta su un mito familiare), e poi chiamo direttamente in causa le “baldracche di Baudelaire” oppure Kafka… Sì, direi che la poesia europea lascia un velo, in queste pagine. Eppure, sempre stando ai miei versi, lo sguardo non sembra fissarsi sull’Europa, semmai sull’occidente in un senso più ampio, ma a questo punto inserito in un contesto globale…

Ahimè, avrei voluto rispondere in modo positivo, chiamando in causa un’identità europea e un posizionamento rispetto ad essa, ma non posso farlo. L’Europa è terra di confluenze diverse, un ponte sul mondo, da attraversare in entrambe le direzioni. L’Europa in generale, e la poesia europea nello specifico, sono dunque soltanto un’intercapedine tra la mia pagina e il mondo, tra il mio cortile e Marte.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come post-modernista?

Question

Can we define his poetry as postmodernist?

Answer

Fine e inizio, dicevamo, si compenetrano, e a tratti non si possono distinguere. Ciò che adesso è “post” qualcosa, forse si potrà definire un giorno “pre” qualcos’altro. Poeticamente sono attratto soprattutto dalla seconda ipotesi. Ho ben coscienza, per quello che è nelle mie possibilità, di ciò che ho alle spalle. Ma il senso della fine da cui sono partito ha generato una nausea alla quale ho risposto, umanamente, con il desiderio. Non so se quello che sto per dire ha senso, ma io mi sento più all’inizio di qualcosa che alla fine di altro. Per ora mi basta pensare che la mia poesia sia “pre”-sente. Essere davvero presenti, centrati nel respiro e nel pensiero, consapevoli della scena in modo da non essere “giocati” da essa: dentro i congegni della nostra società complessa, ma senza appartenere ad essi. Credo sia questa l’unica, eterna dimensione contemporanea della poesia. La poesia contemporanea è quella sintonizzata bene nel presente, ovvero quella che, in ogni epoca, riesce a guardare lungo quel crinale infinito e sottilissimo che sta tra il ricordo del noto da una parte e l’ansia dell’ignoto dall’altra (come nell’equilibrista della mia poesia Vertigine), l’unico tempo giusto perché qualcosa accada, anche il primo battito di ciò che sta per arrivare: essere presenti significa a quel punto pre-sentire…

Questa mia visione è una nuova maschera del modernismo o è il suo superamento? Francamente, non saprei dirlo. Dovrei volgere lo sguardo verso uno dei due abissi, rientrare nella prospettiva storicistica. Non ho alcuna intenzione di farlo, “Finché la carne bianca a fuoco ara / una mano ispirata”.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come “Poesia del tramonto”?

Question

Can we define his poetry as “Poetry of the sunset”?

Answer

“L’appuntamento è qui su questa pagina / mio capitano di poche parole, / lettore in fuga dalla somiglianza / che mi fa tuo seguace contro il tempo”. “E adesso voglio un nome impronunciato, / bianchi tutti i quaderni, persi i crediti”… “… di tutti / i confini ho dolore, / ho passione per tutti gli orizzonti”. “Lontano / i vincitori esultano – / ma il pane in tavola è più buono, i figli / sono uomini fatti e nella luce / lattiginosa del portico parlano / come guide già esperte”. No, non direi che la luce che percepisco sia una luce di tramonto.

Domanda

Come è cambiata nel corso dei decenni la sua poesia?

Question

How has your poetry changed over the decades?

Answer

L’amore e tutto il resto comprende versi composti tra il 1996 e il 2022. Le oscillazioni formali ci sono, ma erano presenti fin dall’inizio. Finora, ho sempre trapuntato le forme canoniche: ho sperimentato il loro superamento in alcuni tratti, per eccesso di formalizzazione; le ho scantonate con andamenti apparentemente più liberi, in altre fasi. Il verso perfetto rischia di generare nausea o di suonare vuoto, di interferire con la voce reale della poesia. Ma queste oscillazioni sono rimaste costanti in me, in questi anni, quindi non sono da considerare un reale mutamento, ma un movimento congenito e continuo – almeno finora. Se dunque la raccolta tiene e risulta compatta, come mi sembra, arriverei a sostenere che non c’è stato un reale cambiamento, se non una ovvia sedimentazione figurale e un illimpidimento espressivo.

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Man Ray foto rue de la transfusion de sang

Domanda

La civiltà europea è giunta alla sua fine? O è possibile un nuovo inizio?

Question

Has European civilization come to its end? Or is a new beginning possible?

Answer

Credo di avere già risposto. L’Europa è una terra di passaggio, un luogo di confluenze, un margine. Ammaliati dalla spiritualità indiana o dalla disciplina nipponica, abbiamo un calendario babilonese, un dio ebreo, una matematica araba, una filosofia greca e una praticità latina; vestiamo tessuti cinesi, sfruttiamo minerali africani, mangiamo frutta sudamericana e… ci scaldiamo col gas russo. In questa visione, essere un margine è una ricchezza inestimabile, perché significa essere per eccellenza luogo di commercio, di conoscenza e di scoperta. Anche politicamente, quando le forze che interpretano positivamente il concetto di “confine” vinceranno su quelle che pretendono, per paura e ignoranza, di difendere “identità nazionali” fasulle, inizierà una nuova epoca. Ma dirò di più: non esistono muri che possano fermare le migrazioni. Le resistenze saranno, alla fine, superate, volenti o nolenti. Possiamo soltanto decidere se vivere questa trasformazione in modo pacifico oppure in modo più traumatico. L’identità europea è una non-identità, una perenne prossimità all’altro. L’identità europea è la “somiglianza”. E questo fa paura a molti.

Domanda

Grazie per la sua gentile disponibilità Andrea Temporelli, vuole dire ai lettori italiani la sua opinione sul futuro della poesia?

Question

Thank you for your kind availability Andrea Temporelli, do you want to tell Italian readers your opinion on the future of poetry?

Answer

Non c’è niente da dire sul futuro della poesia. Il futuro della poesia non esiste. Il futuro della poesia si fa. Poeticamente.

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Archiviato in intervista

È la condizione di emergenza che produce nuova poiesis, Lo statuto aporetico della poiesis, Poesie inedite di Jacopo Ricciardi, La poiesis è un porre in luce la traslocazione della significazione a partire da presupposti che restano in ombra, Struttura dissipativa di Marie Laure Colasson 2020, Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo

Marie Laure Colasson ZZX Struttura dissipativa, 2020
[Struttura dissipativa 50×50 cm, 2020 – «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo»]
Sulle Strutture dissipative di Marie Laure Colasson, acrilici, 2020
È lo stato di emergenza che produce l’immagine. È l’immagine che produce lo spazio.1 L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per le composizioni spaziali dei quadri di Marie Laure Colasson. Provate a togliere l’immagine dei colori dai quadri della Colasson, e tutto cade di colpo nella insignificanza amorfa.
La pittura della Colasson non è pittura astratta ma figuralità dello spazio, figuralità delle forme nello spazio, ricerca dello spazio mediante delle forme che emergono da un luogo di cui non sapevamo nulla. Delle forme abnormi, raccapriccianti sono sorte da uno stato di emergenza. L’inconscio che vive in un continuo stato di emergenza. Forme abrupte insorgono e lacerano il tessuto delle relazioni spaziali dello spazio che precedeva l’istante del loro insorgere distruggendo i fragili equilibri architettonici sui quali si reggeva la precedente costruzione spaziale. Queste Strutture dissipative indicano una emergenza, raffigurano questo insorgimento di forme abrupte che non conosciamo, di cui non ne sappiamo nulla e di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. L’insorgenza dell’Estraneo è la tematica di questa pittura. Di qui il dis-equilibrio, il dis-formismo, il cataclisma, l’apocatastasi. Queste Strutture dissipative sono la raffigurazione dell’istante in cui una forma estranea irrompe nel nostro ordinato universo percettivo e ne diffrange il lessico e la sintassi, producendone l’implosione, la erogazione di un dis-servizio che viene ad infirmare la struttura di forme in equilibrio che preesisteva all’atto dell’insorgimento dell’Estraneo. Accade il trauma. L’insorgere dell’abrupto ci respinge, volgiamo lo sguardo altrove. Non possiamo guardare più oltre, cerchiamo inavvertitamente il corrimano della distanza, siamo costretti a prendere le distanze dall’abrupto. Ci accorgiamo di essere prigionieri di una contraddizione. Non possiamo avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza, e non possiamo anelare alla latenza di ciò che vorrebbe manifestarsi nella illatenza. Mettiamo in atto istintivamente un distanziamento sociale.

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Giorgio Linguaglossa

Lo statuto aporetico della poiesis di Jacopo Ricciardi

È la condizione di emergenza che produce nuova poiesis. La massima di Freud «Wo es war, soll Ich werden» (dove c’era l’Es, deve subentrare l’Io) riconosce il fatto che l’Io deve prendere il posto dell’Es, non indica una eliminazione delle pulsioni o dell’Inconscio, piuttosto il tentativo di prendere una posizione in quanto istanza decisionale. Un soggetto autonomo non è un soggetto che si fonda una volta per tutte, che si assume interamente il peso delle proprie scelte e dei propri desideri, ma un soggetto che si fonda volta per volta. Non si diviene Io una volta per tutte sbarazzandosi vittoriosamente dei propri fantasmi, ma si tenta di conoscerli, di dominarli, di conviverci, di circoscriverli. Entrano allora in gioco due corollari: che la verità del soggetto non gli appartiene, che la verità del soggetto è la verità dell’altro, che il discorso dell’altro è ineliminabile; ne risulta che non esiste un discorso totalmente «mio».

Nella poesia di Jacopo Ricciardi c’è l’indagine sulla biplanarità dell’io, sulla sua evanescenza e sulla sua impotenza a dominare in toto il mondo delle cose e quello delle parole. Il soggetto di Jacopo Ricciardi scopre che «non è più padrone in casa propria», che i pensieri sfuggono, si muovono indipendentemente dalla volontà della «mente», e che questo ininterrotto peregrinare  è nient’altro che il destino della soggettività. L’itinerario della soggettività risiede nella distanza tra a) il percetto di una immagine; b) l’immagine; c) la rappresentanza dell’immagine nel pensiero; e infine d) l’atto del pensiero.1

La poiesis non è un dire, ma un fare, un operare concreto. La poiesis mette in atto una pratica del non dire i significati noti e acclarati, infatti non dà luogo a significati già noti, ma deve essere intesa come un gesto performativo, un esercizio «inoperoso», un fare inoperoso, un fare ricco di «inoperosità» (nel senso in cui lo intende Agamben), quando si riferisce a «un operare che, in ogni atto, realizzi il proprio shabbat e in ogni opera sia in grado di esporre la propria inoperosità e la propria potenza».2

Torniamo un momento all’inizio del discorso. Il modo in cui il pensiero può ancora distinguersi dal comune opinionare è fare ciò che né la doxa né la scienza possono fare. Questo è il compito proprio della poiesis: menzionare l’ombra (la distanza tra il percetto e l’atto del pensiero) che sempre accudisce la forma della luce. Non accontentarsi dei significati consolidati significa indagare la distanza tra il percetto e la mente, volgere l’interrogazione all’orlo, al limite, alla condizione di possibilità della significazione. Tale interrogazione è un esercizio etico, un fare che si indirizza sulle tracce del punto cieco di ogni conoscenza per mettere in luce il limite dei suoi presupposti.

Questa pratica è un abitare il mondo delle parole senza adottare i significati consolidati che corrispondono storicamente a quel mondo di parole. Questa pratica, questo esercizio quotidiano implica e richiede una «torsione» delle parole per rivelare la loro ombra, quell’ombra che infirma i significati consolidati.

Il «detto» a cui la poiesis non può rinunciare, in quanto pratica discorsiva, gli è necessario per compiere il proprio gesto performativo, deve essere sempre aggirato e compreso come equivalente al non-detto o all’altro-detto. In tale esercizio linguisticamente sisifeo consiste il peculiare rigore della poiesis e, nei modi in cui è volta a volta declinato, si misura l’efficacia del suo procedere. Non c’è nessun orlo, nessun limite, nessun punto cieco, nessun fondo che va a fondo, tutti i significati sono nell’apparire contemporaneo del dis-apparire; l’«evocazione» è però funzionale alla pratica della poiesis, affinché il non-detto non resti soltanto presupposto e non sia ideologicamente assunto come un indicibile su cui, da ultimo, si dovrebbe attestarne l’evidenza. Questa pratica discorsiva implica la eliminazione di tutte le figure dell’Evento e anche dell’Evento stesso, che scompare nel gesto che lo ha figurato.

Ciò che resta lo fondano i poeti, appunto. Ciò che resta è un non-detto che non può mai essere detto con le parole adulterate del mondo amministrato. In ciò si pone e si può misurare tutta la differenza tra una poiesis consapevole del proprio statuto aporetico e una poiesis tradizionalmente acritica e inconsapevole.

La poiesis è un porre in luce la traslocazione della significazione a partire da presupposti che restano in ombra, le conclusioni che essa mette in luce, proprio in quanto messe in luce, sono evidentemente un significato «altro», il cui fondamento, retrocedendo sullo sfondo, non può essere esibito. Anche l’attività ermeneutica accade a partire dall’ombra e anche laddove essa volesse far luce dietro di sé, sulla propria zona in ombra, di nuovo, illuminando, proietterebbe l’ombra dietro di sé.

Le conclusioni a cui giunge l’ermeneutica si trovano catturate entro la stessa dinamica che vorrebbero indicare e chiarire. Questo paradosso del circolo ermeneutico è la sfida che la poiesis aporetica pone al pensiero contemporaneo con cui si trova a doversi confrontare con la riflessione teoretica successiva a Heidegger. In tale paradosso ne va del senso della filosofia stessa: il logos del mondo amministrato procede per luci e ombre, non si distingue più dal mito e dalla doxa, sicché la sua battaglia contro l’oscurità sembra franare sotto i suoi stessi colpi.

Ma allora, chiedo, dove si viene a collocare la parola del filosofo, che statuto può ancora rivendicare, che senso può ancora avere la sua prassi?, dove si deve collocare la parola del poeta se il luogo del logos non si distingue più dal mito e dalla doxa?

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1 Cfr. https://www.academia.edu/36179508/Arte_e_linguaggio_Il_problema_dellesperienza_estetica_visiva,  Felice Cimatti: «Il punto chiave della questione del “cambiamento d’aspetto” è nella contemporanea  presenza di continuità (è sempre lo stesso oggetto) e di discontinuità (il cambiamento di aspetto). In questo senso si tratta di un fenomeno, cioè di qualcosa che si mostra. Ma si mostra in modo affatto peculiare, perché il «cambiamento d’aspetto»  non si percepisce, così come invece si può percepire il volo di un gabbiano nel cielo. Non è qualcosa che si vede. Ma non è nemmeno qualcosa che si pensa: “il ‘vedere come…’ non fa parte della percezione. E perciò è come un vedere e non è come un vedere”.3 Il “cambiamento d’aspetto” è un peculiare fenomeno logico, nel senso che si presenta, ma non si presenta né allo sguardo né al pensiero. O meglio, si presenta sulla soglia  fra sguardo e pensiero: «e perciò è un balenare improvviso dell’aspetto che ci appare metà come un’esperienza vissuta del vedere, metà come un pensiero» ( Ibidem). È importante ribadire che non si tratta di una situazione che abbia a che fare con un indicibile intuizione interiore. Il «cambiamento d’aspetto»  non rientra nel campo della fenomenologia. Al contrario, è qualcosa che può essere ‘sentito’ solo da qualcuno che sia in grado di ‘vedere come’, cioè appunto da un animale linguistico. È come se, nel «cambiamento d’aspetto», l’essere  umano facesse esperienza del fatto del linguaggio, cioè del fatto che il vedere è appunto un ‘vedere come’ . Infatti il “cambiamento d’aspetto”  è un (apparentemente) impossibile sostare  fra i diversi ‘veder e come’, cioè appunto fra i diversi modi di darsi del linguaggio attraverso i diversi ‘vedere come’  (perché “il nome, è l’immagine  del portatore”,4 cioè il nome appunto mostra, rende visibile, ciò a cui si riferisce, il suo «portatore»). È come se chi parla riuscisse  –  per un istante senza tempo –  a tirarsi fuori dal linguaggio.
2 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, 2004, p. 376.
3 L. Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, Rouledge, London (trad. it. Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916  Einaudi,Torino 1995, p. 124.
4 Ibidem
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Jacques Rancière (1940), in La parola muta (1998) propone di leggere gli sviluppi della letteratura contemporanea a partire da una ‘rivoluzione’ poetica intervenuta durante il XIX secolo che ha trasformato radicalmente il modo d’intendere ed intendersi della produzione letteraria. Gli effetti di questa «parola muta», secondo Rancière, non riguardano esclusivamente il mondo delle arti. Nel suo breve testo intitolato L’inconscio estetico (2001) la tesi centrale è che la scoperta dell’inconscio da parte di Freud sia stata resa possibile proprio da quel regime estetico di pensiero che ha spodestato il precedente sistema «rappresentativo» vigente, per esempio, nel teatro del periodo classico francese.

Poesie inedite di Jacopo Ricciardi

Si tengono per mano in cerchio
i bambini di cinque e sei anni
fanno un girotondo intorno a un commissario
vestito con un impermeabile beige.

Egli si vede centro di una rotazione
che sfugge verso destra e poi verso sinistra
senza poterlo prevedere. Corrono
a perdifiato in là poi in qua. Cantano
una filastrocca tutti insieme
di un uomo che non incontra mai nessuno
nel mentre le parole lo attraversano tangibili.

Lo stesso cerchio di cerchi in rotazione inversa
toglie il respiro in un respiro
che non appartiene. Ecco l’indagine.

Inizia scalando una montagna
di asperità di pietra acuminata
poi scende portato dal peso di una caduta
gradini d’aria affianco alla stessa parete
più in basso avvertendo distintamente un mondo
di cose non raggiungibili. L’indagine
continua. Ascolta senza capire
dei rumori in lontananza.

Una sedia che si sposta
contro un albatro che vola.
Una cerniera che scivola sul mare
incantando lo stormo che passa di là.
La donna che parla in un bisbiglio di campana.
Un treno che deraglia sotto la scarpa.
Il frinire delle cicale adulte
che rovescia le coperte.
La buccia di banana che affranca
una sinfonia Fantastique di Berlioz.

L’indagine prosegue ben oltre.
Cani che saltano per leccargli il mento.
Segugi a turno che lo trovano
mentre cammina e si ferma in un punto.
Deve rinascere nella morte per proseguire a raggiera.

La foresta è abbattuta dal cielo.
Saltella sui ceppi cammina tra i ceppi.
Capisce che ogni passo è un orizzonte
e lì davanti e dietro ci sono mal di testa.

Strette di mani senza corpi
sentono l’ardere di falò.
Nascosto come tutti dietro un gatto
si dissimula a saltelli dietro le fiamme
apparentemente nevrotiche sul dorso a riposo.

Lì sotto si cala – sente ancora un rumore
di voci lontane – nelle acque solforiche di una terma
per poi uscirne e indagare ancora.

*

Un podista va e dietro di sé trascina
l’intera storia oppure in avanti
spinge l’intera storia: automobili
e cani mesopotamici rivoltati con impeto
l’uno sull’altro contadini egiziani
in tenuta guerresca nuvole di quel giorno
l’interno di mulini studiati da Rembrandt
clave e lave primordiali telefonini
ammassi di molte lingue albicocche
davvero gialle e sempre splendide
insenature. Il tutto avvolto dalle polveri
delle storie. La marcia del podista

disperato non avrà fine e lui lo sa –
la sua fascia spugnosa sulla fronte
entra nel turbine i suoi occhi
i vasi sanguigni sgarbugliati
i suoi piedi la marcia i suoi peli uno a uno
dispersi nella baraonda che mescola
tritura confonde e rigenera –

dalle carote si formano cani da guerra
da alcune ossa di volpe sgorgano onde marine
braci calde ali di insetto – il mondo
rigenerasi volenteroso roteando in uno spazio
perso nei cerchi successivi di un respiro
e di altri di molti altri per intervalli
di lingue di cane e segugi altrove –

cade il piede nella fossa d’acqua
dopo l’ostacolo e l’acqua si inghiotte
in quel dinamismo sottomesso
ma anche il piede è inghiottito
e l’altro piede in altre pozze d’acqua
rettangolari – sui molti brandelli
di fili lasciati senza attenzione
sul pavimento della sartoria. Lo
slancio sull’ostacolo fa volare
il corpo incontro ai miliardi
di uncini dell’aria
e cade sull’aria coi miliardi
di uncini del corpo.

Un gruppo di uncini è un ceppo
pressato dal piede sulla terra
in un luogo estraneo al pavimento
della sartoria ma dentro quell’universo.

La rimanenza del podista si chiede
se la caviglia reggerà a tanto infinito
andare se l’anca per quanto lo sorreggerà o
verrà frantumata prima ma già lo è
presa nel turbine dove volano falò
come frammenti intatti e popolazioni
di gatti che contagiati dalle fiamme
passano da un’esplosione all’altra
legandole in nuovi mondi di storie
parallele per altre trasformazioni
di mal di testa in podista
che sbatte il piede nell’acqua
poco fonda al di là dell’ostacolo
schizzandosi le tibie coperte e le scarpe
con acqua maleodorante e calda piena di bolle
sorgive di una terma assente
risucchiata assente in una baraonda
che risale al caseggiato portato via
in un risucchio della storia.

*

Un mal di testa è di pietra
una roccia nella corsa – pesa
il piede nel falò allagato
nel respiro fermo che dilaga solo
soffiando via o insaccandosi
diffusa aria in aria
e condotta nella miriade interna di un corpo
mentre un numero fissato di licenze
arriva sul tavolo in fogli gestuali
parti di ceppi caduti dal cielo
nelle orecchie troppo morbide
sparse dappertutto e i segugi
che leccano ogni cosa
fino alla pianta del piede
nel gatto morbida tra le fiamme
che lo decorano vive – i polpastrelli
esposti dal riposo languido felino
esposto alle scintille del falò
parente della roccia del mal di testa
che affonda tra grappoli di bolle sorgive
e l’odore impregna l’aria con l’acqua
calda minerale –

intorno è consumato un gruppo murario
inservibile – un vortice
percorre le radici della Terra
fino all’ultimo confine delle particelle
dell’aria prive di gravità
lungo la faccia che inghiotte
ciò che mostra senza espressione.

*https://twitter.com/i/status/1405867460029554695

Un passo poggia e sa e poi non sa più –
senza fermarsi corre in ogni spazio.
Degli occhi portati in giro
vedono meraviglie meno importanti.

La vista sbatte nel proprio fondo
lì resta intrappolata
non può muoversi e non incontra mai nessuno
e pure la cosa continua ad apparire –
l’immagine è una pellicola
sopra concentriche ondulazioni circolari pulsanti.

Resta la forma dell’impronta
tra la pianta del piede e la polvere compressa.
Una lingua frenetica di cane cerca di infilarsi
in quell’interstizio avendo fiutato con esattezza –
l’impronta può essere soltanto odorata e cercata.

I recettori del segugio raggiungono la scorza ruvida
saporita dei ceppi e la resina che s’imbolla
riflettendo l’ardere di falò non distanti –
bruciano fieri in una notte vasta e chiara
popolata di gatti che mandano una luce bianca
di fiamme mosse in un movimento di spazio
di terme frantumate e isolate disperse
per orecchie disseminate in rilievi di paesaggio
sotto ogni passo in un mal di testa che guarda.

Jacopo Ricciardi

Jacopo Ricciardi, poeta e pittore, è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn. Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), Quarantanove Giorni  (Il Melangolo, 2018), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il melangolo, 2015). Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste PoesiaL’immaginazioneSoglieResine, Levania e altre. Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Ha collaborato con Il Messaggero in una rubrica di letteratura a lui dedicata: Passeggiate romane. Ha scritto di arte su Flash Art onlineArt a part of cult(ure) e Espoarte. Ha al suo attivo diverse mostre personali, E fiorente e viva e simultanea, Galleria WA. BE 190 ZA (Roma, 2001),  Nella nebbia dell’esistente, Area 24 (Napoli, 2010), Materie senza segno, Lipanjepuntin (Roma, 2010), Dialoghi d’arte, L’originale (Milano, 2011), Una stanza tutta per sé. Visioni da Shakespeare, Casa dei Teatri (Roma, 2012), Paesaggio terrestre, Area24 (Napoli, 2015), e diverse collettive Epifania, Galleria Giulia (Roma, 2000), Maestri di oggi e di domani, Galleria Giulia (Roma, 2001), Biennale del Mediterraneo, interno Grotte di Pertosa (Salerno, 2002), XXIX Premio Sulmona, Ex Convento di Santa Chiara (Sulmona, 2002), Segnare / disegnare Accademia di San Luca (Roma, 2009), ADD Festival 2011, Macro (Roma, 2011), 90 artisti per una bandiera, Chiostri di San Domenico (Reggio Emilia, 2013), Accademia Militare (Modena, 2013), Vittoriano (Roma, 2013), Ex Arsenale Militare (Torino, 2014), Tribù, Area24 (Napoli, 2014). Ha pubblicato due cataloghi d’arte delle sue opere: Jacopo RicciardiNella nebbia dell’esistente, prefazione di Nicola Carrino, Area24 Art Gallery, 2009; Jacopo Ricciardi, Paesaggio Terrestre, opere 2008-2014, a cura di Sandro Parmiggiani, Grafiche Step Editrice, 2015.

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Inedito di Mario M. Gabriele, Poetry kitchen o poesia buffet, L’Arte nei processi di brandizzazione, marketing, in-selling, out-selling, cross-selling, up-selling tra intrattenimento e fidelizzazione dei Brand, tra influencer, editor, professionisti del packaging e delle filiere produttive. Commenti di Gino Rago e Giorgio Linguaglossa, Composizioni di Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi I poeti significativi

Lucio Mayoor Tosi Tre Pezzi

Inedito di Mario M. Gabriele

Che vuoi che dica? Tutto è circoscritto, oscurato:
il diario ritrovato di Saramago,
le gomme Snowow per l’inverno,
il salario minimo
per comprare l’Apixaban.

Oggi Zemekis ha abbassato le tendine,
non vuole saperne degli scoop letterari.
Ama leggere il fumetto Iron Man.

Andiamo per vie sconosciute facendo training
fino al colle della Maddalena.

Gli occhi hanno la memoria,
si fissano come su un quadro di Magritte
e sulla Gallina Nanin.

Intanto c’è chi fa i bagagli,
e riconta i dollari nel caveau.

Il teista Arnold cercava il Dio dell’Africa Nera
e degli universi paralleli.

Qualcuno  scelse il singolare,
il duello tra cani e gatti,
e ogni fotogramma di Francis Coppola con Il Padrino .

Monnalisa aveva un CD con 10 consigli terapeutici
per non  svanire nei colori.

Il giorno in cui lo sguardo si fece nero
scegliemmo le puntate di Agatha Christie.

Avresti dovuto vederlo Il cilindro,
come il classico abat-jour
nelle notti serene e senza vento.

C’è un limbo che non vedi.
Il minimo che possa fare è staccare la spina
quando la Samsung va in tilt.

Un impatto sui muri del tempo
ha bisogno di coperture sintetiche.

Le mani che non furono tue
accarezzarono la calvizie.

Zia Molly pensava che non sarebbe più tornata
dopo la fine di Willy.

“Spazi senza fine terra cielo confusi.
Tutto immobile non un alito.
Facce bianche senza tracce occhio calmo.
Testa ragionante nessun ricordo.
Rovine sparse grigio cenere tutt’intorno vero rifugio
Finalmente senza uscita,” (Beckett).

caro Mario,

l’uomo moderno non ha bisogno di nulla, l’uomo non è una macchina per bisogni ma una macchina per il desiderio, l’industria dell’intrattenimento non fa che agire sul markettificio e sul desideratificio. L’arte è diventata un dentifricio con cui spazzolarsi la dentiera. Oggi possiamo acquistare “visioni del mondo” secondo i nostri desiderata: un quadro di paesaggio, un’opera pop, un quadro metafisico, uno astratto, un figurativo etc.; possiamo leggere gialli e solo quelli, vedere film di comedy e solo quelli; oggi, insomma ci dobbiamo addomesticare alle strategie di semplificazione (giornalismo, filosofia e arte “light”), pubblicizzazione di notizie (filosofia e arte “per tutti” e “a basso costo”), brandizzazione (filosofia e arte degli “ismi” o delle “certificazioni” degli uffici di marketing), guidate da strategie del marketing come in-selling (vendita all’interno della filiera distributiva: opinionisti, specialisti, letterati “di professione”, corporazioni di pseudo artisti), out-selling (vendita all’esterno di tale filiera presso il “grande pubblico” addomesticato) o cross-selling (vendita incrociata di più prodotti accomunati da un’etichettatura comune o slogan: verità, realtà, libertà, bellezza, sublime, desublimazione etc.), per creare fidelizzazione e far risultare un costante up-selling (aumento delle vendite e soprattutto rafforzamento del “marchio”). In una parola: pop-filosofia, pop-poesia, pop-arte nel senso deteriore dell’intrattenimento e della fidelizzazione al marchio degli uffici di marketing.
Anche il processo di aziendalizzazione e fidelizzazione del “prodotto artistico” è avviato da molto tempo, è avvenuto sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti. Oggi l’arte la decidono le gallerie del marketing ufficiale, gli influencer, magari i politici in auge e gli uffici stampa degli editori a maggior diffusione mediante una strategia del marketing e dell’imbonimento; il critico è stato sotituito dagli editor e dagli influencer. E così il critico ha perduto, via via, il suo linguaggio e adesso è costretto ad andarselo a cercare rubandolo agli influencer e agli editor, ai professionisti del packaging e delle filiere produttive.
La tua poesia, caro Mario, è il tipico esempio di manufatto che non soggiace al diktat del packaging e del marchettificio, e quindi resta fuori, fuori del giro che conta, quello della fidelizzazione e dei brand degli uffici stampa. Non rientra nei palinsesti, è una sorta di palindromo, incomprensibile ai più, se non a una ristrettissima cerchia di ricercatori culturali.

(Giorgio Linguaglossa)
carissimo Giorgio,

il tuo tempestivo commento al mio inedito, composto ieri (9 dic) e completato questa mattina, mi conferma ancora una volta, se mai ve ne fosse bisogno, che tu sei l’unico dei critici oggi in Italia, che non hanno Voucher da parte dei grandi Editori, né contratti digitalizzati con i poteri forti. La tua è certamente una scelta che si inserisce come un martello pneumatico sui muri della insignificanza poetica ed editoriale. Ci troviamo ad operare in tempi culturali non favorevoli. Vanno di moda i social media, le fake news, ecc. Le nostre poesie non sono facilonerie lessicali, ma il prodotto della nostra esistenza, come salvataggio da tutte le esibizioni quotidiane. Lavorarci sopra è segno di umiltà e professionalità. Un abbraccio e grazie. 

(Mario M. Gabriele)

Gino Rago

Sulla poetry kitchen o poesia buffet

Roland Barthes,* nel suo breve ma denso saggio La mort de l’auteur (1968), sancisce, riconoscendola nella sua pienezza, la libertà del lettore di fronte al testo. Anche per me l’autore è morto. Anche per me l’autorità autoriale non esiste. L’autore non è altro che un luogo di incontro di

– linguaggio,
– citazioni,
– stratificazioni,
– ripetizioni,
– echi,
– referenze,
– interferenze.

Ne consegue che tutto si sposta sul lettore, il quale, senza tenere conto nemmeno dei significati, esercita pienamente la sua libertà di “aprire” e/o di “chiudere” ogni processo di “significato” del testo:

Nella parte più importante di questo saggio che ho subito cercato di far mia Roland Barthes si concentra sulla distinzione fra testi e li distingue tra

– testi realistici (questi, a lungo e ancor oggi dominanti, si limitano a offrire al lettore “significati chiusi”)

– altri tipi di testo (fra cui quelli della poetry kitchen) che, al contrario dei testi “realistici”, sono in grado di incoraggiare, di invitare il lettore ad entrare nel testo in modo che lo stesso lettore sia capace di produrre significati, ricorrendo anche a ciò che Giorgio Linguaglossa nel suo commento ha indicato come «parlato» o il virgolettato (di cui anche lo scrivente fa larghissimo uso).

Il primo tipo di testi, il testo di tipo “realistico”, quasi esclude il lettore perché gli permette unicamente di essere il “consumatore” di un significato fisso. Ed è il testo “leggibile”.

Il secondo tipo di testi invece mira a trasformare il lettore da “consumatore”
a “produttore”. Ed è il testo “scrivibile”.

Perciò nel mio precedente intervento, riferendomi ai testi della Achmatova, ho parlato di “testi leggibili”, mentre ho parlato, a ragion veduta, di testi “scrivibili” riferendomi alle composizioni poetry kitchen di Giorgio Linguaglossa, nelle quali si registra “la mort de l’auteur” secondo il pensiero centrale nel brusio della lingua di Roland Barthes. E più si accentua “la mort de l’auteur” più il lettore entra nel testo per “scrivere” egli stesso poesia, come dev’essere nella poesia “scrivibile”.

*Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968) in Id. Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984

Lucio Mayoor Tosi Tre Pezzi 1

caro Lucio Mayoor Tosi,

la nuova ontologia estetica è una possibilità offerta a chi abbia del talento e tenacia e coraggio nell’imboccare una via nuova. Nulla è facile e nulla è scontato. I più di solito si ritraggono spaventati dinanzi al progetto di dover mettere in discussione la vecchia ontologia estetica, ed io lo comprendo, è umano.

Non tutti sono muniti di talento, cultura e coraggio, i più abbandonano il campo non appena si accorgono che è dificile, molto difficile scrivere una poesia secondo la nuova ontologia estetica, meglio la vecchia, un po’ stinta, con le sue certezze e le sue luci della ribalta.

Per l’inconscio, io la penso come Freud il quale diceva che «non c’è una via regia che conduca all’inconscio», se ci fosse sarebbe tutto facile. Il fatto è che noi siamo fatti di inconscio, siamo il prodotto dell’inconscio, per questo l’io non può mai vedere l’inconscio. La poesia può, anzi, a mio avviso, deve accedere all’inconscio, ma le strade sono sentieri interrotti. Quello che molti di noi pensano che sia inconscio junghiano in realtà sono le traveggole, le manifatture dell’io. Bisogna andare a scuola di Tranströmer per capire come sia difficile inoltrarsi nell’inconscio.

Edith Dzieduszycka, ad esempio, nel suo ultimo libro, A quale Pessoa, appena uscito per Passigli (2020) fa una rispettabilissima poesia che appartiene alla antica ontologia estetica, non c’è nulla di male, che «vuole» scrivere «belle» poesie alla maniera tradizionale, io non stigmatizzo nessuno, tantomeno chi fa poesia posiziocentrica, ovvero, da rendita di posizione. Io penso che sia preferibile scrivere una brutta poesia alla NOE che una bella poesia tradizionale, posiziocentrica. Di quella roba lì è pieno il mondo. La NOE è una punta di diamante. Una volta si diceva una «avanguardia». Ma chi preferisce restare nell’orbita della poesia tradizionale è liberissimo di farlo, ci mancherebbe, ma non rientra nel perimetro della nostra ricerca.

Quanto all’altra questione se virgolettare o no il parlato, ciascuno è libero di decidere come vuole. Il vero nocciolo della questione è questo: ciascuno dovrebbe chiedersi: «Rispetto al principio del parallasse la mia poesia come si pone?, lo accetta?, lo respinge?». Questo per me è un punto dirimente. Se si ritiene di dover adottare un punto di vista fisso, stabile e immobile, bene, ma siamo fuori dalla NOE. Penso che questo sia evidente a tutti.

(Giorgio Linguaglossa)

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Poetry kitchen, l’irrappresentabile, Un mondo totale, totalmente aperto, totalmente bucato; sfugge alla legge del terzo escluso e al principio di non contraddizione, così come al principio di ragion sufficiente, Due poesie di Marie Laure Colasson da Les choses de la vie, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Poetry kitchen cover[Ecco la cover della Antologia della poetry kitchen in via di allestimento, opera grafica di Lucio Mayoor Tosi, che segnerà il coronamento di un percorso di ricerca che dura ormai da vari anni. L’Antologia, ovviamente, comprenderà gli autori che con più continuità e determinazione si sono mossi in questa direzione di ricerca]

.

Marie Laure Colasson

[Marie Laure Colasson è nata a Parigi il 1955 e vive a Roma. È stata ballerina di danza classica. Attualmente insegna danza classica e contemporanea, è coreografa e pittrice. È in preparazione il suo primo libro di poesia, Les choses de la vie.]

Dalla raccolta inedita Les choses de la vie, spero di prossima pubblicazione.
Una scrittura alcalinizzante, fatta con gli ingredienti a base di limone e di limonate, per la seriosità della poesia italiana che si trova dappertutto che sa tanto di acidità polverosa.
Preferisco redigere una poesia cotta a vapore perché più leggera e digeribile. Il critico Lingua-glossa ne prenda nota. E ne prenda nota anche il poeta Gino Ragò al quale chiederei un ragù con gli spaghetti di Guido Galdini. (m.l.colasson)

Marie Laure Colasson Eruzione Struttura dissipativa, acrilico 30x30 2020

[Marie Laure Colasson, L’espace troué, acrilico, struttura dissipativa 50 x 50, 2020]

15.

Eredia rêve de ressembler à un tableau de Vermeer
se pare d’un collier et boucles d’oreille où scintillent les perles
ajuste un large chapeau rouge une étole d’hermine
et divine s’installe sur un banc aux jardins du Luxembourg
en guerrier de passage Scipion l’Africain la regarde
en amazone la fait monter sur son étalon
pour aller détruire Cartage

La blanche geisha boit un pur élixir artisanal
se retrouve à onze ans sur la branche d’un figuier
mange quelques fruits murs en dessinant des oiseaux sur son cahier
son cahier tombe à terre les oiseaux s’envolent
en véritable jeu d’équilibre ils sautillent de branche en branche
rompus de fatigue après un tel exploit
ils se recomposent en dessins
et colorent leur plumage sur la page blanche du cahier

Un pied à 4 doigts attrape un maker-painting
court à Naples dans le quartier espagnol
et en tagger dessine des graffitis acrobatiques

La sable du désert s’élève recouvre les corps planétaires
de Mercure Venus Mars Jupiter
ceux-ci se heurtent au soleil
provocant une véritable guerre de religion

*

Eredia sogna di assomigliare a un quadro di Vermeer
si orna di una collana e orecchini dove scintillano le perle
aggiusta un largo cappello rosso una stola d’ermellino
e divina si installa su una panca nei jardins du Luxembourg
un guerriero di passaggio Scipione l’Africano la guarda
la fa salire da amazzone sul suo stallone
per andare a distruggere Cartagine

La bianca geisha beve un puro élixir artigianale
si ritrova a undici anni sul ramo di un fico
mangia qualche frutto maturo mentre disegna uccelli sul suo taccuino
il quaderno cade a terra gli uccelli prendono il volo
in un vero gioco d’equilibrio saltellano di ramo in ramo
affranti di stanchezza dopo un tale exploit
si ricompongono in geometrie
e colorano il loro piumaggio sulla pagina bianca del taccuino

Un piede a 4 dita afferra un marker-painting
corre a Napoli nel quartiere spagnolo
e da tagger disegna dei graffiti acrobatici

La sabbia del deserto si solleva ricopre i corpi planetari
di Mercurio Venere Marte Giove
i quali si urtano al sole
provocando una vera guerra di religione

16.

