Archivi tag: Francesca Dono

Alfredo de Palchi è morto (1926-2020), Il decano della poesia italiana ci ha lasciati, abbiamo perduto un grande innovatore della poesia e un grande rappresentante della tradizione poetica italiana, a lui va il nostro saluto riconoscente e ammirato, Video di Diego De Nadai

poesia tratta da Sessioni con l’analista (1967, Mondadori)

4
strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi

“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . . .
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione

“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,
capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion . . .

(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)

di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii . . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:

”sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”

— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

Alfredo de Palchi 2

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Zagaroli Alfredo de Palchi Venezia 2011

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

Alfredo de Palchi John Taylor

John Taylor

È con grande tristezza che devo annunciare la morte del poeta italiano Alfredo de Palchi (13 dicembre 1926-6 agosto 2020). Alfredo aveva molti traduttori pregiati in passato: Sonia Raiziss, I. L. Salomon , Ned Condini, Luigi Bonaffini, Barbara Carle, Anamaría Crowe Serrano, Michael Palma e Gail Segal. Ho avuto il privilegio di tradurre i suoi ultimi tre libri: ′′ Nihil “, ′′ L ‘ estetica dell’equilibrium ′′ e ora ′′ Eventi Terminal “. Prima di morire, Alfredo sapeva che Karl Kvitko (di Xenos Books) ed io stavamo mettendo gli ultimi ritocchi sulle prove finali di ′′ Terminal Events “, che appariranno tra qualche settimana.

Francesca Dono

Sono nella tristezza più assoluta

Vincenzo Petronelli

Mi spiace enormente! Da qiando seguo la poetica della Noe è diventato per me un punto di riferimento di poesia vera, indipendente dalle mode e dalle correnti e capace di trasporre in poesia la lettura della storia del nostro tempo. La sua poesia ci accompagnerà sempre e sono sicuro che continuerà ad ispirare sempre chi sia im grado di seguire e scovare i veri sentieri della poesia.

Lucio Mayoor Tosi

La sua presenza è insegnamento. Sono addolorato.

Alfonso Cataldi

Incredibile. Proprio oggi rileggevo i suoi testi.

Antonella Zagaroli

Grazie John. L’avevo sentito a fine giugno e ne avevo parlato con Giorgio. Mi aveva detto che oramai era stanco ma “lei” non arrivava. Io gli devo la forza di portare avanti la mia poesia al di là dei pensieri altrui. Lessi profondamente ogni suo scri…Altro…

Letizia Leone

Una gravissima perdita umana e poetica. Un grande poeta che con autentica generosità si è dedicato da mecenate alla diffusione e promozione della poesia italiana con la sua pregevole Chelsea Editions… Condoglianze alla famiglia

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

Giorgio Linguaglossa

Una riflessione intorno all’opera poetica di Alfredo de Palchi

Un pensiero intorno alla povertà delle parole

Quando si pensa ad una nuova opera, ad una nuova «cosa», ad una nuova poesia pensiamo ad un «non ancora». E che cos’è questo «non ancora» che non riusciamo ad interpellare, a nominare? È l’impensato nel pensiero, l’impensato che sta al di là di ogni pensiero pensato… è il «non ancora» che guida il nostro pensiero verso la soglia dell’impensato. Allora, possiamo dire che è l’impensato che guida il pensiero verso il pensato…
La «metafora silenziosa» è l’impensato che fa irruzione nel pensiero.

Ecco, la nuova ontologia estetica è il «non ancora», è quell’impensato che muove il pensiero verso il pensato… Privati dell’utopia dell’impensato, si ricade nel pensiero già pensato, nel pensiero routinario… Dobbiamo quindi abitare l’impensato, abituarci al pensiero di abitare il «non ancora», l’impensato…

Dobbiamo intensamente pensare ad una «nuova metafisica delle parole» per poter pensare di fare «nuova poesia». Lo sappiamo, le parole della vecchia metafisica sono finite dal rigattiere, sono state vendute al Banco dei pegni. Dobbiamo trovare in noi una nuova patria metafisica delle parole, pensare alle linee interne delle parole, non a quelle esterne della rappresentazione. Quello che ha fatto Alfredo de Palchi è stato parlare direttamente della propria esperienza personale, per linee interne. E così la propria personalissima biografia è diventata la propria personalissima metafisica, e le parole sono venute da sole: brutte, sgraziate, cacofoniche, impopolari, antipatiche, anti letterarie, estranee, ultronee. Alfredo de Palchi ha fatto un passo indietro ed ha trovato come per magia le parole delle linee interne, ha esiliato le parole delle linee esterne, quelle compromesse con le parole di una metafisica non più ospitale, le parole fraudolente e ciniche, ha usato soltanto le parole sulfuree che gli dettavano la sua iracondia, le sue idiosincrasie, i suoi umori.

Qualcuno mi ha mosso, ragionevolmente, un interrogativo intorno a ciò che ho tentato di abbozzare con il nome di «metafora silenziosa». Comprendo bene le ragioni di tale diffidenza, sono comprensibili, condivisibili ma proviamo ad andare un po’ al di là del pensiero corrente, proviamo a pensare alla «metafora silenziosa» come ad una manifestazione del linguaggio. Possiamo dire così: che la «metafora silenziosa» appare quando il linguaggio si ritrae; la metafora silenziosa si annuncia quando l’orizzonte linguistico si ritrae; dobbiamo allora pensare alla metafora non come ad un composto di nomi, non come ad un nome che proviene da altri nomi, quanto come un nome che appare quando gli altri nomi si ritirano dietro la soglia dell’orizzonte linguistico.

La metafora silenziosa è qualcosa di analogo all’Umgreifende, qualcosa o qualcuno si manifesta e viene verso di noi quando non ci dirigiamo verso di lui, anzi, quando ci allontaniamo da lui, quando prendiamo congedo dalla povertà delle parole…

Allora, veramente accade che la parola si manifesta quando facciamo un passo indietro (zurück zu Schritt), quando pensiamo alla parola non per il suo rinvio ad altro ma per il suo non essere invio, o rinvio, per il suo non significato e non significabile, come a qualcosa o qualcuno che non può essere catturato, afferrato, preso (greifen) con la potenza della nostra volontà, ma che può essere preso soltanto mediante un atto di congedo da qualsiasi apprensione, con un passo indietro.

[Del termine Umgreifende sono state date numerose traduzioni tra cui menzioniamo ulteriorità (Luigi Pareyson), tutto-abbracciante (Cornelio Fabro), tutto-circonfondente (Renato De Rosa), comprensività infinita (Ottavia Abate), orizzonte circoscrivente (Enzo Paci); i francesi usano il termine englobantenveloppant. Nella presente trattazione, una volta chiarito il senso, s’è preferito lasciare il termine nell’espressione tedesca, il cui significato emerge dalle parole che lo compongono: “greifen” che significa “afferrare, prendere”, e “um” che è una preposizione che dà il senso della “circoscrizione”, della com-prensione”. “Um-greifende” è allora “ciò che, afferrando, circoscrive; prendendo com-prende”. Ciò che è circoscritto e com-preso è, stante il senso dell’operazione filosofica fondamentale, sia il significato oltrepassato, sia l’orizzonte oltrepassante. L’uno è presente con l’altro, ogni significato è presente con la totalità del suo “altro”, e la loro compresenza è appunto l’Umgreifende.1]

1] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente Feltrinelli, 2017, p. 78

Strilli De Palchi La poesia anticomplessa e commerciale

Strilli De Palchi Fuori dal giro del poeta

Il Mangiaparole rivista n. 1

Il «rumore di fondo» dell’opera di esordio di Alfredo de Palchi, Sessioni con l’analista (1967)

caro Lucio Mayoor Tosi,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/13/intervista-a-alfredo-de-palchi-a-cura-di-roberto-bertoldo-con-un-commento-di-john-taylor-per-il-92mo-compleanno-di-alfredo-de-palchi-poesie-scelte-da-sessioni-con-lanalista-1967/comment-page-1/#comment-44878

per rispondere alla tua riflessione, dico sì, penso che il critico, o il lettore quando devono sforzarsi perché non capiscono, allora danno il meglio di sé. La modernità della poesia di Alfredo de Palchi penso che risieda nel fatto che lui interviene nel contesto dei linguaggi letterari correnti degli anni sessanta con una carica de-automatizzante che frantuma il tipo di comunicazione segnica in vigore in quei linguaggi letterari, e lo frantuma perché quel suo linguaggio si pone al di fuori dei linguaggi del cliché letterario vigente negli anni sessanta.

Direi che il linguaggio di de Palchi in Sessioni con l’analista (1967) ha la forza dirompente del linguaggio effettivamente parlato in un contesto di lingua letteraria che non era in grado di sostenere l’urto di quel linguaggio che poteva apparire «barbarico» per la sua frontalità, perché si presentava come un «linguaggio naturale», non in linea di conversazione con i linguaggi poetici dell’epoca. Questo fatto appare chiarissimo ad una lettura odierna. E infatti il libro di de Palchi fu accolto dalla critica degli anni sessanta in modo imbarazzato perché non si disponeva di chiavi adeguate di decodifica dei testi in quanto apparivano (ed erano) estranei all’allora incipiente sperimentalismo ed estranei anche alle retroguardie dei linguaggi post-ermetici. Ma io queste cose le ho descritte nella mia monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi, penso di essere stato esauriente, anzi, forse fin troppo esauriente.

Ad esempio, l’impiego delle lineette di de Palchi era un uso inedito, voleva significare che si trattava di un «linguaggio naturale» (usato come «rumore di fondo») immesso in un contesto letterario. A rileggere oggi le poesie di quel libro di esordio di de Palchi questo fatto si percepisce nitidamente. Si trattava di un uso assolutamente originale del «rumore» e della «biografia personale» che, in contatto con il«linguaggio naturale» reimmesso nel linguaggio poetico dell’epoca che rispondeva ad un diverso concetto storico di comunicazione, creava nel recettore disturbo, creava «incomunicazione» (dal titolo di una celebre poesia di de Palchi); de Palchi costruiva una modellizzazione secondaria del testo che acutizzava il contrasto tra i «rumori di fondo» del linguaggio naturale, «automatico», in un contesto di attesa della struttura della forma-poesia che collideva con quella modellizzazione. Questo contrasto collisione era talmente forte che disturbava i lettori letterati dell’epoca perché li trovava del tutto impreparati a recepire e percepire questa problematica, li disturbava in quanto creava dis-automatismi nella ricezione del testo.

Io queste cose le ho descritte penso bene nella mia monografia critica, chi vuole può leggere e approfondire queste problematiche in quella sede.

Il problema di fondo che si pone oggi alla «nuova ontologia estetica», o comunque a chiunque voglia creare una «nuova poesia» è esattamente questo, ed è sempre lo stesso: come riuscire a creare dis-automatismi e dis-allineamenti semantici nel contesto dei linguaggi poetici ossificati dei giorni nostri…

Penso che oggi chiunque legga ad esempio la poesia di Mario M. Gabriele proverà disorientamento nel recepire un tipo di «composizione» che impiega i rottami e gli stracci, le fraseologie della civiltà letteraria trascorsa (cioè i «rumori di fondo») come un mosaico di specchi rotti che configgono e collidono nel mentre che rimandano all’esterno, cioè al lettore, una molteplicità di riflessi e di immagini creando nel lettore una sorta di labirintite, di spaesamento…

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove ha diretto per molti anni la rivista “Chelsea” (chiusa nel 2007), ed è morto il 6 agosto 2020. Ha diretto la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in nove libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L. Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010). Nel 2016 esce Nihil (Stampa2009) con prefazione di Maurizio Cucchi. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966); ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 e nel 2018 escono per Mimesis Hebenon gli ultimi due libri, Eventi terminali ed Estetica dell’equilibrio. È stato componente della redazione della rivista on line lombradelleparole.wordpress.com

73 commenti

Archiviato in poesia italiana del novecento, Senza categoria

Francesca Dono, 10 brani da 50 Post-it da: Caro tesoro, Progetto Cultura, 2020, Presentazione di Giuseppe Gallo

Francesca Dono animalistic nature

Francesca Dono, Animalistic nature, acrilico su carta, 2020

Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Laureata in Scienze Sociali, vive e lavora a Milano. a sei anni scrive la prima poesia. Si appassiona alla pittura e alla fotografia molto presto, nell’età adolescenziale. Molte poesie dell’autrice sono state inserite in varie antologie e su riviste on line: L’ombra delle Parole, Patria Letteratura, odissea, Bibbia d’asfalto – Disgrafie, Word Social Forum, Versinpelle, Frequenze Poetiche, Secolo Donna 2017 Primo almanacco di poesia al femminile “Macabor Editore”. Riviste rumene: oltart Nr. 2 2018- Sintagme Literare Nr. 3 -2018- Poǝs:s Nr. 3 (316)- 2018. La prima raccolta  è del 2014, Irda Edizioni  Tra l’Insionismo l’Inversionismo e il dialogo, fortunatamente introvabile. L’opera del vero esordio è del 2017, Fondamenta per lo specchio a cura di Giorgio Linguaglossa per la collana Noe Edizioni Progetto Cultura di Roma.

.

Presentazione
di Giuseppe Gallo

In parole brevi ed essenziali, il poeta di questi 50 Post-it, già dall’inizio mette in evidenza una possibile chiave di lettura per la propria silloge: una serie di messaggi al “caro tesoro”. Finzione o gioco? E chi sarà questo destinatario? Il diario? L’altro se stesso? Un proprio eteronimo? Qui non conta la risposta! Ciò che conta è che questi Sms diventano la cifra della propria nudità, nel senso che il poeta, attraverso queste icastiche annotazioni, ripetitive e ossessive, redatte in forma di diario, sotto la pressione delle urgenze quotidiane, ricrei il mondo della propria disgregazione, delle crepe e dei filamenti sfilacciati, ma che ancora tengono, la fotografia del proprio autoritratto. Così questi post-it diventano il block notes degli inciampi mentali, dei cali fisici, delle aspirazioni salvifiche, delle fantasie scheletriche di una soggettività che si trasforma in “scrittura”.
Una scrittura senza canto ma, sotterraneamente tesa, alla poesia; una poesia frutto di conflagrazioni telluriche, di agglomerati allergici, di flussi e riflussi magmatici, di balenii e di lampi esistenziali.

Si potrebbe dire, per buona parte della raccolta, che questa è costruita sull’intelaiatura di una versificazione “orizzontale” che cerca di prendere all’amo tutte le porzioni possibili della realtà, di sottoporle al vaglio della razionalità, mettendole a confronto con tutto il resto: soprattutto con ciò che rimane dell’io individuale, ormai ridotto a sostanza di sguardo, avendo eliminato qualsiasi approdo psicologico, elegiaco o lirico, che dir si voglia. Mentre il verso breve della tradizione letteraria nazionale sembrava andare verso l’io e le sue declamatorie e retoriche esigenze, qui si tende a raccogliere ciò che il tramaglio poetico incontra momento dopo momento: da ciò l’espediente del post-it: un appunto, una frase, una parola, un segno, ditono e di colore, il “maumau, l’ambarabacicìcocò, il bip bip, il trip” e così via dicendo, perché niente vada perduto o, meglio, perché tutti questi rimasugli e queste parti ritornino alla dimensione di quel tutto che va ricomposto e allineato e accumulato, perché è dal tutto che si spera possa giungere l’epifania di qualche significato aurorale e primigenio.Il resto è spazzatura…

Questi 50 Post-it sono la narrazione di un malessere, in forma anche di delirio, non solo materiale ma anche linguistico:
“Un bicchiere affilato di spine.”
“Per cortesia potresti prendere quelle gambe lacere e ritornare sulla strada dispersa?”
“…Su e-bay l’indifferenza si compra a metà prezzo.”
E così di verso in verso, da un’immagine all’altra:
“…una sporta di farina senza veleni.Il pane e l’olio blu per non franare dalle molliche.”
“Quei due con un terzo braccio meccanico? Il prete nel segreto della benedizione?”
“L’erba si sfoglia variabile. Le piccole fotografie nel velo bagnato.”

è un “riguardarsi allo specchio” e qui bisogna fare attenzione, perché qui lo specchio è una lastra di ghiaccio che si spezza e si frantuma proprio nell’atto stesso dello specchiamento. Difficile vedersi e capirsi in queste condizioni! Di questi sguardi frantumati rimangono, per fortuna, le tessere incidentate delle parole. Solo tramite la loro mimesi e i loro travestimenti si potrà ricostruire la fisionomia della “vis poetica” che li ha partoriti. anche perché questa forza si carica di violenza e di assolutezza. Se non fosse così non si potrebbe essere poeti!

“Non un rimbalzo di ossigeno. Mani compulsive ingialliscono. Chi potrebbe riparare la meccanica dei polpastrelli al tour del piacere?”
“Caro tesoro qualcosa non ha funzionato. Troppa confusione sulle pareti. Sui tratti degli spigoli. Da una certa distanza la ruggine si vede sfusa.
Pendula ai fibromi dei corpi. ad esempio cosa ci fa la millefoglie dentro il microonde?”

“Una sigaretta anaffettiva. Con “la puzza di bruciato” dilagato dentro e fuori. Più di tutto al nostro amore di viscosa.”

Oggi, non è tempo di tergiversare. La situazione esterna della cultura di massa è ormai così sclerotizzata ed è così priva di qualsiasi singulto di vitalità, che il poeta non può far altro che osservare, chiudere gli occhi e navigare o, meglio, lasciarsi travolgere da queste fiumare di materiali linguistici e da questi rottami culturali.
Il mondo circostante è un continuo cimitero in cui gli unici colori sono quelli dei crisantemi di plastica, dei coriandoli di polistirolo, delle luci del pulviscolo delle nebbie inquinate e delle piogge acide.

“Caro tesoro i crisantemi hanno ricevuto concime e acqua. Di default l’erba lisciata alla rinfusa.
Che non ci sia un vaso di carattere?
Le pietre caricano la base. I vermi l’argento surreale delle venature. Forse il motivo è di questa nebbia da infarto.
Alla strana pelle dei ponpon racchiusi sulla tangenziale infeltrita. Oggi diamoci un occhio in più. Non il design obbligato dalle buche del terriccio.
La festa dei morti sfiata sul suolo. Nel decollo
ornamentale di sputi e di parole.”

In questi versi, quasi sepolcri orizzontali delle parole, morte e moribonde, si avverte la frammentarietà e la disgregazione della lingua paludata della tradizione poetica.
Non per nulla il poeta sente il bisogno di rivitalizzarne la semantica ricorrendo al soccorso delle perifrasi, dei riporti linguisti e degli inserti mediatici della cultura di massa, riversata o abbinata alle lingue straniere, dall’inglese al francese e ai linguaggi di derivazione tecnologica.

Il paesaggio urbano è un marasma schizofrenico dove gli occhi non hanno più alcuna direzione privilegiata. Non ci sono più orizzonti. I caseggiati, i viali, gli autobus, i tram, le piazze,i semafori, gli interni degli appartamenti hanno l’andatura sbilenca dei ciechi. Si avverte un soffocamento continuo, un tramestio nelle viscere che rinfocola il rifiuto e la nostalgia…
Qui l’unica speranza di sopravvivenza è quella di rifugiarsi all’ombra delle croci e delle fotografie incancrena agli angoli e agli incroci degli incidenti… oppure nel “…silenzio rarefatto” e affrettato degli occhi, nel “volo delle ragnatele sulle guance afflosciate dai solchi resistenti.”
Nella “Insonnia della morte.” Ma queste sono solo e soltanto pause momentanee perché il poeta, “Fresco di giornata”, è già pronto a perpetuare il suo “lavoro da moribondo”.

Francesca Dono

50 Post-it da: Caro tesoro

1
Caro tesoro quanti film abbiamo visto? Una vita
intera. La coda dell’occhio appiccicato sugli stessi
attori. Faccia dopo faccia.

La sera ci porta inutili alla notte. Irregolari davanti al
fotomontaggio della luna. Forse ti stai annoiando?
Una cascata di canali ultra patinati.

Case e pistole puntate alla testa per ogni episodio.
“Pocahontas” impara dagli indiani come prendere al
volo gli uccelli.

Gli orsi di “Cavallo Pazzo “in che modo stratificare la
neve al caldo. Un suicidio. Nel rito dedicato al
“Manitou” della prateria.

Sono anni che dormiamo davanti ai raggi infrarossi.
Con le scorze del tempo. Una stanza “still corner”. Il
divano rovesciato. Continua a leggere

8 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Dalla storicità forte di Rimbaud alla storicità debole di oggi, Cosa ci resta di  Rimbaud? Una stagione all’inferno a cura di Carmelo Pistillo, testo francese a fronte, La Vita Felice, 2020, Francesca Dono, Good morning, acrilico, nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Francesca Dono good mornig, acrilico a secco su carta 2020

Francesca Dono, good morning, acrilico a secco su carta, 2020

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.»

Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.

Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di fare una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte» pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo ha bene illustrato il pezzo di Lucio Mayoor Tosi citato all’inizio.

Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò comporta una presa di consapevolezza che quella metafisica non è più utilizzabile, che dobbiamo andare al fondo della crisi di quella metafisica per poterla abbandonare nella sua interezza. Soltanto abbandonandola in piena consapevolezza possiamo alleggerirci e andare oltre, oltre il novecento. Noi possiamo soltanto raccogliere quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, ma con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con queste «cose» che noi dobbiamo edificare.

Arthur Rimbaud

Rimbaud, foto di Marie Laure Colasson

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi per poterlo meglio ricordare. Forse oggi non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.

La guerra franco-prussiana e la rivoluzione della Comune di Parigi nel 1871 sono lo sfondo e il fondamento della poesia di Rimbaud. Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti, che la Rivoluzione del 1789 è la più grande sciagura della Francia, che i comunardi sono dei pazzi furiosi;  predica il ritorno alla monarchia cattolica e legittimista. I litigi tra i due innamorati sono sempre più violenti. Paul e Arthur, per noia, fanno un gioco: coprono due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, poi si colpiscono finché non esce sangue. Dopo fanno l’amore. Verlaine, è posseduto dal pentimento, Rimbaud gli grida che è un gesuita infame e ipocrita; Verlaine gli chiede di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli risponde con atroci bestemmie; Verlaine lo accusa di essere un comunardo incendiario e un sostenitore del suffragio universale… alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portasse il loro vagabondaggio esistenziale. 

La tradizione come distinzione  di Tradition e Ueberlieferung (trasmissione) si è interrotta, Rimbaud è il primo poeta ad avvertire il peso di questo evento. La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore. A mio avviso, è qualcosa di più di un «guasto», qualcosa di diverso: siamo entrati tutti in un «nuovo orizzonte di eventi», in una condizione di «storicità indebolita», di «consapevolezza indebolita», di un ulteriore «indebolimento dell’essere». Con le parole di Heidegger: l’essere è «ciò di cui non ne resta più nulla», in cui, nella scia di un pensiero post-metafisico, non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto.  La «distruzione dell’ontologia» ha inizio nell’ottocento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo.

Cosa ci resta oggi di un poeta come Rimbaud?, Carmelo Pistillo in questo suo denso volume tratteggia la vicenda umana e poetica del poeta di Charleville come segue.

(Giorgio Linguaglossa)

Rimbaud

“Lascia l’Europa perché all’Europa oppone un modello di umanità allo stato selvaggio, così come in quello stesso periodo farà Gauguin. Ad Aden, sogna Harar, che è la Svizzera africana. Ad Harar, sogna Zanzibar o Panama o, semplicemente, di «andare a trafficare nell’ignoto» (Olivier Clément). I suoi viaggi ricordano, seppur in modo rovesciato, i voyages de découvertes intrapresi da Hegel alla scoperta della fenomenologia. Per il francese, però, il percorso si svolge in senso inverso. È l’occasione per sopravvivere senza la poesia. Un bene dell’anima di cui ha perso la memoria e di cui farà a meno. La poesia verrà sostituita con il mestiere. L’adolescente rapito dagli incantesimi sarà letteralmente scalzato dall’uomo che lavora. Rinuncia dunque a inventare una nuova lingua ma impara e approfondisce le lingue legate al suo mestiere. Studia le scienze applicate. Durante il periodo africano chiede alla famiglia di spedirgli decine di opere (manuali da carradore e da scalpellino, da vetraio e da fabbro; trattati di trigonometria e di meccanica, di idrografia e di meteorologia; opere sulle ferrovie e sulle lingue locali, ecc.) a testimonianza di un distacco radicale dalla poesia a favore della non-poesia. Ha bisogno di tenere i piedi ben piantati in terra. Il mestiere che svolge non consente distrazioni. La sua produzione poetica dura dunque pochissimi anni. All’età di ventun anni ha già detto tutto. Ciò che doveva scrivere l’ha già scritto. La sua poesia entra sovranamente nel silenzio dell’aria. Solo il silenzio è grande, dice Vigny, tutto il resto è debolezza. Ed è forse proprio questo silenzio sul proprio passato a fornire a Rimbaud la giusta energia per affrontare una vita nuova in mezzo a pericoli e continui rovesci di fortuna. 24 Dopo numerose traversie e marce sfiancanti, si stabilisce in Africa, dove svolgerà con impegno e serietà vari mestieri, fino all’ultimo di stimato mercante d’armi per il negus Menelik. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che sia stato anche trafficante di schiavi anche se di questa attività non esistono prove certe. Con una gamba in cancrena, dopo dodici anni di assenza, rientra precipitosamente in Francia, per la precisione all’ospedale di Marsiglia, dove gli viene amputato l’arto. È il 1891, anno della sua morte. Ha 37 anni come van Gogh, morto suicida nel 1890 in una fossa di letame.» Continua a leggere

8 commenti

Archiviato in poesia francese, Senza categoria

La Neglitudine umana Poesie di Marina Petrillo, La razza aliena di Edith Dzieduszycka, video di Diego De Nadai, Il centro eccentrico della soggettività, Da dove scaturisce l’eccedenza di senso, di Carlo Livia, una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Homo sapiens, di Francesca Dono

Francesca Dono homo sapiens 26x34 su carta lavata Olio e acrilico, 2020

Francesca Dono homo sapiens 26×34 su carta lavata, olio e acrilico, 2020

Uno scarabocchio, questo è diventato l’homo sapiens di Francesca Dono, che non si distingue più dal fondo tonalmente opaco e slontanante, un mucchietto di linee tonde, arcuate e spezzate… Il segno, da indice testuale (cioè entità semiologica) si altera in entità organicamente partecipe del corpo. La difficoltà di questo punto è evidente: dire che nell’essenza del vivente vi è il tracciarsi (come semiosi ma anche come percezione di sé) significa pensare diversamente il vivente, ma anche la scrittura. Il vivente animale è quell’ente che si scrive sempre entro una tendenza a percepire il proprio movimento, percepire le tracce del suo vivere, e quindi, in qualche modo a fare dell’autobiografia. (g.l.)

