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Gino Rago, L’indebolimento della coscienza storica letta attraverso l’esperienza poetica di Vittorio Sereni (1913-1983), Poesie e prose, Mondadori Editore, Commenti di Alfonso Berardinelli, Giorgio Linguaglossa, La frattura storica delle generazioni nate dopo il 1950

Vittorio Sereni

Gino Rago

 Dopo Palazzeschi e Rebora, saltiamo a piè pari le esperienze vociane, rondiste, ermetiche, post-ermetiche e anche l’esperienza della vocazione realistica nella quale si chiese al poeta e alla sua parola lo sguardo della comprensione, (lo sguardo della pietà, per catturare l’eco di miserie di guerra in un mondo sconvolto), attraverso l’assioma rivelatore di Pasolini: «Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia», e approdiamo insieme alla poetica di Vittorio Sereni ben impigliata in

I versi

Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non era più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.

(da Gli strumenti umani, 1965)

Vittorio Sereni, dopo i frammenti di memoria degli anni della prigionia, dopo i paesaggi calcinati dal vento e dal sole, paesaggi quasi lunari nei quali sono possibili (Diario di Algeria) incontri fra gli spiriti di una tragedia, che quelli di una certa generazione tutti erano costretti a ricordare, fra compagni morti e spine senza rose di reticolati, approda allo sguardo sul mondo del lavoro industriale e si sofferma sulla fabbrica che emana sentori di fatica e di sangue, in una ideologia (anni fra il 1952 e il 1958) anticapitalistica che, animata da un trattenuto rancore ma pronto in ogni momento anche a farsi a furore, induce nei lettori dei suoi versi una ferma coscienza civile, fra quartieri di tribolazioni, sirene che chiamano al dovere, risentimenti della classe operaia con paghe ancora da fame.

Nel caso de ” I versi ”, poesia nella quale si interroga sull’ars poetica, diremmo che si tratta di un componimento nel quale Sereni adotta una scrittura breve, secca, essenziale che però si confronta con una ricchezza di contenuto ad alta tensione poetica nella quale il lirismo non nasce né dall’aggettivo, né dalla metafora ardita, o dalla retorica, bensì da ciò che sentiamo come mitezza di un tono frammisto all’ironia (amara?) di parole proposte in una loro (apparente) nuda semplicità. Il tema non è nuovo: l’idea della innata incompiutezza o inadeguatezza della scrittura del poeta attraversa la letteratura di tutti i tempi; Vittorio Sereni sceglie un taglio diremmo quotidiano, “domestico” per dire di un uomo che scrive poesie quasi vergognandosene, un uomo che saluta gli amici, l’ultima sera dell’anno, amici che al contrario del poeta conducono una vita segnata dalla fatica e dalla concretezza, vigili sempre a non smarrire se stessi nei grovigli e nelle tentazioni della metropoli industriale. Ma scrivere poesie, perché scrivere poesie e per chi scriverle. Non si sceglie di farlo né si decide per capriccio di scriverne.

Si scrivono poesie perché il poeta si fa aggredire dalla necessità di farlo; ma Sereni ce lo dice quasi adottando quella “teologia negativa” secondo la quale per sapere cosa è poesia bisogna ben sapere cosa poesia non è.

Sullo sfondo si avvertono sia Montale, sia Eliot, più precisamente il T. S. Eliot dei Quattro Quartetti.
Al centro del suo componimento, I versi, Sereni scrive:

«Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro[…]».

La esclamazione quasi sgrammaticata che il poeta fa al centro del componimento, segnandone una specie di cesura fra i primi versi e gli ultimi, arriva ai lettori come una sorta di pentimento per avere scritto e per continuare a scrivere poesie; ma in questa cesura al centro della poesia Sereni non ci dice cosa avrebbe “altro” voluto fare.

«Chi legge Sereni, chi impara oggi da un poeta come lui?» si chiedeva Alfonso Berardinelli in una meditazione sull’autore de Gli strumenti umani (1965). Di Vittorio Sereni si parla poco, benché possa costituire un modello più mediamente praticabile anche in via sperimentale per colui/colei che intenda pronunciare una sua parola in quel genere letterario particolare detto poesia. Lo è per una sua scrittura poetica, per dirla sempre con Berardinelli, «in sordina, a basso regime lirico, con qualche improvvisa accensione quasi inconsulta e con molta semi-prosa appena versificata».

Nel suo particolare linguaggio poetico, (assenza totale di virtuosismi, un minimo di parole con mai niente di più del necessario), e nella sua poesia, Vittorio Sereni non gioca mai, pur monologando, raccontando, ragionando e a volte descrivendo. Ma monologhi e racconti, descrizioni e ragionamenti si accompagnano sempre a proposte di dubbi e di perplessità soprattutto su sé stesso proprio in quanto poeta. Ne è esemplare l’apertura de I versi : “Se ne scrivono ancora” che suona a Sereni come desolata presa di coscienza, come perplessa constatazione del poeta alle prese con il gesto improvviso del fare poesia.

Anche per questo, nelle sue acute meditazioni sull’autore di Diario d’Algeria 81947) e de Gli strumenti umani (1965), Alfonso Berardinelli ci lascia quasi una epigrafe illuminante, destinata a durare intatta nel tempo dei poeti e nella storia della poesia:

« Sereni non ha mai vestito l’abito del poeta. Non si è comportato né ha scritto come chi abbia ricevuto doni, investiture e privilegi speciali dalla poesia… Non era un poeta volitivo, non vestiva la divisa del poeta e non viveva da poeta[…]».

Lo stesso Berardinelli dedicandogli un suo personalissimo ricordo scrive ancora:

«In questo 2013 cade il centenario della nascita di Vittorio Sereni, ma è anche il trentennale della sua morte, avvenuta l’11 febbraio 1983. L’avevo conosciuto a Milano otto anni prima, nel corso di una di quelle strane riunioni-colazioni della rivista culturale più politicamente compromessa di quegli anni, “Quaderni piacentini”. Una rivista fatta di conversazioni e di vere amicizie prima che di ideologia e di politica. Leggo sull’ultimo numero dello “Straniero” un saggio di Alberto Rollo, La cultura dei sentimenti, uno dei migliori saggi che io abbia letto su Sereni, che pure ne aveva ispirati altri memorabili: a Mengaldo, Garboli, Fortini, Grazia Cherchi. […] Sereni veniva dalla guerra, una guerra vergognosa e perduta. Lavorò a lungo come funzionario editoriale. Con Luzi, Bertolucci e Caproni inaugurò una nuova fase della poesia italiana in cui si incontravano i maestri del primo Novecento: Ungaretti, Saba, Montale. Vittorio Sereni nasce poeta ermetico o non ermetico? La questione resta in bilico, irrisolta, come irrisolta e in bilico è la situazione da cui nasce tutta la sua poesia.

Si è molte volte ripetuto che il titolo del primo libro di Sereni, Frontiera (1941), individua immediatamente tema e tono di questo poeta. In Sereni si sente subito un’estraneità che può essere chiamata culturale o di poetica rispetto all’ermetismo fiorentino […]. Sereni è un poeta poco interessato a una ideologia o fede poetica».

Difatti Sereni stesso dichiarò: «Il nome di poeta appare sempre più una qualifica socialmente difficile da portare e da sostenere persino nel suo normale ambito letterario…».
E’ da condividere in pieno il pensiero berardinelliano secondo il quale Vittorio Sereni è tutto nel suo verso più famoso, una iterazione martellante sui temi della perdita e e dell’assenza. Un verso da pronunciare a voce bassa, quasi fra sé e sé:

«nulla-nessuno-in-nessun-luogo-mai».

Vittorio Sereni (1913 – 1983)


POESIE

da Frontiera (1941, Ed. definitiva 1966)

Le mani

Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.

Terrazza

Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.

In me il tuo ricordo

In me il tuo ricordo è un fruscio
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.

*
da Diario d’Algeria (1947, Ed. accresciuta 1966)

Dimitrios

Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.
*
da Gli strumenti umani (1965)

Fissità

Da me a quell’ombra in bilico tra fiume e mare
solo una striscia di esistenza
in controluce dalla foce.
Quell’uomo.
Rammenda reti, ritinteggia uno scafo.
Cose che io non so fare. Nominarle appena.
Da me a lui nient’altro: una fissità.
Ogni eccedenza andata altrove. O spenta.

*

da Stella variabile (1979)

Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.
Sappi -disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire-
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

Strilli Giorgio Sopravvivere a un attacco di radioonde e di scafandri

Conclusioni (parziali)

Quali domande impone al nostro gusto estetico e al nostro tempo l’esperienza poetica di Vittorio Sereni alla luce dei paradigmi ontologico-estetici verso i quali stiamo come NOE tentando di spostare il baricentro del nostro fare poesia il quale nella forma-poesia-polittico-in-distici sta trovando la formulazione poetica più avanzata dei nostri giorni?

Almeno tre sono ineludibili:

1- Il problema della durata, della durata di una poesia nel tempo, almeno secondo l’idea di Andrej Silkin mutuata da T. S. Eliot e nitidamente lanciata e affrontata nella sua postfazione a Giorgio Linguaglossa, Il tedio di Dio (viaggio nel paese delle ombre), Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018, pp.142, 12 Euro;

2- Il ruolo e l’influsso esercitati da Sereni sulla poesia soprattutto dei lombardi sarebbero stati tanto forti se, come si apprende dalle sue notizie bio-bibliografiche, Vittorio Sereni per lunghissimo tempo non fosse stato a capo della direzione editoriale della Mondadori?

3- Come situare l’esperienza poetica di Vittorio Sereni nel grande problema della poesia italiana fra il 1970 e il 1980, da un lato, e in quello non meno impegnativo da Giorgio Linguaglossa segnalato come «L’indebolimento della autocoscienza storica dei poeti e dei narratori nati dopo il 1950»?
Su questo terzo quesito Linguaglossa scrive:

«Di recente sono solito ritornare su un punto che mi sta a cuore, ed è inutile girarci attorno in cerca di eufemismi o di correttezza istituzionale: il fatto che gli scrittori, i poeti, gli artisti di oggi sono privi di autocoscienza storica, almeno nella misura in cui i poeti e gli scrittori delle generazioni di coloro che sono nati prima della seconda guerra mondiale e fino al 1950, o giù di lì. I poeti e gli scrittori nati dopo quella data posseggono una minore autocoscienza storica dei problemi politici, estetici e stilistici che si traduce in poesie e in romanzi di livello decisamente inferiori rispetto a quelli delle generazioni precedenti.
Il problema è che c’è stata nella storia d’Italia e della poesia italiana una frattura storica corrispondente, grosso modo, al decennio degli anni cinquanta, le generazioni degli scrittori e dei poeti nati dopo quella data hanno una relazione con la propria epoca storica un rapporto, diciamo così, indebolito, il rapporto con gli istituti stilistici ne è risultato inficiato. Con ciò non voglio dare una patente dimidiata alla produzione poetica e narrativa venuta dopo quegli anni, ma senz’altro la proliferazione della poesia che è venuta durante gli anni settanta e ottanta e seguenti in Italia e in Europa ha la propria ragione in una situazione storica ben determinata[…]»

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

mi tiri per la giacca dentro il problema della poesia di Sereni e del posto occupato dal poeta di Luino nella poesia italiana del secondo novecento. Il mio parere è che Sereni sia stato un poeta di secondo piano, uno di quelli il cui lavoro è preparatorio per la poesia di altri, di chi verrà dopo. Quello che la tradizione sereniana ha potuto dare, l’ha già dato. Per me il capitolo è chiuso. Quello che noi stiamo cercando di fare con la nuova ontologia estetica è «chiudere» la tradizione sereniana nel posto che le compete e «aprire» la «nuova poesia» alle sollecitazioni del nuovo mondo globale. Aprire la nuova poesia sul periscopio del nuovo orizzonte degli eventi. Continua a leggere

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Mario M. Gabriele, Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento, Retrospettiva storica, da Lirici Nuovi di Luciano Anceschi (1954) a How The Trojan War Ended I Don’t Remember (2019), L’individuazione di una Linea Modernista

Antology How the Troja war ended I don't remember

Mario M. Gabriele

Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento

Retrospettiva storica

Se andiamo a leggere le antologie poetiche italiane, a cominciare da: I Poeti Futuristi, con un Proclama di F.T. Marinetti, Milano, 1912, passando a quelle regionali e alle tante, tantissime pubblicazioni sulla Letteratura italiana, tra repertori e consuntivi, ci accorgeremmo subito di quanti modi, stili e manifesti è segnato il cammino della poesia, assieme al fenomeno delle omissioni, con gravi ripercussioni sull’assenza di molti poeti, condannati dalla storia che procede  per “repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica e quindi per falsificazioni specie quando il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento  sulla contemporaneità”. (Luigi Baldacci-Novecento, Rizzoli, Gennaio 2000, pp.18-19). L’invisibilità che circonda  gran parte di questi poeti ci ricorda vagamente: Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino  dei  Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti repertori, da più di 50 anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, “non si ha il coraggio di farle venire a galla”, né si può sperare in un intervento della critica poiché essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, dopo l’avvento del post-strutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste  e neonichiliste  che annientano la testualità letteraria nella sua specificità”. (Romano Luperini, Breviario di Critica, Guida, 2008, pag. 59).

Molti sono i poeti che hanno percorso vie opposte a quelle della  Tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico con un work in progress di febbrile spinta avanguardista.

Cosicché la scrittura, comprensiva di ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti qui presenti, un rinnovamento della forma  con il rifiuto del riflusso, riscoperto come autentica griffe dall’industria editoriale, sempre alla ricerca di “casi” letterari, con tanti curatori, sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori  di un razzismo  etnico-culturale, simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche le famigerate scritte: ”Non si affitta a meridionale!”. Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe anche confermare, in qualche modo,  la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale  il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti “I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non avere degli altri. Ciò che non sopportano è che gli altri godano di un vantaggio”. (Gunter Anders: Linguaggio e tempo finale. Micromega, 5-2002, pag. 117). Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio  meneghino o lombardo-veneto, che vuole, a tutti i costi, “creare  una brutale scissione degli “italiani al di sopra e al di sotto del Quarantesimo Parallelo”. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001. Non  due ma cinquant’anni di poesia, pag. 12).

La critica di oggi si è creata una propria nicchia, fuori  dalle Grandi Case Editrici, dopo le performance dei Lirici Nuovi di Luciano Anceschi, – Mursia 1954; dei Poeti del Novecento, di Giacinto Spagnoletti –Mondadori 1952; de I Novissimi (poesie per gli anni 60), di Alfredo Giuliani, -Einaudi 1965; di Poesia del Novecento di Edoardo Sanguineti,-Einaudi 1969; de Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli –Lerici 1975; fino alla Parola Plurale, Sossella Editore, 2005 a cura di Andrea Cortellessa con la partecipazione di 8 curatori, tutti serventi dell’ala estrema del linguaggio autonomo, dopo la frattura tra l’Essere e il Nulla. Non è un caso isolato, se dopo la fine di un periodo letterario ne succeda un altro, sostitutivo di forme e scrittura. Tra le tante categorie catalogate non sfugge il concetto di moderno e postmoderno, con valenze diverse, tra incontri culturali, e discussioni accademiche, che hanno  influito sul pubblico dei lettori, indirizzandoli anche nei campi socio-culturali  e filosofici.

Ma è a partire dal 1930 che il postmoderno ha mantenuto le fila di un predominio letterario e tecnologico, esercitando un’azione di diffusione estetica, attraverso l’uso linguistico anglo-americano, con diramazione della critica a partire dagli anni Sessanta con punte di diramazione nel campo sociologico e post-industriale, anche attraverso la diffusione di Riviste Il Verri e Officina.-

Habermas, nei suoi indirizzi operativi, ha colto nel postmoderno una forma di tardo capitalismo come pensiero post-metafisico, a cui poi si aggiunge il pensiero debole di Vattimo, corroborato dall’influsso filosofico di Nietzsche e Heidegger, con le esequie alla metafisica occidentale.

Nel settore letterario molto si è sviluppato tecnicamente. Tutte le edizioni, formato stampa, subirono variazioni estetiche differenti. Ma è dal 1968 che la tecnologia agisce sul postmoderno con  l’elettronica e il software, raggiungendo il “Villaggio Globale”. Il testo poetico subisce variazioni di ogni tipo diventando soggetto-oggetto del poeta, il quale ha anche la libertà di optare per il selfpublishing e le Case Editrici Minori senza alcuna certezza di successo. “Fine ultimo della letteratura è la creazione sintattica, lo stile, il divenire della lingua. Non c’è creazione di parole, non ci sono neologismi che valgono al di fuori degli effetti  di sintassi in cui si sviluppano. Sicché la letteratura presenta giù due aspetti, in quanto opera una decomposizione o distruzione della lingua materna, ma anche l’inversione di una nuova lingua nella lingua attraverso creazione di sintassi” (G. Deleuze. Critica e clinica, Milano 1996). È ciò che un po’ accade nella Nuova Ontologia Estetica la cui prima datazione risale, con molta probabilità nel 2017.

                

Riflessioni sulla poesia

A conti fatti, quello dei critici, è un resoconto linguistico sulle opere esaminate, senza dubbio notevole, con un elettrolux che ha illuminato alcuni spazi, oscurandone altri. Qualsiasi previsione sulla morte della poesia è temporanea, in quanto le proposte linguistiche si  alternano come  ricambi nel tempo. La parola poetica finisce con l’essere particella organica, per diventare separatista e intoccabile con la forza espressiva di un postmodernismo telematico, e l’agglutinazione delle figure retoriche, tra le più diverse come, ad esempio l’allegoria, l’allusione, l’anacoluto l’anafora, per non parlare poi delle diafanie e disfanie, integrate ai testi poetici, e riscoperte ultimamente.

Passato e presente si annullano e si dicotomizzano nella forma, secondo le macerie e le ricostruzioni esaminate dalla linguistica e dallo strutturalismo. C’è stata, col passare dei decenni, una ermeneutica di diversa angolatura, che ha emulato categorie extranazionali, fino ai suggerimenti di altri modelli attraverso le esplorazioni dell’inconscio volute da Freud e da Jung.

Moltissime sono state le ricerche sul piano ontologico, filosofico ed esistenziale,  con distinzioni politiche alla Sanguineti e alla Pasolini, come ultima tappa di alternanza linguistica, dove non sono mancate le esternazioni positive e negative. Si è provato di tutto: dalla Pop Art, alle accumulazioni narrative, tra reviews, fin de siécle, e oggettologia: una sorta di Nouveau  francese.Questa intercomunità culturale ha retto per decenni, a prescindere dallo stato di apnea delle nuove generazioni poetiche, che si sono alternate non pensando più agli strumenti umani e alla comunicazione. Ne sono una dimostrazione le zone d’ombra e gli orrori della lingua “cannibal” degli anni Novanta, con Aldo Nove e  Niccolò Ammaniti.

Tutto questo ha coinvolto, anche se per breve tempo,  “l’architettura moderna con le sue convenzioni, i suoi dogmi, le sue grandi esperienze, il grande modello archetipo, corrotto e tradito nella interpretazione, come una sorta di sacra scrittura, ma pur sempre seguito e obbedito nella letteratura- e sotto processo da lungo tempo-, ma gli attacchi subiti a ondate successive, continua a opporre una barriera fatta di indifferenza e garantita da una  alleanza con il potere.” (P.Portoghesi, Dopo l’architettura moderna).

Le strade della poesia, viste nella loro topografia sono   diverse. Non sappiamo se si debbano considerare chiuse, tanto che “l’umanità ne potrebbe fare benissimo a meno”, come ebbe a dire Montale nel suo Discorso tenuto all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975. Tuttavia, come Egli ebbe a dire: “non sempre la poesia è cancellabile dalla mente e dal cuore dell’umanità”, essendo espressione di sentimenti dichiarati tra fobie e nevrosi del nostro Tempo, con un linguaggio prevalentemente psicosomatico ed esistenziale, parapsicologico e metasperimentale. Ed è ancora Montale ad affermare che  “La poesia è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi diversi come Croce storicista-idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una Storia della poesia”.