Mobilité affollante des yeux fouillaient de droite à gauche
de gauche à droite farfouillaient sous l’Arc de Triomphe à Paris

Eredia un jour la nuit un tourbillon
Gustav Malher symphonie n° 1 Le Titan
avale seulement les mi bémols et les fa dièses
dans de l’arsenic blanc sans sucre

Un appareillage clignotant de différentes couleurs
s’introduit dans le désordre d’un appartement
et fait du pop poetry à outrance en colorant les odeurs
il n’en reste que la flagrance d’un souvenir parfumé

Armée de sa Nikon la blanche geisha
dévore l’ombre des absents rue des Sempers

Des traits combattent avec des cercles
pour le triomphe de l’espace troué
le critique Giorgio Linguaglossa en prend note
et écrit un très très long exposé phylosophique

*

Mobilità spaventosa degli occhi frugavano da destra a sinistra
da sinistra a destra rovistavano sotto l’Arco di Trionfo a Parigi

Eredia un giorno la notte un turbinare
Gustav Malher sinfonia n. 1 “Il Titano”
inghiotte soltanto i mibemolle e i fadiesis
nell’arsenico bianco senza zucchero

Una apparecchiatura lampeggiante di vari colori
s’introduce nel disordine d’un appartamento
e fa della pop poetry a oltranza mentre colora gli odori
non rimane che la fragranza d’un ricordo profumato

Armata della sua Nikon la bianca geisha
divora l’ombra degli assenti rue des Sempers

Delle linee combattono con dei cerchi
per il trionfo dello spazio bucato
il critico Giorgio Linguaglossa ne prende nota
e scrive una monotona esposizione filosofica

(traduzione di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa) Continua a leggere

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Dopo le avanguardie, L’età dei Manifesti è finita, Il Brillo box di Warhol (1964), La pittura pop corn, la soap pittura, la poiesis top-pop, la poetry kitchen, Covid garden di Lucio Mayoor Tosi, Poesia, Storia di una pallottola n. 16 di Gino Rago, Dopo le avanguardie, di Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden 3 acrilico, 50x70 cm, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 50×70, 2020

Dopo le avanguardie, che nell’idea di Danto (2009) hanno avuto il loro momento culminante con l’opera di Andy Warhol, l’arte è entrata in una «dimensione post-storica» in cui nulla sarà più come prima e tutto, almeno sotto il profilo artistico, diventerà davvero possibile…

In Dopo la fine dell’arte, Danto compie una operazione storico-filosofica. Prescrive cosa pensare dell’arte dopo la caduta dell’idea di un progresso storico dell’arte. L’arte, secondo Danto, è prima divenuta autocosciente e quindi auto-riflessiva perché ha smesso di concentrarsi sulla rappresentazione del mondo. “L’Età dei Manifesti”, peculiarità dell’epoca “moderna” (poco meno di un secolo dall’Impressionismo al Brillo box del 1964 di Warhol), si caratterizza per un’altra direzione di ricerca: non più l’imitazione del mondo, ma l’affermazione di volta in volta di sé come verità del proprio concetto.

Scorcio, chiaroscuro, prospettiva, fisiognomica… queste furono le scoperte del Rinascimento che consentirono di produrre immagini che apparissero fedeli agli oggetti rappresentati. Fu una scelta di poiesis decidere come dipingere, ma non come «vedere», il «vedere» resta immune da interventi di carattere «politico». Il «vedere» dell’arte del medioevo era il vedere dei cristiani che guardavano le immagini di Gesù, santi e di madonne e restavano estasiati… Il «vedere» era in funzione della ideologia teologico-politica della Chiesa e dei suoi committenti al sorgere del capitalismo.

Non ogni sistema di rappresentazione figurativa ha comportato quella scelta di poiesis. Per esempio, nelle pitture parietali romane di Pompei la preminenza assoluta è a un sistema del «vedere» che coinvolge gli abitanti della Domus., Cioè il «vedere» della pittura parietale è in funzione del dominus e della sua famiglia, il «vedere» le pitture fa parte di un certo modo di vita dei romani dell’epoca in cui l’arte parietale ne era parte integrante.

Con l’impressionismo il «vedere» cessa di essere un atto della polis, non è più un atto politico. Con gli impressionisti la pittura diventa un fatto privato, un affare del soggetto e della soggettività.

Mi scuso con Lucio Mayoor Tosi per questo fugace e rapido accenno a questioni molto complesse, la sua pittura del Covid garden con il signore o la signora sdraiata in giardino è, propriamente e letteralmente, una pittura privatistica, quel signore è un privato che si sta godendo un po’ di ozio grazie alla clausura dovuta alla pandemia del Covid19.

Quello che Lucio ci mette di suo è nel rendere evidente, in modo pop e soap, la manifesta privatizzazione del signore o della signora sdraiata, costui-costei sembra fregarsene della pandemia e dei morti e del disastro dell’economia e di tutto il resto… Quel signore è ormai un privato cittadino con il suo bravo conto in banca i cui titoli investiti in rendite gli consentono di poter vivere comunque con una certa garanzia di agiatezza. Lucio Mayoor Tosi rende evidente questo guasto, questa mostruosità antropologica del cittadino delle società post-democratiche dell’Occidente che è diventato un privato il quale se ne frega (nel senso che ne è inconsapevole) delle ripercussioni del Covid nell’economia planetaria. Questo signore sdraiato è un mostro incosciente, è perfettamente incosciente di tutto ciò, è un privato cittadino che magari vota Lega o 5 Stelle o PD, ma nulla cambia, lui è un egoista che bada soltanto alle sue rendite di posizione.

Lucio Mayoor Tosi ha fatto la scelta di un «realismo» temperato. Fa un passo all’indietro per poterne farne due in avanti, in direzione di una pittura pop e pop corn: conserva il «figurativo temperato» in frigorifero per quanto riguarda la figura umana e lascia il non-figurativo in lavatrice per quanto riguarda gli sfondi che restano non figurativi. E ciò in consonanza con la caratteristica fondamentale del nostro tempo di fine della metafisica, e quindi di fine della rappresentazione realistico-mimetica con gli sfondi realistici.

Michelangelo Buonarroti adottò uno stile diverso da quello dei fiamminghi che avevano optato per il realismo, scelta in un certo senso più convenzionale e «divozionale», quella dei Fiamminghi. La sua adesione al realismo, quella di Michelangelo, è una scelta precisa. Lasciamo la parola al pittore italiano:

«La pittura fiamminga… generalmente soddisferà un devoto qualunque più che la pittura italiana; questa non gli farà versare una lacrima, mentre quella di Fiandra gliene farà versare molte, e ciò non per vigore e bontà di quella pittura, ma per la bontà di quel tal devoto… Molte volte le immagini mal dipinte distraggono e fanno perdere la devozione almeno a quelli che ne hanno poca; e al contrario quelle che sono divinamente dipinte anche ai poco devoti e pronti a ciò, provocano e traggono le lacrime, ed ispirano col grave aspetto riverenza e timore». A questo punto però ci si dovrebbe domandare se il progresso della pittura non si sia davvero fermato già con la produzione tardo-rinascimentale, dato che, ad esempio, l’illusione dello scorcio, raggiunto progressivamente da Michelangelo «nell’arco dei quindici anni in cui realizzò la volta Sistina … acquistò importanza nel XVI secolo fino a diventare, più tardi, un luogo comune della tecnica artistica.»1

L’adesione di Lucio Mayoor Tosi ad un «realismo temperato» gli consente di fare una pittura pop corn. Del resto, non aveva altra scelta che ritornare al realismo mimetico per poter sferrare un colpo al realismo ipofisario e apologetico dell’arte accademica di oggi.

L’individualismo dell’arte del novecento va di pari passo con l’auto consapevolezza degli artisti di punta ed è testimoniato da quel prodotto eminentemente modernista che è il manifesto. Il manifesto è un decalogo che esprime i criteri secondo i quali narrare la storia di un determinato stile o opera d’arte. Come le poetiche degli artisti stessi e dei poeti (ad esempio quelle di Malevich, Mondrian, Reinhardt, Kandinsky, Marinetti, Bréton, Tzara, Dada, i cubofuturisti, gli acmeisti ecc.) possono essere considerate dei manifesti, e i manifesti possono essere considerati opere d’arte in sé, le opere sono degli epifenomeni eventuali che potrebbero anche non arrivare. Tra l’arte come manufatto e la teoresi subentra una scissione, una Spaltung.

(Giorgio Linguaglossa)

1 Francesco d’Olanda, Dialoghi michelangioleschi, cit. in F. Zeri, Pittura e Controriforma, Einaudi 1957, pag 32

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden Blues 40x50 cm acrilico

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Blues, acrilico, 40×50, 2020

Una domanda:

Se un museo, una galleria o una istituzione universitaria o un editore esponessero pubblicamente un avviso, un risvolto di copertina, una didascalia, un manifesto etc. in cui si avvertono i visitatori, i lettori, gli utenti che non si può essere tanto sicuri che gli oggetti esposti siano delle opere d’arte, cosa accadrebbe?

Risposta:

a) Si rischierebbe di compromettere non solo la credibilità dell’istituzione stessa ma anche il ruolo, il valore e il significato che la società annette proprio a quel tipo di oggetti.

b) Si rischierebbe di compromettere la credibilità e la veridicità di quelle didascalie che accompagnano le opere d’arte.

c) Il risultato sarebbe la de-valorizzazione di tutti i manufatti artistici. Situazione nella quale già siamo da tempo.

d) Come si può essere certi che il Brillo Box di Warhol sia un’opera d’arte e non una cosa comune, quand’anche diversa da una confezione di detersivo o di lucido per scarpe o una lattina di fagioli?

Lucio Mayoor Tosi Covidgarten, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 50×40, 2020

Gino Rago
Storia di una pallottola n. 16

Ufficio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani.
Il titolare, Giorgio Linguaglossa, riceve il commissario Belfagor
che ha sostituito gli incompetenti Ingravallo e Montalbano:
«Dopo mesi di indagini, intercettazioni, pedinamenti e appostamenti
quei due incapaci non hanno ancora detto una parola chiara
sul revolver calibro 7,65
e sulla pallottola di Marie Laure Colasson.
All’Ambasciata di Francia di Piazza Farnese c’è aria di maretta».

Piazza Cavour. Davanti al Palazzaccio scoppia una rissa.
I poeti del “Verri” e di “Officina” si avventano contro i nuovi scrittori di “Nuovi Argomenti”,
Luciano Anceschi è furioso con Moravia,
Roberto Roversi aggredisce Enzo Siciliano.
Alfredo Giuliani vuole strangolare un tizio della parola innamorata,
un celerino prova a separarli.
Arriva il commissario Belfagor.
Scappano tutti verso il circo alla Circonvallazione Clodia
per confondersi con la folla degli avvocati e degli assistenti alle udienze.

Luna Park dell’Eur.
Dal tiro a segno un colpo va a sbattere sulle montagne russe.
Entra nell’atelier di Madame Colasson.
La pallottola squarcia la Birkin posata su un divanetto rococò
e buca la gonna della pittrice
che sta terminando il collage “Notturno n. 14” in acrilico.
Fa volare pennelli, tele, vinavil, tubetti di colore,
limature di ferro, cartoncini, risme di carte, cartoline illustrate,
album di foto, macchine fotografiche, cavalletti ed entra
nel sogno del poeta ceco Karel Šebek.

La pallottola viaggia così lenta che il commissario Belfagor
riesce a seguirne la traiettoria sempre nello stesso sogno.
Infine si spiaccica sul busto di bronzo di Eugenio Montale.
E qui finisce la storia.

Il commissario Belfagor telefona a Giorgio Linguaglossa
all’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani.
«Dottor Linguaglossa, ho risolto il caso,
la pallottola dell’egregio poeta Gino Rago ha finito la sua corsa.
Si è spiaccicata sulla statua di bronzo di Eugenio Montale…
Dia la notizia all’Ambasciata di Francia».

Gare de Lyon. Louis Malle gira l’ultima scena del film
“Zazie dans le métro” e festeggia con Queneau e Philippe Noiret.
Madame Colasson beve un pernod con ghiaccio.
Telefona a Madame Philoméne Ragò: « Finalmente tutto è finito.
Era diventato un incubo.
Madame Ragò, accetto il Suo invito.
Questa estate, verrò in vacanza all’Antica-Dimora-Palazzo-Rovitti». Continua a leggere

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C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea, top-pop-poesia, poetry-kitchen, pop-corn-poetry, Poesie inedite di Guido Galdini, Carlo Livia, Francesco Paolo Intini, L’esperimento non è riuscito, Caleidoscopio della caduta di Marie Laure Colasson, commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Caleidoscopio, acrilico 30x30 2008

Marie Laure Colasson, In frantumi, acrilico 30×30 cm, 2012

La scrittura poietica di Marie Laure Colasson mette in scena il «In frantumi», un caleidoscopio della caduta verticale, la de-valorizzazione di ogni valore, la «caduta» fino al punto zero della significazione, fino ad un fondo senza sfondo. Di qui la figurazione dei libri in caduta, lo smottamento delle poltroncine  e delle sedie. Ogni elemento del sistema reticolare dei rinvii è se stesso soltanto perché è già in rapporto differenziale con tutti gli altri elementi. È se stesso (autos) in quanto non rimanda a se stesso. Tale è il nomos  che detta all’esperienza della vita il suo ordine  come Lebenswelt  da cui proveniamo ma al quale non possiamo mai attingere in modo diretto, giacché la vita stessa è disseminazione, traccia, rinvio, diversione da se stessa,  espropriazione, spettro dell’auto-distanziamento psicologico e sociale dell’“io”. Ogni segmento di Erleben  è in se stesso sempre altro. La autoeterootobiograficità della poiesis colassoniana è qualche cosa che eccede di gran lunga il genere dell’autobiografia.

 L’autootoeteronomia del discorso poietico innerva l’esperienza di questa scrittura figurale al di fuori dei generi in quanto in-differenza al campo del racconto, in-differenza fra narrazione cronologica, mimetica, figurativa, affresco epistolare, diario, confessione, mixage  di generi allotri. Non vi si trova mai un moto centripeto perché l’“io” non c’è, al suo posto v’è un cinetismo di apertura centrifuga verso l’altro, la disseminazione dei  frantumi e dei sentieri e delle tracce. La caratteristica più evidente della poiesis colassoniana è la  finzionalità, in quanto qualcosa sta sempre per qualcos’altro.

 Così, il finzionale induce il soggetto che si  racconta a indossare maschere, a inseguire la polifonia, la politonia, a dis-identificarsi, e questo accade nel momento in cui la tensione auto-poietica del soggetto tocca il suo apice, rivelando l’autoinganno come necessità per la propria sopravvivenza in quanto soggetto. Il riprodursi della vita è presupposto nel concetto di «sopra-vivenza», in quanto la vita stessa (autos) è «dissimulazione».

 Questa scrittura figurale ospita la disseminazione del sé. Da qui l’insistenza sul tema della «caduta», della de-valorizzazione, della de-fondamentalizzazione del valore e dei significati, della in-differenza tra testimonianza e finzione, tra finzione e lutto. La de-valorizzazione non lascia tracce ma macerie e rottami, la poiesis colassoniana si occupa di questo, della «caduta» di un intero mondo di significati.

 Nel tracciare il profilo di se stessi, disegnando l’autoeterootobiografia, la Colasson aderisce alla poetica della disseminazione, della traccia, del rinvio e delle maschere. La vita è innanzitutto maschera e survie: «dal momento che vi è una traccia, quale che sia, essa implica la possibilità di ripetersi, di sopravvivere all’istante e al soggetto del suo tracciamento, di cui essa attesta così la morte, la scomparsa, o almeno la mortalità. La traccia configura sempre una morte possibile, essa firma [signe] la morte».1

 La traccia rimanda al dialogo fra “auto” e “oto” (radicale che rimanda all’orecchio, organo del corpo sempre aperto all’esterno) e alla scrittura poietica come processo dialettico fra auto, oto ed etero.

(Giorgio Linguaglossa)

1 J. Derrida, Papier machine, Paris 2001, p. 393.

 

Giorgio Linguaglossa

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea

questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecenteschi, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito. A questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1

Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

L’esperimento non è riuscito

l’esperimento non è riuscito

di ricongiungere rallentare e disperdere
le cianfrusaglie della nostra vita

di rinunciare prima di aver desistito

di accostare i lati opposti dell’ombra
per ottenere un terzo lato segreto

di sottomettere l’euforia di un ruscello

di avere fatto finta di capire
senza destare il minimo sospetto

di far sempre qualche sogno indeciso
ogni volta che termina l’estate

di restituire quello che ci hanno rubato

di confidare a qualcun altro
ciò che andava taciuto anche a noi stessi

di guardare lo specchio all’improvviso
per smascherarci prima d’esserne delusi

di coniugare tutti i verbi al futuro
per dimenticare un po’ più in fretta il passato

di coniugarli al passato
per difenderci dalla fretta del futuro

di chiedere a chi si sta allontanando
perché cammina fingendo di ritornare

di contare le lettere della parola felicità
ed arrivare sempre fino a sette

di far rotolare le biglie giù da un piano inclinato
per misurare la solitudine dell’attrito

di tracciare due rette parallele
che si separeranno all’infinito

di rallentare la velocità degli istanti

di prevedere il passaggio della cometa
dalla sua coda riflessa in una pozzanghera

di sottintendere quel che c’era da scavalcare

di credere alle promesse dell’equinozio

di attraversare tutto il mondo a occhi chiusi
per rinunciare al fasto dell’apparenza

di ingarbugliare fino a che diventi più chiaro

di sopperire alla cautela dei ricordi
rovistando tra le rovine e i miraggi

di accorgerci che abbiamo seguito
un sentiero che non c’era mai stato

di impedire che l’arrivo diventi
un’abitudine da raggiungere verso sera

di imparare a memoria
le poesie partendo dalla fine
per non raccogliere la sfida dell’impazienza

di separare ciò che resta da vendere
da ciò che si può soltanto regalare

di regalare a tutti qualcosa di rosso

di riconoscere la fuga delle stagioni
dalla diminuzione delle parole
e dall’aumento dei sottintesi

di terminare prima che faccia buio
gli esperimenti non riescono quasi mai

 

Carlo Livia

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.

Un amour appelé adieu

La Visione mi trasforma in ripostiglio.

È l’urlo dell’insetto che solleva la notte.
Mostra la soffitta malata, senza Padre.

Il Santo beve l’ultima goccia di sposa dal canto dei boscaioli.
Nel lampione drogato la morte alleva i suoi tesori.
Gesti d’acquario, solitudini olandesi. Volti velati intorno all’amplesso che brucia.

Nous vivono dans un suicide eternel, de l’istant blesse’ par le filles en fleur.

Lei m’invoca dal buio ornamentale. Libero la sua tristezza dal bestiame furioso.

Nel viale appena risorto, mangiamo e beviamo la sera che ci ha diviso.
Insieme possiamo capovolgere l’abisso – dice.

La via è piena di cadaveri ribelli, coperti di lunghe estasi.
Canzoni nubili espatriano in un autunno osceno.
Passano cipressi, in un sogno torbido.

Sotto il piedistallo vuoto, bestie dementi danzano e sventagliano l’Immortale.

/…/

Lady Dark, sauve-nous de ton eclair initial.

Uccelli e orologi trapuntano l’angoscia. Gridano che l’ora è giunta.
Invece giunge l’Altro. Il Raggio Fossile, che distrugge il tempio.
Il profumo della Dea fugge sugli spalti.

Qualcuno, che mi sognava, si è svegliato.
O è la mia anima, che falsifica gli approdi.

Anche se il cielo svende i suoi celebri dipinti,
il vento fruga le nudità delle navate,
un tumulto di bambole tramuta la pietà in seta,
lei emigra in trasparenza su antiche praterie,
tutta sola e nuda come una vaga promessa,

la Mariee mise a nu par ses celibateires, quittez la ceremonie,

noi non possiamo più svanire.

 

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017) e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Ha pubblicato nel 2020 Faust chiama Mefistofele per una metastasi(Progetto Cultura).

JEAN

Il volo ebbe una fermata.
Una fantasia Disney in una macelleria.
Foto di gruppo con dama di carità

Alla discesa di deportati seguì
il licenziamento di Heydrich solo perchè
l’ammoniaca usciva dalle piombature
E avrebbe fatto bene uno scolo nell’inconscio.

A Long Island si assistette all’ irruenza di un vagabondo.
Il Tempo si poteva regolare anche così.

Ostriche e vuoti sostavano nei campi del Sud Est.
Greggi e poi eserciti, trincee che rifiutavano la datazione
Pur di stare in un frullato..

Non s’era mai visto perdere così lo scappamento.
Qualcuno deve divertirsi a costruire orologi
per differenziarli dagli Dei.

Stalattiti che tornavano dalle doline.
Cartesio rottamato nell’ Origine del mondo.

Sull’ asse si piazzò il denaro, a sbalzi,
con un passo di trapezista e uno da croupier.

Ordinate addolcivano le battute
come un parrucchiere i bigodini di Jean Harlow.

Quanto vale la bellezza di un verso?
Meglio un proiettile o un neutrone?

Da “capitale umano” al rigo successivo
Col passo di una chiave inglese sull’avambraccio
l’imbottitura di una tigre morta.

Basta dire che l’enjambement è perfetto
per aguzzare le orecchie a una tuba:
-Ho visto un banchiere nuotare da una tempia all’altra!

Il tempo di accendere un fiammifero
E vedere penne smuovere il culo.

-Era tango ma sembrava olio di ricino
per convincere una rosa al sonoro.

 

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Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Caro Lucio,
Con il Covid19 noi viviamo una condizione di smobilitazione degli assoluti, come accade nell’«ontologia della guerra» di Lévinas, laddove questa si propone di rendere «irrilevanti» le categorie della morale mediante il richiamo alla disillusione operata dalla guerra, al fine di consentire la più profonda e radicale disambiguazione degli interessi degli uomini proprio della ratio dell’Homo sapiens.
Con la distanziazione sociale viviamo in uno stato di disambiguazione prossimo allo stato vegetativo. Il controllo della coscienza è stato interrotto, e così gli affetti familiari e interpersonali. Lo «stato d’eccezione» profetizzato da Agamben è diventato, paradossalmente, uno stato di necessità, una condizione normale di vita. Qui non è in gioco la volontà dittatoriale del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come sostengono i leghisti e i fascisti, ma per una situazione di oggettiva necessità determinata dalla enorme diffusione del virus. Viviamo nello stato di disambiguazione che ci ha rivelato il virus, e ci scopriamo totalmente irretiti nella falsa coscienza, nella «zona grigia» dell’esistenza e del linguaggio.
Anche in altre epoche storiche il virus della peste ha determinato uno sconvolgimento delle relazioni sociali e un distanziamento sociale degli individui. Ma, da solo, a mio avviso, il virus non produce Evento. Evento è invece la ripercussione nell’economia del virus, la stagnazione e la conseguente depressione economica con conseguente disoccupazione per decine di milioni e, forse, centinaia di milioni di persone nel mondo.
Voglio dire che l’Evento virus Covid19 ha prodotto spavento di massa. Ma, appena il virus diminuirà la sua visibilità, riapparirà il conformismo di massa in un assetto sociale indebolito dalla crisi economica e impoverito. La disambiguazione delle coscienze verrà alla luce. Lo spavento di massa si tramuterà in rabbia sociale e, di qui il passo ad un totalitarismo di un cialtrone che reclama «pieni poteri» sarà breve.
Il Covid19 è, paradossalmente, un Evento che non è un Evento. Mi spiego. Per essere visibile un Evento non deve essere visibile, ma invisibile. Quando scoppia, l’Evento diventa visibile, ma già da tempo erano in essere le condizioni perché l’Evento si verificasse, ma gli uomini non avevano fatto caso alle tracce dell’evento prossimo venturo che si stava preparando.
Quando il Covid19 sarà sconfitto, gli uomini continueranno a vivere come prima, peggio di prima. I ricchi continueranno ad arricchirsi e i poveri ad impoverirsi. Il problema è il modello di sviluppo del capitalismo. È quel modello che ha determinato l’insorgenza del virus e della pandemia che occorrerà modificare. E il primo passo da fare è che i ricchi paghino più dei poveri, questo mi sembra ovvio. Mi sembra ovvio che occorrerà che le forze democratiche rivendichino la necessità di una tassa sulla ricchezza per riequilibrare le diseguaglianze introdotte dalla crisi economica.
Io non penso all’evento come ad uno «stato meditativo» come tu dici. Questo significherebbe privatizzare e soggettivizzare la nozione di Evento. L’evento è ben di più di una questione del soggetto, è una questione epocale che però gli uomini del presente non vedono, non riescono a scorgere.
Tu hai fatto il nome di una poetessa, Maria Rosaria Madonna, che ha presagito con le sue poesie la «perturbazione», l’Evento. Nelle sue poesie si percepisce, oggi più di ieri, l’approssimarsi di un qualcosa di oscuro che si sta abbattendo sugli uomini. Ma Madonna è stata una Cassandra, ed è rimasta inascoltata.
(Giorgio Linguaglossa)

Poesie di Maria Rosaria Madonna (1940-2002)

da Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Progetto Cultura, Roma, 2017 pp.332 € 18.00

Sono arrivati i barbari

«Sono arrivati i barbari, Imperatore! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso l’Imperatore che i barbari sono alle porte?
Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono in Senato
con la bianca tunica e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli?
Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede l’Imperatore al funzionario dell’erario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede l’Imperatore al funzionario annonario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».

Parlano la nostra stessa lingua i Galli?

Si sono riuniti in Senato il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie del Foro…
Qualcuno ha riaperto il tempio di Giano,
il tempio di Vesta è stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
corre voce che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e instabile
e un’aquila si sia posata sulla cupola del Pantheon
che sette corvi gracchiano sul frontone del Foro…
corrono voci discordi sulle bighe del vento
trainate da bizzosi cavalli al galoppo…
che il nostro esercito sia stato distrutto.

Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?

E adesso che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?

Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua

Strilli Madonna Non adularmi

Gif Antonioni 3

Autodifesa dell’imperatrice Teodora

Procopio? Chi è costui? Un menagramo, un bugiardo,
un calunniatore, un furfante.
Non date retta alle calunnie di Procopio.
È un bugiardo, ama gettare fango sull’imperatrice,
schizza bile su chiunque lo disdegni; è la bile
dell’impotente, del pervertito.
Ma è grazie a lui che passerò alla storia.
Sono la bieca, crudele, dissoluta, astuta Teodora,
moglie dell’imperatore Giustiniano, la padrona
del mondo orientale.
E se anche fosse vero tutto il fango che Procopio
mi ha gettato sul volto?
Se anche tutto ciò corrispondesse al vero? Cambierebbe qualcosa?
È stata mia l’idea di inviare Belisario in Italia!
È stata mia l’idea di un codice delle leggi universali!
E di mettere a ferro e a fuoco l’Africa intera.
Soltanto i morti sono eterni, ma devono essere
morti veramente, e per l’eternità affinché siano tramandati.
Un tradimento deve essere vero e intero perché ci se ne ricordi!
Voi mi chiedete:
«Che cosa penseranno di Teodora nei secoli futuri?».
Ed io rispondo: «Credete veramente che i posteri abbiano
tempo da perdere con le calunnie e le infamie di Procopio?
Che costui ha raccolto nei retrobottega di Costantinopoli
tra i reietti e i delatori della città bassa?».
Ebbene, sì, ho calcato i postriboli di Costantinopoli,
lo confesso. E ciò cambia qualcosa nell’ordito del mondo?
Cambia qualcosa?
Il potere delle parole? Vi dirò: esso è
debole e friabile dinanzi al potere delle immagini.
Per questo ho ordinato di raffigurare l’imperatrice Teodora
nel mosaico di San Vitale a Ravenna,
nell’abside, con tutta la corte al seguito…
E per mezzo dell’arte la mia immagine travalicherà l’immortalità.
Per l’eternità.
«Valuta instabile», direte voi.
«Che dura quanto lo consente la memoria», replico.
«A dispetto delle calunnie e dell’invidia di Procopio».

Strilli Maria Rosaria Madonna Alle 18 in punto

La reggia che fu di Odisseo

Che cosa vogliono i proci che frequentano
la reggia che fu di Odisseo?
E che ci fa sua moglie Penelope
che di giorno tesse la tela con le sue ancelle
e di notte tradisce il suo sposo
nel letto dei giovani proci?
Sono passati dieci anni dalla guerra di Troia
e poi altri dieci.
I proci dicono che Odisseo non tornerà
e nel frattempo si godono a turno Penelope
la loro sgualdrina.
Si godono la reggia e la donna del loro re
sapendo che mai più tornerà.
Forse, Odisseo è morto in battaglia
o è naufragato in qualche isola deserta
ed è stato accoppato in un agguato.
La storia di Omero non ci convince
non è verosimile che un uomo solo
– e per di più vecchio –
abbia ucciso tutti i proci, giovani e forti.
La storia di Omero non ci convince.
Omero è un bugiardo, ha mentito,
e per la sua menzogna sarà scacciato dalla città
e migrerà in eterno in esilio
e andrà di gente in gente a raccontare
le sue fole…

*

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.

Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.

Alle 18 in punto il tram sferraglia

Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.

In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.

Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.

foto donna con corvo
Gli angeli sono come gli uccellini

Gli angeli sono come gli uccellini
volano via al primo battere delle mani,
i dèmoni invece stanno immobili
appollaiati sui rami degli alberi
emettono il loro singhiozzo disperato.
Essi non possono fuggire… maledetti
dall’eternità sono condannati a star fermi.
Per sempre.

*
Ci sono parole che dormono
il loro sonno eterno e non è bene
svegliarle. Ci sono altre parole invece
che improvvisamente risorgono
a vita nuova dopo un sonno eterno…
magari in un’altra lingua, un altro mondo…
E questa è la vera resurrezione
della carne… la sola, unica e vera.

*

Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più male o più bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…

Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wehrmacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.

Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.

Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002) Progetto Cultura, 2018 pp. 148 € 12.00

Gif scale e donna

… Quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale, una sorta di terra di nessuno? Ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) si presenta di nuovo oggi dinanzi alla fine dell’età dell’umanesimo? Possiamo formulare questa ipotesi? – (In verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).

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L’epoca del Covid19 e del Roipnol, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Dialogo, La Pop-Poesia,

 

Penso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non ha a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
L’Evento è l’esito di un incontro con un segno. (g.l.)

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L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica: La pop-poesia
.
I due testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si colloca in una dimensione post-metafisica.
In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio complessiva del sistema amministrato.
La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio veritativo.
La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch.
La pop-poesia non redige alcun senso del mondo e nessun orientamento in esso, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere.
Così è se vi piace.

.

Mario M. Gabriele

Inedito di  da altervista il blog di Mario Gabriele

Andando per vicoli e miracoli
ritrovammo l’albergo e il trolley.

Non si dà nulla per certo, neanche prendere contatti
con il gobbo di Notre Dame per suonare le campane.

Bisognava partire.
Tu non vuoi più le carezze?

Il fatto è che se ci mettiamo a seguire Ketty
non leggeremo Autoritratto in uno specchio convesso.

I Simpson si riconoscono per il colore giallo.
Giulia ne ha fatto una raccolta di figurine acriliche.

Tutto rotola e va in basso. Sale e scende.
Linee nere e linee rosse.Si cerca il punto originario.

Cerca di distrarti! Prova a chiamare
le cugine di Sioux City.

Ti suoneranno l’Hukulele
ricordandoti C’era una volta l’America.

Oh bab, baobab, invocò il nigeriano
alla fermata del Pickup.

Controlla tutto e bene nel trolley.
Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.

Giorgio Linguaglossa 

Proprio nel momento in cui l’erede di Giovanni Agnelli, il topastro John Elkann, ha liquidato il direttore di “Repubblica”, Carlo Verdelli, sostituendolo con un fedelissimo moderato pony express del moderatismo, Maurizio Molinari, e comprato l’asset per un pugno di dollari, possiamo comprendere come il capitale internazionale disdegni le testate giornalistiche «diverse» e comunque «critiche» del sistema-Capitale. Il problema è che si preannuncia in Italia, in Europa e nel mondo occidentale un acutizzarsi della crisi e dello scontro in atto tra i ricchissimi e il nuovo proletariato internazionale che ama visceralmente i Bolsonaro, i Trump, i Salvini, le Meloni, gli Orban, i Putin, i Di Battista… Le democrazie liberali sono a rischio di sopravvivenza, questo è chiarissimo anche in Italia dove l’accoppiata fascista-leghista Salvini-Meloni lancia accuse incandescenti e bugiarde contro un governo parlamentare che sta affrontando la crisi più grave del novecento e del post-novecento.

In questa situazione, alla poesia viene sottratto il terreno da sotto i piedi, le parole diventano sempre più difficili, scottano, non possono più essere maneggiate, i poetini e le poetine alla Mariangela Gualtieri e alla Franco Arminio vengono citati sulle pagine della stampa e dei media per le loro poesiouole sul Covid19 e sull’ambaradam dello sciocchezzaio, mentre un poeta laureato di Milano discetta sulla fine della «società letteraria» d’un tempo, e altri autopoeti parlano di «Bellezza» e altre amenità consustanziali allo stupidario di massa di oggi.

In questa situazione, che cosa può scrivere un poeta che vive nel paese più a rischio democratico d’Europa come l’Italia? Può solo scrivere con sconcertante umiltà:

«Tutto rotola e va in basso»

per concludere:

Controlla tutto e bene nel trolley.
Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.

Mario M. Gabriele

Quanto scrivi, caro Giorgio, non può che accomunarsi a quanto da me riportato nel commento del 24 aprile, a proposito della “divisività”, che ha dominato e domina la poesia italiana di oggi, dove un poeta, con idee nuove, debba rimanere sempre al buio in quanto nemico dell’establishment culturale che si consolida con la politica statica e conservatrice.

Mi duole se nel trolley dobbiamo portarci il Roipnol per dimenticare tutto ciò che la classe dirigente e i comandamenti che ogni anno provengono da Davos, unificano la classe sociale e culturale, dove basta un semplice agente patogeno, il Covid19 a fare piazza pulita di tutto il sistema collettivo dove si frantuma un corpo sociale in mille pezzi costruito da una cultura di comunicazione virtuale dove prevalgono le Fake News e i continui attacchi dell’opposizione alla classe dirigente di oggi che si trova a dover allontanare il Default come la nube di Chernobyl.

Se c’è qualcosa che ci accomuna è la nostra fragilità, l’essere una massa enorme e impotente all’interno di un mondo diviso. Ma ciò che più determina il nostro disagio è la degenerazione culturale di tipo fascista, che tipografa sui muri le svastiche o incendia le lapide dei partigiani.

Alla luce di quanto finora detto non possiamo permettere come normalizzazione e appiattimento l’idea di una Nazione, la nostra, che diventi ancella della Merkel, e della Troika che hanno fucilato la Grecia.

La poesia è anche un Kit di pensieri e azioni, rispetto al nostro mondo desacralizzato dalla pandemia, che ha rimesso tutto in campo, facendo rinascere una società in cui ciò che conta è la capacità di reinventarsi nuove occupazioni lavorative, anche se il Capitale sta a guardare e ad operare come un bodyguard.
Ti ringrazio, caro Giorgio, per aver ospitato un mio testo, da te rivelato nelle sue parti più essenziali.

Giorgio Linguaglossa

Il Signor F. frugò nel taschino del gilet e saltò fuori il nano Proculo,
con la giacca a quadretti azzimata, un pantalone liso e sdrucito
e un cappello a cilindro.

Il quale scrisse una lettera al Presidente del Consiglio Conte,
per riavere indietro i trenta denari dati in prestito e ancora insoluti
per via del precoce decesso del legittimo proprietario.

Si accomodò in poltrona dal barbiere François, accavallò le gambe
e si fece radere il mento.
Poi sputò nella sputacchiera e si diresse all’angolo della tosse

dove i liberi erano in quarantena.
Spalancò la finestra.
«Aria! Aria! Cambiate l’aria!», gridò.

[…]
Chiese uno stuzzicadenti.
Il Coronavirus saltellò qua e là e decise di uscire
a prendere un po’ di aria fresca.

Il poeta di Milano fece un gran fracasso.
Gridava che la «società letteraria» era scomparsa e altre quisquilie.

Inutilmente il direttore d’orchestra intimò il silenzio.
La grancassa riprese a fare fracasso.

[…]

Come prima. Più di prima.
Il direttore disse: «Ti amo» alla prima violinista.

Un gran numero di topi di fogna presero il largo
dicendo che in democrazia anche i topi erano liberi.
Accadde tutto così di fretta che il commissario non intervenne.
Un altro poeta gridò:

«La bellezza salverà il mondo!», e scomparve.
Dei turisti giapponesi si accalcarono per vedere il Prof. Tarro con il virus nell’ampolla.

Scattavano fotografie dappertutto, entravano anche nel bagno.
Dicevano ai bambini: «State zitti, contegno, state in casa del prof. Tarro!».
Poi le cose periclitarono, l’Italia fu dichiarata «zona rossa»

e venne bannata dalle guide turistiche.
Nadeche Hackenbusch, la bella presentatrice di un reality show
scorrazza per il lager con la sua jeep zebrata,

la accompagna la sua devota biografa, la redattrice della rivista “Evangeline”,
Astrid von Roëll, entrambe in minigonna e tacchi a spillo,

intervistano gli africani del lager.
Lui, anzi Lei, la loro amante, ribattezzata Lionel perché il nome tedesco
è troppo difficile, le asseconda.

Ursula Andress prende il revolver di Marie Laure Colasson,
dice che ha licenza di uccidere, e spara un colpo in aria
e un altro nella testa di Azazello

il quale crolla all’istante, e così Bulgakov non trova più il suo personaggio
che nel frattempo si è insinuato nel romanzo di Gadda
dove c’è il commissario Ingravallo che svolge le indagini.

Interviene il cardinale Tarcisio Bortone portando i buoni uffizi del Vaticano
ma non ci fu niente da fare, le cose tornarono a posto da sole.

[…]

Il nano Proculo si diresse verso la botola e riprese il suo posto.
Il Signor F. disse che aveva scherzato.
E si ritirò nella fogna.

Ursula Andress ritornò all’isola dei Caraibi,
sulla spiaggia, in bikini, nella famosa scena del film di Jan Fleming.

Un cormorano passò di lì.
E salutò.

 

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Al punto più alto della Crisi del Covid19, è la poesia in grado di rispondere con una Proposta di alto profilo? La poesia dal punto di vista dell’Ereignis, Commenti e poesie di Ewa Tagher, Marina Petrillo, Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Video di Diego De Nadai

 

Marina Petrillo

Multiverso

Se dovesse lasciare questo piano di esistenza
vorrei vederla piccola, rannicchiata sul pavimento

intonare un canto,Angelus della dipartita
benevole al gesto dell’insidioso andare,

Paradigma brama bellezza in archetipo
se muove l’insoluta perfezione ad attimo.

Lì perviene il presente in dubbio
opalescente al nastro annerito del pianeta.