Edith Dzieduszycka

La razza aliena

D’origine francese Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie stu­di classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa dedicandosi parallelamente al disegno e alla poesia (un premio nel 1967 e presenza in varie antologie). Nel 1968 si trasferisce in Italia: Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate. Dal 1979 vive a Roma. Oltre alla scrittura conduce un’attività artistica con personali e collettive in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004; Diario di un addio, poesia, Passigli, 2007; Tu capiresti, poesia e fotografia, Il Bisonte, 2007; L’oltre andare, poesia, Manni, 2008; Nella notte un treno, poesia bilingue, Il Salice, 2009; Nodi sul filo, 20 racconti, Manni, 2011; Lo specchio, romanzo, Felici, 2012; Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013; Lingue e linguacce, poesia, G. Bentivoglio Ed., 2013; A pennello, poesia, La vita Felice, 2013; Cellule, poesia bilingue, Passigli, 2014; Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi, 2014; Incontri e scontri, poesia, Fermenti, 2015; Trivella, Genesi, 2015; Come se niente fosse, Fermenti, 2015 e La parola alle parole, 2016, Squarci (2017), L’immobile volo (2020) con Progetto Cultura; Intrecci, romanzo, Genesi, 2016; Haikuore, haiku, Genesi, 2017; Bestiario bizzarro (Fermenti); Squarci (ProgettoCultura); numerose antologie, tra cui Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di G. Linguaglossa, Progetto Cultura, 2016 e Inquiete indolenze, a cura di R. Piazza, Fermenti, 2017. Ha curato le pubblicazioni di: Pagine sparse – Fatti e figure di fine secolo, di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007; La maison des souffrances. Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Editions du Roure, 2011; Le sol dérobé, Souvenirs d’un Lorrain 1885-1965, de Marcel de Hody, Editions des Paraiges, 2016.

Si sfilano sfilacciano dissolvono
gli esseri le cose gli eventi
all’interno del tempo
ciste nebbiose dagli orli sbiaditi

giocano con la luna e le stelle filanti
le comete lontane dalla coda ritrosa
strascichi lenti dalle mosse sornioni
vengono trasportati da brezze impercettibili
verso contrade ignote

fanno finta di stare
immoti, lì, per sempre
non potersi staccare dalla loro memoria
estenuata
resistono, a lungo, lembi stropicciati
all’assalto del vento nel frattempo alzato
che li strappa e inghiotta
bocconi dal sapore ormai scipito

L’orrido buco nero in cui sprofonderà
un giorno che verrà ancor indecifrabile
l’immane umana massa dalle mosse inconsulte
che gremisce la scorza dell’albero ignaro
possiede labirinti anfratti nascondigli
cunicoli carnivori dai fetidi sentori
reconditi recessi ove stanno strisciando
le larve sontuose di una razza aliena

enumerate in ordine sopra le tavole
d’un disegno segreto a loro stesse ignoto
le loro maschere sono indecifrabili
icone immote e mute d’un segnale in attesa
avvolte nelle vele dai risvolti cangianti
di ali ripiegate intorno all’ignoto
ora stanno dormendo d’un sonno intermittente

sapranno cosa fare nell’ora della muta?
è stato loro infuso in onde virtuali
sentieri da scoprire percorsi da seguire
quando riapriranno i loro occhi spenti
strisciando verso l’uscita in uno slancio obliquo?
spazzeranno stridendo la torba brulicante
avvolta nell’inezia della sua ignavia?

Ma sarà tardi ormai per poterle respingere.

 

Marina Petrillo

Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Nel 2019 pubblica materia redenta con Progetto Cultura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.

Lo splendore disarma l’Evento a prisma.
Avviene, eterno, in omeopatia costante.

Trae origine il gesto sino a disincarnarsi.
Fu antecedente all’intento primigenio.

Vuoto, cade a sua simiglianza
inviso al precursore della scalfita Ombra.

Spinge la frequenza alla consegna
del cielo a nuovi dei esenti da onnipotenza.

Un suono li precede come fossero untori
di incauto infinito tra spoliati sogni.

Semenza in mosto consapevole al delirio delle coscienze.

Neglitudine umana del cui diafano sole
conscia ne è la terra.

*

Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.

Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti
da brividi albescenti.

Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.

Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.

 Azzardo una ipotesi ermeneutica: l’autos del discorso poetico di Marina Petrillo è prigioniero di un tempo-spazio intra-soggettivo precedente il costituirsi stesso della soggettività, tanto di quella cosciente quanto di quella subcosciente, la quale abita naturalmente le zone ibride fra le zone di attività e di passività della poiesis, quella zona neutra del linguaggio poetico che abbiamo più volte investigato.

Autos è, ad esempio, la funzione intra-soggettiva («Neglitudine umana») che fa perdere di pertinenza alla dicotomia sonno-veglia, così come a quella percepito-percepiente, e a tutte le altre che la riflessione può imbastire.

Il centro è allora in quelle zone, in quelle funzioni, in quelle mobili organizzazioni di relazioni tra interno ed esterno, l’alto e il basso sempre pre-verbali, le quali, a stretto rigore, non sono da nessuna parte e, purtuttavia, esistono e insistono e producono effetti intra-soggettivi. L’autos del discorso poetico petrilliano non è ubicabile nel tempo o nello spazio in modo identificabile ma in un altrove nel quale l’autos può esplicarsi.

All’autos pertiene una quota di staticità: è il provvisorio costituirsi come centro eccentrico della soggettività. Ciascuno di noi ha ed è la forma di un imbuto di raccolta degli stimoli sensoriali, o, in altri termini, ha ed è una trama di segni, una traccia, delle orme. Ma è anche vero che l’autos è già altro da sé (altro dall’autos) in quanto sede di dinamismo involontario, in quanto è ciò che mi ri-produce, che mi fa essere me, con adesione immunitaria e perfino auto-immunitaria del me. La poiesis petrilliana opera in questa no man’s land, espressione da intendere alla lettera come landa senza vivente umano. In questa terra di nessuno, dove l’uomo è senza uomo in quanto ancora mancante di sé, nasce l’impulso verso il linguaggio simbolico e verso la poiesis.

L’impulso verso la poiesis è un evento che, nella sua assenza di volumetria, sfiora il nulla ma che, essendo già strutturato, non è un nulla: in esso
occorre pensare la compresenza problematica di autocoscienza riflessiva e vigilanza, una forma di vigilanza orientata in senso percettologico e teleologico, un’estesiologia della scrittura poetica che promana dalla mentale corporeità.

(Giorgio Linguaglossa)

Grazie infinite Giorgio, per la tua vibrante ipotesi ermeneutica.
Essere presenti su questo piano di esistenza ; esserlo in parte o del tutto a sua insaputa, in paradosso generativo. Un continuo spostare i piani intersecantesi a precipizio, sino a non giungere che alla visione interiorizzata, memoria emanante se stessa. Fonte in cui i linguaggi interagiscono in latitudine difforme.
Agisce la sospensione in evanescenza convergente a multiverso. Si sommano e sottraggono le parole trasmutate in Verbo. La conoscenza si impreziosisce di immagini latenti al reale, tuttavia non esclusive di ciò che visibile, su questo piano, immaginiamo di poter tollerare.
Amplia il suo grado il potenziale la cui finitezza abita l’imperscrutabile.
Svapora e torna ad identificarsi in ciò che stato, è. Un fotogramma scardinato al dipanarsi di tempi avulsi da ogni contesto.
Non definibile il sacro. Insostenibile la capillarità delle sue emanazioni giunte da ogni silenzio. La solitudine sovrasta l’eco umana. Polverizza la meticolosa parsimonia del presente in atto volto a frantumazione.
Sublimante attracco ad un linguaggio graffiato della sua vibrazione terrestre e riportato a spazio estremo. Pessoa invaghito dell’alterità eterica subliminale all’essenza animica.
Si stabilizza quindi in rare parole evocative, attinte dall’archetipo profondo ancora privo di dimensione . Misterioso al suono evocato dall’oltre terreno in ibrida specie. E’ tocco che amplifica , genera onde di impermanenza.
Commuove, poiché estraneo ad ogni mondo.

(Marina Petrillo)

Da dove scaturisce l’eccedenza di senso

la semantica poliedrica, metamorfica, inafferrabile della poesia, e come può costituire un‘istanza palingenetica, soteriologica, fronteggiando la deriva metafisica oggettivante, nichilistica, distruttiva del pensiero tecnologico?

In Su verità e menzogna in senso extramorale Nietzsche enuclea l’origine convenzionale e l’implicita violenza ideologica della formazione del linguaggio convenzionale, razionale. Tutta la conoscenza scaturisce da un processo individuale di creazione di metafore, cioè simboli mediatori fra esperienza sensibile e attività psichica. L’esigenza sociale di comunicazione e coerenza determina l’imposizione, da parte dei dominatori, di alcune di questo errante esercito di metafore individuali, che vengono canonizzate attribuendovi, surrettiziamente, il valore di verità. Questo determina l’emarginazione e la subordinazione di tutta l’attività creativa degli altri sistemi simbolici, a cui viene negato valore e significato, se non come patologie o inutili fantasie.

Non solo a livello sociale, ma anche all’interno della psiche questo dominio gerarchizzante vincola e imprigiona in dogmi norme espressive cristallizzate. La formazione della coscienza razionale è l’esito di sistemi di forze in conflitto, da cui, per esigenze ancora una volta sociali, si costruisce una identità, precaria e instabile, che è la persona (maschera) che meglio sembra adeguarsi alle esigenze relazionali.

Questo processo di conformazione a codici e paradigmi logici e morali eteronomi, e quindi vincolante e alienante, nasce nel pensiero nicciano dalla metafisica platonica. La “decadence” del pensiero è nata dalla necessità di preservare l’immutabilità ed eternità dell’Essere, come era per Parmenide, dalla impermanenza del materialismo di Eraclito, per cui tutto è divenire, morte e mutazione, come nell’esperienza comune.
L’Essere viene così relegato nella dorata immutabilità del mondo delle idee, ma così anche mummificato e dimenticato (la res amissa dell’ultimo libro di Caproni). Perduto il senso dell’Essere come arkè e telos, il pensiero si concentra solo sugli enti, con un atteggiamento dominatore e distruttivo che è andato radicalizzandosi fino all’odierna ossessione capitalistica e consumistica.

Nietzsche, figlio e nipote di pastori protestanti, matura una crescente ribellione e risentimento nei confronti del cristianesimo, per cui non può o vuole capire che la vera liberazione dalla metafisica , da lui tentata invano, era già avvenuta proprio nel pensiero cristiano, certo non in quello che da Paolo alla patristica si ibrida di toni ellenistici, riproducendone gli stessi paradigmi ontologici, ma nella predicazione evangelica, come si evince dall’incipit di Giovanni. Cosa significa che il Verbo si fece carne e abitò in mezzo a noi, se non rovesciare lo schema platonico e riunire trascendenza e immanenza?

Verbum traduce logos, che non è solo parola, ma pensiero e soprattutto relazione. Il “grande simbolista”, come lo stesso Nietzsche chiamava Gesù, opera la necessaria correzione morale al dogmatismo idealista, riducendo tutti i comandamenti alla carità, cioè all’unico evento che non si può comandare, perché eccede la sfera razionale, unendo individuo ed essere, libertà e necessità, come ben intuito da Spinoza.

La visione evangelica del predominio dell’agape sulla ragione offre anche l’unica via d’uscita alla strettoia ermeneutica, inaugurata dalla celebre frase “non vi sono più fatti ma solo interpretazioni”. Ha giustamente fatto notare Gianni Vattimo che non si è dato la giusta importanza alle parole che la chiudono, ribaltandola: ”ma anche questa è un’interpretazione”.
Evidentemente questa chiusa indica implicitamente l’ineludibile aporia sottesa al nichilismo.

L’ha evidenziata con molto acume Heidegger, che indica il limite dell’istanza iconoclasta di Nietzsche, e di tutti coloro che, volendo rovesciare la metafisica, non fanno altro che riproporla, mutandola di nome e prospettiva: la volontà di Potenza, o il nulla di Leopardi o Sartre, non sono altro che un nuovo fondamento metafisico, un’ontologia che ricalca lo stesso shema platonico-cristiano, solo che sostituisce il nome di Dio con un altro.

Anche Heidegger, figlio del sagrestano di Messkirch, fatto studiare teologia per iniziativa del parroco, tenta in tutti i modi di emanciparsi dalla sua formazione cattolica, che non odia e diffama, ma vorrebbe integrare alla filosofia greca e alla fenomenologia di Husserl. Cos’è infatti la sua visione dell’Essere se non una trascrizione in chiave esistenzialista della teologia apofatica dei grandi mistici cristiani, da Ekhart a Cusano?

Nel suo capolavoro, Holzwege, tenta sulla scia della poesia mistica di Holderlin, di fondare un nuovo pensiero, che sia “all’altezza delle immagini dei poeti”, che “seguono le tracce degli Dei fuggiti”, per rifondare sacralità e mistero, oltre la miseria del tempo del tramonto, in cui si attende la venuta di nuovi Dei.

Riflettendo sul famoso aforisma nicciano della Gaia scienza, in cui l’uomo folle annuncia la morte di Dio, conclude: “L’uomo pazzo…è colui che invoca Dio chiamandolo ad alta voce. Un pensatore ha mai realmente invocato così De profundis? E hanno udito le orecchie del nostro pensiero? O continuiamo ancora a non udire quel grido? Il grido continuerà a non essere udito finché non si incomincerà a pensare. Ma il vero pensiero incomincerà solo quando ci si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la più accanita nemica del pensiero”.

(Carlo Livia)

8 commenti

Archiviato in Senza categoria

Sul Gesto poetico, Giorgio Agamben, Commenti e Poesie di Alfonso Cataldi, Gino Rago, Carlo Livia, Mauro Pierno, Edith Dzieduszycka, Giorgio Linguaglossa, Luigi Celi, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Video di Gianni Godi su testo di Mario Lunetta, Parola di Satana

Giorgio Linguaglossa

Messaggio della Signorina Anais  al dottor Cogito

dottor Cogito,

devo vedervi per una questione di grande urgenza:
il futuro della filosofia tedesca è a repentaglio.

Ho bisogno di incontrarLa al più presto,
la prego di venire al caffè Freud alle nove in punto,

domani mattina.
Sua devota estimatrice.

Anais

*
Risposta di Cogito

gentile Signorina Anais,

Frequenti più spesso l’obitorio, lì c’è qualcosa che la Musa non disdegna.
Ma ci sono anche la discariche abusive frequentate dai corvi,

dai gabbiani e dal Signor Socrate,
il quale apprezza fuori misura questo moderno peripato…

Il cruciverba mattutino dove Madame Colasson e Greta Garbo
si scambiano di posto e il rossetto.

Dove mi trovo?, sono qui, nel giardino sotto casa, annaffio le margherite,
mi creda, è un’occupazione rispettabile e ricreativa.

lo spirito ne guadagna, e così anche l’umore.
Delle questioni di filosofia, reputo, se ne occuperà qualcun altro.

Cordiali saluti.

Cogito

Gino Rago

 

sms per il dottor Cogito e per la signorina Anais

Signorina Anais, Dottor Cogito,

Herr Kommerell ha strappato il saggio su Kleist.
A nessuno interessano

i tre gradi dell’essere nel linguaggio senza parole.
Se si nomina l’enigma

i parlanti si rendono incomprensibili
anche pronunciando fiumi di parole.

Se si dice arcano
quanti sono disposti a credere che è

l’essere stesso dell’uomo,
che vive nella verità del linguaggio.

Che dire del mistero,
della pantomimica messa in scena dell’arcano.

Il poeta rimane senza parole
nel parlare,

muore al mondo per la verità del segno.
Rätsel, Geheimnis, Mysterium

siete Voi due, Dottor Cogito, Signorina Anais,
il gesto libero sul vuoto.

Paola Renzetti

15 marzo 2019 alle 14:15

Nella cultura c’è spazzatura, certamente, ma, si potrebbe obiettare – allora cultura non è. C’è ancora un sentimento dignitoso di sopravvivenza, di speranza e di memoria storica. Anche da quello si procede, unitamente alla capacità di trovare fra i resti, quel qualcosa che può fare la differenza fra la resa incondizionata al tutto-nulla equivalente (qui sta l’illusione) e la forza di essere ancora vivi. Le passeggiate appartengono all’umana debolezza. Che male possono fare? Certo possono confondere le acque (chi non è mai confuso?) ma prima o poi si torna a distinguere. È una ricerca che continua, una bella ricerca quella della nuova ontologia estetica, mi pare di capire nelle espressioni testuali e nelle scelte, aperta e varia. Sono tanti ad avere talento e a volerlo esprimere.
“Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura” (Ezra Pound)

Gino Rago

La critica linguaglossiana, che parte da lontano, più che sopra un coeso sistema speculativo, fatto anche di domande e di risposte, si basa su quella che direi una strategia della problematizzazione la quale si sdipana e giunge ai lettori a forza di gesti, di gesti estetici che non parlano “ai” poeti ma “con” i poeti, in una compostezza di percorso.
Non mi dilungo, ma non posso fare a meno di ricordare che proprio da Agamben, a lungo interpellato e trattato da Giorgio Linguaglossa anche in altri momenti e in altre sedi (per esempio in Critica della Ragione sufficiente del 2017, ma altresì in Dopo il Novecento del 2011) ci sono arrivati segnali non di fumo, né di vapori sfuggenti, verso ciò che è “critica” e che deve tornare a esser “critica”, a tutto vantaggio della nuova poesia.
Agamben ha da sempre indicato in Max Kommerell il maestro indiscusso della critica, affiancandogli Benjamin e anche Contini.
Linguaglossa ha non di rado guardato nella direzione di Kommerell nei suoi esercizi di ermeneutica, non negando al critico tedesco mai l’ospitalità problematica nel suo laboratorio di «calzolaio della poesia», come egli stesso ama definirsi, e della critica.

Indico soltanto pochi punti della idea di “critica” di Kommerell-Linguaglossa.
La critica ha 3 livelli, quasi 3 sfere concentriche:

– un livello filologico-ermeneutico;
– un livello fisiognomico;
– un livello gestuale.

Un livello “gestuale”.
Ecco perché nel mio pensiero rivolto all’atto ermeneutico di Giorgio Linguaglossa, anche quando fa poesia, ho parlato di “gesto”, di “gesto estetico”, un gesto senza il quale la critica è mutilata.
Ma cosa è un gesto nel livello gestuale della critica? Secondo Agamben-Kommerell-Linguaglossa il senso di questi gesti linguistici non si compie nella “comunicazione” perché per Kommerell:
«Il gesto, per quanto cogente possa essere per l’altro, non esiste mai unicamente per lui; solo, anzi, in quanto esiste anche per se stesso, può essere tanto cogente per l’altro.
Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso.
Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari».

“Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari…”. È già da solo un pensiero che vale una intera poetica.
In quale gesto può essere possibile trovare la cifra autentica nella scrittura critica di Giorgio Linguaglossa? Per me risiede nella “compostezza”, una compostezza che mai si fa supponenza o metallica seriosità, ma metodo del pensiero che definirei strategia della problematizzazione. Continua a leggere

7 commenti

Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria

Cinque Esempi di nuova poesia, Poesie di Marina Petrillo, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa, Mauro Pierno, Francesca Dono

Foto volto con quadrato nero

Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla

La poesia si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.

Al poeta è assegnato il posto nel “frammezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.

Vera aspirazione della poesia è quello essere di casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque ci si trova spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso.1

Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.

Sono due miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un referente, come del resto anche nelle tue poesie non c’è nulla del concreto-presente. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione. Ereignis. La poesia avviene perché la poesia è evento. Ma che cosa significa questo? La mancanza di evento è l’Evento centrale della nostra epoca. A questo Heidegger non era arrivato. Così l’arte si riappropria di ciò che era andato perduto durante l’espropriazione epocale. È paradossale ma pensabile, la nuova arte, la nuova poesia eredita l’eredità della mancanza dell’evento. E con ciò muore davvero, muore quell’arte che contemplava la vecchia metafisica e l’ontologia del novecento. Scrive Roberto Terzi:«Che cos’è assegnato come compito da-pensare al pensiero raccolto nell’evento e quale può essere la maniera adeguata del dire che vi corrisponde?». La formula das Ereignis ereignet, «l’evento fa avvenire», ha innanzitutto la funzione di mettere in guardia «da come non va pensato l’evento», ma lascia aperto il problema di come pensar-lo «in positivo», problema che si riformula nella domanda: «che cosa fa avvenire l’evento? Che cos’è fatto avvenire dall’evento?»

(Giorgio Linguaglossa)

1 Cfr. M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” a cura di W. Biemel, in Gesamtausgabe, cit., vol.LIII, p. 22; tr. it. a cura di C. Sandrin eU. Ugazio, L’innoDer Ister di Hölderlin, , Mursia, Milano 2003

Marina Petrillo

Ti dissi persa tra stralunate vie
mentre giaceva calco dell’ immagine
a sua insaputa.

Nel disconoscere ogni tratto dell’ umano
un Leviatano dimora in angusta forma.

A nausea di vento, in grigio amplesso
con le vie, il contemporaneo assilla in decadente stella.

Cereo, l’etere volteggia in serialità postuma
alla sua essenza.
L’ identità spinge il molteplice a frammento
e sconosce il lamentato io.

Vissute ad altra sponda, creature muovono
loro l’incanto, in sbadigliante forma appresa
in mutilata sinapsi.

Perviene mappa dell’insoluta distanza
terracquea tra i non finiti e gli estinti,
limite forse avverso alla vita.

Ad Edith, Marina P.

Marina Petrillo parla… E si chiede: che significa ‘vi è linguaggio’?, che significa ‘io parlo’?… Significa che le s-grammaticature, la dis-tassia inter-vengono nel discorso ad inter-rompere il flusso semantico e sintattico; significa che ciò che il linguaggio dice e non dice è sempre un mentire, che il linguaggio mente, è ambiguo, privo di fondo, di fondamenta, e questo dis-ancoraggio del linguaggio dal linguaggio è un dis-ormeggio del Sé da se stesso… è questo vagare tra dis-tassie combuste e s-grammaticature… Così, Marina Petrillo è costretta come una sibilla Cumana ad ordire parole e frasari senza senso alcuno, a seguire a ritroso e contro corrente il linguaggio, venire dalla traccia per ad-venire ad un luogo dove il linguaggio cessa di essere significante e rivela il nulla di cui è composto e da cui proviene.
Paradossalmente, la credente Petrillo giunge a lambire il nulla del linguaggio molto di più dei mis-credenti che ripongono una ingenua fiducia sulle virtù salvifiche del linguaggio.
I limiti del linguaggio non sono trovati al di fuori del linguaggio, in direzione del suo riferimento, ma in un’esperienza del linguaggio come tale, nella sua pura autoreferenzialità.

(Giorgio Linguaglossa)

Giorgio Linguaglossa

Ecco due mie prove di post-pop-poesia. Non saprei dire se c’è un evento. Di sicuro, siamo fuori del vecchio concetto di «rappresentazione», ormai obsoleto.

Esercizio con violino e tamburo

K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]

Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.

«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere

e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.

«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.

Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.

«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.

Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.

Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»

[…]

Il commissario fece un buco nel muro. «Qui c’è la refurtiva.
Sì, che da qualche parte lei esiste», disse.

«Ne sono certo». Annuii. Guardai il cielo color lavagna,
e mi lavai le mani.

Yolande è piccola,
così porta sempre scarpe con tacchi 12 e cappelli esagerati.

Sopra il cappello c’era un ombrello.
«Si chiama Yolande, ma non so chi sia…

Un tempo è stata la mia amante».
Però, era già notte. Entrai nel bosco. La pioggia era fitta, mista a neve.

Così ho preso il bus notturno per arrivare più in fretta.
Erano le tre.

Glossa

[1] Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) della decisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia Continua a leggere

8 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

l’Antipoetismo anipoetico, poesia rigorosamente apofantica e ipofanica, Poesie di Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Giuseppe Talìa, Alfonso Cataldi, Commenti e Dibattito

Foto Il divano bordò

l’Antipoetismo anipoetico, una poesia rigorosamente apofantica e ipofanica

Ripropongo qui parte di un post di qualche tempo fa, copio e incollo da FB, “La scialuppa di Pegaso”, questa poesia di Lucio Mayoor Tosi che trovo esilarante. Con Lucio, siamo davanti ad un nuovo genere del poetico:
l’Antipoetismo anipoetico, una poesia rigorosamente apofantica e ipofanica che mi ricorda qualcosa di Ionesco e qualcosa di Beckett come tradotti e trasmigrati in un’altra lingua.

(Giorgio Linguaglossa)

Lucio Mayoor Tosi

Frasi d’amore

Chi per una partita a due?
Chi per scambiarci il cane?
Chi per due tazze di yogurt con banana?
Chi per mille lire?
Chi per l’andata e due ritorni?
Chi per stonare cantando insieme?
Chi per misurarci la pressione?
Chi per alzare insieme le tapparelle?
Chi per stare fuori dalla Disco?
Chi per non andare in Indonesia?
Chi per un week-end sul lago Washoe in Nevada?
Chi per un solo gelato alla menta?
Chi per due donne che si baciano?
Chi per stare all’ombra di una torpediniera?
Dai, ditemi!
Chi per contare le baionette?
Chi per “non avere paura”?
Chi per metterci le bombe?
Chi per (non) morire abbracciati?

Lucio Mayoor Tosi
6 settembre 2917 alle 11.05

Il punto di domanda è piuttosto raro in poesia. In poesia le domande sono sempre assertive, e non vi è dubbio che si preferisca la grazia delle risposte. Ma è altrettanto vero che gran parte del mistero – e il fascino – di tante poesie sta nell’apertura che si crea con la domanda; è in quella inguaribile sospensione che si affaccia il vuoto, quindi l’attesa: per una risposta che il più delle volte è già implicita nella domanda. Questo strano dialogo, tra futuro e passato, non “cade” ma solleva il vuoto rendendo visibile la sua polverosa sostanza. Nel nulla delle pause non vi è spazio per l’angoscia, la quale deriva nel passato, vale a dire da dove giungono le risposte. Così è nella maggioranza dei casi. Pochi al mondo sanno dare risposte mettendoci il punto di domanda.

Giorgio Linguaglossa
6 settembre 2917 alle 11.42

La tua, caro Lucio, è una poesia di enunciati. La peculiarità della tua poesia è che è difficoltoso distinguere gli enunciati assertivi da quelli interrogativi. Di frequente nella tua poesia, l’assertorio si traveste da interrogatorio, è una forma interrogativa mascherata; la risposta, di frequente, è una domanda capovolta. E viceversa. Questa è una caratteristica peculiarissima della tua scrittura poetica, che pochissimi sono in grado di seguire e apprezzare, in specie chi continua a pensare e a fare una poesia unilineare. La tua poesia ricomincia sempre daccapo, gli enunciati sono aforismi con il collo spezzato, contengono una differenziazione problematologica (H. Meyer).
Gli enunciati aforistici lasciano intravvedere, tra le commessure della sintassi, il vuoto e l’angoscia che trapela e filtra tra le parole compattate e formattate…

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi
1 maggio 2018 alle 17:46

Ringrazio Giorgio per avere dato attenzione a questa poesiola, che vorrebbe essere gioco dolce-amaro, offrendo spunti per 140 caratteri tweet.
In effetti la piena autonomia e la completezza dei singoli versi è per me il modo migliore per frammentare. Migliore rispetto alla semplice interruzione per punti (tutte cose che ho imparato leggendo Tranströmer). Tra verso e verso il tempo fa la sua parte: si tratta di pause reali, interruzioni consapevolmente attuate già nell’atto del concepimento, che hanno finito col diventare tecnica. Come è divenuta tecnica l’adozione di certe “pezze”, ad esempio quando scrivo “titoli” – sia a se stanti che inseriti nel discorso – ma potremmo anche usare un inglesismo e parlare di insert coint (to Continue), ove l’inserimento può essere di un qualsiasi imprevisto. Ma detto così forse può sembrare complicato. Comunque il carattere interrogativo e assertivo potrebbe derivare proprio dal senso completo che si tenta di dare a ogni verso. Non sono il solo, qui, a seguire questa procedura, forse ci sono soltanto differenze di misura e frequenza.