A conti fatti, la poesia di oggi è alla ricerca di nuovi segni verbali mettendosi in ginocchio a raccogliere i frammenti con una nuova gestione del linguaggio in forma di distici, peritropè e polittici. Qui ne cataloghiamo gli esiti, diversi ed espressivi, come volontà del ricambio della forma e del verbum da parte dei poeti antologizzati. Tuttavia, nonostante queste apprezzabili opportunità estetiche e stilistiche, c’è un ramo nel giardino della poesia, che pur mancante di clorofilla alle foglie, sopravvive e si ripropone come se in questo lasso di tempo tutto fosse rimasto in stand by.

 Oggi siamo di fronte ad una manovalanza estetica che immette nel mercato una poesia mercificata come pannolini da China Town. Ognuno  può scrivere ciò che vuole, pensare come crede, narcotizzarsi ad ogni occasione, tentare perfino di scrivere poesie come favolette per i bambini iperpiretici per farli addormentare. Non c’è più un luogo sociale, esistenziale, storico, pluriculturale dove connettersi. Continuare col Novecentismo linguistico è operazione di enorme spreco, che non ha mai cessato di esistere. Oggi ci troviamo di fronte ad un concerto demagogico e populistico della poesia come fenomeno sempre più diffuso anche nelle diverse categorie generazionali.

È evidente che tutto questo non può che decretare la crisi della poesia, incapace di albeggiare.  Si rischia di rimanere nella stagnazione scivolando nella sciatteria, dimenticando  la progettualità considerata eversiva, proprio perché ritenuta un attacco all’establishement linguistico, dimenticando che ci vuole tanto di senso autocritico del proprio lavoro.

È chiaro che in questi termini la critica ufficiale non può che assentarsi, uniformandosi al culto del replay. Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi, Paperbacks poeti- New Compton Editori, 1981, pag. 17 della Introduzione:

”Bisogna operare per la professionalità che non è puro e semplice professionismo, realizzando nel massimo dell’arbitrio il massimo del rigore, operando insomma per e con una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi”.

Quali siano i frutti di un rinnovamento linguistico non si sa. Ma intanto è lecito proporli salvaguardando le aspettative di un pubblico in attesa di un nuovo panorama storico e linguistico. Il lettore silenzioso, che non esprime giudizi, è un critico che si autoesclude da una dialettica oziosa e ostativa, in attesa di documenti e tempi migliori. Il Novecento ha indubbiamente il suo peso maggiore, senza escludere chi si attiva con le alternanze linguistiche. C’è una idea di come va rifondata la poesia. Ma anche questa va proposta nei limiti della persuasione estetica, badando ad armonizzare il tutto con un impianto pluricostruttivo attraverso i sistemi collaborativi e interdisciplinari.                           Continua a leggere

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Intervista Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa sulle tesi di Critica Della Ragione Sufficiente, verso una nuova ontologia estetica, Progetto Cultura, 2018 nel nuovo contesto socio-culturale di oggi.

Critica della ragione sufficiente Cover Def

1) Domanda.

Caro Giorgio,

è appena uscito il tuo volume: Critica Della Ragione Sufficiente, (verso una nuova ontologia estetica), presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma, 2018, pagg. 512, 21 Euro, Art-director Lucio Mayoor Tosi, volevo chiederti il senso di questo tuo nuovo lavoro critico, in risposta agli editori nazionali, più intenti a storicizzare e a periodizzare le voci dei poeti generazionali, che a riportare progetti di poesia fuori dall’elegia fenomeno tipico della poesia italiana. Per fortuna non si parla più di canoni o mini canoni, questo sembra un buon segnale.

Risposta:

Il sotto titolo del libro parla chiaro: «verso una nuova ontologia estetica», con il che si vuole intendere il percorso di pensiero che bisogna fare per introdurci dentro le categorie di una nuova ontologia. Le cose non avvengono a caso, se poeti di lungo corso come te, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia e poetesse più giovani come Letizia Leone e Chiara Catapano e altri che ci seguono: Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Vincenzo Petronelli, Francesca Dono… si sono riuniti attorno ad un progetto di «rottura» del conservatorismo della poesia italiana. La «rottura» era ed è necessaria, anzi, è indispensabile e inevitabile dopo un cinquantennio di sostanziale stasi del pensiero poetico. Per i «poeti», diciamo così, istituzionali, la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Altri poeti, invece, per esempio, Lucio Mayoor Tosi, ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… E la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza. E il linguaggio poetico si è rivitalizzato.

In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco Rathgeb tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci lavora. Lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Kikuo Takano, Steven Grieco Rathgeb è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli artisti di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute ad evidenza tutte quelle chiacchiere-di-poesia o poesia-chiacchiera di cui sono pieni i romanzi e le poesie che si fanno «oggi». Chiacchiere, ciarle, battute da bar dello spot, la poesia di Zeichen, di Magrelli, per fare due nomi noti, e degli odierni epigoni della masscult.

Per tanti troppi anni è stato problematico, qui in Italia, ai poeti di un certo livello tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica. Siamo stati assediati dalla anomia delle proposte di poetica pubblicitarie e dalle battute da bar dello spot, siamo stati impossibilitati a scrivere poesia… Anna Ventura, Steven Grieco, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia leone sono poeti ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia alla moda tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca, e le parole diventano equivoche e ciarliere. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» di una sua poesia che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» rimaste impigliate nella rete, mentre la poesia che si fa oggi assume le parole rimaste impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità.

«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di «cose» dismesse che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…

Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.

(Gino Rago)

 

Foto Richard Serra (1939) the labirint

Richard Serra, The Labirint (1939) – ci troviamo all’interno di una nuova ontologia della forma-poesia

Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche risibile. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarmelo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) posso  (possiamo) pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia», la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo: un nuovo modo di intendere le categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Erik Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità emotiva dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, miliardi di parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo, i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati ospiti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Foto semafori sospesi

Che cos’è una patria metafisica?

2) Domanda: Continua a leggere

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Gli oggetti, le cose, le parole – La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità. Dialogo tra Steven Grieco Rathgeb, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Raymond Queneau – Una poesia di Tomas Tranströmer, Anna Achmatova, Katarina Frostenson, Lucio Mayoor Tosi tradotta da Adeodato Piazza Nicolai

 

Foto segretaria

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità

Lucio Mayoor Tosi

Poesia che fai scrivere poesia

In quest’angolo d’America
regno delle tabaccherie – che Dio le strafulmini –
fai che questa stanza sia come quella di Hemingway;
quando la sera musicale
rallenta
le parole arrivano già scritte. Nella notte
tutte quelle lanterne accese. Prendimi
per mano, andiamo
in cucina. A nuoto
nell’aria gelida
di febbraio.
Il racconto di Coniglio.

Febbraio 2018, Candia Lomellina (PV)
La realtà è indescrivibile.

***

Poetry You Cause the Writing of Poetry

In this corner of America
kingdom of tobacco shops – May God strike them down –
make this room like that of Hemingway;
when evening music

slows down

the words come already written. In the night
all those lanterns lit up. Take me
by hand, let’s go in the kitchen. Swimming
in the freezing air
of February.

The tale of Rabbit.
February 208, Candia Lomellina (PV)
Reality cannot be described.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem Poesia che fai scrivere poesia.
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb

2 dicembre 2017

«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.

È da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.

In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.

L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.»

  Giorgio Linguaglossa

l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio.

  Raymond Queneau

 I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini.

 onto Chiara

Catapano Chiara   

2 dicembre 2017 alle 12:51 

“diversamente da questo, dobbiamo riflettere se i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore.”

Parto da qui. Negli ultimi mesi ho avuto modo di discutere a lungo con Steven Grieco-Rathgeb sulla virtualità della scrittura, della lingua che da suono si fa segno e poi di nuovo suono, in un travaso continuo, una ripetizione che internamente ha un profondo effetto rinnovatore: le lingue sono un tessuto vivo, che evolvono, muoiono in una forma per rinascere in un’altra. Ma il mistero del travaso (phōnē-morphé-phōnē, φωνή-μορφή-φωνή), conserva in sé il suo segreto.

Va sottolineato che le parole greche φωνή (voce) e φαίνω (mostrare) condividono la stessa radice. La voce si fa segno, lo racconta l’etimologia stessa di quelle parole che noi poeti adoperiamo come materia prima.

Mi ha detto, in una recente conversazione, come secondo lui la società tecnologica suo malgrado allontana dallo studio della lingua, della letteratura. Gli risposi che nella nostra società, stanca e in declino, pare di assistere ad un fenomeno che un tempo era diacronico, ed ora (in convergenza temporale) è divenuto sincronico: ovvero la lingua parlata e scritta è (per dirla con un ossimoro) “vissuta come morta”. Intendo dire che un tempo le lingue morte erano quelle classiche, antiche – quante volte mi hanno rivolto questa domanda, quand’ero al liceo: “Perché studi le lingue morte? A cosa “ti serve”?); oggi la stessa domanda mi viene rivolta da studenti che vengono da me per ripetere e studiare l’italiano: “Perché devo studiare la grammatica? Non mi servirà mai a niente”.

Dall’altra parte, una giovane insegnante di discipline plastiche, a scuola di mio figlio, racconta delle sue esperienze estive in Messico, dove ogni anno trascorre il periodo di pausa da scuola: lì insegna a leggere e scrivere a giovani e giovanissimi. E lei vuole portare ai nostri ragazzi, qui, la testimonianza di quello stupore che invade le fronti (diventano chiare, aperte quelle fronti!), quegli occhi, quando finalmente imparano a rendere simbolo il suono della loro voce, le parole pronunciate dal padre e dalla madre, e poi persino i loro pensieri, prima ancora che si trasformino in suono. Dicono di ciò che fanno, che stanno compiendo una magia.

Tornare alla virtualità della scrittura, riappropriarci dello stupore. Ripartire, come analfabeti, a leggere da capo il mondo.

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

Dipinto di Kuzma Petrov Vodkin, A. Achmatova

Una poesia di Anna Achmatova
(versione di Paolo Statuti) Continua a leggere

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Salvatore Martino, Poesie, sintesi critica su Autoantologia – Cinquantanni di poesia (Progetto Cultura, 2014, pp. 1000, € 25 ) – Presentazione critica di Mario M. Gabriele

Il Mangiaparole rivista n. 1

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Laboratorio-15-febbraio-2018

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Salvatore Martino fa parte della fitta schiera di poeti della cosiddetta Quinta Generazione, locuzione con la quale Giampaolo Piccari diede vita all’omonima Rivista e a una significativa produzione poetica ed editoriale nelle regioni d’Italia. Martino entra nella Poesia con Attraverso l’Assiria del 1969, con testi che hanno una propria visibilità e tracciamento  estetico, fino al volume La metamorfosi del buio del 2012.

La poesia italiana fra le due guerre ha avuto un notevole impatto nella società delle lettere a Nord e a Sud dell’Italia. Su queste due aree hanno operato le grandi Case Editrici con una autonomia selettiva, escludendo poeti di rilievo con l’appoggio collaborativo della critica militante. Non c’è dubbio che la “questione meridionale” abbia avuto un ruolo importante in un periodo di crisi socio-economica e culturale. I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”. Più verosimilmente si trattò di una esperienza poetica e generazionale nel ristretto tempo in cui si venne a formare all’interno di una serra fatta di svariate vegetazioni poetiche.

Il superamento dalla stasi poetica, tipo country, avvenne  con la nascita della Neoavanguardia, che con il Gruppo 63 operò una vera e propria rivoluzione linguistica, determinando una frattura con la Tradizione. L’appoggio di Riviste come I Quaderni Piacentini, Officina, Tam Tam, ES, Carte Segrete, ecc. portò ad una rivoluzione sistemica e linguistica nella poesia. Dire dove nasce e muore la poesia o codificarla con delle proiezioni temporali, per un’analisi delle strutture e delle forme, è operazione assai complessa considerati gli innumerevoli reperti testuali e verboiconici, così ricchi di mezzi toni e di falsetti, e tuttavia abbastanza significativi nell’esprimere il clima dentro il quale si muove il poeta. Intanto, bisogna risalire agli anni Settanta, dopo l’operazione estetico-critica avviata da Luciano Anceschi con la rivista Il Verri, fino al Gruppo 63 di Sanguineti, con le varie indicazioni poetico ideologiche diffuse in Italia come strutture-simbolo dai ciclostili di “impegno e di lotta”, per avere una discontinuità con le forme più conservatrici della poesia. Va da sé ricordare che il cammino non è stato agevole e che ha avuto  periodi caratterizzati da flussi e riflussi, da impegno e disimpegno nella operatività ricostruttiva della parola, che rimane sempre il vero campo d’azione per rimuovere steccati e barricate. Qui ci si limita a indicare le antologie che maggiormente si introdussero nel “mare della oggettività”, come  I Novissimi,  di Alfredo Giuliani del 1961, Il pubblico della poesia, di Berardinelli e Cordelli, del 1975, La parola innamorata, di Pontiggia e Di Mauro del 1978, La poesia degli anni Settanta, di Antonio Porta del 1979, l’ampio Repertorio  della poesia italiana contemporanea di Zagarrio del 1983 e La parola Plurale di Cortellessa del 2005, inclusiva di una anagrafe poetica tra le più diverse e propositive. Le ragioni che hanno portato le antologie a immettere e ad escludere nomi e opere, sono da ricercare nella mercificazione del prodotto poetico basato sul profitto e non sulla qualità. Il fenomeno delle omissioni ha modificato completamente il quadro operativo e poetico di stagioni molto diverse l’una dall’altra, all’interno di una Storia che ha falsificato la realtà, procedendo per “repressioni, per grandi operazioni di natura etnica” (Luigi Baldacci: Novecento passato remoto, pagine di critica militante. Rizzoli, gennaio 2000-pp. 18.19).

L’invisibilità di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il Cavaliere Inesistente, di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guidilverni e degli Altri di Corbentraz  e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo  e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schermito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Ma quanti poeti hanno rivestito il ruolo di Agilulfo?, quante opere sono andate al macero o dimenticate solo perché non rientranti nelle antologie ufficiali? In occasione del ritiro del Premio Nobel, Montale ebbe a dire che: “La poesia è una entità di cui si sa  assai poco, tanto che due filosofi diversi  come Croce Storicista idealista, e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”. Allora a che serve scrivere? E come si giustificano le mille pagine relative a una produzione poetica pari a Cinquantanni di lavoro da parte di Salvatore Martino? un poeta meridionale che ha assorbito l’humus del proprio territorio senza esporsi alla cultura contadina con tutte le problematiche che essa poneva, tra ambiente sociale, povertà economica e figurazione del paesaggio?

Quando Salvatore Martino si propose con la sua prima opera poetica nel 1969, persistevano sul territorio italiano contraddizioni e dualismi di enorme portata. Alla poesia non bastava più il Gruppo e l’Antigruppo, l’umano e il disumano, il conscio e l’inconscio, il plurilinguismo e il neologismo, la metempsicosi  e la fabulazione discorsiva, il fumismo e la metafora, la viola d’amore e di morte, ma le occorreva un supplemento di rifondazione linguistica per colpire la stagnazione concettuale in cui si era immersa la cultura e la società. Su tutto questo bailamme, Salvatore Martino ha operato con una propria poesia democratica, e mai riduttiva; un long playing senza forzature sintattiche e visionarismo romantico. Si potrebbe tentare di dire che la sua opera rispecchi la vita di un uomo segnata da impegno e sincerità. Ora ci si trova qui ad esaminare la sua  Autoantologia – Cinquantanni di poesia, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2014, che assembla itinerari linguistici e poetici di diversa proposizione. Ne viene fuori una struttura linguistica dove non pochi sono i procedimenti che hanno dato uniformità alla parola con ideogrammi psicoestetici. Si può dire che questa di Martino è una biografia in versi fatta di espressionismo soggettivo e di classicismo moderno. Egli si avvale di significative esposizioni stilistiche rispetto allo sperimentalismo tout court, che non ha mai influito sul suo modo di fare poesia, stabilendo fusioni con la memoria e il quotidiano, ricorrendo alla lingua chiara e a immagini mai surreali, o strumentali, scegliendo la nitidezza delle esposizioni e privilegiando soprattutto il rapporto con il lettore attraverso il vissuto, e le frammentazioni della vita, spesso come  un Poème en Prose.

Una poesia che emerge dal mondo interno del poeta senza schemi rigidi o da decriptare. Nessuna contraddizione, quindi, negli eventi temporali e psicologici, largamente motivati da una realtà in continuo fermento. Una esperienza poetica di tutto rispetto, fedele a un clichè che ha garantito nel tempo, uno spartito linguistico anche con il disagio di chi avverte un velo di tristezza sopra l’anima. Una via poetica rimasta sempre sulla giusta tangenziale, con un IO psichico anch’esso multiplo nella riflessione critica e soggettiva delle cose. Si va, dunque, da un lato verso la contiguità con L’Essere e dall’altro, lungo le rifrazioni del proprio periscopio esterno.

In questa operazione c’è posto anche per la dinamica metrica e polifonica. Martino si è visto costretto a fare una scelta operativa dopo l’establishment poetico degli anni Sessanta, con una operazione linguistica diversa  dalle correnti più consolidate, accumulando decenni e decenni di lavoro silenzioso e ricostruttivo secondo lo spirito del proprio Tempo. Egli sa aprire e chiudere il dialogo, il racconto, la storia di un evento, le figurazioni dell’effimero nel teatrino del mondo. Martino coglie dalla profondità dell’ES, gli aspetti più controversi dell’ everyday life  per riportarli in superficie alla luce del sole, attraverso un linguaggio che, all’epoca della sua formulazione, si lascia indietro le architetture e i centri storici della poesia interpretativa di un meridionalismo  fatto di miseria e desolazione. E qui che il disboscamento culturale si fa avanzamento estetico e prassi necessaria per arginare il vuoto, le iperplasie linguistiche, instaurando un modello di poesia racconto, di cadenze accentuative nel ritmo basilare delle storie e degli eventi, affidandosi, senza maschere e coperture,  alle richieste del subconscio convocandone i soggetti e le storie nella continua leggibilità del mondo esterno. L’immaginario e il realistico emergono come onde di un fiume in piena. Si ha a che fare con un magnetismo poetico. Ci sono grovigli di memoria per implosioni della materia mentale e psichica, scarti onirici dove il poeta ci si immerge per trovare un punto di sintesi e di armonia. A volte è una fuga dal quotidiano, altre volte è un ritorno ai micro-mondi evaporati. Non c’è ricorso all’utopia e agli universi extrasensoriali. Il suo linguaggio si presenta, in rapporto ai poeti della metà del Novecento, come strumento di innovazione rispetto alle tematiche della letteratura popolare.

Nelle sue stanze poetiche Martino dà appuntamento alle figure altamente lampeggianti nella memoria. Non so se egli abbia mai fatto una “dichiarazione di poetica”. Sarebbe interessante, in questo caso, seguirne i sottopassaggi dove sosta il mondo della reificazione. Forse si coglierebbero gli aspetti più segreti, perché partono da un poeta che ha costruito il proprio verbum senza palcoscenici. A volte sembra di imbattersi in certi traumi, attraverso l’infittirsi di relazioni, tra collasso e ricostruzione della vita, “nel silenzio di Dio e nell’erotismo del corpo e della mente”. La sua poesia vuole appunto dirci tutto questo. Sta dentro il paesaggio esistenziale. Lo scardina, lo lascia, riprendendolo subito dopo, per non restare in vedovanza, convivendo con la poesia; una specie di chiatta di salvataggio contro l’effimero e il quotidiano.

Qui si riportano alcuni stralci di autoanalisi poetica fatta da Martino nella sua relazione tenuta presso il Laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole del 30 marzo 2017, che sembrano allinearsi con quanto sopra espresso, trovando dei rapporti interattivi tra:

“Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla maniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica, che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza….. cominciarono a delinearsi le tematiche che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni: il rapporto dell’IO con se stesso, la maschera (persona), l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale”.

Su queste coordinate si allinea il lavoro di Salvatore Martino, un poeta che traccia i disagi della vita di fronte ai suoi processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose nell’accumulo degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori. Il tutto con l’elaborazione di una poesia, moderna, ricostruita secondo schemi propri sull’onda di un lirismo controllato e di diversa vocalità e immaginazione. Una poesia cresciuta patrimonializzando la lettura di poeti come  Pound, ed Eliot ed altri ancora, che hanno arricchito la sua sensibilità da cui sono poi nate le ripercussioni estetiche trascritte come egli scrive su “fogli, lettere, alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli e mai distrutti, custoditi in un codice della memoria”.