Hölderlin canta l’Essere, la sua pace d’oro.
Dimenticanza, perdono. Nube che viaggia che viaggia innanzi alla serena luna,

Smemore ogni tratteggio nell’indiviso multi verso
o diafanità tralucente la parola.

Alla preghiera antica, torna il coro
degli esseri senzienti declinati ad Uno.

Lieve tocco in stilla apparsa in sogno
primo gesto non contemplato ad inizio

per cui il Big Bang è tonfo della sua fine.

 

Giorgio Linguaglossa

cara Ewa Tagher,

giunti, come parrebbe che stiamo, al punto culminante della Crisi, abbiamo il dovere di percorrere con lo sguardo la crisi per abbracciare, con un colpo d’occhio, con l’occhio della crisi, l’arte che è stata fatta in questi ultime decadi. E derubricare quel modo di fare poiesis. E la poesia? Che cosa si penserà di noi tra cento, duecento anni? Che cosa si citerà di significativo della crisi di questi anni?

Vorrei attirare l’attenzione dei lettori su questo punto: sulle conseguenze nel discorso poetico della assunzione di questa pratica e di questa petitio principiis: una pratica della differenza e della contraddizione.
La nuova fenomenologia poetica vuole liberare la differenza dalla differenza per dare luogo a un discorso poetico che preveda e consenta la differenza, la contraddizione, la dialettica senza negazione, la dialettica negativa. Un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica, come è stato fatto finora, che riesca a liberarsi dall’assoggettamento alle categorie, che vogliono costringere lo sguardo che osserva dall’alto in basso secondo l’ideologema di un io plenipotenziario e panottico che crede ingenuamente di tutto abbracciare e tutto governare, che squadra l’oggetto e lo descrive, o crede di descriverlo.

La ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti. La poesia della nuova fenomenologia del poetico ha questa spiccata consapevolezza, che quel logos, quella ragione è inappropriata a rappresentare ciò che sfugge alla rappresentazione, l’origine non rappresentabile della rappresentazione.

Ewa Tagher

Gentilissimo Linguaglossa,

Lei scrive: ”un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica” e ancora “la ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti”. A me sa cosa viene in mente? Una visione: il trittico “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, che non a caso è un polittico, ancora ammirato, seppur vecchio di oltre 530 anni. E perché ancora molti ne rimangono estasiati? Proprio perchèélì avviene quanto Lei auspica per la poesia contemporanea: sulla tela si agitano “moltiplicazioni di significati”, rovesciamenti, significanti dai doppi, tripli significati. Lasciando da parte le intenzioni di Bosch (purtuttavia poco chiare anche agli studiosi), la sua opera affascina i contemporanei proprio perché è di difficile interpretazione e perciò richiede uno sforzo, occorre richiamare alla mente tutte le possibili metafore per comprendere i gesti delle piccole figure nude, prigioniere in gusci d’uova. Ecco, io mi auguro che la Nuova Ontologia Estetica, il Cambiamento di Paradigma, così come Lei auspica, diventi il Nuovo Giardino delle Delizie, un lavoro al quale fra 100, 200 anni altri possano guardare incuriositi, stimolati, invaghiti.

 

Marina Petrillo

Sento che giunge, non so cosa sia.
È una lingua di fuoco azzurra, creante, a scendere e a soffiare la vita.
Abita il cielo dell’onnipotente pensiero tralasciando ogni altra forma.

Non giace immobile il mare e torna in risacca
dopo aver compiuto traccia del suo esodo.
In ipotesi estatica, trae luce il Verbo, a solstizio armonico,

come se sottili lettere ambissero nuovo lemma.
Ad aereo suono risponde la compagine alfabetica, assorta
in emisferi dello spirito limitrofi alla linea iniziale.

Contemplare l’ombra a sua luce è espediente noto.
Non lasciare adito a supponenti orchestrazioni filosofiche
ma allo spazio derivante da conoscenze eterne,

ne è la traduzione in diagramma plurimo.
Si dissolve il pensiero, algoritmo dimostrabile in sequenza
tendente al non finito.

Essere sulla soglia non contempla l’azione dell’entrare
se il passo non si attiva e le sinapsi non determinano la funzione di controllo. Procede il ripetersi di azioni conclamate ad avvio della coscienza,

non suffragate da eventi coerenti all’agire stesso.
Riflessioni animano spazi verbali ma non vi sostano se, combacianti a specchio, negano il respiro in asfissia della coscienza

Resta immobile il respiro e in sua apnea,
giunge un suono tramutato in parola.
Indaga il suo doppio e lì permane a scrutare i cieli possibili.

I più imponderabili.
Contraddizione in termini mai sazia di indizi lessicali.

Mauro Pierno

L’alfabeto muto dell’appartenenza
la semplicità della rete in fibra, fare centro al primo colpo!

La messa cantata annullata,
solo due visi pallidi in pompa magna.

A quell’ora predisposta fuori dell’uscita.
Lo stesso prezzo lo stesso cartellino.

La menzogna della calze lunghe,
Raggiodiluna allenta le briglie.

Quelle scommesse così rarefatte,
non indicate vi prego le praterie.

E le parole quante volte appese.
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo stoppino.

Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa chiede un parere sulla trascrizione in terzine della poesia di Marina Petrillo. Il suo tentativo ha il pregio di rendere più chiari i contenuti, le immagini e i significati che sottostanno al testo. Linguaglossa introduce un principio di ordinamento linguistico nel cuore del vaticinio e della profezia. Un risultato consimile si sarebbe ottenuto anche attraverso una trascrizione in distici e l’isolamento di qualche verso. Così, però, la scrittura della Petrillo perde quell’aura di sapienza sacerdotale che la percorre e attraversa tutta. La scrittura della poetessa, fascinosa e misticheggiante, è l’ avvenente trucco di una vestale del Verbo, sotto il segno
di una “contraddizione in termini”, dove termini significano “respiri in apnea” che producono parole… e “indizi lessicali” per delineare gli argini di un territorio imperscrutabile.

Giorgio Linguaglossa

caro Giuseppe Gallo,

la poesia di Marina Petrillo è a mio avviso un esempio probante di poesia dell’età tecnologica in quanto adotta le strategie della retorica al meglio e in profondità, proprio quella retorica che ha contraddistinto il novecento, proprio quella retorica che ha accompagnato il feretro della civiltà dell’umanesimo. Proprio in questi giorni lo spettacolo dei fascismi di ritorno (è inutile girarci attorno, qui bisogna chiamare le cose con il loro nome), fenomeno eclatante e inquietante in Italia, in Europa e nel mondo sembra convalidare la nostra ipotesi che siamo un paese alla deriva e all’avanguardia del fascismo in Europa.

La fine dell’umanesimo significa, per chi ancora non l’avesse capito, la fine di quel modo di fare poiesis come l’abbiamo conosciuta nel novecento e in queste ultime due decadi. Quella poiesis è risultata Kitsch, ancella del conformismo. Marina Petrillo, e questa è la sua prerogativa, reimpiega la retorica della antica poiesis per sfornare un nuovo modello di poesia. In fin dei conti, la retorica è nient’altro che tecnica, rientra nella tecnica e non ne è mai uscita.

Per pensare adeguatamente la tecnica è necessario aprire gli occhi sul fatto della natura e della tecnicità dell’uomo, della immediata mediatezza dell’esistenza umana: l’uomo è per natura un essere artificiale, la tecnica non solo non è la negazione dell’umanità, ma è anzi l’espressione della sua più profonda essenza,l’esplicazione dei fondamenti della sua costituzione materiale.

Heidegger ha notoriamente interpretato la nostra epoca come epoca del Gestell (apparato impersonale/dispositivo/impianto) che si impone portando aconcepire il mondo intero non più soltanto come Gegenstand aperto dinnanzi al Subjekt ma addirittura come Bestand pronto all’impiego (in cui persino il Subjekt diventa impiegato, nel migliore dei casi, come impiegante).

Il pensatore tedesco ha fatto della tecnica, ancora più radicalmente, non tanto solo uno dei più importanti eventi del nostro tempo, quanto soprattutto l’Ereignis a partire dal quale nel nostro tempo le cose possono e-venire e av-venire, a partire dal quale nel nostro tempo ogni accadimento e ogni atto diventano possibili e pensabili. Saremmo di fronte al La Tecnica maiuscola per eccellenza, al modo in cui il Seyn si dà in questa epoca, al modo il cui l’Essere per noi si “epocalizza” in quanto modo dell’aletheuein , al modo in cui la temporalità per noi si temporalizza.

Marina Petrillo

Gentili Giuseppe Gallo e Giorgio Linguaglossa,

nel silenzio che alcuni scritti abitano, si manifesta un mondo di pensiero e riflessione poetica in sé compiuto.
L’evento si muove aereo, quasi in assenza di forza di gravità.
Le parole, geometria nello spazio, ingenerano una progressione data non solo dalla successione logica ma dalla profondità.
Si integrano i segni convenzionali in libere associazioni, come se trasformassero in reazioni chimiche il vuoto indugiare.
L’aura di sacro esprime e risolve la natura dell’accadimento, diviene coincidente al processo del pensiero stesso. Catalizzatori di memorie, i processi associativi, come microchips della coscienza in sua espansione.
In tale prospettiva, si è in un prisma che induce nuovo riverbero, senza estenuazione.
Come per l’opera pittorica citata da Ewa Tagher, “Il giardino delle delizie” di Bosch, in cui l’esoterico prende forma attraverso una messe infinita di indizi in un processo di amplificazione visiva.
Una moltiplicazione dei linguaggi, campo di ricerca al quale attingere. Frattali energetici dove sublimare contenuti.
In un approfondimento di pochi giorni fa, caro Giorgio, hai sottolineato l’importanza del significato di ” evento” che sento di condividere.

Con l’Ereignis (Evento) si interrompe quel gioco linguistico per cui qualcosa come un significante sta, in quanto segno, per qualcos’altro, cioè per un altro significante, poiché non c’è nulla, al di fuori dell’Ereignis. È l’Ereignis che precede e fonda il significante e il significato, e quindi il linguaggio. Ora, conformemente a questa premessa, costruire una poesia dal punto di vista dell’Evento significa sottrarsi al vincolo di una poesia basata sul significante e sul significato e sottrarsi al punto di vista che questo necessariamente comporta.

Ringrazio Giuseppe Gallo, sposando la sua tesi, poiché lo scritto, per il potenziale che evoca, necessita della funzione fondamentale che lo anima, non ultimo l’interrogativo iniziale tratto dal Libro di Giobbe: “Ma la sapienza da dove si trae?”.

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L’epoca del Coronavirus, Covid19 il virus dell’età tecnologica, Poesie di Francesco Paolo Intini, L’Era di Prigogine, Edit Dzieduszycka, Mario M. Gabriele

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Karel Teige

[Anche il Covid19 è diventato qualcosa di affine al simulacro… aleggia, si diffonde ovunque per vie misteriose ed imperscrutabili, un microrganismo fatto di gelatina simile ad un ologramma, ad un simulacro. Il Covid19 è così entrato prepotentemente nella nostra esistenza quotidiana determinandone ogni singolo atto, sconvolgendo le nostre abitudini di vita, è entrato nella nostra forma-di-vita determinandone ogni singolo comportamento, inducendoci in paura, angoscia, spavento, orrore…]

 

Francesco Paolo Intini

L’Era di Prigogine

[Dei nella psiche]Spuntano fanciulle di Botticelli
E l’amore danza nei colombi.

Sembrava morto il mandorlo
e invece era Dio.

Una forza irrefrenabile
sporge il fico dal cemento.

Questi non hanno mali. Godono,
mentre sfrecciano parole di terrore.

Occhi bassi,
cacciate dalla bocca.

Scudiscio sulle spalle.
Catene che trattengono alle mente.

[Cardellini] Un orbitare intorno al sole
disobbedendo ad Einstein.

A calore che si ritira corrisponde il fermo ai lillà.
Scivola negli altoparlanti il rimbombo sull’asfalto

Conserverà un raptus il marzo nelle aiuole?

Cristalli perfetti sul ciglio della strada
L’ordine non è raggiunto per sottrazione di luce.

Riconosci l’elio dalle gocce di ossigeno
sul fiore di ciliegio.

Non c’è modo di fermare i cardellini
scricchiolii da uno, forse due gradi kelvin.

Nemmeno a frustarlo procedeva.
Il mercante cinese prese sulle spalle il sacco di fiori finti
La cimice per l’amante, l’orologio di Gengis Khan e si tolse dai piedi.

Imparò a molare lenti per sopravvivere.

[Lucrezio]Entrarono nell’ inconscio a dorso d’asino
alla palafitta di Tomas si mangiava carne di bisonte.

I ciliegi crescevano nel sistema cubico
Tra simmetrie potevano scambiare succo di limone.

A patto di non irritare la gola. Ritirarono le offese.
Persino il tasso di scoperte letterarie subì un tracollo.

Il trend portò le ortiche in vetta alla Borsa di Milano
Crescere a sfera l’ultima pubblicazione di Attila .

Lucrezio recitava la peste di Atene spruzzando deodorante
e a dispetto delle processioni ci mostrava che l’anima è mortale.

Se un virus non virtuale s’era preso il comando
voleva dire che poteva moltiplicare le angosce.

Fu portata l’Evidenza tra gli Dei
Ma Lei rifiutò questa responsabilità.

Nel tempo restante la roulette russa giocò a scacchi.
Qualcuno doveva pur vendere il libro.

Le strade vuote di fronte alle aiuole che scoppiano di vita non sono semplicemente materia per telefonini. Un sindaco che scende direttamente in pista per avvisare del pericolo i pochi che si avventurano per una semplice passeggiata o per starsene su un prato mano nella mano, va oltre quello che si trasmette. E’ una specie di congelamento a cui non abbiamo mai assistito, una prova generale del dissipare entropia. In questo momento che il virus si espande seguendo un modello di gas a cui nessuno spazio è vietato i governi rispondono creando ordine. A tutti in casa, corrisponde un’unica stanza vuota e senza confini, abitata da case, grattacieli e saracinesche abbassate.. Al minimo di attività sociale corrisponde l’impossibilità di raggiungere lo zero kelvin della storia. La vita continua nei cristalli che abbiamo costruito . Qui stiamo ricostruendo l’ordine familiare che era perduto in funzione dell’attività lavorativa e delle abitudini di decenni fuori casa. Possiamo pranzare e fare colazione con i nostri cari. Se ci abbandona per un attimo l’idea di far parte della stanza senza confine, parliamo d’amore, ci dedichiamo ai figli, curiamo le difficoltà, ordiniamo i cassetti della psiche, si ha tempo per discutere di Lucrezio o di Prigogine. Ricorderemo la scossa di questo marzo come di un tentativo della natura di riconsegnarci in mano al terrore, dove essa ristabilisce le distanze tra l’ onnipotenza e i limiti della ragione nell’affrontarla. Di noi rimarrà il tentativo di farla franca, riscrivendo l’inverso della storia e dunque restituendo energie che credevamo alimentassero un solo senso.

(F.P. Intini)

Edith Dzieduszycka


Nell’Epoca del Covid19

Vieni avanti vigliacco
fatti vedere se osi
subdolo nano ostile
che sulle cose posa la sua scia mortale
bestiaccia che ci salta
schifosa addosso
senza freno o riguardo come pulce affamata
per spolparci la carne
spostandoti veloce tra mari e continenti
Sei sbarcato nascosto
nelle pieghe morbose d’un pipistrello marcio
o coccolato nato da stranamore ignoto?
Vai a sapere
Ora hai preso piede
e mani
e confidenza
ti credi a casa tua
ci prende tutti in giro
– Qui commando io
a me
a me soltanto
lo Scettro e la Corona.

(e.dz. 14 marzo, 2020)

Mario M. Gabriele

Dimentichiamo le ipnosi,
i coriandoli di carnevale.

Nei borghi storici
ritroviamo le età perdute.

Il resort di upupe e civette
è diventato luogo di streaming e download.

Un calendario senza ricorrenze
col solo indirizzo di Save The Children.

Restiamo con l’astrolabio
senza più gli oroscopi aggiornati.

Torna la serie di Babylon Berlin
su Sky on demand.

El Pais riportava notizie da el mundo
con il testo di Despacito.

Il video messaggio
parlava di rinascita ambientale.

A Doris piaceva viaggiare,
fermandosi a Coney Island.

Devi dirglielo, Justin,
che le navi sono tutte attraccate ai porti.

Cielo e terra
seguono i notturni di Chopin.

Non leggiamo il bugiardino,
né facciamo coro nei rosari.

Torna nel silenzio della casa
Sing, Sing, Sing di Goodman.

Vestivamo alla zuava e il futuro era un filo spinato
che chiudeva i varchi alle volpi insanguinate.

L’erba alta del giardino preparava un’ estate
di mosche e calabroni. La nostra già era andata via.

 

caro Mario,

la poesia moderna, la migliore, la più evoluta è quella che non ha identità, che non ha un mittente né un destinatario. che non è scritta da Nessuno e non è diretta a Nessuno. E questa tua composizione ne è la dimostrazione matematica. Può essere stata scritta da Chiunque. Infatti, quel Chiunque coincide con Nessuno.

Vedo in giro i poeti laureati che si affannano a redigere le ricette del loro bugiardino personalizzandole al massimo. Non si rendono conto i lestofanti che le loro elegie sono delle dabbenaggini elevate al cubo. Baudelaire diceva: «Tutti i poeti elegiaci sono dei mascalzoni». Nulla di più vero.

Mario Gabriele

Carissimo, ho scritto questa poesia e poche altre, in pieno dominio di coronavirus. I dati matematici del dott. Borrelli, che ci tiene informati su degenze, guarigioni e morti, come in un bollettino di guerra, mi rattristano l’anima. Mi vergogno di essere poeta mentre la gente muore, e non trova neppure un loculo per essere sistemata. Ci stiamo rimettendo secoli di scienza, di filosofia e di letteratura, tanto mi dico, a che vale se il Covid 19 ti toglie anche il respiro? Non so come cambierà il mondo, dopo la fine di questa pandemia. Una cosa è certa: tutto non sarà come prima e a soffrirne saranno le nuove generazioni con la recessione e con una cultura da determinare. Mario.

Giorgio Linguaglossa

Un nemico intelligente, un Estraneo, si aggira per le nostre città, per le nostre metropolitane, per le strade, ovunque… si chiama Covid19, ovvero, Coronavirus, si tratta di un micro organismo intelligente, scaltro, subdolo che si mimetizza in alcuni umani non manifestando alcun sintomo della sua presenza, sono i cosiddetti asintomatici, è aggressivo, mutante, subdolo, è stato creato dal modo di produzione capitalistico, paradossalmente ciò è avvenuto in un paese che si auto definisce “comunista” ma che è governato con polso di ferro da una autocrazia. Il Covid19 può prosperare soltanto in una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi escrementi; una natura che si conosce, mediante l’accumulazione degli escrementi, dei profiterol dell’immondizia, delle merci invendute e obsolete, del trash, dello spam. La natura infatti è benigna, ci prende sul serio, crede che all’homo sapiens piacciano gli escrementi e ci ha propinato l’Ebola, la Sars, il Covid19, la natura fa sul serio, infatti, non agisce per paradosso ma per contiguità e coerenza della parte con il tutto, e delle parti con altre parti.

 

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Gino Rago, Poesia, In memoria di Joseph Roth, Un necrologio in distici a 81 anni dalla morte, 27 maggio 1939, Commenti di Edith Dzieduszycka. Giorgio Linguaglossa

Foto selfie Sophie-Marceau

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

Gino Rago

Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
una morte lieve

«Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
Una morte lieve».*
[…]
Un cavallo lipizzano alzò per un istante
La zampa destra in segno di commiato.

Il lampadario cadde sui legni della sala del valzer,
Shearazade pianse.

La contessa W. della milleduesima notte
Sgranò gli occhi dai riflessi di violette e miosotide.

E tutti i presenti se ne innamorarono.
[…]
La mattina del 23 di un mese di primavera
Nel 1939 cadde a terra di schianto.

Come Andreas
Nella leggenda del santo bevitore.

Era nel caffè Tournon.
Aveva scritto per anni e bevuto calvados

Fino a perdere il senno.
Non fu portato nella sagrestia

Della chiesa di Santa Teresa
Ma all’ ospedale Necker.

Lo legarono con cinghie al letto
Come l’ultimo dei mendicanti.

Dalla sua cartella clinica:
“Non-ha-ricevuto-nessuna-cura”
[…]
Il 27 dello stesso mese morì.
Il giorno 30 il funerale al cimitero Thiais.

Nei sobborghi di Parigi
Le pietre si fecero parole.

Un messo di Otto d’Asburgo
Pretendente al trono d’Austria

Elogiò in lui
«Il-fedele-combattente-della-Imperial-Regia- Monarchia».

Un comunista gli rispose con rabbia
Che il morto era stato «Joseph il rosso».

Un sacerdote cattolico benedisse la salma.
Tutti gli ebrei presenti furono offesi

Dal fatto che un ebreo
Che discendeva da generazioni di devoti ebrei

Fosse costretto in una religione non sua.
[…]
Forse il morto fu contento dello schiamazzo
Sulla sua tomba di periferia,

Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
Pagano e musulmano.

E bevitore, sebbene non santo.
Abitò da solo il regno-del-non-dove

Nella stanza del Bioscopio universale.
[…]
«La morte simbolista di Roth…
Come quella nel ‘28

Di Nina Ivanovna Petrovskaja
Della Bohéme russa in esilio a Parigi.

Aprì da sola il gas nello squallore
D’un albergo d’un quartiere popolare».
[…]
Joseph Roth, inabile anche alla morte,
Vita-non-vita d’un sopravvissuto

Alla fine di un mondo, di una lingua,
Di una storia.

Scrivendo divenne monarchico.
Sempre scrivendo divenne devoto.
[…]
Voleva credere e divenne credente.
Ma forse cercava soltanto sé stesso

Nei frammenti della Finis Austriae.
Alla fine il naufragio.

Viso tumefatto. Piedi gonfi.
Bottiglie vuote in fila di calvados e gin.

Tentò di scacciare da sé l’anticristo.
[…]
L’incenso di tutte le chiese.
Moriva di maggio l’uomo.

Nasceva il-soldato-della-penna
In-servizio-permanente-effettivo,

Da quel giorno Joseph Roth è di tutti.

Gino Rago
* [La leggenda del santo bevitore]

Edith Dzieduszycka

“[…]Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
Pagano e musulmano.

E bevitore, sebbene non santo.
Abitò da solo il regno-del-non-dove

Nella stanza del Bioscopio universale[…]”

A Gino Rago, nato nel 1950, vivendo tra Roma e la Calabria, in provincia di Trebisacce, per 30 anni docente di chimica, poeta ora legato all’Ombra delle Parole e alla Rivista Mangiaparole, siamo grati per molti motivi, di cui due essenziali.

Dopo aver diffuso a profusione durante gli ultimi mesi dell’anno 2019, e con grande generosità, una ricca girandola di recensioni, erudite e approfondite, – di cui abbiamo approfittato in abbondanza, noi poeti e lettori, grazie alla preziosa ospitalità di Antonio Spagnuolo sul suo blog Poetrydream -, Gino Rago, poeta egli stesso, amante e vestale della poesia, ci narra ora lo strano destino ambivalente di Joseph Roth, nato nel 1894 in Galizia, ora Ukraina, – vicino a Lwow, luogo d’origine della famiglia di mio marito -, con la voce obbiettiva e precisa del biografo.

Parallelamente ci offre anche la sua versione personale e ritmata di tale vita con una lunga poesia in cui reinterpreta a modo suo e riesuma col ritmo ondoso dei distici, da un oltretomba evanescente, quel poeta di classe, di origini asburgiche, conosciuto sopratutto grazie alla sua famosa “Leggenda del santo bevitore”.

Gino Rago presentò la sua poesia, qui pubblicata, a Trieste in occasione degli ottanta anni dalla morte di Joseph Roth.

“La mattina del 23 del mese di…
dell’anno 1939 cadde a terra di schianto

come Andreas
della leggenda del santo bevitore.

Era nel caffè Tournon,
dove aveva scritto per anni e bevuto calvados

fino a perdere il senno.”

Gino Rago in questo necrologio per Joseph Roth lavora sulla forma-poesia e propone i suoi versi in forma di distici. Su questo preciso aspetto cedo la parola a Giorgio Linguaglossa:

«[…] La scrittura poetica in distici non è una tecnica di scrittura.

Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce. Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico. L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura ripropongono figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla. Il distico istituisce visivamente il nulla. Si tratta di una percezione singolarissima.
Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima[…]»

Un giornalista, questo Joseph Roth, uno scrittore e grande viaggiatore, un essere complesso e paradossale, ubriacone dalla scrittura raffinata e cesellata, che ho scoperto tempo fa con grande godimento attraverso le pagine del suo “Lo specchio cieco”. Vi racconta la storia conclusa tragicamente – incidente, suicidio?- della ragazza Fini innamorata di un fantomatico Rabold .

“Nessuno seppe se avrebbe voluto andare in cielo ed era caduta in acqua. Si infranse sulle morbide scale di nuvole d’oro e di porpora.” Un inabissarsi sicuramente simbolico essendo il 1925 data di pubblicazione di quel piccolo gioiello ambientato a Vienna, o “piccolo romanzo” come da lui chiamato.

Tre giorni invece per cadere anche lui, Joseph Roth, tre giorni per morire, tre giorni per venir seppellito, lui ebreo, – scandalo – dopo la benedizione da parte di un prete cattolico. Ma Joseph era ben al di là di queste piccolezze. Chi sa in quale misura avranno influito sulla sua mente giovanile gli strani comportamenti di suo padre che verrà affidato ad un rabbino forse del tipo Rasputin?

Giorgio Linguaglossa

Proviamo a pensare la poesia come una «composizione musicale», come una «polifonia», come un «polittico», o come un «sistema polifonico», con voci di contralto, di tenore, di basso etc., con «voci» interne ed esterne, dell’io e di altri, con rumori di fondo, con interferenze, contaminazioni, concatenazioni di storie e di eventi; proviamo a pensare di rimodulare i «toni» a secondo della posizione delle «parole» all’interno di un sistema dinamico qual è il verso; proviamo a pensare questo sistema dinamico come «sistema in movimento»; proviamo a immaginare la composizione non come un sistema statico-unilineare. Se pensiamo alla cosa chiamata poesia in termini di polifonia entro un sistema spaziale, ed anche di organizzazione formale ma all’interno di un sistema spaziale… ecco che il tempo verrà da sé. In fin dei conti, lo spazio e il tempo (lo afferma Einstein) sono correlati. Proviamo a pensare al poeta come un compositore di musica in uno spazio vuoto, in uno spazio in espansione. Proviamo a pensare il poeta come un calzolaio che crea la tomaia e la suola, che le incolla e le batte col martello e ne fa una scarpa. Proviamo a pensare alla parola in termini di «massa sonora», e di inserire questa «massa» in un circuito orbitale che ruota attorno ad un astro anch’esso inpresso in un movimento di traslazione Insomma, io credo che abbiamo molto da imparare dalla critica musicale e da musicisti come Ligeti e Giacinto Scelsi.

Ecco, Gino Rago ha avuto il coraggio di adottare la «forma-polittico» come la più adatta a rappresentare l’essenza del nostro tempo, la scrittura in frammenti e il polinomio frastico sono gli antenati del «polittico». Non si può adire al «polittico» se non si lavora prima sul «frammento» e sulla «dis-connessione», sulla interruzione, sulla peritropè, sul salto. Occorre entrare in sintonia con il sistema dinamico del «polittico» per scrivere in «polittici». Finalmente, la poesia italiana si è emancipata dallo schema dualistico, statico e lineare di lirica e anti-lirica, si è liberata, d’un colpo, dell’elegia e della poesia monologo dell’io. Finalmente ci troviamo di fronte un nuovo modello di poesia polifonica. Gino Rago ha compreso le enormi potenzialità di questa nuova forma-poesia. La nuova ontologia estetica in fin dei conti è questo: la forma-poesia più ardua e problematica del nostro tempo, che unisce la simultaneità dei tempi e degli spazi in una unica dimensione.

Strilli Giorgio Sopravvivere a un attacco di radioonde e di scafandri

Bio-bibliografia essenziale di Joseph Roth
Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco del primo Novecento,
non è una figura letteraria molto conosciuta, oltre l’area linguistica tedesca, se non per il racconto autobiografico più noto, ovvero Die Legende vom heiligen Trinker, (La leggenda del santo bevitore) scritto nel 1939, diventato celebre anche grazie all’omonimo film (del 1988) di Ermanno Olmi.
Nasce nel 1894 da una famiglia ebraica in Galizia, nella città di Brody, che ora si trova in Polonia ma che a quell’epoca apparteneva al groviglio di stati che componeva l’impero Austro-Ungarico.
Nel 1913 arriva a Vienna, la grande capitale, per studiare germanistica all’università. In condizioni economiche davvero precarie inizia, grazie alla sua abilità stilistica, una collaborazione con il giornale Österreichs Illustrierte Zeitung dove vengono pubblicati i suoi primi articoli e le sue prime poesie. Scoppia la Grande guerra ma Joseph è un pacifista.
Si arruola solo nel 1916 e vive in una caserma di Vienna come addetto Ufficio stampa dell’esercito. Anche in questo periodo scrive. Le sue parole vengono pubblicate sul quotidiano Der Abend e sul settimanale Der Friede. Il direttore di quest’ultimo sarà colui che, terminato il conflitto, recluterà Roth come collaboratore per le pagine culturali del Der Neue Tag. Qui descrive nei suoi articoli la vita quotidiana della gente nella Vienna del dopoguerra come una sorta di cronaca cittadina, spesso trasposta in chiave metaforica.
Nel 1920 il giornale chiude e il giornalista si reca nella più vivace Berlino dove lavora per il Berliner Börsen-Courier prima e successivamente per alcuni anni come corrispondente culturale nel più conosciuto Frankfurter Zeitung dove inizierà una corrispondenza con Stefan Zweig che diventerà suo mecenate. Nella redazione di questa importante testata sviluppa numerosi reportages, che spesso lo portano a Parigi, in Albania, in Polonia e anche in Italia.
La vita sentimentale dello scrittore è molto travagliata. Sposa a Vienna Friederike (Friedl) Reichler che lo segue a Berlino. Ma la vita mondana e frenetica dello scrittore, oltre alla sua morbosa e insana gelosia, provocano nella moglie una forte crisi tale da destabilizzarla quasi completamente. Roth dopo i primi sensi di colpa conosce diverse donne con le quali intrattiene numerose relazioni.
Con l’ascesa al potere di Hitler nel 1933, data la sua origine ebraica, è costretto ad emigrare. Dapprima si trasferisce in Francia, poi nei Paesi Bassi e infine nuovamente in Francia.
Nonostante in Germania i suoi libri vengano bruciati, nei Paesi che lo ospitano, rispetto a molti altri scrittori emigrati, continua ad avere la possibilità di pubblicare opere.
Nel 1936 incontra la scrittrice Irmgard Keun con la quale vive a Parigi, ma nel 1938 si lasceranno. Tra il 1937 e il 1939 la situazione economica, oltre alla salute di Roth, peggiorano. Beve e viene trasferito all’ospizio dei poveri. Il 27 maggio 1939 muore a Parigi per polmonite.
Raffinato cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico (quell’Impero che fu in grado di riunire popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse) benché egli stesso fosse nato alla periferia dell’impero, nell’odierna Ucraina, lascia alla letteratura universale svariate opere (La cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky, La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore).

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Francesco Paolo Intini, Poesia, Reloading Faust, Commento di Giorgio Linguaglossa, Una ILVA di parole ibernate, un gigantesco emporio del Nulla che opera come un frullatore che frulla i frutti di bosco con pasticci privi di glutine, un universo di parole radi e getta, privi di aminoacidi, aproteiche e ipocaloriche, a prova di gomma e di bomba

Struttura dissipativa B

Marie Laure Colasson, Struttura Dissipativa B, Acrilico 50×70 su tavola, 2020

Francesco Paolo Intini

Davvero impressionante la poesia di Giorgio. Rappresenta il punto critico che segna il confine della coscienza. Riguarda l’esistere e dunque il nascere dell’io a sé stesso, ma c’è il terrore degli occhi appena chiusi che guardano indietro ciò che hanno appena abbandonato. È il volante che gira a vuoto perché non si afferra al tempo che così gli scorre sotto e accanto ma non dentro. Il dualismo K\Figura ha la potenza dialettica di Io\non-Io. E’ sì una metafora ma di una scena assai possibile, un atto unico che fissa il tempo sull’orizzonte. L’ entrata in scena di qualcuno che defibrilla l’istante del passaggio definitivo come se fosse soggetto a reversibilità microscopica e dunque vita e morte, pesassero ugualmente sulla bilancia di un equilibrio che tutto riassume: essere = nulla.

Reloading Faust

[Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
(Stanza N.88. G. Linguaglossa)]

Mantenere in ordine i crani, con coerenza
Senza che sbattano però.

Cocci di sale sul lungomare.
Astice che stacca le ali al Jet delle 10,30.

Un megafono versò olio di oliva nelle orecchie
E da lì trovò la via crucis per l’anno zero.

Alcuni concetti erano stati terribili
Si erano concentrati a sobillare la luna.

Faust parlò tristemente a Margherita.
Non si era accorto che Fidel era ancora sul palco.

E qualcosa doveva all’insistenza di Wahrol
Gli attacchi seriali alla primavera di Botticelli.

Rimettere i fiori di pesco in bustine
per i giocatori. Campagna acquisti 1959.

Ancora non era chiaro che certe libertà
Finiscono crocifisse sulla via Appia.

Come se la luna spostasse l’ Himalaya nell’Atlantico
e impedisse ai Barbudos di raggiungere l’ Avana.

Concentrare cellule vive sul Che.
Deviare la finanza dal trend di staminali.

Giove nacque che già pallottole imperversavano
Kronos doveva difendersi dalla concorrenza cinese.

Cose che sarebbero accadute nell’anno mille
presero a correre nel 2020.

Chi capisce la termodinamica!

Una notte che si fermò il cuore e più non osava Fb
intervenne Giocasta, con la bobina degli anni in mano.

Non c’è nulla da tagliare, scuotiti dal torpore del vichingo
Mezzanotte è un’invenzione della vicina di casa.

Torna a considerare la pillola dell’efficienza
Conta le bolle nel Graal.

La lavastoviglie reclamò il privilegio dello ius primae noctis
e prese a sistemarsi le forchette nel letto d’acciaio.

In fieri si procede a porte sprangate
Interessi zeri e copertura assicurativa.

Verranno a prenderti le bollette Enel
le rate del mutuo per l’ auto bianca.

La poetica inceppata si mette a seguire
un’ape regina. Rossa, agitata e feroce.

Plath in persona.

Dovevi nascere proprio poeta
o filosofo o chimico o idraulico?

Meglio poltrona telecomandata
in odore di dada e vecchiaia che regredisce.

Che malattia causa la senilità?
L’immortale rifiorisce sul sentiero del ritorno.

Elena recita una poesia di Paride.
Si innamorò della tarantola che ora abita il petto.

“Prima o poi scalderà il cuore”
Credi che non sia lirica abbastanza?

Né quasi né mai né sempre né ora né adesso
Il ritorno di crusca nel grano fu previsto.

Qui si genera segale cornuta
Chi l’ha detto al Dott. Hoffman di fermarsi

Non lo sa che mostrare i documenti
è già dipendenza da LSD.

Il suo curriculum sarà esaminato da Graffiacane
Per il momento potrà volare sulla sua bicicletta

Poi le amputeranno gli arti, le confischeranno i versi.
Un uncino farà il resto nella sua vasca da bagno.

Potrà solo mettere note esplicative alle allucinazioni.
Curare le ferite dell’ incomprensione con punti esclamativi.

Pillola blu o rossa davanti al frigo.
Di sotto una folla di bottiglie gestisce un bar.

Si torna ai cristalli liquidi.
Attendono boschi e problemi di innesto.

Come ghiacciare allo zero kelvin un’ idea
facendo a meno delle ricette sull’ elio.

Un ricostituente si riconosce
dai fichi che si seccano a maggio.


L’omino della discarica lascia impronte di santo.
Il fondo del catrame si agita con un cucchiaio da the.

Capire come ci si comporta davanti a un becco Bunsen
È lo steso che infiammare Campo de’ Fiori.

Perché la distrazione è una tattica
E il mare confonde le idee.

Partorisce schiuma da barba
e buste di cellophan.

Lanci di appestati sulle strade di Bari.
Sargassi di coriandoli nel canale d’Otranto.

Il melo muta le squame del tronco.
Anche il papavero ha i suoi tarli nel rosso.

La punizione per aver spostato l’interesse sul Mare Nostrum
consistette in un discorso di mezzobusto.

Impararlo a memoria e gridarlo in un Park and Ride
mentre a fianco ordinavano ad un olivo di torcersi la bocca.

Sono le idee base che fiaccano i germogli
la misura di una sfera inizia dal centro.

E poi l’ aritmetica compie il suo delitto.
Chi l’ha detto che è promiscua alla rivolta?

Potarli e addestrarli a barboncino
dargli il tempo di alzare una radice.

Non è semplice orinare linfa
e cercare una figura di uomo.

Il secolo ripercorre i suoi passi
Le infezioni spariscono, l’entropia fallisce lo scopo.

La malattia dei cartelloni pubblicitari
Guarisce spontaneamente.

Nessun bidone, però qualcuno
tira fuori la generazione spontanea

e il vaccino non balena a Pasteur.
Muore di rabbia un virus.

A metà strada ci fermammo
Né pieni né vuoti.

In vetta alle classifiche c’è una gazzella che uccide
Un bisonte intanto mira Buffalo Bill.

Cerca il cannone l’obice su Berlino
In risalita anche le bombe di San Giovanni.

Qui si è tutti metafore ma in prospettiva
ci sono leggi da ferrare.

Forse una piantagione di pomodoro
su cui passeggia un drago di Komòdo.

Vietato procedere per esempi vivi
meglio quelli della mente.

Pezzi da Experimental traboccano in cronaca
e dunque nelle lettere al direttore.

Far fesso Faust, che idea! Partire dall’una di notte
e sbucare con il trucco del cuore fermo.

Convenevoli e infezioni tra diavoli.
Tradimenti nel salone del barbiere.

Mostrargli la chiave di volta, il saggio
di onnipotenza a portata di esperimento.

Stormiscono di tanto in tanto
mani su pruni in sangue.

(inedito)

Giorgio Linguaglossa
21 febbraio 2020 alle 16:07 

Cose che sarebbero accadute nell’anno mille
presero a correre nel 2020.

La lavastoviglie reclamò il privilegio dello ius primae noctis

Convenevoli e infezioni tra diavoli.

