eclissi
nostalghia film di andrej tarkovskij
Ultima lirica composta a Recanati, Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia appartiene ai cosiddetti Canti pisano-recanatesi, testi poetici scritti tra il 1828 e il 1830, in seguito ad una fase di silenzio poetico originatasi nel 1823 da un momentaneo tramonto della fiducia nel valore della poesia e da uno scetticismo crescente nei confronti della moderna società, incapace di poesia. Il ritorno ai versi manifesta il forte bisogno di Leopardi di ritrovare il canto e il suo potere immaginativo, ma nello stesso tempo svelando “l’arido vero” dell’indifferenza e insensibilità della natura verso l’uomo e quindi la coscienza che ormai nessuna illusione poetica sia più possibile. Il Canto notturno si discosta dagli altri canti pisano-recanatesi per il dileguamento dello sfondo di Recanati e del poeta come “soggetto lirico”, sostituito dalla figura-simbolo di un pastore.
Eclissi
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

Evgenia Arbugaeva foto, Siberia
L’autografo riporta, sul recto della prima carta, la data di composizione e il titolo della lirica. Per quanto riguarda quest’ultimo, si è già detto nello scorso capitolo che si ha testimonianza di una sua stesura precedente nei Disegni letterari: «Canto notturno di un pastore dell’Asia centrale alla luna». Questo diviene nell’autografo, con le motivazioni filosofiche di cui si è detto nel precedente capitolo, Canto notturno di un pastore vagante dell’Asia, con accanto scritto (1). La stampa fiorentina (F31) riporta il titolo invariato rispetto ad AN, ponendo in capo alla pagina, in posizione centrale, il numero romano XXI (ad indicare la posizione del canto in quella raccolta) e subito sotto, sempre al centro in posizione evidenziata, Canto notturno e a capo di un pastore vagante dell’Asia. (1). Questo numero funge da nota che richiama la trascrizione del passo del Meyendorff in fondo alle pagine del componimento. Nell’edizione napoletana l’impostazione del titolo è simile a quella fiorentina, con la differenza che il numero romano diventa XXIII e “vagante” viene sostituito da “errante”, che si troverà anche nel testo definitivo.
La lezione “errante”, essendo presente già in AN nella citazione del Meyendorff, doveva risultare più vicina all’autore; secondo Bronzini questo mutamento di lezione da una stampa all’altra coincide con gli stessi motivi che portarono Leopardi all’elaborazione della sesta strofa. Così il “vagare” sarebbe legato alla vana ricerca di senso, alle insistenti domande senza risposta poste alla luna e appunto al vagabondare senza sosta del pastore, rendendo quindi un’immagine della vita come un percorso verso il vuoto della morte. L’ “errare” sarebbe invece “segno di vitalità finalistica e razionale” da opporre ad un cieco cammino verso il nulla: si noti che questa parola ricorre nella sesta strofa due volte: al v.136, “O come il tuon errar di giogo in giogo”, e al v. 139, “O forse erra dal vero”. Il suo significato è ambiguo, indicando sia l’azione di spostarsi da un posto ad un altro (ed è il caso del v. 136), sia la possibilità di commettere un errore nella ricerca della verità(v.139): se al primo si può associare un’immagine di vitalità connessa a quella del volo presente in questa stessa lassa, il secondo sembrerebbe negarla in apparenza, per rilanciare la possibilità di “conoscere (invano) il vero” soltanto liberandoci da questo vero costituito dall’insieme degli errori umani sul giudizio di ciò che è vero o meno.

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi
Nell’autografo, sotto il titolo, separata da una linea orizzontale, vi è la citazione del Meyendorff: Leopardi aveva trascritto in un primo momento “parla dei Kirki, nazione errante, che vive a settentrione dell’Asia centrale”, cancellando “dei Kirki” (che tra l’altro aveva prima sottolineato) e modificando la virgola accanto a “Kirki” in un cuneo rovesciato, che ha la funzione di riportare sopra “di una delle”. La “e” sia di “nazione” che di “errante” diviene “i” per la resa del plurale; la virgola che subito segue viene eliminata tramite due lineette di penna, e vengono cancellati i riferimenti geografici specifici “che vive a settentrione” e “centrale”, con la probabile intenzione di astrarre ed estendere i luoghi del canto, in linea con l’ idea leopardiana della “vastità” e delle sensazioni piacevoli che ne derivano. Un appunto dello Zibaldone datato 5 Novembre 1821 potrebbe rendere più comprensibile la scelta del poeta in questa direzione:
“La sola vastità desta nell’anima un senso di piacere, da qualunque sensazione fisica o morale, ella provenga, e per mezzo di qualunque de’cinque sensi. […] le sensazioni vaste, ancorché gli oggetti che le producono abbiano manifesti termini, sono sempre indefinite, in quanto l’anima non arriva ad abbracciarle tutte intere, almeno in un sol punto, e però non può contenerle, né giungere a sentire pienamente i loro termini. Tutto ciò può applicarsi alle sensazioni prodotte dalla poesia, o dagli scrittori, ec. al lontano, all’antico, al futuro, ec. ec.”. Dunque l’immensità dello spazio unita alla poesia e al canto imprimerebbe “un senso di piacere” nell’anima umana.
Nelle stampe questa notazione sarà collocata in un nota in fondo al componimento. In particolar modo in F31 la nota (1) riporta soltanto la citazione del Meyendorff, e sono in corsivo le parti che nell’autografo erano sottolineate e in tondo le altre che non lo erano, mentre in N35 si trova insieme ad altre notazioni e quella che la contiene è la nota 9, tutta in tondo.
Passiamo all’esame delle varianti dell’autografo. Al v. 1, sotto la “i” della parola dimmi,si nota un tratto di penna accostabile ad una cancellatura. Secondo la congettura di Gavazzeni, inizialmente ci sarebbero stati due punti (dimmi:); ma si potrebbe anche ipotizzare, dato che il depennamento sembrerebbe posto proprio sotto la “i” e non accanto, dove è logico collocare i due punti, e dato il tratto dell’inchiostro che parrebbe lievemente allungarsi, la presenza precedente di una virgola o un punto e virgola, cancellati in un primo momento forse con l’intenzione di inserire qualcosa di diverso, per poi far ricadere la scelta comunque sulla stessa virgola. Al v. 4 la “p” di posi è accentuata: potrebbe essere una pura casualità, oppure si potrebbe pensare ad un primo proposito del poeta, ma immediatamente abbandonato, di utilizzare una parola di significato affine, ad esempio “riposare”, poiché nella pagina 2628 dello Zibaldone i due vocaboli vengono indicati come sinonimi derivati dalla medesima serie di parole greche παύω-παύσω-παυσις. L’utilizzo del verbo “posare” rispetto a “riposare” potrebbe essere stato preferito e anche subito, perché più consono all’uso leopardiano, dato che il primo ricorre nei Canti ben 11 volte, mentre il secondo una sola volta e proprio nel Canto notturno al v. 14“Poi stanco si riposa in su la sera”. Inoltre “posi” viene ripreso in modo simmetrico nel v. 105, in riferimento al gregge: “Oh greggia mia che posi, oh te beata”.

ritratto di G. Leopardi di Chiarini Vita
Nell’autografo al v. 15, nel verso della prima carta, vi è l’ammissibile presenza, secondo la ricostruzione di Gavazzeni, di un primitivo strato con la lezione «E mai null’altro spera a la domane». Secondo lo studioso sarebbe stato trascritto prima l’intero verso che in questo modo forma un endecasillabo, mentre in un momento successivo Leopardi avrebbe inserito le tonde in “a la domane”, degradando questa a variante alternativa e potendo così costruire un settenario. Inoltre avrebbe cancellato “mai” e “null’”, aggiunto alla “E” il grafema “d”, perché la congiunzione si veniva adesso a trovare accanto a parola iniziante per vocale (“altro”), scritto “non” in alto con segno di rinvio e inserito la “i” davanti alla parola “spera”, così da avere “Ed altro non ispera”, che tuttavia cancellò in blocco e riscrisse nel rigo precedente a fianco del verso 14 (probabilmente per motivi di spazio), variando leggermente la disposizione delle parole in “Altro mai non ispera”, laddove il “mai” fu tagliato scrivendo sopra la variante “pur”. Questa, oltre a trovarsi nel manoscritto, è registrata anche nella stampa fiorentina (F31), mentre l’originario “mai” ritorna nelle edizioni napoletane (N35 e N35c), divenendo variante d’autore. Forse la scelta ricadde sull’iniziale “mai” perché più consono all’ideale della vastità e dunque sentito come più poetico: si legge infatti alle pagine 1825 – 1826 dello Zibaldone: “Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità, ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. […] «tanto»essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe «molto», «moltissimo eccessivamente»,«sommamente». Così pure le parole e le idee «ultimo», «mai più», «l’ultima volta» ec. ec. sono di grand’effetto poetico per lì infinità. Ecc.”.