                                                                                                 (Mario M. Gabriele)

Da La fondazione di Ninive (1965-!976)

…….Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra storia o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola – …….. Continua a leggere

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Adam Vaccaro Quale tempo? – Tempo fermo, Tempo reale, Tempo mentale; Quale poesia? l’interazione con l’Altro da sé; La questione del soggetto; temporalità lineare e temporalità ciclica; La comunicazione come comunione; Una percezione non più separata, ma con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro

(Il testo che segue è versione più ampia della relazione svolta in occasione del convegno “Scritture / Realtà, Linguaggi e discipline a confronto” – organizzato dall’Associazione Culturale Milanocosa e tenuto a Milano il 18 e il 19 novembre 2000. Ed è uno dei capitoli della Parte Introduttiva di Ricerche di Adiacenza, Satefi, Milano, 2001)

Forse tutti non desideriamo altro che entrare nella realtà, non rimanere come astronauti persi nell’universo. Forse tutto il lavoro di ognuno e di tutti consiste nel tentare di entrare, nel bene e nel male, nella realtà. Ma già dire così si rischia grosso. Si rischia di riproporre l’errore originario della filosofia occidentale di parlare di doppi: esterno e interno, spirito e corpo, ecc..
Nella nota che accompagnava la prima lettera di proposta di questo convegno, ricorrevo all’immagine della Cacania, inventata da Musil ne L’uomo senza qualità, per contrapporre la realtà prodotta dalle ritualità ufficiali a quella disegnata da ogni forma di espressione, e della poesia in particolare. Parlavo per quest’ultima di tensione utopica, diciamo pure rivoluzionaria, verso possibilità non contemplate dal vestito ufficiale dell’esistente.

Basta forse questo esempio a far saltare in aria ogni partizione di esterno e interno. Qual è l’esterno e quale l’interno? Quale è più falso e astratto? Quale è più reale? Quale è rimasto più presente nella realtà mentale degli uomini, la qualità del ritualismo di Cecco Peppe o la mancanza di qualità (rispetto alla prima) di chi costruisce un universo parallelo e immagina un altro e oltre rispetto all’esistente?
Due forme di realtà compresenti, come quella di ogni soggetto (singolo o collettivo) rispetto al Resto, che in un modo o nell’altro interagiscono e sono ognuna parti di un Tutto, metafisico e irraggiungibile, per cui collocarne una dentro e l’altra fuori è un’operazione astratta e priva di senso.

Ogni identità si costituisce e assume senso, diventa reale, nell’interazione con l’Altro da sé. È anche la tensione profonda di questo convegno. Che tende a suo modo a ripensare “la questione del soggetto”, come dice Francesco Leonetti (1), quale luogo e nodo centrale in cui ricollocare l’Uno, il Tutto e ogni metaforizzazione o categoria mentale; tra le quali quello di realtà.
Leonetti fa riferimento alle ricerche più “recenti della biologia e della neurofisiologia” (2); e richiama (chi ha letto qualcosa di mio sa quanto possa concordare) Francisco Varela, che (con Maturana) ha elaborato la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente; e tra essi si attuano infinite combinazioni temporanee, reali e virtuali al tempo stesso, in rapporto all’intreccio di esperienze che il soggetto va elaborando.
Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale. Ma allora perché è abbastanza anomalo questo stesso convegno, rispetto alla tendenza alla chiusura autoreferenziale di ogni disciplina e soggetto culturale? Chiusura che produce sempre paranoie e forme ideologiche, quale quella per es. della Verità. Questo convegno riprende in qualche modo l’affermazione “La verità non esiste” di Antonio Porta, che distingueva con la fenomenologia di Luciano Anceschi, tra vero e verità, intendendo il primo quale “punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza”, “un punto fermo che però non è definitivo come la verità” (3).

Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad es. quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo.
Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.
C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile lago nero (diciamo pure che è il nostro personale buconero) o come tanti recipienti chiusi (vedi le “giare” di Proust), o un grande tamburo, che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la sua (e la nostra) distruzione. Contiene credo il senso del limite del mito di Orfeo e tante altre immagini a noi più vicine, per es. “l’acqua ferma“ dei laghi mantovani di Gilberto Finzi, materia espressiva de “L’oscura verdità del nero“, che richiama fra l’altro l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce, e in cui la luce può praticare solo fori per lampi precari e fuggevoli. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no.
Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo; ma il termine può essere fuorviante, forse è meglio dire ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Che vuole tacere e muore dalla voglia di parlare. Che vuole custodire, ma anche dire ciò che custodisce. Lo dice (ovvio), a suo modo, se sollecitato ad es. con ritmi adeguati, quali ad es. glossalalìe tipo ambarabà ciccì coccò, tali da far vibrare il grande tappo di pelle che lo ricopre.

In altri termini, nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, che contiene il segreto di tante nostre cose: problemi irresolubili intrecciati a contraddizioni vivificanti: per es. è disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è forse fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra irriducibile, fondante corporalità, materiale e immaginale insieme, in cui i linguaggi ri-diventano cosa; sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso e dei linguaggi …dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.

C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.
È peraltro in tale galassia che troviamo le modalità operative del c.d. tempo reale, riferito con ironia involontaria alla virtualità dei processi informatizzati; che, nel contesto socioeconomico attuale è ridotto, come tutto il resto, a cosa (con senso ben diverso della cosa vista nell’area dominata dall’Es), merce, nel caso di pacchetti di linguaggio da trasferire a tempo zero, per massimizzare la produttività.

È l’area che accoglie come un trionfo la velocità della comunicazione multimodale contemporanea, che combina velocità e quantità e impone spesso, più che un processo di comunicazione, di commutazione: una operatività da semaforo, che si riduce a far passare o no un’informazione. Tali condizioni sono vissute dal corpo e dalle modalità lente dell’area dell’Es come invasione e violenza, che non si ha il tempo di elaborare. Sono temi affrontati nel n°10-11 de “Il Verri” da Giovanni Anceschi, il quale utilizza le osservazioni di “Paul Virilio (l’urbanista francese…dromologo, cioè studioso della velocità)” e aggiunge che nel “corpo, invaso per commutazione, transitano stimolazioni anche massicce…senza interferire veramente con la mente”.

La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali, non diventa mai corpo nel corpo, rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.

Con modalità tendenti alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro.
Se quest’area viene adeguatamente fatta interagire, ci aiuta a capire che dobbiamo porci oltre ogni termine, non solo di mimetismo o di cognitivismo speculare tra mente e mondo, ma anche di ibridazione tra soggetto e Altro, naturale o artificiale che sia. Ci aiuta a capire (anche) che non possiamo più beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, o in esaltazioni percettive e sensitive, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni (compresi quelli di un territorio) non ci trasmettono, contemporaneamente, collegamenti complessi con una (purchessia) visione di idee.

Senza di essa il messaggio non raggiunge un grado minimo di autonomia (4), né riduce il disperato senso di solitudine, cioè di assenza di realtà, in cui siamo; diventa un dono vuoto, più che inutile. Nel messaggio, in ogni messaggio ricevuto (artistico e no), cerchiamo un senso di pieno, di cosa materiale che ci tocca. Un senso che va oltre, sia la funzione salvifica e consolatoria dell’arte, che la sua funzione catartica.
Vogliamo semplicemente vivere e trovare, in particolare nell’oggetto poetico o artistico, il senso di un contatto adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati. Non è che ci si vuole fare carico della salvezza del mondo, ma è inevitabile che l’area mentale del Superìo, se viene fatta interagire, tenda a costruire un atto critico prodotto dallo sguardo verso l’orizzonte sociale, se è vero che “L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico” (5).

Beninteso, ciò non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), intesa come marketing e maquillage cero-ideologico (vedi le statue di cera di gran parte dei politici); vuol dire porsi (almeno!) il problema del vuoto di “progettazione alternativa” (6); da cui forse nasce, proprio in chi vuole esprimere opposizione all’esistente, un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.
Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce a immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica di significati irripetibili; che non è più un soggetto-motore, con pensieri ed emozioni, che opera/genera sui/nei linguaggi, ma è il mezzo che diventa generatore autonomo.
Questa è ciò che si chiama totalizzazione di una parte: il mezzo, il linguaggio, il testo – rimasticando (male) il mezzo è il messaggio di Mc Luhan – non sono più cosa materiale di un soggetto, col quale inventare uno scambio, ma sono il tutto, un simulacro da accogliere supini. È ciò che chiamo ideologia del testo.

Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica indubbiamente ridefinire “a quale semantizzazione ci interessiamo”, rispetto a “l’attuale superficializzazione mediale, dominante” (7).
Per quanto mi riguarda, tendo (come altri più autorevoli di me) a cercare sviluppi rispetto alle “valenze proprie delle discipline innovative del Novecento, psicoanalisi e semiotica” (8); e provo a superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana dei tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva: Io, Es e Superìo.
Le ricerche e le applicazioni su analisi testuali, effettuate e in corso, mi spingono a dire che è solo la compresenza adiacente di questi tre ambiti che può donare all’invenzione una capacità “di rottura innovativa…non meramente ‘formale’” (9).

L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione non più separata, ma con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, che potremmo anche considerare, come dire, momenti di orgasmo mentale. L’identità soggettiva produce realtà, quando costruisce oggetti posti in una contemporaneità mentale (di tipo quantistico perché sono oggetti presenti contemporaneamente in più luoghi mentali), che diventa casa del tempo, cioè spazio fatto di tempo.
Spazio-tempo capace di vedere: “Una casa sperduta là in cima/ alla costa – anni luce/ di distanza”, luogo dalle parti di Casalecchio, in versi inediti di Giuliano Gramigna; o “viali colle ali” di G. Majorino (10). Luoghi mentali, capaci di prendere per la coda i frammenti del caos vitale che ci esalta e ci uccide, riuscendo a sorridergli in faccia o di sottecchi.

Questo luogo anomalo, inventato dall’intreccio adiacente tra le varie aree mentali, è a mio parere anche l’ante-rem, o la condizione intrasoggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere a mettere in comune (come già diceva Antonio Porta), che concepisca quindi la comunicazione come comunione. Per poter cioè sviluppare il massimo livello di comunicazione inter-soggettiva, occorre partire da una realtà di comunione intra-soggettiva. Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale.
Proviamo ora a immaginare una combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo), non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella spesso citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (11). Forma che può avere infinite varianti, a seconda del peso nella struttura di un testo degli elementi riconducibili alle varie galassie. Ad es., in Per quante vite di Marosia Castaldi, troviamo una forma a vortice, prodotta dalla combinazione particolare tra le modalità di linguaggio dell’Es (come la ossessività delle ripetizioni) e il forte peso interno di un’indignazione dell’area etica, che (com)porta il climax solo alla fine.

La realtà (ma non solo) è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale, con una forma di tempo mentale. Tempo piuttosto lungo perché deve elaborare le perdite e i guadagni delle esperienze (12). Questo lavoro di elaborazione mentale adiacente, che tende a coinvolgere tutte le galassie mentali, risponde alla necessità di recuperare tempo mentale per sé (13). È un tempo che può anche essere chiamato otium, ma è tutt’altro che ozioso. Perché costruisce metamorfosi autopoietiche di sé: lavoro del Sé per-sé. E dico lavoro perché modifica qualcosa di fisico, a cominciare da sinapsi inusitate tra neuroni, che forse sono così salvati dalla morte. L’ecosistema mentale in questo tempo resiste concretamente alla morte.
L’ecologia della mente è, per me, questo. È la poesia? Penso di sì. Ma quale poesia?, quella fatta solo di righe spezzate? Penso di no. Non sono solo le ricerche teoriche e artistiche di tutto il ‘900 che hanno mostrato 10, 100 e più forme sotto il nome di poesia. Abbiamo ad es. le intuizioni geniali di un Leopardi o di un Vico che ci parlano di un piano ulteriore, o di strani oggetti come la fisica poetica, o la chimica poetica, ecc.. (vedi paragrafo successivo). Certo, la poesia intesa in tale senso non fa miracoli, non dona e non salva la vita se trova il nulla o un tempo mentale uguale a zero. Ma se trova un lavoro mentale in atto, può essere la migliore medicina contro la depressione, come ha detto recentemente un gruppo di medici inglesi. Per questo, scherzando ma non troppo, dico che la poesia è spietata quanto una banca, che in genere dà soldi solo a chi li ha già.

In definitiva, la poesia e l’arte in genere resistono e sono inesauribili perché, più che utili/inutili, sono indispensabili; in quanto recupero di tempo mentale che consente al soggetto di diventare reale, nel momento in cui costruisce una forma di sé in un determinato linguaggio; forma che ha bisogno di costruire per dare materialità (ritorna la necessità della poesia come cosa) alla virtualità e precarietà dell’autocomposizione soggettiva.
È un lavoro inevitabilmente oppositivo rispetto alla prassi corrente, in cui lo scambio energetico appare al Sè vano, mercificato da un fine dominato da un altro; alienato e subìto dall’operatività della sopravvivenza dell’Io, che è così spinto a dare il meglio di sé nelle peggiori condizioni.
L’Io, da operatore unico, viene a sua volta ridotto (è, credo, la radice reale della c.d. riduzione/scomparsa dell’Io) a imperatore del nulla, se il suo tempo si riduce a un angoscioso vuoto, dopo che è stato reciso il rapporto, sia con la prillazione nelle profondità del lago nero del passato affettivo-inconscio, sia con la tensione etico-progettuale volta al futuro.

Note
1) Francesco Leonetti, “Campo – la ricerca in letteratura, arti, scienze”, N° 12, 1999, p. 286 – Suppl. al N°150 (ott.. ’98) di “L’immaginazione”.
2) Ibidem
3) “Porta”, Luigi Sasso, Firenze 1980.
4) F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura; Torino 1971.
5) Romano Luperini, “Campo” N°12, p.287
6) Francesco Leonetti, ibidem
7) Francesco Leonetti, “Campo”, N° 12, p. 285.
8) Ibidem
9) Ibidem
10) Giancarlo Majorino, Autoantologia, p. 270 – Milano 1999
11) Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994
12) A questo proposito, un piccolo esempio è ricordato da Ernst von Glasersfeld: “a ‘stessizzare’ una localizzazione tattile con una visiva,…il bambino ci mette parecchie settimane per impararlo – e lo impara interpretando certe esperienze SENSOMOTORIE” (Working Papers della Soc. di Cult. M-O, cit.).
13) Potremmo definire il tempo mentale come percezione di attimi d’infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella categoria definita da Platone nel Timeo “immagine mobile dell’eternità”. Il rettiliano e il limbico costituiscono invece forme e luoghi di materializzazione di un tempo fatto di lunghissimi accumuli di tempi esperienziali, ben diverso dunque da quello platonico.

adam vaccaro 4Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. Diversi i premi e riconoscimenti ed è stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra le quali: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

Adam Vaccaro Via Lambro 1
20090 Trezzano S/N (MI) T. 02 93889474 – 347 7104584
Email: adam.vaccaro@tiscali.it

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 RICORDANDO UMBERTO ECO: Il Gruppo 63, quarant’anni dopo  [Prolusione tenuta a Bologna per il Quarantennale del Gruppo 63, 8.5..2003. 1 Eco Gruppo 63, 2003] da www.umbertoeco.it

umberto eco4

Crediamo che il miglior modo per onorare la personalità umana e intellettuale di Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio 2016, sia quello di dargli la parola:

Riunirsi non vent’anni ma quarant’anni dopo può avere due funzioni, o profili. Una è la riunione dei nostalgici di una monarchia, che si ritrovano perché vorrebbero che il tempo tornasse indietro. L’altro è la riunione dei vecchi compagni della terza A, nel corso della quale è bello rievocare il tempo perduto proprio perché si sa che non ritornerà più: nessuno pensa che si voglia tornare indietro, semplicemente si sta recitando il proprio longtemps je me suis couché de bonne heure, e ciascuno assapora nei discorsi degli altri la propria madeleine inzuppata nell’infuso di tiglio.

Spero che questo nostro ritrovarci abbia più del simposio tra vecchi compagni di classe che del complotto di vandeani nostalgici, con un solo correttivo. Che ci si riunisce anche per riflettere su di un momento della cultura italiana, rileggendolo col senno di poi, per capire meglio che cosa sia avvenuto, e perché, e per aiutare i più giovani, che non c’erano, a comprenderlo meglio. Nella fattispecie, poiché non sapevo in anticipo chi avrei trovato in questa sala, ho pensato ad alcune annotazioni sull’ambiente culturale di quarant’anni fa, dirette principalmente a chi non c’era,e non a a tutti i sopravvissuti che ritrovo con grande piacere ma che, come era d’uso allora, mi contesteranno che tutto quanto avrò detto era sbagliato.

Riandiamo dunque alle origini, e poiché parliamo qui a Bologna, nel ricordo ancora indimenticabile di Luciano Anceschi, ricordiamo che in principio era il Verri.

Il verri

Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956 in cui Anceschi mi ha telefonato. Lo conoscevo di fama. Che cosa poteva sapere lui di me? Che da meno di un anno e mezzo mi ero laureato a Torino in estetica, che vivevo ormai a Milano e stavo frequentando giovani poeti come Luciano Erba e Bartolo Cattafi, che vedevo Paci e Formaggio, che avevo pubblicato poche cose su riviste quasi clandestine? Mi ha dato appuntamento in un bar del centro. Voleva solo scambiare delle idee. Stava per iniziare una rivista e non stava cercando nomi famosi (li aveva già), cercava di mettere insieme dei giovani, non necessariamente suoi allievi, gente diversa, e voleva che parlassero tra loro. Gli avevano detto che c’era un giovanotto di ventiquattro anni con interessi che potevano incuriosire anche lui, e andava ad arruolarlo.

Rievocavo anni fa l’episodio, durante la celebrazione funebre di Anceschi, qui all’Archiginnasio, con Fausto Curi, e gli domandavo: “Ma uno di noi, oggi, con tutte le grane che ha già, gli dicono che c’è in città un giovane che si è laureato in un’altra università, andremmo a cercarlo per fargli fare qualcosa?” Curi mi aveva risposto: “Ma ci barricheremmo in casa staccando il telefono!” Forse non ci barrichiamo sempre, almeno spero. Ma certo Anceschi non si barricava mai.

Anceschi mi introdusse ai misteri del Blu Bar di Piazza Meda. Era un bar del centro, piuttosto anonimo, ma aveva una saletta nel retro, e tutti i sabati verso le sei arrivavano dei signori che si sedevano a chiacchierare di letteratura, prendendo un tè o un aperitivo: erano Montale, Gatto, Sereni, Ferrata, Dorfles, Paci, qualche scrittore di passaggio a Milano, e Carlo Bo dominava la scena coi suoi silenzi omerici. Certe sere quella saletta faceva pensare alle Giubbe Rosse. Contrabbandati da Anceschi, abbiamo iniziato ad arrivarvi noi giovanissimi. Ricordo quelle serate come occasioni epiche, e il dialogo generazionale non è stato infruttifero, almeno per noi. In un certo modo, però abbiamo contribuito a una lenta trasformazione di clima, ci passavamo le poesie dei futuri Novissimi, Glauco Cambon ci dava in lettura i dattiloscritti dei suoi primi saggi joyciani per Aut-Aut, Giuseppe Guglielmi ci leggeva i versi che poi avrebbe pubblicato sul primo Verri, dove rievocava una lei che recava su un piatto di Sèvres “anifructus brunito per la cena”. Il Verri stava per pubblicare una poesia che parlava di merda, sia pure con accenti arcaici.

Anceschi mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Eco, veda un poco che cosa si può fare per questo ragazzo, il Balestrini. Ha ingegno, ma è pigro. Bisogna spingerlo a qualche attività, magari in una casa editrice.” Alcuni anni dopo, scoppiata la gran cagnara del Gruppo 63, Anceschi mi prendeva sottobraccio e mi diceva: “Eco, veda un poco che cosa si può fare con il Balestrini. Forse bisognerebbe frenarlo un poco…” Ma si vedeva che godeva dei frutti della sua seminagione, e viaggiava sornione tra le generazioni.