… presi per sé, isolatamente, i versi di Francesco Paolo Intini sono letali come Corona Virus o Cofid19. Come serpenti cobra. Trattano di cose molto prossime alla nostra questione vitale. Quale sia poi la nostra questione vitale, non sappiamo più. Quelle cose per le quali però siamo ciechi. È come se vedessimo la visibilità delle cose e non le cose nella visibilità. È che le cose sembrano essersi invertite, capovolte. E sono diventate anti-cose, sono diventate invisibili. Ed ecco la rivoluzione del linguaggio poetico, rivoluzione che poggia sulla leva della metafora. Questi versi ci parlano della nostra epoca meglio di centinaia di libri di teologia e di Summum bene e di Ens realissimus e di paccottiglia letteraria. La nostra è l’epoca della lessicologia sguaiata: Trump, Putin Bolsonaro, Erdogan, e dei cialtroni nostrani, della fine della metafisica, se c’è mai stata. Scrivere alla maniera di Intini ci toglie il medico di torno e anche le mezze scritture, quelle accademiche e agiografiche che ci parlano delle cose stabili in modo convenzionale: qui il soggetto che scrive e lì l’oggetto che parla. Intini invece ci parla in modo normale di cose apparentemente sconclusionate, di «schiuma da barba», «cellophan», di «lavastoviglie» che reclamano lo «jus primae noctis», di «infezioni tra diavoli», di «Buffalo Bill», di «pillola blu», di «Wahrol», di «Botticelli» e «Margherita» di «cose… nell’anno mille» etc. Mette la centrifuga nel lessico per scuotere il linguaggio e ficca tutte le parole trovate nel termovalorizzatore che devalorizza tutto ciò che vi viene fagocitato. Una ILVA di parole ibernate, un gigantesco emporio del Nulla che opera come un frullatore che frulla i frutti di bosco con pasticci privi di glutine, un universo di parole radi e getta, privi di aminoacidi, aproteiche e ipocaloriche, a prova di gomma e di bomba. E chi vuol essere lieto, lo sia.

Davvero, penso che “Cofid 19” o “Poesia dell’Epoca Cofid 19”, sia un ottimo titolo per la nostra prossima Antologia della nuova ontologia estetica. Che ne dite?

La parte di Lucrezio e quella di Touring

La parte sporca tocca ai neuroni
che hanno visto il Muro e ci stavano bene dietro.

Quando li svuotarono di significato
[appesero le divise in armadietti

E si misero a correre in quadri blu di Picasso].

Ci doveva essere un inizio se ripeteva le sinapsi
Un altro Terzo Reich si replicava a dismisura.

Le gambe al mento, gli occhi luna.

Non c’era tempo per la chimica.
Il verso generava spettri di risonanza magnetica.

Cresceva il malcontento. Un tunnel attraversava le fogne
per sbucare nel lavandino di Scrooge Mc Duck.

All’autogrill una delle Fontane tornò al suo posto
Non più! Non più, come un corvo senza firma sul culo.

Bosch cambiò un quadro di Vermeer
in un ostrica al ragù.

Tutto si poteva immaginare tranne che trovare Cecilia
In una stazione dell’ Appennino campano.

Ebbero una sincope anche i gratta e vinci.
Voglia di difendersi dalle maniglie.

Alcune autobotti riempirono tazzine di caffè.
Senza zucchero, né aspartame, nafta dalle narici.

Lucrezio declamò l’ultimo libro dalla finestra di un XX piano
A Bari non sapevano come difendersi dagli ologrammi.

Si lasciò cadere la circostanza di un water in eruzione.
Nel frattempo alcune blatte si erano impadronite del circo massimo.

Viaggiarono senza fermarsi, travestiti da souvenir nei freni,
tra le scintille delle rotaie con la fragilità delle ampolle di neve.

Non più gladiatori e nemmeno Piazza Fontana.
Tutti cancellati i voli verso gli anni sessanta-settanta-ottanta.

La fuga è prevista nel tunnel di mezzanotte.
Niente panico. Invertire le lancette dopo il fischio d’inizio.

Le poche gazze si ammucchiavano coperte di escrementi.
Ossa di contadini e pastori nel raccolto di giugno.

Il mondo che ci lasciammo non ammetteva blitz, né storia
Soltanto Jet di microplastica in lotta con l’ anidride carbonica.

Ora i proletari erano tutti agenti di commercio
Odorava di miele la catena di montaggio.

Salutare anche l’alito dei fucili alle porte di Milano.
Manager dell’uranio povero lottavano con bancari.

Polvere pirica si annunciava nel respiro delle viole.
Nessuna Chernobyl fu chiusa per l’occasione.

Alcuni roghi restituirono i libri di Marx-Engels
altri la mordacchia di Giordano Bruno.

Per calmare la sete si mescolavano iceberg a titoli dei TG.
Nel pelo di un ratto l’Eugualemmecidue di Einstein.

Il mazzo veniva mescolato da tre secoli
Nessuna delle dita trovò il coraggio di distribuire le carte.

Enigma resisteva alle metafore.
Una mela amara la soluzione.

Si partì da omega, barra diritta verso Venere
Stella alfa nel berretto del tramonto.

Il mignolo di Wharol ripulì l’ orecchio sinistro.

(Inedito)

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Lettera di Tallia a Germanico e risposta, Poesie, riflessioni, citazioni di Giorgio Agamben, Gigi Roggero, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini

Foto Statua volto romano

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Giuseppe Talìa

Tallia a Germanico

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Apollo figlio di Apelle, fece una palla di pelle di pollo…
Ricorda sempre – dice la Pizia – le viscere dell’aruspicina.

Dunque io filosofo e tu poeta. E chi l’avrebbe mai detto!
-Su ciò che non si può parlare si deve tacere. Ora mi spiego
Il mio lungo silenzio.

E se dunque non so, come realmente non so, perché l’Oracolo
Dice che io sono il filosofo e tu il poeta? I grandi problemi.

Ecco. La neve. La neve, tra gli altri, è un grande problema.
La neve non cade più, né più si scioglie al sole. Sparita.

Sparita come sparite le correlazioni: neve come cotone;
Il silenzio della neve; bianca come la neve; il fiocco vagabondo.

Parole in estinzione. Parole già estinte. Parole svanite.
Che fortuna, caro Germanico, la tua, di essere poeta.

(Tallia)

*

Leggo solo ora la stanza n. 13. Mi viene in mente
il percorso che ogni mattina abitualmente faccio
per andare a lavoro.

Attraverso la passerella Fortini sul Mungnone.
Incontro qualche Chichibbio e in primavera qualche gru.
Arrivo a Piazza della Libertà. Passo sotto l’arco
di Porta San Gallo, saluto Rolandino da Canossa.
Lungo via Palestrina l’organo del traffico suona il Magnificat.
A pochi passi da Piazza San Marco, l’ascensore mi porta
al terzo piano. Entro nell’enigma.

Giorgio Linguaglossa

Germanico a Tallia

caro Tallia,

ti devo confessare che mi è accaduto un fatto strano.

In questi ultimi tempi si è accentuato il mio mutismo. Dinanzi a libri (anche ben scritti) di poesia e di narrativa che mi giungono, e che scorro svogliatamente con gli occhi, mi sono accorto che non so che cosa dire, mi sono accorto con sorpresa che non saprei nemmeno dire qualcosa di sensato su di essi.

Come spiegare questo fenomeno? In me è cresciuto il mutismo. Peggio. Non ho più le categorie euristiche con le quali si è soliti leggere quei libri. Le ho perdute. Ho perduto le parole. Non ho più fiducia in QUELLE parole.
Allora ho capito: il mio mutismo segnala il bisogno di un nuovo linguaggio poetico, di un nuovo linguaggio critico e di un nuovo linguaggio civico: segnala l’insorgenza di un potere destituente. Ormai ne devo prendere atto: non sono più capace di utilizzare quel linguaggio pseudo critico fatto di omissioni, adulazioni e di ipocrisie.

Il mutismo della rivolta delle sardine italiane, la loro assenza di richieste, che cosa ci vuole dire?
A mio avviso segnala il destarsi dell’esigenza di un nuovo linguaggio politico e di un nuovo senso civico che, con le categorie agambeniane tradurrei così: il bisogno di una «nuova forma di vita». Le sardine non chiedono al Cesare di terracotta una piattaforma di riforme, ma ben di più, chiedono un rivolgimento del potere costituito e dei rapporti tra il potere e gli elettori, i cittadini non elettori e gli elettori tutti. Se fare richieste al potere di governo è già un modo di riconoscerlo, il mutismo sembrerebbe dirgli: non ho nulla da chiederti perché non ti riconosco, e non te lo dico neanche, perché altrimenti entrerei in relazione con te, ti riconoscerei una qualche forma di legittimità o di rappresentatività.

Allo stesso modo, nel rogo delle automobili, nella devastazione delle strade di Parigi, i gilet gialli non vedono, come pure alcuni famosi filosofi francesi hanno scritto, semplicemente il segno dell’ impotenza e l’opera di un nichilismo puramente distruttivo, ma l’ esercizio di un potere «destituente» che rifiuta le logiche e i mezzi dell’ integrazione delle periferie perché permeati di un razzismo, per così dire, «democratico».

Quella rivolta, dunque, non solo illumina con i lampi dei suoi incendi la crisi dei modelli tradizionali di azione politica ma sarebbe anche l’avvento di un nuovo tipo di esperienza politica.

Dunque, caro Tallia, io, Germanico, qui dall’Urbe, da una domus fuori le mura, mi rivolgo a tutti i cesaricidi nostri compagni d’armi: non deponete le spade, conservatele per un giorno migliore. Che giungerà.
Prima o poi.

(Germanico)

Scrive Gigi Roggero recensendo Non esiste la rivoluzione infelice di Marcello Tarì, DeriveApprodi, 2017, pp. 238:

«Bisogna sempre diffidare di un libro di cui tutti parlano bene. Se uno dice cose che sono gradite a tutti, è perché non ha niente da dire. Bisogna soprattutto diffidare del suo autore, in particolare se dice di essere un intellettuale militante (e già che ci siete, fate che diffidare a priori della categoria di intellettuale militante). Il pensiero rivoluzionario è infatti sempre divisivo: non si parla e si scrive per piacere a tutti, si parla e si scrive per separare gli amici dai nemici, per rischiare un passaggio o un salto in avanti, per spaccare le dannose compatibilità, anche quelle interne alla propria parte. La lingua dell’uomo è una tromba di sedizione, avvertiva Hobbes. La lingua del militante annuncia la guerra, non la pace.»1

1 https://www.commonware.org/index.php/gallery/788-rivoltarsi-alla-storia

Giorgio Agamben: L’uso dei corpi, Neri Pozza, pagg. 208, euro 18
Risvolto.
Con questo libro Giorgio Agamben conclude il progetto Homo sacer che, iniziato nel 1995, ha segnato una nuova direzione nel pensiero contemporaneo. Dopo le indagini archeologiche degli otto volumi precedenti, qui si elaborano e si definiscono le idee e i concetti che hanno guidato la ricerca in un territorio inesplorato, le cui frontiere coincidono con un nuovo uso dei corpi, della tecnica, del paesaggio. Al concetto di azione, che siamo abituati da secoli a collocare al centro della politica, si sostituisce così quello di uso, che rimanda non a un soggetto, ma una forma-di-vita; ai concetti di lavoro e di produzione, si sostituisce quello di inoperosità che non significa inerzia, ma un’attività che disattiva e apre a un nuovo uso le opere dell’economia, del diritto, dell’arte e della religione; al concetto di un potere costituente, attraverso il quale, a partire dalla rivoluzione francese, siamo abituati a pensare i grandi cambiamenti politici, si sostituisce quello di una potenza destituente, che non si lascia mai riassorbire in un potere costituito. E, ogni volta, la definizione dei concetti si intreccia puntualmente all’analisi della forma di vita di alcuni personaggi chiave del pensiero contemporaneo.
Pasolini al Rosati Roma

Moravia e Pasolini seduti al caffè Rosati, Roma, anni sessanta, sembra davvero un altro mondo, gli intellettuali andavano ancora al caffè e discutevano di cose… oggi ci resta l’etere etilico dai lampioni…

Francesco Paolo Intini

Etere etilico dai lampioni 

Paesaggi calmi, la ricerca di un filo spinato.
La luce non si fece attendere e dunque

Alla logica sostituì un balzo sulle spalle.
Perché dovevano allinearsi ai pianeti.

Dopo tutto vendevano merletti per Orione
E i mercati del quartiere erano aperti.

Il ponte spira endecasillabi
Il cobra nel ristorante cinese

e dunque si può operare
il fegato in gangrena.

Il colombo si tiene stretto
al forziere di sterco.

La noia sporge lupi dalla bocca.
Si comincia da Communio (Lux aeterna)

Enzimi guastatori, scampati a Norimberga.
Un melograno secco. Tutankamon tra i rami.

Talpe ammucchiano stelle
lava nelle pupille di corvo.

Gli ossessi con un dente, i malati di spirito
Furono accettati per quanto di geco avessero nelle code.

Gli altri vendevano madri a Caronte
per un appoggio di ventosa sul remo.

Li vedemmo affrontare il colpo di pistola
perché una telecamera sostituisse gli occhi.

Le scene di un colpo alla nuca e Resurrectio
ceduta a un cent.

Pure il sangue di Pasolini si vendeva in barattoli di salsa.
Un grammo della polvere di Ostia andò all’asta.

Si diffuse la notizia di un trend in salita
Per i seminatori di scandalo.

Il tasso di resurrezione salì alle stelle.
L’aids, la mafia, la shoah annichiliti in un lampo della IX sinfonia.

Avrebbero inglobato la mandibola ad uno stalattite
e sacrificato un mammut per la funzione.

Ma non fu facile riscrivere
la distruzione di Hiroshima.

Troppe teste l’una sull’altra e l’ombra
richiedeva il ritorno in Enola

Queste cose la luce non le ha mai fatte
L’esploso di farina si mescola al pensiero

Poter girare scene fino all’Introito
tenersi buono il Dio con Dies irae

Miserere per un giorno.
Nascondergli la tecnologia dell’onnipotenza.

Il miracolo di mettere l’assenza di versi in rima.

Com’è la musicalità delle parole
che comandano coperte e stufe inesistenti?

Le bottiglie voltavano il lato offeso all’ asfalto
Il pavimento si espresse in poetichese

Il suono perfetto della ruggine.
Nervi appesi ai crateri di Bari.

Ci sarebbe stato un getto di noia da un’edicola.
Un altro da un tombino fresco di stampa.


La vita non era tranquilla da benzinaio
Un tale mi puntò la pistola alla gola.

Poi imparai a vendere giornali e a riscaldami
Con banconote sull’esofago.

Capo Giuseppe, svicolò tra i muri
Nacque una colluttazione tra chiese borboniche

Portò le ragioni dei nativi in un tombino aperto
Dentro si scorgevano serpenti di rame e navi verde

La visione del telegrafo fu fatale
Ma non come quella post mortem.

Risalire foibe, prendere tempo, commisurare le forze
All’oro. Non ci sono nemici sul confine.

Cavalli e marce e winchester nessun’ altra memoria
anidride carbonica finalmente e acqua, sterile forse isterica.

(inedito)

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In una zona periferica di Roma Capitale, tra l’EUR e il mare, sta la Zelia Nuttal Gallery, Foto di Gianni Godi, Poesie inedite di Mario M. Gabriele

La vasta area è facilmente visibile dal cielo tramite l’app Google Earth

(https://www.gogle.it/earth/download/gep/agree.html ).

È un luogo adatto alla meditazione.

Per qualche tempo e fino a poco fa l’area sottostante il grandioso quadrivio era abitata da Popoli nomadi che contrariamente a quanto si possa pensare, usavano come giaciglio di riposo i comuni materassi forse rottamati dal popolo degli stanziali. I giacigli abbandonati sono ben visibili tra le ampie arcate del viadotto.

La contemporaneità appare in tutta la sua grandezza.

L’insegna Mc Donald in fondo al viottolone certifica, non più l’avvento, bensì il completamento del nulla poetico.

Mi sono recato in Galleria Zelia Nuttal qualche settimana fa. Ho camminato quasi robotica mente in mezzo ai rifiuti urbani fra decine di murales, per un’ora, forse più. Confermo di aver provato l’effetto di inquietudine e respingimento forse simile a quello che prova Paola Renzetti! Ho pensato anche all’esistenza di luoghi ben peggiori di quanto stava davanti ai miei occhi. Il video che poi ho prodotto e che non mi sembra un granché eccezionale, tenta di figurarci la gran massa di collegamenti e stimoli a cui senza interruzioni è sottoposto il nostro cervello costretto a robotizzarsi contro natura umana. I computer in uso, pur essendo iper veloci, eseguono freddamente un’istruzione alla volta. Le istruzioni provengono singolarmente dai più disparati “luoghi”. Il “coordinatore” decide la precedenza senza peraltro “sapere” il significato dell’insieme prodotto.

Mi è sembrato di intravedere nella poesia di Mario Gabriele una simile disumana descrizione. Anche io, come Mario Gabriele, con il quale mi complimento a tutto cuore per l’audacia dei suoi scritti, integro il “cibo normale” con compresse di estratto da Biancospino e Olivo.

Un vero robot non riesce a piangere. Ecco. Almeno per ora.

Grazie a voi tutti per la disamina competente e accurata del prodotto pubblicato dall’Ombra delle Parole.

(Gianni Godi)

*

Ringrazio per questo nuovo excursus sulla mia poesia e di quanto scrive e riporta in immagini Gianni Godi dalla ”zona periferica di Roma Capitale”. Non sempre la Street Art produce effetti di meraviglia, e quando lo fa si rimane incantati per l’eccezionale riproduzione di immagini e cose.

Le facciate delle case  acquistano un’altra estetica. “La contemporaneità”, scrive Gianni Godi, “appare in tutta la sua grandezza”. Nessuno se ne sta accorgendo ma il concetto di Arte sta veramente cambiando forma fuori dalle Pinacoteche.

 Quello dell’Arte è un linguaggio potente e storico, così come avviene in poesia. Si slarga negli occhi con tutta la gigantografia scenica, cogliendoci di sorpresa attraverso la trasposizione di soggetti e cose. E’ il nuovo clima culturale a cui andiamo incontro e che determina una testimonianza dell’Arte nel rapporto diretto con la nostra sensibilità. Un esempio lo ha portato proprio Gianni Godi in un suo  video con i suoi spettacolari Speech Reader  mentre leggono un mio testo poetico.

(Mario M. Gabriele)

Due poesie di Mario M. Gabriele

1

Una casa di soli ologrammi.
Rimettiamo a posto le lettere da Londra.

Milly ha le allucinazioni.
Le dico che non sono né Piero, né Francesca.

Torno a cercare Elizabeth
per una serata tranquilla a bordo di kayak.

Un palazzo esotico lo vorrei con la scritta Hollywood.
C’era un grappolo di sogni nel torchio di novembre.

Maggy ha provato tutti i colori,
tranne il giallo di Klimt.

La Misericordia ha smarrito la strada.
Anaruddha ogni anno si strucca nel Gange.

Mare calmo, mare agitato.
Cerchiamo l’equivalente della tristezza.

Figura senza luce e ripiano.
Così è rimasta nonna Eliodora.

All’alba vennero turisti,
coriandoli di ragazze e black power.

Gli stagisti si fermarono alle citazioni.
Un oratore aprì il Convegno.

– Lasciate i documenti negli scaffali – disse.
– Domani, li bruceremo in un unico Fahrenheit. –

Il cellario fu preso dai gesti assolutori
dei Santi sui Cartelloni.

Gridò: – hanno sequestrato la casa.
La casa era tutto quello che avevamo! –

Caro Mister John, da questo luogo di paese-città
alla tua Portsmouth ce ne sono di storie secolari.

Passeremo le vacanze a Disneyland
o in qualche altro pezzo di questa terra.

Ti piace fare la gita?
oh yes, it’s my dream!

E nessuno ebbe più a formulare sentenze
e avvisi di warning.

2

La tua storia è passata come la Pop Art.
Mutazioni colorate esprimono il tuo volto.

Le collezioni autunnali nelle passerelle di Milano
mi riportano alla Ragazza Carla.

Ritrovo la retrospettiva del 65
e un asset-based economy.

Oggi, a fare da transfert è il Sedatol,
come sonno pseudobiologico.

I nostri nomi li ha ridotti il tempo
per economia di lessemi.

Il granturco si è messo da parte
e le Melinde tardano a riempire il mercatino.

Un penny e un nichelino
sono il tributo che vuole questa vita.

Mi rischiara l’autunno il pensiero fossile
come foglia di frassino ai bordi delle ciminiere.

Una generazione dietro l’altra
trova posto nel giardino di Spoon River.

Un certo modo di sentire le parole
passa per Evergreen e le Guerre Stellari.

Abitudine di July è rifare il viso di Marilyn
come nella serie colorata di Warhol.

Mi distruggo se penso a te sul far della sera.
Ci vuole solo un distico per scrivere un epitaffio.

Foto di Gianni Godi

Galleria Zelia Nuttal 6

Galleria Zelia Nuttal 5

Galleria Zelia Nuttal 2

Galleria Zelia Nuttal 4

Galleria Zelia Nuttal 3

Galleria Zelia Nuttal 1

Galleria Zelia Nuttal 7

Galleria Zelia Nuttal 8

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AUTORITRATTO  di Ágota Kristóf, Tre poesie, a cura di Gino Rago, una delle più grandi interpreti dello straniamento europeo del Novecento

città sottopassaggio

 

Sotto la spinta di questa chiosa

“[…] la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico, una «patria linguistica delle parole» nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico, ovvero, di una «patria linguistica»”

che estraggo da uno dei commenti di Giorgio Linguaglossa tento di dare una mia risposta proponendo un estratto di un mio recentissimo lavoro, in forma di Autoritratto, sulla vicenda umana, letteraria, poetico-linguistica di Ágota Kristóf.

AUTORITRATTO (con tre testi poetici) di una delle più grandi interpreti dello straniamento europeo del ’900 e del disperato viaggio verso una autentica patria linguistica, straniamento e viaggio dati per frammenti tra ironia e malinconia con versi e personaggi di identità kafkianamente sfuggenti e schiacciati dalla cupezza dei loro destini:

(Gino Rago)

Agota Kristof_C-Ágota Kristóf

 (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011)

Autoritratto

 “Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare. Se non avessero ritrovato questi testi non avrei consegnato niente agli editori per altri dieci anni. D’altra parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza. Ho scritto soltanto quattro romanzi e nove testi teatrali e, adesso, ho rivisto i due inediti che stanno di nuovo facendo parlare di me in tutta Europa: una raccolta di scritti autobiografici, L’Analfabeta, e una di racconti, La vendetta. Eppure sono considerata una delle maggiori scrittrici viventi in lingua francese, tradotta in trentatré lingue. Può essere che abbia altre cose da raccontare. È la voglia che mi manca. Continuo a scrivere ogni tanto per me stessa, ma, senza che sia successo niente di speciale, ho perso l’entusiasmo necessario. E poi, forse, lo trovo anche un poco inutile. Sono uscita l’altro ieri dall’ospedale, sono tornata nel mio appartamento. Sto in una vecchia casa nella parte vecchia di Neuchâtel, in una strada dove non si sta mai tranquilli. Ci sono prostitute, drogati, ubriachi. Ma ci sto bene, c’è il supermercato vicinissimo.
Mi sento vecchia, malata, mi hanno lasciato cicatrici dappertutto. Mi hanno operato alle gambe, per facilitare un poco la mobilità, e alla pancia.

L’atto della scrittura mi porta via come un sogno. Ho l’abitudine di scrivere senza precisare il luogo in cui si svolgono le azioni. Ho l’abitudine di scrivere le cose in generale. Le cose accadono in generale, un po’ dappertutto. E non immagino nemmeno i personaggi in un tempo preciso. Può essere accaduto oggi. E anche ieri. Del prossimo romanzo forse esistono duecento pagine scritte a mano su alcuni quaderni. Quaderni che non tocco quasi più. Se dovessi tornarci lo farei con il procedimento abituale per arrivare all’opera definitiva, cioè rivedere tutto con un dizionario alla mano, riordinare i passaggi secondo coerenza narrativa, sopprimere gli scarti e finalmente battere a macchina, forse rimarrà ben poca cosa. Ma in una recente intervista ho speso tuttavia un titolo possibile, Aglaé dans les champs, la storia di una bambina che s’innamora di un adulto. Come feci io con lo zio Guéza, un amico di mio padre, pastore del villaggio. Avevo sei anni. Fu il mio primo amore. Ero certa che ci saremmo sposati, quando fossi cresciuta. Ma chissà se questa storia la scriverò davvero. Un saggio molto dettagliato sulla mia opera è D’un exil, l’autre, un saggio nel quale l’autrice parla molto di menzogna, di mio auto esilio anche attraverso la scrittura.

Autoesilio, d’ un exil, l’autre … Non amo certe cose che scrivono su di me. Non sempre c’è qualcosa da spiegare e comunque non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui.

Ho ceduto da tempo la gran parte dei miei manoscritti all’Archivio Nazionale di Berna. Quelli dell’Analfabeta sono testi di vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti. L’archivista della biblioteca è una signora adorabile che tiene tutto in perfetto ordine e classifica i miei scritti, che siano o non siano terminati. Se li avessi tenuti io non li avrei mai ritrovati. Ho così tanta carta in casa e c’è un tale disordine …
Si trattava di testi sia autobiografici sia letterari, racconti. C’est égal, venticinque brevi racconti, alcuni di nemmeno due paginette. Si tratta di esercizi di stile, saggi di realismo e di surrealismo, diversi tra loro per stile e lunghezza.

Ci sono molti testi che avevo già scritto in una prima versione ungherese. E poi quando ho iniziato a scrivere in francese li ho tradotti. Alcuni erano poesie in origine. Allora non ero capace di farli diventare poesie francesi e allora li ho trasformati in racconti: Non mangio più, La scure, Casa mia, ad esempio”. È vero: in alcuni di questi racconti sembra ci sia persino un metro, se li si legge in francese. Alla fine sono rimasti poesie, quelle che scrivevo in fabbrica, appena arrivata a Neuchâtel. Perché la fabbrica, per scrivere poesie, va benissimo. Si può pensare ad altro, e le macchine hanno ritmi regolari che scandiscono i versi.
I 25 racconti risalgono alla prima metà degli anni Sessanta, quando, grazie a una borsa di studio, frequentavo i corsi estivi per stranieri all’Università di Neuchâtel, dove mi ero stabilita con la famiglia dal 1957. Al professore di allora, che mi chiedeva perché mi fossi iscritta ai corsi per principianti, dato che parlavo già bene il francese, ho risposto: «Perché non so né leggere né scrivere. Sono analfabeta». Il mio rapporto con la lingua? È stato sempre una sfida, la sfida di un’analfabeta, come mi definisco. La lingua è un’ossessione, più dei sensi che dei sentimenti, affrontata usando come arma i dizionari. Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo. All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parola che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?

A nove anni la protagonista comprende che esistono diverse lingue. Si imbatte nel tedesco, parlato da una parte della popolazione che vive nella città di frontiera in cui la sua famiglia si è trasferita. Per noi ungheresi si trattava di una lingua nemica, poiché faceva venire in mente la dominazione austriaca, ed era anche la lingua dei soldati stranieri che in quel periodo occupavano il nostro paese. E lo stesso si dica del russo, il cui insegnamento viene imposto a scuola, ma recepito senza troppo entusiasmo sia da insegnanti che da allievi. L’imposizione crea rifiuto, attiva “un sabotaggio intellettuale nazionale, una resistenza passiva naturale, non concordata, che si mette in moto da sé. Lingua nemica è anche il francese, parlato nella città svizzera del rifugio da adulta. Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna. La differenza con la Ugrešic risiede nel fatto che il rapporto con la lingua straniera può divenire fonte di riscoperta e di rinascita. La protagonista nel capitolo conclusivo si definisce “analfabeta”, ma ha anche la volontà di impossessarsi della nuova lingua e così, in un certo senso, si può assistere ad un lieto fine. Qualche giorno fa, sono ritornata a Zurigo. Vi recitano una mia pièce teatrale. Continuo a non conoscere la città, né la lingua tedesca, ma non ho più paura di perdermi. Ho dei soldi, posso prendere un taxi, e conosco il nome del teatro. Quell’ungherese smarrita e senza soldi che ero, è diventata una scrittrice.

Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua.”

Agota Kristof cover

Poesie di Ágota Kristóf

Chiodi

Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve
con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate
più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane
un prato e piume viola sul prato
crescono
gli uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega
chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte

Qualche parola

Sono tornati i monti della primavera ma ormai
non assomigliano più a nulla in fondo
al lago non c’è altro che melma
vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
guardano si avvicinano e fanno ritorno
a loro stessi
le città lentamente strangolano i loro
gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
le strade
un uccello prova ancora a sollevarsi
risuona qualche parola qualche campana d’allarme
e cadono le pietre

Ti aspettavo

Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano
Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi
Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare
Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio
Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato Continua a leggere

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Lucio Mayoor Tosi,TUBANO E SPORCANO – Trentacinque distici, Poesia, con un Appunto dell’autore

Lucio Mayoor Tosi Sponde

Lucio Mayoor Tosi, Sponde, 2017

Lucio Mayoor Tosi. Poeta lombardo, di sessant’anni, a tutt’oggi inedito.  Di professione artista, pittore e pubblicista. Collabora con L’Ombra delle Parole.

di Lucio Mayoor Tosi

Quando ho iniziato a sperimentare la scrittura in distici, sia nella forma chiusa del verso e sia in quella aperta del discorso prosastico, non ho tardato molto a comprendere che si stava profilando la possibilità di investigare sul “nuovo” della nuova ontologia estetica. 
Nella poesia NOE – uso questa sigla con molta serenità, avendolo approvato senza remore, conflitti interiori o altro – poesia fatta di stracci (in luogo del risaputo), gioca un ruolo determinante l’arresto del flusso creativo, lo STOP (disfania, concetto e figura retorica, parola coniata da Steven Grieco Rathgeb). 
La coscienza di poter disporre di maggiore, chiamiamolo così, spazio-tempo in avanti, consente che si faccia netto il rapporto di fiducia tra fine e inizio del verso; tra finte parole “mie” e altre che non hanno appartenenza. Poi destreggiarsi nel collage di parti del vissuto e del pensato; sdoppiamento della personalità, dialogo interiore tra parti amiche/nemiche; salvaguardia del pianeta e fuga per la salvezza – per quanto mi riguarda –. Riduzione dell’io nello spazio invariato dell’esistenza. 
La forma-distico che qui viene messa in campo non è dissimile dalla poesia breve Haiku ma, ad esempio, lascia spazio all’aforisma e in taluni casi può trattarsi di veri e propri incipit, che però possono essere autosufficienti. 
Nella forma breve, l’elemento sorpresa è dato con naturalezza. Basta sapere aspettare, praticare lo STOP: fumarsi una sigaretta, uscire per una passeggiata, pensare ad altro, non pensare affatto…

Mi fa tremare un poco l’idea di confidare questa “novità”, in anteprima qui – mi terrorizza l’idea che qualcuno possa reinterpretare distorcendo o semplificando l’austero comportamento che presiede la stesura di ogni distico – . 
Devo moltissimo all’impegno di tutti i poeti che hanno scritto su questa rivista.

Un Appunto di poetica

In questi distici a corto respiro ho voluto sperimentare le parole, una a una, mentre arrivano donate al cestino della spazzatura. Dopo il salto, eccole qui.

L’esperimento consiste nel dare prova di finitezza del pensiero, dentro sfilacciature di linguaggi presi a prestito da scaffali: romanzo, cinema, titoli, poesia.

È poesia, questa della NOE, fatta di tanti arresti. Anche due parole, un Salveregina… – Ma è così ovunque, nel panorama mediatico. Tanti non parlano nemmeno. 

Finte parole mie, altre di nessuno. Figurine per il collage. Sdoppiamento della personalità, cambio di parte amica/nemico; salvaguardia del pianeta e fuga per la salvezza.

Nel farlo mi sono posto sulla distanza Haiku-Ungaretti. Tra aforisma e senza-niente.  Risultato: un tremare di pensieri, resi sconclusionati dalla storia. Sotto il ponte Morandi.

Ringrazio la redazione e chi avrà bontà di leggere. 

Ha scritto Maria Rosaria Madonna:1

«In ultima istanza, la poesia non può essere raccontata se non dal punto di vista puramente storico; nella sua essenza è attività di fagocitazione di mondo, internalizzazione degli oggetti del mondo tramite il sistema segnico-simbolico qual è il linguaggio. Forse, alla fonte della Musa v’è una fissazione della libido allo stadio della cloaca, ciò che nell’età adulta si converte in sublimazione, conglomerato degli oggetti internalizzati in spirito linguistico; in fame di mondo, seppure di un mondo ridotto a lacerti fonematici che rammenta il mondo reale come lo specchio da toeletta rammenta lo specchio ustorio.

Dunque, è chiaro, la poesia può sorgere soltanto come risvolto negativo della prassi. La poesia è il risvolto negativo della prassi e specchio ustorio all’unisono».

1 Maria Rosaria Madonna Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 148 € 12

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Commento di Giorgio Linguaglossa

A proposito del distico in poesia

Mi associo a quanto detto da Anna Ventura e Donatella Costantina Giancaspero riguardo all’invidia da cui dovrebbe guardarsi Lucio Mayoor Tosi. Non nascondo che io stesso quando ho letto pochi giorni or sono questi distici in anteprima, sono stato morso da un leggero attacco di invidia; mi sono chiesto: ma come ha fatto Lucio ad attingere, d’un colpo, questa perfezione del distico? Il fatto è, come sottolineato dalla Giancaspero, che Lucio ha un vantaggio su tutti noi, che è un «artista visivo» e che da una vita lui sperimenta con l’arte visiva ciò che noi stiamo tentando oggi con il distico e il frammento. E quindi è molto più avanti di noi in questo percorso ad ostacoli che è la nuova ontologia estetica. Perché si tratta di un vero percorso ad ostacoli dove però non vince soltanto chi arriva primo ma vince anche chi arriva secondo, terzo, quarto etcetera. Del resto, Lucio interpreta il distico in suo modo personalissimo che lo rende inimitabile, nessuno di noi potrebbe imitare il modo di scrivere distici di Lucio, susciteremmo soltanto riso e facezie. Alla base del distico di Lucio c’è il frammento. Il frammento precede il distico e lo fonda. Il frammento non lo si compra dal negozio di ferramenta, lo si trova dopo una lunga e meditata ricerca.

Alla base del concetto di frammento c’è la netta intuizione di che cos’è il letterale e il figurato e di come impiegarli in poesia. Leggiamo un distico preso a caso:

Ai miei amici del pianeta indaco. Prendete.
Sale alle caviglie. Un fil di fumo. L’oroscopo.

Non c’è dubbio che la prima proposizione (Ai miei amici del pianeta indaco) si pone come letterale di un figurato. C’è un significato? È il contesto che permette di procedere ad una corretta inferenza. Ciò che importa notare è che è molto difficile dire se si tratta di una proposizione letterale oppure di una proposizione figurata. Nella poesia di Lucio il letterale e il figurato funzionano come categorie proposizionalizzate della differenza semantica latente e manifesta. Il locutore, cioè l’autore è impegnato a perseguire le proposizioni per mettere in evidenza ciò che è detto in ciò che viene detto o se c’è altro dell’Altro per cui è centrale seguire il detto attraverso ciò che viene detto. Decifrare il senso di una o più proposizioni implica indicare ciò di cui è questione in quanto ciò che è in questione rimanda al problema del senso a cui un discorso, qualsiasi discorso, risponde.

Ogni singola proposizione, ogni singolo enunciato rimanda a ciò che è detto ad un tempo come letterale e figurato, e questa duplicità aumenta al quadrato ad ogni successivo passaggio proposizionale; ogni enunciato è risposta all’enunciato precedente ma in modo svincolato dalle necessità grammaticali imposte dal senso grammaticale. Ogni enunciato è una sostituzione dell’enunciato che il lettore si aspetterebbe. La conseguenza è una sorpresa, uno stupore continui. Il senso il lettore non lo trova mai nell’enunciato che risponde all’enunciato precedente, il senso è fuori, esterno, è allotrio. Ogni enunciato risponde in modo libero, e quindi criptico, all’enunciato precedente. Ogni enunciato agisce come uno scambio ferroviario, cambia la direzione del senso, lo svia, lo deraglia, lo ribalta e lo trasforma.

Diciamo la verità, l’enunciato «Prendete sale alle caviglie» non ha nulla in comune con l’enunciato precedente né con il seguente. Però in un certo senso, è collegato all’enunciato che lo precede e con quello che segue, e il lettore è costretto a seguire il lambiccato discorso del testo saltando da un binario all’altro. Il letterale è sempre senza sorprese, è la proposizione che designa ciò che è in quel modo singolarissimo della sua struttura frastica. L’enunciato letterale è perfettamente proposizionale, senza sorprese, riconoscibile, non fa questione, sarebbe vano ricercare in esso una interrogatività che è stata risolta, ma, paradossalmente essa sollecita una risposta altra, un enunciato altro inscritto nella testualità che ne completi il senso. Con questo procedimento il disticizzare della poesia ripropone l’antinomia del figurato e del letterale, ripropone la loro differenza problematologica, la loro dualità reciproca, l’insopprimibile contraddittorietà delle locuzioni frastiche indicizzate da un altissimo quoziente di figuratività.

Il distico consente al testo di «giocare» tra il letterale e il figurato in quanto ciò comporta la dualizzazione del senso, e la moltiplicazione del senso in quanto il senso si ha soltanto come una intelleggibilità complessiva del testo con tutte le sue interne contraddizioni frastiche e antinomie proposizionali.

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

Lucio Mayoor Tosi

TUBANO E SPORCANO

Trentacinque distici

I.
Su Marte i biancospini, le scatole di montaggio vuote.
L’altoparlante ai piani alti. I semafori rossi.

.

II.
Vorrei parlare con voi, per un attimo, del Partito
Democratico.

.

III.
Nel campo delle meraviglie, dove vanno al pascolo
i nomi delle persone, un vecchio trattore abbandonato.

.

IV.
Oggi vento senza parole. Amore dice cose improbabili.
Un altro cioccolatino. Rosa dei venti. Volgersi, evolversi.

.

V.
Il tempo presente passato: sto per facevo; compito
di matematica, certezza senza frenesie. Nostalgia.

.

VI.
Il personaggio aprì la porta e disse piano: le camere
sono pronte. Troverete le chiavi in reception. Non fate così.

VII.
Fortuna è un colpo di spugna, caro ispettore.
Il papavero antico è già sulla porta.

.

VIII.
Sotto una cascata. Paura furibonda. L’impronta
delle Dolomiti.

.

IX.
Vieni a casa con me? Fino all’aeroporto.
Ci prendiamo un caffè amaro di china.

.

X.
Alla fine di un lungo ragionamento decidemmo
di incontrarci. Mano nella mano.

.

XI.
Se ne può fare a meno. Di tutto quello che scrivo.
Il come e il perché non interessano a tutti.

.

XII.
Non dispero di poterla incontrare, domani…
Lascio aperto il rubinetto, l’estremità del pontile.

.

XIII.
Maestro. Le rose per te sono sul camino stretto
della credenza, appena entri.

.

XIV.
La natura continua imperterrita a fiorire.
Questa la notizia. Genitori a cavallo siete avvertiti.

.

XV.
Il prossimo verso sta per arrivare. Già lo amo, come fosse
mio figlio al patibolo di entrambi. Ride la cicogna.

.
XVI.
Tra un po’ le vettovaglie. Pino e Margherita,
non allontanatevi! Un piatto vuoto qui, uno là…

.