Alfonso Cataldi
1 maggio 2018 alle 18:21

Come dirimere la direzione delle venature
(scritta a quattro mani con Giorgio Linguaglossa)

L’astronauta rovistava fra gli avanzi del pranzo
del giorno prima quando fu sorpreso da certi marziani verdi i quali

erano di stomaco forte e mangiavano delle bistecche di montone crudo
e io ne fui sorpreso perché invece della resina di pino

bevevano cognac con della Cola Cola e Ginger Fizz
e fumavano del tabacco cubano… non saprei dire altro però,

Signor commissario…
no, non erano dell’era glaciale ma di prima, direi del cenozoico, o giù di lì…

– con quella gamba messa male
erano atterrati col paracadute sulla terrazza della Tower Trump at Chelsea, New York

mentre Olga dichiarava il suo amore eterno per Billy the Bud…
tu mi chiedi che fine ha fatto Billy the Bud?, ma che importanza vuoi che abbia!

la stanza era di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
consolidarsi, senza preavviso…

nel monolite apparente del tempo che rimane in sospeso…
La signora Madeleine vende la sua ombra alla casa di riposo

e fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
abbandonate a causa della guerra.

Una giovane insegnante sbagliò ad imboccare il viale dietro il piccolo cancello
e si trovò di colpo su Titano a meno settanta gradi centigradi con il colbacco in testa

e gli autoreggenti di pizzo…
ma forse questi ricordi sono un po’ confusi però spiegano bene

la teoria evolutiva dell’azzardo cosmico quando un bel giorno iniziò il Big Bang… Continua a leggere

26 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Poesie per il 93mo anno di Alfredo de Palchi (1926), Poesie di Anna Ventura, Gino Rago, Giuseppe Talia, Francesca Dono, Antonella Zagaroli, Marina Petrillo, Riflessioni di Andrea Brocchieri, Giorgio Linguaglossa

 

giorgio-linguaglossa-alfredo-de_palchi-serata-2011

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Giorgio Linguaglossa

Alfredo de Palchi è un uomo che ha abitato e continua ad abitare un solo «luogo»,
la Legnago e Verona della sua infanzia

e della sua precoce adolescenza andata perduta. L’Italia è per lui la Legnago di quando era bambino, piccola cittadina di provincia infatuata di fascismo e, in seguito, anche di ferocissimi atti di assassinio e di vandalismo. Quella è stata per Alfredo de Palchi una esperienza traumatica che lo ha come inchiodato per tutta la vita a seguire. Un poeta è nient’altro che il suo «luogo», e il suo linguaggio sarà nient’altro che l’eterno ritorno in quel «luogo», un maledetto eterno ritorno alle proprie origini.

Alfredo de Palchi è il poeta di questo «luogo» maledetto che la storia poi si è incaricata di interdire e maledire, e con quello anche il giovanissimo uomo Alfredo che ha abitato quel «luogo». La poesia è sempre e soltanto emanazione di un «luogo» soltanto, che diventa «luogo» metafisico e acquisisce una «patria metafisica delle parole». Tutto il resto è letteratura o bellettristica letteraria. Basta leggere le poesie di de Palchi per rendersene conto:

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto

Più in generale, all’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza.
Abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di luoghi, di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è  pensare e pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o travalichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, o aver vissuto in luoghi di guerra sono diverse istanze a cui ciascuno dovrà rispondere mediante il proprio esistere. L’uomo non abita soltanto gli spazi e i luoghi che la ventura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole che nuotano in quei luoghi.

È infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano.
Quando poniamo la nostra esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, lì incontriamo le cose in un altro modo, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, come voci che prendono ad abitare con me la nostra esistenza.

Il discorso poetico depalchiano ruoterà in tutti questi anni, a partire dagli anni cinquanta quando scrive, giovanissimo, la Buia danza di scorpione (scritta dal 1945 al 1951 durante la sua detenzione in carcere), come una trottola intorno al luogo di Legnago e di Verona che diventerà l’epicentro cataclismatico della guerra partigiana e della personale esperienza significativa del giovanissimo de Palchi.

Un’altra caratteristica della poesia depalchiana è che essa mette in scena l’irriducibilità dell’esistenza, il qui e ora, l’indicibile unicità dell’esistenza, i suoi umori, le sue ubbie, le idiosincrasie, le passioni, gli odi profondissimi per l’ingiustizia subita, l’odio per l’Italia del suo tempo che lo aveva condannato all’auto esilio, l’odio per la falsa coscienza, il rancore per la falsa narrazione della sua biografia, l’avversione verso ogni discorso che non tornasse al punto che gli stava più a cuore: l’irriducibilità dell’esistenza umana sub specie della irriducibilità di ogni esistenza. È il primo albeggiare della tematica squisitamente esistenzialistica nella poesia italiana, che verrà poi interrotta dalla ideologizzazione del privato e dalla poesia privatistica che troverà divulgazione dagli anni settanta del novecento.

Essere abitatori del «luogo» significa essere abitatori della civiltà, concepire l’esistenza a partire dall’idea che apre l’orizzonte in cui tale civiltà consiste. Il «luogo» deve esser concepito come spazio spirituale e simbolico in cui l’esistenza si offre in un certo modo e le parole si danno, allora si può pensare che tutti i fatti che solitamente si menzionano come sue proprie cifre caratterizzanti non siano altro che le testimonianze della dimensione in cui tale spazio trova il suo ordine. Acquista improvviso interesse quell’assonanza che esiste tra la parola “civiltà” e la parola “città”, tra civitas e civilista, tra civitas e storia; così come la città è il modo in cui l’uomo impara ad abitare un certo luogo fisico, costruendovi gli edifici e le vie della propria esistenza a partire dalle peculiarità intrinseche di esso, così pure la civiltà è, in origine, quell’archetipo ideale nel quale edifichiamo la nostra esistenza e troviamo, rintracciamo le nostre parole, le parole che cercano un senso dove abitare.

Andrea Brocchieri

«Entschlossenheit

Il fatto è che in Sein und Zeit non c’è soltanto questo linguaggio della possibilità ma esso è in un certo senso superficiale e viene strutturalmente subordinato ad un altro linguaggio, cioè ad altre parole che hanno il compito di far emergere qualcosa di differente rispetto alle modalità dell’ontologia classica. Se ci si limita a lavorare col vocabolario filosofico tradizionale per individuare le occorrenze del discorso sulla possibilità in Sein und Zeit si rischia di non riconoscere nemmeno i luoghi testuali di tale discorso. D’altra parte Heidegger non ci vuole sviare, e basta seguire l’indagine di Sein und Zeit per trovare questi luoghi e quelle altre parole. Solo che – come sempre con Heidegger – bisogna saper leggere le parole diversamente da come siamo abituati.Ci chiediamo dunque: grazie a che cosa l’esserCi è un “poter essere” che rende possibili gli enti come possibilità (d’azione)? – Rispondiamo in una parola: grazie alla
Entschlossenheit.

Questa parola non è affatto semplice, un po’ come Ereignis, di cui in un certo senso tiene il posto, qui in Sein und Zeit.
La parola Entschlossenheit non indica semplicemente una condizione dell’esserCi, ma una dinamica di chiamata-risposta (Ruf-Antwort) che costituisce l’esserCi come una determinata (cioè finita, storica) apertura del “mondo”. Ent-schlossenheit indica che la Erschlossenheit (schiusura) del mondo non avviene “per natura” (φύσει) ma nemmeno per un libero arbitrio (νόµῳ) ma nel gioco tra un “non” (Nicht: un’assenza che reclama risposta) e l’assunzione della responsabilità di questa risposta. L’essere vivente che è capace di ascoltare questo “non” e che se ne prende cura, si assume la responsabilità di dar luogo all’essere al posto di quel nulla. “Al posto di” non significa: mettere l’ente al posto del nulla, assumendosi un compito creativo

– (Sartre: se c’è l’uomo non c’è Dio) –

ma significa: assumersi il compito di fare le veci di quel nulla come fondamento dell’ente; infatti quel“non”, essendo nullo, si presenta come Ab-grund, come un fondamento che non c’è. L’esserCi si chiama così perché esso c’è nel dar luogo all’essere dell’ente al posto del fondamento assente. Il modo in cui l’esserCi c’è non è però un autonomo sussistere ma è un e-sistere, perché c’è solo in quanto è spinto ad esserci come fondamento dall’assenza del fondamento: visto che quest’ultimo non c’è son costretto ad esserlo io.»

https://www.academia.edu/5304733/Heidegger_la_possibilit%C3%A0_nel_pensiero_dellEreignis

Commento

La poesia di Sessioni con l’analista (1967) e di Paradigm (2013) di Alfredo de Palchi ci mette davanti ad una difficoltà: l’irriconoscibilità delle sue parole. È inutile girarci intorno, il problema è che una poesia così diversa dai linguaggi poetici che sono stati in vigore in questi ultimi decenni fa problema, obbliga alla revulsione, al respingimento e alla rimozione. Allora, il problema diventa un altro. Se c’è un problema di irriconoscibilità di ALTRI linguaggi poetici, se poeti (tra l’altro così diversi l’uno dall’altro) come Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anna Ventura, Mario Gabriele vengono tacitati nel dimenticatoio o vengono deiettati dall’arco costituzionale della poesia italiana, ciò significa che c’è un duplice problema di memoria e di arco costituzionale della poesia italiana, che c’è un atto di rimozione di linguaggi non omogenei alla forma-poesia delle istituzioni letterarie.

In realtà, la poesia, quella «nuova», è sempre diversa da quella egemone o maggioritaria, tutti i poeti che ho citato sopra sono poeti dissimili l’uno dall’altro per lessico, stile e genere poetico prescelto. La «poesia nuova» indica sempre una diversa «possibilità», è bene prenderne atto. Se andassimo a esaminare il lessico impiegato da questi poeti ci renderemmo conto che ciascuno di loro impiega un proprio «determinatissimo» lessico, che implica una «chiusura» e una nuova «apertura», che implica una «cesura» e una «cucitura», uno «stop» e un nuovo «Inizio».

(Giorgio Linguaglossa)

Anna Ventura di lato

Poesie per il 93mo anno di Alfredo de Palchi

Anna Ventura

Storia di un grande amore

Zio Federico era alto un metro e cinquanta, era zoppo e ubriacone.
Era anche strapieno di letture scombinate, di studi confusi e sapeva alcuni canti danteschi a memoria.
La moglie Elvira, sorella di mio padre, era alta e sottile come un sedano, aveva un ricciolo fisso sulla fronte e un gigantesco cane lupo fedelissimo con il quale fu ritratta in una foto che piaceva molto a Federico.
La sera Zia Elvira scendeva nei suburbi a richiamare Federico e, con enorme fatica riusciva a riportarselo a casa.
Lui era convinto di essere un eroe perché durante la guerra spesso aveva scritto invettive ed esortazioni ad osare.
Accattava libri dovunque per cui aveva una biblioteca enorme, tanto che il suo peso fece crollare il pavimento. In quell’epico momento io ero ospite di Zia Elvira e riuscii a salvarmi solo perché la sera prima ero andata a dormire in un’ altra stanza.
Quando Zia Elvira morì il marito non sopravvisse al dolore e dopo un po’ la seguì nella tomba.
Il loro fu un grande amore.

Gino Rago 3

Gino Rago

Gino Rago

Un polittico per Alfredo de Palchi

“Fat Man” su Nagasaki…

Stoccolma, luglio 2019,
dalla cronaca del quotidiano di Svezia:

“Oggi è morto anche il suo cane.
Prima se ne andarono il figlio e la moglie.

La casa. Un museo di cianfrusaglie,
Di rimanenze di ciò che è stato.

Il piastrellista-di-Uppsala va in pensione
Ai margini dell’esistenza.”
[…]
Il Signor A. d. P.* si è ritirato
Ai confini del vivere,

Dichiarata inappartenenza
Alla società, al mondo, alla vita.

«Uomo della possibilità»
Costretto in un mondo di congiuntivi,

di affermazioni precedute da un “forse”
Seguite da un punto interrogativo,

A. d. P.-piastrellista-poeta
Mette il vento nelle vele

Per un viaggio a ritroso
Alla ricerca di come giungere a sé stesso.

In quali luoghi è andato smarrito
Ciò che dava realtà e senso alla sua vita?

Il Signor A. d. P. accetta soltanto lavori in nero.
Nella casa dell’amico da restaurare

Entrano personaggi veri o sognati.
Il piastrellista di Uppsala-Verona li conosce tutti.

«Storia di un uomo della possibilità….»
Storia di un poeta. Di una vita nella estraneazione

Nella rivolta degli oggetti smarriti.
[…]
La sua vita disciolta nei versi…
Ci ha detto:« Con la poesia uccidete la morte.

Fatelo per la libertà di tutti.

Dello sfruttato e dello sfruttatore».
Alfredo ha attraversato un Secolo di orrori,

Il dolore di Vallejo è stato il suo dolore
Nel petto. Nel bavero. Nel pane. Nel bicchiere.

Nei versi ha dato i baci che non poteva dare,
Soltanto la morte morirà

E la formica porterà briciole
Alla bestia incatenata,

Alla sua bruta delicatezza:
«Uccidiamo la morte con i versi, solo la morte morirà».
[…]
Da una e-mail di Alfredo de Palchi
Al Direttore di Il Mangiaparole:

“Caro signor poeta,

Crede ancora al mondo dei miti?
Dal 6 agosto del 1945

Dopo “Little Boy” su Hiroshima
I vincitori e i vinti di Troia

Sono a New York con le loro donne.
Ecuba in cucina prepara marmellate,

Cassandra legge i giornali ogni mattina,
Priamo gioca in borsa.

Paride con i dreadlock
Porta il cane al Central Park.

Presso i Greci si diffonde l’Aids,
Un guerriero travestito da Clitemnestra

sgozza il Re nella vasca da bagno.
Ettore lo incontro sui 10 chilometri della Fifth Avenue

Mentre Andromaca fa acquisti da mille e una notte.
Astianatte gioca col pc. E’ sempre solo a casa.

I miti sono l’inganno d’Occidente,
“Fat Man” su Nagasaki ha cambiato il mondo…

Ma per Lei forse i miti sono l’aria.
Chi vivrebbe senz’aria…”

*A. d. P. è Alfredo de Palchi

Giuseppe Talia Roma 4 marzo 2017 Roma

Giuseppe Talìa

Giuseppe Talìa Continua a leggere

12 commenti

Archiviato in poesia italiana del novecento, Senza categoria

La Nuova Poesia di Marie Laure Colasson, Francesca Dono, Mauro Pierno, L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, Il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica, Riflessioni di Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi

 

Botticelli polittico

Giorgio Linguaglossa

La lezione che ci viene da Mallarmé è che, da quando si è dichiarato che «Dio è morto», il poeta moderno è obbligato a crearsi PRIMA una propria metafisica, e soltanto DOPO può iniziare a scrivere poesia. Ecco la ragione che ci spinge da tempo a delineare il perimetro e i contenuti di una nuova metafisica. Senza metafisica si finisce per creare una poesia acefala, una poesia comunicazionale, una poesia-chiacchiera.

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

(Vincenzo Vitiello)

Più volte mi è stato chiesto che cosa esattamente intenda quando parlo di «patria metafisica» e di «patria linguistica» con riferimento alla poesia. La domanda è pertinente ma sarebbe sciocco pensare che io possa dare una risposta conclusiva ed esaustiva e che magari possa racchiudere la risposta in una o due paginette. A chi abbia la voglia di andare a leggersi i moltissimi interventi da me fatti su queste colonne, anche riguardanti poeti contemporanei, può trovare dispersi qua e là degli spunti, delle idee…

Qui posso dire soltanto che le parole fondamentali, le Grundwörter, che hanno segnato il cammino del pensiero occidentale, sono quelle che hanno pronunciato i grandi poeti del novecento. La verità si dà soltanto nella forma della costellazione scrisse un giorno Benjamin. Occorre andare a studiare la costellazione delle parole fondamentali di un poeta per accorgersi quanto la costellazione delle parole fondamentali di una poetessa come Maria Rosaria Madonna (1942-2002) sia distante dalle parole di Zanzotto o di un tardo Fortini… Ecco, quelle parole formano un cerchio. Sono sempre quelle parole che stanno dentro quel cerchio che producono senso, e non altre. Le parole di una patria linguistica sono segretamente imparentate tra di esse, e tutti questi legami stabiliscono una parentela e fondano una patria, una patria metafisica. Il poeta abita quella patria e non un’altra. Un poeta non può cambiare patria linguistica. Può evolvere, sviluppare certe metafore fondamentali ma sempre all’interno di una determinata patria metafisica e linguistica.

Ci sono epoche caratterizzate dall’attesa, attesa che si verifichino le condizioni affinché una patria metafisica possa sorgere. E questa attesa può anche durare decenni o, addirittura, secoli. In questi interregni temporali la poesia che si farà sarà una poesia priva di patria metafisica, e quindi destinata ad essere perenta, insignificante, ed essere dimenticata.

Ci sono poeti che con il loro lavoro preparatorio, con i loro avamposti creano le condizioni affinché una patria metafisica delle parole possa finalmente trovare luogo. Questo lavoro preparatorio dei poeti non è mai vano, prima o poi arriverà un poeta che raccoglierà i loro sforzi e troverà una patria metafisica presso la quale abitare. Ed entrerà ad abitarvi, condividendone il destino. Perché il destino di un poeta è scritto nella sua patria metafisica e linguistica. Lì, non si può mentire o barare.

Il linguaggio di Maria Rosaria Madonna potrà sorgere soltanto quando il linguaggio di Zanzotto e di Fortini sarà tramontato per sempre. Ma, allo stesso tempo, il linguaggio di Madonna apre le porte e preannuncia la poesia di Mario Gabriele e quella di Gino Rago.

Francesca Dono

da ci tocca nominare il Nulla

/…/

Dall’occhio del ciclone la margarina non mostra prove. Reale il raschiosulle case popolari. La polpa vegetale appanna i tetti e le antenne.Per l’oscurità blu sottosuolo. Tanto sudiciume sfregato contro le finestre. Mr. Crocodile scarta un bambino alla volta. Sono doni-dice-Come caramelle
comprate col bancomat. Un mercoledì ordinario.Peso del tempo.

/…/

apnea dei vestiti. Il quark ha composto rigonfiamenti e pianure. Lunghe notti di letargo.Tutto per far appassire la boa luccicante. Una cazzata cherry pop . Abbandonata a se stessa. Capite l’elemosina? Pungere le orecchie-Signorina Pearl – A misura del foro istantaneo.La luna sbadiglia con i corbezzoli della ruggine.

Dieci minuti.Venticinqueottobreduemiladiciannove. Un rantolo discute con la morte .Musica di frodo.

/…/

zigzag sulla rosa artica/Metà senza petali/L’altra parte discesa al pietrisco/Abbassare la testa e seguire il dorso tremante/ Un’ombra nel nido freddo/

[Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.]

Commento di Giorgio Linguaglossa

Eccellenti composizioni, Francesca Dono, con questi lavori sei entrata a pieno diritto nella nuova ontologia estetica. Certo, nominare il nulla non è affare di poco conto, hai dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali e di automobili digitali che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce in questi tuoi lavori è la disconnessione semantica, sintattica e ontologica del tuo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla, e lo fai con una fragranza asciutta e priva di utopia, priva di progetto. È il tuo account, sono i nuovi avatar ciò di cui tu narri… o meglio, non narri. E, così facendo e disfacendo nomini il nulla. Complimenti.

Tre poesie inedite di Marie Laure Colasson

19.

L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins

Les yeux au ciel bleu
mélodie modulée
piano et violon se répondent
fusion velours des instruments

Corps à corps des échanges des pulsions
eros chimique voluptueux

Les oranges les bruns les rouges s’entrelacent
tranchés de noir
quelques taches de blanc pour une lumière à cru

Les murs des villes
fissures et lézardes enduits couleurs-plastiques
grisailles sanglantes déchirures

*

L’albatro
sospesa stretta forte lei vuole
l’acqua trasparente lo scintillio dei pesci
dei fondali marini

Gli occhi al cielo azzurro
melodia modulata
pianoforte e violini si rispondono
fusione velluti degli strumenti

Corpo a corpo scambi pulsione
eros chimico voluttuoso

Gli aranci i bruni i rossi si intrecciano
trinciati di nero
alcune macchie di bianco per una luce a crudo

I muri della città
fessure crepe intonaci color plastica
grisaglie sanguinanti lacerazioni

20.

La lumière cristalline oeuvre sur son mental
et gaiement son corps exulte

Ler étoiles brodées de quatre lettres
des peuples entiers y participent

Malipiero magicien des sonorités
courtise assidûment Giulietta sur son piano

Une vague brune s’étend au delà des frontières
sans répit l’homme dégueule son venin

Eredia joue à la guerre
tandis que dans ses yeux le monde se renverse

Rupture d’un silence écouté
des miaulements de chats en maraude

Esther court dans l’obscurité
rencontre inattendue d’un espace clos

Una enveloppe cachetée “attenti alle truffe”
contient une escroquerie plus savante

Kantemir Balagov regard pénétrant
sans pitié fait tomber les masques

au sein de ruines de Leningrad

*

La luce cristallina lavora sul suo mentale
e gaiamente il suo corpo esulta

Le stelle ricamate di quattro lettere
di popoli interi vi partecipano

Malipiero mago delle sonorità
corteggia con assiduità Giulietta sul suo piano

Un’onda bruna si propaga al di là delle frontiere
senza sosta l’uomo vomita il suo veleno

Eredia gioca alla guerra
mentre nei suoi occhi il mondo si capovolge

Rottura di un silenzio ascoltato
di miagolii di gatti in sarabanda

Esther corre nell’oscurità
incontro inatteso d’uno spazio chiuso

Una busta sigillata “attenti alle truffe”
contiene una truffa più astuta

Kantemir Balagov sguardo penetrante
senza pietà fa cadere le maschere

nel grembo delle rovine di Leningrado

 

 

21

Le vent fait voler les feuuilles jaunies
ne laissant que l’austère squelette de l’arbre

Laure oublie son sac contenant tout sa vie
ne le retrouve en aucun lieu

Un enfant plus petit que son accordéon
appui sur les touches nacrées

Pietr sandwich eau minérale
plonge dans le vain sens des mots sur son portable

Des poètes aux barbes gourmandes aux pas perdus
sourire amusé de Dostoievski

Sergej en ventriloque déclame
Eeredia n’entrevoit qu’un coeur égratigné

La terre s’ouvre
des hommes murés dans le secret des aurores boréales

Dostoievski retrouve le sac de Laure
feuilles jaunies vains mots fausses barbes accordéon portable

Comme cendre elle reste suele en secret

*

Il vento fa volare le foglie ingiallite
non lascia che l’austero scheletro dell’albero

Laura dimentica la sua borsa che contiene tutta la sua vita
non la ritrova in alcun luogo

Un bimbo più piccolo della sua fisarmonica
preme sui tasti di madreperla

Pietr sandwich acqua minerale
si tuffa nel senso vano delle parole sul suo cellulare

Poeti dalle barbe golose dai passi perduti
sorriso divertito di Dostoevskij

Sergej ventriloquo déclama
Eredia non vede che un cuore graffiato

La terra si apre
uomini murati nel segreto di aurore boreali

Dostoevskij ritrova la borsa di Laura
foglie ingiallite vane parole false barbe fisarmonica cellulare

Come cenere rimane sola in segreto

Commento

In queste composizioni di Marie Laure Colasson ci troviamo di fronte al dimagrimento e alla essenzializzazione della struttura frastica: dimidiamento degli aggettivi, eliminazione della punteggiatura, adozione del distico, adozione dello stile nominale, precedenza assoluta al sostantivo e al nome proprio, eliminazione delle particelle connettive del discorso, adozione sistematica del salto e della disconnessione sintattica, impiego della peritropè, interruzione sistematica dell’unità frastica. Tutti elementi strutturali di un periodare che punta alla essenzializzazione del discorso poetico. Che sia una poetessa francese, ultima in ordine di tempo pronipote legittima di Mallarmé, ad operare un simile disboscamento degli elementi non essenziali del discorso poetico, non può non colpire. Ciò vuol dire che questa spinta alla essenzializzazione del discorso poetico è un comune sentire che è presente da tempo in tutta Europa, si avverte che c’è un bisogno di alleggerire il discorso poetico di tutti i tropi eliminabili e non strettamente indispensabili. Ed è quello che tenta di fare la nuova ontologia estetica.
Dostoevskij, Eredia, Sergej, Laura, Pietr, Kantemir Balagov etc sono nomi, indicano avatar, account, mittenti spogliati di significazione secondaria e primaria, sono delle icone semantiche che rimandano al nulla dietro di loro, al nulla che sta dietro e davanti al nostro mondo, si indicano azioni disperse avvenute forse per caso, stocasticamente improbabili, quantisticamente irrelate da entanglement.
Così, noi scopriamo con raccapriccio e rammarico che la poesia ha cessato di essere rappresentativa ed è divenuta presentativa. Si presentano le cose, le parole così come esse sono nel nostro mondo: mere etichette, label, notizie di se stesse che ci raccontano in modo indiretto di un mondo colpito da entanglement e da disfania, un linguaggio insieme disfanico e diafanico, disfonico e disforico, distratto, sfrattato dal reale, dematerializzato e de-semantizzato.

L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, accanto a noi, in modo inspiegabile e insondabile. In tal senso, possiamo dire che l’evento giunge alla sua fine, perché finendo, finisce anche la storia dell’essere che quell’evento racchiudeva. Scrive Heidegger: «Il pensiero che si raccoglie nell’evento», «Che cosa si può dire allora? Solo questo: l’Ereignis ereignet», tutto è trasparenza totale, e proprio per questo, oscurità. L’albatro, simbolo un tempo della purezza e del sublime è diventato metro della trasparenza dell’essere e di tutte le cose, ergo, oscurità, segnale muto, segno cieco, cieca diafania:

L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins

Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che dell’essere è destinale, quel che viene meno ora, quel che si sottrae è «l’eau transparente les miroitement des poissons», è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale purtuttavia alla fine di questa storia che abbiamo subito come sottrazione e velamento. Sottrazione e velamento che appartengono alla metafisica come loro limite, si rivelano invece essere proprietà dell’evento stesso, di cui ci appropriamo e ci dispropriamo. Ciò vuol dire che la sottrazione si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero non vi presta più attenzione, perché viene colto da smemoratezza e dimenticanza. Ciò che è da-pensare, questa diafania universale, giunge alla sua fine, e il pensiero non vi presta più attenzione per quanto possa ben continuare ancora a esistere la metafisica. Perché ormai che qualcosa vi sia nell’«acqua trasparente», non significa che sia essenziale né significativo per noi giunti al termine della storia dell’essere e della sua metafisica, «les miroitement des poissons» suonano alle nostre orecchie come il suono di un oboe sommerso, come il colore delle barriere coralline in via di disfacimento.