Sto riguardandomi l’indice del primo numero del Verri, del 1956 (insieme alla filiforme e austera grafica di Michele Provinciali): poesie di Giuseppe Guglielmi e Luciano Erba, antologia di poeti americani tradotti da Rizzardi, saggi di Gorlier, Cambon, Giuliani, Barberi Squarotti, Pestalozza, e poi i giovanissimi come Barilli. I collaboratori si muovevano tra gli interessi di Linea Lombarda e quelli dei futuri Novissimi. I poeti che si recensivano erano Dylan Thomas, Pound, Montale (ma Sanguineti, estrema avanguardia post-poundiana, si occupava di Dante, Inferno I-III). Però, attenzione rispettosa alle Storie Ferraresi di Bassani, un omaggio di Anceschi a Gargiulo, uno scritto di Fausto Curi su Govoni…

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

Il secondo numero ha un saggio di Montale su Gozzano, un René Wellek sul realismo (era appena uscita dal Mulino la traduzione di Teoria della letteratura di Wellek e Warren), un saggio di Cambon sul teatro di Wallace Stevens. Poesie di Cattafi e Giuliani, un racconto di Lalla Romano. Luciano Erba cura una antologia di nuovi poeti francesi, tra cui figura il giovane Yves Bonnefoy. Frattanto è uscito a Varese, per i tipi di un editore Magenta (o forse a Magenta per i tipi di Varese) il libro di un altro giovane, Laborintus, e ne dà notizia critica Giuliani. Squarotti recensisce e Leonetti e Zolla narratori, un giovane Melandri recensisce un libro di Borrello sull’estetica dell’esistenzialismo, Enzo Paci recensisce Perinetti, e io scopro di aver recensito il primo numero de Le surréalisme, même, diretto da Breton.

Nel numero 4, insieme a un saggio estetico di Holthusen, poesie di Sereni e di Balestrini (e dunque due generazioni accanto), un’antologia di nuovi (o quasi) poeti tedeschi, Paul Celan, Höllerer, Ingeborg Bachmann. Giuliani recensisce Luzi e Le Ceneri di Gramsci di Pasolini, Curi recensisce Bo e Bo recensisce Ranuccio Bianchi Bandinelli, l’occhio del cinema di Pietro Bianchi è presentato da un misterioso A.A. E, visto che la recensionicina inizia con un accenno alle teorie di quegli anni “cervellotiche e talvolta repellenti, per lo più finite male”, e termina in forma di elenco, assai snobistico, di registi definiti come “incantevoli predilezioni”, ebbene qui si sente la zampa dell’esordiente e ancora contenuto Arbasino Alberto.

Tra il 1958 e il 1959 appaiono antologizzati i giovani poeti russi e spagnoli, racconti di Pontiggia, Buzzi, Calvino, poesie di Vollaro, Risi, Cacciatore, Pasolini, Antonio Porta che si firma ancora Leo Paolazzi. La rivista della pressante neoavanguardia accoglie con rispetto il Gattopardo e Una vita violenta a opera di Barberi Squarotti, ma apre nel 1959 il discorso sul Nouveau Roman a opera di Barilli e con testi di Robbe-Grillet.

Accanto a questa girandola di scoperte e – questa volta è il caso di dirlo – di anticipazioni sul “nuovo che avanza”, il Verri lancia sguardi pacati alla storia, e non disegna di tenere un piede nell’accademia, con un saggio di Teodorico Moretti Costanzi su Plotino, nel numero 2, mentre il secondo numero del 1958 è dedicata al barocco (con saggi di Bottari, Getto, Raimondi – ma il tema è troppo vasto e verrà ripreso nel numero 6 del 1959). Anche i poeti, che appaiono come nuovissimi, si chiamano Théodore Agrippa d’Aubigné o Jean de Sponde, e le prose sono di Giordano Bruno.

Quindi, letture classiche sugli ultimi contemporanei e letture contemporanee sui classici, senza badar molto alle distinzioni di genere; uno sguardo equilibrato sia ai fremiti della nascente neoavanguardia, sia alle prove di scrittori già assestati; uno sguardo sulla cultura mondiale che rende fa del Verri, la cui linea lombarda si estende oltre le valli svizzere, una gaia econtinua gita a Chiasso di arbasiniana memoria. E, soprattutto in queste pagine i giovani recensivano i loro coetanei, e i più anziani recensivano i più giovani, o viceversa, alla sola insegna della curiosità, senza distinzioni di rango accademico – e questo era fenomeno importante per quei tempi.

La rilettura degli indici potrebbe continuare, ma mi arresterei al primo sintomatico numero 1 del 1960, un anno prima dell’apparizione, nella biblioteca de Il Verri, della antologia dei Novissimi. Anceschi nell’intervento d’apertura saluta il quarto anno, lascia capire che è venuto il momento di portare avanti la ricerca, e apre un dibattito di voci discordi. Ma ospita con ben altro rilievo un cahier de doléances di Barilli, in cui si regolano i conti con Cassola, Pasolini e Testori, un saggio di Gugliemi in cui naturalmente si apre a Gadda, si salva Calvino, ma si conclude che Moravia e Pratolini s’intestardiscono a fare gli uomini di qualità. E a contrassegnare la decisione, per il futuro, di evitare di mancar di rispetto, un saggio di Arbasino s’intitola “I nipotini dell’ingegnere e il Gatto di casa De Feo”.

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

Umberto Eco

Una nuova vis polemica batte alle porte. Il Verri accenna felicemente a squilibrarsi, Anceschi rompe i ponti, evidentemente disposto a pagare lo scotto. E consentitiemi una nota personale. Avevo cominciato da qualche numero a pubblicare sul Verri alcuni pastiches nella rubrica intitolata “Diario Minimo”, testi miei e altrui, alternati da piccole citazioni, brani curiosi. Nel primo numero del 1960 scopro che l’idea di un’isola posta sul 180° parallelo (poi diventata venticinque anni dopo il tema del mio terzo romanzo) già doveva ronzarmi per la testa, perché cito gli allora novissimi versi di una canzone di San Remo (“E’ mezzanotte, quasi per tutti…”) e intitolo: Fusi Orari. Quindi trascrivo due brani. Il primo è dalla Critica del giudizio di Kant: “Inoltre alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità, specialmente per la proprietà, che hanno i suoi strumenti, di estendere la loro azione (sul vicinato) al di là di quel che si desidera… Il che non fanno le altre arti che parlano alla vista, bastando che si rivolgano gli occhi altrove, quando non si vuol dar adito alla loro impressione. E’ presso a poco come del piacere che dà un odore che si spande lontano: Colui che tira fuori dalla tasca il fazzoletto profumato, tratta quelli che gli sono intorno contro la loro volontà e, se vogliono respirare, li obbliga nello steso tempo a godere”.

Subito dopo, quasi ad avvisare che non erano solo gli antichi a dir coglionate, ecco un brano da una lettera di Joyce a Frank Budgen: “Osservo un furtivo tentativo di contrapporre un certo signor Marcel Proust di quaggiù al firmatario della presente. Ho letto qualche pagina di costui. Non riesco a vedervi alcun talento particolare.” Decisamente, il Verri stava avviandosi a non rispettare più nessuno.

Il clima

Ma non bisogna dimenticare quello che stava avvenendo nelle altre arti. Non dirò dei pittori, che poi ci siamo ritrovati accanto alle prime riunioni del Gruppo 63, da Perilli a Novelli, da Franco Angeli a Fabio Mauri. Vorrei piuttosto ricordare quanto stava avenendo nell’ambiente musicale.

A Milano, ancora nel 1956, veniva fischiato Schönberg alla scala. Alla prima di Passaggio, con musica di Berio e testo di Edoardo Sanguineti, nel 1962: il pubblico era così inviperito che, per condannare questa cosa nuova e atroce, aveva gridato: «centro-sinistra!». Roberto Leydi, recentemente scomparso, che non è mai stato arruolato nel gruppo 63 ma viveva le vicende della nuova musica insieme alla riscoperta di quella dei tempi andati, ricordava che una volta, in non so quale occasione, lui e Berio erano stati accolti dal grido “andate in Russia!” Per fortuna non ci sono andati perché, con l’aria che vi tirava allora, sarebbero finiti in un gulag. Ma per il pubblico di quegli anni il nuovo era comunista. Dove si vede che le cose non sono tanto cambiate nel giro degli ultimi quarant’anni, ovvero che nel regno della malafede vige una legge dell’eterno ritorno.

C’era alla Rai di Milano, non ancora di Bossi, lo Studio di Fonologia musicale, diretto da Luciano Berio e Bruno Maderna, dove passavano smanettare con i nuovi strumenti elettronici Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Henry Pousseur ed altri. Sul finire degli anni cinquanta Luciano Berio aveva pubblicato i pochi numeri di Incontri Musicali, dove si è verificato il primo confronto tra teoria della Neue Musik e linguistica strutturale, con una polemica tra Pousseur e Nicolas Ruwet – e dagli articoli pubblicati in quella sede è nato nel 1962 il mio Opera Aperta. D’altra parte è stato proprio che in alcune serate musicali organizzate da Boulez a Parigi, verso la fine dei cinquanta ho incontrato Roland Barthes.

Al Laboratorio di Fonologia era arrivato anche John Cage, le cui partiture (a metà tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate sull’Almanacco Bompiani 1962, decicato alle applicazioni dei calcolatori elettronici alle arti – e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape Mark I di Nanni Balestrini. Cage aveva composto a Milano il suo Fontana Mix, ma nessuno ricorda perché si chiamasse così. Cage era stato messo a pensione presso una signora Fontana, era un bellissimo uomo, la signora Fontana era molto più matura di lui e cercava dei pretesti per possederlo in fondo al corridoio. Cage, che notoriamente aveva tutt’altre tendenze, resisteva stoicamente. Alla fine aveva intitolato la sua composizione alla signora Fontana. Poi, rimasto senza un soldo, via Berio e Roberto Leydi, era approdato a Lascia e raddoppia come esperto sui funghi, eseguendo sul palcoscenico improbabili concerti per frullino, radio e altri elettrodomestici, mentre Mike Buongiorno domandava se quello era futurismo. Si stavano creando misteriose connessioni tra avanguardia e comunicazioni di massa, e molto prima della Pop Art.

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Roma, 1960 Pier Paolo Pasolini con Italo Calvino al Caffe’ Rosati in piazza del Popolo

Per continuare con gli eventi di quegli anni ricordo che nel 1960 esce finalmente in Italia lo Ulisse di Joyce, ma prima ancora, proprio con Berio, Roberto Leydi e Roberto Sanesi si componeva un evento musicale basato sulle onomatopee del capitolo 11 dell’opera, Omaggio a Joyce. Se dovessimo definirlo oggi, era un tentativo di capire i significati lavorando sui significanti, ovvero un omaggio al linguaggio come chiave per capire il mondo.

Nel 1962 Bruno Munari organizza nella Galleria a Milano la prima mostra di arte cinetica e programmata, e di opere moltiplicate, con i contributi di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi e Grazia Varisco, del Gruppo N, di Enzo Mari e dello stesso Munari.

Voglio dire che il Gruppo 63 non nasce nel vuoto, né nel vuoto era apparsa l’antologia dei Novissimi coi testi di Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta e Balestrini.

In altra sede ho cercato di mostrare come molti di quei fermenti fossero espressione di un “illuminismo padano”, e non per caso Anceschi aveva scelto il nome di Verri per il titolo della sua rivista. Il Verri nasceva in quella Milano in cui durante la guerra le edizioni Rosa e Ballo avevanoi fatto conoscere i testi di Brecht, Yeats, gli espressionisti tedeschi e il primo Joyce, mentre da Torino Frassinelli ci aveva fatto conoscere e Melville, e il Portrait joyciano, e Kafka. Naturalmente termini come padano o lombardo hanno valore simbolico, perché a questo clima avevano appartenuto prima il sardo Gramsci e poi il siciliano Vittorini, e non sarà per caspo che la prima riunione del Gruppo 63 avvenga a Palermo nel corso di un festival musicale e teatrale di ampia apertura europea. Ma parlo di illuminismo padano perché l’ambiente culturale in cui nasceva il Gruppo 63 si caratterizzava per un rifiuto della cultura crociana, e dunque meridionale: era l’ambiente dei Banfi, del napoletano ormai torinese Abbagnano, dei Geymonat e dei Paci. Era l’ambiente in cui si scopriva il neopositivismo, si leggevano Pound ed Eliot, dove Bompiani nella collana Idee Nuove pubblicava tutto quello che nei decenni precedenti non era apparso nelle copertine floreali della Gius. Laterza e figli, dove il Mulino ci faceva conoscere teorie critiche ignorate sino ad allora, dai formalisti russi al New Criticism attraverso Wellek e Warren, l’ambiente dell’Einaudi, della Feltrinelli e poi del Saggiatore, che traducevano Husserl, Merleau Ponty o Wittgenstein, l’ambiente i cui si leggeva Gadda e si iniziava a riscorire uno Svevo di cui sino ad allora si diceva che scrivesse male, l’ambiente i cui Giovanni Getto leggeva il Paradiso dantesco avvicinandoci a una poesia dell’intelligenza che non era stata compresa appieno da un De Sanctis ancora legato a una poesia delle umane passioni.

edoardo sanguineti interno

edoardo sanguineti

Nel triangolo Torino-Milano–Bologna fiorivano i primi approcci alle teorie strutturalistiche. Si noti che, benché in seguito qualcuno abbia parlato di un matrimonio tra avanguardia e strutturalismo, la notizia è falsa. Quasi nessuno nel giro del Gruppo 63 si occupava di strutturalismo, che caso mai era praticato dai filologi pavesi e torinesi, come Maria Corti, Cesare Segre, D’Arco Soilvio Avalle, e i due filoni marciavano per così dire indipendenti (l’unica eccezione ero forse io). Ma questi incroci creavano un clima.

Mi ricordo che Eugenio Scalfari, che mi aveva invitato a collaborare all’Espresso nel 1965, mi diceva all’inizio, quando recensivo Lévi-Strauss, di non dimenticare che stavo scrivendo per un pubblico di avvocati crociani meridionali. Quello era il clima anche del pensiero più laicamente aperto alla novità, ma io rispondevo a Scalfari, che peraltro mi lasciava fare, che i lettori dell’Espresso erano ormai i nipoti di quegli avvocati crociani, leggevano Barthes o Pound, e si costituivano in scuola di Palermo.

E non bisogna dimenticare quale fosse allora l’ossatura della cultura marxista. Per i grandi dibattiti “ufficiali” sulle arti essa si allineava ai dettami del realismo socialista sovietico – e di lì le scomuniche ad autori pure vicini al PC che apparivano peccare vuoi di romanticismo di ritorno vuoi di qualche altra perversione, e non sto parlando di autori d’avanguardia ma del Pratolini di Metello o del Visconti di Senso, per non dire ovviamente del gelo di fronte ai film di Antonioni, che in parte assolto perché si suggeriva che mettesse in scena, sia pure sotto forma di drammi privati, l’alienazione del mondo capitalistico. Ma in effetti la formazione culturale dei marxisti italiani era ancora fondamentalmente crociana e idealistica.

Per capire questo clima occorre pensare agli sforzi fatti da Vittorini, peraltro già eretico sin dai tempi del Politecnico (titolo che ancora una volta richiamava l’illuminismo lombardo di Cattaneo) quando nel 1962 ha operato la svolta storica del Menabò 5. Nel 1961 Vittorini aveva dedicato il Menabò 4 alla letteratura industriale, intendendo col termine gli scrittori che si occupavano della nuova realtà dell’industria (da due anni Ottieri aveva pubblicato nei Gettoni il suo bellissimo Donnarumma all’assalto e sul Mebabò 4 pubblicava un “Taccuino industriale”). Nel Menabò 2 del 1960 Vittorini aveva già pubblicato “La ragazza Carla” di Pagliarani, poi pezzo forte dell’antologia dei Novissimi. Con il suo solito fiuto aveva deciso di dedicare il Menabò 5 a un nuovo modo di intendere l’espressione “letteratura e industria”, focalizzando l’attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia.. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti sopra lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio “Sul modo di formare come impegno sulla realtà” apparivano prove narrative oltraggiosissime di Edoardo Sanguineti, Nani Filippini e Furio Colombo. Vi appariva un saggio, apprentemente polemico, ma sostanzialmente complice, di Italo Calvino (“La sfida al labirinto”), che allora mi aveva detto: “Scusa, ma Vittorini [e dietro a Vittorini stava la cultura marxista dell’epoca, da cui egli si era liberato ma alla quale in fin dei conti doveva ancora rendere conto] mi ha chiesto di stendere un cordone sanitario.” Caro e amabile Calvino che in futuro avrebbe incrociato i suoi destini con quelli dei sentieri che si biforcano e con gli sperimentalismi dell’Oulipo.

Insomma, rispetto al mondo della cultura marxista i nuovi scrittori, che ritenevano che l’impegno stesse nel linguaggio e non nella tematica politicizzata, erano visti come mosche cocchiere del neocapitalismo, e non contava che tra di loro vi fossero alcuni, come per esempio Sanguineti, esplicitamente schierati a sinistra.

Incontro con Italo Calvino

italo calvino

Le contestazioni

Capire questo ambiente – e l’urto che si creava tra Gruppo 63 e altri settori della cultura italiana – serve a decifrare anche una serie di reazioni spesso furiose e di appassionate contestazioni. Per riandare solo a ricordi personali, nel 1962 Opera aperta (che pure, vi ricordo, parlava di Joyce e Mallarmé e persino di Brecht, e non della merda d’artista di Piero Manzoni), e poi il numero 6 di Menabò, se avevano suscitato consensi o feconda polemica “dal di dentro” da parte di Eugenio Battisti, Elio Pagliarani, Filiberto Menna, Walter Mauro, Emilio Garroni, Bruno Zevi, Glauco Cambon, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, e – strenuamente e intelligentemente polemico – Gianni Scalia, aveva subito dal di fuori attacchi feroci. Aldo Rossi su Paese Sera scriveva: “dite a quel giovane saggista che apre e chiude le opere, quasi fossero usci, giochi di carte o governi a sinistra, che andrà a finire in cattedra e che i suoi alunni, imparando a tenersi informati su decine di riviste, diventeranno così bravi da voler prendere il suo posto” (il che per fortuna fu mirabile profezia, e non ho mai capito perché i miei alunni non dovessero leggere decine di riviste). L’Unità per la firma di Velso Mucci parlava di ritorno al decadentismo, L’osservatore romano a firma Fortunato Pasqualino si chiedeva perché gli scrittori si stessero mai cacciando nel sottobosco della critica scientifica e filosofica e si votassero ad assurdi dilemmi extra-estetici. Su Filmcritica, allora di ispirazione paleomarxista, prova ne sia che ne era nume tutaleare il futuro missino Armando Plebe, si parlava di “opera aperta come opera assurda” Sull’Espresso, allora testata degli ultimi crociani abbarbicati all’intuizione lirica come gli ultimi giapponesi sulle isole del Pacifico dopo la fine della guerra, Vittorio Saltini si domandava con Machado (innocente) come mai “le più potenti perversioni del gusto avranno sempre dei soliti avvocati che difendano le loro maggiori stravaganze”. Rinascita, sia pure a insaputa del più prudente autore, Luigi Pestalozza, intitolava la sua recensione come “L’opera aperta musicale e i sofismi di Umberto Eco”. Paese Sera Libri condannava le improbabili esercitazioni sul linguaggio, Walter Pedullà sull’Avanti rilevava come “Eco stia a sostegno di pochi inesperti e modestissimi narratori d’avanguardia”.

Per non dire di quando nel 1963 ho pubblicato due articoli su Rinascita, per invito dell’indimenticabile e apertissmo Mario Spinella, per richiamare la cultura allora di sinistra a una attenta considerazione delle nuove letterature, degli studi sulle comunicazioni di massa. Apriti cielo. Solo Alberto Asor Rosa in Mondo Nuovo del novembre 62 ha prestato orecchio all’appello. La risposta più virulenta era arrivata da Rinascita, e pazienza che fosse da parte di di Rossana Rossanda, che non è mai riuscita in vita sua a cambiare una sola idea, ma è curioso che tra i più severi critici da parte marxista apparissero Massimo Pini, oggi AN, e un saggio in due puntate di un giovane marxista francese, secondo il quale cercare di mettere insieme strutturalismo e marxismo era impresa disperata e troppo neocapitalistica. Si chiamava Louis Althusser e queste cose le ha pubblicate su Rinascita 1963, due anni prima di scrivere Pour Marx e Lire le Capital. Bei tempi.