XVII.
Mi vergogno, disse il poeta. Tortore amiche.
Sia dentro che fuori. Un lungo silenzio. Continua a leggere

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Donatella Costantina Giancaspero, Una poesia, Tre colpi dal piano di sopra, Dialoghi e Commenti, La poesia narra questo susseguirsi di preveggenze, di indizi, di rinvii, di significanti che cercano il proprio posto, di significanti spostati, lateralizzati 

 

Foto Bambino e luna

Donatella Costantana Giancaspero

Che fare? Che dire?

Scrive Linguaglossa:

“I poeti e gli scrittori nati dopo quella data [1950] posseggono una minore autocoscienza storica dei problemi politici, estetici e stilistici che si traduce in poesie e in romanzi di livello decisamente inferiori rispetto a quelli delle generazioni precedenti”.

Stando a questa affermazione, dovrei ritenermi decisamente sfortunata per la mia età anagrafica… L’autocoscienza artistica di una intera generazione (e forse più di una), qui è messa in discussione. Ora, è un dato di fatto che sia difficile conoscere oggettivamente i fenomeni artistici e culturali in genere, così come è arduo comprendere a pieno gli eventi della grande Storia, per chi tali fenomeni ed eventi li viva, diremmo, “in tempo reale”, ovvero da uomo contemporaneo.

E questo lo dice anche Mario Perniola. Però, è pur vero che, proprio in quanto contemporaneo alle proprie vicende, l’uomo ne risulta fortemente segnato; pertanto, ne diventa espressione viva e, in parte, consapevole. Tutti noi, oggi, siamo certi (e quindi consapevoli) del nostro disagio esistenziale, derivante dalle condizioni politiche, economiche, ambientali, sociali, storiche in senso lato, in cui viviamo. E non è svalutante, per noi, il limite di non poter storicizzare la nostra Storia; una Storia, oltretutto, smisuratamente diversa da quella che i nostri padri e i nostri nonni vissero da contemporanei. Mi domando se tutti loro, nel mentre attraversavano le proprie vicende, fossero consapevoli della portata storica che esse avevano.

I più fortunati, dotati di cultura, abbracciando una fede politica, forse intuivano, forse presentivano. Solo a pochissimi era dato comprendere: penso ai filosofi, agli storici, e penso alla grande figura di Antonio Gramsci… Ma i più, gli uomini comuni, che pure, con la propria vita, stavano dando vita alla Storia, dirli coscienti, dirli realmente consapevoli, capaci di scriverla essi stessi, quella Storia, questo io non credo. E oggi? Come possiamo scrivere la nostra guerra mondiale che ci travolge?
Che fare oggi? Что делать? scriveva Lenin. Ma la domanda, allora, era per il partito, per la Rivoluzione…

Oggi, invece, che cosa dobbiamo fare noi, qui, nel nostro “Tempo acuminato”, noi, cosiddetti “poeti”? Quale “rivoluzione” (consapevole o inconsapevole che sia) ci è dato compiere? Qualcuno di voi mi dirà: “E tu?”

Io… forse continuerò a rivedere il mio lessico, la mia forma, il mio stile, per essere consapevole – e qui sì, bisogna esserlo – , consapevole della mia scrittura, come, peraltro, ho iniziato a fare già da un paio di anni: esattamente dopo le poesie qui pubblicate, edite nel 2015 (in un libretto de La Vita Felice, per la collana degli illustri sconosciuti) ma precedenti, scritte dal 2000 al 2014.
Che dire? Proverò a non ripetere le “parole finite”, a limitare l’impiego degli aggettivi perché, spesso, a mio parere, indeboliscono il sostantivo. Cercherò soluzioni verbali che non producano esiti puramente “aleatori”. Proverò a darmi una “progettualità”, quei principi che fondano la creatività nel suo aspetto autentico…
Che dire? Io ci provo… Ecco, questo qui è un tentativo.

Tre colpi dal piano di sopra

Tre colpi dal piano di sopra. Il quarto
fa vacillare uno studio del Gradus ad Parnassum*.
Insieme, qualcos’altro, ritratto
nell’intercapedine fra l’intonaco e un’eco di scale.

Chiodo su chiodo, gli sconosciuti
si cercano dentro il sentore delle stanze.
Nell’insistenza delle macchie sul soffitto.

Un intervallo di quinta discendente alla finestra.
Ci domandiamo che ora sarà da qui a trent’anni,
nelle smart home di risorti edifici.

Intanto, i treni cittadini irrompono nel rombo del temporale.
Un refrain senza indicazione di tempo replica in verticale
la sequenza del pianoforte sbalzato sul selciato.
Sotto gli occhi delle facciate, sospinto a mano.
Da una persiana all’altra.

https://youtu.be/-6_lGQUX_Wo
*Gradus ad Parnassum di Muzio Clementi (1752 – 1832), 100 esercizi pianistici di livello avanzato

Foto New York traffico

Mauro Pierno

La sintonia che sento con la voce, i personaggi, gli oggetti tutti di Donatella Costantina Giancaspero mi fanno accomodare in una stanza. Sono l’ospite inatteso di una storia che non ha rimpianti. La voce è li, dispersa.

Questo il senso del frammento, Giorgio?

È vero la poesia sta in chi ascolta. È li, dimora. Si accuccia abbeverandosi.
Lo “stagno” ha una rifrazione eterna! Confonde
lo spazio è segna una urina inconfondibile.
“la sequenza del pianoforte sbalzato sul selciato.”
Un piano può anche pisciare!

1°versione

Nel treno che attraversa i campi
alle fragole non mancano mani, tutto
nell’ordine dei cesti e dei panieri.
Quanti controllori accompagnano il vento. Al finestrino un peso unico, questa parete rossa
e tanti chiodi inutili.

2° versione

Il treno attraversa i campi
alle fragole non mancano le mani,
tutto nell’ordine dei cesti e dei panieri.
I controllori accompagnano il vento.
Al finestrino manca un peso unico,
questa parete rossa, tanti chiodi inutili.

Giorgio Linguaglossa

cara Costantina,

come tu scrivi il problema è sintetizzabile così: tutti i problemi della coscienza e della consapevolezza storica dei problemi stilistici, della coscienza stilistica, sono la trasposizione di problemi che stanno a monte, dei problemi sociali, economici, politici che influiscono sulla elaborazione delle piattaforme artistiche, e non c’è dubbio che i letterati che sono nati dopo la data esemplificativa del 1950 mostrano segni evidenti di minore complessità di elaborazione dei progetti artistici e stilistici rispetto alle generazioni degli scrittori e dei poeti nati prima di quella fatidica data. Certo, è venuta a cadere nelle decadi che sono seguite al 1950 la consapevolezza delle questioni stilistiche, questo è oggi avvertibile e percettibile, la poesia è diventata una cosa facilissima da fare, è sufficiente fare un raccontino con o senza a capo, senza alcuna consapevolezza delle questioni filosofiche sottese ad ogni scelta lessicale e stilistica. La nuova ontologia estetica segna un tentativo di inversione di rotta rispetto alle questioni stilistiche (e quindi etiche, estetiche, politiche, filosofiche) che sono state dimenticate e rimosse.

La poesia che tu hai postato è un esempio probante di come si possa scrivere poesia di alto livello sulla base della nuova consapevolezza della questione stilistica quale primario elemento da tenere presente quando si scrive poesia.

La poesia abbandona per sempre la moda della poesia facile, non «racconta», non si offre come una «narrazione» di qualcosa che sta fuori di essa, la «narrazione» di cui tratta è inerente ad essa stessa, è «interna» alla narrazione stessa, non esterna, non guarda al «fatto» come ad una esposizione che deve essere provata mediante una narrazione; la tua poesia, come anche, da diversi momenti di approccio quella degli altri componenti della nuova ontologia estetica, evidenzia una spiccata predilezione e attenzione per il «nome» (onoma) con derubricazione dei «verbi». La centralità, il punto centrale della poesia verte sull’«evento», tratta di «micro eventi» che si susseguono come onde sussultorie, misteriosi e inconsci; la poesia è costruita con in mente l’attenzione per la percezione di «eventi invisibili». È il tuo modo di costruire la poesia. E ciò comporta una vera rivoluzione espressiva, una rivoluzione della poesia. Comporta l’attenzione esclusiva per l’«evento», con riduzione di tutti i Fattori fonosimsolici e tonosimbolici della poesia tradizionale. È questo, il tuo, un esempio della rivoluzione portata avanti dalla pratica della nuova ontologia estetica

Cito dal libro di Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell’arte, Neri Pozza, 1968 Continua a leggere

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Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

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Due poesie di Chiara Catapano e una poesia di Steven Grieco-Rathgeb – La porosità dell’opera artistica

bello figura femminile con gazza

Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”

Steven Grieco-Rathgeb

12 gennaio 2018 alle 1.08

Cari amici, avrei voluto mettere un mio commento qui ieri sera, ma mi trovo da qualche giorno con una nuova traduzione da svolgere in tempi brevissimi, e sono arrivato a leggere i vostri alle una e mezza di stanotte, quando non ero più in grado di scrivere. Stasera ho riaperto l’Ombra, trovando nuovi eccellenti commenti… Mauro Pierno, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa!

Il testo di Mani Kaul è duro proprio perché è concretissimo: è duro perché apre vie impensate. Non è solo una questione di idee o di un suo ragionare sull’arte –che si possono facilmente opporre o confutare – MA SULLO STESSO OPERARE PSICHICO, MENTALE DELL’ARTISTA.
E’ dunque un testo duro, che costringe il lettore a fare un serio tentativo di concentrarsi per capirlo. Diversamente, la sua comprensione scivola via e si disperde.
Una delle difficoltà nel capire il testo sta nel fatto che Mani Kaul affronta e sbaraglia, il concetto fasullo di progresso che tanto occupa il pensiero mondiale oggi: quel concetto che a sua volta ha portato alla nozione della convergenza, del climax, su cui ancora si basa la stragrande maggioranza di prodotti culturali, alti o bassi che siano, poesie o installazioni che siano. Lo vediamo subito in poesia: pochissime le poesie che abbiano affrontato la questione centrale dello sviluppo, chiamiamolo, meta-tematico. Si tende invece ancora a parlare molto del contenuto. Quando il concetto di contenuto è ormai antiquato.
Ho molto apprezzato i commenti di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Chiara Catapano, Mauro Pierno. Interessantissimo quello che dice Tosi, del suo mescolarsi interamente al flusso della vita per cogliere il nascere di un’opera. Le sue poesie sono di questo una diretta testimonianza. Su una cosa non mi trovo d’accordo: tu dici, Lucio, che “L’immagine in movimento farà invecchiare i vecchi dipinti, anche quelli di Van Gogh.” Sarà anche vero, ma ahimè è tutt’altra cosa che già adesso sta determinando quell’invecchiamento: il fatto che noi sempre di più guardiamo le immagini sul computer e non sulla carta. Pensa a questo incredibile cambiamento: le immagini risultano intensificate “artificialmente” dalla luce interna allo schermo. E non ci possiamo fare nulla. Perché sempre più guarderemo le foto dei nostri cari, Van Gogh, e la fotografia d’autore sullo schermo del nostro computer di casa. I colori saranno più intensi, i sorrisi più smaglianti, le forme più profonde.

In risposta al bel commento di Mario Gabriele, devo precisare: Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”, e tutta la parte riguardante i concetti deleuziani “immagine tempo” e “immagine movimento” riguardano solo il cinema: possono far capire a noi poeti molte cose, ma non sono in questa loro forma direttamente applicabili alla poesia o alle altre arti – non prima, almeno, di una ulteriore lunga riflessione estetica sulla questione.
Quello che tu, Mario, chiami ”declassamento dello spazio” in Mani Kaul è un po’ diverso, e si riferisce, operativamente parlando, al cinema, non alla poesia o alla pittura. E comunque tale declassamento viene in gioco nel cinema principalmente come mezzo per abolire la “convergenza”, il climax prospettico, che ha fatto il suo tempo da tanto ormai, ma continua imperterrito a falsare così tanta produzione artistica. In tutti i prodotti culturali, da Hollywood alla quasi totalità dei poeti persiste questo paradigma così profondamente insediato nella mente umana da ormai 5 secoli, da non essere più nemmeno percepito dai fruitori.
Un piccolissimo esempio: in genere si finisce una poesia con una sottolineatura, una intensificazione emotiva di un tipo o l’altro: di “pathos”, di “ira”, di “dolcezza”, di “saggezza”. La tipica chiusa “emotiva” è senz’altro uno dei punti più deboli della poesia oggi, che nessuna avanguardia è riuscita ad abbattere, e che più invalida le nostre composizioni. E’ davvero difficile vedere come i poeti ancora interessati a creare questa convergenza, il climax, nelle loro poesie, possano sfuggire alla forma-poesia novecentesca.

 

 Quello che invece è indubbiamente estrapolabile dal discorso di Mani e trasferibile a tutte le arti compresa la poesia, è la questione dello spazio sacro e lo spazio profano.
Ringrazio Chiara Catapano del primo punto del suo commento: illuminante, perché, ragazzi, la banalità entra ovunque e dovrà fare il suo corso, piaccia o non piaccia. Altro che la porosità dell’opera artistica di cui parliamo noi! I reality ci hanno letteralmente seminato! Chiara infatti evoca il “reale”, ossia “il cinema dal vero” che il filosofo-scienziato-autore e più geniale fantascientista del Novecento, Stanislaw Lem, descrive nel suo Powrot z gwiazd, (Ritorno dall’universo). In questo spettacolo detto “reale”, attori in carne ed ossa vivono tutte le esperienze realissime della vita direttamente davanti agli spettatori: vengono tangibilmente sbranati da tigri, si innamorano, mangiano un panino, scrivono poesie immortali. Poi tutto si scioglie: non era vero nulla! Proprio come il reality. Ma il romanzo di Lem risale agli anni 60 del secolo scorso…
La mia anima artistica non può che gioire di quella meravigliosa aleatorietà di cui parli, Chiara, avvenuto nello spettacolo inscenato nel cortile del carcere. Di questo abbiamo fortemente bisogno.
Sul terzo punto devo ancora pensare, perché viene sollevato un fatto letteralmente rivoluzionario: forse è proprio questo lo spioncino attraverso il quale l’uomo diventa tutto il suo ambiente. Non è detto affatto che l’uomo del dopo plastica, del dopo inquinamento, non sarà così.

Alla fine, come spesso succede, Giorgio Linguaglossa centra la questione in pieno, dicendo: “Mi sembra chiaro. Per cambiare la forma-poesia finora in uso nella poesia italiana, bisogna andare molto in profondità, alla scaturigine della forma-poesia, all’origine. Se ci si ferma a metà strada, se ci si limita a riformattare l’aspetto fono simbolico, che so, o l’aspetto meramente metrico del vers libre, faremo opera di salvataggio della vecchia forma-poesia, faremo del riformismo più o meno moderato…”

Caro Gino Rago, c’è un’altra frase nel Bravo Soldato Schweik, non so se te la ricordi, che dice che i comandanti sono spesso più umili dei luogotenenti. Ma io, diversamente da te, penso che sull’Ombra delle Parole non ci sono né luogotenenti, né comandanti. Perché non ci sono battaglie, e nemmeno guerre qui. C’è soltanto la sincera volontà di offrire poesia, e idee e concetti il più possibile concreti: applicabili concretamente alla poesia. E’ quello che tutti noi stiamo cercando di fare.
A questo riguardo, dedico a te e a noi tutti una poesia cinese dell’ottavo secolo, per ricordarci che nei nostri multiversi – almeno letterari! – la NOE è già esistita più volte in passato. Sì, caro Gino, sono assolutamente d’accordo, coltiviamo l’umiltà! La poesia è di Li I, poeta dell’epoca Tang, che estrapolo dal mio prossimo post:

Spedizione a Nord

vento gelido sulla neve di T’ien Shan
suoni di flauti, dura la marcia
fra le rupi trecentomila soldati
si girano tutti insieme: la luna

E aggiungo qui il geniale incipit della poesia di Mauro Pierno,

L’incontro
a breve in video-conferenza
devastò l’immagine.

Grazie, Mauro!

 

Chiara Catapano

IL CORBEZZOLO ROSSO
(2013)

Nipfjället, la Tundra Comoda – come la chiamano qui – c’innalza sui mille metri sotto il cono d’ombra dello Städjan,

e tra le ossa dell’altopiano riconosci la mia voce, cauto frinire di foglie del Rossello Alpino nell’infinito albeggiare:

sono il Corbezzolo Rosso che t’inquieta il sonno
e macchia la zolla del risveglio avvampandone la linfa.
Mi troverai dentro questa definizione, palpandomi i fianchi;
oseranno i polpastrelli raggiungere la polpa tenera del frutto?
Qui ogni amore lo separa il setaccio della metamorfosi, imposta per magia.
Così tu dovrai vagare alla ricerca dell’orizzonte esatto col quale dialogare,
e sorreggermi fino a casa senza far patire le radici.

È, questa inquietudine che sa di latte, la bussola prestata dall’infanzia alla mia vita.
Mi districavo con essa i capelli nella sera.
Ogni nodo soffoca un lieve incanto, e per quanti ne sciolga non conosce il destino del giorno successivo: altri se ne assieperebbero, frequentazioni incaute di memoria.

Se scoverai il segreto che mi tiene ancorata a terra,
arriverà precocemente la fine dell’estate;
raccoglierai quel che resta della mia voce nella neve sciolta
a margine del bosco. Maturerò nel viola
della Campanula Patula i pensieri che serrano le nostre decisioni.
E a Dalarna dipingerai un cavallino intagliato nel mio ricordo,
souvenir da mercato per le ore giocate a rincorrerci
nell’acqua dove non si tocca.

bello Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the ...

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …

Chiara Catapano

 INN

(2012)

I

A Sils l’onda che incide il suo corso fluttuante tra gole d’acciaio è la similitudine che concedo alla mia infanzia.

Intagliavo rami così come i monelli sul Timavo scelgono legno adatto per le fionde, ma poi le tue le spezzavano, gelosi tu sapessi far meglio; la differenza è che io non t’avrei tradito. Ma di questo pare non lasciar traccia il beneficio che da lontano ha saputo, suo malgrado, mutare gli orizzonti fino a piegare l’arco tra Sils e Trieste.

Tu non capisci con quale potenza l’acqua addomestichi il corso al proprio volere: l’Inn procede con intenzione, munifico, nonostante sia rasoio sulla già affilata geometria elvetica.

Filo su filo, senza scintille.

E, dentro, tutto il fuoco della creazione.

Francesco riposa come in un risvolto di vita, cucito per essere – in un giorno di crescita – liberato e adattato alla nuova misura. È paragone da sarta che lo imbriglierebbe nel muto accordo tra donne (sì, anche tra una svizzera ventenne e una donna pisana funziona l’antico patto di reciproco sostegno), se pigiate dentro l’esistenza esse sentissero -magari pure senza conoscersi, magari scostando appena la cortina densa che le separa dalla propria fine – l’inestinguibile canto d’agonia con cui lo spirito femminile si lascia riconoscere all’interno di una metafora.

Lungo le rive di questo fiume, che qui è richiamo, puro accenno al suo fulgore, la tua CC gioca ad abbandonare i sensi – per ripescarli sbiaditi più a valle, nell’ansa amichevole scavata dall’acqua, lontano dalla corrente impetuosa.

Ti ci porto ogni volta che vieni, sperando tu accolga l’invito a rianimare – nel corso dell’infanzia- questa predisposizione all’abbandono di me, cedevolezza che ammolla il petto ammaestrandolo alla giusta disposizione, senza disperare.

Questo tu potresti, ogni volta, in virtù delle fionde che non danneggiai; sebbene ancora non possa vedere l’esito di ciò che non svolsi, in tutta purezza.

Qui ti consegno i polsi. La lametta sei tu, s’agita dentro il tuo seme come dentro un’estinzione.

Così m’acquatto, sfidando il battito blu delle piccole vene che affiorano turgide, che tu le beva una volta per tutte. O mi liberi dalla mia stessa schiavitù, di cui non fosti l’artefice, ma di cui – scoperta – t’impossessasti. Continua a leggere

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Gino Rago, Una poesia: Morte della madre, con una riflessione di Rossana Levati

 

Foto volto multiplied

Nel sole alto a candire i cedri
il vuoto di te ruppe la barriera fra vita finta e morte

Gino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole.   Email:  ragogino@libero.it

*

 Oggi, vigilia d’anno nuovo, chiuso in me stesso, ripiegato in me, in una folla di presenze gaudenti, ho voluto rivolgermi a te, madre (contadina e analfabeta, non sei mai stata donna  da quando sono al mondo. Prima figlia. Poi moglie.  Infine, forse, solamente “mamma”. Ora sei cenere. E nessuno ti ricorda…).

Da quando non ci sei, nessuno più parla di te. Ma il poeta ha la memoria lunga… Dunque, ovunque tu sia, con chiunque tu sia, in qualunque forma ti giunga il mio canto,Buon Anno Nuovo, mamma.”

(Gino Rago)

filosofia roberto cicchinè untitled 2009

roberto cicchinè untitled 2009

Morte della madre

I falò di Carnevale…
[tu nel letto d’ospedale]
già tutta pronta al viaggio fra le stelle alla tua foce.

Con l’occhio nella cenere
quieta sussurravi: «Non sprecate l’acqua.
Lo capirete quando il pozzo sarà secco.
Ve ne accorgerete a focolare spento».

Per questo smarrimmo l’odore delle mele.
Di calce spenta su quest’altra sponda.
Abiti neri. Veli di pervinca. Condoglianze
appena bisbigliate.
Colpe da nascondere come una vergogna.
Contorni d’ombre. Intermittenze d’asma.
Il tuo viaggio solitario verso l’onniscienza.

Nel sole alto a candire i cedri
il vuoto di te ruppe la barriera fra vita finta e morte.
Atrocemente straripò quel vuoto come un’eco
di strepiti distanti
o di remoti palpiti sapienti.

Dall’ocra dei licheni al fiore sui limoni
un vento soffiò sul sangue della terra.

Prosciugò le conche. Disperse la casa e  l’aquilone. Continua a leggere

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Reperti, obelischi e monumenti: verso una “Archeologia fredda degli oggetti”? Il monumento questo oggetto opaco e pesante in uno scritto di Jean Clair. Il monumento nella scultura di Ivan Theimer con un testo ecfrastico di Letizia Leone: “Il monumento ebbro” sulla scultura di Ivan Theimer.

Foto bicchiere in bianco e nero

(Da: Jean Clair, da Ivan Theimer, catalogo Regione valle d’Aosta, 1998)

Vi sono oggetti che credevamo familiari e che, subdolamente, si sottraggono a noi, scompaiono furtivamente dall’orizzonte che pensavamo immutabile, spariscono da una scena che credevamo solida. E poi, un bel giorno, ricompaiono, un po’ strani, fuori posto, incomprensibili. Il monumento, per esempio. Chi oggi, si preoccupa dei monumenti? Chi osa prenderli in considerazione? Chi ne intraprende la costruzione? Li credevamo eterni, o, per lo meno, solidamente radicati nella vita, ed eccoli invece appartenere alla sfera del passato.
Non è certo difficile intuire le cause immediate di tale scomparsa. Chi ha ancora il tempo di edificare monumenti? Chi regna abbastanza a lungo per assumersi il rischio di esserne il committente? Quale architetto o quale artista ha una presunzione tale da decidere di farli rivivere?
Mancanza di tempo da parte dei committenti, degli artisti, nonché del pubblico. Il monumento non è compatibile con la cultura dell’automobile. Si costruiscono edifici di tutti i tipi, municipi, scuole, ospedali, ministeri, musei ‘arte contemporanea, ma nessuno più erige monumenti.

In questa sede sarà utile allora, visto che il monumento è prossimo alla fine, interrogarsi sulle sue origini. La parola “monumento” compare nella lingua del XII secolo, nel periodo che gli storici dell’arte chiamano proto-rinascimento, quando per la prima volta, in Occidente, il patrimonio culturale della tradizione classica viene rivalutato e serve da modello ai primi scultori e architetti del gotico.
Monumentum, in latino, copre un campo semantico piuttosto vasto: ha a che fare con il ricordo: monumenti causa dice Cicerone, “per conservare un ricordo”. Ha quindi a che fare con la cultura in quanto nata dal culto dei morti, e ben prima che la religione ne facesse il luogo di culto degli dei: monumentum sepulcri è la tomba.
Il culto dei morti, tuttavia, può estendersi alla conservazione e all’esaltazione di ciò che di memorabile l’uomo ha lasciato dietro di sé, scritti, memorie, documenti, annali: monumenta rerum gestarum, dice ancora Cicerone. Rousseau chiamerà quest’impresa i mémoratifs, i rammemoranti. Di un’opera notevole per dimensione o erudizione, costituita anche solo di parole, come per esempio il dizionario Treccani, si dirà comunemente che è un monumento.

Ivan Theimer 4

Ivan Theimer

Molto tempo dopo, in Tertulliano, il termine monumentum finirà per indicare l’amuleto, il medaglione che si mette al collo dei bambini. Dall’opera dell’architetto, dalla summa dello scrittore, siamo passati alla categoria del ninnolo e del feticcio.
Evitiamo però di trarre conclusioni affrettate sullo status del monumento nella nostra cultura.
Sottolineiamo invece l’urgenza che presiede alla costruzione del monumento: monumento viene da moneo, ricordarsi, rammentare, dare testimonianza ma, anzitutto, avvertire. Un monumento è un ammonimento. Con la sua presenza ci ricorda quello che tenderemmo a dimenticare: ea quae a natura monemur. Gli avvertimenti che la natura e la stessa cultura ci trasmettono, dice sempre Cicerone, sono veicolati dai monumenti. Richiamo alla legge, a quanto c’è di significativo nel passato, il monumento apre la strada al futuro, informa, predice, annuncia, ispira. Quando Virgilio dice alla Musa che deve ispirare il poeta, è il verbo monere che impiega. Un monumento è una premonizione.

Il monumento ha quindi a che fare con la memoria ma non, come si crede, con la sua parte più sociale, decifrabile, ufficiale e scontata quanto piuttosto con la sua parte più oscura, più selvaggia, meno familiare, quella dei meccanismi di censura, del rimuovere o del riaffiorare, che fanno sì che l’uomo sia non solo l’essere dell’istante presente, come l’animale, ma anche del ricordo e del presagio. Animale storico, gli succede di partecipare al festino degli dei che detengono il futuro. In tale strategia cosmogonica il monumento esiste per aiutarci a togliere i divieti che il presente fa pesare su di noi in modo che possiamo impadronirci di quanto è stato rimosso e intuire quanto accadrà. Freud è stato uno degli ultimi umanisti del nostro tempo ad essere impressionato dai monumenti e ad individuarne il vero significato dietro tanti artifici. Erigiamo monumenti, che ci piace credere immortali, per liberarci dalla paura non tanto della morte quanto dell’oblio, dell’imbarazzo del lapsus, del timore di non sapere decifrare i segni, dell’apprensione dei giorni a venire. La grandezza di una cultura si misura allora in base all’importanza che essa attribuisce ai monumenti, i suoi soli edifici che non servono a nulla. È nella misura in cui le culture si sanno mortali che dedicano all’immortalità questi blocchi che il tempo a sua volta distruggerà.

 

[monumento di Ivan Theimer]

Andiamo avanti: in moneo c’è mens, l’anima in quanto attività dello spirito, facoltà di ragionare, manifestazioni dei caratteri e delle passioni. Il termine deriva direttamente dal greco menòs che ha lo stesso identico significato.
A questo punto sarebbe avventuroso e senza dubbio illecito avvicinare questo termine a témenos, che indica la sezione del tempio consacrata al dio – l’area sacra – e di cui ritroviamo il senso nel verbo latino contemplari, il fatto di entrare visivamente nel campo occupato dal tempio così come si staglia nel cielo.

Allora ricordiamo semplicemente questo: il monumento, che si presenta ai nostri occhi come un oggetto opaco e pesante, grave e inutile, in realtà è legato alla dimensione più recondita, più inafferrabile, più labile e più essenziale dell’uomo: la sua anima. Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima. Continua a leggere

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Cristina Annino Poesie inedite da Le perle di Loch Ness – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Gif-cool-occhiali

Era alto, oh! aperto a valanghe nei polsi

Cristina Annino – laurea in Lettere e Filosofia- nata Arezzo, vive a Milano.
1969, Non me lo dire non posso crederci, Tèchne, Firenze (ancora con il cognome Fratini)
1977, Ritratto di un amico paziente, Roma, Gabrieli.
1979, Boiter (romanzo) con Forum, Forlì.
1980, Il Cane dei miracoli, editore Bastogi, Foggia.
1984, Nuovi Poeti Italiani n°3, Einaudi, Torino, a cura di Walter Siti.
1987, Madrid, Corpo 10, Milano; libro riedito per le Ed. della Stampa 2009, Varese, 2013.
2002, Gemello carnivoro, I Quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza.
2002, Macrolotto, Canopo Edizioni, Prato.
2008, Casa d’Aquila Levante Editore, Bari.
2009, Magnificat, raccolta antologica di tutta la sua produzione, PuntoaCapo editore.
2012, Chanson Turca, LietoColle editore, Como.
2013, Poco prima di notte, plaquette, Arca felice.
2014, Céline, EDB Edizoni, Milano
2014 Chronic Hearing. Selected Poems 1977-2012, Bilingual Edicion, Celsea, New York
2016, Anatomie in fuga, Donzelli Edizioni, Roma
È in corso di pubblicazione il romanzo Connivenza Amorosa, per le edizioni Greco&Greco.
Da alcuni anni si occupa saltuariamente anche di pittura.

Gif scale e donna

Certe sere, Carina, rimette il pasto

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 La poesia di Cristina Annino «vuole» essere il racconto di un linguaggio nel quale le parole dicano qualcosa di più o di meno e di diverso da quello che avrebbero voluto dire, da quello consegnato ai vocabolari, da quello che si vorrebbe dire agli interlocutori del futuro (già, i posteri!). Il mutamento dei significati delle parole presuppone sempre una dimenticanza del loro primo significato. La poesia moderna più evoluta  si situa in questa zona d’ombra, in questa zona di mezzo, in questo chiaroscuro semantico in cui il significato antico sbiadisce mentre sta per  venire alla luce il nuovo significato. La poesia  è questo significato nuovo che viene alla luce, o meglio, che vorrebbe venire alla luce, ma di frequente non ci riesce perché una forza oscura lo spinge indietro, di lato, lo disperde, lo assottiglia, lo dissolve. La poesia racconta questo mutamento di significato, questo travaglio, questa entropia, e quindi racconta la propria impotenza, la propria incomprensibilità, l’incapacità delle parole a comunicare nient’altro che il comunicabile.

Che significa, per esempio: «Fu ottava al citofono, noia di campanelli», o «bottoni tirati sugli occhi», o «un calore di penne»… sono sintagmi nominali che elencano la propria incomprensibilità incomunicabilità, la propria insignificanza, o meglio, il trasloco del significato da un punto ad un altro, l’incapacità della lingua telematica di oggi a comunicare qualcosa di veramente essenziale, una esperienza significativa. Di qui lo zoppicamento, l’andamento claudicante della dizione della Annino.

La poesia si sviluppa sulla base della consapevolezza della propria caducità, è costretta a fare dei propri limiti il proprio punto di forza.

Credo che bisogna leggere la poesia moderna (e anche il romanzo moderno, per quel poco che se ne scrive di decente) come il racconto stenografico di una intenzione significante. Forse soltanto entro questi termini ha senso fare una critica della poesia oggi: andare a scoprire con lo stetoscopio le intenzioni significanti, gli scacchi, le perdite, le sconfitte delle intenzioni significanti. Già il

linguaggio della critica era impreparato e inidoneo cinquanta anni fa, figurarsi oggi dinanzi alla prolificità e alla moltiplicazione dei linguaggi mediatici. Questa catacresi, che non è volgarmente un «abuso del linguaggio», ma il suo vero motore interno e segreto, quella forza invisibile, quella forza oscura che tende a piegare il linguaggio per adattarlo alle nuove esigenze, questa catacresi, dicevo, non è soltanto una figura retorica ma una categoria, anzi, è la categoria fondamentale che registra il movimento e il sommovimento dei linguaggi.

Nella poesia della Annino, la catacresi si sviluppa sul piano della catena sinonimica più che su quello della catena metaforica, il che unito al discorso interruptus produce quel sintomatico e peculiarissimo movimento lessicale irto di micro fratture semantiche.

Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo scrive:

«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».

Così, avviene in grandissima parte della poesia italiana di oggi e di ieri, che si situa il «privato» in primo piano, ma il «privato» è uno «pseudo-luogo», da esso non può zampillare nemmeno una stilla di «poesia» ma soltanto «chiacchiera» posticcia e insignificante se non viene trattato mediante il «non-privato», se non viene sottoposto alla cura dimagrante delle categorie retoriche. Chiediamoci: quanta poesia del secondo Novecento corrisponde alla «chiacchiera» di cui stiamo discorrendo? Il «privato» è per eccellenza il luogo della menzogna deputata alla ipocrisia del sociale, e non potrebbe essere diversamente. L’opera d’arte compie un prodigio: converte l’inautenticità del «privato» nella rappresentazione del significativo, dell’autenticamente alienato. E ciò facendo diventa essa stessa inautenticamente «autentica».

Gif Corridoio

Non li ricordo più fino / in fondo, i nomi scorrono dal rubinetto

 

Icaro

Un calore di penne,
d’elevazione, lo mette mezzo
corpo nella rosa dei venti e non
staccherebbe per niente
dalla
pelle, la cera. Respira
fermo; poi lo spacca l’idea
che prenderà
i fulmini in mano; e la mente
siede salda sul braccio.

*

Se casco casco va bene. Ma
staranno
le stelle a guardare che mi
alzo fisicamente, io, più
immenso di me.

*

Abbiamo
mietuto nel tempo grano, parole
con pugno di grasso merciaio
raso terra anche amando
o da soli; ma mai lasciato
un minuto, che oltraggio
diventasse pensiero. Continua a leggere

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Guido Galdini POESIE SCELTE da Gli altri (LietoColle, 2017) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

gif doubleGuido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria ha lavorato nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012) e Gli altri (LietoColle, 2017). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti.
Il guardare verso e attraverso finestre che non c’erano
ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle
con proprietà terapeutiche improbabili.
L’uomo deve quindi badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
[…]
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

(Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura, 2011)

Mi scrive Guido Galdini:

«I temi di questa raccolta sono molto lontani da quelli dagli Appunti Precolombiani: nel suo piccolo è il tentativo di dare un’idea dello sgretolamento del mondo contemporaneo a partire da modesti fatti quotidiani. Ho cercato, come autore, di acquisire la massima invisibilità e, nel contempo, di operare con la massima precisione. Non posso permettermi sbavature. Mi sembra di camminare in equilibrio sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo (o forse ci sono dentro da sempre senza rendermene conto e senza riuscire a risollevarmi). Il punto di partenza deve comunque essere concreto: vi sono parecchi riferimenti specifici al paese dove abito, con nomi di luoghi e riscontri immediatamente verificabili.

Lei aveva, molto acutamente, nel commentare gli estratti degli Appunti Precolombiani, fatto riferimento ad una pittura realistica (Delvaux) però prosciugata dallo spaesamento surrealista. Io mi sento affascinato in modo totale dall’informale e dall’astrazione (Afro, Santomaso, Morlotti, Veronesi, Licini), ma il mio pennello ha le setole di Antonio Donghi».

*

In apertura del libro di Guido Galdini c’è una citazione di René Daumal: «La porta dell’invisibile deve essere visibile» e, conseguentemente con questo assunto, l’attenzione dell’autore è incentrata sul «visibile», sugli oggetti del quotidiano, sui personaggi di tutti i giorni; una vita grigia, sbiadita, piccole cose neanche di cattivo gusto: l’ordinario, il routinario, il normale: «i venditori di ombrelli sui marciapiedi», la fornaia, le persone, i piccioni alle finestre, i colombi sul tetto, le vetrine dei negozi, la corriera, il lavandino, i marciapiedi, le automobili, una lucertola cui «si è staccata la coda», il «ponte dell’autostrada», «la cassetta per le lettere», «i portici verso piazza della Repubblica», la «cassiera»; e poi ci sono gli oggetti consueti: l’ombrello, il cellulare, la bicicletta, il televisore, le ciabatte, «le bandierine di plastica… sopra le vie di San Rocco», «i tacchi a spillo», «il gregge di pecore / che stamattina ci ha bloccato sulla circonvallazione», «il furgoncino della raccolta della carta», la «cabina telefonica», il «parcheggio del supermercato», «olio, patate, insaccati e birra… pasta e passato di pomodoro», «due panini, un cartone di latte, qualche pesca, una scatoletta di cibo per gatti», «l’edicola di fronte al castello Quistini», «le tecniche di attraversamento di una rotonda europea / sono una prova che la vita ci impone», «c’è sempre un incidente, sulla strada o al lavoro», «i libri usati», «un segnalibro», «le poesie di Raboni, / farcite di biglietti di cinema, di mostre e di filovie», «scrivono con lo spray / le banali frasi d’amore copiate da qualche foglio», «una zanzara si posa sulle pagine», «il cane che si era perso», «un tailleur grigio con il colletto di velluto», «la felicità dello schermo», «il gratta e vinci», «un batuffolo di cotone», «i riccioli biondo rosa ben curati», «bambini ammucchiati in stazione», «un mappamondo che s’illumina con la spina», «i pendolari di luglio».

salve è il saluto
che salva dall’imbarazzo di scegliere
tra il tu ed il lei, tra la
complicità e la distanza,
rimanendo sospesi
nella stessa indecenza del grigio

Come ho scritto in altre occasioni, il processo di narrativizzazione che ha investito in queste ultime decadi la poesia italiana trova qui una perfetta esemplificazione: fare una poesia della «indecenza del grigio», dei «modesti fatti quotidiani» in cui si sveli lo «sgretolamento del mondo contemporaneo», come scrive l’autore,  «sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo» è un progetto che è stato già perseguito nel secondo novecento dalla poesia di adozione milanese e lombarda, Guido Galdini è tra i più bravi in assoluto in questo tipo di poesia, ma mi chiedo se ci sia ancora spazio per uno sviluppo ulteriore in questa direzione; quella narrativizzazione, quel pedale basso, quel lessico «grigio» una volta pigiato a tutto tondo non può essere schiacciato oltre, e i nodi estetici vengono al pettine. Questo stare ossessivamente qui e ora che la poesia dei lombardi si ostina a percorrere, rischia di rivelarsi un vicolo cieco.

Quella narrativizzazione della poesia contemporanea, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio, suasorio e minimal del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» del discorso poetico ad inseguire il narrativo.

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grafica di Lucio Mayoor Tosi

E allora occorrerà fare un passo indietro: la riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla defondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della defondamentalizzazione del soggetto (e dell’oggetto). L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante, avrei qualche dubbio sulla scelta di porre una poesia intorno al «soggetto» perché dovremmo chiederci: quale «soggetto»?, quello che non esiste più da tempo?

Ritengo che la poesia non possa essere esentata dalla investigazione della crisi del «soggetto», che una «nuova ontologia estetica» non può non prendere a parametro del proprio comportamento questa problematica.

Però, però c’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico.

