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Laboratorio pubblico di poesia: commenti e poesie al seguito di Ewa Lipska tra Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Daniela Crasnaru, Francesca Dono, Fritz Hertz, Antonio Sagredo, Gino Rago, Nelly Sachs, Chiara Catapano, Lucio Mayoor Tosi, – verso una nuova ontologia estetica

Giorgio Linguaglossa

22 settembre 2017 alle 9:08

E adesso, una mia poesia.
(alla maniera di Ewa Lipska)

«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…
Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più
possibile trovarsi, dove non c’è neanche bisogno
di cercare le scaturigini di alcunché.
Le parole, egregio Signor Linguaglossa,
in questo luogo sono del tutto fuori posto.
Mi perdoni questa ovvietà,
ma lei, mi dicono, è un poeta!
Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole

nella trappola della geometria euclidea.
Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi.
Tutto ciò che ci ha amato,
cari Rago e Linguaglossa, cari Gabriele e Tosi,
e quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…».

Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac. Arietta di Offenbach.  Sorrise. La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano. «Professione?», «Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose. Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto. Cravatta blu a pallini gialli. Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda. «Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi… No, no, non parlo di voi, caro amico… parlo d’altro…».

«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.

Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi

nel suo stesso negarsi.

Che vuole, un gioco di prestigio!

Sì, mi attendo da Voi una risposta.

Una sola, però,

intorno alla de-coincisione dell’essere dal nulla.

E sì…

anche intorno all’Assoluto, che vuole!.
Per questo Vi dò il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà
al numero civico 777 piano terzo scala D,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

 

Mario M. Gabriele

22 settembre 2017 alle 14:16

Signor K, e Signor Cogito, Sig.Gab e Sig.na Evelyn, Sig.ra Schubert, Sig Tosi e Sig. Rago, Sig. Steven e tanti altri Signori e Commodori,ma dove vi siete incontrati? Al Palazzetto dello Sport Linguistico? Abbiamo tutti un indirizzo ed è: il “Quartier Generale dell’ALDILA’, al numero civico 777, vicino alla abitazione di Dio. Ciò che ci ha amato se ne è andato dalla ciminiera Al Centro Impiego cercano “Spazzini”.

 Strilli Espmark Le labbra dell'insegnanteStrilli Busacca Vedo la vampa

Carlo Livia

22 settembre 2017 alle 12:37

La decomposizione delle strutture morfosintattiche, come strumento d’indagine di nuove relazioni tra linguaggio e ontologia, come nell’opera di Zanzotto o Celan, può essere mutata in una decontestualizzazione semantica di sintagmi e frammenti diegetici che rimangono strutturalmente integri, ma assumono diversa funzione noetica, nella trasgressione dell’ordine logico-relazionale, con il risultato di mettere in luce l’irrazionalità latente nella logica convenzionale, come avviene in Lipska e Linguaglossa; è la stessa differenza, più o meno, che sussiste fra la pittura di Braque e quella di Magritte. Ecco un testo in cui ho tentato un’integrazione delle due procedure espressive.

Altra ferita del silenzio
Il corpo allucinante risplende
e scompare nella risata del vento
coi suoi frutti segreti mangiati vivi
L’amore sprofonda nello specchio
pugnalato dalla memoria
Dietro i pozzi degli antenati
vecchie femmine lunatiche sorvegliano l’entrata
Trascino il mio letto per campi lamentosi
la madre s’allontana su fondali d’erba
E’ finita l’attesa
quella lotta d’alberi e belve
dietro la casa di cenere
Ma non riesco a dormire
sotto lo sguardo di questi spettri

Donatella Costantina Giancaspero

22 settembre 2017 alle 20:13

gentile Carlo Livia,

seguo sempre con attenzione e stima i suoi interventi e le sue poesie. Complimenti sia per il commento che per la poesia, molto interessante e coinvolgente… si vede che anche lei sta cercando una poesia diversa da quella che si legge in Italia… inserisca pure le sue poesie sono una lettrice attenta e priva di pregiudizi. Questo è un Laboratorio all’aperto, fatto per poeti senza tacchi a spillo. Ho un appunto da farle. La prima strofa io la scriverei così, togliendo due aggettivi. Secondo me la strofa corre meglio:

“Il corpo risplende e scompare nella risata del vento
coi suoi frutti mangiati vivi…”

a me sembra più scorrevole…

saluti.