Nel corso di tutte queste vicende Montale seguiva in tono preoccupato gli eventi, che non riusciva ad accettare, ma ad essi dedicava numerosi articoli sul Corriere, come uno che s’interroghi – caso amirevole considerando la sua età e la sua storia.

eugenio montale 2La societa’ letteraria italiana

Dopo di che è stato quasi per forza di cose che un giorno Balestrini (e non so se fossi il primo con cui ne parlava, ma eravamo in una tavola calda vicino a Brera), mi ha detto che il momento era venuto di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi, ciascuno parlando male anzitutto dell’altro – poi, se avanzava tempo, degli altri, quelli che secondo noi intendevano la letteratura come “consolazione” e non come provocazione. Mi ricordo che Balestrini mi avea detto “faremo morire di rabbia un sacco di gente”. Ebbene sembrava una spacconata, ma ha funzionato.

Perché il Gruppo 63 che si riuniva a Palermo senza, all’inizio, strombazzare troppo l’iniziativa, e – se ci pensiamo bene – facendosi i fatti suoi, doveva fare arrabbiare tanta gente?

Per capire questa storia occorre fare un passo indietro a ricordare cosa fosse la società letteraria italiana (indipendentemente dalle posizioni ideologiche) verso la fine degli anni cinquanta. Si trattava di una società che era vissuta in difesa e in muto sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime – dico che non si allineavano quanto a scelte stilistiche, indipendentemente dalle convinzioni e persino dalle viltà politiche di molti – erano a mala pena tollerati. Si riunivanmo in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata. Era stato ingiusto, forse, Arbasino, a domandarsi perchè non avessero mai fatto una gita a Chiasso, dove avrebbero potuto trovare tutta la letteratura europea. Magari attraverso spalloni, ma Pavese aveva pur letto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori che aveva pubblicato in Americana. Ma, se da dentro riuscivano a ricevere tutto, o molto, essi non potevano andare fuori.

Debbo raccontare un episodio personale, e mi scuso, ma in quel caso ho avuto come una rivelazione. Dunque, nel 1963 il Times Literary Supplement aveva deciso di dedicare una serie di numeri , nel settembre 1963, a “The critical moment”, ovvero a un panorama delle nuove tendenze della critica. Sono stato invitato a partecipare, e come me erano stati invitiati Roland Barthes, Raymond Picard, che poi sarebbe diventao il suo arcinemico, George Steiner, René Wellek, Harry Levin, Emil Steiger, Damaso Alonso, Jan Kott e altri. Figurarsi il mio orgoglio, all’età di trent’anni essere messo in tale insigne compagnia, quando nessuno dei miei testi era ancora stato tradotto in inglese. Credo di averlo detto a mia moglie, per mostrarle che non aveva sposato proprio l’ultimo degli imbecilli, e poi ho taciuto.

Sta di fatto che l’altro italiano invitato era Emilio Cecchi, dico Emilio Cecchi, uno dei più illustri studiosi di letteratura anglo-americana. Nessuno era più degno di lui di essere incluso in quella lista. Ebbene, Emilio Cecchi, onusto di lauri accademici, considerato all’epoca l’unico che potesse competere con Mario Praz per il titolo di massimo anglista italiano, in occasione di quell’evento ha scritto due articoli sul Corriere della Sera, uno per dire che era in opera quella raccolta, uno per recensirla appena uscita.

Che cosa vuole dire questo? Che un uomo come Emilio Cecchi, dopo anni di dittatura e di guerra, trovava finalmente ascolto nel mondo anglosassone, e ne era giustamente fiero. Io, per quanto mi riguardava, ritenevo perfettamente normale che gli inglesi mi avessero letto in italiano nel 1962 e mi chiedessero un intervento nel 1963. Per la mia generazione, il mondo si era allargato. Non andavamo a Chiasso, ma a Parigi e a Londra in aereo.

Eugenio Montale upupaSi era verificato uno scarto drammatico tra noi e la generazione precedente, che ha dovuto sopravvivere sotto il fascismo, perdere gli anni più belli nella resistenza, o nelle squadre di Salò. Noi, quelli nati intorno agli anni trenta, siamo stati una generazione fortunata.. I nostri fratelli maggiori sono stati distrutti dalle guerra, se non sono morti si sono laurerati con dieci anni di ritardo, alcuni di essi non sono riusciti a capire che cosa fosse il fascismo, altri lo hanno imparato a proprie spese faticosamente nei Guf. Noi siamo arrivati alla liberazione e alla rinascita del paese che avevamo chi dieci, chi quattordici, chi quindici anni. Vergini. Consapevoli abbastanza per aver capito quello che era accaduto prima, innocenti abbastanza perché non avevamo avuto il tempo di comprometterci. Noi siamo stati una generazione che ha iniziato a entrare nell’età adulta quando tutte le opportunità erano aperte, ed eravamo pronti a ogni rischio, mentre i nostri maggiori erano ancora abituati a proteggersi l’uno con l’altro.

Agli inizi qualcuno aveva parlato del Gruppo 63 come di un movimento di giovani turchi che cercavano con azioni provocatorie di dare la scalata alle roccaforti del potere culturale. Ma se qualcosa distingueva la neo-avanguardia da quella d’inizio secolo, era che noi non eravamo dei bohémien che vivevano in soffitta e cercavano disperatamente di pubblicare le loro posia nel giornaletto locale. Ciascuno di noi, a trent’anni, aveva già pubblicato uno o due libri, era ormai inserito in quella che si chiamava allora l’industria culturale, e con mansioni direttive, chi nelle case editrici, chi nel giornali, chi nella Rai. In questo senso il Gruppo 63 è stato l’espressione di una generazione che non si ribellava dal di fuori bensì dal di dentro.

Non è stata una polemica contro l’establishment, è stata una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno certamente nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Se è vero che gli avanguardisti storici erano incendiari che morivano poi da pompieri, il Gruppo 63 è stato un movimento nato nella caserma dei pompieri, dove poi alcuni sono finiti incendiari. Il gruppo esprimeva una forma di gaiezza, e ciò faceva soffrire lo scrittore che per definizione si voleva sofferente.

bello diabolik ed Eva Kant

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

Rivoluzione nelle forme

La cosiddetta neo-avanguardia del Gruppo 63 irritava la cultura che allora si diceva impegnata (fondata, lo abbiamo visto, su un connubio tra poetica del realismo socialista e marx-crocianesimo, ircocervo, a pensarci bene oggi, assai curioso, una sorta di Casa delle Libertà culturale in cui potevano convivere fieri reazionari (almeno dal punto di vista letterario) e impegnati socialisti, paleo-idealisti e materialisti vuoi storici che dialettici. Il Gruppo 63 non pareva credere al gesto rivoluzionario, fosse pure quello dei futuristi che scandalizzavano i buoni borghesi al Salone Margherita. Aveva ormai capito che i gesti rivoluzionari, nella nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così duttile e smaliziata da far proprio ogni elemento di disturbo, e fagocitare ogni proposta di eversione immettendola in un circolo dell’accettazione e della mercificazione. L’eversione artistica non poteva più assimilarsi all’eversione politica. E quindi la neo-avanguardia, ponendosi come progetto di eversione dal di dentro, tentava di aggiustare il tiro, di spostare la polemica su obiettivi più radicali, difficilmente immunizzabili, di cambiare i tempi e le tecniche di guerra e soprattutto di anticipare o provocare, attraverso le soluzioni dell’arte, una visione diversa della società in cui si muoveva.

La vocazione profonda della cosiddetta neo-avanguardia era stata individuata bene da Angelo Guglielmi, nel 1964, nel suo Avanguardia e sperimentalismo. Se l’avanguardia era sempre stata movimento di rottura violenta, diverso era lo sperimentalismo, per cui se i futuristi, i dadaisti, i surrealisti erano stati avanguardia, scrittori sperimentali erano stati invece Proust, Eliot o Joyce. E certamente la maggior parte dei convenuti al convegno di Palermo 1963 stavano più dalla parte dello sperimentalismo che da quello dell’avanguardia.

Per questo, a proposito della prima riunione di Palermo, avevo parlato di una Generazione di Nettuno, opposta alla Generazione di Vulcano, e avevo coniato l’espressione di “avanguardia in vagone letto” (malignamente pensando a Mussolini, che non aveva preso parte alla marcia su Roma e aveva raggiunto appunto in vagone letto, il giorno dopo, i suoi plotoni, ben sapendo che la marcia contava assai poco, visto che il re era d’accordo, e un parlamento democratico lo si scalza a poco a poco dal di dentro e non prendendo una Bastiglia ormai vuota).

L’accostamento era sarcastico, ma serviva a polemizzare con chi si stava ancora immaginando i neo-avanguardisti come truppa d’assalto al palazzo d’inverno del potere letterario. Voleva dire che sapevamo benissimo che avrebbero rifiutato di metterci in prigione, e non valeva la pena di farsi eroiche illusioni. Al gesto rivoluzionario si voleva sostituire la lenta sperimentazione, alla rivolta la filologia. Scrivevo allora:

Al gesto che chiarifica tutto in un colpo (la mia posizione e quella degli altri) succede la proposta che al momento non chiarisce ancora nulla, … solo si sa che la direzione è buona, e a lunga scadenza i semi che si stanno gettando daranno un frutto insospettato. Per il momento, nel corso della fase mediana, anche il lavoro che si fa entrerà a far parte del gioco (nulla ne esce): ma intanto grazie a questo lavoro si sta configurando un nuovo modo di vedere le cose, di parlare delle cose, di individuare le cose per agirvi. Non c’è alibi eroico che, al momento, dia giustificazione di sorta. Si sta come, nella taverna, Jenny dei Pirati : un giorno verrà una nave, e Jenny schioccherà le dita e farà cadere le teste. Ma per intanto Jenny lava i piatti e rifà i letti. Intanto scruta nel volto gli avventori, ne mima i gesti, il modo di bere il vino… preme la mano sui guanciali per rifare forme delle teste che vi si sono posate. In ogni suo gesto … si cela un progetto, un esperimento di gesti diversi. E non è detto che Jenny faccia solo questo: già sin d’ora potrà intrattenere un carteggio segreto con la Tortuga, a tarda notte muovere la lampada davanti ai vetri della sua stanza per segnalare i movimenti degli avventori; e darà rifugio sotto il suo letto ai compagni braccati. Ma questo farà come un’altra Jenny, che non è la Jenny della locanda, con la sua funzione tecnica precisa, lavare i piatti e rifare i letti. Come son fatti i piatti ? Di quale legno i letti? E c’è una relazione tra il legno e la forma dei letti, e la natura degli avventori? Cosa di questo sarà ricuperabile il giorno dello sbarco? Jenny perciò non fa rivoluzioni, nel suo mestiere. Fa della filologia. Ma il gesto sperimentale non potrà attardarsi su se stesso – nella sequenza delle ricerche successive non si perderà di vista il fine? Nulla di piu facile. Di quì la necessità di un controllo reciproco, di una discussione, non ad opera finita, ma mentre l’opera si fa. I gesti di ciascuno sono così diversi che solo confrontandoli fase per fase se ne potranno individuare le direzioni comuni o complementari. La generazione ha capito che, poiché la verifica non è più data dallo scandalo effettivo di ogni singola proposta; non rimane che la verifica comune, l’incontro e il. controllo delle triangolazioni. Certo, nulla piu dell’effusione lirica individuale sfugge a ogni triangolazione: segno che la generazione non crede all’effusione lirica. E se con essa si identifica la poesia, ebbene, sia chiaro che la generazione non crede neppure alla poesia. Evidentemente crede a qualcos’altro. Forse non ne conosce neppure ancora il nome.

Alberto Moravia esistenzialismo

Alberto Moravia scrittore dell’esistenzialismo

Immaginatevi se l’estetica del realismo socialista poteva vedere con favore simili affermazioni. Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria non era stata la posizione che diremmo “politica” del Gruppo. Era stata una diversa disposizione al dialogo e al confronto. Ho parlato di una società letteraria confinata nei propri luoghi deputati, e impegnata per ragioni storiche di sopravvivenza a proteggere i propri membri e a mantenere intatto l’unico suo capitale, la idea sacrale del poeta e dell’uomo di cultura. Era una generazione che poteva conoscere il dissenso, ma lo consumava attraverso un mutuo ignorarsi delle varie conventicole, e preferiva la malignità sussurrata al bar alla stroncatura su un pubblico elzeviro. Per così dire era una generazione abituata a lavare i panni sporchi in famiglia (se ne distinguevano solo i marxisti, per tradizione inclini alla polemica e all’attacco, ma anche in quei casi, tranne che venissero messi in causa i canoni di un’estetica di partito, il tentativo era piuttosto quello di arruolare compagni di strada, non di respingerli).

Cosa era stato invece messo in scena a Palermo? Intorno a un tavolo un gruppo di poeti, romanzieri, critici (e pittori e musicisti in funzione di auditori) ascoltava alcuni dei presenti che leggevano le loro opere più recenti. Capitoli, pagine, frammenti, esempi, excerpta. Se i presenti costituivano un gruppo, a prima vista pareva fosse per le sole ragioni per cui fu “gruppo” il manipolo di vittime sul ponte di San Luis Rey. Insieme alla squadra del Verri sedevano chi, come Pignotti, veniva da diverse esperienze fiorentine; o come Leonetti, da una linea Officina-Menabò; e vagantes come Ferretti, come Marmori isolato a Parigi, o Amelia Rosselli, a cui sarebbero poi toccati padrini che a Palermo non c’erano.

E anche tra i collaboratori del Verri già esistevano divergenze di opinioni venute in chiaro in quei giorni, prefìguratesi già da tempo, acuitesi in seguito. La valutazione che Sanguineti e Barilli davano del marxismo era, a esempio, difforme. Sui problemi dell’opera aperta la posizione di Guglielmi era lontana dalla mia. Sarebbe stato difficile trovare analogie di poetica tra il fiume verbale della Rosselli e la precisione brechtiana di Pagliarani. Sull’atteggiamento emotivo verso i dati della realtà tecnologica contemporanea Balestrini e Pignotti, pur così diversi tra loro, si erano trovati di fronte all’opposizione radicale di Sanguineti. E poi, basta mettere di fronte una pagina di Balestrini e una di Manganelli per domandarsi, con qualche buona ragione, che cosa avessero in comune quei due curiosi individui.

Eppure le persone convenute a Palermo erano accomunate sia da una volontà di sperimentazione che da una esigenza di dialogo rissoso, senza pietà e senza infingimenti. Gli scrittori si leggevano a vicenda i loro testi ma, dato che c’erano fratture originarie, nessuna lettura fatta riscuoteva il consenso generale. Non ci si dichiarava perplessi: ci si diceva contro. E si diceva il perché. Quali fossero i perché non conta. Conta che in questa società letteraria l’unità si stava realizzando a poco a poco attraverso due implicite assunzioni di metodo: I) ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca sottoponendola alle reazioni altrui; 2) la collaborazione si manifestava come assenza di pietà e di indulgenza. Correvano definizioni da levare la pelle agli animi troppo sensibili. Espresso pubblicamente nell’ambito di una società letteraria apollinea, ciascuno di questi giudizi avrebbe segnato la fine di una bella amicizia. A Palermo il dissenso generava invece amicizia.

Ripellino-Bosco

Angelo Maria Ripellino a Praga

Mi ero reso conto che il gruppo esisteva, solo giorni dopo, parlandone con un letterato di altra generazione. Cercavo di dimostrargli che a Palermo non si era costituito un movimento omogeneo. Alle tre accuse: “Vi rimprovero di avere fatto gruppo. Di averlo fatto su base generazionale. Di averlo fatto in opposizione a qualcuno e a qualcosa”, facevo osservare che era tipico di ogni epoca il costituirsi di correnti, che spesso il denominatore comune era su base generazionale (si licet, Sturm und Drang, Scapigliatura, Die Brűcke o Ronda), e opponevo comunque l’argomento conciliante e definitivo: lui stesso, se avesse voluto, avrebbe potuto venire a Palermo, sedere a quel tavolo, leggere il. suo testo più recente; e sarebbe stato accolto col rispetto e la stima dovuta all’autore, e la franchezza dovuta a quegli oggetti di esercizio critico che sono le opere. Risposta: “Io non sarei mai venuto a Palermo. Non accetto di sottoporre ad altri un lavoro in fieri. Lo scrittore realizza se stesso solo davanti alla pagina bianca, e in quella si conclude, realizzandola.” Cosa rispondere ?

Questo era stato il messaggio offensivo lanciato dal gruppo e, a rileggere le razioni di allora, c’è da rimanere sconcertati di fronte alle ripulse, le proteste, i barricamenti difensivi. Anzi, oserei dire che la fortuna del Gruppo, la sua visibilità massmediatica, è stata dovuta ai suoi avversari.

Rimane tipica la faccenda delle Liale 63. Era stato Sanguineti, mi pare, a dire che Cassola e Bassani erano le Liale 1963. Battuta che ora ritengo ingiusta almeno rispetto a Bassani, senza dimenticare che all’epoca accanito denigratore del Giardino dei Finzi-Contini era proprio Vittorini. Ma insomma, se la battuta fosse stata lasciata cadere, o avesse circolato come una delle tante boutades messe in giro in Piazza del Popolo o in Via Veneto da Flaiano o Mazzacurati, saremmoi rimasti all’aneddoto a circolazione orale. Invece fu proprio Bassani, evidentemente impreparato al gioco provocatorio dell’invettiva e uso a ben altra, come si diceva allora, civiltà letteraria, a scatenare un’accorata polemica su Paese Sera, contribuendo ad allargare lo scandalo a macchia d’olio.

D’altra parte, qualche anno dopo gli amici fiorentini, con la complicità mia e di Camilla Cederna, avevano organizzato un Premio Fata, da opporre al Premio Strega, e da essere conferito al libro più brutto dell’anno. Niente più di una idea goliardica, e la giuria aveva fatto apposta ad assegnarlo a Pasolini. E Pasolini, polemista così combattivo e per tanti versi attento alle nuove provocazioni culturali, non aveva resistito e – sapendo che il premio sarebbe stato assegnato a lui – aveva inviato per la sera della premiazione una lettera in cui spiegava perché il verdetto fosse ingiusto.

Come si vede, non si può negare una componente goliardica a tente provocazioni del gruppo, ma il gruppo andava a finire sulle pagine dei giornali non per le sue imprese da studente beffardo, bensì per le reazioni scandalizzate dei presidi colpiti dalla beffa.

Passati poi i primi e poco eroici furori, le opposizioni alla neo-avanguardia hanno preso un’altra strada: non si parlava più di monellacci insolenti, ma si diceva che il gruppo esprimeva molte belle teorie e nessuna opera valida. Questa contestazione dura ancora adesso, ma si avvale di un delizioso argomento che definirò del carciofo. Quando il tempo ha fatto giustizia e si è scoperto, da parte della critica ufficiale, che Porta era un grande poeta, Germano Lombardi o Emilio Tadini grandi romanzieri, Manganelli un altissimo prosatore o, per parlare di chi è stato assolto ancora in vita, non si è potuto negare (e faccio solo due esempi senza pretendere di esaurire l’elenco) il talento di Arbasino o di Malerba, allora si è detto: ”Sì, ma costoro non appartenevano di fatto al gruppo, erano soltanto di passaggio.” Ora è ovvio che, se io denigro il cinema americano e, quando qualcuno mi cita Orson Welles o John Ford, Humphrey Bogart o Bette Davis, e via dicendo, a ogni nome io rispondo che però quelli non erano veramente americani nel senso più profondo del termine, alla fine del gioco, tolte via via le varie parti del carciofo, il cinema americano si riduce a Gianni e Pinotto e io ho vinto la partita. Ma così si è fatto e ancora si sta facendo su varie gazzette.

foto donna mascherataRimettersi in causa

Certamente, come in tutti i cenacoli d’avanguardia, si è spinta talora la polemica e la sperimentazione all’eccesso, basti pensare al gusto dell’illeggibilità. Però ritengo sia stata una stagione produttiva, in cui in ogni caso si è concimato molto. Ma soprattutto non ès stata una stagione dogmatica, nel senso che nel corso degli anni (e questo certamente sconcertava ancor più gli avversari) attraverso le sue varie riunioni il Gruppo sapeva rimettere in questione le idee dell’inizio.