In questa forma di pensiero noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, credo, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente, da Vincenzo Vitiello nelle due domande postate qualche giorno fa e in accordo con il pensiero di Massimo Donà secondo il quale la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).

Allora, sarà chiaro quanto andiamo dicendo e facendo: che la poesia deve ritornare ad essere MITO; si badi non racconto mitopoietico o applicazione e uso strumentale della mitologia, ma «mito». Innalzare a «mito» il racconto del «reale», un po’ quello che ha fatto Kafka nei suoi romanzi e racconti, quello che ha fatto Mandel’stam nelle sue poesie della maturità, quello che fa la poesia svedese di oggi, ad esempio, tre nomi per tutti: Werner Aspenström, Tomas Traströmer, Kjell Espmark.

È finito un concetto di «reale» – Inizia un nuovo realismo

Il limite della poesia italiana di questi ultimi cinquanta anni è che è restata ingabbiata all’interno di un concetto di «reale linguistico» asfittico, chiuso (vedi l’egemonia di un certo lombardismo stilistico molto affine alla prosa), un concetto di reale che seguiva pedantemente la struttura della sintassi in uso nella narrativa media italiana, un positivismo sintattico che alla fine si è dimostrato una ghigliottina per la poesia italiana, un collo di bottiglia sempre più stretto… Ad un certo punto, i poeti italiani più avvertiti e sensibili si sono accorti che in quella direzione non c’era alcuna via di uscita, e hanno cercato di cambiare strada… La «nuova ontologia estetica» altro non è che la presa di consapevolezza che una direzione e una tradizione di pensiero poetico si erano definitivamente chiuse e non restava altro da fare che cercare qualcosa di diverso…

Con poesia Linguaglossa 1

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Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Salvatore Martino, Ghiannis Ritsos, Vincenzo Petronelli, Andrea Emo, Martin Heidegger, Massimo Donà – Sul nichilismo, l’ontologia del novecento e la nuova ontologia estetica – il Signor Estraneo alla porta? – Riflessioni intorno alla Cosa – Il problema Leopardi Hölderlin

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Onto Gino Rago_2Gino Rago
Per una Nuova Estetica

(Versi per Luciano Nota, Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Lucio Mayoor Tosi)

Duchamp giocava meravigliosamente a scacchi.
Bussò senza preavvisi quel giorno d’incanti alla sua fervida mente.
In quel giorno speciale compì il gesto decisivo per l’estetica e la filosofia:
a New York espose uno scolabottiglie.
Disse al mondo che: « L’arte non è l’oggetto reale.
Ma è l’oggetto immaginario che tu cogli
quando ne hai distrutto le sue relazioni oggettive reali.
Perché soltanto distruggendo le condizioni oggettive reali
balzerà fuori l’oggetto immaginario.
L’oggetto della sensibilità.
L’oggetto emotivo pronto a farsi “Cosa”».
(…)
Malevitch comprende questo gesto.
Più tardi espone un quadrato nero in campo tutto bianco.
Poi fa di più. Mostra un quadrato bianco in campo tutto bianco.
L’arte tocca il suo annientamento. Noi siamo al silenzio.
(…)
Di morte in morte, di negazione in negazione.
L’ ”arte-araba fenice” risorge dal suo stesso fuoco e si rinnova.
Sulle ceneri di parole secche date alle fiamme da Giorgio Linguaglossa
si levano parole nuove. Ecco la morte dell’arte di Hegel
(che Benedetto Croce non comprese).

 Onto Linguaglossa tristeGiorgio Linguaglossa

25 luglio 2017 alle 12:03

Verso una «nuova ontologia estetica». Riflessione intorno alla «Cosa».

È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.

Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.

La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.

È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.

Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.

londadeltempo

26 luglio 2017 alle 0:36

Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!
(Mariella)

Onto Grieco

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

26 luglio 2017 alle 8:22

UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta,

gentile Mariella,
forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».
Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).
La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita.

Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:

la soglia non varcata

Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.

Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.

Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica»,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica. 

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta.

Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.
Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Onto Pound

Steven Grieco-Rathgeb

25 luglio 2017 alle 12:25

Complimenti per il post molto interessante! E da questa ennesima variazione sulla figura di Odisseo, vedo che essa gode di buonissima salute, anche se somiglia molto più all’Idra ormai, che non al barbuto guerriero nonché eminenza grigia degli Achei: ma un’Idra alla quale tutti gli Ercoli postumi non riescono a venire a capo!
Bello questo, e interessante. Gli avataar di Ulisse dunque continuano.
Tanto per aggiungere qualcosa ancora, riprendo (e un po’ aggiusto) questo mio commento fatto l’anno scorso su L’Ombra delle parole, in qualche modo anche echeggiando il commento di Guglielmo Peralta:

“…E a proposito di quel passo nell’Odissea (i.e., il canto delle sirene): come facciamo a sapere che Ulisse non avesse proprio in quel momento rifiutato un sapere più profondo, messo in guardia contro questo sapere dai conservatori della sua cultura, dai suoi riduttori? …Così anche per il passo che narra la vicenda di Calypso, falsamente (forse) rappresentata come seduttrice di uomini che soltanto promette una melensa immortalità… In realtà, sono gli stessi dei che infine decidono che ad Ulisse venga negato un sapere realmente cosmico (così mandano Ermes a “liberarlo”); che per lui ci sarà soltanto la saggezza (non da poco!) di un uomo che ha vissuto le mille esperienze della vita. Solo in questo modo Odisseo può, nel corso delle sue peregrinazioni, entrare come Uomo nel Tempo, diventando Primo della stirpe “occidentale”: deve tagliare il cordone ombelicale con l’Asia, smarrire la conoscenza di un cosmo più vasto, conoscenza che in Occidente aspetterà lunghissimi secoli, fino alla fisica e astrofisica degli ultimi 150 anni, per ritrovare il filo. ”
Rimane da dire che quasi tutta la tradizione occidentale vieta letture più profonde dell’Odissea e dell’Iliade, Eppure ci sono pochi grandi studiosi che sono andati cercando in questa direzione.

Onto Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

giorgio linguaglossa

25 luglio 2017 alle 17:16

Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.

Il problema che Odisseo apre è quello della libertà. La sua astuzia, propriamente umana, è il tentativo di ritagliarsi uno spazio di manovra tra l’Ananke decretata dagli dèi. Ma se c’è Ananke non c’è libertà. Odisseo pone questo problema, la sua è una figura intensamente drammatica, il suo nostos è la ricerca di uno spazio di manovra tutto umano tra gli editti contrapposti degli dèi.

Sorge il problema del logos e della libertà, dei loro rapporti e del loro carattere ontologicamente antinomico, paradossale, controvertibile…

Ecco come risponde il filosofo Massimo Donà in una intervista che lo invitata a pronunciarsi in proposito:

«la libertà non ha a che fare con ciò che si dimostra, è un’istanza che sfida ogni logos, infatti, se essa fosse oggetto di dimostrazione, sarebbe un oggetto di necessità.
La libertà è quel buco nero che il logos non riesce a dominare, perché ne è il cuore inassimilabile, quel nucleo profondo che contiene l’errore stesso dal quale vuole difendersi; ma è proprio in quell’errore che sta la sua radice. Qui la verità non può essere consapevole. Per come dice Severino, la verità continuerà sempre a percepire l’errore come fuori da sé, come altro da sé, ma in realtà agisce nel profondo della sua struttura, è il logos, è la verità stessa. La verità dunque, si delinea come questo fondo inassimilabile, ingiustificabile, indimostrabile, che mette in crisi il logos che vuole sempre dimostrazioni, che vuole λόγον διδόναι (logon didonai) cioè rendere ragione di tutto. Quindi è il fondamento stesso della verità ad essere ciò di cui non si può rendere ragione; d’altro canto, se il fondamento fosse fondabile non sarebbe fondamento. Il fondamento è palesemente infondato, e noi che vogliamo fondare tutto non ci rendiamo conto che il fondamento è il massimamente infondato.»*

http://www.ritirifilosofici.it/?p=4059

Onto Fernando Pessoa

Fernando Pessoa

Il responso di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere
[…]
«nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*

* citato da Adalberto Coltelluccio in
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.

onto Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

26 luglio 2017 alle 7:08

Sulla poesia del nichilismo e l’ontologia tradizionale

Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose.
Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive:
“Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.

giacomo-leopardi-volto

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 12:17

Scrive Heidegger:

«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:

« Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben. »
(IT)
« Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata. »
(In GA 39 p.22)

La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden)[73].

Leopardi, al contrario di Hölderlin, non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Salvatore Martino

26 luglio 2017 alle 12:57

Dimenticando tutto questo discettare sulle varie interpretazioni del nichiismo( mi sembra che ognuno abbia una sua ricetta universale) tornerei volentieri al mito di Odisseo e alla poesia..
Vi propongo qui un testo scritto nel settembre del 1968 da Ghiannis Ritsos. Fa parte di una raccolta intitolata Ripetizioni.
Credo che chiunque possa valutare cosa significhi la rivisitazione di un mito facendo grande poesia.

La disperazione di Penelope

“Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare: non erano
gli stracci del mendicante, il travestimento, – segni evidenti
la cictarice sul ginocchio, il vigore, l’astuzia nello sguardo.
Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una giustificazione,
un rinvio, ancora un po’ di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
vent’anni d’attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si gettò senza voce su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo , come guardasse
morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,
sentendo estranea, lontana la sua voce. Nell’angolo il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto, e tutti gli uccelli che aveva tessuto
con fili rossi brillanti tra il fogliame verde, a un tratto
in quella n notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi nel cielo piatto della sua ultima pazienza.

Ecco a mio giudizio un modo di raccontare in poesia, in questo caso grande poesia, un evento mitico rivisitato rispetto alla sua origine.
Sintesi drammatica e drammaturgica, immagini che raccontano per folgorazione, visionarietà, descrizione perfetta dei personaggi, in pochissime parole, la cadenza musicale che resta persino nella traduzione (Nicola Crocetti) la feroce meditazione sul tempo e sulla inutilità dell’attesa, l’inutilità del grande gesto, l’essiccamento di ogni desiderio, la morte dei sogni, l’indifferenza totale verso un uomo amato e che ritorna e non è più lo stesso.E tante altre cose che ciascun lettore può incontrare.
Certo in una versificazione come questa pregna di pathos e di kommos forse gli esponenti della NOE troveranno tanto da ridire e da non condividere. Non siamo nell’arido svolgimento intellettualistico-razionale dell’azione, dove lo spirito è cancellato, nella proposizione matematica della parole, senza alcuna allusione, forse l’unico elemento che apprezzeranno la mancanza di un Io personale.
Concordo con molti degli appunti di Livia, di Borghi e stavolta persino di Tosi, anche se non ne posso più di Nichilismo( l’ho frequentato per anni e ancora lo frequento nella mia poesia, per cui noni mi va di parlarne tanto, filosoficamente, preferisco far parlare i miei versi). Anche le ossessive notazioni sulla NOE ormai quotidiane credo di averle digerite e quasi non le guardo più.
Mi piacerebbe vedere commentata su queste pagine la poesia di Ritsos, ci terrei in maniera particolare per chiarire anche a me stesso alcuni misteri.

onto duska

Duska Vrhovac

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 16:21

caro Salvatore Martino,

la poesia da te postata di Ritsos è una grande poesia, interpreta un mito ma non fa mitologia, fa pensiero, pensiero sul destino umano, parla per tutti gli uomini, fa parlare il mito per tutti gli uomini a venire, ci parla del nostro destino, del destino di estraneità che colpisce noi tutti quando torniamo al nostro focolare dopo venti anni…

Ritsos fa parte di una civiltà letteraria che c’è stata nel passato, la NOE fa parte di una nuova in-civiltà letteraria, sono due approcci diversissimi alla poesia, non si possono comparare gli approcci… gli esiti sì, ma potranno farlo (forse) coloro che verranno fra cento anni (se bastano), oggi tutti i «poeti» sono in competizione tra di loro per poter emergere a danno di tutti gli altri, c’è una competizione asperrima senza esclusione di colpi. Uno spettacolo desolante. Mi chiedo: come fanno costoro a leggere una poesia di un altro autore? La verità è che Nessuno legge Nessuno, anzi, se tu hai delle qualità, fanno di tutto per oscurarti…

Il problema oggi in Italia è che manca un linguaggio critico. E manca da circa cinquanta anni. Quel linguaggio curiale che tutti usano per parlare di «poesia», quel linguaggio di derivazione semi accademica e conviviale, è esautorato di qualsiasi credibilità, non vorrai spero mettere in dubbio che le “recensioni” che si fanno dei libri di poesia sono delle schedine anodine anonime che puoi cambiarle e adattarle a tutti i libri senza che l’ordine degli addendi ne nuoccia.

Il problema è che manca un linguaggio critico perché mancano i poeti. Un «poeta» che mi legge sa benissimo cosa voglio dire e a cosa voglio alludere, non c’è bisogno di altre parole. In proposito, ripropongo quello che avevo scritto in un altro mio commento recente:

7 maggio 2017 alle 9:56

Ha cessato di esistere il linguaggio critico militante della poesia

Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai 50 anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.

È per questo che io ho dovuto forgiarmi, «quasi» da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, la psicofilosofia… ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio (personalissimo) linguaggio critico che qualcuno (molto ignorante) ha definito «inventato»; e in effetti è «inventato», perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altre cose, è il prodotto di una continua invenzione, non lo si trova già bell’è fatto.

In effetti, il linguaggio critico con cui commento le poesie su questa pagine è un linguaggio «inventato», non avrei potuto fare altrimenti.
E poi, un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi 50 anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico: non si ha più un linguaggio critico; voglio dire che quel linguaggio critico che non ha più un riscontro di comprensibilità con un pubblico di persone colte e libere, quel linguaggio, dicevo, cessa semplicemente di esistere.

Vincenzo Petronelli voltoVincenzo Petronelli

27 luglio 2017 alle 19:51

Caro Giorgio, il tuo è probabilmente un linguaggio “inventato”, secondo i canoni della critica letteraria accademica (e da ex ricercatore mi sento di poter affermare, senza ombra di smentita, che il mondo accademico italiano ormai rappresenti solo sé stesso e probabilmente nel mondo letterario ancor più che nel limitrofo ambito storico-antropologico da cui provengo), ma si può decisamente sostenere che sia un’invenzione provvidenziale per chiunque – come credo la maggior parte dei convenuti nella NOE – cerchi una “nuova strada” alla poesia in Italia.Personalmente devo ribadire il concetto già altre vole espresso, che l’incontro con la NOE ha avuto per me la stessa forza ipnotica e rivelatrice che si prova quando si decide di varcare, dopo averli lambiti per anni, dei sentieri rurali prospicienti il centro abitato e che pertanto non suscitano apparentemente grande curiosità, ma che una volta imboccati svelano dei tesori nascosti e di inestimable malia paesaggistica.Il nocciolo della questione secondo me, si annida nel tuo passaggio all’interno di questa riflessione, in cui evidenzi come l’arte e principalmente la poesia, si qualifichi nel momento in cui sia capace di offrire un contributo decisivo al superamento del dato “sensibile” o non ha più ragion d’essere (o diciamo che perde buona parte della sua ragion d’essere); deve cioè mirare partendo dal nucleo iniziale “noumenico” base evidentemente del percorso cognitivo umano, al “ding an sich” per dirla Kantianamente. Tale percorso, probabilmente a causa del materialismo ed al suo addentellato scientista che hanno caratterizzato, in modo pervasivo, il pensiero occidentale del novecento, si è incagliato, facendo smarrire alla poesia tale significato a partire dagli anni settanta, quanto meno per quanto riguarda le sue espressioni prevalenti in quello che comunemente soliamo definire “mondo occidentale”: in particolare in una realtà come quella italiana, nella quale a tale deviazione antropologica, si affianca la pochezza provincialistica dei salotti e delle varie consorterie di potere annidatesi attorno alla letteratura.L’apertura della poesia ad un contesto olistico, riconducendola ad un dibattito culturale più ampio intersecantesi con le altre arti (in particolare le arti visive, come ben dimostra il nostro amico Lucio Mayoor Tosi), la filosofia e le altre scienze umane, certamente permette di chiarire e definire meglio la parabola che dovrebbe caratterizzare l’esperienza poetica stessa, in quanto la sveste dell’albagia di cui molti presunti poeti l’hanno ammantata, restituendola ad una dimensione universalistica aperta ai grandi interrogativi dell’umanità. In questo senso la mitologia è senz’altro uno dei terreni di confluenza più fertili verso cui poter indirizzare una poesia rinnovata, grazie alla sua immediatezza immaginifica capace di sintetizzare quasi istintivamente la condizione universale dell’uomo, ponendosi oltre il dato visibile, oltre la parola,l’orizzonte, l’effimero del dicibile, oltre il materico, approcciando direttamente il “mistero” (come l’hai più su definito), la trascendenza, il rapporto con l’eterno, cui l’uomo tende per sua natura e nel tentativo di raggiungere i quali l’esistenza individuale si coniuga in “epos”; ma oggi il pensiero occidentale fatica sempre più a confrontarsi con tali dimensioni, come dimostra (tanto per citare un tema che mi è particolarmente caro) ila sempre maggior conflittualità che contrassegna alle nostre latitudini il rapporto con la morte. Eppure la memoria della storia recente, come giustamente evidenziavi Giorgio, dovrebbe essere di monito in questo senso, perché tutto il complesso delle sovrastrutture, storicamente comprensibili forse, ma esistenzialmente spesso superflue, di cui l’uomo occidentale si è contornato con il materialismo novecentesco, hanno mostrato in realtà non solo la loro caducità ed evanescenza (con la frantumazione del relativo equilibrio posticcio che le nostre società hanno tentato di ricucire loro addosso) ma sono state esse stesse in molti casi alla base del male e della tendenza autodistruttiva che la nostra società ha spesso mostrato e che è ancora in agguato dietro l’angolo, come rapaci in volo sulla preda, come ben dimostra l’andazzo poco rassicurante dei nostri giorni. In questa cornice è difficile pensare alla realtà come una struttura ontologicamente data e mi fa particolarmente piacere che tu abbia citato un poeta a me particolarmente caro ed esemplare in tal senso come Celan. Grazie ancora a te Giorgio ed a tutti gli amici i cui interventi rendono sempre estremamente stimolante (nei momenti in cui il lavoro me lo consente) la lettura dell’ “Ombra”.

 

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Massimo Morasso POESIE SCELTE da L’opera in rosso (Passigli, 2016) Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità

foto-web_c_pierre_sauvageot_champ_harmoniqueMassimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Germanista di formazione, è poeta, saggista, narratore, traduttore, critico letterario e d’arte. Nel 1998, ha curato la riedizione del “Supplemento Letterario del Mare”, il foglio italiano di Ezra Pound. Nel 2001 ha scritto la “Carta per la Terra e per l’Uomo”, un documento di etica ambientale declinato in tesi che è stato sottoscritto anche da 6 premi Nobel per la Letteratura. Ha collaborato a molte riviste, letterarie e non solo, e ne dirige una. Tradotto in più lingue, è presente nei cataloghi di editori quali Jaca Book, Marietti, Einaudi, Nutrimenti, Raffaelli, Moretti & Vitali, Passigli. Fra le altre cose, ha pubblicato il ciclo poetico de Il portavoce (1995-2006) e due libri apocrifi nel segno unico dell’attrice Vivien Leigh. I suoi ultimi libri editi sono Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014), un ampio zibaldone metaletterario, L’opera in rosso (Passigli, 2016) e Fantasmata (Lamantica, 2017).

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa, grafica Lucio Mayoor Tosi

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità»

Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…

(Steven Grieco-Rathgeb)

 

Adorno, ha scritto: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità», «veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», «il tutto è falso», «non si dà vera vita nella falsa».1 Mi sembra una buona piattaforma per introdurre il libro di Massimo Morasso.

Il suo [di Massimo Morasso] voler perseguire l’inautenticità, la menzogna, la falsità della dimensione estetica dell’«io», il suo voler evitare a tutti i costi il teologismo della «verità» della sfera estetica dell’«io», il suo aderire ad una sintassi spezzata e frammezzata non sono episodi desultori dovuti al capriccio, si tratta di una precisa petizione di poetica. Non v’è chi non veda che il soggetto non può essere reperito nel suo semplice voler dire, nel suo dirsi, senza che nel frattempo qualcosa non abbia già minato, con la sua presenza, con la sua traccia di presenza-assenza nel soggetto, la sua stessa intenzionalità espressiva. Quel soggetto è piuttosto rintracciabile negli inter-detti, nei retro pensieri, nei quasi pensieri. È questa la problematica che sta al fondo de L’opera in rosso, al pari della poesia più evoluta di oggi. Nella misura in cui qualcosa si articola in parole e perviene alla coscienza linguistica, qui si consente l’articolazione del discorso, ovvero, l’articolazione delle rappresentazioni linguistiche. La percezione di idee, immagini, pulsioni cieche devono traslare in un universo metafisico-simbolico, ciò diventa essenziale affinché sia possibile qualcosa come un processo di pensiero linguistico conscio, e quindi un discorso dell’«io»ۛ. L’Io diventa così quell’istanza che prende luogo nello spazio che si apre tra percezione e coscienza linguistica.

Lo scetticismo di Morasso io lo interpreto così,  è, a mio avviso, una reazione agli indirizzi degli ultimi lustri della poesia italiana maggioritaria, compromessa con un apparato neo-musical-pittorico integralmente nomologico e narrativizzato; scetticismo che non si acquieta in esiti neomanieristici come avviene in molte componenti della poesia di oggidì. Certe dichiarazioni lasciate cadere opinatamente nei testi sono indicative di una precisa posizione di poetica: «L’ultima notte? Ci sono molti modi per descriverla»; «Ci sono nove modi di guardare una finestra». Morasso si muove con decisione verso una poesia che abiti stabilmente una molteplicità di punti di vista, una poesia della relatività allargata, dove lo spazio e il tempo si scambino spesso di ruolo. Quello che ne risulta è un dettato poetico stabilmente desultorio, con movimenti frastici sussultori e ondulatori che frammentano e inficiano l’ipoteca stilistica pregressa inscritta in un endecasillabo sottoposto alla severità della custodia vigilata. Il mio augurio è che questa sia la via del futuro prossimo venturo della poesia morassiana.

Gillo Dorfles ci dice che oggi «ci troviamo di fronte al più colossale e ubiquitario inquinamento immaginifico cui la nostra civiltà abbia assistito». Preso atto di ciò, forse la strada giusta è questa de L’opera in rosso dove tutti i linguaggi poetici del secondo Novecento sono  rinvenibili, ma come in «vitro», in plexiglass, in una forma biodegradata e commutata in un linguaggio di inedita fattura morfosintattica.

Da lungo tempo nella poesia italiana recente, dalle Alpi alle Piramidi, vale il motto: Loquor ergo sum, parlo dunque sono, le cose esistono in quanto le pronuncio, le pronuncia quell’«io» che si auto produce e si riproduce nella illusoria convinzione di essere il centro attorno a cui ruoterebbe la poesia posta sul basamento dell’«io».

gif-maniglia

Ecco, possiamo dire che Massimo Morasso liquida questa petizione e parte invece dal punto di vista opposto, da una visione «ontologica» e morfologica della poesia nella quale il locutore ha cessato di essere il fondatore di alcunché e si rivela essere un semplice fonatore, un postino della parola nella quale il «reale» è dato da «nove modi di guardare una finestra / o addirittura dieci se a guardarla sono i morti». Questo è l’assunto dal quale anch’io partivo nella mia ricognizione della «nuova poesia» di questi ultimi anni, esperienza poi confluita nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016), e mi fa piacere constatare ogni giorno di più che, fuori della Antologia, c’erano e ci sono poeti che si muovevano (e si muovono) nella direzione che avevo anch’io individuato dopo la dissoluzione e disfunzione di tutti i «modelli» e i «canoni» che le istituzioni poetiche maggioritarie avevano tentato di statuire in questi ultimi quaranta anni. Con la dissoluzione dei «canoni», in Italia come in Europa, anche la forma-poesia andava di pari passo dissolvendosi in una nuvola di gassosità narrative e di minimalismo acrilico. Non è per caso che un autore avvertito come Massimo Morasso, prenda atto di questo processo di irreversibile degrado delle forme estetiche e tenti una inversione di rotta imboccando corsie laterali e, infine, una vera e propria inversione ad “U”, come si dice nel gergo del codice della strada.

Ecco allora la necessità per Morasso di ricostruire la forma estetica a partire da una diversa morfologia del discorso poetico: il frammento, o la struttura frammentata.

Scriveva Walter Benjamin:

«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2]

Il concetto di «costellazione» è importantissimo anche per la Nuova Ontologia Estetica, le immagini si danno soltanto in “costellazioni”. L’immagine dialettica si oppone alla epoché fenomenologica, è una diversa modalità di percepire gli oggetti attraverso la «fruizione distratta», non più attraverso la «contemplazione» di un soggetto eterodiretto, e la percezione distratta è un fenomeno tipico della modernità, fenomeno ben presente all’alba della poesia del Moderno, ad esempio nella poesia di Baudelaire.

Dal punto di vista della NOE il ripristino della percezione distratta e il concetto di immagine come «dialettica della immobilità», sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, Orhan Pamuk, De Lillo, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi…

Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione permanente (che non è certo quella della dittatura del proletariato ma quella della dittatura delle emittenti linguistiche… anche le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche…).

Oggi la «percezione distratta» è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di immagine in movimento, immagine dis-tratta… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani…

Così commenta Alessandro Alfieri nel n. 28 della Rivista “Aperture” del 2012: «I frammenti sono da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto, ovvero, il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la scrittura saggistica su determinati argomenti o autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico».3]

Stante quanto sopra, non v’è chi non veda la stretta attinenza di questa problematica con il metodo compositivo della NOE, ad esempio della poesia di un Mario Gabriele; la sua  [di Gabriele] strategia compositiva è più simile al mosaicista che sistema con tenacia e pazienza le singole tessere di un mosaico-puzzle piuttosto che ad un amanuense che scrive i suoi endecasillabi sonori e i suoi ipersonetti. Gli «stracci» e i «tagli», le citazioni,, le faglie, le schisi e i titoli da cartellone pubblicitario di Gabriele sono tessere iconiche e semantiche di un mondo frammnentato e frammentario abitato non già da una nicciana «verità precaria» ma dalla stessa precarietà della nozione di verità e della sua umbratile condizione ontologica nel moderno avanzato. Continua a leggere

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Laboratorio di Poesia de L’ombra delle parole, Roma 8 marzo 2017 – Libreria L’Altracittà – Lettura  del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive – Nota di lettura di Letizia Leone del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla 

Steven Grieco 8 marzo 2017 Luciana Vasile

Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Steven Grieco Rathgeb e Luciana Vasile

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com

Steven Grieco Giorgio LInguaglossa Letizia Leone 15 dic 2016Nota di Lettura di Letizia Leone

L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.

Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59)  raccolti in  “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.

La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.

Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.

Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.

La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un    confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.

Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).

Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.

Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto  delle tensioni globalizzanti.

Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.

Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:

Questo mondo, riflettevo, o soltanto / Un’immagine? Ero incerto anch’io.

laboratorio-steven

laboratorio di poesia L’Altracittà, Steven Grieco Rathgeb

La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.

Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).

“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.

Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico. 

Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.

E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.

Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.

L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.

“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):

Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.

 

Steven Grieco 8 marzo 2017

Laboratorio di Poesia 8 marzo 2017 Steven Grieco Rathgeb

Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive

 Abbasso lo sguardo. Su un tavolinetto circolare, appoggiati un po’ alla rinfusa, tanti libri. L’occhio di bue si accende su “Entrò in una perla”. Mi cattura. È un Caso – nel quale non credo – che abbia messo a fuoco solo quella copertina, il resto nella nebbia? In effetti quel titolo conferma la mia convinzione che sia il vuoto a disegnare il pieno. Il pieno della perla disegnato dal vuoto rarefatto del pensiero che si fa parola. Anima contenuta nel corpo, e non viceversa, come istintivamente saremmo indotti a pensare. Ingrandisco ancora l’immagine: l’autore Steven Grieco-Rathgeb.

Ora quel libro ce l’ho fra le mani. Lo sto per aprire. Sono curiosa. Scoprire in me le sensazioni che mi donerà la sua lettura. Perché la parola prima di tutto è comunicazione. Sono consolatori i momenti nei quali si supera la solitudine, alla quale è condannato l’essere umano, quando si trova consonanza, vicinanza fra l’IO che legge e il TU che scrive. Dipende da ciò che si tatua nella nostra sensibilità e comprensione nell’anelito di ri-conoscersi che è un attimo e/o del conoscere che è molto più lento. Sono pronta a dedicarmi all’ascolto.

Scorro con lo sguardo i segni neri e gli interstizi. A gruppi di non più di tre/quattro versi la distribuzione sul foglio bianco. Eloquenti le pause, geografia nel mare aperto del non detto. Anche la poesia ha una sua rappresentazione grafica, il disegno-progetto partecipa al significato. Io assorta. Non resto colpita nei sensi, ma il desiderio è di penetrare il frammento di un pensiero che a distanza rincorre altro pensiero, dove la mente divaga libera, galleggia nelle immagini e lancia concetti.  Dice il poeta (pag. 61): Nel silenzio la poesia parlò/ le sue parole come liane/ di un rampicante/ che saliva/ ogni nodo più alto/ verso un aprirsi, una trama/ sorpresa/ in altro esistere/ … Primo attore del libro è l’IO-pensiero che dialoga e palpita con la natura, gli alberi, i fiori; con lo sciabordio dell’acqua; con la realtà del mondo nelle sue molteplici espressioni; con l’inseguire la luna e raccontarne, attraverso lo stupore, il mistero della sua pienezza (pag. 19):

Ora che sei sorta, luna-cenere,/ quasi invisibile nella notte appena fatta,/ nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,/ mi chiedo come questo orlo di luce/ esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina/ del tuo sferico splendore./ … Possa io stanotte/ dimenticando la distanza/ dire l’oscura sfera della tua pienezza.

Da parte del poeta una continua attenzione alla parola, che esiste nella sua stessa negazione, nel suo stesso inganno (pag. 35) :

Impara l’etimo di leggere./ Significa raggiungersi dentro e oltre se stessi,/ sfiorare in ogni attimo la follia?/ O esiste chissà dove la soglia/ che varchiamo verso un’origine nascosta?/ Le parole che da ogni lato si volgono false,/ non ti mostreranno tutto il visibile/ (ché lo stesso guardare così presto vanifica)/… (pag.39) … così le parole mi volano dalla bocca/ e qualcuno tende un filo/ di sillabe al cielo/ e non so come farle/ ricadere giù, una dopo l’altra,/ sprofondate nel sonno.

Steven Grieco 8 marzo 2017-3

Laboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà 8 marzo 2017

Da parte del poeta una intensa riflessione filosofica nell’approfondimento del (pag. 41):

come se il nostro rischioso oscillare/ fra l’identità e il suo inganno,/ fosse “noi”,/ scissi per sempre fra questo e quello:/ … E ancora fino a spingersi all’orlo dove alberga l’anima (pag.43): …  E se l’universo fosse”un basamento intorno/ alla bocca del pozzo”: un basamento/ di pietre tratte dall’unico splendore/ delle sue stelle remote;/ con quanta fiducia/ ci spingeremmo all’orlo, per scorgere/ acqua limpida in fondo a quel baratro,/ berla profondamente con i nostri occhi!.

Rallegra la sintonia fra il TU che scrive e l’IO che legge, che un giorno parlò della liquidità dell’anima, indicando che bisogna fare una capovolta di 180° per immergersi in quel pozzo senza fondo, con coraggio esplorarlo.

Steven Grieco Rathgeb rifiuta la metrica come prigione, evita la musicalità come distrazione, il pensiero è libero – anche da se stesso? -. Privilegia la prosa poetica che meglio si addice a ricreare la frammentarietà del linguaggio interiore fatto di immagini flash non necessariamente conseguenti l’una all’altra, con un nesso logico o seguendo una trama, ma che esprimono lo spazio “dentro” arredato di ricordi, esperienze, visioni, in un tempo dell’IO senza cronologia, incurante del battere le ore della pendola. Tutto si dilata in un eterno presente. Il qui e ora è il tempo della scrittura (pag. 89) : …     

 I giorni si muovono veloci o pesanti,/ contraddicendosi: identici/ in come tornano sui propri passi,/ La loro irreplicabilità mozza il fiato./ Mirabile, il poema che narra questo/ inesausto rinnovarsi,/ Ciò che nelle sue pagine hai appreso ieri/ lo ascolti oggi, e forse avrà un altro senso./…

Come lettore è più diretto individuare in sé le emozioni, le suggestioni dell’Altro che scrive quando riescono a coinvolgerci, pizzicare l’anima senza intermediari. Steven Grieco Rathgeb invece ci costringe, attraverso i suoi versi, ad un impegno più faticoso, e forse per questo intrigante. Quasi una sfida. Ci invita ad entrare, senza timore, nel mondo a volte celato, criptico dell’immagine-pensiero-parola e i suoi estrosi giochi. Ma non tutto sta scritto è decifrabile ed è dato capire. Anzi, si dice, che la poesia possa essere anche mistero, che affascina e fa scattare in avanti, alla ricerca. Partendo dal fatto che istintivamente adoro le cose semplici, ma non mi piacciono le cose facili, mi dico, forse si può arrivare alla verità che, io penso, sia semplice – oppure alle emozioni, che ci fanno intravedere la verità quando lacerano i sensi – anche attraverso la complessità?

Ultimata la lettura, introitate le parole – da quale parte sono entrate? dagli occhi, dalle orecchie, dai pori della pelle che si alzano attenti, dalle sollecitate papille gustative o olfattive, dalla mente che ragiona o dallo stomaco centro dell’IO? – tanti gli interrogativi e le domande, soprattutto a chi come Grieco Rathgeb si muove nella ricca esperienza di diverse civiltà e realtà, e nel percorrere la parola di più lingue madri. Per esempio, Steven in quale idioma pensa? in quale idioma sogna? Per quanto mi riguarda, io, continuerò a ruminare. Ci sto prendendo gusto.

Poesie da Entrò in una perla (2016)

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was changed into air!

into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid

Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on
My heaven has split from top to bottom

And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

ill I thought this life will last forever

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno

*

Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream

You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained
– always so decisive – and every blacknight moth alive
every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld
astronomer beyond thin partitions wondering,
every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –
expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment
– tangible, visible splinters to unseen frontiers
and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and
came hurtling like cries!
Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper
with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers
yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet

Via Merulana, 11 February 2013

Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno

Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta
– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena
ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo
astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena
un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso
discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:
tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere
ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano
lanciate come grida!
Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi
inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –
eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco

Via Merulana, 11 febbraio 2012

Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo

Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.
What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…
And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!

Supersymmetries – Florence, 1999

*

Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo

Il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.
Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …
E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!

Supersimmetrie – Firenze, 1999

letizia leone

letizia leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

Luciana VasileLuciana Vasile è nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da quindici anni, ha  scoperto il piacere di scrivere. E’ fondatrice e Presidente della HO UNA CASA-Onlus.Ha conseguito numerosi premi per la prosa e la poesia. E’ membro delle associazioni internazionali degli scrittori: P.E.N. Club Italiano e Svizzero. “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, 2006 Editrice Nuovi Autori di Milano, ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. “Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, 2008  Fermenti Editrice, volume antologico, curatore Donato Di Stasi.

“Danzadelsé” – Ho ballato per Paparone e altre storie, 2012 ProspettivaEditrice, pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, anche in ebookHa vinto il Premio Internazionale Lago Gerundo 2013 e premiato in altri quattro concorsi. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso… eros, filia, agape”.

luciana.vasile@tin.it

www.lucianavasile.it

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PITTURA E POESIA Rosario La Polla – Gino Rago. Noi siamo qui per Ecuba:   metafora delle vittime – Rimane lei per sempre la Regina, Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori, Noi siamo qui per  Ecuba –  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e Commento di Mariella Colonna

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Note sulla cartella “Ecuba”- Pittura e Poesia Rosario La Polla – Gino Rago.
Caratteristiche delle opere grafiche della cartella “Ecuba”.
Disegni originali ideati ed eseguiti per il presente progetto editoriale – digitalizzati in base
monocroma nera su cartoncino «Tintoretto» – interamente e singolarmente acquarellati a mano dall’Autore e retouché con matita litografica – Tirati in 75 esemplari – cm 33 x 48

Nota di Gino Rago  

Noi siamo qui per Ecuba:  « metafora delle vittime »

Le liriche dedicate a Troia si basano sul destino dei vinti; meglio, sulla sorte delle donne quando sono ridotte a « bottini di guerra ».

Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime, dei  loro corpi umiliati, spogliati  delle loro identità.

Ilio  in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della  deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.

Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di défilé di tre figure femminili emblematiche: Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste donne (« Ecco, piego  questo mio vecchio corpo/ e batto la terra con le mani», un esempio della potenza di Ecuba.)

Noi siamo qui per Ecuba è paradigma su cui meditare e modello da riattraversare fino  alle riscritture prossime a noi  a riflettere gli snodi traumatici del Novecento: Troiane di Franz Werfel  (1914 e 1920); Troiane di J.P. Sartre (1964); Troiane di Suzuki Kadasci (1977) in cui  i fantasmi del mito “ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati” (D. Susanetti), al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti  indicibile,  realtà del presente. Da qui, il “metodo mitico”, nel poemetto espresso per “frammenti”.

Ma in quale teatro d’azione Ecuba, Elena e Andromaca  agiscono nelle liriche a comporre il poema/ciclo di Troia “Noi siamo qui per Ecuba”?

Per una attendibile definizione del perimetro, o dello scenario  d’azione delle tre  onne non si può prescindere dalle memorie dello Schliemann, l’archeologo cui viene attribuita la scoperta di Troia come acme d’una vita interamente consacrata a trarre dalla leggenda una  storica verità.

Nelle sue memorie Schliemann scrive: «(…) Secondo Omero, Troia è vicina al mare, di fronte all’isola di Tenedo e il suo orizzonte va dalla vetta di Samotracia – ove ha sede Poseidon –  al monte Ida dove siede Zeus. I Greci sono accampati presso il mare; la città non deve essere lontana; ogni sera i Greci tornano all’accampamento e i Troiani tornano in città. Quando Priamo va al campo greco a riscattare il corpo di Ettore, raggiunge il campo durante la nottata. Tra i Greci e i Troiani scorre lo Scamandro. Ettore una volta oltrepassa il fiume e si accampa dall’altra parte, facendosi mandare dalla sua città le cibarie; e Agamennone sente i suoni di flauto e vede le luci del campo troiano dalla sua tenda. Sotto Troia si udivano scorrere due sorgenti, una fredda e una tiepida. In questo paesaggio soltanto Achille poteva essere in grado di inseguire Ettore tre volte di corsa intorno alla città… Perciò la mia attenzione si fissò sulla collina, assai prossima al mare, detta Hissarlik…»

Il poema “Noi siamo qui per Ecuba” adotta  queste memorie a base del  teatro, dello scenario d’azione in cui Ecuba e le altre agiscono , ancorché  nel tratteggiare Ecuba debba segnalare che non ho mai perso di vista l’Ecuba dantesca del XXX Canto dell’Inferno:

«…Ecuba trista, misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva/ del mar si fu la dolorosa accorta,/ forsennata latrò sì come un cane;/ tanto il dolor le fé la mente torta».