Al v. 17 dell’autografo si trova cassata la lezione “A te quella tua”, che insieme all’immediatamente successivo “vita” doveva costituire la prima stesura; la seconda è data invece dalle varianti sostitutive soprascritte “Al pastor la sua” (vita). Allo stesso modo, nel verso seguente, il 18, si può cogliere la presenza di una prima stesura “La sua vita al pastor”, sulla quale l’articolo determinativo “La” rimane invariato, “vostra” viene trascritto sul preesistente “sua” e lo sostituisce, “al pastor” e il successivo punto interrogativo sono eliminati con tratti di penna e sostituiti dalla variante riscritta sopra “A voi?”. In entrambe le stesure, nella collocazione dei versi, si può notare la massima distanza, sia sintattica che metrica, tra il pastore e l’entità celeste, forse a rimarcare l’impossibilità di un contatto, mentre tra una stesura e l’altra si ha inversione tra il verso dedicato alla luna (prima 17 e ora 18) e quello al pastore (prima 18 e ora 17). Si veda anche il cambiamento del verso 18, dal singolare al plurale, forse nell’intento di voler allargare le proprie richieste al complesso degli astri. Infatti, Giuseppe e Domenico De Robertis collocano il momento di questa lezione al plurale dopo la scrittura della quarta strofa, collegandola ai vv. 79-89 e in particolare al v. 84, “E quando miro in cielo arder le stelle;”.
Nello stesso v. 18, inoltre, si ha tra parentesi tonde la variante alternativa a “ove tende”, mai realizzata, “(ove è rivolto)”. Nello Zibaldone, alle pagine 1160-1162, si trova un riferimento al vocabolo “rivoltare” come verbo continuativo derivato da “rivolgere”, all’interno di un ragionamento sulla differenza tra l’ “atto” che interessa i verbi positivi (ossia non derivati) e l’ “azione” che riguarda i continuativi:
“Perché meglio s’intenda questa teoria de’ verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente […] Atto e azione propriamente, differiscono tra loro. L’atto, largamente parlando, non ha parti, l’azione sì. L’atto non è continuato, l’azione sì. […] Il primo considera l’agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel tempo. Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell’uomo e di qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e continuate. Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione. […] [L’] azione continuata, fatta non già nell’istante, ma nello spazio, e composta di parti. Questa dunque è azione, quello è atto, e quest’azione è composta di molti di quegli atti. […] Noi abbiamo appunto volgere, voltare […], e voltolare, o rivolgere, rivoltolare ec. positivo, continuativo e frequentativo.”.
.
Forse la variante alternativa “ove è rivolto” fu scartata perché, trattandosi di un verbo continuativo, estendeva l’azione nel tempo e nello spazio, contrastando con il “vagar mio breve”, ovvero con l’immagine del percorso finito dell’uomo in contrapposizione con quello infinito della luna, e poiché Leopardi riteneva più adeguata la lezione con il verbo non continuativo “tende” che, avendo “l’agente come nel punto”, poteva presupporre un’ azione compiuta in un intervallo di tempo finito, quale appunto la breve vita del pastore.Passando alla seconda strofa, al v. 21 si ha la lezione “mezzo ignudo”, cancellata scrivendo sopra la nuova “infermo, mezzo vestito”, presente poi in tutte le stampe. Si noti che quello che nel testo definitivo sarà il v.22, “Mezzo vestito e scalzo”, si trova nel manoscritto “sulla stessa riga del v.21”, formando un endecasillabo, dal quale proverranno due settenari. Giuseppe e Domenico De Robertis d’altra parte colgono un collegamento con la “vecchierella” di Petrarca in (RVF 33,6), anch’essa “discinta e scalza”, più evidente nella prima stesura di AN con “mezzo ignudo e scalzo”. Per quanto riguarda le sostituzioni di tali versi, con particolare riguardo alla lezione “infermo”, si potrebbe far riferimento a due passi dello Zibaldone,nei quali si passano al vaglio gli equivalenti latini e greci della parola “infermo” (che sembrerebbe aggiunta rispetto alla lezione precedente, mentre “mezzo vestito” altro non è che il contrario di “mezzo ignudo”) e i suoi ambiti di significato. Nel primo passo (pagine 1624 – 1625, datate 4 Sett. 1821) si analizzano i termini greci e latini per indicare il buono e il cattivo stato di salute:
“I greci quasi autori della medicina dicevano α̉σθένεια cioè debolezza ogni genere d’infermità, ed α̉σθενειν l’essere malato. Ed anche oggi i medici chiamano stenia che suona come σθένος, vigore, forza, robustezza, il buono stato di salute. […] Così dico delle parole latine valere, valetudo, bene o male valere, infirmus, imbecillitas ec. ec. Tutto ciò che ci cagiona il senso della forza, ci cagiona il senso del piacere e della sanità. L’uomo veramente forte è sano.”
dove si associa, sin dalle antiche voci e in base alla formazione delle parole nelle antiche lingue, l’essere infermo ad uno stato di debolezza, malattia e assenza di salute da cui rimane escluso “il senso del piacere”, che è avvertibile soltanto durante gli stati di forza e buona salute. Il secondo passo conferma tali associazioni di parole (pagina 2544 del 4 Luglio 1822): “Quello che altrove ho detto del modo che in greco si chiama malattia, cioè debolezza (α̉σθένεια), si deve anche dire del latino, infirmitas, infirmus.”. Quindi, nonostante il verso sia stato frantumato, la presenza di “infermo” sembrerebbe essere indispensabile a mostrare lo stato di sofferenza e debolezza del “vecchierel”; si veda anche, tra l’altro, che il vocabolo ricorre con lo stesso ambito di significato in altri Canti, ovvero: Bruto Minore v. 99, “Quella l’inferma plebe”; Alla Primavera v. 2, “Ristori il sole, e perché l’aure inferme / Zefiro avvivi”; La Ginestra v. 87, “Uom di povero stato e membra inferme”, il quale ultimo si avvicinerebbe maggiormente alla circostanza del Canto notturno.
Nel rigo che segue in origine la lezione doveva essere “Carco di soma asprissima”, su cui si potrebbe ipotizzare una sua eliminazione e sostituzione immediata con la nuova lezione “con gravissimo fascio in su”; forse “le spalle” fu inserito nello stesso momento della variante sostitutiva e non prima (ma posto accanto la precedente lezione cancellata), dal momento che la preposizione “su” è tracciata sopra insieme alla nuova lezione; forse “le spalle” fu lì trascritto per motivi di spazio, data la presenza della coda della “g” sovrastante che avrebbe potuto rendere difficile inserire altre parole accanto. Contemporaneamente a “le spalle” si può pensare sia stata trascritta la variante alternativa che segue, tra le solite parentesi tonde: questa inoltre presenta una particolarità, perché sembrerebbe riscritta su una precedente parola. Se Moroncini non aveva scorto nulla sotto quello che leggeva come “dispietato”, De Robertis vi riconobbe altresì una fase antecedente che avrebbe riportato la parola “disagiato”, mentre invece Peruzzi vide la primitiva lezione “di grave fascio in su”, con “grave” poi sostituito da “dispietato”. Sulla questione è intervenuto anche Savoca, rifiutando sia la congettura di De Robertis, sia quella del Peruzzi: infatti un primitivo “disagiato”, oltre a stonare con il significato racchiuso dalla parola “fascio”, non permetterebbe di riscontrare sul manoscritto il fonema “a” in mezzo alla “s” e alla “p” di “dispietato”, mentre un originario “grave” gli risulta improbabile perché sembrerebbe mancare il “ve” finale di parola e il tratto del “dis” iniziale sarebbe tracciato in modo troppo scorrevole per pensare ad una sua aggiunta posteriore. La sua idea è quella della primitiva lezione “disgrato”, motivata dalle comparazioni compiute dallo studioso stesso sulla scrittura di Leopardi per i gruppi gr/gi/pi, essendo “gr identico, salvo il puntino aggiunto in seguito per trasformare la r in i, a un gi poi pi”. E in effetti, dall’osservazione del manoscritto, sembrerebbe potersi rilevare una prima fase coincidente con “(disgrato fascio in su)”, con sostituzione di “disgrato con “dispietato” e cassatura di “fascio in su”. Il vocabolo “fascio”, inoltre, sarebbe di derivazione petrarchesca.