Il pensiero post-metafisico che si annuncia in questa poesia indica allora un modo di abitare le cose in via di sbiadimento, quel modo che abdica ad una presa di possesso del mondo da parte dell’io egolalico ma di un possesso spossessante, di una dis-propriazione, di un alleggerimento di ciò che può essere scaricato, un abitare la mondità senza la presunzione di averne la chiave per il suo accesso e la sua processualità.

(Giorgio Linguaglossa)

[Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica è coreografa di danza contemporanea.]

Mauro Pierno

P.P. Potente e preciso.
ma qualche tentennamento rimane.
Nella citazione
la dimenticanza. Il seme attentamente
inoculato può cosi nuocere alla creazione. Deve necessariamente finire. Lode
alla poesia con la scadenza.
Ha breve termine
la sintassi. Un popolo di formiche sfaticate.
Pure colle borsette dondolanti.
In Acheronte a folle.

[Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.]

Una citazione da Mallarmé, “La disdetta” di Marina Petrillo

 “I poeti che vivono d’ira e
beneficienza
Non conoscono il male
di questi dei oscurati,
Li dicono tediosi e senza
intelligenza”

Lucio Mayoor Tosi

Alle poesie NOE di Francesca Dono si accede per balzo, fin dalle prime parole. Nemmeno per un momento si ha l’impressione di un progressivo allontanamento dalla tradizione. Francesca è scaltra – nella negazione del significato. – In “Squarci”, per sue vie anche Edith Dzieduszycka ottiene risultati di questo tipo, di non significazione.
Comincio a familiarizzare con le poesie di Marie Laure Colasson, e mi piacciono, particolarmente se lette in lingua d’origine. Confesso però di non amare tanto il distico se disposto “ad elenco”. Intendiamoci, la mia obiezione è volta all’aspetto strutturale, qui per me a livello piuttosto basico (Le vent, Laure, Un enfant ecc.), e tuttavia nella fattispecie simile a qualcun altro della NOE.
Ringrazio Marina Petrillo per la citazione di Mallarmé. Molto pertinente ai giorni nostri.

12 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, Senza categoria

Giorgio Agamben,  La «patria originaria dell’uomo», la sua «origine trascendentale» è una patria linguistica, L’in-fanzia come esperienza originaria del linguaggio, dunque della storia, Poesie di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Francesca Dono, Lucio Mayoor Tosi

Foto fuga nel corridoio

il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e del significato

Giorgio Agamben

Sulla originarietà dell’esperienza della parola

«La ‘somiglianza’ e l’intersezione semica non preesistono alla metafora, ma sono rese possibili da essa e assunte poi come sua spiegazione, così come la risposta di Edipo non preesiste all’enigma, ma, da esso creata, pretende, con una singolare petizione di principio, di offrirne la soluzione. Ciò che lo schema proprio/improprio ci impedisce di vedere è che nella metafora nulla si sostituisce in realtà a nulla, perché non esiste un termine proprio che quello metaforico è chiamato a sostituire: solo il nostro antico pregiudizio edipico – cioè uno schema interpretativo a posteriori – ci fa scorgere una sostituzione dove non vi è che una dislocazione e una differenza all’interno di un unico significare […] in una metafora originaria sarebbe inutile cercare qualcosa come un termine proprio. […]
La dislocazione metaforica non avviene, infatti fra il proprio e l’improprio, ma è una dislocazione della stessa strutturazione metafisica del significare: il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e del significato in cui emerge alla luce la differenza originale su cui si fonda ogni significare […] il paradosso centrale del significare che la metafora mette a nudo: il  semainen è sempre originalmente una synoxis di adunata, una commessura d’impossibili.»
(Stanze, pp. 177-179)

«Porre all’inizio una scrittura e una traccia, significa mettere l’accento su questa esperienza originale [cioè:che l’esperienza originale sia sempre già presa in una piega, che la presenza sia ineludibilmente sempre già presa in un significare], ma non certo superarla. […] La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce, il venire in luce del suo fondamento negativo e non certo il suo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l’eredità metafisica della semiologia moderna, ciò che resta per noi ancora impossibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza,fosse soltanto una pura e indivisa stazione nell’aperto. Quel che possiamo fare è riconoscere l’originaria situazione del linguaggio, questo “plesso di differenze eternamente negative”,  nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l’accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L’algoritmo S/s deve perciò ridursi alla sola barriera: /; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere solo la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni, il cui modello abbiamo cercato di delineare nell’ainos della Sfinge, nella malinconica profondità dell’emblema, nella Verleugnung del feticista.»
(Stanze, pp. 187-188)

Come infanzia dell’uomo, l’esperienza è la semplice differenza fra umano e linguistico.
Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questo è l’esperienza.
(G. Agamben, Infanzia e storia)

L’origine di un simile “ente” [l’umano] non può essere storicizzata, perché è essa stessa storicizzante, è essa stessa che fonda la possibilità che vi sia qualcosa come una “storia”.
(G. Agamben, Infanzia e storia)

L’in-fanzia come esperienza originaria del linguaggio, dunque della storia

Che cosa vuol dire, agambenianamente, esperienza originaria del linguaggio (dunque della storia) come in-fanzia? La prima, più generale esplicitazione da compiere è forse il fatto che esperienza, linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto origine – ma anche che origine, esperienza e linguaggio coincidono in quanto in-fanzia, che origine, esperienza e in-fanzia coincidono in quanto linguaggio e che origine,linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto esperienza.
È questa coincidenza a consentire il dispiegamento della storia, a fondare «la possibilità che vi sia qualcosa come una ‘storia’»
(IS, p.47).

«L’in-fanzia, ovvero il fatto che l’uomo non sia sempre già (stato) parlante, che il linguaggio giunga all’uomo necessariamente sopraggiungendo, vale a dire necessariamente scindendosi e articolandosi in lingua-e-discorso, semiotico-e-semantico, essenza-ed-esistenza, si annuncia come quel luogo che, incastonandosi alla soglia, al limite delle scissioni (nel loro punto d’insorgenza ed’arresto), inaugura la loro destituzione nella forma della di loro originaria esperienza – cioè: nella forma dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. In questo modo essa, l’in-fanzia, è di necessità esperienza (dell’origine) della differenza – differenza in quanto esperienza; ciò che implica, anche, esperienza della storicità»:

Si deve insistere sul termine ‘coincidenza’: Agamben ne farà, ne L’uso dei corpi, ma anche altrove, un uso filosoficamente chiave.

«Se noi non possiamo accedere all’infanzia senza urtarci al linguaggio che sembra custodirne l’ingresso come l’angelo con la spada fiammeggiante la soglia dell’Eden, il problema dell’esperienza come patria originale dell’uomo diventa allora quello dell’origine del inguaggio, nella sua doppia realtà di lingua e parola»,
IS, p. 46. Come giustamente ricorda C. Salzani, nell’infanzia agambeniana risuona il «profondo e costante interesse di Benjamin per l’infanzia, il gioco e il giocattolo», e «di particolare importanza per il progetto agambeniano è poi il potere liberatorio, “messianico”, che Benjamin attribuiva all’infanzia e al gioco», così come la considerazione benjaminiana dell’infanzia «da un punto di vista ontologico».
(C. Salzani, Introduzione , pp. 35-36).

Sennonché, va ricordato che «allo stesso tempo questo riferimento può essere fuorviante, perché evoca una naturale connessione con il bambino [Benjamin cominciò a scrivere dell’infanzia dal 1918, vale a dire dalla nascita di suo figlio Stefan], che non è certo in questione nella problematizzazione dell’infanzia da parte di Agamben. Anche per questo motivo Agamben, in seguito, rinuncerà quasi completamente al termine “infanzia” e adotterà quello di“potenza”»
(ibidem).

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio

Gli animali non entrano nella lingua: sono sempre già in essa. L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, scinde questa lingua una e si pone come colui che, per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io. […] Allora la natura dell’uomo è scissa in modo originale, perché l’infanzia introduce in essa la discontinuità e la differenza fra lingua e discorso. Ed è su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano. Solo perché c’è un’infanzia dell’uomo, solo perché il linguaggio non s’identifica con l’umano e c’è una differenza fra lingua e discorso, fra semiotico e semantico, solo per questo c’è storia, solo per questo l’uomo è un essere storico. […] È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio. Per questo Babele, cioè l’uscita dalla pura lingua edenica e l’ingresso nel balbettio dell’infanzia […] è l’origine trascendentale della storia. Il mistero, che l’infanzia ha istituito per l’uomo, può infatti essere sciolto solo nella storia, così come l’esperienza, come infanzia e patria dell’uomo, è qualcosa da cui egli è sempre già in atto di cadere nel linguaggio e nella parola. Per questo la storia non può essere il progresso continuo dell’umanità parlante lungo il tempo lineare, ma è, nella sua stessa essenza, intervallo, discontinuità, epoché [diremmo: «dialettica in stato d’arresto», cairologia, «tempo che resta»]. Ciò che ha nell’infanzia la sua patria originaria, verso l’infanzia e attraverso l’infanzia deve mantenersi in viaggio.
(ivi, pp. 50-52)

Questo (Er)Fahren, questo essere-in-cammino verso e nell’infanzia, sancisce il luogo inaugurale della storicità e, al tempo stesso, quello ontologico dell’esperibilità del linguaggio nel suo aver-luogo – ovvero la via, il sentiero (interrotto?) per quel «messianismo cairologico» di cui abbiamo
tracciato le linee e che è in questione nella seconda parte del testo. Siano i due saggi heideggeriani, Die Sprache (1950) e Der Weg zur Sprache (1959), entrambi contenuti in Unterwegs zur sprache (1959). Nel primo, dopo aver chiarito che noi vorremmo riflettere sul linguaggio e soltanto su di esso. Il linguaggio è linguaggio e nient’altro. Il linguaggio è il linguaggio. L’intelletto educato alla logica, uso a tutto sottoporre al processo calcolante, e perciò appunto il più delle volte presuntuoso, chiama questa proposizione una vuota tautologia. Dire due volte nient’altro che la stesa cosa: linguaggio è linguaggio, come è possibile che questo ci porti avanti? Ma noi non vogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di giungere là dove già siamo. […] Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa [heimisch] per trovare una dimora per l’essenza dell’uomo. Riflettere sul linguaggio significa pervenire al parlare del linguaggio in modo che questo parlare avvenga come ciò in cui all’essere dei mortali è dato ritrovare la propria dimora.

In cammino verso il linguaggio, (pp.28-29),

Heidegger si lancia all’ascolto della «parola pura» (ivi, p. 31) e lo fa leggendo la poesia di Trakl Ein Winterabend. Nella dissertazione introduce la quadri partizione del Geviert, e la dinamica filosofica del rapporto (dell’intimità, Innigkeit) tra mondo e cosa:

Mondo e cose non sono realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi, i Due passano attraverso una linea mediana [eine Mitte]. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il frammezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione [Verschmelzung]. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei Due, nel frammezzo di mondo e cosa [In der Mitte der Zwei, im Zwischen von Welt und Ding], nel loro inter, in questo unter, domina la cesura [Schied]. L’intimità di mondo e cosa si dispiega essenzialmente [west] nella cesura [Schied] del frammezzo, si dispiega essenzialmente nella dif-ferenza [Unter-Schied]. Il termine dif-ferenza è qui sottratto all’uso corrente e consueto. Non indica un concetto generico, nella cui area rientrino molteplici specie di differenza. La dif-ferenza, di cui qui si parla, esiste solo come quest’una. È unica. La dif-ferenza regge – non però con essa identificandosi – quella linea mediana [her die Mitte ] nel moto e nella relazione alla quale e grazie alla quale mondo e cose trovano la loro unità. L’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante [das Einigende], di Ciò che differenziando porta e compone. La dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al loro esse cose. Portandoli a compimento, li porta l’un verso l’altro. La composizione operata dalla dif-ferenza non è qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi la dif-ferenza sopraggiungesse recando una linea mediana e con questa congiungesse mondo e cose. La dif-ferenza, in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l’uno per l’altro, di questo fondando e compiendo l’unità. […]La dif-ferenza non è né distinzione né relazione [weder Distinktion noch Relation]. La dif-ferenza è semmai la dimensione del mondo e delle cose. Ma in questo caso “dimensione” non significa una regione a sé stante,dove questo o quello può prender dimora. La dif-ferenza è la dimensione, in quanto misura nella sua interezza,facendolo essere nella sua propria essenza, lo spazio di mondo e cosa. […]
Nel nominare, che chiama cosa e mondo, quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza.
(In cammino verso il linguaggio, pp. 37-38)

Promenade notturna 7 Collage 40x40, 2023

Marie Laure Colasson, collage, promenade nocturne, 2023

Heidegger chiosa:

“Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario [die Sage] in quanto Mostrare [die Zeige].
Il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno, ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità d’essere segni. […] Perfino là dove il Mostrare si realizza grazie a un nostro dire, c’è sempre un lasciarsi mostrare che precede questo nostro mostrare come additare e rilevare. Solo quando si consideri il nostro dire in tale prospettiva, è possibile una determinazione adeguata di quel che è essenziale in ogni parlare. […]Ma il Dire originario in se stesso cos’è? È esso qualcosa di staccato dal nostro parlare, sí che per giungervi dovrebbe venir prima gettato un ponte? O è invece il Dire originario il fiume della quiete, che già di per sé collega le sue rive, il Dire e il nostro ri-dire, nell’atto stesso che le fa essere?”
(ivi, pp. 199-200)

Possiamo dunque, a questo punto, affermare che nell’«in-fanzia» di Agamben parla, consapevolmente o inconsapevolmente, la Sage heideggeriana, l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio si situa nella traccia heideggeriana, quel «mostrare» che origina il linguaggio nel suo Geflecht, di quel fiume originario della Stille «che già di per sé collega le sue rive […] nell’atto stesso che le fa essere». Continua a leggere

14 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Poesia polittico di Gino Rago e Letizia Leone con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

13 aprile 2019 alle 9.24

Un polittico in distici

[Il gesto estetico in Leone-Linguaglossa-Matusali-Ortona
nella fermezza di uno sguardo storico-socio-antropologico]

Emanuele Di Porto sul 404 con una scatola da 6

16 ottobre 1943 (al Ghetto di Roma la caccia agli Ebrei).
1024 anime. Senza strepiti. Senza perché.

Per alcuni neanche il tempo di cominciare a vivere.
Tornano in sedici dall’inferno dei forni.

15 uomini e una donna soltanto. E non parlano.
Tacciono per anni. Preferiscono guardare il Tevere.

Non odono da tempo voci umane.
Risentono cani che abbaiano. Soltanto cani. Nelle divise.

Dentro le svastiche. Negli stivali sempre tirati a lucido.
Non dimenticano i fili di fumo. Il cielo tagliato in due.
[…]
I migliori colori. Gli argenti sotto gli arazzi.
I ritratti. I paesaggi. Le nature morte.

Le tele di lino del Belgio alle pareti sono ricordi.
Un mondo muore quel giorno con loro.

Lasciano in eredità non oggetti senza vita ma cose.
Le cose dell’io frantumato. La coscienza calpestata.

La memoria umiliata. L’identità derisa.
La spoliazione. La musica forzata sulle fosse.

La babele di lingue.
[…]
Lasciano alla ruggine dei fili spinati brandelli di carne.
Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.

Segatura impastata con colla di pesce.
Stoppa. Smalti. Vernici.

Lenzuoli sovrapposti. Federe incollate.
Stoffe di tappeti. Sacchi. Cortecce. Reti di metallo.

I cenci cuciti alle intelaiature della Storia.
I materiali della disperazione. Il disastro.
[…]
Ripartono da qui l’Arte e la Poesia.
Da nuove parole di resti di stoffa.

Questi versi di scampoli,
Questi nuovi colori di scarti … I grumi di un Evento.

Su queste parole-immagini di stracci e vinavil
Pioveranno daccapo i fiori dai ciliegi.
[…]
30 settembre. Domenica. Dalle 10 alle 19
Arrivano quasi tutti, l’uno dopo l’altro.

Da Turcato a Paladino a Cascella,
Da Ontani a Guttuso a Rotella.

Allo Spazio espositivo di Piazza San Pancrazio,
Verso Villa Pamphili, N. 7,

Si appendono da soli alle pareti
Afro, Cucchi e Schifano.

Pizzi Cannella, Enotrio e Dorazio
Attendono Warhol, Capogrossi e Baj.

La fenomenologia dell’arte non tollera i ritardi.
Gillo Dorfles in un angolo al buio

Parla di Kandinsky, di Estetica, di Klee,
Di verde verticale a qualche grattacielo.
[…]
Uno schianto sull’asfalto. L’ultimo pino di Respighi,
Giosetta Fioroni bacia Goffredo Parise.

«A Via Flaminia … Stasera. Prima da Rosati,
Poi dai Fratelli Menghi. Tutti a cenare a sbafo …

Domani dalla De Donato. Al Ferro di Cavallo
Burri ed Emilio Villa regalano cartelle.

I volti narrano l’Io nei vapori,
Le storie dei momenti solitari».
[…]
A Santo Stefano del Cacco
Il dottor Ingravallo pasticcia con le lingue,

Carlo Emilio Gadda fa lo sciopero della fame,
Un vestito blu sul Piè di Marmo.

A Norimberga. Letizia Leone si veste di viola.
Un solo colore per tutto il dolore.

Il sangue. La carne. Il midollo.
I capricci di pochi. La morte del mondo.

Piazza dei Quiriti. Nei panni di Rugantino
Giulio Cesare Matusali intreccia le sue maglie,

Puro atto estetico, il gesto prima del progetto,
L’antilingua, la parola del Papa, il sonetto, il Belli.
[…]
Giorgio Linguaglossa getta monete nel Fontanone.
Cattura ombre e sole nel cavo della mano.

Wittgenstein dall’acqua:
«Gli oggetti semplici contengono l’infinito…»
[…]
Al Prenestino. Giorgio Ortona
Al tridimensionale aggiunge la Memoria,

La fermezza dello sguardo
Sugli orizzonti mobili del gusto,

Le visioni oltre il percettivo,
L’arte del giudizio, i fatti sui fattoidi.

L’Evento. L’Opera. Le mappe …
L’atto che ri-crea

Emanuele Di Porto sul 404 con una scatola da 6.

Poesie di Letizia Leone da Viola norimberga, Progetto Cultura, 2018 pp. 100 € 12

Letizia Leone 1 frase Viola nrimberga

Letizia Leone frase da Viola norimbergaLetizia Leone 2 frase Viola norimbergaLetizia Leone 4 frasi Viola norimbergaLetizia Leone Il diavolo...Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

18 commenti

Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria

Poesie scritte in direzione della nuova ontologia estetica di Donatella Costantina Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi, Maria Rosaria Madonna (1942-2002), Gino Rago, Lidia Popa, Francesca Dono,  Brigida Gullo, Davide Morelli, Alfonso Cataldi, Mark Bedin

RedBall Chicago at La Salle Bridge, overhead.

Ruth Perschke, Redball Project

Donatella Costantina Giancaspero

Al quadro manca una ragione

Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.

Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.

Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro i muri
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.

Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.

Commento di Gino Rago

“La remora, piccolo per statura e grande per la Potenza, costringe le superbe fregate del mare a fermarsi; avventura che, come ci racconta Plinio, toccò alla quinquereme dell’imperatore Caligola. Mentre questi ritornava ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l’arresto.
Plinio non finisce mai di stupirsi del potere della remora.
La sua meraviglia evidentemente impressionò gli alchimisti al punto di indurli a identificare il pesce rotondo del nostro mare proprio con la remora. La remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio. Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è il più piccolo del piccolo, più grande del grande.”

Carl Gustav Jung, Ricerche sul simbolismo del Sé
In questi tuoi versi recentissimi, Costantina Donatella Giancaspero mostra di avere sconfitto la remora.

*

Della maggiore poetessa del secondo novecento pubblichiamo una poesia tratta dal volume: Stige, Tutte le poesie (1990-2002)Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 150 € 12, Introduzione di Giorgio Linguaglossa con scritti di Amelia Rosselli e Donatella Costantina Giancaspero.

*

Maria Rosaria Madonna (1941-2002)

Alle 18 in punto il tram sferraglia

Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;

barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.

Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra

col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.

Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.

Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,

la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.

Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.

Gino Rago

Dalla Sez. 1
“Il Vuoto, il Tempo, gli scampoli, la plastica, gli stracci, le piazze, gli specchi” del mio libro di prossima pubblicazione, I Platani sul Tevere diventano betulle, NOE, Edizioni Progetto Cultura, Roma, introdotto da Giorgio Linguaglossa con Postfazione di Rossana Levati. Due poesie:

Gino Rago

1- Dio chiede una recensione…

Il femminile di Dio il suo lato destro
ha chiesto una recensione ai poeti della «nuova ontologia estetica».

di certo le poetesse dell’ombra lo sanno che Dio è dappertutto,
che rovista con garbo nella pattumiera

Il maschile di Dio il Suo lato sinistro
frequenta le bische clandestine, i ricoveri

aperti tutta la notte, staziona tra le vetrate,
tra i bassifondi dei porti
e gli slums delle periferie di Hopper.

Ci ha provato anche con Lucio Mayoor Tosi, Grieco-Rathgeb e Talia
ma non gli hanno dato retta, andavano di fretta,

per una recensione sulla sua creazione
perché i tre lasciano di sé frammenti dappertutto

e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.

Dio si è rivolto ai cacciatori di immagini
perché i tre in poesia rapinano banche,

la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,
si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,

si scompare, per poi ricomparire in altre banche
ebbene, questi versi annoiano Dio, l’Onnipotente

non sopporta questi ladruncoli che giocano a fare
scaccomatto.

Cicche e carte stracce sui marciapiedi,
dalla tavola calda aperta tutta la notte odore di cipolle,

un fiore nel vaso parla con lo specchio:
«è perfettamente inutile che Lei caro signore si ecciti,

faccia quello che sa fare. Faccia lo specchio»

2- Ciò che ci ha amato non ha una via di uscita

L’onda esala odori di libeccio e nei marosi tremano i pontili.
A noi di terra serve per partire nello sgomento della vastità.

Chi valica i fili degli ultimi orizzonti forse più non torna.
Chi s’imbarca per l’esilio farà ritorno come un’ombra,

ciò che ci ha amato non ha una via di uscita.

Lucio Mayoor Tosi

Montepulciano da Woodstock. Quinta stagione.
Ne vorremmo sette. Ma non siamo gatti.

E’ l’inverno dei capelli bianchi. L’uomo che cammina
e affini. Come se parte del corpo volesse fermarsi

per un abbraccio. Che manca. E allora ci si sente
avvolti dalle cose, in una fiaba da finestre sorridenti

al mezzo sole; alla mezza notte; alla via di mezzo,
diceva Buddha; per definizione mortali, quindi morenti.

Ma questo avanzare è con la testa a terra e le gambe
per aria. Va da sé che ridano le finestre – City Square –

se gli sputi una poesia; se il mondo non fosse lasciato
in corridoio a patire perché schiacciato dal cuoio

di scarpe sconosciute. Padri Tall Figure. Comandanti,
più ammirati che innamorati. E quindi l’abbraccio

che manca è un cercarsi. E tutte quelle parole, quelle
parole sono rivolte alla parte destra. Quella senza cuore.

Profilo di braccio, gamba e occhio. Finito. Sì. Meno
di un triangolo. E senza ali. Continua a leggere

10 commenti

Archiviato in nuova ontologia estetica, Senza categoria

Antologia di poesia di 10 autori che si riconoscono  nel nuovo orientamento di ricerca denominato Nuova ontologia estetica, Carlo Livia, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Marina Petrillo, Sabino Caronia, Edith Dzieduszycka, Mauro Pierno, Giuseppe Cornacchia, Francesca Dono, Giorgio Linguaglossa, con una nota sullo «spazio espressivo integrale»: Confronto tra una poesia di Sandro Penna e una di Tomas Tranströmer

 

gif bella in reggiseno

Caro […] le idee sono gratis, chi vuole se le piglia, le idee esercitano seduzione, nascono, si diffondono, dilagano, chi pensa di arrestarle è un ingenuo, e anche uno sciocco…

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio…

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Tenterò di spiegare il nuovo «spazio espressivo integrale» nella poesia di Tomas Tranströmer. Quando parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una strofa di Tranströmer:

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.
Leggiamo quest’altra strofa:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

(Giorgio Linguaglossa)

Carlo Livia Aleph, Roma, 2017

Carlo Livia, Aleph, Roma, 2017; seduti: Antonio Sagredo, Sabino Caronia, Salvatore Martino

Carlo Livia

La prigione celeste

Dalla finestra di Mozart vedo la donna nuda che beve lacrime divine in un cielo di astri divelti

e un vecchio bambino pazzo che trascina ridendo l’anima del Grande Assente.

A forza di dormire sull’orlo del precipizio, la mia anima si è mutata in sette serafini ciechi

che baciano in sogno l’infelice sposa dell’Ultradio.

Ho attraversato tutto l’universo, cercando quella fessura del tempo da cui affiora la morte

ma ho trovato solo lo splendore delle madonne silenziose votate al blu.

Tutti i tabernacoli sospesi in alto mare s’inclinano lottando contro un vento di frasi fatte

e versano in cielo una musica di carezze e desidèri di fanciulla,

tristi come la voce che mi sfiora in sogno
per dirmi che non è più qui. Continua a leggere

27 commenti

Archiviato in Antologia Poesia italiana, Crisi della poesia, Senza categoria

Analisi dei primi quattro versi di una poesia di Mario Gabriele – Quesito di Donatella Costantina Giancaspero: Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole? Risposte di Gabriele Pepe, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Edda Conte, Anna Ventura,  – Crisi della poesia italiana post-montaliana – Il «Grande Progetto» e la mancata riforma della poesia italiana del secondo Novecento. Una Poesia di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi e Laura Canciani 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 8:59

Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).

Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.

43

Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.

Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.

Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.

Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.

Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.

Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.

Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.

Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.

Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. Non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. La traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).

L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.

 

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 11:16

Caro Giorgio,

leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”. Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia.

Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre.

Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione. Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.

 Edda Conte

19 dicembre 2017 alle 12:08

E’ una bella risposta, questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei versi di Mario Gabriele. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.

Giorgio Linguaglossa

19 dicembre 2017 alle 12:36

La «nuova ontologia estetica» ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…

In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica… Intendo dire che una aporia ha attecchito la poesia italiana di questi ultimi decenni: che la poesia debba essere comunicazione di un quantum di comunicabile. Concetto errato, non vi è un quantum stabilito che si può comunicare, anzi, la poesia che contingenta un quantum di comunicabilità cade tutta intera nella comunicazione, diventa un copia e incolla della comunicazione mediatica, di qui la pseudo-poesia di oggi. Occorre, quindi, rimettere la comunicazione al suo posto. Questo concetto va bene quando si scrive un articolo di giornale o quando si fa «chiacchiera» da salotto o da bar dello spot ma non può andare bene quando si scrive una poesia. Il distinguo mi sembra semplice, no?

Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:32

1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”

  1. Osip Mandel’štam

2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò mai (…) sono nata portata (…)”

Marina Cvetaeva

3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…

4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/ anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”

Giacinto Scelsi

Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith, passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.

 Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:55

Brano tratto da Il marinaio di Fernando Pessoa:

” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.

(…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)

(…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO Ritagli di carta e cielo - cover (2)

Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo

 

Donatella Costantina Giancaspero

19 dicembre 2017 alle 19:51

caro Gino Rago,

questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.

Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –

E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 23:19

Cara Donatella,

sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.

Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.

Donatella Costantina Giancaspero

20 dicembre 2017 alle 13:53

Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:

Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?

