Lucio Mayoor Tosi, frammento, tecnica mista, 2022
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Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Ciò che resta al fondo della questione della poesia oggi è il discorso poetico diventato invalido, la narratività desublimata, lo specchio opaco dell’«io» poetico, il calco mimetico che ha adottato il modello narrativo ad icona teologica della procedura poetica.
Ewa Lipska accetta l’io narrante, posiziona i linguaggi allo stato di radura narrativa, e li riposiziona in uno spazio comunicazionale come palestra dell’io narrante; il risultato è che così si ritrova tra le mani una lessicalità opaca. È sufficiente scorrere i titoli dei suoi libri per capire come il discorso poetico sia giunto alla zona grigia dove tutti i titoli appaiono bigi e anodini, insignificanti:
Poesie, 1967
Seconda raccolta di poesie, 1967
Terza raccolta di poesie, 1972
Quarta raccolta di poesie, 1974
Quinta raccolta di poesie, 1978
Qui non si tratta di morte, ma di bianco cordonetto, 1982
Deposito oscurità, 1985
Area di sosta limitata, 1990
Non c’è più alcun canone da mettere in discussione
I titoli delle raccolte di Ewa Lipska non corrispondono più ad alcunché di solido, di strutturato, di referenziato; il medium poetico si nutre di metricità/narratività diffuse, una koiné linguistica che, un tempo lontano nel lontano primo Novecento, a monte e a valle, poteva contare sul retroterra di un linguaggio poetico frutto di una tradizione-convenzione, di un patto, di un concordato, insomma, di un contratto-tregua tra i linguaggi poetici e tra il lettore e l’autore. Nella poesia della Lipska è saltato qualsiasi contratto o convenzione, non c’è più uno spazio comune per immaginare un colloquio tra l’autore e il lettore, l’autore dei versi ormai non si aspetta assolutamente nulla dalla sua scrittura; l’ironia e l’autoironia della Lipska ha questo significato: che non si rivolge più ad alcun interlocutore, per essere più precisi, si rivolge al testo mediante una auto destrutturazione. Mentre la poesia modernista europea degli anni settanta si muoveva nella direzione della provocazione e della messa in discussione dei canoni poetici della tradizione del post-simbolismo, in seguito la poesia ha dovuto prendere atto che non c’era più alcun canone da mettere in discussione, perché tutti i canoni potevano convivere senza collidere, non c’era più attrito tra i registri semantici e lessicali della poesia, che si scopriva mero calco della «comunicazione». La traiettoria lungo la quale si muove Ewa Lipska è volutamente «tradita» dall’autrice la quale marca un punto importante: che accetta la poesia di impianto privatistico per ribaltarne il valore simbolico. Ed è perfino ovvio che, a valle, cioè ai giorni nostri, il discorso poetico della poetessa polacca si trovi a ricalcare la crisi di identità dell’io narrante e la crisi di validità dello statuto di verità del discorso poetico, il quale si scopre posto su un fondamento meta stabile.
La «nuova ontologia estetica» assume in pieno la lezione della poesia europea, la necessità di un discorso poetico che si fondi su un «fondamento meta stabile», è un pensare l’arte poetica in conformità con la caduta del «fondamento», un pensare il pensiero di un’arte poetica che trova in sé la forza che deriva dalla sua intima debolezza e precarietà fondazionale. La poesia lipskiana è indicativa per il suo essere costruita con giunture di discorsi e giustapposizioni, perifrasi, sintagmi estraniati e ultronei, sovrapposizioni, effetti traumatici; la punteggiatura stigmatizza gli stop ma senza i «go», sono stop e basta; la poesia è costipata di interruzioni, come per arrestare e depistare la fluenza musical-pentagrammatica di un tempo.
Il paradosso della non-comunicazione
La Lipska va al fondo della questione: la poesia è diventata «comunicazione», prende congedo dalla «verità» e dal suo involucro museal-musicale; l’esistenza è diventata un valore «posizionale», «prospettico», comunicazionale, una appendice della comunicazione. Ci troviamo nel regime del presentismo, totalitario e pervasivo, una vetrina senza negozio: il nuovo dio è l’immediato, il qui e ora, l’attualità, la comunicazione. E allora, la poesia di Ewa Lipska si assume il compito di presentarsi come un paradosso vivente, un congegno paradossale prodotto della non-comunicazione, la poesia si pone come allestimento di un palcoscenico in cui la «verità» non può più essere chiamata in causa in quanto non c’è un linguaggio della «verità» stabile, pena la coincidenza tra il «nome» e la «cosa». La Lipska prende atto che è possibile soltanto il linguaggio della «comunicazione», e la sua poesia diventa, paradossalmente, sempre più comunicativa, persuasiva, sentenziosa. Paradosso del discorso poetico che si sottrae con tutte le forze al discorso imbonitorio e giornalistico che si vuole panlinguistico e comunicazionale e che crede che il discorso poetico sia libero, che possa presentarsi come atto di gratuità tra il «nome» e la «cosa». La Lipska prende atto che della «verità» non ci restano neanche le tracce, neanche echi, tanto meno orme, impronte, ombre… la verità è un dileguantesi, che si rivela nell’atto del dileguarsi in quanto si svolge nel tempo, è un apparecchio dotato di temporalità, è essa stessa un congegno temporale, posizionale, transizionale. La verità è ciò che transita, il transitante e il sottraentesi. L’arte moderna rappresenta l’oblio della verità e l’oblio della memoria, reca la traccia di ciò che è stato sottratto. La verità poetica scopre il proprio statuto paradossale e aporetico. È questo il suo enigma.
Una riflessione sugli oggetti
L’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto. L’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e di avere esperienza del mondo. La «questità degli oggetti» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, che convoca la possibilità del loro essere e la possibilità del loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità di oggetti» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]
La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in ogni oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.
Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3]
La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.
1 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, 1953, Osservazioni filosofiche, trad. it. M. Rosso, Einaudi, Torino, 1976. p. 41
2 Ibidem p. 39
3 Ibidem, p. 168
Poesie di Ewa Lipska
Il giorno dei Vivi
Nel giorno dei Vivi
i morti giungono alle loro tombe
– accendono le luci al neon
e piantano i crisantemi delle antenne
sui tetti dei multipiani sepolcri
a riscaldamento centralizzato.
Poi
scendono con gli ascensori
verso il quotidiano lavoro:
la morte. Continua a leggere