canto-notturno-di-un-pastore-vagante-per-l’Asia
Al v. 25, nell’autografo, una prima lezione “alte arene” fu volta al singolare tramite sostituzione della “e” flessiva con “a”; “a” iniziale di “arene” fu cancellata, così da avere la lezione definitiva “alta rena”, per forse meglio evocare la sable dei Kirghisi, oppure per rendere un’idea di maggiore vastità rispetto alla semplice “arena”. Al v. 26 del manoscritto, tra Al e vento vi è la presenza di due grafemi distinti cancellati (sembrerebbero una “b” e una “p”), probabilmente indicanti il proposito, immediatamente abbandonato, di voler iniziare altre parole rispetto alla definitiva “vento” (infatti la scrittura ricomincia accanto); nello stesso verso si ha “procella” cancellato, con su trascritta la lezione definitiva “tempesta” più l’aggiunta di una virgola. Si noti in questo caso la scelta del poeta, che sostituì una voce maggiormente letteraria e più arcaica, come segnalano anche Domenico e Giuseppe De Robertis chiamando procella “vecchia e cara voce letteraria”, con una più comune e moderna. Le motivazioni andrebbero connesse al discorso più generale di Leopardi sulla necessità in alcuni casi di utilizzare parole meno erudite e più popolari; si legga in proposito il passo tratto dalla pagina 2075 dello Zibaldone, in data 8 Novembre 1821:
“Molte volte riescono eleganti delle parole corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre incorrotte o meno corrotte, e meno popolari. […] nell’uso la parola più antica, e non corrotta ha prevaluto alla corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere più antica e meno ordinaria della stessa antica”.
Al v. 29 si ha un gruppo di varianti alternative all’interno del testo: la prima di queste “(fossi)”, che ha sostituito il precedente singolare “fosse”, è seguita da “(gorghi, frane, chiane)”; tuttavia nessuna verrà inserita nelle stampe e nel testo, prediligendo la lezione originaria “torrenti e stagni”,forse con reminiscenza del Petrarca del sonetto XXXVIII Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni. Al verso seguente, il 30, dopo cade, doveva esservi in precedenza “spesso”, con accanto una virgola subito cancellata per inserire una “e”, che poi Leopardi cassa insieme a “spesso”. Egli aggiunge inoltre alla fine di questo stesso verso, con un segno di rinvio, tra più e s’affretta,un altro“e più”, per avere la lezione definitiva “Cade, risorge, e più e più s’affretta”. Secondo l’opinione di Giuseppe e Domenico De Robertis, “spesso” fu eliminato in modo da rendere evidente la contrapposizione tra “cade” e “risorge”, laddove la “frequenza” della caduta resa dalla lezione soppressa “Spesso” non si perdeva proprio per “lo scandirsi e incalzare degli opposti”.Il senso di questo contrasto vuole forse rendere l’idea che dall’afflizione può nascere una speranza, derivante da un’energia travolgente l’uomo stesso, che dopo infinite cadute sente forte il bisogno di appigli; tale ipotesi parrebbe trovare un suo punto di forza nel raddoppio di “e più”, di derivazione petrarchesca (RVF, canzone L Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina “la stanca vecchierella pellegrina / raddoppia i passi, e più e più s’affretta” ). Nel primo rigo del recto della carta seconda, ovvero al v.32, si registra la variante alternativa “(e mezzo spento)” non realizzata: secondo Giuseppe e Domenico De Robertis sarebbe stata una sorta di “attenuazione letteraria” per la lezione “sanguinoso”, che indica metaforicamente la fine del viaggio doloroso della vita. Più giù, al v.35 la prima stesura avrebbe dovuto essere costituita da “Abisso orrido, immenso,” che Domenico e Giuseppe De Robertis associano ad un passo del Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutirrez: “un mare unico, immenso”; questa fu cassata e sostituita dalla lezione “Fossa capace, oscura”, formando una seconda stesura, anche questa cancellata in un momento probabilmente successivo, con ritorno alla lezione originaria non per mano dell’autore, ma di Ranieri, che la ripristinò forse per meglio far risaltare il collegamento con il Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez e pensando così di eseguire la volontà dell’autore. Se si confrontano infatti le due grafie è possibile notare evidenti differenze, come ad esempio, nella trascrizione soprastante, la prima “s” di abisso, tracciata con una coda parecchio lunga, che nella stessa parola sottostante di mano dell’autore manca. Inoltre la “d” di orrido scritta sopra è stesa con una linea verticale e senza la curvatura che si ha nella stessa lettera tracciata da Leopardi. Si direbbe che la scrittura soprastante sia più allargata e distesa, diversa appunto da quella più compatta del poeta recanatese.

giacomo-leopardi-scritto-per-te-solinga-e-peregrina
Osservando la ricostruzione critica del Gavazzeni, passiamo all’analisi delle varianti della terza strofa (che nel testo definitivo si trova a quest’altezza del canto), invece della quinta che, come abbiamo visto, segue la seconda nell’autografo. La terza strofa si trova tra il verso della seconda carta e il recto della terza, dopo la quinta strofa. Al v. 42, situato sul margine inferiore del verso della seconda carta, si ha il caso di quella che in origine doveva essere una variante alternativa, inserita tra le solite parentesi tonde, poi elevata a lezione definitiva: inizialmente il poeta aveva scritto “Per prima cosa; e in sul l’entrar suo primo”, con accanto la detta variante alternativa “(principio stesso)”. Sotto tracciò altre varianti alternative “(e infin sul primo istante, e in su quell’ora istessa)”, laddove Gavazzeni ipotizza che dopo “istante” il primo intento di Leopardi sarebbe stato quello di chiudere la tonda, rifiutato subito per l’immissione di altre varianti, subendo quell’abbozzo di parentesi una trasformazione in “e”, mentre “quell’ora istessa” è posizionato nella carta successiva. Ad essere accolta a testo, abbiamo detto, è la variante “principio stesso”, in cui vengono segnate con tre lineette le parentesi tonde, mentre la lezione precedente “l’entrar suo primo” viene cassata.
Più giù, ai vv. 48-49 si può osservare la presenza di una prima stesura, resa al v.48 da “consolarlo procura” con accanto la variante alternativa tra le solite parentesi tonde e qui anche sottolineata “(s’ingegna”), poi cancellata, con unico tratto di penna insieme all’intera lezione del verso, ma non totalmente abbandonata. Infatti, prendendo spunto da questa variante, Leopardi riscrisse accanto “S’ingegna fargli core”. La voce “s’ingegna” non avrà nemmeno qui un seguito, dato che verrà cassata e sostituita da “Studiasi”, forse ricordando Leopardi l’appunto della pagina 2607 dello Zibaldone: “E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli …”. La parola “core” del verso definitivo avrebbe il significato di coraggio, probabilmente utilizzato per ragioni metriche dovendo formare un settenario, e ricavata verosimilmente in tale accezione dalla sua etimologia latina cor habeo. Si potrebbe aggiungere una motivazione ulteriore alla preferenza di “core” rispetto a “coraggio”: “core” ricorre nei Canti ben 85 volte (53 nella forma cor, 31 in core, 1 in cori) contro un singolo utilizzo nei Canti di “coraggio” (Amore e Morte v. 23); inoltre lo stesso poeta spiega questa equivalenza di significato alla pagina 4515 dello Zibaldone, facendo anche il confronto con altre lingue neolatine: “Coraggio per cuore (corazon, coraje, courage): v. Crus., quasi corauculum. Incorare-incoraggiare. […] Questa forma in age ager, è tutta francese, provenzale ec. Di là la nostra, sì abbondante anch’essa, in aggio, aggia, aggiare.”. Al v.49 era stato prima tracciato “Del suo misero stato:”, cancellato e sostituito sopra da ciò che sarà riportato nel testo conclusivo: “E consolarlo de l’umano stato:”. Forse per l’affinità ravvisabile nella parola “umano”, in questo stesso momento dell’annotazione della variante sostitutiva, potrebbe risalire la variante alternativa riportata accanto e non realizzata, “(E l’incuora a patir l’umano stato)”.