A questo proposito vorrei ricordare la riunione del Gruppo del 1965, due anni dopo. Vorrei ricordare la relazione iniziale di Renato Barilli, già teorico di tutti gli sperimentalismi del Nouveau Roman, che si trovava a quel punto a fare i conti col nuovo Robbe Grillet, e con Grass, e con Pynchon, e citava il riscoperto Roussel, che amava Verne. Diceva Barilli che sino ad allora si era privilegiata la fine dell’intreccio, e il blocco dell’azione nell’epifania e nell’estasi materialistica, ma che stava iniziando una nuova fase della narrativa con la rivalutazione dell’azione, sia pure di una azione autre. In quei giorni era stato proiettato un curioso collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica incerta, una storia fatta con spezzoni di storie, anzi di situazioni standard, di topoi del cinema commerciale. E si era visto che il pubblico aveva reagito con maggior piacere proprio nei punti in cui, sino a pochi anni prima, avrebbe dato segni di scandalo, e cioè dove le conseguenze logiche e temporali dell’azione tradizionale venivano eluse e le attese apparivano violentemente frustrate. L’avanguardia stava diventando tradizione, ciò che appariva dissonante qualche anno prima diventava miele per le orecchie (o per gli occhi). L’inaccettabilità del messaggio non era più criterio principe per una narrativa (e per qualsiasi arte) sperimentale, visto che l’inaccettabile era ormai codificato come piacevole. Ma quello che attirava nel lavoro di Baruchello e Grifi era la rivisitazione ironica e critica di un piacevole filmico che veniva rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in crisi.

In quei giorni a Palermo 1965 era stata discussa, senza ancora saperlo, la insorgente poetica del post-moderno, solo che all’epoca il termine non circolava ancora.

Sin dal 1962 un musicista severamente seriale come Henry Pousseur, parlando dei Beatles, mi diceva “essi lavorano per noi”, ed io gli rispondevo che anche lui stava lavorando per loro (e in quegli anni Cathy Berberian ci mostrava che i Beatles potevano essere eseguiti in uno stile alla Purcell).

Dall’interno del Gruppo si avvertiva che, se la sperimentazione precedente aveva portato alla tela bianca, alla scena vuota, o (e credo che sia stato il prodotto estremo del primo Gruppo 63) nel 1968 Gian Pio Torricelli pubblicava da Lerici Coazione a contare, in cui per una cinquantina di pagine apparivano stampati in lettere alfabetiche, l’uno appresso all’altro e senza virgole, i numeri da uno a cinquemilacentotrentadue – se a questo si era giunti, finiva allora un’epoca e doveva incominciarne un’altra.

Un’epoca in cui Balestrini passava dal collage di parole a un collage di situazioni sociopolitiche, Sanguineti non abbandonava del tutto la Palus Putredinis dei primi anni cinquanta ma si avventurava nel 1963 con Capriccio italiano e nel 1967 con Il Gioco dell’oca in territori di più affabile narratività, e potrei continuare con altre citazioni.

foto le gambe sbagliate

foto le gambe sbagliate

La contraddizione e il suicidio

Quale è stata la contraddizione fondamentale del Gruppo 63? Ho detto che, non potendo rifare la scelta innocente delle avanguardie storiche, la maggior parte dei partecipanti al Gruppo praticavano un più sotterraneo sperimentalismo letterario, e non a caso loro nume tutelare non erano dadaisti o futuristi ma Gadda. E tuttavia nella stessa definizione di neo-avanguardia, che non ricordo più se fosse stata appioppata dall’esterno o venisse dall’interno, o arrivata dall’esterno fosse stata accettata con ilare serenità – giocava ancora i richiamo alle avanguardie storiche. Ora c’è una differenza sostanziale tra movimenti di avanguardia e letteratura sperimentale, ameno quanta ce ne poteva essere tra Boccioni e Joyce.

Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia aveva bene fissato le caratteristiche di questi movimenti. Erano: attivismo (fascino dell’avventura, gratuità del fine), antagonismo (si agisce contro qualcosa o qualcuno), nichilismo (si fa tabula rasa dei valori tradizionali), culto della giovinezza (la querelle des ancien set des modernes), ludicità (arte come gioco), prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda (violenta imposizione del proprio modello a esclusione di tutti gli altri), rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, nel senso di senso agonico dell’olocausto, capacità di suicidio al momento giusto, e gusto della propria catastrofe.

Invece lo sperimentalismo è devozione all’opera singola. L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardistica.

Ora nel Gruppo 63 sono convissute le due anime, ed è ovvio che l’anima avanguardistica abbia prevalso nel creare la sua immagine massmediatica. Se i testi sperimentali, a dispetto di tante contestazione, ancora rimangono, i gesti avanguardistici non potevano che vivere una breve stagione.

Il momento in cui il Gruppo 63 ha scelto definitivamente la via dell’avanguardia è stato paradossalmente quello in cui ritornava, dallo sperimentalismo sul linguaggio, all’impegno pubblico e politico. E’ stata la stagione di Quindici, che ha visto drammatiche conversioni all’utopia sessantottesca, o sofferte resistenze, e alla fine ha portato la rivista (e indirettamente, con essa, il Gruppo) a un deliberato suicidio – proprio nel senso dell’agonismo di Poggioli. Nella catastrofe stoicamente voluta di Quindici sono venute ovviamente allo scoperto divisioni che esistevano sin dall’inizio, ma che erano state superate grazie alla scelta del dialogo reciproco. Confrontandosi con le tensioni immediate di un periodo storico tra i più contradditori e animati, il Gruppo ha deciso che non poteva continuare a fingere un’unità che non c’era all’inizio. Ma questa assenza di unità che aveva fatto la sua forza interna, e la sua energia di provocazione all’esterno, ora ne sanciva il giusto suicidio. Il Gruppo si consegnava, se non alla storia, almeno alle occasioni celebrative di un quarantennio più tardi.

Fu vera gloria? Tutti possono rispondere, meno che noi. Che quel lavoro abbia dato dei frutti, lo credo, e si può creare tradizione ed esempio anche attraverso i propri errori. Soltanto mi spiace che questa riunione sia incompleta e che lungo il cammino siano caduti, tra i più noti, Antonio Porta, Giorgio Manganelli, Enrico Filippini, Emilio Tadini, Adriano Spatola, Corrado Costa, Germano Lombardi, Giancarlo Marmori e, tra quelli che erano stati allora attivi compagni di strada, Amelia Rosselli, Pietro Buttitta, Andrea Barbato, Angelo Maria Ripellino, Franco Lucentini, Giuseppe e Guido Guglielmi, per non dire di Vittorini e Calvino. Che il loro ricordo accompagni questo nostro simposio e gli dia l’unica e ragionevole nota di nostalgia.

 

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Donato di Stasi Sanguinando per Edoardo Sanguineti (1930-2010) (Qualche verità sull’Avanguardia) Con una scelta di testi da “Laborintus”, “L’intera impalcatura poematica si sostiene su tre capisaldi: retorica, etica, gnoseologia”, “L’universo reificato della Palus Putredinis”, “Utopia e Distopia: da Postkarten a Cataletto”, “Finale di partita”, “il kitsch, il trash, il pulp e lo splatter”

edoardo sanguineti interno

edoardo sanguineti

Scrittore a tenuta stagna, professore, deputato, Edoardo Sanguineti (1930-2010) lascia zeppo di sue pubblicazioni il lettino dell’ambulatorio junghiano e marxiano. Crede nell’eticità della Storia, praticando una sua morale sincretica stoico-epicurea, riversata appieno in quel Gruppo 63, che segna negli anni del boom economico italiana una stagione innovativa, una decente idea di letteratura, dopo le patacche del tardo ermetismo e del neorealismo. Ciò che maggiormente impressiona in Lui è la dimensione che assume, avendo spintonato la metafisica, per una volta sul serio, al di là delle pagine: autore mefitico e mefistofelico, lavora a un puzzle aforismatico ton-sur-ton, senza divagare quasi mai, avvalendosi al riguardo di una inattaccabile disciplina dialettica.

Sanguineti è un angosciato materialista storico: le sue fabbriche testuali spaziano in un pessottimismo antimanieristico, scrutano e analizzano, incidono le piaghe sociali con il bisturi della praxis, producendo distinzioni fra il kitsch e il trash, il pulp e lo splatter, in buona sostanza la circolarità infinita delle merci che inzeppa senza vergogna il Magazzino dei Monatti Globalizzato.

Non c’è affaccio nelle similprose sanguinetiane: i paesaggi vengono catalogati come pattumiere, il clima richiama un immarcescibile Dies Irae, le città oniriques (vere e proprie installazioni dell’Inconscio Collettivo) non smaltiscono che lenzuola sporche e piatti ingrommati. Rinsaldando coordinate esclusivamente empiriche, Sanguineti rivolta per terra lirismi e teatrini sentimentali, si proietta dentro una foschia spazio-temporale che attende pur sempre i bagliori dell’utopia.

Scavando e riscavando nella prima metà della torbiera poetica del Nostro si incontrano strati ostili, inerziali, tanatici, al limite dell’imbarazzo per il senso comune, eppure appetibili per chiunque voglia continuare a praticare gli spasmi dell’intelligenza. L’occhio digitale corporeo registri per l’intanto il prensile elenco di opere con tanto di charme trecentesco (il glamour della Comedìa dantesca) e di stizzosissime ironie pro disgraziati e diseredati: Catamerone (1951-1971), Postkarten (1972-1977), Stracciafoglio  (1977-1979), Scartabello (1980), Cataletto (1981), Fuori catalogo (1957-1981), il tutto racchiuso nel feltrinelliano Segnalibro. Poesie 1951-1981, pubblicato nel 1982 (qui segnatamente viene compulsata la riedizione del 2010).

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

Nel 1956 il poeta ligure schiaccia sulla mesta tradizione italiana il suo poundiano Laborintus, fatto uscire nella collana Oggetto e Simbolo diretta da Luciano Anceschi, mallevadore di lì a poco della fortunatissima rivista il Verri. Sbaglia chi assimila Laborintus al ready-made duchampiano (un coacervo di materiali affastellati impoeticamente): qui si seziona, si stravolge, si muove la macchina significante a piacimento, si spinge il pedale della  corporeità, delle superfici tattili, dello scontro fisico con il Nulla. Non che la versificazione non risulti a tratti indigeribile, a causa degli infiniti rimandi ipertestuali che schianterebbero l’erudito più pedante in odore di faustismo, ma è come se lo stomaco-cervello dell’Autore volesse digerire l’intera cultura occidentale per vomitarla con lucidità e circospezione, al fine di proporre un nuovo modello di soggettività critica, libertaria, edonistica, moderatamente cinica, virtuosa senza esitazioni, volta a stabilire un contatto autentico con la natura profonda delle cose.

Sanguineti porta sulla sua gobba di studioso le deformazioni e le trasfigurazioni di una lingua ripetitiva, parentetica, esclamativa, gonfiata volutamente di arcaismi medievali e di modernità franco-tedesche; in questo senso rimuove  le barriere del provincialismo nostrano, impastando la tradizione mitteleuropea con il Perelà di Palazzeschi, i futuristi fino ad allora ostracizzati, il bric-à-brac di Gozzano, le Revolverate di Gian Pietro Lucini e avant tout  l’Alighieri, quale feroce accusatore di un’Italia guasta e stercoraria, oltre che ineffabile manipolatore di linguaggi pietrosi.

Riconoscibili di primo acchito, i versi a lungo metraggio di Laborintus riprendono la vocazione epifonematica della mistica biblica, i protratti respiri epici di Whitman, le potenti figurazioni surreali di Laforgue, e ancora le corrosive oggettivazioni della premiata ditta novecentesca, a firma Eliot&Pound.

Si assiste a una strana mistura di eros, epos  e thanatos: l’ars  sanguinetiana ruota attorno a organismi strofici mutili, ellittici, sghembi come I giocatori di carte di Paul Cézanne (“e noi; non come Plinio (noi) Ruben; iste fuit ille; der Jude; / semper suspensi (nos); non recitiamo (noi) storia; MARMORIBUS das Jot”, Laborintus, XXVII, p. 48).

Che dire di questo chierico marxiano, vagante per i sopramondi intellettuali, la cui utopia non si è realizzata? Si può dire questo:  per Lui una società tanto mefitica e purulenta (qual è la nostra)  non può avere speranza di salubrità.

edoardo sanguineti fuma

edoardo sanguineti

Laborintus  si pone come un’opera aperta, una torre moresca da cui avvistare massacri enormi di parole, immense città morte di libri servili e qualche sparuta colonna dorica di autori méprisés (Lukàcs e Restif de la Bretonne, per citarne un paio).

Sanguineti non ha lacrime in tasca, né sofferenze antiche sui degradi del cuore, piuttosto un bisogno di muoversi per ridurre il décalage  fra il Paese Reale e la Perenne Vacanza della Repubblica delle Lettere, à propos conia la metafora disottundente della Palus Putredinis, vero lascito testamentario del nostro rhétoriqueur. La Palus implica il concetto di solitudine totale in un universo reificato, dove si perde l’essenza stessa dell’essere umano; qui con la macellazione delle parole affiorano i rimasugli di relazioni fallite, le finte decorazioni del lamentismo, il pessimo lusso di una civiltà che si pretende eterna. Di fronte a individui che vengono ottenebrati e istruiti a essere niente, il protagonista, Laszo, impara la consistenza carnea della coscienza collettiva e l’inconsistenza del solipsismo: non si fa fatica a registrare l’impressione di un werk affollato, polifonico, scritto e proclamato in pubblico (“con le quattro tonsille in fermentazione con le trombe con i cadaveri / con le sinagoghe devo sostituirti con le stazioni termali con i logaritmi / con i circhi equestri / con dieci monosillabi che esprimano dolore”, Laborintus, XIV, p. 31).

Per assestare un colpo mortale alla catatonia moderna, Sanguineti ingrossa le pagine, ne dilata l’orizzonte linguistico, ricorre a una scrittura smisurata, stridula, deflagrante, che prende atto dell’avvenuto, senza però avere molta forza e altrettanta voglia di preparare un qualsiasi avvento. Non crede il Nostro nel poema-mito, quale costruzione simbolica del mondo, per questa ragione nelle sue pagine-schema adotta la prassi della decostruzione semantica, senza peraltro raggiungere mai la spregiudicatezza nichilistica della tabula rasa, altrimenti non si sarebbe messo a competere in abilità con gli ordini retorici medievali e rinascimentali.

L’intera impalcatura poematica si sostiene su tre capisaldi: retorica, etica, gnoseologia, strettamente cooperanti ad arringare e concionare, piuttosto che a discorrere impressionisticamente. Ne  è dimostrazione la rinuncia a esprimersi come individuo lirico per assumere kafkianamente, senza investitura da parte di chicchessia, l’incarico di portavoce della crisi in sé,  di una moltitudine di disagi storicamente determinati.

edoardo sanguineti mani

edoardo sanguineti

Eppure pochi si accorgono della rivoluzione critica e teorica di Laborintus, pochissimi colgono la laboriosa ruminazione novecentesca del Nostro, fermandosi per lo più all’aspetto secondario del citazionismo per il tramite di sequenze logiche (montaggio&assemblaggio) di materiali variantissimi.

Ribollente e avventuroso, Laborintus attacca le forme sociali rancide del capitalismo, sostituendovi il pigmento forte della provocazione e della semanticità più radicale (“il mio der Mensch ist gut / la mia tessitura delle idee / la mia impaginazione per mezzo della complicazione / la mia complicazione e idea come ossessione / pensiero come limitazione / ordine come limitazione come negazione ordine come semplificazione pensiero / come implicazione o deduzione o previsione complicazione / come affermazione sperimentale nuova relazione melmosa the exudation”, Laborintus, VI, p. 19).

A distanza di sessant’anni che cosa rimane di un opus così corrosivo rispetto agli enunciati foucaultiani, melliflui, del Potere? Più del felice ludus liberatorio, sopravvive l’indicazione di una salutare abissalità, di una complessità capace di articolare sapidi significati per ogni piano ontico-esistenziale.

Laborintus turbina come un’apocalisse, per questo sbagliano gli imitatori a stazionare esclusivamente sul diametro dell’asemanticità: ottengono il disastroso effetto di produrre un gorgo di testi oscuri, illeggibili, francamente inutili.

La spiazzante creatività sanguinetiana merita altra sorte, di certo letture sfrontate, senza temere incontri/scontri taglienti e sanguinanti con i testi.

 A guardare bene Laborintus soffre di bibliofagia, nel senso che divora, formalmente e concettualmente, i libri successivi: Sanguineti non si rinnova, interpreta se stesso, eccede in confidenza, istituzionalizza la sua inquietudine che finisce per diventare quel solco retorico dentro al quale inciampano gli epigoni, invischiati nel reculer pour mieux sauter (rinculano verso la destrutturazione per saltare nello sterile gioco linguistico fine a se stesso). Nei brogliacci post Laborintus  il Professor Sottile si limita  a immettere un sovratono di filologia, in accordo con Saint-Beuve, secondo cui la qualità in letteratura dipende dall’aver frequentato un buon corso di retorica; ne consegue che l’eversione linguistica del Nostro abbandona il piano utopico di una palingenesi sociale per naufragare nelle acque  distopiche del conservatorismo italian style.

 Non smette mai di piovere fra una strofa e un’altra, spira un’aria di tregenda nell’opus qui al vaglio ermeneutico, dunque Sanguineti condannato alla postumità, a un irraggiungibile totemismo che spaventa il lector medius, spinto a rintanarsi nei parchi edenici della Grande Consolatrice (la poesia tayloristica, la catena di montaggio lirica)?. Loook to this poet: i suoi versi si scaldano fino a diventare una graticola su cui bisogna farsi rosolare per capire qualcosa dello zeitgeist;  sulle braci della tradizione offre un esercizio critico adulto, lontano dalla narcosi a occhi aperti e dall’infantilismo, malattia suprema del postmodernismo.

edoardo sanguineti massima

testo di e. sanguineti

Trattasi di écriture pour connoisseurs che insiste sulla crisi della crisi, a tempo di ragtime  e di rap (bassi alternati e melopee metropolitane in 4/4), secondo le modalità della lingua di Hölderlin, dell’illuminismo alla Diderot e dell’atticismo ciceroniano (“oh totius orbis thensaurus mnemonico thensaurus / sempre sempre sarai la mia lanterna magica / et nomina nuda tenemus / in nudum carnalem amorem et in nuda constructionem / corporis tui”, Laborintus, XIII, cit. p. 30).

All’insegna della jouissance, Sanguineti compone il vademecum di una partecipazione problematica alla civitas, svuota l’estetica a larga diffusione attraverso la depauperizzazione del linguaggio poetico, sottratto alla manipolazione generalizzata: lo svuotamento estetico a cui sottopone i suoi testi determina la fine del riflesso condizionato che attanaglia i cani di Pavlov dell’elegia a tutti i costi; a partire da queste posizioni la riformulazione dell’umanesimo, ovvero l’esplorazione di un territorio non convenzionale, né conosciuto, in vero il luogo geometrico di una rinnovata negoziazione tra artista e pubblico, tanto che il letterato eversivo e il lettore sfrontato possono assumere un ruolo decisivo per la sopravvivenza della letteratura.

Sanguineti taglia la coda che gli fa da poggiaposto e rinuncia alla condizione arcaica del contemplare: libera la sua poesia dalla condizione monacale di specchio metaforico del mondo, per ricomprenderla attivamente nelle dinamiche del reale e riqualificarne lo status  tra l’adorniano non lasciarsi capire e il voler essere capita (“la mia vitalità si è rifugiata in basso: in un relitto atrofizzato, minimo”, Scartabello, VIII, p. 290).