Ecuba, figlia di Dimante, fu la seconda e fecondissima moglie di Priamo, re di Troia, cui diede 19 figli, morti quasi tutti nel corso o appena dopo la guerra contro i Greci. Caduta Ilio, fu schiava di Ulisse.

                                                                                                               Roma,  gennaio 2013

grecia La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

Rosario La Polla CoverCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il poeta Gino Rago e il pittore Rosario La Polla «cantano» per volere di Mnemosyne. Ed ecco l’Estraneo che si avvicina e il «mito» che ritorna. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich), le nottole del tramonto singhiozzano. E all’approssimarsi del «mito», il tempo ritrova se stesso dopo l’Oblio della Memoria.

La poesia di Gino Rago proviene da Mnemosyne e dall’Oblio della Memoria, dal periechon (dall’infinito della periferia, e quindi del «divino», secondo il pensiero dei greci), dalla perdita dell’Origine e dalla perdita della Patria (Heimat). La sua poesia è il volto codificato del dolore. Il duplice moto di andata e ritorno dal sacro al profano, e viceversa, caratterizza il nunc e l’hic dell’evento che si dà per noi, nella singolarità di un accadimento irripetibile. La guerra di Troia assume l’aspetto di simbolo di tutte le guerre e di tutti gli eccidi della storia umana. La rivisitazione del mito è fatta dalla parte delle donne, delle perdenti, dalla parte di Ecuba, moglie di Priamo e regina di Troia, madre di 19 figli. Il tum dà profondità al nunc per rifrazione e sedimentazione del tempo, e l‘hic, il qui, rivela la singolarità dell’evento. «Nell’evento lo spazio e il tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario, che solo nell’evento rompe la continuità della durata e si rivela come istante, perché solo nell’evento il nunc ha contro di sé l’infinità circoscrivente del semper e fa centro, e il punto non è isolabile se non in una convergenza […] Il tempo circolare è il tempo continuo e infinitamente divisibile del logos, dove nessun istante è isolabile, perché in ognuno il principio coincide con la fine… Ciò è vero anche per il mito dell’eterno ritorno, che fin che è mito, ha sempre valore escatologico… Non appena il logos prevale sul mito, la coscienza religiosa lo sente come un’oppressione e cerca l’evasione nella rottura del ciclo e nell’unione definitiva con l’Uno».1

«Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di “frammento”, che non indica il Tutto se non come un tutto frammentato e disperso. Di qui il “dolore” della poesia».

La gestualità statuaria di Ecuba di Rosario La Polla narra il mito, fissato e immobilizzato nell’eternità del tempo del «sacro». Il nunc è il tempo della mancanza, della povertà.  Il mito invece è narrazione del tempo del tunc. Sia La Polla sia Gino Rago sono i cantori delle gesta del «sacro». È qui che la storia prende forma nelle vesti striate e multicolori della figura di Ecuba tracciata dal pittore di Trebisacce.  La «Forma» è nella magia del colore. La «Forma» è ciò che rimane. Con le parole di Gino Rago: «lei per sempre la Regina», Ecuba e tutte le donne violentate e fatte schiave di tutti i tempi della storia umana. Negli occhi della «Regina» il tempo si ferma, si irrigidisce nel volto deformato dal dolore.

1 Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell’arte 1968, Neri Pozza, p.36.37

2 Michel Foucault Le parole e le cose 1975 p. 139

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Poesie di Gino Rago
Rimane lei per sempre la Regina

Di fronte a noi si muove il re spartano.
A Telemaco vanta le molte virtù e l’astuzia del padre
per la cava insidia nel cavallo di legno. Fatale
ai Troiani ma che gli Achei sottrasse alla rovina.
Noi non siamo qui per Menelao.
Né siamo qui per Elena.
L’amante fuggiasca
che nonostante i crolli, i lutti, le rovine,
il sangue – per dieci anni a correre
ai bordi d’ogni corpo –
sul trono a Sparta siede ancora da regina.
Noi siamo qui per Ecuba,
la sposa ormai prona al suo destino,
la madre a ignorare l’inganno delle dee. Afrodite,
Era e Atena hanno di Paride fatto inerme preda.
«Eppure in cuor mio un tempo amavo i Greci.
Oggi hanno il fuoco negli occhi. Che fine hanno fatto
il rispetto dei vinti, la pietà, la sosta sulle ceneri dei morti.
Chi più ricorda il gesto moderato. L’armonia delle forme …
Sorelle d’Ilio. Fare senno pure nel male. A ciò tutte vi esorto.
Fare senno anche nella sventura. Conviene
alla calma, alla saggezza dopo la disfatta.»
Così la donna china sulla riva si rivolge a tutte le troiane.
Alle spose ferite nell’onore. (Gli sguardi opachi verso terre ignote).
Alle figlie d’Ilio (nel delirio turpe dei guerrieri vincitori).

Le mura franate. I cadaveri umiliati. Il Palazzo violato.
Priamo sgozzato. Lo scettro del Re frantumato…
Noi siamo qui per Ecuba ora che tutto perde.
Ma pure con il passo incerto sulla rena
rimane lei per sempre la Regina.

.
Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori

Ecuba ripudia il vecchio corpo.
Raschia la terra con le mani.
Si lacera il seno di fronte al bimbo morto.
Evoca la voce dei defunti
prima dei giorni della schiavitù.
Noi con Ecuba attendiamo Aurora.
La dea dalle ali bianche diffonde il giorno
chiaro sulla città in fiamme.
Le coste risuonano di morte.
L’urlo di Priamo si strozza nella gorgia
dinanzi alle sue terre a ferro
e a fuoco. Noi siamo qui per Ecuba
già nelle fiamme del rogo finale.
Nuvole di polvere tagliano l’azzurro.
Trono, palazzo, torri merlate:
un tonfo di frantumi su macerie ardenti.
Ilio è un nome scritto sulla cenere.
I troiani senza numero periscono
per i capricci di un’unica donna.
Nemmeno Astianatte viene risparmiato:
il figlio di un eroe spaventa i vincitori.
Noi siamo qui per Ecuba.
Cos’altro ancora manca al suo disastro
perché gli Achei lo sentano completo…
La dimora della Bellezza va in fumo.
La casa dell’amore si sfarina.
La fiamma greca incenerisce Troia.
La Regina sul baratro maledice Atena.
E Thanatos danza
sull’uniforme grido dei frammenti.

 

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Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
senza mai saperlo
forse un’idea. Una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro.
Senza carne.
Noi siamo qui per Ecuba. Tutto le fu tolto
per una bolla d’aria. Dissennato
il massacro sull’Acropoli
per la spartana rapita. Una sposa fuggiasca.
Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta.
A suo dire mossa dall’Olimpo
come fuoco nel sangue o fremito nei lombi
Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.
Siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Sconfitta va verso la nave.
Lo sguardo fisso nell’occhio dell’Acheo.
Quasi a sfida delle avverse dee
nel disastro aduna sulle schiave
la gloria d’Ilio. Eterna come il mare.
La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.
La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.
L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.
Per tutto il tempo viva.
Di cetra in cetra. Da Oriente a Occidente.
Quel sangue prillerà nel canto dei poeti.
Arrosserà per sempre il porfido del mondo.
L’unghia dell’Aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo
alla sua vela : « Si vada verso l’Isola…»
L’inno dei forti piega le Troiane. Si stacca dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

grecia Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

commento di Mariella Colonna

Nell’evocare le vicende di Troia la poesia di Gino Rago è un prodigioso e vertiginoso scorrere di parole – ombra in cui l’assenza dell’evento ormai divorato dal tempo si materializza immediatamente nella presenza “ontologica” dentro il corpo la mente l’anima del lettore, qui adesso: chi riesce a leggerla senza lasciarsi “incantare” dal primo livello di significato delle parole che generano la propria ombra, cioè il mistero che racchiudono, entra nel mondo richiamato in vita dal poeta: chi legge il Ciclo di Troia a cuore aperto è già dentro la città in fiamme, sente l’odore acre del fumo, dei corpi bruciati, brancola nel buio alla ricerca dei sopravvissuti, inciampa nei massi e nelle pietre che si staccano dalle mura e dai palazzi assaliti dalla furia del nemico…poi incontra Ecuba piegata che batte la terra con le mani mentre evoca la forza dei defunti e si ferma a contemplare l’icona statuaria di questa Madre che non teme la morte (come un’altra Madre certamente più cara ma non più drammaticamente “vera” di Ecuba) anzi invoca e quasi richiama indietro i morti con la forza dell’amore che è più forte della morte, sempre sul piano dell’essere dominante nell’epica di Rago, al di là dell’evento storico. Qui adesso, non ieri o l’altro giorno, ho incontrato Ecuba per la prima volta nella mia vita culturale e reale, avrei voluto consolarla, avvolgerla nell’abbraccio dell’amore oltre il tempo ma avrei abbracciato me stessa…ho atteso l’Aurora, la bella dea della luce che esalta la devastazione delle rovine Troia, ma ne fa risaltare la drammatica realtà più forte del tempo e dell’oblio che tutto cancellano: Troia diventa così l’emblema di una civiltà violentata dalla civiltà successiva, da piangere e rimpiangere per la grandezza dei suoi personaggi ed eroi. Ettore, il più grande guerriero troiano, trova la morte per mano di Achille, dopo aver varcato le fontane di fuoco e di ghiaccio presso la torre di Priamo e il suo cadavere viene gettato in pasto agli uccelli. Priamo mortoAstianatte scagliato con furia per le mura d’Ilio / per dare fine alla stirpe troiana…Incendiate le Mura,distrutti i sacri Lari/ perduti affetti e beni“Noi siamo qui per Ecuba”è l’affermazione del poeta, che incide con parole solenni la presenza collettiva (noi) di quelli che provano il suo stesso dolore e la sua meraviglia di fronte al coraggio di una vecchia Regina che ora, nella notte dei secoli, è diventata soltanto se stessa sul piano dell’essere ed è vittima dei più astuti, non dei più forti: una moglie e una Madre in cui si raccolgono coralmente le Madri che sanno amare oltre se stesse e gli affetti terreni, diventando simbolo di tutta la comunità e della terra dove hanno vissuto, messo radici, fatto nascere e pianto generazioni di uomini e di eroi. Questa notte dei tempi che Gino Rago ci fa rivivere nella sua piena e complessa drammaticità ha la potenza di un vulcano che arriva fino a noi in continua eruzione di fuoco lava pietre incandescenti, ci fa sentire nel corpo e nell’anima fino a che punto sia aberrante e assurda la morte in guerra che rende disumani vincitori e vinti: infatti uno dei miti vuole che la stessa Ecuba, che a Troia ci si presenta come una statua di fronte all’eterno, fatta schiava da Ulisse, raggiunto il Chersoneso Tracico, abbia vendicato la morte dell’ultimo figlio Palinuro accecando il traditore Polimestore e facendone uccidere i figli. Questi sono i frutti della violenza folle che spesso rende folli i persecutori  e le vittime. 

Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle parole un anno fa definiva Gino Rago poeta del Mediterraneo: essendo la sua civiltà ideale tramontata per sempre… di qui… nel poeta prende vita la ricerca di una patria ideale da far rivivere con l’ausilio della poesia. E la sua patria Rago la ritrova nel passato mitico della guerra di Troia e nelle sventure delle donne di quella città.

Ma, leggendo altre poesie di Rago ci accorgiamo che, al dramma della civiltà omerica rappresentato nell’Iliade, il poeta associa la consapevolezza di quanto sia generosa oggi la natura della sua terra e di quelli che la abitano…in Fatelo sapere alla Regina: …Siamo ricchi di noi/ dei profumi del sole nelle primavere…Olio e ferite, vino e fatica,/ festa e camicia pulita,/vento fanciullo a danzare/ nell’erba, amore nelle mani/ quando cercano/ altre mani, oblio d’anemoni/ sui nervi delle pietre…

Ecco il contrasto, inciso a colpi di scalpello tra l’ombra profonda del passato con l’epica del dolore che annienta e dell’amore coraggioso che riscatta e la gioia incandescente di sentirsi figlio di una terra dove il sole ha fatto crescere le spighe mosse dal vento, dove si lavora con fatica ma si riprende forza con un bicchiere di vino, dove si è ricchi di se stessi per i canti del cuore/ la saggezza del pane, la quieta/ sapienza del sale:/ per le sciabole/ rosse dei papaveri nel grano. In questa dialettica scultorea tra ombra e luce, tra parole – ombra per evocare e far rivivere il passato e parole – sole e natura  Gino Rago offre in dono al lettore la gioia di esserci, oggi – e senza nostalgie o falsi miti che allontanino dalla meraviglia e dal mistero di esistere.

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Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)   Email:  ragogino@libero.it

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Mariella Colonna

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

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Sabino Caronia OTTO POESIE INEDITE alla maniera di… con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e una Citazione di Alessandro Alfieri

foto-donna-macchina-e-scarpaSabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995).

Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).

Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal».

Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009), le raccolte poetiche Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) e La ferita del possibile (Rubbettino, 2016) .

 giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».1

Nel mondo disincantato anche la proposta di arte più feroce cade nella impostura del razionalismo globale che la vuole ammaestrata e ditirambica, mistica e soporifera, disincantata e perifrastica… È da qui che prende l’abbrivio la poesia carnascialesca e feroce di Sabino Caronia, peraltro cultore e autore di una poesia di idillici stati d’animo e di perifrasi amorose, vedi La ferita del possibile (Rubbettino, 2016). D’altro canto, per Adorno «la disartizzazione è immanente all’arte», «e questa discrepanza non è eliminabile mediante adattamento, la verità sta piuttosto nell’evidenziarla fino in fondo».2 La verità sta quindi nel ritracciare e riesumare i linguaggi già esperiti per evidenziarne, come nel caso in questione, la carica eversiva e scostumata. È quello che fa Sabino Caronia.

Caronia sa che il linguaggio è rappresentativo, instaura l’ordine del senso in luogo di quello dell’essere, inteso come pienezza chiusa, assoluta presenza. Ma allora, che sorta di rappresentazione è mai quella istituita da un significante così inteso?

Semplicemente, risponde Lacan, il significante (non) rappresenta nulla. O meglio, il significante rappresenta quel niente che il soggetto patisce una volta sottomesso alle leggi della parola. Un significante, in sé, non vuole nulla, cioè, non vuol dire nulla. E ancora: non esiste un in sé del significante, perché la significazione agisce nel coordinamento dei significanti tra loro.

L’unica differenza è che Lacan accorda al «soggetto» il posto evanescente del «significato», gli assegna il posto reso vacante oltre la barra, una volta introdotta cioè la scissione all’interno del segno linguistico. Ma se così stanno le cose allora il «soggetto» non è altro che quel nulla che il significante può rappresentare di volta in volta, quel significato che risulta, senza consistervi, dall’operazione differenziale della significazione.

La normalizzazione ha imposto in tutto l’Occidente un’arte, un romanzo e una poesia fattizia e fittizia, in una parola ideologica. Perché Sabino Caronia sa benissimo che c’è una ideologia del bel verso, una ideologia della bellezza, una ideologia per ogni cosa fungibile, e anche che una interiorità che si pretenda pura ha pure il suo loculo al banco dei pegni e il suo luogo nel mercato delle rigatterie; ecco perché Caronia impiega gli stessi stilemi e gli stessi mezzi dell’arte plebea, cafona e cafonesca di un Belli, ne risuscita il linguaggio feroce e imbelle, lo riaggiorna e lo reinventa. Incredibile ma vero, ormai i linguaggi si danno allo stato di frammenti significanti, sono dei corpi essiccati conservati in frigorifero che possono essere rivitalizzati con un buon magistero stilistico e un corredo stereofonico. È quello che fa Caronia.

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E poi c’è ancora qualcuno di noi che ancora non si capacita di questo stato della nostra civiltà, la quale si offre come un gigantesco ipermercato di frammenti, di universalia, e di fetenti e continua a pensare all’arte e alla poesia idealisticamente come ad un discorso immanente che ha un inizio e una fine, un’onda fonetica e altre bazzecole da libro Cuore. Caronia, il rarefatto poeta idillico, sa tutto ciò, lo dà per scontato, ha bisogno di rivolgersi ad un interlocutore concreto: il sottoscritto, il suo mentore, l’Alter Ego, per apostrofarlo in modo beffardo e ribaldesco: «A Giorgio Linguagro’, nun fà er cazzaccio»; il bello è che c’è presente anche il poeta Alfredo de Palchi, citato romanescamente così: «Sor De Palchi»; ed ecco le «settacce bbuggiarone» dei poeti sempre in conflitto e astio reciproco, ci sta il «monnaccio», «er croscione» [la croce che i fedeli portano in processione], l’invito a «Mostra li denti, caccia fora l’ogne». Insomma, c’è un’umanità lutulenta e facinorosa, quella dei poetastri da strapazzo, le poetine da gipsoteca e i poetini da talamo feriale…

Sabino Caronia rivela qui la sua magistrale capacità di metamorfosarsi e mimetizzarsi tra le catene significanti che costituiscono i linguaggi poetici in poeta idillico e in poeta belliano, a secondo delle circostanze. Anche questo rientra  tra le possibilità stilistiche del Post-moderno, questa camaleontica capacità di Sabino Caronia di sublimare e desublimare ad libitum i linguaggi artistici del tempo trascorso ridotti allo stato di frammenti significanti disartizzati e destrutturati.

SUL FRAMMENTO

di Alessandro Alfieri (nel saggio di cui a “Aperture” n. 28, 2012, scrive):

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.

Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.

1 T.W. Adorno Teoria estetica Einaudi, 1975 p. 85
2 Ibidem p.82

Er momoriale

A Giorgio Linguagro’, nun fà er cazzaccio,
svejete da dormì, brutto portrone,
Sor De Palchi t’ha ddato lo spadone
p’annà a rifà le bbucce a sto monnaccio.

Duncue, a tte, ffoco ar pezzo, arza quer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
serreje er tu Parnaso a catenaccio.

Mostra li denti, caccia fora l’ogne,
sfodera n’anatema eccezionale
da falli inverminì come carogne.

A n’omo come noi de carne e d’osso
te l’arivorti tutto, tale e cquale.
Coraggio, amico mio, taja ch’è rosso!

Na bona nova

Se sa, er sor Coso se la lega ar dito
ma mo, dice, se so pacificati.
Che casino! Ma mo’ tutto è finito,
mille scuse, e se so puro abbracciati.

Tra tante delusioni e fallimenti
sta bona nova proprio me consola.
Me dispiaceva ch’arestasse sola
sta pora fija a soffrì pene e stenti.

Dice, però, che prima de fa pace
l’amico nostro j’ha fatto l’esame
pe’ vede’ se sta donna era verace.

Dice che ne lo scritto è annata male
però va mormoranno quarche infame
che s’è sarvata co la prova orale.

Il Giubileo Vecchio

Rinfodera la spada
angelone mio bello
abbandona il castello
e va per la tua strada.

A compiere l’impresa,
Gloria in excelsis Deo,
c’è Santa Madre Chiesa
col Santo Giubileo.

Che giovani giulivi
sui prati a Tor Vergata,
quanti preservativi
e che bella scopata!

Piacere originale,
stato senza peccato!
Che fine ha fatto il male?
L’hanno sponsorizzato!

I miei amici

Dicono che il paese
dell’anima è l’assenza,
io ne ho fatto esperienza
e ne pago le spese.

Dicono che l’amore
ha un suo linguaggio muto
io stronzo ci ho creduto
e muoio di dolore.

Parlan d’amore fino,
d’amore alla lontana,
poi chiedono un pompino
alla prima puttana.

Se

Se veramente fossi
l’amore che tu ami
vorrei che fosse sempre,
che sempre fosse amore.

Ogni giorno sarebbe
il più bello dei giorni,
se veramente fossi
l’amore che tu ami.

Vorrei che fosse sempre,
che sempre fosse amore,
se veramente fossi,
ma sono quel che sono.

Perdono

A chi mi toglie tutto voglio ancora
regalare qualcosa, ultimo dono
che l’accompagni nel fatale andare
su questa terra e quindi oltre la vita.

Sento che sono vecchio e sono stanco
e che per me la fine è ormai vicina,
così, per debolezza, li perdono,
ma confido che Dio non li perdoni.

L’appuntamento

Tacita stella che di notte vai
sempre obbediente ai calcoli del cuore
dammi un appuntamento dove sai,
dove non c’è miseria né dolore.

Il vento ci porterà via

Nella mia breve notte il vento, ascolta,
corre all’appuntamento con le foglie.
Nella mia breve notte, messaggere
di lutto, in cielo passano le nubi.

A che serve un ricordo? Le tue mani
poni sulle mie mani innamorate
e col dolce calore delle labbra
scalda, ti prego, le mie labbra ancora.

Dietro quella finestra c’è la notte,
c’è la notte che passa e non ritorna.
Una notte e poi nulla, poi più nulla.
Domani il vento ci porterà via.

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Alcuni paradigmi dell’opera poetica di Alfredo de Palchi – saggio di Antonella Zagaroli – Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni ricchi di creatività

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni come questo riproponendo un saggio di Antonella Zagaroli sull’opera e la personalità del poeta italiano che vive a New York

 Alfredo De Palchi potrebbe definirsi un crogiuolo di esperienze umane e artistiche, la sua poesia un unicum delle une e delle altre nonché una tantum nel panorama letterario italiano. È a mio avviso cioè una singolarità italiana che precede il pensiero occidentale contemporaneo e anche futuro.

La vita e l’espressione artistica si fondono in lui in modo indissolubile come è sempre avvenuto per ogni autentico artista spesso dai suoi contemporanei isolato, tenuto da parte perché non integrabile nella generalità che li accomuna. Sonia Raiziss sua sublime traduttrice e compagna di vita per un lungo periodo ebbe a precisarlo in modo molto netto: “With Alfredo De Palchi the poet is the man. What he has known, what is has lived, is what he writes(…) The poet is the sufferer and the experience is the metaphor closest to itself.

Lo sottolinea bene Luigi Fontanella all’inizio di uno dei tanti saggi che il poeta e professore universitario (anch’egli diviso fra Italia e Stati Uniti) dedica a De Palchi: “credo che in pochissimi poeti della Modernità il nesso vita/poesia sia stato così stretto, così immediato, così fatalmente necessario, come in quella di De Palchi.1

E dopo aver letto attentamente la sua opera tutta io direi che i “paradigmi” tradizionali non solo della poesia ma anche del pensiero e del comportamento soprattutto di un uomo occidentale non si addicono a De Palchi. Daniela Gioseffi lo definisce “non conformista”2, Roberto Bertoldo parla del “suo piglio unico e dell’assoluta novità di linguaggio che si faceva sentire già nei tardi anni quaranta”3. La lettura evolutiva delle sue poesie ci introducono in un viaggio temporale che arriva oltre la contemporaneità sia nei temi sia nei registri stilistici utilizzati.

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De Palchi è nella vita e nell’opera un paradigma, non a caso è il titolo che lui stesso ha dato al libro che raccoglie quasi tutta la sua produzione poetica, eccetto gli scritti dal 2004 in poi. Paradigma è un titolo plurisemantico, è sì il paradigma, il modello, l’esempio che l’autore si riconosce desiderando altresì che da tale presupposto si rivolga l’attenzione alla sua poesia, contemporaneamente io lo intendo nel significato di enunciazione delle forme fondamentali del verbo (Verbo e anche forma verbale l’aspetto che dà alla scrittura il movimento), dei temi da cui derivano tutti i tempi. Non sono certa che De Palchi abbia volutamente attribuito un tal senso plurimo a tutta la sua opera poetica, sono però convinta che anche da questo punto di vista dovrebbe cominciare ad essere esaminato il suo lavoro. Dovrebbero cominciare a studiare i temi e i tempi dell’opera depalchiana quei critici seri e ascoltati che hanno la possibilità di far raggiungere la sua poesia al maggior numero di lettori possibili.

La poesia di De Palchi affonda profondamente nelle radici, nell’essenza di ogni essere umano, è una poesia terrestre per i temi e sublime per l’anelito, il gusto, il desiderio che lascia dentro chi la legge facendolo sentire accomunato al poeta e anche meno solo. Non è questo il sentire che stimola da sempre la grande poesia?

I tempi dell’evoluzione di pensiero, di scrittura e di esperienza personale li srotola lo stesso autore ponendo puntigliosamente, direi, ogni data precisa dopo ogni poesia.

De Palchi, che già dalla fine degli anni ‘40 ha coniato il neologismo “scentrato”, è proprio uno di quegli artisti che si nutre del punto focale di sé stesso e da questo fa scaturire la sua poesia. Come dirò in seguito il neologismo ha un significato tutt’altro che schizoide. In polemica con coloro che hanno parlato di eccessivo autobiografismo nella sua opera vorrei rilevare che ogni artista potente è stato ed è per forza di cose autobiografico. Coincidono cioè in lui/lei il movimento ideale e concreto che caratterizza il personale stile di vita, le sue scelte e quanto esprime tramite e nella propria arte. A questo proposito mi piace spesso citare una grande pittrice Frida Khalo, a cui sono molto legata. La Khalo a chi le chiedeva perché dipingeva essenzialmente autoritratti rispondeva che era spesso sola e se stessa era la cosa che conosceva meglio. Questo il punto, si scrive, si dipinge, si compone musica, si progettano sculture e architetture, si dirigono film partendo dalle cose che più si conosce. Che poi queste diventino patrimonio comune dipende dalla ricerca severa delle modalità che ogni creatore dovrebbe proporsi per raggiungere al meglio ciò che lo muove nell’azione espressiva.

Credo non esistano creatori autentici scissi da se stessi, possono essere separati, isolati dal contesto sociale perché troppo avanti (nella storia della cultura tutta quasi sempre è accaduto) ma non dal loro centro personale. L’arte e la cultura prodotte nell’ottica della scissione, cioè “cosa faccio di me è cosa diversa da quello che realizzo”, possono vivere il fuoco fatuo del successo, della fama in vita, delle vittorie, ma appartengono più al potere. La cultura è stratificazione di scoperta continua, di ricerca instancabile nella quale si intravede, si intuisce la visione dell’insieme. Un artista autentico non parte dall’idea di canonizzarsi e quindi segue il canone formatosi nei secoli, un artista autentico segue la spinta interna e cerca di realizzarla al meglio se poi ciò accadrà in vita o meno dipende anche dalla sua fortuna individuale (di solito legata al carattere), ma anche dalle difficoltà concrete (come accade per i tanti creatori perseguitati dal potere durante tutta la loro esistenza in passato come nel presente) e soprattutto dal coraggio di scavare senza remore ciò che vuole profondamente e di restituirlo senza ambiguità agli altri. Entra così nel canone, nel flusso ondulatorio, cioè, in cui gli esseri viventi sono immersi sapendo che “ è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso.” 4 come scrive De Palchi.

A questo proposito nell’intervista che Bertoldo pone come preliminare della raccolta di saggi dedicati a De Palchi l’autore dice espressamente: “La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina” Il senso paradigmatico del verbo cui facevo riferimento sta proprio in questo saltellare delle parole, è lì il loro movimento.

Ho saltellato anch’io lungo questa mia prima analisi della sua poesia così variegata.

Il criterio che ho seguito è quello tematico (seguendo soprattutto ciò che mi è affine e per esperienza e per poetica) e non cronologico. La buia danza di scorpione e Un ricordo del 1945 li ho trattati non con grande approfondimento, certo non per disinteresse o perché a me poco attinenti, tutt’altro, soltanto perché molti critici sono partiti o hanno centrato la loro analisi proprio su questi due testi, evidenziandone sia l’importanza poetica rispetto a scritti di altri poeti coevi, sia la matrice profonda da cui deriva tutta la poesia depalchiana e io volevo differenziarmi nel mio primo contributo critico a De Palchi.

Ho deciso di affrontare la complessità della sua poesia secondo un criterio personalissimo, soffermarmi o su testi che sono stati affrontati dalla critica in modo forse troppo tradizionale, anche se profondo, come Sessioni con l’analista, o su tematiche ricorrenti in molte raccolte che ho tentato di ricomporre in un puzzle unitario: la desolazione e l’alienazione dell’individuo in tutto il novecento fino ai primi anni del nuovo millennio, la vita resa sacra dalla “terraqueità” della donna, dal sesso, l’incontro-scontro con l’ultimo lembo dell’essere terragni, ciò che forse ossessiona di più la contemporaneità, il rapporto con la Morte.

La poesia di De Palchi è composta dal sangue suo e di quanti sono stati coinvolti nelle sue esperienze ma è il sangue, la materia, la mente che ha scoperto dentro di sé, materia complessa che poi lo lega, collega a tutto il resto.

Sono
—– questo il punto / idea connettivo.
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza ¬¬- coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli e trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.

Parto da questa poesia proprio perché è la chiave del rapporto dell’autore con tutto ciò che lo circonda, una raggiunta consapevolezza esistenziale che ha inizio dagli anni della detenzione e poi dell’espatrio dall’Italia rivissuti e ricostruiti  interiormente e artisticamente nel poemetto Sessioni con l’analista pubblicato in Italia con Mondadori nel 1967 e finalista al premio Viareggio dello stesso anno. È fondamentale ricordarsi questa data per capire il passo in avanti di De Palchi come autore rispetto al contesto letterario italiano e non.

In Sessioni con l’analista egli entra nel racconto poetico del percorso di scandaglio interiore proprio della psicoterapia quando la cultura italiana era ancora in gran parte digiuna dell’importanza della conoscenza e dell’approfondimento personale base della crescita interiore e artistica. Anzi questo percorso è stato molto spesso snobbato dalla cultura letteraria italiana non soltanto degli anni sessanta e settanta ma anche successivamente.

E cosa fa letterariamente De Palchi nella sua opera, anticipando qualsiasi successivo tentativo simile?

Il testo è una sorta di nuovo percorso dantesco, prende forma dalla necessità di un uomo di 40 anni “nel mezzo del cammin” della vita per gli uomini e le donne del XX e XXI secolo, che ripercorre l’inferno e il purgatorio delle esperienze esterne e più intime affrontate senza inibizioni dall’uomo e dall’artista De Palchi. Una delle prime indicazione della cifra di questo autore è proprio il coraggio, la non necessità personale di affidarsi a comode finalità editoriali che seguano la moda del tempo.

Le poesie di Sessioni con l’analista, anticipatorie e più compatte di tanto sperimentalismo italiano, appartengono, a mio avviso, allo stesso fiume creativo innovativo di The sound and the fury di  W. Faulkner, di alcuni momenti dello Ulysses di J. Joyce. Come in quelle operazioni narrative nel poemetto di De Palchi vengono proposti stilemi linguistici consoni alla struttura evolutiva di una comunicazione interiore stravolta dal disagio emotivo. De Palchi percepisce dentro di sé una situazione intrapsichica che si diffonderà sempre più consapevolmente nelle persone più sensibili dal secondo dopoguerra in poi. Sono gli anni in cui l’essere umano, ancora immerso in un contesto frantumato che propaga schegge continue, quasi in modo esponenziale si rende conto dell’isolamento, dell’alienazione a stesso e  agli altri, all’altro. Per inciso la realtà attuale è impregnata di questo sentire nonostante il new deal degli ultimi 50 anni essenzialmente tecnologico e di facciata.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

Sessioni con l’analista per chi, come me, abbia avuto esperienze professionali e/o  personali di terapia (anche se De Palchi al momento della scrittura non ne aveva avute, come racconta in molte sue interviste) sa bene che l’accavallarsi di pensieri fra ricordi diversi e momenti presenti, la ricerca della parola che aiuti a dipanare i nodi che si aggrovigliano in colui/colei che si trova in uno stato di disagio esistenziale, di malessere continuo che lo blocca in ogni azione, è esattamente il momento in cui si arriva a chiedere un aiuto psicoterapeutico.

Così cominciano le Sessioni e De Palchi in 23 momenti riporta poeticamente tutta l’evoluzione linguistica propria del processo terapeutico.

La prima sessione comincia con “ – difficile – / dico ” e prosegue con una sorta di elenco di oggetti seguiti da un aggettivo “pietrificato / quanti milioni di anni? –”, questo è proprio lo stato d’animo iniziale di chi comincia un percorso di consapevolezza psicologica. Ogni paziente comincia con parole che esprimono lo stato di difficoltà in cui si trova. Ci si guarda intorno nella banalità quotidiana, ci si scopre rigidi, pietrificati. La volontà di chi è spinto a cercare un aiuto psicologico è proprio quella di muoversi dalla fissità, dallo stallo emotivo e fisico, dalla impossibilità di trovare modi di essere diversi da quelli che fanno star male. E la prima sessione continua con

“non so come, da quale mia geologica età
cominciare: estrarre il magma;
impossibile
cominciare il gergo inconcluso
attorcigliato…….”

Queste sono quasi esattamente le parole di chiunque comincia un iter di consapevolezza interiore. Fantastico l‘aggettivo “impossibile” voluto solitario nel bianco della pagina. Ogni paziente sente che ciò che vuole fare è difficile e va avanti si ferma e poi si dice e dice che è “impossibile” continuare. Il linguaggio dei pazienti in analisi si struttura in un andirivieni fra l’avere coraggio di proseguire per scoprire che si hanno altre possibilità per se stessi e che è proprio quel blocco “bianco….difficile….gelido” che non fa trasformare le parole in un “gergo udibile”.

La seconda sessione dispiega il paradosso dell’“ (incomunicazione) ” e del produrre “frammenti”, termina con un’altra parola preceduta dal prefisso inincompiutezza”. È tale parola la prima goccia dello scioglimento del “gelido” e compare qui anche un’altra chiave comunicativa di ogni paziente: “perché”. “Perché” torna più volte in tutte le 23 sessioni, come torna “la segretaria”, il personaggio pseudo interlocutore delle sessioni. “Perché” è indice del tormento, dell’ossessiva ricerca di una spiegazione che non viene data e che il paziente stesso non si dà.

Nella terza sessione il ghiaccio si è rotto e comincia la narrazione terapeutica dei fatti. Si parte dal passato più lontano, dall’infanzia: “ragazzo timido, chiuso” e poi, ad “esempio”, racconta un episodio chiave per la lettura della persona, l’uccisione non realizzata completamente di un coniglio. Analiticamente parlando il paziente comincia a svelare se stesso. “——- anni dopo il coniglio (dicembre 1944).

Nella ottava e nona sessione l’autore arriva al momento iniziale della consapevolezza: “oggi”, “—incomunicabile—-” entrambi isolati nella pagina bianca. È l’essere umano De Palchi che si svela e il poeta De Palchi evidenzia la significazione profonda col suo stile unico di parole isolate costituenti un unico verso e contenute da linee continue.

Nella nona il “che significa, devo sapere, poi…—–” all’ultimo verso crea la continuità dell’azione e il desiderio di sapere di più e in lui e nel lettore.

I frammenti degli episodi si collegano nella decima e undicesima sessione fino alla tredicesima con  “sesto senso” “attendo il sesto che unisce il tutto” “in unisono—–”,  il sesto senso dell’unicità in De Palchi fino alle opere successive è quello dell’incontro, della comunicazione, dell’unione con la donna.

Nella quindicesima i ripetuti “non capisco” e “non capisci” rivolti alla sua gatta analista ma anche a se stesso e poi “difficile capire” e “non capisci che una parte di me / è oltre la realtà (…)” indicano esattamente il momento terapeutico in cui il paziente inizia ad andare oltre le sue ossessioni e la propria immobilità. Sta finalmente accettandosi così com’è, nella difficoltà di comprendere tutto.

Da qui comincia a reinserirsi nel mondo anche se con “—–la testa ad uovo/ e il corpo a pesce—-

Nella diciottesima viene indicato quale può essere il legame fra i frammenti, “il libro” e arriva la dichiarazione: “la mia comunicazione è stabile—–”. La comunicazione stabile è dunque la scrittura e viene apertamente dichiarata anche al lettore.

La chiusura analitica inizia dalla diciannovesima sessione con i tre versi finali:

“non è ch’io voglia essere capito, nessuno
capisce nessuno: voglio me
in me stesso, il perché del tuo “perché”

Credo che ogni psicanalista o psicoterapeuta vorrebbe un tale consapevole paziente e ogni poeta vorrebbe far coincidere nelle parole scelte il sentire profondo suo che coincide con quello d’ogni essere umano, anche se De Palchi in molte sue interviste nega la volontà di partecipazione ai problemi degli altri esseri umani. Ma De Palchi nella sua esasperata autenticità conferma la chiave di ciò che lo lega agli altri e lo rende esemplare artista. Se si parte dal se stesso profondo, dal focus personale che crea il movimento in vita, non preoccupandosi mentalmente di voler arrivare agli altri, proprio allora ci si mette in comunicazione, anche nostro malgrado, con chi ci ha preceduto, ci seguirà o è a noi contemporaneo. De Palchi uomo non si proclama amante dell’umanità anche se la sua poesia propone situazioni, espressioni, sentimenti che coinvolgono l’umanità e non soltanto nelle poesie erotiche come più volte sottolineato da molti critici.

Dalla ventesima alla ventitreesima delle Sessioni con l’analista la consapevolezza entra anche nella storia di sé ricomposta:

(il barcone della ghiaia
nell’Adige: corpo
primordiale che mi narra:
lievita la scia in cui divento
una lisca
ex pesce——questo
paesaggio d’apocalisse
acqua
pietra
è crudezza essenziale
e il fiume / prima speranza/
non sente non
sa della mia naufraga esistenza
non sente
non sa dell’arcaico presente)——-

nella ventiduesima scrive:“non mi occorrono radici per sapermi / sentirmi esistere(…)”.

Nel corso dell’ultimo appuntamento con “l’analista” il lettore è indotto ad autoanalizzarsi  attraverso il poeta, i versi in essa contenuti, infatti, potrebbero costituire una lunga grande domanda-risposta per ognuno di noi davanti alla realtà interna ed esterna. E potremmo tutti dire alla fine del percorso “—-solo, incomunicato, incomunicabile—-”.

De Palchi non termina il suo inferno-purgatorio come Dante in una visione paradisiaca, ci riconduce nel mondo occidentale che dalla metà del novecento arriva fino al nuovo millennio. L’incomunicabilità, la solitudine, luoghi emotivi e fisici della poesia depalchiana, sono anche i paesaggi dell’attuale era globale, virtuale, in cui la comunicazione autentica e veritiera è ancora apparente anzi può spaventare se diventa trasparenza.

Trovo che l’atmosfera di molta parte della poesia di De Palchi è l’ideale proseguimento della The waste land di T. S. Eliot, a sua volta erede delle visioni di W. Blake e della concretezza marcia di A. Rimbaud. Con la rabbia di F. Villon, a lui molto caro e del quale si riconosce erede, De Palchi, non cercandolo fuori accademicamente ma esclusivamente attraverso l’esperienza personale entra nel mondo del “Thunder rolled by the rolling stars / Simulates triumphal cars/ Deployed costellated wars / Scorpion fights against Sun” eliottiano. Quasi presi a caso dalla rilettura di The waste land  in questi due versi ritroviamo due titoli delle opere di De Palchi, La buia danza di scorpione e Costellazione Anonima. Quest’ultima soprattutto e Reportage (New York 1957) riportano la mente alla prima parte di East Coker e alla seconda parte di Little Gidding dell’opera di Eliot. In Reportage De Palchi scrive:

“sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione dei colombi che piovono dalle finestre
(…)
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale”
(…)
si apre l’industria religiosa:
il mercato è saturo
non c’è spazio
troppa gente vi partecipa
per sociale prestigio
o paura di guerre:
prestigio
guerre
ottimi affari——e voci al megafono:”
In Costellazione Anonima torna quasi ossessiva tutta la polvere di Eliot:
“Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadavere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.”