Il v.51 dell’autografo riporta un lieve tratto di penna in capo alla preposizione da, volto a cancellare un apostrofo prima trascritto ma ripristinato in N35 e a sua volta eliminato “nell’Errata come refuso”. Oltre questo, si ha la variante alternativa tra le tonde, in fianco al rigo in questione “(si usa)”, e per altri due righi sono segnate altre varianti alternative “(Non han proprio i p., color, verso, inver la prole. Non / s’aspetta a i parenti inver. Non debbono.). Giuseppe e Domenico De Robertis collegano tali varianti alla parola “officio” del v.50 (che come si vedrà più avanti sarà corretta in “ufficio” solo in N35c), per l’associazione all’area semantica della “Premura, cura dovuta”.

giacomo-leopardi-scritto
Ancora una variante alternativa, che non sarà realizzata, è presente al v.54, “(convegna)”, sottolineata come la precedente “s’ingegna”, secondo l’opinione di Contini, per richiamarsi a vicenda, dal momento che se fossero state accolte ambedue avrebbero formato una rima. Avviandoci alla quarta strofa, collocata all’inizio del verso della terza carta e protratta sia per tutto il recto della quarta, che per metà del verso di questa, si riscontra in principio del v. 63 l’eliminazione di un precedente “Che sia”, con la presenza accanto della sostituzione della minuscola “q” della parola successiva qualche con la maiuscola “Q”, a conferma che queste modifiche al verso furono probabilmente effettuate in un momento successivo, forse dopo la scrittura del v. 64, in base all’associazione che Giuseppe e Domenico De Robertis compiono tra “questo” del v. 63 e “che sia” (che Leopardi stava pensando di anteporre) del v.64, in quanto suo prolettico. Inoltre gli studiosi suppongono che “questo viver terreno” provenga dal v. 5 del sonetto 99 di Petrarca “Questa vita terrena”. Al v. 64, sono attestate entro parentesi tonda due varianti alternative “(dolorar, lagrimar)” non accolte, sinonimiche alla lezione del testo patir e sospirar. Questi ultimi furono preferiti perché potevano forse collegarsi meglio rispettivamente alla seconda e terza strofa. Inoltre proprio nel patir e sospirar consisterebbe lo specifico della vita dell’uomo, collegandosi le parole al verso precedente “Questo viver terreno”.
Al v. 72 Gavazzeni ipotizza che Leopardi abbia cominciato a scrivere le parole nel rigo senza le parentesi, avendo come prima stesura “Del taciturno, antico, andar”, e ritiene che accanto siano state registrate le varianti alternative tra tonde “(tacito, infinito)” e che “andar” sia stato cancellato in questo stesso momento e sostituito con la lezione soprascritta “muto, sempiterno”. Dopodiché Leopardi avrebbe eliminato le parentesi alle varianti alternative, accogliendole come lezione a testo, degradando al contrario la prima lezione a variante tramite inserimento delle parentesi e completando, in fondo, il verso con “andar del tempo”. Come sostiene Gavazzeni, si potrebbe congetturare che il verso sia stato iniziato senza le parentesi, ma che “andar” non sia stato eliminato subito e ancora rimanesse quando furono trascritte accanto le varianti alternative tra parentesi “(tacito, infinito)”, per essere cancellato, con sopra l’inserimento delle nuove varianti, quando il verso fu rifinito con la scrittura a fianco di “andar del tempo”, proprio perché se ne ripeteva il vocabolo. Quindi si potrebbe provare a lanciare l’ipotesi che il verso non sia stato completato per ultimo, ma già quando tacito e infinito costituivano varia lectio. Questi furono preferiti forse perché richiamavano in modo più efficace la ricerca del senso misterioso della vita che sfugge continuamente al pastore, e il verso che formavano (“tacito, infinito andar del tempo”) poteva essere sentito dal poeta affine all’ “infinità del nulla”, un fluire eterno del tempo (di cui Leopardi scrive nelle pagine 4181-82 dello Zibaldone), che l’uomo non può carpire “se non nella immaginazione o nel linguaggio”, ma che al contrario un’entità celeste come la luna può comprendere a perfezione. Infatti Giuseppe e Domenico De Robertis collegano questa lezione accolta ai versi iniziali della strofa stessa, dove la luna è appellata “eterna peregrina” e “solinga”, conferendole un alone d’infinità di tempo e spazio per il quale essa può essere “parte del mistero chedeve essere svelato, depositaria di esso” e perciò intenderlo, differentemente dall’uomo. “Tacito” sembrerebbe inoltre essere usato in veste di aggettivo con il significato di “che tace, silenzioso”, realizzando così un “uso epitetico del participio passato”, procedimento stilistico stimato dallo stesso poeta più ricercato e comunissimo nella lingua latina, di cui preziosi cenni si rinvengono nello Zibaldone, dove proprio a proposito del latino tacitus, nella pagina 3970 Leopardi lo inserisce nella categoria dei “Participi passivi in senso neutro. – Aggettivazione de’ participii.”,e continua scrivendo “Tacitus da taceo per tacens.”.
In questo rigo Gavazzeni segnala la trascrizione con altra penna delle varianti alternative “(mondo, ore, anni)”, sottostanti a “andar del tempo”. “Mondo” secondo Giuseppe e Domenico De Robertis attuerebbe un lieve cambiamento di significato rispetto all’idea del passare eterno del tempo, motivo per il quale si potrebbe pensare che non venne realizzato. Più avanti, al v.73 si ha soltanto la variante alternativa a dolce, “(secreto)”, non concretizzata probabilmente perché il suo significato parrebbe riferirsi ad un amore non conosciuto, “ignoto”, per il quale la primavera personificata vorrebbe apparire radiosa e piacevole: l’alone di mistero racchiuso in questi versi forse sarebbe divenuto fin troppo esplicito se fosse stata accolta quella variante. Inoltre nello Zibaldone, alla pagina 4496, si spiega il significato del vocabolo in latino, accostandolo ad altri suoi sinonimi: “Remotus, secretus, riposto ec. participi aggettivati”, e facendolo rientrare nella serie dei participi (dal verbo secernere) aventi funzione di aggettivo, vista poc’anzi con “tacito”. Pure il “participio aggettivato” del medesimo vocabolo secreto viene utilizzato al femminile nell’ Inno ai Patriarchi,v. 44 e 99 (qui femminile e anche plurale), La vita solitaria,v. 88 e La ginestra,v.280. v. 78 riporta la variante alternativa “(umile)” che non sarà accolta a testo e a cui sarà preferita la lezione “semplice”. Il senso probabilmente va ricercato in direzione di un’intesa con la natura da cui allontana la cultura, e che è riscontrabile soltanto nei “semplici” e “umili”, in quanto non offuscati dagli errori che produce nell’uomo il progresso e lo sviluppo della ragione. Inoltre fanno parte di questo verso altre varianti alternative che si trovano appuntate sul margine inferiore: “(Che indovinar non può rozzo pastore. Che saper non / conviensi ad un. Che ignoranza nasconde a noi pastori)”. Queste furono tutte escluse, forse perché potevano risultare non adatte a far comprendere il vero senso della semplicità del pastore volto alla ricerca di un’armonia con la natura. Infatti come in parte si è già visto, Leopardi attribuiva al suo pastore non quella ch’egli stesso definisce “ignoranza fattizia”, ma al contrario l’ “ignoranza naturale”, secondo le differenze che si possono rinvenire nello Zibaldone in un pensiero giovanile a pagina 421: “S’intende però un’ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell’uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all’uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati dall’uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all’opposto, com’essendo un’alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso stato”. Successivamente, al v. 80 (siamo nel recto della quarta carta) vi è la variante alternativa non realizzata “(queta)”, posta sopra il testo dell’autografo tramite un cuneo rovesciato. Probabilmente fu preferita la lezione originaria “muta”, perché poteva essere accostata al rimanere in silenzio della luna di fronte alle risposte del pastore. Infatti Giuseppe e Domenico De Robertis associano muta a silenziosa del v. 2 e a solinga del v. 61. La variante non accolta “queta” deriverebbe, come spiega lo stesso Leopardi alle pagine 1992 – 1993 dello Zibaldone, dal latino quietus, participio perfetto del verbo latino quiescere, che si qualifica come altro caso di participio con valore aggettivale, discendendo da quel verbo latino (quiescere) i verbi italiani quietare e quietari: “Or questi verbi il Forcellini gli spiega quietum facere pacare tranquillare. E veramente questa è la significanza del nostro quietare, quetare, chetare, acquetare, acquietare, acchetare. […] quietus da quietarsi, posarsi, fermarsi, passò finalmente a significare, come oggi significa, restare, dimostra(ndo) che il latino quietare o quietari fu, se non presso gli scrittori, certo presso il volgo, un puro e manifesto continuativo di quiescere, non solo nella forma, ma anche nella significazione.”.