Sanguineti ha liquidato (senza trionfalismi) la sua epoca, serve rendersi conto se l’epoca presente non stia organizzando i suoi cerimoniali (congressi vuotamente esornativi, pubblicazioni pleonastiche e agiografiche) per liquidarlo a sua volta e in via definitiva, promuovendolo a padre, seppur scomodo, delle Patrie Lettere (promoveatur ut amoveatur): finis.

edoardo sanguineti poesia scappo da te

edoardo sanguineti, poesia “scappo da te”

da Laborintus

1

composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
-noi che riceviamo la qualità dai tempi
tu e tu mio spazioso corpo ,
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’ idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
composta terra delle distensioni dialogiche insistenze intemperanti
le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste
[condizioni
esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi qui è il
[dibattimento
liberazioni frequenza e forza e agitazione potenziata e altro
aliquotlineae desiderantur
dove dormi cuore ritagliato
e incollato e illustrato con documentazioni viscerali dove soprattutto
vedete igienicamente nell’acqua antifermentativa ma fissati adesso
quelli i nani extratemporali i nani insomma o Ellie
nell’ aria inquinata
in un costante cratere anatomico ellittico
perché ulteriormente diremo che non possono crescere
tu sempre la mia natura e rasserenata tu canzone metodologica
periferica introspezione dell’introversione forza centrifuga delimitata
Ellie tenue corpo di peccaminose escrescenze
che possiamo roteare
e rivolgere e odorare e adorare nel tempo
desiderantur (essi)
analizzatori e analizzatrici desiderantur (essi) personaggi anche
ed erotici e sofisticati
desiderantur desiderantur

.
14.

.
con le quattro tonsille in fermentazione con le trombe con i cadaveri
con le sinagoghe devo sostituirti con le stazioni termali con i logaritmi
con i circhi equestri
con dieci monosillabi che esprimano dolore
con dieci numeri brevi che esprimano perturbazioni
mettere la polvere
nei tuoi denti le pastiglie nei tuoi tappeti aprire le mie sorgenti
dentro il tuo antichissimo atlante
i tuoi fiori sospenderò finalmente
ai testicoli dei cimiteri ai divani del tuo ingegno
intestinale
devo con opportunità i tuoi almanacchi dal mio argento escludere
i tuoi tamburi dalle mie vesciche
il tuo arcipelago dai miei giornali
pitagorici
piangere la pietra e la pietra e la pietra
la pietra ininterrottamente con il ghetto delle immaginazioni
in supplicazioni sognate di pietra
ma pietra che non porta distrazione
esplorare i colori della tua lingua come morti vermi mistici
di lacrime di pietra
ma pietra irrimediabilmente morale

.

il tuo filamento patetico rifiuta le scodelle truccate
i corpi ulcerati così vicini al disfacimento
con la lima ispida
devo trattare i tuoi alberi del pane
devo mangiare il fuoco e la teosofia
trattare anche l’ospedale psichiatrico dei tuoi deserti rocciosi
oh più tollerante di qualche foresta
più nervale di qualsiasi nervo e pertanto scopertamente fibrosa
tratto la tua recisione e quando batte le immagini il tuo sputo spasmodico
oh esultanza per gli aghi sub specie mortis
e adesso
il nonparlare il nonpensare il nonpiangere
disperatamente parlano pensano piangono durante il ventre della torpedine
in ipso nudo amore carnali
in ipso animae et corporis matrimonio
per quale causa vomitano le tuniche intima anima e bastonano l’estate
e con la coda stimolano il sale e la pioggia?
.
23
.
s.d. ma 1951 (unruhig) καί κρίνουσιν e socchiudo gli occhi
οἱ πολλοί e mi domanda (L): fai il giuoco delle luci?
καί κατά τῆς μουσικῆς ἔρgα ah quale continuità! andante K. 467
qui è bella la regione (lago di Sompunt) e tu sei l’inverno Laszo veramente
et j’y mis du raisonnement e non basta et du pathétique e non basta
ancora καί τά τῶν ποιητῶν and CAPITAL LETTERS
et ce mélange de comique ah sono avvilito adesso et de pathétique
una tristezza ah in me contengo qui devoit plaire
sono dimesso et devoit même sono dimesso, non umile
surprendre! ma distratto da futilità ma immerso in qualche cosa
and CREATURES gli amori OF THE MIND di spiacevole realmente
très-intéressant mi è accaduto dans le pathétique un incidente
che dans le comique mi autorizza très-agréable
a soffrire!
e qui convien ricordarsi che Aristotile
sí c’è la tristezza mi dice c’è anche questo ma non questo
oltanto, io ho capito and REPRESENTATIONS non si vale mai
OF THE THINGS delle parole passioni o patetico per significar
le perturbazioni and SEMINAL PRINCIPLES dell’animo; et πάθη
tragicam scaenam fecit πάθημα e L ma leggi lambda: in quel momento
πaθητικόν
ho capito καί κρίνουσιν ἄμεινον egli intende
sempre di significar le fisiche and ALPHABETICAL NOTIONS affezioni
del corpo: come sono i colpi
i tormenti è come se io mi spogliassi le ferite le morti
di fronte a te
et de ea commentarium reliquit
(de λ) ecc. de morte ho capito
che non avevo (coloro che non sono trascurati!) mai
RADICAL IRRADIATIONS ecco: avuto niente
e ho trovato (in quel momento); che cosa può trovare
chi non ha mai avuto niente?
TUTTO; and ARCHETYPAL IDEAS!
this immensely varied subject-matter is expressed!
et j’avois satisfait le goût baroque de mes compatriotes!
.
26
ah il mio sonno; e ah? e involuzione? e ah e oh? devoluzione? (e uh?)
e volizione! e nel tuo aspetto e infinito e generantur!
ex putrefactione; complesse terre; ex superfluitate;
livida Palus
livida nascitur bene strutturata Palus; lividissima (lividissima terra)
(lividissima): cuius aqua est livida; (aqua) nascitur! (aqua) lividissima!
et omnia corpora oh strutture! corpora o strutture mortuorum
corpora mortua o strutture putrescunt; generantur! amori!
resolvuntur;
(λ) lividissima λ! lividissima! (palus)
particolarissima minima; minima pietra; definizione; sonno; universo;
Laszo? una definizione! (ah λ) complesse terre; nascitur!
ah inconfondibile precisabile! ah inconfondibile! minima!
oh iterazione! oh pietra! oh identica identica sempre;
dentica oh! alla tua essenza amore identica!
alla tua vita e generazione! e volizione! (corruzione) perché essenze
le origini; essenze;
e ah e oh? (terre?)
complesse composte terre (pietre); universali; Palus;
(pietre?) al tuo lividore; amore; al tuo dolore; uguale tu!
una definizione tu! liquore! definizione! di Laszo definizione!
generazione tu! liquore liquore tu! lividissima mater:

.

Donato Di Stasi

Donato di Stasi

Donato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba. Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

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Nelo Risi (1920 – 2015) LA POESIA – UN BILANCIO ATTUALE NON CONCLUSIVO. Commento di Giorgio Linguaglossa, Risi, Luciano Erba e Bartolo Cattafi, tutti poeti nati nel giro di pochi anni (Risi nel ’20, Erba e Cattafi nel ’22), che pubblicano nello stesso giro di anni i loro libri: Partenza da Greenwich (1954), Il bel paese (1955) e Polso teso (1956); in tutti e tre i poeti nominati si ritrova la stessa aria di «bottega», la stessa impostazione realistica e urbana, la medesima aura prosastica. Era il loro modo di circoscrivere il Montale simbolistico e scavalcare la identificazione tra simbolo ed emblema del poeta ligure 

 

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Giorgio Linguaglossa: Un Bilancio attuale non conclusivo

Venerdì 18 settembre 2015 si è spento Nelo Risi, l’ultimo rappresentante (Milano 1920 – Roma 2015) di quella ‘terza generazione’, quella di Gatto, Sereni, Caproni, Bigongiari, Fortini, Luzi e Parronchi che era nata negli anni Venti e che portava inscritto nel suo codice genetico la tradizione ‘novecentista’; il poeta milanese aveva indicato già dagli anni Quaranta (L’esperienza era del 1948)  l’ipotesi di una via di uscita dalle poetiche «novecentiste»: la via del realismo, una maggiore e più salda presa sulla realtà come una possibilità a disposizione della poesia italiana per liberarsi dei suoi antichi vizi letterari ed estetizzanti, con quella marca pascoliana e dannunziana che ancora pesava come una ipoteca sul capitale estetico delle nuove generazioni. In particolare, risultarono fruttuosi quella attenzione ai dettagli del quotidiano, agli aspetti esistenziali e sociali, quegli accenti alla decenza, all’etica del fare poesia che non erano sfuggiti ad un critico attento al nuovo conio come Luciano Anceschi che scelse Nelo Risi, insieme allo stesso Sereni e a R. Rebora, Modesti, Orelli ed Erba, quale alfiere di una ‘linea lombarda’ ancora tutta da scoprire e da coltivare.

Risi, Luciano Erba e Bartolo Cattafi, tutti poeti nati nel giro di pochi anni (Risi nel ’20, Erba e Cattafi nel ’22), che pubblicano nello stesso giro di anni i loro libri: Partenza da Greenwich (1954), Il bel paese (1955) e Polso teso (1956); in tutti e tre i poeti nominati si ritrova la stessa aria di «bottega», la stessa impostazione realistica e urbana, la medesima aura prosastica. Era il loro modo di circoscrivere il Montale simbolistico e scavalcare la identificazione tra simbolo ed emblema del poeta ligure per approdare su terreni meno altisonanti e meno scivolosi, più aderenti al «reale». Terreno questo che già Vittorio Sereni stava iniziando a percorrere con prudenza e decisione con testi che intanto apparivano su riviste e che indicavano una linea di sviluppo comune. «Tutti e tre, Erba, Risi e Cattafi, di non improvvisata estrazione borghese, perfettamente in grado di gestire, per esempio, un codice di allusioni familiari o di gruppo, con il suo potenziale di ironia, oppure di cogliere e utilizzare, all’occorrenza, il significato simbolico-oggettuale di un interno, di un arredo… e tutti e tre abituati lungamente a vivere (se non, come risi e come erba, addirittura nati) in una delle pochissime città italiane dove una borghesia è, in altri tempi, davvero esistita, cioè nella fattispecie, Milano».1

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Nelo Risi

È verosimile che la fortuna  della poesia di Nelo Risi sia debitrice della angolazione della lettura critica che ne fece un Raboni, oltre ché della sua inclusione da parte di Luciano Anceschi di Risi nella Linea lombarda. Le istanze «civili» così presenti nella sua poesia, quel timbro un po’ metallico e cosale delle parole messe su carta da Risi, fanno irruzione nella poesia di quegli anni come fossero appunto delle «cose», delle «pietre», scrisse Raboni, un modo di poetare antimetaforico; affermazione che per Raboni deve essere intesa «nel senso che la metafora centrale e condizionante dalla quale essa riceve, per così dire, il proprio regolamento è appunto una metafora di non metaforicità». Insomma, quella linea tutta lombarda che afferiva, a ritroso, ad un Parini, ad un Carlo Porta e al Manzoni della Storia della colonna infame, Raboni la individuava nell’impiego sobrio, ironico e gnomico del dettato poetico di Risi, per quel suo optare per la verità delle «cose», per quella allergia verso le parole altisonanti o emblematiche. Risi veniva così approntando una poesia essenzialmente «etica», nominalmente revulsiva verso ogni pronunzia metaforica, una poesia magari opaca a prima vista, dotata di una tenace letteralità, una praticità, una utilità nella concezione e nell’uso del linguaggio tipicamente borghese milanese ma certamente dotata di una certa quantità di vigore nominale. Era proprio quella «opacità» delle parole a rendere marcata nella sua poesia la predisposizione per una testualità priva di trasparenze e di rifrangenze, tutta interna e internalizzata nella «cosa» e nella «parola» corrispondente. Oggi quello che rimane della poesia di un Risi è proprio questa fede nella possibilità di una completa identificazione tra la «cosa» e la «parola», alla quale il poeta milanese si tenne sempre fedele.

Risi esordisce come scrittore con un testo in prosa, Le opere e i giorni nel 1941, e di seguito i libri di poesia Polso teso (1956), Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa (1970), Amica mia nemica (1976); I fabbricanti del “ bello ” (1982); Le risonanze (1987) Mutazioni (1991); Il mondo in una mano (auto-antologia per temi) (1994); Altro da dire (2000); Ruggine (2004); Di certe cose – poesie 1953-2005 – (2006); Né il giorno né l’ora (2008).

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In-nome-del-popolo-italiano con Vittorio Gasman

Eugenio Montale  sul “Corriere della Sera” nel 1957, scrive: «il detto prevale sempre e comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull’ambiguità, il piano sullo spessore, l’univocità sulla polivalenza, e dove la musica non viene usata, simbolisticamente, per torcere il collo all’eloquenza ma, al contrario, per crearle intorno un nuovo spazio acustico, per incrementare l’indice d’ascolto». «Scrivere è un atto politico», ha scritto Risi in Dentro la sostanza (1965), libro nel quale il poeta milanese raggiunge il diapason dell’impegno che, da civico diventa politico.

Oltre che di cinema, Risi si occupa di traduzioni, proponendo in Italia i poeti Pierre Jean JouveKostantino Kavafis e il fondamentale libro di Jule Laforgue Moralità leggendarie.

Di frequente Risi assume lessico e toni severi e ammonitori (“dopo la grande/ dopo la mondiale è nell’aria/ una terza universale…”), stigmatizza la instabilità degli equilibri politici del mondo a lui contemporaneo.

A rileggerlo oggi, si avverte lo stridore di un progetto immobilizzato sulla letteralità, un tipo di scrittura messa a nudo da un eccesso di volontà referenziaria. Per un bilancio attuale della poesia di Nelo Risi si dovrebbe tenere conto e valutare il portato positivo di una produzione poetica antiretorica e antiestetizzante, ma dovrebbe anche essere valutata l’incidenza non positiva che un dettato poetico legato ad un eccesso di letteralità ha avuto sullo sviluppo della poesia del Novecento e dei giorni nostri già visibilmente inficiata dalla presenza di un facile regesto referenziario e da un certo abuso della narratività irriflessa. I Novissimi entrano nelle antologie scolastiche subito dopo la loro apparizione (1961). Il Nuovo, il Moderno diventano un feticcio, la legittimazione dell’arte. Rispetto alla neoavanguardia Nelo Risi appare invecchiato, arretrato su posizioni referendarie su questioni come il «reale» e su questioni di «etica». Il punto di maggiore livello della sua produzione, Risi lo raggiunge proprio in questi anni, con Dentro la sostanza (1965); ma proprio qui si rilevano le criticità di un tipo di scrittura che non consente un allargamento del concetto di «reale» che Risi perseguiva: la metafora sembra che stia lì lì per scoccare, senza che mai giunga la sua ora. Ai lettori l’ardua sentenza.

1 Introduzione di Giovanni Raboni  a Nelo Risi Poesie scelte  1943-1974, Mondadori, 1977 pp. XIX e XX

2 Cfr. Introduzione

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in_nome_del_popolo_italiano_ugo_tognazzi film di dino risi

ho colto la vita dall’albero
di ogni frutto ho fatto conserva
quello che è stato è stato

Il curriculum è aperto: facile
dire che tutto è uno scialbo
museo maniacale comodo dire
che ho perso la faccia che ho
accomodato a mio modo la storia
in giro se ne parla per parlare

accomodato a mio modo la storia
in giro se ne parla per parlare

Da uomo d’ordine
che dell’ordine del mondo
ha fatto una sua fondata opinione
devo tener conto che dopo la grande
dopo la mondiale è nell’aria
una terza universale tanta
energia compressa dovrà pure espandersi!

Voli di bandiere stragi araldiche
le pulsioni più coatte
scaricate sugli inermi in ogni dove
nel Laos nel caos
magari un’isoletta un quarto turca
il resto greca un disegno autoritario

Biogeneticamente pare
non ho di che vantarmi
(e i traslati e le metafore?
Bello come un giglio
sant’Antonio lis de France
il vergine il pudico scala
al bianco

Mi gestisco mi appartengo
ora tendo al bordello ora
dipendo dalla famiglia amo
la donna serva (oh! il turchinetto
da bucato un rifarsi in sogno
amabilmente candido

Ho un carattere dominante
e dovrei cambiare? so so
che la mutazione è legge
fondamentale per averla
studiata sui conigli le piante
(metti nero su bianca
verrà fuori un meticcio)

Una buona dentiera cannibalesca
e la carriera è aperta
titoli & azioni / burro & cannoni
nel lavoro sempre prima il profitto
(il privato è diverso dal sociale
anche se crea disagio in fabbrica

Un domenicano lunedì mi ha detto
“A ben guardare badi bene mi dia retta
il marxismo non è che un’eresia cristiana”
io ho provato a sciacquarmi la bocca
ma è un detersivo che ti mangia il tartaro
e dalle gengive gronda rosso (tutto sommato
un’esperienza deviante volevo fare contenta mia figlia

Notti in bianco
in solitudine davanti un bicchiere
in un pallore di luna funesto
albeggiare di tracce mnestiche
tra ornamenti e maschere)
(ti viene da piangere

Se ho un rimpianto è per le colonie
il mercato delle schiave un paio di moretti a letto
l’incontro con Livingstone i ladri con le mani mozze
il Congo di Leopoldo la Libia di Graziani le missioni
il mondo a nostra immagine ah l’Africa!
non c’è più in giro un mercenario
molto è perduto anche il guadagno facile

(Ho notato che la gente di colore
non suda affatto Io me ne sto sdraiato
ciononostante traspiro sempre Che sia
una questione di pelle?
di una cosa vado fiero
della mia razza

Da quanto veleggio meno e vivo ritirato
mi lustro l’onore mi lavo il cervello
depongo fiori d’arancio in devozione
ai piedi del mio busto d’alabastro
somigliantissimo (dentro l’albume
di quegli occhi smorti
vegeta un sesso cagliato

Finirò con la benda sotto il mento
avvolto in un sudario rigido oltre il dovuto
l’ostia rappresa tra la lingua e il palato
e le mie ossa biancheggeranno
come frammenti di marmo pario
mentre l’Europa invasa)

Quello che è stato è stato

da Amica mia nemica (1976)

cinema Una vita difficile - Dino Risi (1961)

Una vita difficile – Dino Risi (1961)

L’Arte della guerra

Il faraone avanza sotto un cielo di ventagli
l’esercito va sempre a piedi su dodici file
dal deserto di sabbia alle pietre nere di Siria,
un leone senza laccio segue il carro reale.

Dove l’erba è fitta una città d’oriente
manda barbagli. Gli ambasciatori si consultano
fissano il luogo e il giorno dello scontro,
se una delle parti non è pronta la si attende.

I presagi

Un falco strambo prende la via del tempio
tremila cani invadono l’orizzonte
un gallo nero cova due uova d’anitra,
da lavandaie (o démoni?) sotto i panni stesi
tutti i vessilli devono inchinarsi –
con sotterfugi e incubi ma che potenza
all’atto di decidere mi tiene succube?
La vanità perdendomi ne fu lusingata.

Il veterano

Chi ha disfatto? chi ha ucciso? ha catturato?
certo, un fendente m’alleggerì lo scroto
e sotto l’elmo sono tutto un guasto
ma basta uno squillo per rimettermi in sesto.

E poi c’è la pensione, un orticello libero
da tasse e un levriero che mi fa da bastone
quando vado a spasso. ho un dente solo? Avanza!
mastico quello che mi passa lo Stato.

da Dentro la sostanza (1965)

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NOVE POESIE di Lino Angiuli da “Ovvero” (nino aragno, 2015 pp. 152 € 10) “preposizioni semplici” con uno scritto critico di Giorgio Linguaglossa

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Lino Angiuli (1946) è nato e vive in terra di Bari. Delle dodici racolte poetiche ad oggi pubblicate,le ultime due sono apparse nella collana “Licenze poetiche”di Nino Aragno Editore. Sulla sua produzione poetica vedasi Dal Basso verso l’alto: studi sull’opera di Lino Angiuli, a cura di Daniele Maria Pegorari (2006). Collaboratore dei servizi culturali della Rai e di quotidiani, ha contribuito a fondare alcune riviste letterarie, tra le quali “incroci”. Molte pubblicazioni sul versante della tutela della cultura tradizionale.