Strilli GriecoCarlo Livia

22 settembre 2017 alle 20:59

Grazie, gentilissima, faccio quello che posso, i tacchi a spillo non li ho mai amati, nemmeno come simbolo, malgrado sia di pochi centimetri più alto di Woody Allen. Un caro saluto. Continua a leggere

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Perché l’Olocausto? Perché la Memoria? Perché la poesia? – Poesie di Dvora Amir, Tiziana Antonilli, Nelly Sachs e Umberto Saba (a cura di Chiara Catapano), Sabino Caronia, Edith Dzieduszycka, Steven Grieco Rathgeb

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Poesie per la Memoria

Ritengo utile proseguire la linea di pensiero che parte dall’Olocausto, attraversa Adorno de La dialettica negativa e  la Dialettica dell’illuminismo ed arriva ai nostri giorni, a Zygmunt Bauman e la sua nota tesi della inscindibilità dell’Olocausto dalla cultura che il sistema economico dell’Occidente ha creato. C’è oggi bisogno di conservare attiva la Memoria. C’è oggi bisogno di una critica sufficiente, di un pensiero critico del minimo indispensabile. In proposito, incollo qui il retro di copertina del libro di critica della poesia italiana contemporanea che sta andando in stampa con Progetto Cultura:

Critica della Ragione sufficiente. Perché questo titolo? Lo chiedo ai lettori: c’è ancora una ragione sufficiente per parlare di poesia? Con la civiltà mediatica siamo entrati in una epoca che non ha più ragioni sufficienti per leggere poesia. È questo il grave interrogativo che risuona tra le pagine del libro. Ritengo che questa sia la Domanda Fondamentale che un critico di poesia non può non porsi nella nostra epoca di stagnazione economica e spirituale. Non credo che esistano risposte facili a questo interrogativo.

Probabilmente oggi che alla poesia non è richiesto più nulla, forse proprio oggi alla poesia è posta la Interrogazione Fondamentale. Finalmente, la poesia è libera, libera di non dire nulla o di dire ciò che è essenziale e inevitabile. Questo è molto semplice, è un pensiero intuitivo che tutti possono far proprio. Nel momento della sua chiusura clausura, la poesia si trova sorprendentemente libera, libera di porsi la Domanda Fondamentale, quella Domanda che per lunghi decenni nel corso del Novecento non si aveva l’urgenza e la necessità di porsi. La poesia, dunque, si trova davanti alla inevitabilità di dire ciò che è. E questa io credo che sia la più grande possibilità che il mondo moderno concede alla Poesia.

Esprimere nel modo più determinato e concreto l’inconscio che sta alle spalle del Pensiero pensato e non pensato dell’Occidente, il sottosuolo del sottosuolo che giace ancora più a fondo del sottosuolo costituito dal pensiero ordinario in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà dell’Occidente. Una poesia che si ponga l’ambizioso obiettivo di pensare l’impensato, le cose del sottosuolo, more geometrico di un precedente more geometrico sotterraneo. Pensare la costruzione stilistica disabitata come la più consona ad essere abitata. Trarre dunque la forza dalla propria debolezza. Una indagine sulla poesia contemporanea non può non soffermarsi sulla Crisi dell’Europa, sulla crisi della cultura europea. La poesia non può non riflettere i contorni di questa crisi. George Steiner indica questo punto con molta chiarezza quando scrive che «la letteratura ha scelto il dominio delle piccole relazioni personali», la «privacy». Ma, quando la crisi raggiunge il punto più basso, ecco che si avverte la necessità di rispondere alla crisi con un «Grande Progetto», un disegno di poesia che assuma la crisi come trampolino di lancio per una riformulazione radicale, per una «nuova ontologia estetica».

 (Giorgio Linguaglossa)

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Ieri sera al Centro Ebraico, io non me la sono sentita di leggere una mia poesia (ma domani una mia dovrebbe comparire qui su questa rivista), non per le ragioni pochissimo convincenti che dice Fratini, ma perché da giorni nella mia testa c’era una poesia molto più bella delle mie: di una grande quanto non appariscente poetessa israeliana, Dvora Amir, di cui ho fatto un post sull’Ombra delle Parole nel settembre 2014. Infatti lei non è, o almeno nel 2014 non era, tradotta in italiano, per cui la sua poesia in questo paese resta ancora un buco nero. (Questo il motivo, e lo spiego bene nella mia piccola premessa a quel post, che mi aveva spinto a tradurre in italiano dall’inglese poesie scritte originariamente in ebraico).
La propongo qui ai lettori.