Evgenja Arbugaeva paesaggio dell’Asia, foto
Ai vv. 81, 82 e 83 si hanno varianti alternative inserite dentro il testo, per cui si potrebbe pensare che siano state scritte contemporaneamente ai versi. Esse sono: “(in giro da lont.)” al v.81, descritta da Giuseppe e Domenico De Robertis come una variante tecnica e illustrativa della lezione accolta“in suo giro lontano”, la quale insieme al deserto piano del verso precedente dovrebbe richiamare l’idea della vastità. Al v. 82 le varianti alternative sono: “(dianzi a me)”, che si trova nel manoscritto in mezzo a “Ovver” e “con la mia greggia”, non realizzata per la resa del settenario in luogo dell’endecasillabo; “(torma)”, altra variante non accolta rispetto alla lezione del testo “greggia”, e definita da Giuseppe e Domenico De Robertis “vocabolo polizianesco”, per cui si consideri il pensiero giovanile in Zib. (59) del Leopardi sull’uso della lingua da parte dei poeti del Cinquecento, tra cui anche Poliziano: “Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de’ nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) […] non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci”. Tale giudizio andrebbe inquadrato nella più ampia valutazione di Leopardi sull’uso della lingua italiana nella letteratura, perfetto negli autori del Cinquecento, che però non si siano serviti di eccessivi preziosismi linguistici e stilistici derivati dalla lingua latina, causando enigmaticità e difficoltà, perfetto tra l’altro in quel secolo solo nei prosatori e non nei poeti: la questione è ben esposta in una serie di appunti (pp. 690 – 701) dello Zibaldone, da cui si cita: “Il cinquecento è sempre perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli. Diranno che anche nel Trecento accadeva lo stesso. […] Giacché noi diciamo che i trecentisti scrivevano bene […] e indistintamente tutto quello ch’è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perché appartiene al trecento.[…] Io so e dico che la usava [la scrittura] bellissima, e do ragione e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori del trecento i modelli o il fondamento e la sorgente della buona lingua italiana di tutti i secoli. Quest’autorità l’hanno avuta tutti i padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.) […] non già per capriccio o pregiudicata opinione de’ successori, ma per la forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perché la natura è la massima fonte del bello. […] Il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza. Quello però ch’io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento sia l’ottimo ed aureo secolo della lingua italiana […] Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant’altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de’ periodi, e dalla troppa copia delle figure di dizione […] vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne’ latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi […] vizio provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni. […] Del resto quello ch’io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. […] I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec. […] E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla perfezione che i [poeti] cinquecentisti […]”. Dunque “torma” non accolto perché, in accordo con le proprie valutazioni sulla lingua dei poeti del cinquecento, Leopardi lo considerava forse meno poetico rispetto a “greggia”, di cui si trova nello Zibaldone (p. 3723, 18 Ottobre 1823) una spiegazione linguistica della voce latina da cui deriva: “Grex monosillabo, significante un’idea primitivissima, e radice di più voci semplici e composte, come congregare ec.”, appunto associandola ad immagini primitive (da cui scaturisce la poeticità).
Altra variante alternativa è “(Preceder)” al v.84, che si trova tra “Seguirmi” e “viaggiando”, non accolta perché, secondo l’opinione di Giuseppe e Domenico De Robertis, si allontanerebbe eccessivamente dall’appunto giovanile di Zib (23) in cui è anticipata una delle parole della lezione definitiva“Vedendo meco viaggiar la luna”. Al v.85 si ha nell’autografo, disposta su due righe, la lezione “Questi pensieri in mente / Vo rivolgendo, assai gran tempo, e dico:”, che si ritrova uguale nella stampa fiorentina (F31), ma non nelle napoletane (sia in N35, che in N35c), nelle quali è registrata la differente lezione “Dico fra me pensando:”, che occupa un solo verso. Giuseppe e Domenico De Robertis definiscono la lezione di AN e F31 come “rallentante didascalia”, offrente quasi una spiegazione delle azioni di pensare e parlare del pastore, e intravedono una somiglianza con “Queste cose vengo pensando fra me stesso”del Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez, frase “contrastante con la semplicità dell’eloquio (non dell’immaginazione e del turbamento) del pastore” e forse mutata per tal motivo in N35. Si potrebbe anche congetturare che a Leopardi non dispiacesse la rima venutasi a realizzare tra pensando e profondo del v.87. Più oltre, al v. 88, si registra una prima stesura “Che fan l’aure infinite, e quel profondo”, in cui Leopardi cancellò la “n” di “fan”, passando dal plurale al singolare “Che fa”, soppresse “aure”, di sapore aulico, trascrivendogli sopra il più comune “aria”, modificò ancora il plurale “infinite” nel singolare “infinita”, per ottenere la stesura “Che fa l’aria infinita”. A questo punto, forse non totalmente sicuro di voler abbandonare la parola più aulica, scrisse accanto ad “aria” la variante alternativa “(aere)”, comunque non accolta: la scelta rimase sulla voce più popolare, secondo una linea di pensiero vista precedentemente. Giuseppe e Domenico De Robertis suppongono inoltre che il passaggio al singolare sia motivato dalla possibilità di render più facilmente l’idea di “vastità”, rinforzata tra l’altro dalla presenza degli aggettivi “infinita” accostato ad “aria” e “profondo”. Alla fine e a fianco del verso si ha anche la variante alternativa non realizzata “(A che)”, che avrebbe potuto avere forse l’intento di formare un parallelismo con la stessa espressione del verso precedente “A che tante facelle?”. Legate a questo e al verso successivo, vv. 88-89, sono due righe di varianti tra parentesi, tutte non accettate: “(Che fan quelle profonde regioni del ciel? che montan, / vaglion, queste ec.)”: Gavazzeni individua sotto la “m” di montan una “v” e l’associa al probabile inizio di scrittura della parola “vaglion”, che fu appunto inserita dopo, nel rigo seguente; Giuseppe e Domenico De Robertis sostengono che le varianti alternative “montan” e “vaglion” sono state scartate perché il plurale “Solitudini immense” era stato sostituito dal singolare “Solitudine immensa”. Queste varianti alternative e il verso a cui fanno riferimento alludono ai quesiti che il pastore va ponendo, alla ricerca del senso della “Solitudine immensa”, a cui egli non può ottenere risposte concrete, ma solo limitarsi a percepirle tramite sensazioni indefinite e vaste, per cui si spiegherebbe la presenza di più vocaboli afferenti all’idea d’indefinito, posti molto vicini tra loro e nella stessa sequenza che gli stessi hanno nei versi 4-6 dell’ Infinito: infinito – infinita – immensa. Si potrebbe aggiungere che in tutto il Canto notturno questo tipo di parole si trovano concentrate nella quarta strofa: infinito ricorre prima al v.72 e poi al v.88; infinita al v.87; in questo stesso verso ricorre anche profondo; al v. 89 si ha immensa, che però si riscontra anche al maschile nel v.35 immenso. In fondo alla carta, a fianco del v.96, del appare la variante alternativa non realizzata “(E girar)”, preferendo il poeta la lezione “girando”, a cui Giuseppe e Domenico De Robertis attribuiscono “valore, quasi, predicativo”, riferendosi ad “ogni terrena cosa” e svolgendo il gerundio le funzioni di un participio. Al v. 99, sul verso della quarta carta dell’autografo, un’altra variante alternativa è “(Immaginar)” non accolta nel testo, preferendo l’autore la lezione “Indovinar”, perché forse sentita più adeguata al disorientamento dell’uomo di fronte al mistero dell’universo. Infatti, secondo un appunto dello Zibaldone, “esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono”, per cui la variante “Immaginar” non sarebbe stata forse coerente con la logica della strofa, che rappresenta il pastore incapace di cogliere “uso alcuno, alcun frutto” del perché della vita, permettendo invece la fantasia di accostarsi a quei misteri, seppur illusoriamente attraverso l’immaginazione. Infatti, di fronte all’arcano il pastore non può far altro che “indovinar”, presupponendo l’immaginazione un’intesa con la natura, che non doveva intravedersi in questi versi. Giuseppe e Domenico De Robertis fanno riferimento ad un gruppo di pensieri dello Zibaldone (pp. 3238 – 3245), dove Leopardi spiega bene il privilegio dell’immaginazione di recare barlumi di armonia con la natura , ad esempio si cita “Perocché tutto ciò ch’è poetico si sente piuttosto che si conosca e s’intenda […] Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopradette cose; [si sta riferendo ai misteri della natura] ed elle il possono, perocché noi ne’ quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università che esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura. […] E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura”. Interessante risulta la successiva variante alternativa “(Malinconica luna, intendi)” al v. 100, pensata come possibile scelta in luogo di “Giovinetta immortal”.