Risposta:

La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:

1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.

2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.

Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi…   Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca”  dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.

Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici. Grazie!

[il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione»]

.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 9:32

Il lato debole della nuova ontologia estetica?

 Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.

Vado subito al punto centrale.

A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.

È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».

È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.

Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.

Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…

In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi… E arriviamo ai giorni nostri…

Anna Ventura copertina tu quoqueanna ventura

Anna Ventura

20 dicembre 2017 alle 10:39

Caro Giorgio,

già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone” (parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare. Credo che siano le capacità letterarie dei singoli, se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione. Saluti dalle truppe cammellate, pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 10:49

Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:

 (Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 11:41

Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa:

Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 15:57

Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»

 Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltàdi Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde(1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni

Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

 Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Non bisogna dimenticare la riproposizione di un discorso lirico aggiornato da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo ma pur sempre entro la linea del modernismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna.

È doveroso segnalare che in questi ultimi anni ci sono state altre figure importanti che ruotano intorno alla «nuova ontologia estetica»: Mario M. Gabriele con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016)  In viaggio con Godot (2017), Antonio Sagredo con Capricci (2016), e poi Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Donatella Costantina Giancaspero, Francesca Dono, Giuseppe Talia, Edith Dzieduszycka.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici della «cronaca mediatica». La composizione adotta la veste di commento. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «di visione del mondo»; il risultato è che la micrologia convive e collima con il solipsismo asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

1] T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.

Lucio Mayoor Tosi

20 dicembre 2017 alle 23:38

Di Maio

«Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
in meno di un istante».

Glielo disse ruotando attorno al vassoio
nel mezzo di una stanza.
«Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
Poi l’altro, poi l’altro».

«Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».
Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
Entra nell’ascensore.

Posto qui una poesia inedita di 
Laura Canciani.

                                                        a a.s.

Questa volta saliamo sul ring.
Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
– eresiarca di un fuoco baro –
io, con vestaglietta da cucina
e un occhio già ferito
da lama spinta:
potrei indossarle tutte le scarpette rosse
che girano vive tra luci e pareti
disattente.

Round primo:
quale arbitrocritico non esulta per il colpo
“Orfeo e Euridice”?

Round secondo:
creami adesso, qui, il più piccolo
fiore rosso…

Un colpo basso, a testa bassa, feroce
contro le regole
non viene perdonato.

La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
in un ridere di onda d’urto
che disfa persino l’invisibilità.

Provo dolore consapevole nel prodigio
del silenzio
ma sono viva e da viva mi giunge una voce
strana, anglosassone, elegante, come crudele.
«Liberati»
«Liberarmi, da che cosa?»
«Tu lo sai»
«Sì, liberarmi da tutta la zavorra
che impedisce la santità».

Commento estemporaneo di Giorgio Linguaglossa

Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…

Gino Rago
18 dicembre alle 18.30

Dopo Lilith
(Dio presenta Eva ad Adamo)

“(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
ma non superare la soglia.
Stai molto attento a non far piangere questa donna.
Io conto una ad una le sue lacrime.

Questa donna esce
dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
per essere pestata
(né dalla tua testa
per sentirsi superiore).

Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
Ma dal lato del tuo cuore.
Per essere amata. Questo ti comando.(…)”

Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
Un sibilo invade il giardino di gigli.

Continua a leggere

12 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria

La storicità debole nella quale oggi ci troviamo – Poesie e Commenti di Maria Rosaria Madonna, Giuseppe Talia, Mauro Pierno, Guido Galdini, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Fritz Hetrz, Francesca Dono, Antonio Sagredo, Alfonso Cataldi, La distruzione della ontologia è già stata compiuta nel novecento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo. Ciò che resta della metafisica come destino si è già compiuto

Foto New York traffico

La storicità debole nella quale oggi ci troviamo – Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica

la Redazione augura a tutti i lettori buon Ferragosto, la rivista riprenderà i suoi lavori il 28 agosto. Nel frattempo, saranno postati articoli già apparsi.

Giorgio Linguaglossa

14 agosto 2018

La storicità debole nella quale oggi ci troviamo

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.»

Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.

Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di fare una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte» pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo ha bene illustrato il pezzo di Lucio Mayoor Tosi citato all’inizio.

Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò comporta una presa di consapevolezza che quella metafisica non è più utilizzabile, che dobbiamo andare al fondo della crisi di quella metafisica per poterla abbandonare nella sua interezza. Soltanto abbandonandola in piena consapevolezza possiamo alleggerirci e andare oltre, oltre il novecento. Noi possiamo soltanto raccogliere quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, ma con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con queste «cose» che noi dobbiamo edificare.

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura di modelli, di costrittività, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori devalutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi, dimenticare.

Dobbiamo intendere la Tradizione come distinzione  di Tradition e Ueberlieferung (trasmissione). La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore. A mio avviso, è qualcosa di più di un «guasto», qualcosa di diverso: siamo entrati tutti in un «nuovo orizzonte di eventi», in una condizione di «storicità indebolita», di «consapevolezza indebolita», di un ulteriore «indebolimento dell’essere». Con le parole di Heidegger: «ciò di cui non ne resta più nulla», in cui, nella scia di un pensiero post-metafisico, non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto. La «distruzione della ontologia» è già stata compiuta nel novecento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo. Ciò che resta della metafisica come destino si è già compiuto. «Che cosa pensiamo, allora, quando ri-memoriamo l’essere? Possiamo pensare l’essere solo come gewesen, solo come non (più) presente»,1 ciò che è latente ma che dalla latenza ci chiama e ci ri-chiama al nostro essere-qui, adesso. Da qui, da questa consapevolezza, è nata la «nuova ontologia estetica».

 

1] G. Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 182

[La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore]

.

Ho diviso questa poesia di Antonio Sagredo in piccole poesie autonome. Il risultato lo lascio giudicare ai lettori:

Antonio Sagredo

Ho solo in custodia i destini altrui e la mia condanna,
l’eccesso di una via consolare e un passante in fuga,
ma è finta la carta dei selciati orfana di zoccoli e di gridi.
Epitaffi premortali insidiano codici e cifre.
I sembianti sono smemorati, come bianchi acrostici.

*

Ho, di nuovo, e solo con vergogna inciso su un arco
di trionfo il marmo di un evento e l’assurdo tempo
non umano: un certificato che non cade mai in prescrizione.
E ho il potere di violare quei destini e i sigilli
chiusi col belletto di maschere piombate,
con lettere e numeri indicibili – esilio e cicatrici
nutrono la mia memoria in un tugurio spento da fanali.

*

Gioia prenatale di un mandorlo in fiore.
Festa del dire e del disfare:
questa è la Grazia che si converte
nel dèmone di un rinascimento.

*

E sono come Cassandre queste contrade
che tracimano astri e profezie in pozze – di miseria!
Luride stelle decollate dai riflessi, e non più – regine!
Scarnite creature senza gorgiere, né merletti d’ossa,
che nulla cantano, nemmeno un’ingenua – profezia!

.

Lucio Mayoor Tosi

13 agosto 2018

Due osservazioni al volo:
– per Talia, se non mi manda al diavolo, a mio parere l’eccesso di articoli, specie gli indeterminativi, invece di creare vive presenze favoriscono la fredda l’elencazione.
– Antonio Sagredo: apprezzo molto l’elegante interpretazione di Giorgio Linguaglossa, di una poesia in più poesie brevi. Ne risultano evidenziati versi altrimenti soggiogati dall’irruenza creativa del poeta brindisino.

con lettere e numeri indicibili – esilio e cicatrici
nutrono la mia memoria in un tugurio spento da fanali.

 .

Giuseppe Talia

13 agosto 2018

Caro Lucio,
capisco bene cosa intendi, e forse era quello l’effetto che volevo creare, una nuda elencazione, diretta e precisa. Il testo che Giorgio ha riproposto oggi risale al 2014, una versione ridotta a sei versi apre la raccolta La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2018). Ma qui è il senso di spaesamento introdotto dalla domanda “dove siamo?” a dare origine all’elenco di luoghi e situazioni che, come dice bene Cataldi, “si calano nei fatti correnti e dismessi dell’umanità”.

Il problema degli articoli, che per me non è un problema, almeno non come forse lo intendi tu, l’ho trattato ampiamente in Thalia, con un uso abbastanza corposo soprattutto delle preposizioni articolate. In quel caso, articoli e preposizioni mi hanno permesso di mantenere un “canto minimo” e allo stesso tempo di prevedere ogni singolo verso come fosse un aforisma: tanti singoli aforismi incollati come stracci (direbbe Gino Rago), uno sull’altro. Quanto ai temi trattati, ritorna l’espressione di Cataldi sui “fatti correnti e dismessi”: news, spot, tweet, proclami, sentenze, fake news, che nascono e muoiono entro ventiquattr’ore.
Tutt’altra storia in Salumida, dove invece gli articoli e gli aggetti sono ridotti al minimo e anche i verbi quasi del tutto inattivi.

Mi piace la divisione in distici che Giorgio ha operato (Giorgio ormai è sempre più un influencer), e, sempre in tema, concordo ancora con Alfonso Cataldi, il testo di Rago sembra una continuazione dell’ultimo verso (nel Mar Morto come un profugo) attraverso una testimonianza diretta di uno di quei profughi (la donna di Somalia/giunta da noi chissà per quali vie).
Allo stesso modo, si potrebbe dire del testo di Cataldi, laddove il Raid in moto su Marte, potrebbe essere benissimo “La semifinale di BMX”, oppure “un seno franciacorta” in “un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo”.

Vi è comunione. Vi è NOE.

.

13 agosto, 2018

Entrambe le poesie, di Gino Rago e Giuseppe Talia, si calano nei fatti correnti e dismessi dell’umanità. «Dio» non solo ha rancore per una recensione non data, ma rimane attratto dall’ultima sventurata trovata capitolina. Il «Dio» in prima persona di Talia entra completamente nelle contraddizioni della contemporaneità. A questi voglio aggiungere il «Dio» Aboubakar di una mia poesia recente, testimonianza, voce “che racconta” il naufragio in cui si sta

Stupida(mente)

L’idolo dei tifosi locali usa precauzioni per niente rassicuranti.
Raggiunge sempre il campo, raccontano i dossier,
anticipando i risvolti settimanali dell’accoppiamento dei conigli nello spogliatoio.

Il truccatore personale di Be Best rotola giù alla minima spinta,
al primo dissapore tra un punto sulla retta
e la gravità di una vertigine magneto-dipendente.

Stupida(mente) la ruota non guarda mai dietro.

La semifinale di BMX è un’esplosione muscolare che raccoglie mutazioni
trasporta il fatto e il fittizio a ridosso della grata.

Lo sguardo fisso della talpa non osa defluire
dal soffitto basso

oltre l’eclissi di luna, con i bordi stemperati
annusa passifalsi.

Le rotifere bdelloidee stanno silenziosamente riparando il dna

strisciano indisturbate tra un seno franciacorta
e l’umore circostante, in armi: sette volte gatto.

[nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto]

.

Giuseppe Talia

  1. 13 agosto 2018

    Caro Germanico, bisogna sistemare Caproni
    Spargere le ceneri di Gramsci nell’aria Satura

    Sotto il pitosforo nano del belletto minimal-chic
    Dove non cresce oramai che il trifoglio di Malvoglio.

    Tu sai, Germanico, quanto i Fortini della politica
    Discendenti di Ascanio, dalla Suburra abbiano

    Tratto giovamento fin dal regno di Numa Pompilio.
    Quanto il “finger food” e lo “street food” siano degni

    Del castrato in salsa di cipolla e tortelli di piccione.
    Bisogna sistemare Caproni, rileggere il sessanta

    E il settanta, capire perché sia fallita l’osteria familistica
    I buoni contorni una volta saltati in padella di ghisa

    Per l’odierna smania nervosa verso l’antiaderente.

     
    .

    Lucio Mayoor Tosi

    13 agosto 2018

    Complimenti.
    Anche per le precisazioni. Ma non avevo dubbi, sei per me uno scrittore poeta di pennino – termine preso in prestito dalla pittura – capace di segni inaspettati e forti.

     Giuseppe Talia

    13 agosto 2018

    Nell’applicare il linguaggio non si può ad esso attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del fonatore e del relativo muscolo cricotiroideo?

    .

     Giorgio Linguaglossa

    13 agosto 2018

    caro Tallia,
    ti scrivo questa missiva tra gli ozi di Capua
    e i negozi di Ercolano in compagnia del passito di Pantelleria.

    Germanico consuma fast food con Orestilla
    la figlia di quel coccodrillo di Fasullo

    che si è dato al commercio di schiavi
    mentre la sua amante, Gaia Priscilla, si gode

    un muscoloso negro d’Egitto, nipote dei Tolomei,
    dice il manigoldo, rampollo della nobile stirpe

    di Osiride e di Anubi. Che vuoi, l’impero è tanto grande
    che un frammento di esso occuperebbe

    il Circo Massimo e il Foro di Traiano dell’Urbe.
    A proposito, hai notizie del poeta Gino Rago?, sai

    sono un po’ preoccupato, ultimamente ha cambiato lo stile
    della sua poesia, adesso scrive in distici,

    ma la sua Musa risulta alquanto attempata e impettita
    come una mercenaria di infimo rango

    che impiega il belletto e il soffritto di alghe
    per i suoi capelli untuosi…

    .

    Gino Rago

    Due inediti

    [a Giuseppe T., ad Alfonso C., a Giorgio L., a Mauro P., a Lucio M. T., a Roberto B., e ai poeti oggi non presenti su L’Ombra]

    1- Ciò che ci ha amato non ha una via di uscita

    L’onda esala odori di libeccio e nei marosi tremano i pontili.
    [A noi di terra serve per partire nello sgomento della vastità].

    Chi valica i fili degli ultimi orizzonti forse più non torna.
    Chi s’imbarca per l’esilio farà ritorno come un’ombra

    perché ciò che ci ha amato non ha una via di uscita

     

    2 – Parla il saggio [i marinai lo chiamano «il filosofo»]:

    «Meglio non partire,
    chi rimane ha sempre la certezza d’una tomba.

    Mette i suoi confini all’immensità.
    Una pergola fra gli orti.

    Un filare di pioppi fra l’avena e il grano.
    Un frangivento fra l’arancio e il cedro.

    Un canneto fra la marina e il mondo.
    Un muro a secco fra se stesso e l’altro.

    Tu mi chiedi a chi basta il mare?
    Il corallo trattiene le voci dei morti,

    la tolda nell’afa di agosto
    spande odori di boschi bruciati.»

    Ma sugli scogli nella bora insonne il mare mette ali all’anima.
    Il grido d’un gabbiano

    segno d’eterno fra la spuma e il cielo.

     
    [non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza]

    .

    Giuseppe Talia

    13 agosto 2018

    Caro Germanico,

    anche io preso dall’ozio dello Jonio con Nosside
    ed Afrodite che bevono una detox alla rucola.

    Parlano di Kavafis, “Ionio abbraccia Ionio”, dicono
    E ridono di Gallieno che in primavera si fa costruire

    Giacigli di rose e imbandisce la tavola con vasellame
    D’oro: “la memora è come morta”, va affermando

    Preso come sempre dalla Playstation e dal gioco
    D’azzardo, ironizza sul prossimo Decreto Dignità.

    Che serie danno stasera su Sky? Domanda Nosside
    L’Ispettrice Athena Licinia con quel gran pezzo di

    Claudio Marcello in un thriller nella Gallia Cisalpina?
    Afrodite, invece, si è fatta un nuovo tatuaggio

    Una banda nera all’altezza del braccio alla maniera
    di Dybala e come lui calcia cocomeri in giardino.

    Del poeta Rago non ho notizie certe tranne,
    qualche straccio che m’è rimasto in un sacco di iuta.

    A Marasà l’aspetto il Rago in distici e ditirambi

     

     caro Tallia,

    qui nell’Urbe malatempora currunt, il console Salvinus,
    quel bellimbusto padrone della Padania,

    che se la spassa con la sua Sofonisba, la terrona
    della Libia, ha emanato un decreto di coscrizione obbligatoria

    per tutti i cittadini sfaccendati della città eterna,
    lo chiama, il becero, Decreto dignità…

    al fine, dice il manigoldo, di rinfoltire i ranghi
    delle legioni del Nord, dice il ribaldo che una nuova guerra

    si avvicina con le bande di germani e di alemanni
    che scorrazzano nell’impero fino ad Aquileia!

    Stattene nella tua Nosside, caro Tallia, qui rischieresti
    le legioni del Reno e del Danubio, i freddi fiumi

    invernali, le battaglie ingloriose contro i barbari,
    bèati dei sicomori e dei fichi secchi della Bitinia

    finché sei in tempo…

    .

    Alfonso Cataldi

    14 afosto 2018

    Caro Giorgio, Cari avventori,

    ho incontrato per caso la Musa dell’Ombra delle parole
    all’ufficio postale. Mentre scrivo, gesticola
    dietro lo sportello dei distici non ritirati.

    C’è un gran ressa, chi ha espletato la pratica
    riceve un biglietto omaggio per il foro Traiano.

    Tra mezz’ora è atteso il poeta Gino Rago
    che spiegherà le ragioni della conversione.

    Io non riuscirò a fare in tempo ed altro non so dirvi
    ho ancora trenta numeri avanti

    le pratiche sono lunghe, manca l’aria condizionata
    tutti hanno da spedire un alibi su cui posare il cappello.

    .

    Guido Galdini
     

    14 agosto 2018

    piove e non piove qui sulle pietre del molo
    il cielo si è ridotto ad una frase

    le navi che partono hanno ciascuna
    una lettera di commiato scritta sopra le vele

    e noi dovremmo essere così coscienziosi
    da leggere anche le parole cancellate

    le navi che ritornano invece
    hanno scritte troppo sicure di se stesse

    ma questo non ci disturba, è da gran tempo
    che dobbiamo inventare i nostri alfabeti.

     
    .

    Mauro Pierno

    14 agosto 2018

    La propaganda dei nostri sguardi intravede l’ozio delle parole tra nuvole filiformi di batteri incompresi. Questi mostri di discorsi che attraversano le mani.
    Nei gesti le estenuanti nude dichiarazioni.

    Questo fumo di vento
    Ha il volto perso.

    .

    Maria Rosaria Madonna

    da Stige. Tutte le poesie (1990-2002), Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 150 € 12

    Sai, nel Dottor Zivago c’è il protagonista
    chiuso nella casa gelida immersa nella neve…
    fuori dalle finestre l’ululato dei lupi.
    E’ un poeta. –che cosa fa? –
    fa quello che fanno tutti i poeti: scrive poesie.
    Scrive poesie, poesie, poesie.
    Si deve sbrigare perché tra poco le guardie rosse
    lo verranno a prendere. Davvero,
    c’è così poco tempo per scrivere poesie.

    .

    Se Maria Rosaria Madonna avesse saputo che per qualcuno, un giorno, Lei sarebbe stata d’avanguardia, chissà cosa avrebbe pensato. Sono tante e tali le somiglianze…
    Le poesie in neolingua sono capolavori, ma sono cosa a parte, sovrumane, fuori dal tempo e per me impossibili da ri-considerare. Ma gli inediti, le ultime poesie scritte nel 2002, insegnano chiarezza e irregolarità. Nel 2002 era già fuori, aveva fatto il salto… Neve inattesa. Sulla fronte. – Fa bene alla pelle.

    (citata da Lucio Mayoor Tosi)

    .

14 agosto 2018

di Fritz Hertz

Tesoro_ un lupo ha trapiantatole ossa proprio in questa casa.
Al di sotto del tavolo che fa da pianura all’ingresso solitario.

Sembrava il gatto di Schrödinger. Un atomo di luce inserito
nell’arredo della bianca scatola di gesso. Prima si è finto morto.

Poi è resuscitato con il sorriso stampato sul pelo liscio. Tesoro_sa-
rebbe utile comprare un po’ di carne. Il quarto di un bue senza nervi.

Isolato. Intontito di amuchina. Con il marchio originale del macello.
D’altronde gli daremo ancora da mangiare. Nell’ululato rude e continuo.

Dalla grandine di tre parole in croce. Ne saremo sanguinosamente tutti felici.

31 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia Continua a leggere

39 commenti

Archiviato in Senza categoria

Paradigma dello Specchio – Quattordici Poesie per quattordici poeti sul tema dello specchio, a cura di Gino Rago – Poesie di Ezra Pound, Sylvia Plath,  Wislawa Szymborska, Francesca Dono, Kikuo Takano, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia Leone, Lidia Popa, Edith Dzieduszycka, Ewa Lipska, Alejandra Alfaro Alfieri, Gino Rago, Annalisa Comes, Giorgio Linguaglossa,

Foto Lo specchio

La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica»

Quattordici  poeti si confrontano con il Paradigma dello Specchio. La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica».  La parola «specchio» deriva da «speculum», ed ha la stessa radice di «speculazione», cioè pensare qualcosa in rapporto ad un’altra. Lo «specchio» ci mette dinanzi agli occhi una immagine nella quale spesso non ci riconosciamo, e ci invita a pensare noi stessi in rapporto a ciò che vediamo riflesso nello specchio. È dal non-riconoscimento che ha inizio la speculazione intorno a ciò che noi siamo e ciò che non siamo; è attraverso l’immagine esterna a noi che possiamo speculare intorno a ciò che siamo o non siamo, perché ciò che noi vediamo di noi è sempre altro da ciò che noi credevamo di sapere…

«Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il Vuoto stesso […]».

 (Roland Barthes)

l’immagine allo specchio ci rivela il nostro sembiante come un «gioco» di significanti e di significati, di codici e di geroglifici inscritti tra le pieghe del nostro volto […]

Un  contesto di «gioco» nel quale la Parola, nel suo significato, rischia di farsi ambigua.  Da questa ambiguità trae l’origine il  «lutto» e da questo l’ impedimento al pieno dispiegarsi dell’adempimento nel tempo della «Storia».

La storia individuale è quindi una ripetizione del «gioco luttuoso» del Trauerspiel, ripetizione infinita della rottura, dell’incongiungibilità di suono e significato, della dif-ferenza tra significante e significato, del permanente rischio di parlare tramite la ciarla.

Autotrasparenza e autoriflessività sono due momenti dello «specchio» intorno ai quali ruota la rappresentazione nel Moderno. La rappresentazione si fa rappresentazione di se stessa, si duplica, si mostra nella trasparenza e nel riflesso allo specchio, mostra la propria struttura riflessiva e, nello stesso tempo, mette in atto un rapporto con il soggetto della rappresentazione di cui smarrisce la genesi; il soggetto si mostra «barrato» nella elisione direbbe Lacan* indicando in tal modo la lacuna intorno a cui si costituisce la rappresentazione, lacuna che colpisce, a ritroso, il soggetto, elidendolo. Così, il linguaggio tende al metalinguaggio e l’io tende al meta-io.

L’atteggiamento giubilatorio del bambino davanti allo specchio è, per Lacan,  la seduzione dello specchio, la fascinazione in cui si produce quello sdoppiamento nel soggetto per cui l’immagine riflessa diventa l’emblema nel quale il soggetto si riconosce e si identifica. Si è colti in imago prima ancora come persona, si è catturati dall’immagine statuaria che si produce sulla superficie dello specchio. Il corpo è la sede dell’ingovernabilità,  in balia dell’altro e della propria inibizione motoria. Il corps morcelé è l’espressione che Lacan utilizza per descrivere questo stato. Il «corpo-in-frammenti», è l’altro polo di questo processo che detta le regole, da un lato, allo disgregazione del soggetto tra la sua immagine unitaria, ortopedica, come dice Lacan, in cui il soggetto si aliena, e la frammentazione che rivela al soggetto il soggetto.

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria e in cui accade qualcosa che appare nel registro della finzione: la formazione di sé nell’immagine.

* M. Foucault, Les Mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad.it. Panaitescu E., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967 .

(Giorgio Linguaglossa)

Gif gemelli

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria

Niente è più astratto e sfuggente della nostra identità e nello stesso tempo niente è più esposto al giudizio altrui, è più concreto e visibile. A cominciare dal volto, la prima immagine di noi stessi. Da quasi due secoli la fotografia è legata alla nostra stessa idea di identità. Tutti portiamo con noi un documento con il nostro volto e abbiamo fotografie delle persone che più amiamo. Il rapporto emozionale che stringiamo con queste immagini è talmente complesso da farci rifiutare, qualche volta, i nostri stessi ritratti. Non ci riconosciamo, anche se bastano pochi anni per trovare sorprendentemente migliorate fotografie che prima detestavamo. Perché la fotografia è come la memoria: cambia. Non resta immobile, ma si trasforma sulla base della storia di ciascuno e dell’idea che si ha di se stessi.

(Ferdinando Scianna, Lo specchio vuoto, Laterza, 2015)

La creazione sarebbe secondo Jakob Böhme (1575-1624) una sorta di gigantesco specchio, cioè un enorme occhio che è in grado di guardare se stesso.

Un gruppo di cosmologi guidato da Julian Barbour, dell’Università di Oxford, ha ipotizzato che all’origine della freccia del tempo non ci sia l’entropia, ma la gravitazione.

Il loro modello cosmologico prevede, infatti, l’esistenza di due universi specchio, che evolvono simmetricamente – creando strutture complesse e ordinate, come le galassie, per esempio – a partire da uno stesso stato iniziale caotico, di dimensioni minime e densità massima.

Uno dei due universi va quindi in avanti nel tempo, l’altro indietro. Naturalmente non potremo mai incontrare gli ipotetici abitanti dell’universo specchio, perché ognuno percepirà di muoversi verso il futuro, allontanandosi da quello stato caotico primordiale.

Le particelle virtuali spesso appaiono in coppie che si annichilano a vicenda quasi istantaneamente. Tuttavia, prima di svanire possono avere un’influenza reale sull’ambiente circostante. Per esempio, i fotoni – i quanti di luce – possono saltare dentro e fuori un vuoto. Quando due specchi sono posti l’uno di fronte all’altro in un vuoto, all’esterno degli specchi possono esistere più fotoni virtuali di quanti ce ne sono nello spazio che li separa, generando una forza apparentemente misteriosa che tende ad avvicinare gli specchi.