Lino Angiuli cop ovvero giorgio linguaglossa_Dopo il Novecento

Commento di Giorgio Linguaglossa
la poesia di Lino Angiuli  tra modernismo e neomodernizzazione stilistica

Dalla plaquette giovanile di Lino Angiuli, Liriche (1967) fino ad Amar clus (1984), trascorre circa un ventennio durante il quale il poeta pugliese passa da una lirica tradizionale ad una koiné linguistica che ha assorbito gli stilemi dello sperimentalismo coniugandoli con l’abbassamento del registro lirico in direzione di una prosaicizzazione aperta alle tensioni antifrastiche (anche in idioma) e alle inflessioni di ironico disincanto. Campi d’alopecia è del 1979 (l’anno dopo la pubblicazione della Antologia della Parola innamorata, che segna l’inizio degli anni del riflusso); qui siamo dinanzi ad un discorso poetico dove è predominante un vistoso intento metaletterario: locuzioni incidentali si intrecciano a frastagliature frattali; locuzioni parenetiche, parentetiche, ipotetiche, ottative, dubitative, esortative si diramano nel tessuto ritmico-sintattico con tutta una congerie di espedienti retorici: dall’anafora, alla paronomasia, alla metafora per contatto, alla anadiplosi,  alla analogia per dissimmetria che finiscono per conferire al testo un andamento di irrisione convulsa a metà tra la mestizia del grido impotente e la tristizia goliardica della derisione. È un proposito metaletterario quello che governa il dettato poetico di Angiuli; è la sua personale interpretazione dell’eredità della neoavanguardia. Angiuli importa nel suo registro stilistico la più grande estensione di strumenti retorici dello sperimentalismo per piegarlo all’impeto e allo sdegno civile e politico ma anche alla irrisione e alla derisione, al disincanto e all’incanto; quello che ne deriva è un tessuto linguistico composto, mobile, variabile, esuberante di immagini e di moduli sintattici che si sovrappongono e interagiscono in un soliloquio con effetto di lacerante e grottesca ilarotragoedia.

Che a fare l’uovo di colombo
almeno quando si rigonfia l’alluvione
di scatole discorsi a due piazze e scatoloni
scollando significati appena insalivati
dalla carnagione variopinta di amanti occasionali
pascola allora nelle sventrate intercapedini del sole
una razza di muffe ininterrotte allora…

Edward Hopper room in New York.

Edward Hopper room in New York.

È in questi anni che la crisi del discorso lirico si aggrava

Si sta preparando il decennio della «parola innamorata» e del «ritorno all’innocenza»; gli spazi per un discorso poetico aperto e problematico si restringono sempre di più. D’ora in avanti si apre la strada in discesa delle poetiche deboli e deresponsabilizzate. In Angiuli non si riscontra alcun rimpianto per la scomparsa di quel mondo stilistico maturo di cui l’ultimo prodotto è stato il post-ermetismo pugliese di un poeta come Vittorio Bodini. Quello che nel 1952 Anceschi definiva «poesia degli oggetti» nel frattempo ha occupato la piena visibilità dello scenario poetico italiano e il minimalismo è nella sua fase ascendente: non ci sono più i margini per la elaborazione di una poesia che si distacchi dal quadro di riferimento «normativo» nazionale. Forse, una certa nostalgia per quel «mondo stilistico maturo» che è scomparso la si può rinvenire in Amar clus, (1984) in cui le fonti stilnoviste e provenzali vengono reimpiegate per un effetto di straniamento e di distanziamento rispetto alla poesia coeva; nel frattempo, l’impiego di un certo «quotidiano» sta diventando un dogma che non cessa di esercitare sulla quasi generalità un certo effetto, un certo ascendente. Angiuli ha già introdotto, per suo conto, il «quotidiano» in una sorta di registro basso, pur se variegato e mosso. È il quotidiano del registro rurale che convive con il quotidiano della civiltà cittadina. Convivenza in un equilibrio incerto e instabile dal quale il poeta pugliese sa far scoccare le scintille del suo personalissimo trolley linguistico. Angiuli sa che il «quotidiano» che si fa a Milano è un prodotto della latitudine: non è un abbaglio, non un errore di prospettiva, non è un errore ottico o un errore di poetica. Angiuli lo sa ma sa anche che una poesia del Sud modernamente aggiornata non potrà vestire i panni del modernariato né i jeans dell’ideologia modernizzatrice, e corre ai ripari nelle opere successive calcando il pedale dell’acceleratore dei toni ilari e giocosi e del «quotidiano» sudista.

Un certo ascendente, si sa, opera, a ricaduta, entro un cerchio di iniziati e dentro la sfera di competenza di una istituzione stilistica. Di fatto, è così che prende forma una egemonia: una «linea ascendente» della tradizione stilistica permette una «linea discendente» di immediata riconoscibilità. Tutte le opere che si inseriscono nella «linea discendente» appaiono automaticamente riconoscibili a norma della «linea ascendente». Ecco come si forma una tradizione stilistica. L’intento di Angiuli si muove in direzione di una poesia che abbia le sue salde radici iconologiche, coloristiche, fonosimboliche e materiche nel Sud, non può guardare al Nord se non come a un’officina che va derubata e depistata e capovolta ma non può guardare al Mezzogiorno se non nei termini del principio di ironizzazione, del capovolgimento e del ribaltamento dell’iconologia della tradizione post-ermetica del Sud.

Catechismo è del 1998. Libro chiave, di svolta e di stabilizzazione stilistica. «Catechismo» è, un lemma ironico, appunto: catechizzare come sinonimo di ammaestrare. Ormai il poeta pugliese ha messo a punto la direzione della propria rotta: una post-poesia di riflessione metaletteraria sul tema del «paesaggio» («L’orto festeggia l’onomastico del sole / fantasticando d’essere un deserto…»). Libro che alterna composizioni in lingua e in idioma, sospeso tra natura e cultura, ancora una volta tra il piano «basso» del folklore e il piano «alto» della poesia in lingua ma senza mai perdere il contatto con il piano «basso», il pavimento del folklore.

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Direi che è la latitudine che governa la poesia del poeta pugliese più che la longitudine, e sotto questo aspetto, il percorso della poesia di Angiuli è davvero singolare e significativo: dalla rastremata lirica del 1967 il poeta pugliese giunge, nel secondo ventennio che va dal 1984 al 2010 de L’appello della mano (Torino, Aragno), ad un discorso poetico sostanzialmente dal timbro metaletterario, da dove sono stati espunti i riferimenti polemici al «mondo», (sembrerebbe quasi una ritirata strategica) ma la poesia degli anni Novanta e degli anni Dieci ne guadagnerà in brillantezza e nitore di superficie. Angiuli alleggerisce la chiglia stilistica della sua poesia dei toni più asseverativi e suasori; adesso il tessuto stilistico è più leggero, più arioso, più frizzante ma ha anche perduto lo sfrigolio, l’attrito dell’utopia che spingeva in avanti l’attesa e allungava il futuro. La modernizzazione del Sud non c’è stata, non c’è stata una crescita economica del Sud, non c’è stato sviluppo ma, paradossalmente, il Sud è entrato, in qualche modo, a rimorchio della modernizzazione del resto d’Italia e la poesia più sensibile se ne è accorta. Ecco perché la poesia di Angiuli non si limita a perseguire la modernizzazione linguistica (riflesso acritico della modernizzazione tecnologica) ma si inoltra nell’unica direzione possibile: lo spazio della ilarizzazione dei nuovi linguaggi, della nuova koiné linguistica.

In Amar clus del 1984 Angiuli giunge ad un surrealismo tutto personale, nutrito di calembours e giochi di parole, una poesia scandita in strofe compatte e ariose, anzi, aeree tanto sono leggere che sembrano innalzarsi come palloni aerostatici:

Da bravo galeone fantasma
trasporta santi diavoli e cristiani
insieme a taciturni incubi di calce
da una sponda all’altra della notte
beccheggiando dentro un tempo acquoso
che affila le sue onde a mannaia
contro parole in pietraviva

Un giorno l’altro (Aragno, 2005) è un libro emblematico del, se mi si passa la dizione, «ritorno all’ordine» di Angiuli: qui opera il principio di demistificazione e ironizzazione a tutto campo che non risparmia né il profano né il sacro: è il disincanto della leggerezza e del principio di ionizzazione del reale: «mi faccio un giorno o l’altro come dico io / mi faccio una rima che finisca in dio» (con tanto di scorno delle forzate letture di chi ne fa un autore ligio al Vangelo). Nei testi di Angiuli c’è la piena consapevolezza stilistica della provenienza «dal basso» di certi lemmi e di certi stilemi per confezionare un tessuto materico e stilistico direi conglomerato, rassodato, nella accezione di composto chimico-fisico del discorso poetico, a distanza di sicurezza da ogni suggestione «sacrale» o di banale dissacrazione di ciò che da tempo immemorabile non è più «sacro». La versificazione appare più ordinata, variegata, anche la gamma lessicale è stata sottoposta ad un processo di rarefazione, sottrazione di substantia e alleggerimento; i miasmi della modernizzazione industriale, che in Puglia non c’è mai  stata, sono ormai fatti del passato (recente e remoto), i pensieri brulicano, si assiepano e sgomitano per prendere la forma della poesia:

minutaglia di pensieri senz’arte né parte
crosticine della vecchia ferita
in odore di maltempo
che non s’asciuga e non s’asciuga mai
*
vorrei scovare una parola
svestita senza niente addosso
nemmeno qualche finta foglia
ma non c’è verso d’adocchiarla
forse sarà esistita
in fondo all’antro della voce.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Il discorso poetico da elemento di resistenza  è diventato una condizione di esistenza: «Intanto il capitale impera / coi suoi monili luccicanti», non resta che operare per introdurre quelle innovazioni stilistiche e materiche ad una moderna poesia del Sud;  l’evento imprevisto o sensazionale («intanto s’affatica il mare / su cui galleggia questa storia / come un turacciolo ribelle») fa parte del gioco degli elementi e dei fattori noti e non. Senza contare il severo allenamento alla desistenza operata dal poeta pugliese, che ben si coniuga con la condizione (esistenziale) di chi si trova aldiquà e non può far altro che spedire Cartoline dall’aldiqua (Bari, Quorum, 2004), come frecce appuntite, al mondo di chi si trova sull’altra spiaggia della temporalità e mondalità mediatica. È la strategia della desistenza ludognomica quella messa in atto da Angiuli alla ricerca del «punto fermo» della terraferma dalla quale inviare i segnali di fumo, le «cartoline», le parole leggere sub specie aeternitatis. È la strategia stilistica messa in atto dal poeta pugliese, che può contare sulla desistenza e sulla persistenza del proprio gioco di prestigio, sul gioco serissimo che diventa fuoco d’artificio.

In una recente intervista Angiuli scrive: «nella vivace e variegata situazione contemporanea… la maggioranza azionaria è ancora detenuta dall’io lirico, che tende a riproporre la propria ontologia all’insegna di una resistente, autoriproduttiva, teleologica e forse datata mitologia letteraria». Parole quanto mai in equivoche che gettano un fascio di luce sulla chiarezza della impostazione di poetica dell’autore.

In questo itinerario, non sorprende che il poeta pugliese, una volta ogni dieci anni, sia tentato di sciacquarsi i panni nei fiumi della sua terra: è da qui che nasce la plaquette Viva Babylonia (LietoColle, 2007), una raccolta di cromatiche composizioni in idioma di Valenzano, una boccata di ossigeno dirimpetto alla invasione dei linguaggi della media-sfera che Angiuli tenta in tutti i modi di neutralizzare aprendo le maglie della sua poesia alle contaminazioni lessicali più spurie. Degno di nota è che in questa ricorrente cadenza decennale, in ben quattro raccolte, i testi dialettali sono in condominio con quelli in lingua e si incamminano progressivamente verso un multilinguismo (strategia ben diversa rispetto alla bidimensionalità separata e strabica delle odierne tendenze del neo-monolinguismo della conclamata e invasiva neo-dialettalità).

In questa lucida strategia della assimilazione della contaminazione  rientra sia l’istituto dello spostamento semantico, sia il lavoro sui suffissi e i prefissi («orto» che diventa «risorto», «dente» accostato a «per-dente» in Catechismo del 1998), degli scambi semantici tra parole diverse dove il «catechismo» del perbenismo della piccola borghesia pugliese viene catechizzato e sottoposto a dissolvente ironizzazione. È l’iconologia (anche religiosa) piccolo borghese della Puglia che viene marionettizzata e ludicizzata, con tanto di quel «dio» popolare: «nel nome di un dio come si deve / un padremadre di tutte le virgole / compreso il destino sonoro della calandra / il karma buono di un dentedileone…» (da Cartoline dall’aldiqua, 2004).

Colored Folks Corner

Colored Folks Corner

Siamo arrivati a L’appello della mano (Aragno, 2010), una sorta di metanarrazione della propria posizione di poetica, una derisoria riflessione (capovolta) sull’epoca della globalizzazione («Le mani hanno cento occhi / gli occhi cento mani /inutile chiudere sotto chiave tutto / quello che svolazza (…) ho ben altro da fare / con i cinque sensi»); il poeta pugliese ha compreso che il «lasciapassare dell’aria», la comunicazione universale, ha sottratto al discorso poetico le antiche sicurezze: le «tematiche», gli «interni», gli «esterni», il «paesaggio» rassicurante della poesia elegiaca, il linguaggio rassicurante dello sperimentalismo, i punti cardinali sui quali si fondava la scrittura poetica nel vecchio Novecento. Ormai si apre un’era nuova e si chiude il vecchio mondo stilistico.

Di un monastero abitato da respiri medievali
vado tuttora in cerca con bisaccia a tracolla
certo che lui un giorno mi spunterà davanti
proprio nel mezzo di una geometria vegetale

perciò apprendo la filosofia dal lazzeruolo che
abita nel paese più remoto dell’occhio mentre
dal percoco imparo a pigliare il sole in fronte
o puramente a non farmi la barba tutti i giorni

parolerò coi monaci che mi hanno anticipato
con le sagome loro svolazzanti intorno al pozzo
di un’acqua da sorseggiare nelle mani a coppa
domanderò come introdursi in una passiflora

uscendone con una pozione di salmi terrestri
adatti a mettersi a tu per tu con la roba celeste
poi basterà alzare gli occhi oltre il nono cielo
per fare alle malombre disumane il contropelo.
*

A quel convento cimato in capo a una collina
bussa ribussa il pensiero per domandare i voti
e andarsene appresso alla radice quadrata che
porta lì dove molti avverbi finiscono in mente

una pezza di marrone manufatto basta e avanza
un cordone lungo quel tanto che possa servire
ad abbracciare il mondo con fare meridiano e
i sandali per poter viandare a piedi nella testa

al buon convento della terraferma mi raggiunge
l’anima in persona per spalancare porte portoni
da molti secoli non la guardavo in faccia ma lei
mi riconosce subito a prima vista e primo udito

appesa al collo porta una cartapecora sgualcita
dove sta disegnata la parola d’ordine silentium
un mare di silentium da risciacquarci la lingua
in modo tale che il suono vero non si estingua.

*

Da un chiostro accampato nella murgia aperta
ai famosissimi cinque sensi più quello di scorta
con cui misuro le muraglie di pietre muricciole
ci sono chilometri di spighe ballerine e tramonti

in un minuto secondo passa lungo l’orizzonte
una sorta di ripensamento che non dice niente
eppure traccia una striscia di cose d’altro mondo
la controfirma di quello che da noi si chiama dio

passa anche un odore di stalla migrata nell’altrove
tra la lagna di una casedda ruminata da malerbe
e due querce stravecchie da sempre imparentate
col fantasma di un volpino squagliatosi nel giallo

se poi compare la ferma essenza di un pio bove
allora sì che faccio terno nel suo occhio incantato
in cui sparisce la differenza tra ieri oggi domani
sì da poter slegare il cuore con entrambe le mani.

Lino Angiuli

Lino Angiuli

In questa cella vive una specie adriatica di alba
sbucata dall’acqua marina a due passi dal piede
fino ad allagare tutti i tabernacoli della mente
dopo aver sbarcato ossa di miracoli color caffè

quelle di sannicola e di sangiorgio per esempio
insieme alle milleunanotte di storie e patorie ai
contrabbandi di vite agli smerci di carne umana
alle malarie che combina l’homo qui dove però

vennero altre anime a raschiare l’umore del tufo
con il tantumergo rimasto impigliato al cappero
basta spegnere la radio dell’estate per ascoltarne
le note insieme alla ronda di api attorno attorno

basta una branda di sabbia circoscritta dal timo e
una grotta scarrassata dal sole verso mezzogiorno
per mantenere a cuccia la frescura d’ombre sante
tra cento viavai di un’onda galoppata dal levante.

*

Con l’abbazia d’un cielo fatto a cielo me n’esco
a pascolare il mio grillo canterino voglioso di
sviolinare la stella che da sempre lo allatta e di
salmeggiare a modo suo in onore della lunanova

gli passano così le brutte insonnie del malincuore
i calvari della grasta in terracotta tra vasi di ferro
gli inverni con le sue mazzate di coltello amaro
le gelature che gli stutano la parlantina in gola

meglio farsi un quartino o una quartina solitari
abbandonarsi alla notte come fosse l’ultimora
giocare con il buio a mosca cieca senza la paura
del giorno che pianta bombe per cogliere tombe

malemale domani mattina sposerà una zucchina
col fiore aperto a strombazzare le lodi pacchiane
lei non sa se potrà farcela a vedere un’altra sera
eppure in cuor suo sa che la propria vita è vera.

*

Su l’eremo di settembre veleggia una boccata d’aria
festeggia l’onomastico delle prugne color prugna
quelle ricevute in dono dal Qualcuno appostato
sopra l’altalena di una foglia eterna e passeggera

lì dentro c’è un sacco di roba che manco sappiamo
come una chiocciola mi ci chiudo da dietro e godo
questa brezza madrina di mandorle e ozoni strani
e di nostalgie giallognole scampate a un temporale

mi vengono incontro i fichi a mano disarmata ma
ripiena di fruttosio con cui provare ad addolcire
l’ombra scaraventata a terra dal fumo dei cannoni
inutili e scemi che fanno soltanto gridare peccato

peccato quei bambini che non possono fare poesia
peccato quelle donne col seno pendulo e vacante
peccato questi ulivi uccisi su un altare di cemento
peccati contro la vita che chiede un altro accento.

*

Per la cattedrale del sogno vado scolpendo origani
e rucole che si danno il cambio sul portale della
notte accogliendo un popolo di ombre pellegrine
tumefatte dall’assenza di luce e da vuoti di carne

a rimpolpare le loro lentezze accorrono i ricordi
accorrono i perdoni a tagliargli le unghie per bene
cosicché possano guarire dall’italico maltempo
e riuscire a incamminarsi sul tratturo del giorno

piano piano ecco si muovono in fila per quattro
per riempirsi la bocca con una manciata verde
c’è un cotogno che le aspetta proprio all’incrocio
tra l’autunno e una congrega di nubi pensierose

seminano nella testa la semenza di altri desideri
capaci di riempire le tasche di ortaggi consacrati
e accucciare tra parentesi quadre l’eterna fame
di sciocchezze che imbambalisce l’umano reame.

*

Tra me e la cappella della pioggia maestra di grigio
si stende una sera enorme quanto il lago maggiore
biodegradabile al centopercento più o meno come
le lacrime e tutto ciò che mi inumidisce l’ossario

allorquando anche il cielo si abbassa le mutande
così da acchiapparlo con un pensierino rasoterra
resuscitato dalla muffa come un cavolo a merenda
eppure buono a trasportarmi altrove tutto intero

è forse questo il tempo giusto per ridare la corda
ai sorrisi arrugginiti che fanno capolino dalle foto
ai memoriali che salgono su una scala senza pioli
e scendono con una cesta di frasi infreddolite

il tempo giusto per farmi amico quel cipresso lì che
ogni giorno mi fa buongiorno con la mano mentre
m’invita ad adacquarla bene la mia beata solitudo
perché cresca tanto da far rima con sola beatitudo.

*

Fra un migliaio di nicchie abitate da mille madonne
cerco quella incassata in fronte a una casa vacante
quella da cui fu sfrattato un qualche santo eremita
allergico alle messe cantate ai ceri e agli incensieri

voglio abitare lì in compagnia di calce alla buona
per contare i minuti della mia eternità giornaliera
senza vetrina fermo dentro una canottiera di lana
dieci parole al giorno cinque scritte e cinque orali

dimodoché venga un silenzio a dire uffa e poi uffa
a quelle moine terrene che non cambiano mestiere
e venga l’edera giustiziera che campa di campagna
a tinteggiarle di verde a botta di ramaglie e foglie

avrò tutto il tempo per farmi perdonare dal carrubo
giacché è dal secolo scorso che non l’ho più potato
purtroppo la testa è caduta dentro la rete dei casini
e solo ’sta nicchia può restituirmi i puntini puntini.

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