Evgenia Arbugaeva Weather_man
Lo studio della Lorenzini rivela come la parola “malinconica” ricorra solo una volta nei Canti leopardiani (appunto in questo caso), oltretutto allo stato di variante, supponendo che non doveva essere tra le predilette del poeta. Infatti, dopo aver condotto una serie di analisi su alcuni appunti dello Zibaldone (pp. 15-20, 79, 170, 1473), la studiosa ritiene che il “malinconico” dovesse essere per il poeta di Recanati qualcosa di diverso dal “patetico”, in quanto non afferente alla sfera delle sensazioni e delle emozioni (queste proprie del patetico appunto), ma ad un’altra legata alla cultura, al progresso e all’incivilimento, e perciò lontana dalla natura; Leopardi stesso definisce la malinconia come “sensibilità moderna”. E proprio appartenendo al mondo moderno il disorientamento, la mancanza di punti di riferimento, di appigli per resistere alla forza travolgente del nulla, la luna diviene in questo canto l’emblema della solitudine dell’uomo moderno, perché con il suo silenzio è l’interlocutrice di un dialogo a senso unico e “mito inarrivabile e algido”. Ad essere accolta fu la lezione originaria “Giovinetta immortal”, forse perché in parallelo col v. 37, in cui la luna è appellata vergine, e col v. 57 in cui è intatta, e perché il suo essere “immortale” , contrapponendosi alla mortalità dell’uomo e alla sua sfera di conoscenza ed esperienza fortemente limitate, conferma quell’indecifrabilità dei segreti del cosmo al pastore.
Nel verso seguente si trova la variante alternativa “(O cara luna)” non ammessa nel testo perché, secondo la posizione di Giuseppe e Domenico De Robertis, avrebbe fatto venir meno il rapporto che lega la conoscenza del pastore (conosco) alla sfera dei sensi (e sento). Infatti quest’ultimo verbo (sentire) viene collegato da Leopardi alla sensibilità dell’uomo, al complesso dell’ emozioni dell’animo, come si può evincere dai numerosi appunti nello Zibaldone riguardo gli studi linguistici sull’area semantica di “sentire”, la sua provenienza latina e i suoi derivati. In particolare nella pagina 3826, nell’ambito di un discorso linguistico sulla derivazione latina dei nomi in –bilis dai supini in –tum, si legge che il sostantivo latino sensibilis e il suo contrario insensibilis, afferenti alla sfera di significato dei sensi,derivano dal supino sentitum, a sua volta valutato in un’altra pagina(2200) “antico part. sentitus [del verbo “sentire”] (regolarissimo), in vece di sensus (anomalo)”,provenendo questo da “sensi (anomalo); perché non dunque quello da sentii (regolare come audii)?”.
Si passerà ora all’analisi delle varianti della quinta strofa, retrocedendo fino alla seconda carta dell’autografo, avendo questa il suo inizio all’ottavo rigo del recto. Al v.110 Leopardi aveva inizialmente scritto nell’autografo “Ch’ogni tuo rischio o danno”, con accanto la variante alternativa tra parentesi tonde “(Che so ben ch’ogni danno)” non accolta nel testo; poi soppresse “tuo rischio o”, sostituendolo con la lezione trascritta sopra “stento, ogni”, che secondo Giuseppe e Domenico De Robertis rendeva “quel male come meno accidentale”, forse perché il vocabolo “rischio” ha una sfera di significato che rinvia all’ “eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”. Un’altra ipotesi, legata ad un passo dello Zibaldone, si potrebbe formulare su “rischio”, che non sarebbe stato forse molto adatto se riferito al gregge, in quanto in alcuni appunti del Giugno 1822 Leopardi dà una sorta di valutazione della vita come “già condannata o alla sofferenza o alla nullità”, dalla quale soltanto può scaturire la possibilità di aver piacere alla presenza di un seppur infimo beneficio, mentre se al contrario si sopravvaluta la vita, il dolore è assicurato. Il “rischio” sembrerebbe essere quello di vivere la vita come già avviata al dolore se si vuole “godere di qualche cosa”, ma effettivamente è applicabile soltanto all’uomo che non dimentica mai tale “rischio” di considerare la vita sofferente, mentre l’animale, dopo aver placato i fastidi naturali e non indotti da riflessione, può dimenticare ogni sofferenza e riposare gaiamente. Si veda il passo in questione e come effettivamente esso sembri riguardare soltanto l’uomo: “Finché si fa conto de’ piaceri e de’ propri vantaggi, e finché l’uso, il frutto, il risultato della propria vita si stima per qualche cosa, e se n’è gelosi, non si prova mai piacere alcuno. Bisogna […] considerar la propria vita […] come già perduta, o disperata, o inutile, come un capitale da cui non si può più tirare alcun frutto notabile, come già condannata alla sofferenza o alla nullità, e mettere tutte queste cose [cioè la vita come sofferta e disperata] a rischio per bagattelle, e con poca considerazione, e senza mai lasciarsi cogliere dall’irresoluzione neanche nei negozi più importanti, nemmeno in quelli che decidono tutta la vita, o di gran parte di essa. In questo solo modo si può goder di qualche cosa.”.

eclissi di sole
Dunque “rischio” di un’esistenza di sofferenza, valida forse soltanto per l’uomo, al quale non è semplice come per gli animali obliare la realtà del dolore. La sostituzione “stento” sembrerebbe meglio caratterizzare il mondo animale in quanto delineerebbe una “pena, sofferenza, difficoltà del vivere, soprattutto per mancanza delle cose necessarie” e non un dolore su cui l’uomo medita costantemente. D’altra parte il termine “rischio” ricorre nei primi versi della terza strofa proprio in riferimento all’uomo e allo stato straziante della sua vita: “Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento”, proprio “qui avendosi riguardo solo all’infelicità dell’uomo, da quando nasce”. Inoltre l’uso, il frutto presenti in quell’appunto dello Zibaldone sono riutilizzati da Leopardi proprio nel Canto notturno al v. 97 (“uso alcuno, alcun frutto”), con chiasmo, con il medesimo significato di “utilità, vantaggio”, esito, profitto. E si noti che proprio la voce “frutto” ricorre otto volte nei Canti con tale accezione: Il passero solitario v. 48, Le ricordanze v. 83, Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia vv. 70 e 97, La quiete dopo la tempesta v. 33, Il pensiero dominante v.84, Palinodia al Marchese Gino Capponi v.276, Il tramonto della luna v. 37.
Al v. 117 è verosimile pensare che il poeta avesse per prima trascritto “Dolcemente consumi in quello stato”, aggiungendo poi le parentesi a “Dolcemente”, così declassandolo a variante alternativa, e inserendo sopra con il solito segno di rinvio “senza noia”, che sarà accolto nel testo definitivo. Giuseppe e Domenico De Robertis ipotizzano una correlazione voluta da Leopardi tra il “senza noia consumi” che così si forma e il Coro dei morti al v. 13, dove si ha “senza tedio consuma”. Tale sostituzione potrebbe anche essere motivata dalla possibilità della nuova lezione di evidenziare il motivo dello stato privilegiato del gregge rispetto a quello del pastore e degli uomini (appunto l’assenza di tedio).