Questo fenomeno, previsto nel 1948 dal fisico olandese Hendrik Casimir e da allora chiamato con il suo nome, fu osservato per la prima volta con specchi mantenuti in uno stato di quiete. I ricercatori però hanno previsto anche un effetto Casimir dinamico, che si osserva quando gli specchi sono in moto o quando gli oggetti subiscono qualche tipo di cambiamento. Ora il fisico Pasi Lähteenmäki dell’Università di Aalto,  in Finlandia, e colleghi, hanno dimostrato che variando la velocità con cui viaggia la luce è possibile farla apparire dal nulla.*

* notizie tratte da  http://www.lescienze.it/news/2013/02/16/news/luce_vuoto_quantistico_particelle_virtuali_fotoni_effetto_casimir_dinamico-1511221/

foto Ombra sulle scale

Quello che vedo lo ingoio all’istante

1 Ezra Pound

Sul suo viso allo Specchio
“O strano viso nello specchio!
O compagnia ribalda, ospite
sacro, o folle
sconvolto dal dolore, che risposta?
O voi moltitudini che lottate,
giocate e svanite,
scherzate, sfidate, mentite!
Io? Io? Io?
E voi?” Continua a leggere

39 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Poesie di Zbigniew Herbert, Letizia Leone, Raymond Carver,  Alfonso Cataldi, Carlo Bordini, Fritz Hertz, (Francesca Dono), Lidia Popa, Luciana Vasile, – Riflessioni di Giorgio Linguaglossa, Gaio Valerio Pedini – La Poesia dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica

Gif Labbra rossettoGif we were born to die

 

Due poesie di Zbigniew Herbert (1924-1998)
da L’epilogo della tempesta, Adelphi, a cura di Francesca Fornari, 2016

Un cuore piccolo

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

nel momento meno opportuno
quand’ero ormai sicuro
di aver dimenticato tutto
le sue – le mie colpe

eppure come gli altri
volevo cancellare dalla memoria
i volti dell’odio

la storia mi confortava
io combattevo la violenza
e il Libro diceva
– era lui Caino

tanti anni paziente
tanti anni inutilmente
ho pulito con l’acqua della pietà
la fuliggine il sangue le offese
perché la nobile bellezza
il fascino dell’esistenza
e forse persino il bene
dimorassero in me
eppure come tutti
desideravo tornare
alla baia dell’infanzia
al paese dell’innocenza

il proiettile che ho sparato
da un piccolo calibro
nonostante le leggi di gravitazione
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle
come volesse dirmi
che niente e nessuno
sarà perdonato

e così adesso siedo solitario
sul tronco di un albero tagliato
nel centro stesso
della battaglia dimenticata

io ragno grigio intesso
riflessioni amare

su una memoria troppo grande
su un cuore troppo piccolo

Preghiera

Padre degli dèi e tu Hermes mio patrono
ho dimenticato di chiedervi – e adesso è ormai tardi –
un dono grande
e così imbarazzante come una preghiera
per pelle liscia capelli folti palpebre a mandorla

che accada
che tutta la mia vita
entri per intero
nel cofanetto dei ricordi
della contessa Popescu
su cui è raffigurato un pastore
che al limitare di un querceto
soffia dallo zufolo
un’aria perlata

e il disordine dentro un gemello
il vecchio orologio paterno
un anello senza la pietra
un binocolo marinaio ripiegabile
lettere essiccate
una scritta dorata su una tazza
che invita alle terme
di Marienbad
una barra di ceralacca
un fazzoletto di batista
segno della resa di una fortezza
un po’ di muffa
un po’ di nebbia

Padre degli dèi e tu Hermes mio patrono
ho dimenticato di chiedervi
mattini pomeriggi sere frivole e senza senso
poca anima
poca coscienza
una testa leggera

e un passo danzante

  

Giorgio Linguaglossa  25 maggio 2018 alle 7:53

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»?. Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Meister Eckhart ci ha parlato del «vuoto» quale esperienza interiore essenziale per accedere alla dimensione spirituale, ovvero, fare «vuoto» come distacco dai propri contenuti personali per poter accedere ad una dimensione più vera e profonda.

È da qui che ha inizio la riflessione poetica dei poeti nuovi dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica, dal punto di congiunzione tra temporalità e memoria. Quel punto opaco, insondabile dove hanno avuto luogo gli eventi significativi, paradossalmente opachi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci.

La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

I grandi poeti lavorano incessantemente per tutta la vita attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. In questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

perché istituisce una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere, dove l’assurdo della denotazione collima con il rigore del pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza intuitiva l’eterogeneo e il contraddittorio che permea l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa, assunto che viene invalidato dal pensiero della communis opinio ma che è inverato dall’esperienza della metafora nella poesia, dove essa si rivela essere un concentrato di impossibilità drasticamente verosimile ed immediatamente intuitiva.

T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42

alfonso_cataldi

Alfonso Cataldi

 Alfonso Cataldi   25 maggio 2018 alle 10:23

Sinestesie

Eravamo tra i minimi discorsi nel bar di via Carfagna
quando l’altro mio alter ego prende il largo.
S’inalbera ed esce, sbattendo la porta.
Così un gruppo di tedeschi litigioso

si siede al tavolino
in pieno centro urbano
e continua la nostra discussione.

Giacomo sveglia l’intero vicinato strillando
«il pezzo-schizo» di Jannacci
davanti lo skyline che muta
intorno a Porta Nuova:

“Giacomo ha fame. Paninutto!!”

Una mamma mette in pausa l’ultimo tutorial pubblicato su Donna Moderna.
Si domanda se ha una faccia in più
oppure in meno
l’origami
strapazzato tra le dita.

Il maestro Robert J. Lang dice di ritenere la questione troppo ingenua
la ripiega nello stipo dietro gli accadimenti di giornata
da stivare in poco spazio
tra i satelliti
del punto-vita. Continua a leggere

13 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, nuova ontologia estetica, Poesia irlandese contemporanea, Senza categoria

Dialogo e poesie sul concetto di nuovo in arte, di disfania e sulla nuova poesia – Poesie di Mario Gabriele, Carlo Livia, Francesca Dono, Donatella Costantina Giancaspero, Anna Ventura, Gino Rago, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, e Due brani musicali di Pierre Schaeffer

Gif maniglia

Tornarono i rifugiati dell’aldilà

Mario M. Gabriele

 Introduco un mio testo inedito da Registro di bordo, facendolo confluire nel discorso critico di Giorgio Linguaglossa. Spero che altri poeti facciano altrettanto presentando poesie attinenti alla NOE. Qui farebbe bella figura il testo di Lucio Tosi: se non ricordo male “due simil gatti”.

Una sartoria dalle grandi firme.
-Meglio una tuta blu- dicevi,
-che un vestito da playboy-.
Nel bagaglio della Fusstemberg
c’erano piante del Guatemala,
orchidee selvagge, primeroses.

Tornarono i rifugiati dell’aldilà.
Maxwell ha tenuto una lezione
nella Socialist House.
Jukebox all’idrogeno mi fa star bene
come Woodstock ai ragazzi nel 69.

Due Gendarmi cercavano David
per un viaggio a Dachau.
E’ tutto quello che ricordo dell’infanzia,
profumo hashish e di castagnole.

Nella tua mano ho letto la linea della vita.
Se non ci saranno sorprese
dovresti farcela contro le fratture
e le linfoadenomegalie.

Stilford gestisce due cafesterias.
Ha bisogno di un cassiere durante il giorno.
Sarebbe un’occasione, William,
per finire con questa povertà che ti affligge tutto l’anno .
L’unico amico, veramente discreto, è stato Salomon
con le sue letture afroamericane.

Karl Randolph ha fotografato sandali e visi per un album privè.
Sei tornata da Guadalupe ma senza il coro degli angeli.
Qui le stelle sono sparite. Riappaiono a Londonderry
dove una blues singer se la cava cantando Summertime.

Gif La noia

un genere che non si rinnova, che non produce il «nuovo», invecchia e muore

Giorgio Linguaglossa  

Sulla categoria del «nuovo» in arte

A proposito del concetto di «innovazione» quale componente decisiva di un’opera letteraria, cito un brano di Robert Weidman in Teoria della ricezione (Einaudi, 1989 p. 99):

«L’innovazione a qualsiasi costo produce una cattiva poetica e una storia della letteratura ancora peggiore. L’estetica della ricezione, che fa propria l’idea formalistica di evoluzione letteraria, critica, è vero, la pura “canonizzazione del mutamento”, perché la “variazione estetica” non basta di per se a spiegare lo sviluppo della letteratura, dato che “l’innovazione per sé sola non costituisce ancora carattere artistico”.L’innovazione andrebbe compresa come una categoria storica, e non solo estetica. Di qui nasce inevitabilmente la domanda volta a investigare “quali siano in realtà i fattori storici che rendano veramente nuovo ciò che è nuovo di un fenomeno letterario”.
Questa domanda in merito al rapporto fra l’evoluzione letteraria e il mutamento sociale supera in un punto decisivo l’ottica astorica dei formalisti, ma non supera, tuttavia, il principio modernistico dell’innovazione oggettiva e assoluta».

Siamo arrivati al punto:

Il «nuovo» è una categoria storica, non estetica, scrive Weidman. Il «nuovo» è una necessità quando la conservazione diventa immobilismo… le forme estetiche sono forme storiche; le forme estetiche pubblicitarie e autoreferenziali fanno parte integrante della pubblicità… un genere che non si rinnova, che non produce il «nuovo», invecchia e muore. Tanta parte della «poesia» contemporanea è scrittura priva anche della cognizione della conservazione delle forme estetiche e storiche (che pure avrebbe una sua funzione, cioè quella di conservare qualcosa in frigorifero). La poesia squisitamente «narrativa» che oggi si scrive è, rigorosamente parlando, una para scrittura, una scrittura endofasica, una scrittura mimetica di se stessa; voglio dire una cosa semplice: oggi tutti scrivono allo stesso modo con una scrittura senza stile, e una scrittura senza stile non è neanche scrittura letteraria ma para scrittura.

Credo che una scrittura alla maniera della nuova ontologia estetica la si possa riconoscere subito per certe caratteristiche che non sono imitabili o esportabili, caratteristiche che ciascuno può sviluppare secondo la propria sensibilità artistica e secondo la propria inclinazione. In tal senso non è e non può essere una scuola ma una officina…

Ad esempio, il concetto di «disfania» poetica (ma si può utilizzare anche in altri campi dell’esperienza artistica: musicale, figurativa, etc.) è tale in sé da essere un concetto rivoluzionario che offre grandi possibilità di sviluppo stilistico a chi è in grado di capirne le ragioni storiche ed estetiche. La «disfania» è, a mio modesto avviso, un concetto storico e antropologico prima ancora che estetico…

Per esempio, nella poesia di Mario Gabriele è agevole intuire la presenza della «disfania» tra una immagine e l’altra; la «disfania» è quella irregolarità, quella differenza, quel non combaciare di una tessera con l’altra, di una icona con l’altra che crea attrito, ma non semantico quanto iconico, uno sfrigolio delle immagini, un inceppamento continuo della sintassi. Il risultato è un andamento zoppicante, a singhiozzo, un andamento obtorto collo… Oltre alla «disfania» nelle poesie di Mario Gabriele si può rinvenire anche una «disfasia», una non-coincidenza di due fasi e di due polinomi frastici…

Però è anche vero che una «poesia» che non contenga un quid di innovazione è non-poesia.

Gino Rago  

Su invito del nostro Giorgio Linguaglossa con-divido l’essenza del mio estemporaneo intervento al Caffè Letterario “Il Mangiaparole”
Roma, 18 maggio 2018

[è un omaggio anche all’ottima intervista di Mario Gabriele a Giorgio Linguaglossa per i significativi nodi poetici che intervistato e intervistatore provano a sciogliere]


Mauro Limiti e Il Mangiaparole, ovvero «La strategia del colibrì»

In un giorno qualsiasi di un anno qualunque, forse per un eccesso di calura o forse per il gesto criminale di un piromane, nella foresta d’Africa scoppia un incendio, così, all’improvviso.

Tutti gli abitanti del villaggio cercano la salvezza verso il fiume. Così fanno anche tutti gli animali,
terrorizzati come non mai prima, con alla testa proprio colui che si fregia del titolo di “Re”, di “Re della Foresta”, che senza vergogna capeggia il frenetico esodo verso il vicino fiume, il Re per primo preso dal panico all’idea di morire arrostito tra le fiamme.

Soltanto un colibrì non cede alla paura e anziché fuggire come tutti gli altri dalle fiamme,
con una goccia d’acqua nel suo becco penetra nella foresta, vola sulla fitta vegetazione divorata dal fuoco improvviso con l’appassionato intento di spegnere le fiamme che divampano.
E fa la spola volando tra la foresta e il fiume ma sempre con una goccia d’acqua nel suo becco.

Il Re della foresta, che di lontano segue la scena, con un misto di baldanza, sarcasmo e derisione si rivolge al colibrì:«Ma sei matto, ma cosa credi di fare, non vedi che tutta la foresta sta bruciando?»

E il colibrì, volando a becco vuoto verso il fiume da cui succhiare un’altra goccia d’acqua, senza scomporsi risponde al Re leone:
«Mentre tutti fuggono io faccio la mia parte».

Riuscirà davvero il colibrì a spegnere a goccia a goccia il fuoco nella foresta?
Importa davvero saperlo o è ben più importante che il colibrì creda nel buon esito della sua impresa?

Ecco la «strategia del colibrì», tanto semplice quanto contagiosa: basta che tutti siamo disponibili a “fare la nostra parte”, a dare il nostro ancorché modesto apporto per rendere il mondo migliore di come lo abbiamo trovato. Ma il vero nucleo della metafora del colibrì che a goccia a goccia corre verso la foresta in fiamme per spegnere l’incendio è che non ci facciamo scoraggiare da coloro che già in partenza si dichiarano sconfitti di fronte a ogni impresa, da tutti quelli cioè che già prima di osare considerano inevitabile il disastro o più semplicemente l’insuccesso.

La «strategia del colibrì» fa del semplice gesto d’ogni giorno la sua cifra vera, quella cifra alla portata quotidianamente di tutti che può dare sapori, colori, significati nuovi al nostro mondo.

Ed è strategia contagiosa.

E Mauro Limiti lanciando il trimestrale di Letteratura e di contemporaneistica Il Mangiaparole si è fatto contagiare in questa prova editoriale. E ha contagiato anche tutti noi, a iniziare da Giorgio Linguaglossa, ciascuno con una goccia d’acqua nel becco a volare sulle fiamme alte del mondo.

Gino Rago  

A proposito della poesia del nostro tempo, alla prima domanda di Mario Gabriele [intervista nella pagina del blog] Giorgio Linguaglossa chiosa:

“[…] il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…

Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.

(Gino Rago)”

citando i versi miei tratti dalla poesia ‘Lilith racconta Lilith’ che propongo alla vastissima e fine platea de L’Ombra delle Parole integralmente.

 

Gif Moda

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta

Lilith racconta Lilith  Continua a leggere

27 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, nuova ontologia estetica, Senza categoria

Intervista Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa sulle tesi di Critica Della Ragione Sufficiente, verso una nuova ontologia estetica, Progetto Cultura, 2018 nel nuovo contesto socio-culturale di oggi.

Critica della ragione sufficiente Cover Def

1) Domanda.

Caro Giorgio,

è appena uscito il tuo volume: Critica Della Ragione Sufficiente, (verso una nuova ontologia estetica), presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma, 2018, pagg. 512, 21 Euro, Art-director Lucio Mayoor Tosi, volevo chiederti il senso di questo tuo nuovo lavoro critico, in risposta agli editori nazionali, più intenti a storicizzare e a periodizzare le voci dei poeti generazionali, che a riportare progetti di poesia fuori dall’elegia fenomeno tipico della poesia italiana. Per fortuna non si parla più di canoni o mini canoni, questo sembra un buon segnale.

Risposta:

Il sotto titolo del libro parla chiaro: «verso una nuova ontologia estetica», con il che si vuole intendere il percorso di pensiero che bisogna fare per introdurci dentro le categorie di una nuova ontologia. Le cose non avvengono a caso, se poeti di lungo corso come te, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia e poetesse più giovani come Letizia Leone e Chiara Catapano e altri che ci seguono: Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Vincenzo Petronelli, Francesca Dono… si sono riuniti attorno ad un progetto di «rottura» del conservatorismo della poesia italiana. La «rottura» era ed è necessaria, anzi, è indispensabile e inevitabile dopo un cinquantennio di sostanziale stasi del pensiero poetico. Per i «poeti», diciamo così, istituzionali, la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Altri poeti, invece, per esempio, Lucio Mayoor Tosi, ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… E la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza. E il linguaggio poetico si è rivitalizzato.

In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco Rathgeb tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci lavora. Lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Kikuo Takano, Steven Grieco Rathgeb è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli artisti di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute ad evidenza tutte quelle chiacchiere-di-poesia o poesia-chiacchiera di cui sono pieni i romanzi e le poesie che si fanno «oggi». Chiacchiere, ciarle, battute da bar dello spot, la poesia di Zeichen, di Magrelli, per fare due nomi noti, e degli odierni epigoni della masscult.

Per tanti troppi anni è stato problematico, qui in Italia, ai poeti di un certo livello tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica. Siamo stati assediati dalla anomia delle proposte di poetica pubblicitarie e dalle battute da bar dello spot, siamo stati impossibilitati a scrivere poesia… Anna Ventura, Steven Grieco, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia leone sono poeti ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia alla moda tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca, e le parole diventano equivoche e ciarliere. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» di una sua poesia che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» rimaste impigliate nella rete, mentre la poesia che si fa oggi assume le parole rimaste impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità.

«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di «cose» dismesse che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…

Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.

(Gino Rago)

 

Foto Richard Serra (1939) the labirint

Richard Serra, The Labirint (1939) – ci troviamo all’interno di una nuova ontologia della forma-poesia

Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche risibile. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarmelo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) posso  (possiamo) pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia», la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo: un nuovo modo di intendere le categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Erik Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità emotiva dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, miliardi di parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo, i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati ospiti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Foto semafori sospesi

Che cos’è una patria metafisica?

2) Domanda: Continua a leggere

63 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, intervista, nuova ontologia estetica, Senza categoria

Gino Rago, Cinque domande a Giorgio Linguaglossa con le risposte riprese da Appunti critici. La Poesia Italiana tra Conformismi e Nuove Proposte (2003) con Repliche di Mario M. Gabriele, Anna Ventura e Sabino Caronia – Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero e Mauro Pierno – La Metafora Silenziosa – con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole

Critica della ragione sufficiente Cover Def

una linea dantesca nel Novecento? Il petrarchismo come malattia congenita del corpo della Tradizione? Facciamo un gioco: ditemi voi Chi sono i veri petrarchisti del novecento?

Gino Rago:

“Esaminando dalla tua specola di poeta e di critico militante il panorama contemporaneo delle patrie lettere esiste una “Nuova” critica?

Risposta di Giorgio Linguaglossa:

Credo che non si possa mettere in discussione il fatto che una “Nuova critica” non può essere disgiunta dall’esistenza di una nuova poesia e di una nuova narrativa, a meno che non si tratti di una critica accademica, la quale è comunque altra cosa da quella di cui stiamo parlando.

Gino Rago:

Secondo te è possibile stabilire dei criteri che ci consentano di poter individuare, riconoscere una “Nuova” critica? Ti pongo questa seconda domanda prendendo come riferimento la tua raccolta di saggi, recensioni, meditazioni che hai fatto confluire nel 2003 in Appunti critici, per le Edizioni romane ‘Scettro del Re’, il cui sottotitolo era “La Poesia Italiana tra Conformismi e Nuove Proposte

Così chiosa Giorgio Linguaglossa:

 Quando qui si parla di Nuova critica è qualcosa di militante che si intende. Ammesso e non concesso che esista realmente una Nuova critica letteraria, sarebbe interessante vederla all’opera, esaminare come essa intenda affrontare i seguenti problemi:

In Appunti critici mi sono posto il problema-base sul quale un pensiero critico moderno non può non indugiare se non vuole essere retrocesso a mera formulazione di quesiti retorici e a esercizio di eufuismo e di conformismo: Dante e Petrarca, quale rappresentazione?.

In Appunti critici ho tentato di rispondere ai quesiti seguenti:

Può essere tracciata, all’interno del Novecento, una linea dantesca nel novecento? E una linea petrarchesca?

Il petrarchismo come malattia congenita del corpo della Tradizione?

Facciamo un gioco: ditemi voi chi sono i veri petrarchisti del novecento?

Il petrarchismo coincide con la linea pascolinizzante della poesia italiana del Novecento?

Il post-sperimentalismo e le poetiche neo-orfiche possono essere considerate varianti dell’eterna malattia italiana del petrarchismo?

La poesia italiana del Novecento è una poesia sostanzialmente pascolinizzante? La riprova è che deriverebbero dal Pascoli sia il crepuscolarismo, la linea «incendiaria» di Palazzeschi, l’ermetismo, lo stesso Montale pur se in modo parziale soprattutto con il primo libro, Ossi di seppia, del 1925, (pur se l’operazione del ligure è strategicamente dirompente nella misura in cui prosciuga la retorica pascoliana), il tardo-ermetismo, sia l’antilirica dell’Opposizione (vedasi la costante ricerca del padre putativo effettuata da Sanguineti nei riguardi del poeta di Romagna), sia lo sperimentalismo officinesco di Pasolini. Posto questo assunto, qual è la posizione della “Nuova critica”?

Gino Rago:

In Appunti Critici è dunque possibile enucleare una idea-guida, una idea-forza, al fine di condurre per mano i lettori verso il tuo lavoro psicofilosofico?

 

Giorgio Linguaglossa così risponde:

Una delle idee-forza di Appunti Critici è quella secondo cui il «traliccio» del Pascoli, lo sperimentalismo inconsapevole del poeta di Romagna, con tutto il repertorio di tecniche versificatorie che gli appartengono, sarebbe il «responsabile» della linea del riformismo moderato della poesia italiana del novecento, sulla quale sono saldamente impiantati autori anche antitetici come Pasolini e Sanguineti, fino al conformismo professionale di autori allotrii come Gianni D’Elia e Edoardo Cacciatore, ovvero, il Mitomodernismo di Giuseppe Conte come il tardo post-sperimentalismo degli «arrabbiati», i luddisti del discorso poetico del Grupo 93.

Gino Rago:

In Appunti Critici a me pare che ci sia anche altro, e sottoforma di auspici verso nuovi paradigmi letterari e in forma di questioni stringenti verso nuove basi ontologiche ed estetiche…

Risposta di Giorgio Linguaglossa:

In Appunti Critici ho auspicato che la Nuova critica avvii una riflessione su quale idea di narrativa e di poesia entro il contesto europeo.

In Appunti critici ho affrontato il problema tuttora centrale se nelle nuove condizioni della civiltà europea sia possibile, oggi, un’arte di avanguardia.

Ho tentato altresì di chiarire il luogo e la funzione di una critica militante nel tardo-moderno. A questo punto mi trovo costretto a chiedere ai lettori di approfondire le ragioni che hanno condotto alla scomparsa del rapporto tra critica militante e critica della cultura.

Ed infine, non posso fare a meno di chiedere: qual è l’antinomia-base del fare arte nel Moderno?

In Appunti Critici ho tentato di scandagliare, in modo rapsodico, leggendo i tanti autori affrontati, il problema seguente: la poesia del novecento ha subito una serie di modificazioni della forma-interna. E mi chiedo, e vi chiedo: quali sono i punti di svolta che hanno contrassegnato questi cambiamenti?

Non potevo esimermi, infine, dall’affrontare alcune questioni tuttora aperte: è ancora possibile utilizzare il concetto di “impegno”? La poesia deve essere impegnata? E, infine, la poesia è un’arte del passato o c’è una speranza di una sua sopravvivenza nel prossimo futuro? E se c’è una modalità di sopravvivenza, quali sono le condizioni perché questo avvenga?

Gino Rago:

A questo punto ponendoti nel tuo libro quelle che possono essere intese come “domande radicali” hai tracciato un perimetro ineludibile per la “Nuova critica” …

Risponde Giorgio Linguaglossa:

Come l’ultimo degli epigoni, mi sono rivolto una domanda retorica, alla quale comunque un critico militante non può non rispondere o, in qualche modo, tentare un abbozzo di risposta:

qual è la posizione della Nuova critica in ordine alle mode culturali del contemporaneo?[…]

 Giorgio Linguaglossa
29 marzo 2018 alle 15:58 

caro Gino,

quando è uscito il libro di critica, Appunti critici, nel 2003, eravamo ancora all’interno delle problematiche della poesia epigonica del novecento, il volume raccoglieva scritti sparsi del decennio precedente. Per certi aspetti assumevo una posizione combattiva, di contrasto, si trattava di un libro militante alla vecchia maniera, alla maniera degli scritti di Fortini e di Pasolini… ma purtroppo la «nuova poesia» era di là da venire, c’erano state voci poetiche di un certo valore, come Anna Ventura, Giorgia Stecher e Maria Rosaria Madonna (che muore nel 2002), ma nel complesso la poesia italiana degli anni novanta continuava ad attardarsi ad un epigonismo di maniera… Adesso, nel 2018, per fortuna le cose sono, paradossalmente, migliorate, nel senso che finalmente sono emerse alcune individualità poetiche di notevole, a mio avviso, spessore, come te, Mario Gabriele, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Letizia leone, Donatella Costantina Giancaspero, Giuseppe Talia, Sabino Caronia, Francesca Dono, Carlo Livia, Mauro Pierno e altri poeti che si sono risvegliati dal torpore e hanno iniziato a seguirci, tutto questo ha permesso la creazione di un clima favorevole, di un fervore creativo, finalmente la poesia italiana sembra essersi disincagliata dagli scogli del suo sonno remoto… In questa nuova condizione è ovvio che anch’io mi sia sentito stimolato ad accompagnare la emersione della «nuova poesia» con un pensiero critico rinnovato, con un linguaggio critico reinventato e adattato alle nuove esigenze espressive della «nuova poesia». Adesso le condizioni sono più favorevoli rispetto a due decenni or sono, perché, paradossalmente, la crisi della poesia italiana ha toccato il suo apice. Nel momento più basso, toccato il fondo della insignificanza, la poesia italiana sta dando e ha dato segnali di risveglio dal sonno profondo e remoto nel quale era sprofondata.

Questa almeno è la mia diagnosi. Dico cose spiacevoli? Dico cose estreme?

Fiera 8 dic 2017 2

abbiamo perduto le «forme» e, in un mondo senza «forme» tutto diventa «informe»

Mario M. Gabriele
29 marzo 2018 alle 17:19

Carissimi Gino Rago e Giorgio Linguaglossa,

a fronte di questo vostro interessante colloquio, sono dell’avviso che due giorni di esposizione, con pareri e commenti altrui, non siano abbastanza sufficienti per dialogare su questa rivista, Scriveva Barilli che per far fronte ad una nuova ipotesi di poetica o di critica, bisogna istituzionalizzare come normalità i principi formali ed estetici, quelli di cui con assidua perseveranza porta avanti Linguaglossa.Va da sé ricordare che è difficile far convergere l’attenzione dei poeti verso la fondazione di una nuova Avanguardia perché non ci sono più i fronti culturali in grado di dialogare tra loro, accettando i vari punti di vista. La globalizzazione e l’espansione egemonica della Finanza, hanno messo in un angolo le Ideologie, sostituite dalle merci. Prevale il mercato sul dibattito culturale e la stabilità estetica della poesia del Novecento verso la quale si indirizzano poeti e critici più inclini all’associazionismo, che allo sviluppo di nuove ipotesi di poetica.. Stupisce ancora di più che su questa rivista ci siano, a fronte di tanta fatica esegetica e critica da parte di Linguaglossa, presenze poetiche di vecchia e nuova generazione,sempre pronte a riproporre atmosfere linguistiche nebulizzate dal tempo C’è bisogno, invece, di un nuovo impegno culturale: una specie di conciliazione come al tempo di Tommaso d’Aquino su Fede e Ragione. Continua a leggere

29 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Ontologia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

La nuova ontologia estetica – Poesie di Tomas Tranströmer, Ewa Lipska, Mario M. Gabriele, Francesca Dono, Fritz Hertz, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Giorgio Linguaglossa – Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero – Intorno ad una diversa ontologia delle parole

Foto Karel Teige

-Tu conosci Sally?.
È una donna sulky, un po’ surreale-.
-Ma lei non è più qui- disse Larry.
-E che sarà di noi?.
E che si dice di là nella vita,
di là da quelle parti, là in parte?-.
-Hallo, Cristina! Ich kann dir helfen?