La distruzione delle macerie del mondo creato dall’uomo ha già invaso e del tutto distrutto la natura:

“la sequenza di agitazioni distrugge
a catena le forme compatte:

la foglia arsa o verde
tarlata d’insetti sbilancia l’albero che oscilla
crostaceo o in torbo rigoglio all’aria”

(…)

scogli atolli continenti
in tumulto di uccelli e animali senza scampo
nelle nevi e siepi di orizzonti
dei gelidi groppi di abitati
arresi alla non-ragione”

In questi versi anche la musicalità è aspra, piena di suoni sonoramente duri usciti da una gola piena di dolore e rabbia. È una musicalità teutonica, ricorda la musica tedesca del settecento e del novecento ma che ha, altresì, alcune assonanze con la musica dodecafonia. Sì, gran parte della poesia di De Palchi non ha il ritmo delle sdolcinature linguistiche italiane, nonostante sia scritta in italiano. Anche questo rende singolare l’opera poetica di De Palchi.

La voce della desolazione, della rabbia, dell’impotenza nei confronti del potere che ha devastato l’uomo e la natura, assume a volte la forza di Urlo di Munch 5perché diventa l’urgenza di esistere comunque differenziandosi dal contesto o comunque tentando di rimanere appartato dallo sfacelo del mondo moderno. In che modo? Sempre “spostato di quel tanto” fino a descriversi con chiarezza dolente e non assuefatta nella poesia con l’esplicito riferimento al termine eliottiano:

Ho trovato questa analogia prima di aver letto quanto avevano magistralmente rilevato, anche se per momenti poetici diversi, sia Luigi Fontanella che Daniela Gioseffi. Riferendosi a La buia danza di scorpione Fontanella scrive: “Il “no/no/no” risuona come un Urlo (alla Munch) cosmico, rabbioso, che non vale solo per il poeta che ha avuto il coraggio di esprimerlo – ma è un Grido di rivolta per tutte quelle vittime della storia che ebbero a patire crudeli ingiustizie e disumane sofferenze(…) Un Urlo rivolto a tutti, “for all of us, swallowed by pragmatism or apathy, against man’s inhumanity to man- Gioseffi 1996

e più oltre,
vedo me, uomo

la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata

che in una stretta si uncina e sulla sabbia
flotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa”.

L’attributo “s-centrato” utilizzato per sé in tutta la sua opera sembra operare un tentativo di auto salvazione anche se ammette amaramente:

——-adottato dalla bruttura
e violenza ora
la collera della mia età è uno strappo
di vesti / è l’essenza
entro me lacerato.”

Ecco allora che l’opera nata con una Premessa scritta a Parigi nel 1953 posta ad invettiva e dichiarazione di visione del suo tempo 5] si trasforma in una galleria di visioni apocalittiche.

Altro punto cardine della poesia di Alfredo De Palchi è il rapporto col sacro e con l’idea cristica. La figura di Cristo per De Palchi è la matrice che si frammenta nella consistenza di un uomo. Cristo, vero e proprio perché umano, è nominato più e più volte nelle sua poesia fino al riconoscimento alla consacrazione di se stesso in lui.

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana—- la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo vino
“bevete, questo è il mio sangue”.

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino—simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;

I versi di questa poesia stigmatizzano il senso dell’esistenza stessa di De Palchi come uomo e come artista. Qui si esprime compiutamente anche da un punto di vista filosofico. Questa poesia è una dichiarazione quasi lapidaria di consapevolezza. L’essere umano cristico, uomo o donna che sia, è isolato dai suoi simili, da lui troppo distanti soprattutto per sensibilità. Perché è indubbiamente complesso, faticoso, soprattutto in un momento storico in cui tutto è delegato alla egoistica visibilità che illude di elevarsi a onnipotenti, scendere dentro se stessi fino a comprendere l’essenza che  rende vivi.

E De Palchi può scrivere tali versi proprio perché è passato dall’esperienza personale e poetica del guardarsi dentro: La buia danza di scorpione, Un ricordo del 1945, Sessioni con l’analista e guardarsi intorno con occhio “s/centrato“ di Costellazione Anonima, Reportage.

Ma per il poeta il sacro non è nella religione, che in alcuni momenti anzi si arrischia a sfidare, al contrario di molti poeti che invecchiando si sono avvicinati alla consolazione di una fede. De Palchi fino agli ultimi scritti del 2009 rimane legato alla religione della natura, della materia, ma non nel senso politico del termine.

Nel Preliminare a Paradigma scritto nel 1950 si succedono fonemi e sintagmi da nascita del mondo:

la genesi—-materia
rivolgimenti indurimenti centrifughi di polvere
gas il fuoco liquefa glaciali rocce
e ancora rassodamenti vapori
una goccia la genesi lunga nella goccia
(…)
genesi senza punto evoluzione senza punto
solo materia—–la nemesi

Nella poesia da cui trae il titolo dell’opera singola Paradigma, De Palchi utilizza un linguaggio quasi filosofico, ci riporta all’uovo primordiale, al senso della conoscenza insito nella metafora del serpente ma anche, forse, dell’ourobus dell’Opera alchemica.

l’occhio della serpe è un qualsiasi dio—-
(….) e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciano al raso
il reale più fecondo”
(…)
testa piatta a triangolo a stemma
di religione—-(…)
Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda—–il paradigma

I suoi versi qui, scritti nel 1964, ricordano l’atmosfera di un testo di difficile interpretazione, Favola di W. Goethe.
Fin dall’inizio e poi negli ultimi scritti il sacro di De Palchi si concretizza nella terra, nella donna come origine del tutto. La sua religione si propaga dentro e fuori il corpo femminile. Il percorso linguistico di Essenza Carnale, ad esempio, è costellato di parole che raccontano gestualità tratte dalla religione, anche se il poeta sembra riscrivere questa religione rendendola umana.

aprimi la cerniera, infila la mano
e come all’altare in ginocchio immergi
il viso acceso di sangue nella cesura
adescando abilmente il pesce simbolico a guizzare
nella cognizione della tua bocca che si affida
alla mia profezia:

la messa continua della mensa.”

L’amplesso e la congiunzione religiosa sono emblematiche in tutte le poesie degli anni 2000:

nella tua esistenza di Maddalena in amore
del mio risveglio in un corpo di Cristo” ;
“sono il tuo sacrificio l’agnello”.

Le sue donne carnali e ideali, intuite in profondità oltreché amate per la loro reale presenza, sono, a mio avviso, il tramite che lo conchiude e lo riconduce alla nascita. In questo senso la sua religione personale, nonostante sia uomo vissuto appieno e nel centro del novecento occidentale, lo può far avvicinare a idee e filosofie tipiche dell’oriente, dell’India soprattutto.

“potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo”;
“religione della tua fluttuazione,
sostenenza dell’ostia splendente sulla mia faccia”;
“avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale—-(…)
riempiti del tuo salvatore” ;
“uguale al serpe ti assorbo intera
e tu da madre terraquea
chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora
del grembo, la dimora
di ascendente devozione per lo spirito in frammenti.”

Qui la donna è sì concreta ma anche madre, forse la Grande Madre che contiene la natura e gli esseri umani e che lascia traccia di se stessa in modo più visibile nella femminilità.
Come non avere la sensazione dopo aver letto i versi precedenti che per De Palchi ogni donna reale, che può essere anche stata amata dal poeta, è poi trascesa proprio attraverso la sua carnalità? È trascesa ma non per essere angelicata, come avrebbe inteso un epigone della poesia petrarchesca di cui la poesia italiana ancor oggi rigurgita preferendo quello stile alla crudezza, a volte anche blasfema di Dante.
Con gli anni la visione della donna nella poesia di De Palchi è diventata l’ostia necessaria all’uomo per sentirsi più umano. Già nelle Viziose avversioni scritte fino al 1996 la sua idea della donna era chiara, “ogni oggetto inanimato o animato è donna,”, anche se spesso con immagini ambigue e negative. Successivamente la femminilità si amplifica diventa Essenza Carnale perché la compagna donna che De Palchi recita è il suo stesso femminile, la sua sensibilità stordita dalla morte del coniglio nel ricordo iniziale delle Sessioni con l’analista, poi da “il tonfo del gatto”, dal pudore che deflagra all’interno di se stesso “Spasimo scoppio / erompo sesso in aria / rimanendo zitto.”

La donna diventa l’anima sangue da ingurgitare, da lasciarsi ingurgitare per diventare più totale.
Questa è forse la chiave per comprendere i versi erotici depalchiani che non sono mai volgari nemmeno quando descrive amplessi e ricorre a parole vividamente comuni. Le sue costruzioni poetiche erotiche sono fiumi in piena di anima, sangue, cervello dell’uomo De Palchi.

Tremando entro la circonferenza dell’amplesso
esponi lo spirito acceso
a bocca che ansima; mi prendi nella sua cavità, vuoi
che la scopi e raggiunga
il profondo della sua gola; vuoi
che il tuo sesso sia scavato
quando dici “sfondami tutta, completami
—– il colloquio reciproco è il gioco
utile per invigorirti del tuo stesso assioma.

Mi piace citare a questo proposito quanto scrive il critico John Taylor, lettore e studioso acuto dell’opera di De Palchi: “De Palchi’s erotic vision nearly always goes beyond the corporal per se. Present in his erotic poems is a cosmic dimension, an experience of amorous union and the epiphanies of pleasure surely, but also a yearning for the primeval, the primordial, the ab-original.”7
Aspetto fondamentale per comprendere Foemina Tellus, l’ultima opera al momento pubblicata, è il rapporto di interscambiabilità fra donna e terra già presente in Essenza Carnale:

la luminescenza in evoluzione del sole scoperchia
e alimenta di energie le radici terragne
quanto la trasparenza coniugale della tua vena
con luminosità accecante mi contatta nutrendo la radice
concretamente buia——
séguita a custodire ogni
senso di sensualità che ci possiede insieme
nella derisione nella melma nella depurazione
ed infine nell’intimo sconvolgimento con la coscienza
di che si ha e di che si è;”.

Se ci si addentra nella lettura delle poesie di Essenza Carnale e poi di Foemina Tellus sembra di entrare in una galleria di quadri di Tiziano, di Courbet, anzi soprattutto di quest’ultimo. Come il corpo femminile indagato da Courbet possiede una componente erotica tanto marcata da scuotere la sensibilità della classe benpensante del suo tempo ma anche di ora (emblematico L’Origine du monde), così le poesie della passione amorosa depalchiana scuotono la morale ma anche l’abitudine dei critici perché mostrano l’essenza terrestre, lo scontro incontro sessuale non scissi ma integrati verso una ricercata spiritualità. Il sesso è rappresentato naturale, sublime e innocente, origine del desiderio della vita.

Averti come sei—-
lo straccio addosso con spigliatezza
e gioielli di avena
con il papavero che infuoca le spighe
attorno le forme collinari e le valli

qui oso fermarmi
sgolo di potenza
e tu mi raccogli nella ramaglia

o nel vorticare intorno
a quella vulva che ingoia
crescite e pianeti

e sprofonda il tremore terrestre
nell’ovulazione del tuo ventre.

In questa poesia ci sono i due passaggi concentrici della spiritualità di De Palchi: dalla terra, “i gioielli d’avena”, il papavero, le spighe, le colline e le valli, alla donna carnale che concentra su di sé il centro del mondo “o nel vorticare intorno / a quella vulva che ingoia / crescite e pianeti”,
e sprofonda il tremore terrestre / nell’ovulazione del tuo ventre.”
L’amplesso con la donna è la messa e la mensa e soltanto il maschio-uomo, consapevole della sua cristicità non fideistica, tramite questo rito può diventare parte di una religione tutta al femminile in cui continua a vivere la Grande Dea dal cui ventre nascono il mondo, le religioni.
In Foemina Tellus il poeta dispiega completamente il suo credo: “il leitmotiv mi accompagna al ventre / accogliente di Kundry: / vita terra spirito Cristo.”
Il verso “all’ape /del miele che sei”della poesia a pagina 49 sintetizza in modo unico una donna frutto essa stessa di quella terra espressa qui con la metafora dell’ape.
In questo libro le poesie più direttamente legate alle donne hanno anche un chiaro profilo di aspra ironia sempre presente in tutta l’opera di De Palchi.

Cane fedele

ti seguo con le infedeltà
mentali, corpo vivo
nel tuo sorretto dalla costola
che non ti ho dato

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In più mi sembra di scorgere qui una sorta di rifiuto ad aderire completamente al loro potere che coinvolge il suo desiderio.
L’ironia e la rabbia, la crudezza, non certo la rozzezza caratterizza la poesia di De Palchi e assume, infine, una connotazione evidente nei testi in cui il poeta si permette di dialogare con l’ultima grande femmina che attende uomini e donne, la Morte.
E qui intendo parlare proprio di dialogo nel senso etimologico greco del termine -parlare restando separati – e non di colloquio – parlare per cercare un punto in comune – termine con cui il poeta stesso aveva espresso il suo rapporto con la donna.
Una delle poesie di Foemina Tellus in cui viene dichiaratamente espressa la singolare cristicità della sua religione tanto carnale ma oramai proprio per la carnalità, quasi rabbiosa, è quella di pagina 51, una sorta di iscrizione tombale del calvario dell’uomo Cristo. Qui il poeta diventa il commosso soccorritore dell’agonia di Cristo “con la scodella ti lenisco / la lingua tra il rottame nella bocca(…)” e il crudele osservatore di donne Maddalene, “capre nere che espiano la trasgressione / per avere la passione / profana di essere.

La rabbia ha il linguaggio tipico di tutta la poesia di De Palchi ma è una rabbia che include una volontà di purificazione. Il verbo spurgare ritorna più volta nel libro: “per spurgare il seme reietto / e il salivare schifoso” a pagina 38 e “bestia umana (…)/ storia che spurga in rantolo” a pagina 51.
La stessa rabbia si indirizza poi, definitivamente, ad un mondo oltre, l’inferno costruito da De Palchi per tutti i suoi persecutori contenuti nella sezione Le déluge, e alla morte a cui dedica due sezioni del libro, Contro la mia morte I e Contro la mia morte II.
Il poeta si lega alla morte in assoluta privazione di sé e con gli stessi sentimenti che l’avevano visto in giovinezza gridare contro il mondo anche se spesso qui utilizza un autorevole armonioso sarcasmo.
Si rivolge alla “passionaria” con: “il mio corpo, per te / mai abbastanza freddo da leccare”; “hai ossi sgangherati / l’odio indifferente della falce / alle mie gambe rapidissime”; la vulva diventa “chiavica”e lui arriva a dirle “ma ti corteggio con la promessa / che nel lontano futuro sarò tuo”.
La morte è “ospite non gradito”eppure verso la fine la rabbia contro di lei sembra placarsi:

sono tutti defunti
davanti alla tua tenace bruttura
che dalle quinte opera
la potente libidine,
una brezza che ondeggia il vestito
tra le cosce e traccia il rilievo
della tomba sacrilega
che attrae
e mi distrae verso….”

Uomo e donna in tutta la poesia di de Palchi pur incontrandosi mettendo a nudo ogni particella del loro essere natura umana e animale dispiegano le loro peculiarità concrete ma difficilmente i particolari hanno a che fare con la specificità, direi con l‘unicità di una donna se non per ragioni di scrittura. Ogni donna per De Palchi rinnova l’incontro col suo eterno foeminino e in Foemina Tellus egli esprime il femminile maturo all’interno di un uomo maschio. Qui lo scontro, la lotta, la volontà di combattimento fra natura maschile e natura femminile si tramuta poi del tutto all’indirizzo della Morte.

Ma qual è l’origine di questo complesso paradigma De Palchi?
Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, di condividere corrispondenza, conversazioni a telefono, a qualche tavolo di ristorante, seduti in qualche salotto o passeggiando insieme e poi di diventarne amica. In queste occasioni Alfredo mi ha più volte ripetuto che “la poesia esce dalla realtà delle nostre prime intuizioni di famiglia”, che “occorre l‘immaginazione in poesia ma senza l‘esperienza delle varie vicissitudini la poesia è arida”. Io aggiungerei che l’artista autentico non si pone il problema di fare la storia della cultura, l’artista autentico sente profondamente ciò che fa, segue le proprie esperienze di vita non le predispone. È nel suo tempo ed è protagonista di se stesso. Più profondamente e intensamente sono avvertite le esperienze più la comunicazione verso gli altri non rientra nei limiti temporali della sua vita.
Per De Palchi, allora, non è possibile non ricordare e collegare la sua opera alla prigionia vissuta fra adolescenza e giovinezza, alla nascita da una donna nubile.
Le poesie dalla prigione contenute ne La buia danza di scorpione, sono poesie che toccano il nerbo vitale dell’esistenza umana.

Ogni donna abusata, stuprata fuori o all’interno della famiglia, ogni bambino lesionato da ferite fisiche e psichiche, ogni donna o uomo perseguitato per ragioni politiche, religiose o comunque di diversità all’interno dell’organizzazione sociale, non può non sentire suo il senso della ribellione e dell’impotenza con parole simili a quello scritte a vent‘anni da Alfredo De Palchi :

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi dell’intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

——-io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

Chiunque sia passato da una esperienza di segregazione causa l’abuso di potere degli altri o anche solo se l’avverte empaticamente in chi si trova in quella situazione, ha vivo il senso profondo di questi versi che definirei di nudità mente-corpo:

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato—-non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

È questo sentire che gli permette di auto considerarsi Villon redivivo, utilizzato a epigrafe di ogni opera poetica, “solo c’è luogo / nel cranio di Villon”.
De Palchi prigioniero: “Arso dalle azioni di chiunque (…)” impara che la vita “disfa la vita fruga / interpreta le ragioni forma e scombina / codici irrazionali”.
È qui e così che comincia la scrittura poetica e sul muro:

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione d’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

——-io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

alfredo-de-palchi-1

Cover della monografia di prossima pubblicazione sulla poesia e la personalità di Alfredo de Palchi a cura di Giorgio Linguaglossa

Mentre leggevo questi versi ho avvertito immediato il ricordo di altre parole di dolorosa impotenza, quelle del Nobel C. Kavafis nella poesia I muri “Senza riguardo senza pietà senza pudore / mi drizzarono contro grossi muri (…) / murato fuori dal mondo e non vi feci caso”8.
In cella l’isolamento, il sentirsi “s/centrato” rispetto alla comunità umana consente a De Palchi l’approfondimento interiore ed artistico.
I suoi scritti di prigionia parlano agli abusati ai violati di ogni epoca, il suo vocabolo s/centrarsi mi ricorda “lo sguardo estraneo” di cui ha parlato H. Muller la Nobel 2009. Anche quest’artista esule, violata di continuo nel privato attraverso i servizi segreti della sua nazione, accusata soltanto per la sua onestà di donna e artista, racconta di aver acquisito un modo di rivolgersi al mondo che sollecita a non considerare soltanto proprio degli artisti “una sorta di tecnica che distingue chi scrive da non scrive”9. Nello stesso poco più avanti precisa: “Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale” “Per me estraneo non è il contrario di noto è il contrario di familiare”. Lo sguardo estraneo “è un atteggiamento provocatorio” acquisito dalle situazioni dolorose e che presuppone uno stato di difesa continua.

Questo atteggiamento di difesa e provocazione è proprio, a mio avviso, l’atteggiamento di De Palchi uomo e artista.
De Palchi ha attraversato tutto il secondo novecento sia storico che letterario e ha vissuto in prima persona tutte le sue assurdità, offese, deliri. Le ha poi superate attraverso il vivere fuori dal luogo d’origine, in un mondo da lui scelto ma dentro il quale si è continuato a sentire s/centrato. Il suo sguardo in poesia è uno sguardo lancinante, estremo, lucido, sensuale, potentemente tagliente. C’è la spada e a momenti anche l’ambrosia nella sua poesia.
La sua sensibilità gli ha fatto approfondire ogni aspetto della vita, foglie, pietre, acque. Nata dal dolore e nel dolore De Palchi già in cella attraverso ore e ore di lettura e poi di scrittura ha trasformato la sua vita di fuori in un grande muro su cui incidere se stesso.

Vagabondo notturno nelle vie di Parigi quando arriva a New York, sua residenza definitiva, anche se inframmezzata da anni in Spagna e dalle frequenti visite in Italia, De Palchi entra nel pieno brusio, formicolio della consolidata moderna civiltà occidentale captando l’essenza materiale che lo circonda, l’atmosfera di alienazione, di confusione “Brulica la spiaggia / si condensa di cicche, fumetti / carta velina unta, ossi succhiati di pollo / mezzi panini bottiglie lattine/ centinaia di canestri vuoti”; “come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti”.
Nella vita e nella poetica egli ha ricostruito la propria seconda adolescenza murata viva e lo ha fatto attraverso l’aria, la terra, la donna. La sua poesia si è riempita degli incontri notturni con i clochard, con le bottiglie di plastica sulle spiagge, delle offese ai neri di New York, ma anche degli incontri con gli intellettuali milanesi degli anni ‘50 e ‘60.

De Palchi ha ricucito le cicatrici ancora oggi tipiche del mondo moderno, l’immigrazione, la detenzione, la difficoltà esistenziale di un mondo desolato e desolante sia personalmente che socialmente. È il mondo di un’umanità troppo maschilizzata nel suo modo di essere, maschilizzata come principio che purtroppo è diventato vivo anche in molte donne. Un’umanità che non dovrebbe più avere la necessità di violentare la donna e la terra ma di rientrare, immergersi in essa per ridestarsi rinnovata nel suo ventre. Esattamente il principio ispiratore della poesia di Essenza Carnale e in parte di Foemina Tellus. È l’acqua che comincia i suoi scritti, “l’Adige” che li accompagna in mille forme fino agli ultimi anni, è il pesce, i pesci, i molluschi nel quale si identifica, è l’acqua delle vagine femminili nella e con la quale gli sembra di poter rinascere.
De Palchi ha guardato e continua a guardare se stesso e il mondo tutto in disparte. Anche la scelta di utilizzare la lingua d’origine nonostante viva da più di cinquant’anni negli Stati Uniti è una scelta da eterno estraneo ovunque. In poesia continua a osservare, riflettere, elaborare da s/centrato rispetto al modus letterario italiano. Sì perché la nettezza naturale, il lindore scevro da intellettualismi, tipico di gran parte della poesia composta nell’Italia contemporanea concepita spesso con intenti autoreferenziali o peggio per logiche di potere culturale e politico, nascono anche dal vivere fuori da questi circoli. Il nostro “apolide anarchico” artista De Palchi ha vissuto così il destino comune di molti grandi poeti troppo a lungo dimenticati, evitati dalla diffusione editoriale come Dino Campana e Lorenzo Calogero, o famosi come Ungaretti, Quasimodo, Caproni, letti per anni e poi abbandonati senza amore preferendoli ai deserti poetici dei giorni nostri.

De Palchi ha una forza letteraria, un’etica e una poetica non espropriabile da nessuno. La forza artistica è intimamente connessa a quella che gli è derivata proprio da chi a lui ha dato la nascita e lo ha formato ai fili esistenziali fondamentali, alle radici della vita, sua madre.
Non può essere compreso appieno il suo rapporto col femminile, con la Donna, la terra, la religione di “un cristo” fra gli altri se non si risale come lui stesso ha detto “alle prime intuizioni in famiglia”.
La madre nubile di De Palchi (supportata da un nonno atipico per l’epoca) è colei che ha lottato contro la mentalità del tempo per tenerlo in vita fisicamente e che l’ha nutrito ad una scala di valori forse più appartenente al futuro che ai primi del novecento.

Vorrei concludere con le parole a me scritte da De Palchi in una delle prime lettere della nostra corrispondenza. Sono parole che confermano quella che chiamo la sua avanguardia mentale in tema femminile:

“La famiglia con il potere del capo famiglia si sta sgretolando per sparire. Rimarrà ancora per secoli in quelle nazioni primitive o medievali. Il capofamiglia, contadino, operaio, borghese o signorile si esprimeva, chiedeva il potere del comando, spesso con la frusta in mano; la donna con le chiavi degli armadi comandava in casa ma non poteva uscire, era considerata proprietà riservata, col trascorrere degli anni si trasformava in donna disamata, strega vecchia anzitempo e impotentemente cattiva verso i figli che tacitamente erano accusati di aver distrutto la sua giovinezza, la bellezza, il suo potere di donna. Le donne intelligenti amorose, capaci e con l’idea del potere femminile erano le cosiddette concubine, le mogli morganatiche, le bellezze dei salotti soprattutto letterari e quelle considerate puttane. Le donne oggi sono professioniste, hanno capacità professionali da farsi invidiare dagli uomini, hanno la bellezza folgorante ben in vista, non si nascondono, eppure, nonostante il progresso delle varie società, gli uomini le giudicano leggere se non puttane” .

(Gennaio, 2011)

1 Luigi Fontanella La parola transfuga 2003, 175
2 Alfredo De Palchi A Non Conformist Italian Poet in New York City (Contemporary Italian American Writing, 1999)
3 Alfredo De Palchi La potenza della poesia (Saggi a cura di Roberto Bertoldo Edizioni dell’Orso, 2008)
4 Le citazioni delle opere di De Palchi sono tratte da Paradigma (Mimesis-Ebenon 2006) e Foemina Tellus  (Edizioni Joker, maggio 2010).
5 Mi è piaciuta molto la citazione di Marina Cevtaeva che Gabriela Fantato pone all’inizio di un suo scritto sull’opera di De Palchi “la contemporaneità del poeta è in un certo numero di battiti del cuore al secondo, battiti che danno l’esatta pulsazione del secolo –fino alle sue malattie (…) nella consonanza – quasi fisica, fuori del significato –con il cuore dell’epoca” Per la poetessa russa il poeta non è “specchio” ma “scudo” del suo tempo, poiché è colui che dà “battaglia” agli anni, a meno che non sia mero “portavoce” di interessi particolari o di un gruppo politico (e non, aggiungerei io N.d.a), ma in questo caso non è un grande poeta. (Versi incisi nella pietra –Cfr. nota 3). 
“ATTRAVERSAMENTI” Progetto ideato e realizzato da Adam Vaccaro – Milanocosa, con la collaborazione di Gabriela Fantato – La Mosca di Milano
Antonella Zagaroli poetessa

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli è nata a Roma nel 1955. Opere letterarie: La maschera della Gioconda plaquette (1986) e libro (prefazione di Walter Pedullà Crocetti, Milano, 1988) che rispetto alla plaquette include anche i poemi Pi greco quinto e Coiffeur distratto; Il Re dei danzatori poema teatrale con musiche originali presentato a Roma e Provincia (1992); Terre d’anima, (1996); Come filigrana scomposta – racconto d’amore tango e poesia andato in scena a Roma nel 2001 e dopo la sua pubblicazione (2008) di nuovo a Roma e provincia; La volpe blu, prose poetiche e racconti (2002); Serrata a ventaglio (Roma, 2004); Quadernetto Dalìt saggio e reportage sul lavoro di volontariato fra gli intoccabili indiani poi tradotto in inglese col titolo Dalit Notebook Thoughts and Poems- An experience in India-, prefazione Vincent Arackal, attuale vescovo di Calicut India (2007; Venere Minima romanzo in versi e prosa (2009; Mindskin A selection of poems 1985-2010 con nota di Alfredo De Palchi e introduzione e traduzione di Anamaria Crowe Serrano (Chelsea Editions New York, 2011). Con Alfredo De Palchi il duetto poetico intitolato Intuire come possedere – Corrispondenza in versi (Italian Poetry Review volume VI, 2011 pubblicato nel 2013). In collaborazione con la fotografa Mariangela Rasi le raccolte La nostra Jera (Roma, 2010) e Trasparenze in vista di forma (Verona, 2013) nonché col pittore De Luca le istallazioni poetiche della breve raccolta Al di là d’ogni luce in mostra da Settembre a Dicembre 2012 a Pienza, da poco giorni riproposte in rete gratuitamente, con la Onyxebook, insieme a Serrata a Ventaglio. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia italiana a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura,, 2016).

In qualità di traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (Hebenon aprile-novembre 2010), la plaquette One Columbus leap, (Il balzo di Colombo) della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (Roma, 2012) e Hosanna – Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense (Trento, 2014). Le sue poesie sono apparse su riviste italiane, francesi, inglesi, americane e ultimamente anche su diversi blog italiani e stranieri. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook.

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Claudio Borghi Riflessioni sulla poetica del «frammento» e del «tempo interno». Poesie tratte da Dentro la sfera (2014) con un Commento di Luigi Manzi

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Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016).  Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015).

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Riflessione di Claudio Borghi sul «Frammento»

La poetica del frammento e del tempo interno è un tentativo di superare l’impasse della stagnazione e della mancanza di ispirazione che blocca buona parte della poesia moderna. La ricerca di nuova linfa poetica procede con attenzione al progresso scientifico, in particolare della fisica teorica, dell’astrofisica e della cosmologia, e trova spunti nella riflessione di filosofi come Heidegger e Barthes, o di romanzieri quali Rushdie e Pamuk. L’intenzione è encomiabile, come ogni nuova esplorazione che porti una forma d’arte a indagare territori poco conosciuti e a tentare nuove sintesi e forme di scrittura. Una ricerca implica, tuttavia, perlomeno sapere o cosa si sta cercando o in quale direzione si sta cercando qualcosa che non si conosce ancora bene. Poiché la scienza è considerata un modello di riferimento e una fonte di ispirazione, provo a spiegare con un paio di esempi quali possibili rischi di interpretazione si corrono a sposarne le teorie e, altresì, quale ricchezza può nascere da una riflessione poetica sulla vertigine straniante dei fenomeni naturali.

Il primo esempio riguarda l’atomo, parte essenziale dell’edificio della materia. Nessuno ha mai osservato un atomo, ma abbiamo buone basi sperimentali e teoriche per concepirlo, in modo semplificato, senza cioè entrare nei meandri quantistici, come una sfera al cui centro sta un nucleo che contiene praticamente la totalità della massa, in cui stanno neutroni e protoni, intorno alla quale si muovono (poco importa qui se su orbite classiche o orbitali quantistici) i leggerissimi, impalpabili elettroni. Ora, la cosa sorprendente è che il diametro del nucleo è centomila volte più piccolo della distanza media tra gli elettroni e il nucleo e che tra nucleo ed elettroni c’è, quanto a materia, il vuoto. Questo significa che l’atomo è praticamente fatto di niente in termini di materia: è sede di interazioni nucleari (forte e debole, all’interno del nucleo) ed elettromagnetiche (tra elettroni e protoni), quindi di campi di forza, e sono in pratica questi campi che giustificano la struttura della materia, più che la materia stessa. Sono le interazioni la chiave della fisica, quindi le relazioni tra le particelle. Un’ingenua, statica immagine della realtà fisica come qualcosa di pieno è quindi fuorviante e sbagliata, per quanto sembri incredibile che un corpo sia in definitiva un vuoto strutturato grazie alle forze tra i costituenti elementari di cui è fatto.

Il secondo esempio riguarda i buchi neri, con chiaro riferimento all’ipotesi “Il frammento è un buco nero?”, contenuta nei commenti al post “Dialogo a più voci sui concetti di paradigma, nuova poesia, tempi interno, ecc.”. Non sto a ricostruire l’articolo di Rovelli, perché è lì a spiegare chiaramente, senza bisogno di commenti. Cosa c’è di problematico, qui? Il fatto che la relatività generale, da cui pure si deduce la previsione dell’esistenza dei buchi neri (che pare confermata grazie alla scoperta delle onde gravitazionali, ma io ci andrei sempre con grande cautela sulle verifiche sperimentali, specie quelle che vanno tutte nella stessa direzione), proprio in relazione alla struttura interna dei buchi neri cade tragicamente in errore. Rovelli lo dice quando parla di buchi bianchi e sembra che dica poca cosa. In realtà sta dicendo qualcosa di drammatico. Quando la materia entra in un buco nero, la teoria (non Einstein, ma chi l’ha sviluppata in seguito, in particolare negli anni sessanta, Hawking, Wheeler, ecc.) prevede che debba viaggiare verso il centro del buco nero. Il fatto è che, se questo accade, la teoria stessa impazzisce, in quanto nel centro del buco nero tutte le sue capacità di previsione crollano. Cosa possiamo pensare? Di tutto, si direbbe, vista la fioritura immaginifica e poetica di teorie su wormholes, universi paralleli e quant’altro. Oppure, dice la gravità quantistica, più ragionevolmente si dovrebbe pensare che il centro non viene raggiunto, si crea una sorta di enorme pressione quantistica che provoca un rimbalzo all’indietro per cui tutto quello che entra prima o poi dovrà uscire. In che forma? Di radiazione, di altra materia? Non lo sappiamo. Ebbene, cosa significa? Che una delle più grandi scoperte sperimentali degli ultimi decenni, quella delle onde gravitazionali, conferma una teoria (la relatività generale) che necessariamente è sbagliata, perché non consente di prevedere quello che accade nel centro di un buco nero, e non abbiamo a tutt’oggi teorie che ci consentano di fornire spiegazioni alterative convincenti.

Questi esempi significano una cosa molto semplice, che sto dicendo da qualche tempo nei miei articolati interventi sul blog: andiamoci piano con la scienza, in particolare quella che si fonda su congetture di così ampio respiro. Il mio invito a ritarare la mente sul mistero del cosmo e della psiche umana, oltre che sulla varietà stupefacente di creature che ci circondano, ha proprio questo significato: lasciamo la scienza ai suoi voli prometeici, alle sue ambizioni sovrumane, concentriamoci sul breve volo dell’io che davvero è fatto di tempo interno che si scandisce in istantanee di memoria, in frammenti sfuggenti e impalpabili. Questa ricerca, che si concentra sul dato ineludibile della creazione, esperita nella sua sostanza sensibile e percettiva, contiene un tesoro immenso di potenziale poesia, ben più ricco delle congetture sull’infinitamente piccolo o l’infinitamente grande, in cui la mente necessariamente si perde, non essendo, come scriveva Pascal, proporzionata per capire. La poesia dovrebbe tornare all’umanità, allo stupore dell’essere, alla dimensione che ci è concessa in quanto creature, al nostro ruolo nel cosmo e nei cicli del divenire, che è transitorio e inafferrabile, nonostante la mente ci illuda di poterci trascendere e trovare la legge che chiude in sé il mondo.

Un’ultima nota riguardo ai miei libri, in particolare Dentro la sfera, che della Trama vivente costituisce la premessa necessaria e fondamentale. Il libro è in pratica strutturato in due parti, la prima in versi, con qualche prosa, la seconda in prosa, con rari versi. La sfera è un’unità, di cui i due emisferi formano le parti complementari. Mi riferisco in breve alle sezioni in prosa, tessute con aforismi filosofici e lirici, strutture molecolari a loro volta tenute insieme da atomi-segmenti di intuizioni e illuminazioni, percorse da rapidi voli del pensiero che cattura immagini, idee, voragini abissali, percezioni di volatile apparenza, sullo sfondo del basso continuo di una disillusione amara e malinconica circa il senso del nostro essere parti di un tutto che non possiamo cogliere globale. Il libro è concepito come un non finito frammentario, quindi non come il riflesso emozionale di un infinito possibile, ma di una struttura umanamente imprendibile. Mi limito a fissare l’attenzione su una sezione per me espressivamente tra le più efficaci, Forma del tempo, in particolare allo stacco tra un frammento aforistico e la successiva, vertiginosa sintesi in versi:

Nell’intera forma viva che sotto il sole splende, non si cura il creatore di aver lasciato creature che si sfibrano e gridano il loro corpo che scolora: la forma intera sempre in qualche nuovo corpo rinasce, comunque nel complesso accesa brilla, ignorando che nelle anime si cela l’ombra e lo spavento, il dubbio sfila o sfugge come uno sfiato o l’acqua che si chiude sparendo in un tombino.

Dì ai rami e alle foglie che il senso è dentro,
immobile, chiuso nel verde invisibile
della linfa che risale la gravità, nel rigagnolo
che alla prim’ora lascia il suo segno sulle foglie,
e nella vertebra gigantesca del tempo,
nell’urlo primordiale che infuoca la voragine impaurita della sfera,
non nel pianto piegato
dell’albero intero,
costretto a subire il vento, e la pioggia vuota insensata delle ore.

Il libro è concepito come un itinerario della mente verso il Cerchio intelligente, la sezione finale. E il frammento ne è la naturale forma espressiva, un dire senza mai attingere il cuore della sostanza del pensiero, come nell’atomo il vuoto tra il nucleo e gli elettroni, o il centro inattingibile del buco nero, quella regione di smarrimento e straniamento che l’intelligenza non potrà mai colmare, ma in cui la poesia può trovare una ricchezza espressiva inestimabile.

Concludo con un’ultima citazione, tratta sempre dalla sezione Forma del tempo:

Non c’è calma: un frenetico cambiare, un’opera che ne genera un’altra, frammenti tenuti insieme da forze improbabili, lastre che sporgono una sull’altra poggiate avanzando sullo strapiombo, lische di materia che si sollevano per concedere alla vista il brivido di essere più avanti, in tappe successive di vuoto che avanzando dimenticano la propria origine: la stasi immutabile e senza tempo. La cupola emerge unica, perfetta, immobile. La città ne riceve beatitudine. Una calma diffusa si sparge come un uccello smarrito, confuso o impaurito dal suo stesso canto.

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Commento di Luigi Manzi a Dentro la sfera

Trovo Dentro la sfera ambizioso quanto coraggioso se rivado con la memoria ad altri grandi esempi del passato, compreso l’immenso De rerum natura. Debbo dirti che tu hai affrontato il tema con sicura maestria tecnica poiché hai saputo inseguire l’impeto e l’urgenza dell’ispirazione (nel tuo caso si deve parlare certamente di ispirazione) senza tentennamenti e senza neppure disperdere l’eco avvolgente che via via ti ha indotto alla scrittura. Il tuo è un esempio raro di ascolto visionario; proprio quando la poesia contemporanea sta attraversando il deserto dell’insignificanza fino all’aridità se non al singulto e infine all’afasia; per non dire alla ottusità dei sensi oltre che dell’intelligenza. Il minimalismo stilistico dell’odierna poesia – sponsorizzata dagli editori di levatura – si sovrappone alla penuria della fonte o ne maschera la siccità.

Trovo, in Dentro la sfera, quasi la fluida trascrizione di una energia cosmica che ci seduce non appena ne assecondiamo la danza e la finalità; ma che ci abbandona impietosamente quando ce ne allontaniamo con protervia intellettuale e provochiamo inerzia. Questo te lo dice un laico (e pagano) come me, senza nostalgie, che non cede ad altro se non alla ragione e ai sensi. La tua scrittura non ha punti d’attrito e non soffre d’artifici ma segue l’onda lunga e flessuosa delle visioni come in una armonica coreografia in cui i testi e i versi assumono proporzioni nello slancio vitale: esso stesso colmo di significati reconditi e di seduzioni.

(Luigi Manzi, 2014)