Spostandoci nel manoscritto al verso della seconda carta, all’inizio del v. 121, secondo la ricostruzione di Gavazzeni, Leopardi aveva prima trascritto “Sì che”, trasformato poi in “Sicchè”, per tornare infine all’idea originaria, cassando la prima parte della parola “Sic” e riscrivendogli sopra “Sì”, eliminando anche l’accento sulla “e” finale. Al verso seguente si rintraccia semplicemente una “o” trascritta su una precedente “e” tra “pace” e “loco”, così da imprimere una forte disgiunzione e rafforzare forse l’impossibilità per il pastore di accedere a quello stato di quiete riservato al gregge. L’ultimo verso di tale strofa registra un gran numero di varianti alternative, tanto da occupare quattro righe del manoscritto. Innanzitutto Leopardi avrebbe trascritto “Me, se in ozio mi poso”, ponendo accanto, forse nello stesso istante, anche le varianti alternative “(ne l’ozio e il riposo; su, fra, l’. o riposo. S’io giaccio in, e, riposo)” e rifinendo il verso con il successivo “il tedio assale?”. Allora avrebbe pensato di scartare la prima lezione, cassandola e sostituendola con quella che diventerà definitiva “s’io giaccio in riposo”, prendendo probabilmente ispirazione dal gruppo di varianti prima elencate. Tuttavia altre varianti alternative e tutte non portate avanti sono registrate nei due righi successivi: “(Me tosto ov’io mi poso, in sul riposo, allor ch’io poso, compagno al riposo. A me l’ozio e ‘l. A l’uomo l’ozio.)”. Si ha in queste varianti non realizzate l’alternanza tra “poso” e “riposo”, che come già detto derivano dalla medesima radice greca. Giuseppe e Domenico De Robertis pongono la lezione accolta in parallelo con ozioso del v. 130, e forse si aggiungerebbe anche in contrapposizione, delineando rispettivamente l’uno stato d’afflizione per il pastore e l’altro stato di tranquillità per il gregge.

Eclissi di luna
Un’altra supposizione si potrebbe avanzare sulla scelta di accostare le parole “riposo” e “giaccio”, che forse insieme veicolerebbero il significato di “morire”, ma inteso metaforicamente. Come già detto, il “riposo”, che presuppone la quiete e l’assenza di movimento, se poteva essere così un momento di piacere e tranquillità per il gregge, la stessa cosa non accadeva al pastore per il sopraggiungere della noia, causa di sofferenza ed elevata insoddisfazione; infatti la noia che deriva dal “giacere in riposo” è definita nelle pagine 2220-2221 dello Zibaldone “morte nella vita” , “morte sensibile”, “il nulla dell’esistenza”, “e il sentimento di esso e della nullità di ciò che è, e di quegli stesso che la concepisce e sente” nell’ambito dell’antitesi che Leopardi pone tra morte naturale che riguarda il corpo e quest’altra “morte sensibile” ancor peggiore. Si legga al proposito: “le morti e le distruzioni corporali non sono altro che trasformazioni di sostanze e di qualità, e il fine di esse non è la morte, ma la vita perpetua della gran macchina naturale, e perciò esse furono volute e ordinate dalla natura. […] le bestie non sanno che sia noia, né desiderano attività maggiore ec. L’uomo si annoia, e sente il suo nulla in ogni momento. Ma questo fa e pensa cose non volute dalla natura. Quelle viceversa.”, in cui si considera la noia come uno stato di afflizione più grande della stessa morte, in quanto innaturale e riservata ai soli uomini. Inoltre il verbo “giacere” è utilizzato parecchie volte nell’accezione, anche se non metaforica come in questo caso, di “perire”: Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze,vv. 19 – 22 e 24 – 25; Consalvo,vv. 1 – 2 e 5 – 6; Le ricordanze,v. 157; Aspasia,vv. 70 – 71. Si segnala che ricorre anche con altro significato, che non tale morte metaforica, proprio nello stesso Canto notturno, potendo forse rientrare in quella contrapposizione tra il riposo sereno e tranquillo degli animali e quello infastidito e afflitto del pastore, ai vv. 129 – 132
“Dimmi: perché giacendo / A bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”.
Giungendo alla sesta strofa, che, come si è detto, sarebbe stata scritta dopo tutte le altre, questa occupa la metà e l’ultima parte del verso della quarta carta, prendendone tutte le righe rimaste e un pezzo di margine inferiore. La prima variante alternativa della strofa è al v. 137, accanto alla lezione “di giogo in giogo” e a questa facente riferimento: “(monte, balza)”, non realizzata. Giuseppe e Domenico De Robertis notano che questa variante alternativa proviene dal verso 1 della lirica CXXIX di Petrarca“Di pensier in pensier, di monte in monte”. Leopardi sembrerebbe qui prediligere una parola più “pellegrina”, derivata dal latino iugum, per indicare “la cima di monte” con “accrescimento di distanza”. Si potrebbe proporre la congettura che tale scelta sia stata messa in correlazione all’ ipotesi di felicità che si realizzerebbe solo nel caso impossibile di diventare una forza della natura (quindi una rara o addirittura irrealizzabile felicità), volendo così il poeta lasciare alle parole un’immagine di quanta più grande lontananza. Ma la voce “giogo” potrebbe essere stata preferita anche per concordare con il tono solenne della strofa: infatti parrebbe il poeta applicare una sorta di criterio “della lingua conveniente a quel genere, a quello stile, a quel luogo della scrittura”, di cui egli stesso parla nello Zibaldone; tale vocabolo tra l’altro è raro nei Canti se si considera che delle sei volte in cui ricorre due sono concentrate nel solo verso 136 del Canto notturno; oltretutto con tal medesimo significato (monte) si ha nel v. 276 de La Ginestra (il bipartito giogo), mentre con altra accezione si rinviene in Aspasia vv. 102 – 103 (E spezzato con esso, a terra sparso / il giogo: onde m’allegro.); nei Canti, Leopardi impiega le altre due volte il vocabolo al plurale (gioghi): Alla Primavera,v. 26 con significato di “monti” (i ruinosi gioghi) e Inno ai Patriarchi,v. 58 (i nubiferi gioghi). Per quanto riguarda l’utilizzo del “pellegrino” in poesia, realizzato in questo caso proprio per la rarità della voce “giogo”, si legge nello Zibaldone “Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non però eccessivi né come pellegrini, cioè per la forma troppo strana ec. ec né come troppo frequenti latinismi”. Il resto delle varianti in questa strofa si trova negli ultimi due versi: il penultimo, il v. 143, presentava nella prima stesura “Stato che sia, qual s’è covile o cuna,”con “qual s’è” cassato (sia le parole che l’apostrofo e l’accento) e su trascritta la lezione sostitutiva “dentro”. Inoltre viene aggiunta sopra il testo una variante alternativa non realizzata “(paese)”, mentre accanto se ne trovano altre, anch’esse non accolte “(terreno, foresta, ec.)”; sotto queste vi è un altro gruppo di varianti alternative “(dentro qual nido)”. Anche qua, come prima, Leopardi sembrerebbe scegliere per questa strofa vocaboli di sapore “pellegrino” in luogo di quelli più “consueti”, per concernere il luogo e il “momento della nascita”: covile deriva infatti dalla radice del verbo latino cubare, a cui Leopardi dedica parecchi appunti nello Zibaldone in quanto lo stima verbo continuativo da cumbere. Se ne trovano ottime spiegazioni alle pagine 2814 – 2815, dove sono elencati anche i suoi composti: “cubare co’ suoi composti accubare, incubare, decubare, secubare, recubare, ec. il significato de’quali è manifestissimamente continuativo di quello di cumbere (inusitato, fuorché nella voce cubui ec. e cubitum che ora s’attribuiscono a cubare) incumbere, accumbere ec…”.
Oltre che nel verso in questione del Canto notturno, il vocabolo “covile” col significato di luogo in cui dimorare, in particolare per gli animali, si trova in altri due Canti, ossia ne La vita solitaria al v. 73 e ne La ginestra al v. 23, essendo quindi voce rara e “pellegrina”.“Cuna”, derivato dal latino cūna,con significato molto simile a covile, viene impiegato, a conferma della bellezza della sua rarità, ovvero del suo sapor “pellegrino”, solo una volta nei Canti (appunto in questo verso del Canto notturno), mentre un altro utilizzo si riscontra nei Versi Puerili, I nuovi credenti al v. 85.