Poesia di Mario M. Gabriele

1
autostrada per Brera
con i pensieri agli otages del 45
senza la sindrome di Stendhal.
Diciamolo pure tra noi, Joyce:
Molly Bloom incanta ancora.
Ernest aveva un angioma sulla guancia
che sembrava uno schizzo di Mirò.
-Tu conosci Sally?.
È una donna sulky, un po’ surreale-.
-Ma lei non è più qui- disse Larry.
-E che sarà di noi?.
E che si dice di là nella vita,
di là da quelle parti, là in parte?-.
-Hallo, Cristina! Ich kann dir helfen?-.
Per noi questa nascita
fu come un’aspra ed amara sofferenza,
come la Morte, la nostra Morte.
La regia non toccò il Finale di partita.
rimise a posto Le finestre di Magritte
e il Portrait of a Lady.
David tacque di fronte all’Unde Malum.
(…)
Non abbiamo trovato blazer Trussardi
ma camicie as aufzüge nell’outlet.
Dalla cima del Mc Kinley, imbiancata di neve,
scivolammo fino al padiglione Pickwik
tenendoci per mano senza fermarci al Park Down,
facendo il giro del lazzaretto,
lasciando ai miseri la Misericordia,
e ai dannati Le voyage dans la lune.
Brecht rimase sul sofà con Madre coraggio.
Nelle nursing homes
i pochi rimasti nella veglia
attendevano miracoli dal guru,
guardando le sfere passare oltre,
dilagare gli anni in lutti e gioie.
a sera porremo per tutti un bouquet di loto e di talee.
ognuno avrà freschezza di lini e di rugiada
e tutto si compirà in prodezze di oracoli e scritture
in un tempo oscuro e breve,
poco più d’un attimo, una stagione.
Ci fu chi domandò:
-Chi c’è là nel metamondo?.
E Linda è vero che sta con voi?-.
Si era spezzato il dialogo con gli altri,
né vennero al cold reading il dottor Gary
e l’umanista Schwartz smarriti in un viaggio,
chi a bordo delle navi,
chi su malferme barcarole.
(…)
Ci sono anni che sembrano boschi,
strade senza uscita, Signora Spolding!
Qui ancora si contano i ragazzi del Quaranta,
mentre saltano pick-up,
bruciano palmizi,
boati scuotono le strade.
Good bye, mamà!.
Nessuno più ti metterà le flebo e i tubicini.
Ci saranno stati piccoli rumori, scricchiolii.
Ma chi li ha sentiti?.
Lucy, non so dirti!.
abbiamo spento il widescreen.
E’ successo all’improvviso.
Volevo solo restare nel sogno,
chiedere a Willy dove fosse la sua anima
quando lasciò il paese
passando lungo i campi dei papaveri rossi.

da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2018)

Laboratorio 5 zagaroliLaboratorio 5 poeti
*
Leggiamo qualcosa di Tomas Traströmer:

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi
*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.
*
Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
a quello che IO sono, quello che IO sono.
Ma non appena sono riuscito a vedere IO
IO è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice
*
Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
*
Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
*
Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota
*
… una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…
*
… e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
su una macchina che non ha nastro solo una linea
d’orizzonte
sicché la parole battono invano e non resta nulla
*
Io sono attraversato dalla luce
e uno scritto si fa visibile
dentro di me
parole con inchiostro invisibile
che appaiono
quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!
*
Leggevo in libri di vetro…
*
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
*
…la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

Commento di Giorgio Linguaglossa

Sono versi di Mario Gabriele e di Tomas Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE. Il problema è che c’è, ed è ben visibile l’Assoluto, che è assolutamente incontraddittorio, e quindi incoglibile. A loro modo sia Mario Gabriele che Tomas Traströmer fanno poesia dell’Assoluto, del dio dell’istante, di tutto ciò che è incoglibile.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

poesia di Edith Dzieduszycka da Squarci (inedito)

Perché bottino.
Perché tesoro.
Prezioso, labile, fluttuante,
pronto ad evadere, malgrado corda, catena,
nastro, promesse, lusinghe, minacce.
Non essere mai sicuri,
tornare e ritornare,
di giorno, di notte,
su luoghi, pensieri, parole, dubbi,
verificare, correggere, controllare,
non fidarsi, star in allerta, misurarsi.
Non accontentarsi.

*

Si negavano, i personaggi.
Si negavano con ostinazione.
E non era dato sapere,
se ancora dovevano arrivare,
o se, arrivati, erano già scappati,
da ogni interstizio, da ogni crepa.
Se si nascondevano dentro le buche,
sotto la sabbia, negli anfratti delle rocce.

Non si riusciva a capire
se avevano deciso di rifiutarsi,
di trattenersi di comun accordo,
di non saperne di venire,
alla luce, all’evidenza, alla ribalta.
Se si ribellavano allo strapotere
di chi avrebbe potuto decidere al loro posto,
di chi li avrebbe trasformati in marionette,
in fantocci senza volontà,
costretti a promiscuità indesiderate,
matrimoni forzati, separazioni dolorose,
lavori inadeguati, rinunce penose,
vergognosi fallimenti.
di chi li avrebbe incanalati
dentro comportamenti condannati,
di chi li avrebbe fatti tiranni, vili, assassini,
ignoranti, emarginati, affamati,
o santi, navigatori, scopritori, poeti.
I primi della terra come gli ultimi.

Di chi avrebbe avuto il potere di costringerli
al silenzio, all’immobilità, alla poltrona,
al letto, alla morte.
Perfino alla non morte.

*
poesia di Fritz Hertz -Francesca Dono

caro tesoro – una poesia di Fritz Hertz

Caro tesoro, sono uscito presto. A voce bassa. Velocemente,\ come un ladro.
In cucina lascio due mele. Sulla sedia inclinata il tailleur di lana verde. La sveglia ha suonato mezzo secolo. Nel frattempo mi sono rasato e spogliato sotto il neon per ben tre volte. Avevo la saponetta di sempre.
Il solito rumore della scala.
Caro tesoro , c’è modo di svegliare questo sonno?
Le foche battono la fiacca. Tutti chiedono il tuo mondo. Non avrai (per caso) scordato il nostro amore? Agamennone è qui. Sul selciato del vicino di casa. Dal rovescio della notte in pieno giorno. Tu lo capisci _ vero?
Testata politticoLaboratorio 4 Nuovi
Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

19 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

16 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, filosofia, poesia italiana, Senza categoria

Analisi dei primi quattro versi di una poesia di Mario Gabriele – Quesito di Donatella Costantina Giancaspero: Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole? Risposte di Gabriele Pepe, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Edda Conte, Anna Ventura  – Crisi della poesia italiana post-montaliana – Il «Grande Progetto» e la mancata riforma della poesia italiana del secondo Novecento. Una Poesia di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi e Laura Canciani 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 8:59

Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).

Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.

43

Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.

Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.

Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.

Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.

Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.

Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.

Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.

Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.

Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. Non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. La traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).

L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

 

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 11:16

Caro Giorgio,

leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”. Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia.

Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre.

Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione. Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.

 Edda Conte

19 dicembre 2017 alle 12:08

E’ una bella risposta ,questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei versi di Mario Gabriele. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.

Giorgio Linguaglossa

19 dicembre 2017 alle 12:36

La «nuova ontologia estetica» ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…

In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica… Intendo dire che una aporia ha attecchito la poesia italiana di questi ultimi decenni: che la poesia debba essere comunicazione di un quantum di comunicabile. Concetto errato, non vi è un quantum stabilito che si può comunicare, anzi, la poesia che contingenta un quantum di comunicabilità cade tutta intera nella comunicazione, diventa un copia e incolla della comunicazione mediatica, di qui la pseudo-poesia di oggi. Occorre, quindi, rimettere la comunicazione al suo posto. Questo concetto va bene quando si scrive un articolo di giornale o quando si fa «chiacchiera» da salotto o da bar dello spot ma non può andare bene quando si scrive una poesia. Il distinguo mi sembra semplice, no?

Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:32

1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”

  1. Osip Mandel’štam

2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò mai (…) sono nata portata (…)”

Marina Cvetaeva

3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…

4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/ anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”

Giacinto Scelsi

Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith, passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.

 Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:55

Brano tratto da Il marinaio di Fernando Pessoa:

” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.

(…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)

(…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO Ritagli di carta e cielo - cover (2)

Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica

Donatella Costantina Giancaspero

19 dicembre 2017 alle 19:51

caro Gino Rago,

questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.

Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –

E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 23:19

Cara Donatella,

sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.

Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.

Donatella Costantina Giancaspero

20 dicembre 2017 alle 13:53

Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:

Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?

Risposta:

La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:

1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.

2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.

Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi…   Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca”  dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.

Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici. Grazie!

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 9:32

Il lato debole della nuova ontologia estetica

 Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.

Vado subito al punto centrale.

A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.

È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».

È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.

Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.

Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…

In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi… E arriviamo ai giorni nostri…

 

Anna Ventura

20 dicembre 2017 alle 10:39

Caro Giorgio,

già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone” (parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare. Credo che siano le capacità letterarie dei singoli, se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione. Saluti dalle truppe cammellate, pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 10:49

Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:

 (Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 11:41

Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa:

Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 15:57

Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»

 Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni

Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

 Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Non bisogna dimenticare la riproposizione di un discorso lirico aggiornato da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo ma pur sempre entro la linea del modernismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna.

È doveroso segnalare che in questi ultimi anni ci sono state altre figure importanti che ruotano intorno alla «nuova ontologia estetica»: Mario M. Gabriele con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016)  In viaggio con Godot (2017), Antonio Sagredo con Capricci (2016), e poi Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Donatella Costantina Giancaspero, Francesca Dono, Giuseppe Talia, Edith Dzieduszycka.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici della «cronaca mediatica». La composizione adotta la veste di commento. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «di visione del mondo»; il risultato è che la micrologia convive e collima con il solipsismo asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

1] T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.

Lucio Mayoor Tosi

20 dicembre 2017 alle 23:38

Di Maio

«Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
in meno di un istante».

Glielo disse ruotando attorno al vassoio
nel mezzo di una stanza.
«Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
Poi l’altro, poi l’altro».

«Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».
Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
Entra nell’ascensore.

Posto qui una poesia inedita di
Laura Canciani.

                                                        a a.s.

Questa volta saliamo sul ring.
Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
– eresiarca di un fuoco baro –
io, con vestaglietta da cucina
e un occhio già ferito
da lama spinta:
potrei indossarle tutte le scarpette rosse
che girano vive tra luci e pareti
disattente.

Round primo:
quale arbitrocritico non esulta per il colpo
“Orfeo e Euridice”?

Round secondo:
creami adesso, qui, il più piccolo
fiore rosso…

Un colpo basso, a testa bassa, feroce
contro le regole
non viene perdonato.

La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
in un ridere di onda d’urto
che disfa persino l’invisibilità.

Provo dolore consapevole nel prodigio
del silenzio
ma sono viva e da viva mi giunge una voce
strana, anglosassone, elegante, come crudele.
«Liberati»
«Liberarmi, da che cosa?»
«Tu lo sai»
«Sì, liberarmi da tutta la zavorra
che impedisce la santità».

Commento estemporaneo di Giorgio Linguaglossa

Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…

Gino Rago
18 dicembre alle 18.30

Dopo Lilith
(Dio presenta Eva ad Adamo)

“(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
ma non superare la soglia.
Stai molto attento a non far piangere questa donna.
Io conto una ad una le sue lacrime.

Questa donna esce
dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
per essere pestata
(né dalla tua testa
per sentirsi superiore).

Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
Ma dal lato del tuo cuore.
Per essere amata. Questo ti comando.(…)”

Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
Un sibilo invade il giardino di gigli.

 

43 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

Eraldo Garello, romanzo, Nel regno della talpa Giuliano Ladolfi editore, 2017 pp. 264 € 16 – Stralci del romanzo

Francesca Dono foto

Francesca Dono, fotografia

Eraldo Garello è nato a Ceva (Cn) nel 1953. Dopo aver compiuto gli studi classici si è laureato e specializzato in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Torino. Della sua esperienza poetica è testimonianza la trilogia di drammi in versi: “Attis e Agdistis” (Genesi, 1989, prefazione di Domenico Romano), “Polemotrofia” (Edizioni del Leone, 1993, prefazione di Alida Cresti), e “Lo sguardo di Orione” (Bastogi, 1997, prefazione di Maria Grazia Lenisa). Si tratta di un trittico nel quale  l’autore ha sperimentato una sua originale visione di “poesia filosofica”, attingendo a piene mani tematiche e suggestioni dal ricco repertorio mitologico greco, innervandolo, sostanziandolo, contaminandolo con problematiche di grande attualità. Nel campo della saggistica ha pubblicato: “Mitofanie” (1987, prefazione di Giuseppe Addamo e postfazione di G. Barberi Squarotti), sulla connessione esistente tra mitologia greca e poesia filosofica; “L’arco di Apollo” (2000 e 2001, prefazione di Riccardo De Benedetti), rivisitazione e reinterpretazione dei rapporti tra il mito e la ratio filosofica; “La caverna di Ganimede” (2008, prefazione di Stefano Zecchi), sul pensiero dei maggiori pensatori di lingua del primo Ottocento (in primis, Hölderlin) alla ricerca dell’Ursprache, ossia del linguaggio originario, della lingua primigenia ed adamitica.

Eraldo Garello coverQuarta di copertina del romanzo Nel regno della talpa di E. Garello

Vienna, Maggio 1981. Alain Renoir, ultimo discendente d’una ricca famiglia parigina ha alle sue spalle un passato ingombrante e violento: ex Ufficiale della Legione Straniera durante la Guerra d’Algeria, ex giornalista d’estrema destra, ex infiltrato dei Servizi Segreti francesi. Malato terminale per via di un cancro ai polmoni che lo sta devastando, medita di concludere la propria esistenza con un ultimo atto di violenza: l’uccisione di F.C., uomo politico di risonanza internazionale ed incarnazione di tutto quanto egli ha odiato nella sua vita.

Il romanzo racconta l’ultima settimana del protagonista, un lucido psicopatico, secondo una schema narrativo che mescola il vissuto contingente con ampi flashback che illuminano un passato sanguinoso, lacerante, problematico. Fino all’inprevedibile finale.

Nel regno della talpa è un originale e intrigante noir filosofico di grande attualità, che propone al lettore una forte riflessione sulla violenza e sulla follia dei singoli individui e della Storia in generale.

*

Una scrittura tesa, nitida, riflessiva, un racconto apocalittico, violento, tenuto su un registro basso, un soliloquio del protagonista, ex ufficiale della legione straniera che ormai non ha nulla da perdere, che diventa colloquio e anche colloquio con le proprie ombre, con i fantasmi del nemico e quelli dell’inconscio. Una personalità abitata dall’inconscio, il delirio di uno psicotico. Una storia dei nostri giorni efferati.

(Giorgio Linguaglossa)

Alcuni stralci del romanzo

La talpa ha un corpo tozzo, cilindrico, ricoperto da un manto vellutato di colore nerastro, fittissimo, corto e morbido. Gli arti anteriori, molto brevi, sono larghi e foggiati a guisa di mani, rivolti all’esterno, come una pala. Le dita sono armate di unghioni taglienti ed ottusi, collegate tra loro da membrane interdigitali. Gli occhi sono piccoli, ricoperti dai peli della testa e da una pelle sottile e trasparente.

La talpa vive quasi sempre sprofondata nel terreno. Scava la terra con una facilità impressionante: punta con il muso aguzzo le zolle e, raspando con le zampe anteriori, butta il terreno dietro di sè con velocità incredibile. Scava gallerie, cunicoli, camere sotterranee, condotti, tane di residenza, percorsi e campi di caccia che ispeziona più volte al giorno solcandoli molto rapidamente.

La sua fame è insaziabile: deve mangiare ogni giorno una quantità di cibo equivalente al peso del suo corpo. Abbandona la sua tana solo di notte, e si nutre di topi, uccelli, bisce, orbettini, piccoli anfibi; qualche volta può non disdegnare la carne dei suoi simili. ‘E un predatore formidabile, intelligente, feroce, sanguinario, vendicativo. Non tollera nessun animale e si rifiuta di condividere la tana con animali della sua stessa specie.

 Ucciderò  F. C., sabato alle 10,30, al Rathaus.

Sono arrivato a Vienna stamane da Parigi, in treno. Ho preso alloggio in un buon albergo sulla WähringërStrasse, appena fuori del circolo del Ring. Non ho mai amato le posizioni centrali, nè tantomeno trovarmi nel bel mezzo d’ una qualsivoglia situazione. Mi sento accerchiato, tutti ti possono osservare a loro piacimento, sei un bersaglio facile, sicuro. Dall’esterno, ma non eccessivamente per non correre il rischio di venire esclusi, risulta più agevole e comodo ogni tipo di controllo, come se ci si posizionasse un pò prima della linea dell’orizzonte: non ha più ragione di esistere la paura dell’ “oltre”.

Non ho prenotato per non dare nell’occhio, per non lasciare tracce; tanto un albergo vale l’altro. Una sistemazione per una persona sola la si trova sempre. L’albergo si presenta bene, ha una facciata più che decente, ottocentesca piena di stucchi, di fregi, di finte colonne di marmo, architettonicamente anonima e di maniera, ma forse proprio per questo confortevole e rassicurante. Decisamente meglio delle moderne costruzioni a cubi di vetro e cemento, segmentate da putrelle d’acciaio che affondano in grigi ventri di calcestruzzo, arnie di malta dove ognuno fila il miele d’un adempimento che va noiosamente portato a termine.

Un compito in verità anch’io so di averlo, un compito la cui importanza e le cui conseguenze sono tutt’altro che trascurabili. Ma non voglio lasciarmene condizionare all’eccesso, in quanto sono conscio di avere già programmato ogni fase, ogni sviluppo, nei minimi particolari. Tra le altre cose, questa vuole essere per me anche una vacanza, forse l’ultima. Non so. Anche se Vienna la conosco ormai da tanti anni. Forse proprio per questo la città non mi mette più a disagio, non la devo scoprire ogni giorno diversa: è un po’ come essere a casa propria.

Mi piace la ragazza della reception! Parla un ottimo francese, ha un accento delizioso, per nulla artefatto. Io conosco da molti anni il tedesco, mi esprimo in modo più che corretto, ma preferisco far la figura del turista alla sua prima venuta. Conviene sempre sembrare ingenui, sprovveduti, disarmati; se si convincono che sei una persona inerme, anche un po’ confusa, non riescono a dubitare di te. Si sospetta sempre di chi si mostra troppo sicuro di sé: la sicurezza dà sempre fastidio, dietro vi si vuol scorgere ad ogni costo la malafede, l’inganno, la presa in giro. Continua a leggere

4 commenti

Archiviato in romanzo, Senza categoria

Gli oggetti e le cose – Poesie di Anna Ventura, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco Rathgeb – Dialogo su gli oggetti e le cose: Donatella Costantina Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Adeodato Piazza Nicolai, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa

 

Foto source favim-com-17546

A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici

Giorgio Linguaglossa

Sul comodino del soggiorno della mia casa romana, sito tra due grandi finestre che ricevono luce da via Pietro Giordani, sono poggiati alcuni oggetti: una cornice in finto argento che contiene un piccolo riquadro che ha due segni di pennarello nero tracciati da mio figlio quando era bambino, un minuscolo albero di natale con palline rosse e filamenti, una piccola zucca che si illumina dall’interno, ricordo di una serata di Hallowen, una candela a forma di piramide, una statuetta in bronzo della dea Shiva che suona il piffero, comprata su una bancarella a Jaipur, un’altra candela colorata a forma cilindrica, regalo di una donna che è scomparsa dalla mia vita, un orologio da polso che ha smesso di funzionare e una molletta di plastica bianca, di quelle che si usano per appendere i panni.

Ecco, non posso fare a meno di pensare che un tempo lontano erano «oggetti», ma adesso, lentamente, si stanno trasformando in «cose». Attendo con pazienza da alcuni anni che si verifichi questa misteriosa trasmutazione. Come essa avvenga non lo so, ma so che sta avvenendo, che un giorno sarà compiuta e tutte queste «cose» potranno entrare in un mio commento o in una mia poesia.

Eppure, tra queste «cose» e la poesia che posto qui sotto ci deve essere un collegamento, anche se i temi e lo svolgimento non hanno nulla in comune. A proposito, questa è una poesia dimenticata, che ho dimenticato di inserire nel libro in corso di stampa, titolato Il tedio di Dio. Però c’è un misterioso collegamento che unisce questa poesia a quelle povere «cose» che sostano sul mio comodino da alcuni anni, ma non so più dove esso si trovi. Probabilmente, si è perduto per sempre nei meandri del mio inconscio e lì nuota come uno sciame di pesciolini d’argento…

Marco Alvino Getulio

(da Il tedio di Dio, di prossima pubblicazione)

A Cartagine conversai con i filosofi cirenaici.
Sostenevano costoro che prolungare la vita
è un’empia stortura perché prolunga il dolore infinitamente
e moltiplica il numero dei morti.

Sostengono questi filosofi che occorre tagliare
al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo
per vivere una vita intensa e bella.
Per tale ufficio Atropo è la dea scelta da Zeus
per dare agli uomini l’illusione dell’immortalità.

La loro tesi però non mi convinse. E cercai altrove.
Fu lì che decisi di consultare l’oracolo di Delfi,
ma il responso sibillino non mi piacque
e mi spinsi a sud del Pactolo sulle cui rive
vive il popolo dei garamanti che si nutre
di ecantorchidee e dell’ortica delle radure polverose.

Ancora più a sud c’è la Città degli Immortali
– mi dissero quei barbari –
E così mi inoltrai nel deserto dei gobbi.

Deformi dalla nascita suscitano in noi, uomini civili,
ribrezzo e recrudescenza.

Fu allora che fuggii da quelle lande desolate
e tornai tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua.

Fu allora che incontrai Dio alle porte di Persepolis.
E gli chiesi notizie intorno all’immortalità…

Foto in Subway

L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”

Commento di Donatella Costantina Giancaspero

” […] occorre tagliare/ al più presto il nodo della vita, dicono che non c’è altro modo/ per vivere una vita intensa e bella”. In questa verità struggente consiste l’illusione dell’immortalità, per gli uomini. Una verità tragica che spinge Marco Alvino Getulio a cercarne altrove la conferma, la veridicità. La cerca in un “altrove” desolato, più desolato e terribile della stessa “verità”, ovvero della tesi dei filosofi cirenaici. E, nel deserto, nella desolazione dell'”altrove”, luogo di “ribrezzo e recrudescenza”, quella tesi trova finalmente la sua “verità”. Marco Alvino Getulio non lo dice, ma ce lo fa intendere fuggendo dalle “lande desolate”, nelle quali s’era inoltrato, più per paura della verità, forse, che animato da reale scetticismo e volontà di ricerca. Ce lo fa intendere scegliendo infine di ritornare “tra le rive dell’Eufrate, tra i popoli che parlano la nostra lingua”. Ma qui, un incontro, quello con “Dio alle porte di Persepolis”, la certezza di questo incontro cruciale, chiude la poesia nell’ambiguità e lascia il lettore a nuovi interrogativi… Che cosa vorrà dire l’incontro con Dio? Chi è Dio? Quale verità potrà aver rivelato al nostro Marco Alvino Getulio? Quale, a noi stessi?

Giorgio Linguaglossa
5 dicembre 2017 alle 10:56

Caro Steven Grieco Rathgeb,
ti pongo questa domanda:
in alcuni momenti, ad esempio nell’arte figurativa e nella poesia, assistiamo alla presenza della «cosa», rivediamo letteralmente la «cosa», come per la prima volta. La «cosa» si libera della cosità e appare nella poliedricità dei suoi «indizi», dei suoi «segni», dei suoi «rinvii» ad altro. Appare come «valore».

Faccio un esempio semplice e ovvio: quando assistiamo a ciò che avviene davanti ad un quadro di Edward Hopper o di Giorgio De Chirico o di Piero della Francesca, ci accorgiamo che lì non avviene niente, che le figure e le cose stanno ferme… ma poi, all’improvviso, ciò che era immobile si anima dall’interno, e vediamo quelle «cose» per la prima volta, o meglio, le riconosciamo perché dentro di noi le avevamo già viste. Questo è un fenomeno estetico che ciascuno può ripeterlo in proprio, talmente è ovvio.
Mi chiedo: come è possibile questo? Abbiamo forse aggiunto un «predicato di valore» alla «cosa»?

Scrive Heidegger: «L’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza. I valori si trasformano in determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa… Ma già l’esperienza prefenomenologica riscontra nell’ente che si vuol pensare come cosa la sussistenza di un elemento irriducibile a cosità… Che significa, ontologicamente, l’”inerenza” del valore alle cose?».1]

Sappiamo quindi da Heidegger che «l’aggiunta di predicati di valore non apre la via all’essere dei beni». E allora dobbiamo riformulare la domanda: Come può avvenire che la «cosa» si liberi della sua cosità? – Ecco, questa è la domanda giusta, perché dobbiamo presupporre che quei predicati della «cosa» non si aggiungono alla «cosa», non sono un di più che noi affibbiamo alla «cosa» ma sono una nostra proiezione, sono indizi, rinvii, segni che noi diamo alla «cosa» per il tramite del linguaggio organizzato. Dunque, il problema siamo «noi», è nell’esserci e nel suo linguaggio. Ciò che appare nell’opera d’arte, «la macchia dell’apparenza», per utilizzare le parole di Adorno, è in realtà il suo essere semplicemente-presenza, assoluta presenza che si volatilizza nel momento stesso della sua ricezione. La ricezione dell’opera fonda l’inerenza tra noi e il mondo, apre la «mondità» del mondo e ci rende manifesto il nostro in-essere nel mondo.
Ed ecco che la tua poesia si anima, inizia a muoversi e a stormire come le foglie di un bosco:

L’irrilevanza del poeta 2

Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
È il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.

(Roma, via Merulana, autunno 2012)

1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. p. 130 Continua a leggere

28 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, estetica, filosofia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Un confronto tra lo spazio espressivo integrale di Sandro Penna, tipico del realismo lirico novecentesco e una strofa di Tomas Tranströmer del 1954 Poesie di Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, J. Haddad, Francesca Dono, – Commenti

Gif metro

La vita… è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba

 

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Foto uomo tigre

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer

Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.

Leggiamo quest’altra strofa:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

Mario Gabriele In viaggio con Godot cover 1

Carlo Livia

13 novembre 2017 alle 12.59

Caro Giorgio, condivido metodo e fine della tua analisi comparata, e anche aver scelto Penna come esemplare di maggior risultanza icastica di un atteggiamento espressivo ancora fatalmente imbrigliato nei vincoli della vecchia onto-logia, cioè di un rapporto pensiero-essere che non può svincolarsi dalle tradizionali codificazioni mimetiche, che presuppongono non solo isomorfismo, ma subordinazione del pensiero- linguaggio ai (presunti) immutabili caratteri e confini del reale. Che tra logica e ontologia regni totale eteronomia è inconfutabilmente acquisito dalla riflessione dell’analitica del linguaggio (Frege, Wittgenstein, ecc.); ciò ha avuto importanti riflessi anche nella riformulazione estetica, etica, assiologica, di strumenti e destini creativi, culturali e antropologici.

In passato abbiamo spesso polemizzato, come ricorderai, soprattutto perché non condividevo la tua faziosità e le tue furiose stroncature, per me eccessive, ma devo riconoscere che mi sbagliavo: si tratta effettivamente di farsi protagonisti di una svolta epocale, che passa anche per l’arte e la letteratura, la sua funzione, la sua analisi critica, il suo contributo all’evoluzione di configurazioni psichiche e prassi culturali e sociali.
Il pensiero poetico (dove l’essere, attraverso il linguaggio, accade, sorge alla luce) ha da sempre un funzione insostituibile nel rinnovare e liberare da codici, norme e ideologie fossilizzate e violente; non è casuale l’ossessiva volontà, da parte di tutti i totalitarismi (compreso quello consumistico-tecnologico in cui sopravviviamo emarginati, nascosti nell’…ombra!) di perseguitare e sterminare i poeti.

C’è un solo particolare da cui dissento, che la svolta sia stata compiuta dall’opera di Tranströmer, che è certamente, anche perché psicologo del profondo, uno dei più consapevoli esegeti delle nuove dinamiche intrapsichiche e delle mutazioni linguistiche che le determinano e descrivono: Ma Rimbaud ha fatto qualcosa di simile un secolo prima:

Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante
e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque
e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono,
nel loro silenzio atrocemente agitato…

(Da Illuminazioni)
Per non parlare dei paesaggi onirici e deliranti dei surrealisti, specialmente francesi e spagnoli:

”A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove piange la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate…

(F. G. Lorca da Piccolo valzer viennese, L. Cohen ne ha fatto una versione inglese in musica)

Foto in Subway 50 years

Entrammo. Un’unica enorme sala,/ silenziosa e vuota

Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

34 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Ontologia, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

LA NUOVA POESIA, OVVERO, LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – POESIE E COMMENTI di Mauro Pierno, Antonio Sagredo, Francesca Dono, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa

[gif  di Marilyn e Zbigniew Herbert]

Lettera di Giorgio Linguaglossa ad Antonio Sagredo

caro Antonio Sagredo,

Una interlocutrice ha scritto che ogni giorno «diventiamo sempre più sagrediani». Ben detto!, ho sempre pensato che gli «ultraplatonici ai quali sfugge sempre l’ingenuità» (Nietzsche), finiscono sempre per andare a braccetto con l’Euro e il Potere, con il conformismo dei nuovi clerici. Sia detto con la massima chiarezza: non interessano alla «nuova ontologia estetica» le capriole della poesia bene educata, quella fatta negli epicentri di Milano e nel circoletto romano di largo Argentina, noi siamo per una poesia sempre più sagrediana, sempre più mariogabrielana e sempre meno chiesastica (intesa nel senso: fatta da chierici).

Mi piace la bella poesia di Mauro Pierno fatta con gli scampoli del parlato di una mia poesia, mi piace questa ibridazione anche perché anch’io nelle mie poesie faccio frequentemente delle citazioni e dei richiami impliciti od espliciti a versi di altri poeti, così tanti che poi ne perdo finanche la memoria. Questo tessuto di scampoli, di stracci, di frasari perduti sono le nostre tombe, le nostre pietre tombali… ci stiamo bene nelle tombe… viviamo in una civiltà che ha fatto del passato un «immenso camposanto di lapidi» (cito me stesso), va quindi benissimo fare interagire «Evelyn» (personaggio inventato da Mario Gabriele) con le mie «Maschere», con il «tedio» di Pessoa, con il turlupinare sgomento di Antonio Sagredo e che il tutto finisca nella «Commedia» di Mariella Colonna. Tutto ciò è motivo di autenticità, molto vivo, effervescente come una poesia sagrediana! – La poesia deve vivere e prosperare sulla «crisi del senso», che è concetto complesso che i poetini della domenica mattina che poetano sull’io non possono minimamente neanche immaginare.

[Donatella Costantina Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb]

Mauro Pierno

L’intruso

dell’ombra
scalfisco la luce, quest’ultimo tratto indistinto
la stasi.
queste tregue di lenti fruscii, dopo,
dopo le parole in tempesta. dopo,
dopo l’acqua alta a Venezia
migliaia di volti in cornici dorate.
I volti dipinti parlavano tra di loro.
Dicevano: «Non fate entrare le ombre maledette!
Sbarrate loro l’ingresso!».
[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti.
Dicono: «Buongiorno» e «Addio».
l’intruso solo interruppe.

Una poesia di Edith Dzieduszycka si intitola «Groviglio». Ebbene, che cos’è il «groviglio»? Lascio la parola ad Adorno (filosofo troppo spesso oscurato dagli ignorantini poetini di oggi): «Il groviglio di fili, l’intreccio organicistico viene tagliato e distrutta la credenza che un elemento si combini vitalmente con l’altro, a meno che l’intreccio non diventi così fitto e arruffato da oscurarsi sul serio al senso»; «ma la soglia fra l’arte autentica, che prende su di sé la crisi del senso, ed un’arte rinunciataria, consistente in frasi protocollari in senso letterale e traslato, è che in opere significative la negazione del senso si configura come cosa negativa, nelle altre si riproduce in maniera cocciutamente positiva».1]

Facciamo dunque una poesia aggrovigliata, ibridata, sovrareale, che si fa beffe del senso, che si fa beffe del paludamento dell’anima bella e del pretesco poetese.

pittura Bauhaus

Facciamo dunque una poesia aggrovigliata, ibridata, sovra reale, che si fa beffe del senso

Alcuni pensieri sulla poesia della «nuova ontologia estetica»

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento.

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico come se nulla fosse.

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo.

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo.
Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda. Continua a leggere

14 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

LA NUOVA POESIA – Testi di Sabino Caronia, Mariella Colonna, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Bertolt Brecht,  Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa

 

Un nuovo linguaggio passa per una irrefrenabile gioiosità. Gettare il vecchio linguaggio professorale nella spazzatura…

Una nuova sensibilità nasce da un nuovo linguaggio…

Niente paura, buttiamo a mare tutta la poesia bene educata degli ultimi 50 anni…

Una critica dell’estetica passa per una irrefrenabile ilarità

Una critica dell’estetica presuppone una critica dell’economia politica

Una critica dell’estetica passa per una critica dell’economia estetica

28 ottobre 2017 alle 10:33

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

come posso risponderti? Ti posso rispondere soltanto con questi due “scampoli” di video di Bertolt Brecht musicati e cantati dai quali sporge una frenetica e chiassosa vitalità. Ecco quello che deve fare la «nuova poesia» (a prescindere se essa sia della nuova ontologia estetica o altro, figurati!, così facciamo contenti tutti i benpensanti che quando sentono parlare di «ontologia estetica» si spaventano…).
Chi legge i tuoi versi, o quelli di Antonio Sagredo o quelli di Lucio Mayoor Tosi o di Anna Ventura… non può non restare coinvolto dalla quantità di energia che si sprigiona dalle loro/vostre poesie. Qui non è neanche questione di bello o brutto, qui si tratta di appercezione immediata: la «nuova poesia» la si assaggia, e appena la si assaggia, come un buon vino, ci scatena dentro un aumento di vitalità. Abbiamo gettato alle ortiche e nella discarica tutta la poesia ben educata e ben confezionata di questi ultimi decenni! Bene così. Non se ne poteva più di leggere i versi dei letterati spocchiosi e vanitosi. Ed è bene dirlo subito e a chiare lettere, NOI facciamo una poesia di stracci, di plastiche, di resti, di avanzi di cibo, di detriti di rigatterie, di cornici spaccate, di specchi rotti… con le tue parole:

I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli stracci.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.

27 ottobre 2017 alle 22:01

Lucio Mayoor Tosi

Descrizione:

Un pupazzo di neve giunto dalla Norvegia
sta impazzendo di caldo sulla piazza circondata da rondini.

Nel vicolo, una stella di molti triangoli tocca le persone sul cuore.
Sgorga una fontanella di sangue mentre non passa nessuno.

Le rose non possono farci niente.
Morire e vivere sono pensieri. Soltanto pensieri.

Prima che faccia notte avrò terminato il tabacco.
Qualcuno è stato qui! Il primo fantasma umano

in grado di indossare scarpe e maglia.
Il fantasma è ben visibile tra gli occhi.

Un cane attraversa la distanza. E se ne dimentica.
Il tempo sfreccia sulla via.

Sul bordo gli sterpi si sono dati adunanza.
Dev’essere ora di cena.

Parole disabitate, sì, ma indicano e vogliono nominare le cose; gli stracci del mondo… e come vi si sta evitando evitando anche tutto di sé.
Senza identificazione il mondo si rivela aperto. Non se ne vedono i confini.

28 ottobre 2017 alle 13:43

Donatella Costantina Giancaspero

Lo scorso anno è stato celebrato il sessantesimo anniversario della morte di Bertold Brecht, agosto 1956. Nel mese di febbraio di quello stesso anno, Brecht assisteva alla prima della sua “Opera da tre soldi” (in italiano), nello storico allestimento di Giorgio Strehler, al Piccolo Teatro di Milano, rimanendone entusiasta. Era la prima volta di Brecht in Italia, fino ad allora pressoché sconosciuto (almeno in teatro)…
Propongo qui il celebre brano “Jenny dei pirati” nella ineguagliata interpretazione di Milly

Oh signori, voi mi vedete sciacquare le bottiglie
e rifare i letti
e mi date tre spiccioli di mancia
e guardate i miei stracci
e quest’albergo stracciato come me.
Ma ignorate chi son io davvero.
Ma una sera al porto grideranno e a chi mi domanderà:
“Tu quel grido sai cos’è?”
sorridendo,porterò un altro bicchiere,
si dirà “da ridere che c’è?!”
Tutta vele e cannoni
una nave pirata
al molo starà.
M’hanno detto: asciuga i bicchieri, ragazza
e m’hanno dato di mancia un cent
ed ho preso il soldino e fatto un letto
in cui nessuno stanotte tranquillo dormirà
e chi sono nessuno ancora sa.
Ma stasera al porto spareranno
e qualcuno griderà: “A chi sparano laggiù?”
Io, ridendo, apparirò a una finestra,
si dirà: “Da ridere che ha?”
E la nave pirata tutta vele e cannoni
raderà la città.
Oh signori, quando vedrete crollare la città
vi farete smorti.
Quest’albergo starà in piedi
in mezzo ad un mucchio di sporche rovine e di macerie.
Ed ognuno chiederà il perché di questo strano caso.
Poi si udranno grida più vicine
e qualcuno chiederà: “Come mai non sparan qui?”
Verso l’alba mi vedranno uscire in strada,
si dirà: “Ma quella dove va?”
E la nave pirata,
tutta vele e cannoni,
la bandiera isserà.
E più tardi cento uomini armati verranno
e nell’ombra tenderanno agguati,
poi faranno prigionieri tutti quanti.
Li porteranno legati davanti a me.
Mi diranno: “Chi dobbiamo far fuori?”
Si farà silenzio intorno a me e qualcuno chiederà:
“Chi dovrà morire?”
Ed allora mi udranno dire: “Tutti!”
Ed ad ogni testa mozza farò: “Oplà!”
Tutta vele e cannoni
la galera di Jenny
lascerà la città.

28 ottobre 2017 alle 14:09

Giorgio Linguaglossa

Ecco a voi, cari amici e interlocutori della nuova ontologia estetica, il Signor K., il re degli stracci… un Dèmone, se volete, o un Fantasma, se preferite: Continua a leggere

37 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

La nuova ontologia estetica – Poesie di Anna Ventura, Antonio Sagredo, Gino Rago, Francesca Dono, Lucio Mayoor Tosi, Edith Dzieduszycka, Mariella Colonna, Tomas Tranströmer, Carlo Livia con Commenti di Giorgio Linguaglossa e Gino Rago – Da dove viene l’inconscio?

Giorgio Linguaglossa Aleph, Roma, 2017 Sabino Caronia

da sx Giorgio Linguaglossa, Costantina Giancaspero. Franco Di Carlo, Sabino Caronia, 2017

Giorgio Linguaglossa

Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici.

L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia del discorso poetico. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua e sussiegosa che rifugge da ogni petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.

Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza del senso comune, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che è destinato a rimanere sul piano della espressione comune.
Dovremmo chiederci perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia». Il bisogno di una «nuova ontologia» del poetico è oggi diventato una necessità.

Strilli Tranströmer2Strilli Transtromer le posate d'argentoTomas Tranströmer

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

(da Tomas Tranströmer 17 Poesie, 1954, prima poesia che ha titolo: Preludium)

Anna Ventura
10 ottobre 2017 alle 17.29

La vergine di Norimberga*

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

* notizie storiche sulla Vergine di Norimberga

La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.

La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.

Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).

Strilli Espmark è stata un'altra per otto anniStrilli RagoCommento di Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

30 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Lucio Mayoor  Tosi – Poesie inedite con Commenti di Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi Sponde 1

Lucio Mayoor Tosi Sponde

 Mayoor  Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri Zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili). Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie. Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombra delle parole, e su alcune antologie. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016).

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Composition

Poesie di Lucio Mayoor Tosi

By night

Una luce chiara gli entrò, da dietro, negli occhi.
Subito lui pensò: io sono due che si sono amati.
Poi anche: Non avrai altro…
Ma qui s’interruppe.
La gente intorno cantava
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro
per meee…
E lei, guardandolo negli occhi:
– Mi accorgo di non avere più risorse
(insieme) senza di teee.
Più tardi lui le sussurrò anche:
– Sai di Leocrema.
Uno sciame di neutrini
stava attraversando le ombre del corridoio.

*

Alla gara di memoria vinse l’insegnante
della scuola media di Vercelli.
L’anno prima vinsero quelli di Casale.
L’anno prima ancora, non so.
– Chi vinse tre anni fa?
– Per questo è nata la scrittura.
Ma dove l’hai presa quella camicia rosa?
Una notte scura e silenziosa serviva ai tavoli.
Ma fuori già stava piovendo.

*

La donna seduta di fronte ha sul volto la bocca.
Quella di fianco un occhio.
Dal treno all’Università seguendo la linea
marcata dalla biro.
Una sottile cascata di azzurro.
Alberi e rumore di passi.
Il vuoto è alle spalle e un po’ mi sento colpevole.
Ma è solo il terzo capitolo.
C’è anche chi muore nei libri.
Di solito la salma viene fatta scivolare di lato.
Direttamente nel buio che scorre
fuori dalle finestre.

*

Vedete anche voi quel poeta
che sta fuori dalla finestra
e picchia sui vetri?
Che vorrà?
Mi avvicino
ed è già volato via!
Ho l’ufficio al 60° piano.
E’ un largo tappeto persiano.

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

Lucio Mayoor Tosi
22 settembre 2017 alle 19:12

Andersen sappiamo tutti chi è, ma forse non tutti sanno di Eckersberg. Era un pittore danese, arrivato dopo il neoclassicismo di Bertel Thorvaldsen e prima di quel meraviglioso pittore che fu Vilhelm Hammershøi. Fantastica la storia dell’arte danese! Direi che è la culla del nichilismo. Eckersberg dipinse dei nudi memorabili, paragonabili ma più raffinati rispetto al noto quadro di Courbet. L’origine del mondo. Fermo restando che senza Courbet saremmo ancora qui a levigarci le pettinature.

Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.
Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.
Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.
Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).
– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.
– Probabilmente il sole. Disse Lei.
E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.
Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).
“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.
Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.
Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.
Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.

Strilli Transtromer le posate d'argentoStrilli Lucio Ho nel cervello

Lucio Mayoor Tosi
22 agosto 2017 alle 19.43

In qualche modo, l’aver letto queste poesie di Wallace Stevens ha condizionato nella forma il mio tentativo di stamane. Ma ci sta che sul finire di agosto si scriva con un diverso ritmo interiore, calmo, quasi rassegnato, sui bordi della metrica.

Apocalisse

Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?
Il grigio tormento di un verso attraversa il cortile.
Inossidabile. Giace la rana sepolta dai diserbanti
le spire del vecchio serpente si rilasciano nell’acqua
tiepida di agosto. Il tempo precipita nelle cave
su Andromeda. Segnali di luce, mattini come perle
quando passa l’onda sui frammenti. E mancano
i volti.
Sillabazione mattiniera, nella compostezza
un po’ come aggiustarsi le vesti nell’ordinario
di una ramaglia sul bordo della statale. In confine.
Passeggiare lungo le strisce bianche per Vercelli
o Alessandria.
Un pianeta sconosciuto è sceso a curiosare sulla Terra.
Tanto vicino che la sua mancanza d’aria si è fatta sentire.
Un lampo simile allo spegnimento, al giornale chiuso
sull’ultima pagina. – Non conosco i nomi delle stelle.
Francesca dice “Buongiorno poeta”, qui è presto-tardi.
Sulle guance piccolissime gocce di sangue. Lamenti.
Un vento contrario scalfisce le strade per canali
nuovi corsi d’acqua. I Dominanti s’aggiustano
su poltrone riservate. Sulla scacchiera tante ruspe.
Da sobrio non saprei come cavare un grammo di lattice
stellare dal brefotrofio Divino. Forse una mangusta
amica, due paesani in gabbia. Non un chicco di grano.
Così s’accende il passato: una sterminata pietraia.
L’orizzonte in alto, sul finire delle stelle al tramonto.
Come bere un bicchiere d’acqua, frizzante e salata.
In piedi
sulle Birkenstock.

Strilli Carlo LiviaStrilli Linguaglossa Sulla parete a sinistra

Giorgio Linguaglossa

23 agosto 2017 alle 11.07

La legge dell’entropia della forma-poesia di Lucio Mayoor Tosi

Il punto di partenza di Lucio Mayoor Tosi non è Cogito ergo sum bensì Dubito ergo cogito. Ed infine, il momento centrale è: Dubito ergo non sum. Lucio Mayoor Tosi dubita della propria esistenza e dell’esistenza di tutto ciò che circonda il proprio io, o meglio, non crede affatto che quello che gli altri vedono sia eguale a quello che i suoi occhi vedono. Per esempio, in questa poesia scopre le «tracce» dell’entropia dell’universo, del suo sgretolamento progressivo, che altro non è che il suo impulso vitale; questa moltiplicazione all’infinito della trasformazione della «materia» dell’universo porta con sé anche la trasformazione della forma-poesia, dell’entropia della forma-poesia che la disgrega dal suo interno e che, disgregandola, produce nuove modalità di esistenza della forma-poesia. Quello di Lucio Mayoor Tosi è lo sguardo stupefatto e meraviglioso di un bambino che, dubitando, osserva il mutare delle cose e pone delle domande ai genitori. Lucio Mayoor Tosi si chiede con una ingenuità disarmante:

Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?

Una domanda senza senso, direi, in quanto domanda piena di senso, essa domanda ha finito col perdere alcun senso, nel senso che non è ragionevole e, come tutte le domande dei bambini non procede con il principio di non contraddizione perché tutte le cose si contraddicono e precipitano nell’imbuto della trasformazione dell’energia e dell’entropia.
Ad esempio, che significa questo verso?

Un pianeta sconosciuto è sceso a curiosare sulla Terra.

Io credo che il suo significato vada oltre il significato grammaticale, direi che è un significato di un universo post-simbolico, Lucio Mayoor ha perduto definitivamente i «simboli», non li riconosce più, epperò non può non procedere che per simbolizzazioni, perché la corteccia cerebrale dell’homo sapiens non può che produrre a getto continuo simbolizzazioni… la simbolizzazione è una funzione del cervello umano. Lucio Mayoor Tosi procede per simbolizzazioni progressive in accordo con la seconda legge della termodinamica che ha individuato nell’entropia la legge fondamentale di organizzazione e trasformazione dell’universo. La sua poesia obbedisce a questa legge, adatta la forma-poesia alle nuove organizzazioni entropiche che vanno da stati di bassa entropia a stati ad alta entropia.

Carlo Rovelli scrive: «L’intera storia dell’universo è questo zoppicante e saltellante aumentare cosmico dell’entropia. Non è né rapido né uniforme, perché le cose restano intrappolate in bacini di bassa entropia… fino a che qualcosa non interviene per aprire la porta di un processo che permette all’entropia di crescere ulteriormente. La crescita stessa dell’entropia apre occasionalmente nuove porte attraverso le quali l’entropia ricomincia a crescere».1]

Francesca dice “Buongiorno poeta”.

Chi è Francesca? Non lo sappiamo e il poeta non si perita di dircelo. Chi sia Francesca non ha importanza, può essere nessuno o chiunque, la cosa non cambierebbe ai fini della poesia. La poesia non si preoccupa di «illustrare», di «rappresentare», di fornire una «spiegazione», non si occupa né di significanti né di significati (come la poesia del novecento), non si preoccupa di «simboli», ma semmai di surrogati, di emblemi, di engrammi, di icone, di segnaletiche, di segni… siamo ormai in un universo post-simbolico, e chi non l’ha capito continua a scrivere come se ci fosse davanti a noi un universo di simboli simbolici. Il neo-realismo dei lirici e degli anti lirici della stragrande poesia che si fa oggi in Italia e in Occidente, la poesia da toponomastica, è semplicemente fuori tempo, non parla di noi…

1] C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 p. 140

lucio-mayoor-tosi-composizione-3

Lucio Mayoor Tosi, grafica

Lucio Mayoor Tosi
2 settembre 2017

Washo in cerca dei suoi discepoli

Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese: una compressa
col campanile, nei secoli mai dissolta tra le Langhe
e la pianura Padana. Lungo il tragitto si divertì
a fare abbaiare i cani segregati dietro i cancelli delle case;
anche se quella mattina, perché era di mattina, Doly
quasi non si avvide del suo passaggio. Anzi,
proprio non gli rivolse neppure lo sguardo.
«Doly! » disse con voce alta Washo voltandosi indietro
dopo che fu passato. E quella finalmente abbaiò.
Cane sentimentale, pensò Washo.
«A cosa stavi pensando?»
Più avanti toccò al dobermann. Ma anche questi si limitò
a guardarlo da sotto i ferri del suo cancello; il lungo muso
sembrava quello della BMW del suo padrone, solo con gli occhi
più mansueti. Ma nemmeno il dobermann abbaiò. Giusto
un abbaio in risposta a Doly che nel frattempo si era svegliata.
E più avanti il meticcio; che, sì, era tanto bruttarello
ma aveva un bel cortile da sorvegliare. Il meticcio erano mesi
che aveva smesso di abbaiare al passaggio di Washo.
Ah, pensò Washo, la prossima vita ti prenderò io. Perché siamo
oramai amici e ti ricorderai di me.
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo, almeno per l’uomo che vuole mantenersi rude
come stesse in famiglia. E c’era un altro avventore.
Quindi Washo provvide a mettersi coi gomiti bene appoggiati
sul banco, con il bagliore dei muscoli in vista per dare prova
di sicurezza interiore. Quindi pensò: ecco, che lo si sappia o meno
questo è l’istante fuggevole della meditazione. Il tempo
che la signora impiega per caricare il caffè dentro il filtro
della Faema ed erogare nella tazzina.
Zucchero di canna.

Strilli Gabriele2Strilli RagoGiorgio Linguaglossa
3 settembre 2017 ore 17.00

La poesia di Lucio Mayoor Tosi sopra postata è il racconto della «ricerca della identità». Il protagonista, Washo, ha perduto tempo addietro, «qualcosa». Questa «perdita» lo guida. Washo prende a passeggiare, oziando.

Quel giorno– era fine agosto – Washo uscì di casa
come al solito per recarsi al bar del paese.

Washo non sa chi è. Prende a passeggiare perché non sa chi è e deve capire chi egli sia veramente; deve percorrere un tragitto (che lui conosce molto bene), questo tragitto è la sua personalissima Odissea mattutina. Va al bar per prendere un caffè. Il narratore è una terza persona che sta fuori della dimensione entro la quale vive e vegeta il protagonista Washo. Passeggiare, quindi, è il modo proprio del protagonista per capire se stesso, per mettersi alla prova.

Il dramma di Washo è che lui non sa chi è:
Al bar si va per ordinare un caffè. E se ce la si fa
per leggere il Corriere dello sport. Caffè? chiese la signora
del bar. Sì grazie. Ma subito Washo si accorse che il grazie
era di troppo…

Washo è un personaggio colpito da amnesia, e quindi da cecità. Egli non vede ciò che vede e non ricorda ciò che non può ricordare, infatti tutta la poesia è svolta al presente. Washo ha perduto qualcosa ma non sa che cosa sia questo qualcosa e non sa neanche di stare cercando questo «qualcosa». Tutta la vicenda di Washo è esemplare di questa condizione di non consapevolezza. Washo è stato colpito da un colpo apoplettico, da una alienazione originaria, ma lui non lo sa e non lo sospetta nemmeno. Il dramma di Washo è che lui vive unicamente nell’Immaginario, vive tra le immagini. Il suo mondo è stato «ridotto» all’Immaginario del presente, egli non ha più la capacità di ordinare il suo mondo tramite il Simbolico, vive in un flusso di eventi immersi in processi di de-soggettivazione che sono anche processi di assoggettamento. La de-soggettivazione va di pari passo con l’assoggettamento della coscienza alienata.

L’uomo è un ente che “nasce” alienato ab origine, perché da sempre costretto a «giocare in difesa». L’universo rappresentazionale attraverso il quale significa il mondo è la conseguenza di uno «smarrimento» mitologico, la «perdita» della das Ding , che lo aliena da se stesso e lo pone in una condizione psicologica difensiva.

Il soggetto alienato ab origine della nuova poesia psicologica, ovvero, la «nuova ontologia estetica» (penso alla poesia di autori come Anna Ventura, Donatella Costantina Giancaspero, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono, Steven Grieco Rathgeb, Mariella Colonna ed altri), si occupa di questo: di rappresentare, oggettivare l’universo simbolico e immaginario proprio di questo soggetto alienato che «non sa chi è». Il «suo» oscillare esistenziale è il tentativo di gestire il trauma dello smarrimento originario. Questo trauma origina quell’apertura di senso che ci contraddistingue, quel serbatoio di senso attraverso il quale produciamo le nostre rappresentazioni…

Viviamo in una società post-televisiva, che ha sostituito il registro Simbolico con quello Immaginario, ci muoviamo in un ordine di icone e di simulacri.

Strilli Espmark Le labbra dell'insegnanteStrilli Tranströmer2Scrive Lucio Mayoor Tosi:

22 agosto 2017 alle 19.43

Si dice che Aristotele, ma tempo prima anche Lao Tsu, avevano l’abitudine di pensare camminando. Di LauTzu, l’autore del Tao, si racconta che aveva un amico il quale talvolta lo accompagnava nelle sua passeggiate nei boschi; e una volta gli chiese di poter portare con é un ragazzo, perché aveva tanto insistito per poterci essere… Lao acconsentì. Così si addentrarono insieme nel bosco. Tutto bene. Ma un paio d’ore più tardi, verso il ritorno, accadde che il ragazzo, il quale durante tutto il tragitto se n’era stato zitto, sentendosi in dovere di ringraziare disse: grazie Maestro, è stata una bellissima passeggiata! Eppure, quando Lao Tsu fu solo con il suo vecchio amico, gli disse di non portarlo più. Parla troppo, gli disse. Questa storia mi ha sempre fatto ridere: Lao Tzu avrebbe sicuramente cacciato anche me!

*
Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio
che lui stesso non intende, ma che ogni tanto, viene inteso.
Il che ci permette di esistere e di essere perciò
quanto meno fraintesi.
Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso,
disse Saurau, non ci sarebbe bisogno di nient’altro.

(Thomas Bernhard – Perturbamento)