galassia
Nell’ultimo verso della sesta strofa sono tracciate altre varianti alternative non realizzate “(E′ misero)”, in possibile sostituzione a “E′ funesto”,e “(in cuna)”. Nel primo caso, si potrebbe pensare alla preferenza della lezione originaria “funesto”, ritenuta più adatta a delineare una realtà di dolore universale. Infatti Giuseppe e Domenico De Robertis citano un appunto dello Zibaldone alla pagina 2671,in cui Leopardi riportava un pezzo dal Voyage du jeune Anacharsis, proprio perché in esso si accomunava il giorno della nascita ad un dolore intenso: “le jour de la naissance d’un enfant est un jour de deuil pour sa famille”, potendo forse così creare una sorta di contrapposizione tra il “dì natale” e il suo essere “funesto”, richiamando questa parola un’idea di tragicità e morte, essendo “causa di dolore e di lutto”, sfumature che sarebbero andate perdute nell’alternativa “misero”. L’aggettivo “funesto” col significato di “luttuoso” Leopardi nei Canti lo impiega anche in A un vincitore nel pallone,v. 47, Bruto minore,v. 78, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale,v. 51. La variante alternativa “in cuna” non fu realizzata forse perché lo stesso vocabolo ricorreva nel verso precedente, generando altrimenti ridondanza; infatti fanno notare Giuseppe e Domenico De Robertis che la presenza del “dì natale” rispetto a “nasce” già ripete per confermare proprio lo stesso concetto di inizio della vita, quasi con “sentenza inesorabile e istantanea”, per cui quell’ “in cuna”, evidenziando ulteriormente tale immagine, sarebbe stato meglio evitarlo. Un’osservazione che si potrebbe fare sulla sesta strofa dell’autografo riguarda la minor presenza di varianti divenute testo per sostituzione e cancellazione rispetto alle altre strofe (una soltanto “dentro”), supponendo che, in base alle considerazioni tracciate precedentemente, questa lassa, ultima e definitiva, fu scritta di getto nel pieno dell’ispirazione, volendo Leopardi lasciare alle parole ivi inserite il messaggio finale del Canto notturno. Un’altra considerazione si potrebbe fare a partire dall’accostamento realizzato da Savoca tra i primi versi della sesta strofa, con il miraggio a divenir volatile, e lo stesso desiderio manifestato nell’ Elogio degli Uccelli. Se forse il poeta compose la strofa dopo aver provato la gioia del rileggersi, si potrebbe pensare che egli si trovasse in una fase di rilettura non del solo Canto notturno, ma anche di altre sue opere. Tra queste, appunto, l’Elogio degli Uccelli, Operetta Morale composta nell’ottobre-novembre 1824, nella quale gli uccelli vengono considerati, tra tutti gli animali, i più felici: “Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo […] volendo dire che sentono giocondità e letizia più che alcuno altro animale”. Essi provano questa gioia perché la natura li ha dotati del “canto” e del “volo” e “del privilegio che ha l’uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali”. Dunque se la strofa quinta si concludeva con la beatitudine della greggia, Leopardi, rileggendo forse l’Elogio degli Uccelli, poteva rendersi conto di quanto fosse limitata quella in confronto ad un’altra provata da quella particolare categoria di animali, più felici di tutti, perché “lo stato ordinario degli altri animali, compresovi ancora gli uomini, sì è la quiete: degli uccelli, il moto.”. Agli uccelli è attribuita la bellezza del “moto”, da collegare forse al vagabondare delle popolazioni nomadi di cui si è parlato, e del “volo”, che permette loro di “godere” ed “essere felici”. Inoltre così come il primo verso della sesta strofa rilancia il sogno del poeta di possedere ali e volare e cantare beato come un volatile, allo stesso modo l’Elogio degli Uccelli si conclude con una simile speranza, pronunciata dal suo protagonista, il filosofo Amelio: “io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.”.Le varianti alternative presenti nella sesta strofa potrebbero testimoniare una sorta di abbozzo di voci meno ricercate rispetto a quelle accolte, le quali sono mirate alla resa del “pellegrino”, affinché conferiscano alla lassa e al canto di cui essa è degno finale il grado di poeticità che merita. Difatti, per Leopardi la poeticità scaturirebbe dalla “proprietà”della lingua, ossia dalla sua “originalità” rispetto alla contaminazione con altre, ma rispetto anche alla corruzione con altre tipologie del discorso diverse dalla poesia; ancora la poeticità deriverebbe dalla capacità della lingua di esprimere immagini e idee vaghe, vaste e indeterminate. Al proposito si cita la pagina 820 dello Zibaldone, in cui Leopardi dichiara che la ricchezza e la poeticità di una lingua possano insorgere solo se questa attinge alle sue fondamentali caratteristiche, senza prender nulla da altre: una lingua si “chiamerebbe barbara se contro l’indole sua, volesse adottare e accomodarsi all’andamento di una lingua migliore più bella […] Insomma barbarie in qualunque lingua non è né la mancanza di qualsivoglia pregio, né quello che contraddice all’uso corrente, ma quello solo che contraddice all’indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perché i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch’è virtù e bellezza in un’altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera.”. E per Leopardi la lingua italiana era proprio ricca di infinite possibilità e vasta, specialmente quando attingeva a “quella purità e antichità, a quel peregrino in cui consiste l’eleganza”, i cui elementi sono indispensabili per l’armonia della lingua della poesia.
Not Vidal Snowballs
Not Vidal Moon 1995
Conclusioni
Dall’analisi dell’autografo e delle sue varianti si è cercato di cogliere il movimento di pensiero del poeta nel comporre la lirica, guidato forse dall’esigenza di intuire il senso dell’incognito ordine che governa l’universo e dei meccanismi misteriosi della natura. Questo lo si potrebbe ravvisare dalla vicinanza in cui, in AN, si trovano le due strofe di riflessione cosmica, la quarta e la sesta, esprimendo queste la possibilità “di una conoscibilità solo poetica di essa natura”. Ed infatti le stesse scelte operate dall’autore sulle varianti sono dirette all’espressione della poeticità. Ed infatti si sono viste prediligere in alcuni casi voci più popolari perché probabilmente più vicine alla natura, dal momento che “prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente, e frequentemente, e da nessuno è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo.”. In altri casi la preferenza è data a vocaboli “pellegrini”, il cui grado di poeticità proverrebbe dalla loro stessa rarità e dalla loro provenienza dal “terreno medesimo della lingua nazionale”, in quanto voci discendenti dal latino (e “l’italiano è derivato dalla corruzione del latino”),essendo il latino per Leopardi lingua vicina alla natura, perché antica. D’altra parte, un anno prima della composizione del Canto notturno, nel settembre del 1828, Leopardi aveva formulato, nello Zibaldone alle pagine 4372-4373, una “dichiarazione di poetica all’insegna della natura”, sulla scia di quella relativa al “«dittare» d’amore” espressa da Dante nel XXIV canto del Purgatorio:
“Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla, ec. vera definiz. del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. (10. Sett. 1828). Quando colla imitaz. egli esce veramente da se med., quella propriam. non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla.”. Con queste parole il poeta di Recanati dichiara che la poesia non è tanto imitazione della natura, ma è natura essa stessa, che diviene “verso e linguaggio” quando ispira il poeta. In questo caso allora la poesia è “facoltà divina”, perché è generata dalla natura, e solo in questo caso ha la dote di suscitare immagini dolci e illusoriamente felici all’uomo, permettendogli di volare in alto, liberandosi momentaneamente dalla sua perpetua infelicità.
Nella direzione di un’intesa con la natura, si potrebbero inoltre giudicare la figura del pastore, che cerca attraverso il canto un’intesa con la luna (specchio della natura), e il canto stesso, elemento lirico di antica tradizione (come si è visto nel primo capitolo il canto è legato alle usanze dei Kirghisi e connesso anche alla “tradizione orale dei poemi omerici”) grazie al quale è possibile accostarsi alla natura. Ed infatti nel canto è operante un bisogno di armonia con la natura e con l’ordine che governa l’universo, una ricerca che non ha sbocchi o soluzioni se non per via ipotetica nella sesta strofa, dove è presente uno spiraglio di luce, anche se solo illusorio, dopo la negatività del verso finale della strofa che nell’autografo immediatamente la precede,“A me la vita è male”. Quella seppur minima apertura si potrebbe provare ad accostare ad un passo(pp. 4258 – 4259) dello Zibaldone, datato 21 Marzo 1827:
“Se noi non possiamo giudicare dei fini, né aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perché vorremmo noi dire che l’universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo […] Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo […] Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi; […] se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest’ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; […] Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili.”.
Si intravede la possibilità, per “creature” o “enti” differenti dal genere umano, che l’ordine naturale sia “buono”, e la relatività nel giudicare benigno o maligno tale ordine, così come nella sesta strofa si rilanciava quell’ipotesi di essere felici volando e divenendo un tutt’uno con la natura, subito messa in dubbio, come se Leopardi volesse aprire un varco misterioso sul senso di tale ordine, che però l’uomo non può conoscere in modo esatto e a cui può solo tentare di accostarsi tramite la poesia, l’immaginazione e il canto.

Roberta Costanzo
Roberta Costanzo è nata a Catania dove vive. Il brano riportato fa parte della sua tesi di laurea sulle Varianti nella poesia di Giacomo Leopardi.