(Steven Grieco-Rathgeb)

Dvora Amir 3

Dvora Amir

Dvora Amir

 HOW MANY WINDOWS DOES A PERSON NEED

How many windows does a person need to open himself,
so he won’t be like Captain Nemo, trapped in the webs of length
and width coordinates
hunted by his world. Among navigation instruments, “moving
within the moveable base,”
closed in, as if saying let the world come through my porthole,
let it accustom itself to me.
And on his eyes he put patches made of glass to keep tears
from pouring to the light.
He too needed several windows to save his life.
A tiny slit, a teeny gate to look through, and from the inside out.
Like Jonah in the belly of the whale, in the closing darkness
he saw a sparkling pearl,
pressed up against the fish’s pupil like an old man to the
keyhole in his door.
He saw flowing water moving towards him, and knew: the fish as well as the various creatures of the sea
like him live their lives in a trap,
and he heard his mouth tell his ears, I am alive.

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: 1991, Linda Zisquit
From: Modern Hebrew Literature No. 6
Publisher: Institute for the Translation of Hebrew Literature, Ramat Gan, 1991

DI QUANTE FINESTRE HA BISOGNO UNA PERSONA

Di quante finestre ha bisogno una persona per aprirsi,
perché non sia un Capitan Nemo, imprigionato dentro le trame
delle coordinate in lungo e in largo
braccato dal suo mondo. Fra gli strumenti di navigazione, “muovendosi
all’interno della base possibile,”
chiuso dentro, come se dicesse, sia il mondo a penetrare dal mio oblò,
sia lui ad abituarsi a me.
E sugli occhi mise toppe di vetro perché le sue lacrime
non colassero alla luce.
Anche lui ebbe bisogno di diverse finestre per salvare la propria vita.
Una sottile fessura, un cancellino attraverso cui guardare, e dall’interno verso fuori.
Come Giona nella pancia della balena, nell’oscurità crescente
vide una perla splendente,
premuta contro la pupilla del pesce come un vecchio al
buco della serratura del suo uscio.
Vide le acque ondeggiargli incontro, e seppe: il pesce, e le diverse
creature del mare
vivono come lui le loro vite in una trappola,
e sentì la sua bocca dire alle sue orecchie: io vivo.

 

tiziana antonilli

tiziana antonilli

Tiziana Antonilli

Scala Richter

Un battito prima
mi hai preso la mano destra
quella che scrive ma non apre le porte.
Appartengo ora all’universo che sa
– intendevi –
osservo le leggi stratificate
che danno i nomi alle faglie.

non come quando
ancora pellegrina
scegliesti noi tre lanciati sul futuro
per imitare un anonimo vento di passaggio.

Chiara Catapano

Ho voluto riunire due testi poetici di due esiliati dal nazismo e dal fascismo: Umberto Saba, di cui condivido la triestinità, e la tedesca Nelly Sachs. Il primo dovette riparare a Firenze, mentre la Sachs riuscì a passare i confini tedeschi grazie all’intervento della scrittrice svedese Selma Lagerlöf.
È la testimonianza di chi sfuggì alle persecuzioni pagando ugualmente un prezzo altissimo.

umberto-sabaUmberto Saba

Avevo

Da una burrasca ignobile approdato
a questa casa ospitale, m’affaccio
– liberamente infine – alla finestra.
Guardo nel cielo nuvole passare,
biancheggiare lo spicchio della luna,

Palazzo Pitti di fronte. E mi volgo
vane antiche domande: Perché, madre,
m’hai messo al mondo? Che ci faccio adesso
che sono vecchio, che tutto s’innova,
che il passato è macerie, che alla prova
impari mi trovai di spaventose
vicende? Viene meno anche la fede
nella morte, che tutto essa risolva.

Avevo il mondo per me; avevo luoghi
del mondo dove mi salvavo. Tanta
luce in quelli ho veduto che, a momenti,
ero una luce io stesso. Ricordi,
tu dei miei giovani amici il più caro,
tu quasi un figlio per me, che non pure
so dove sei, né se più sei, che a volte
prigioniero ti penso nella terra
squallida, in mano al nemico? Vergogna
mi prende allora di quel poco cibo,
dell’ospitale provvisorio tetto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.

Avevo una famiglia, una compagna;
la buona, la meravigliosa Lina.
È viva ancora, ma al riposo inclina
più che i suoi anni impongano. Ed un’ansia
pietà mi prende di vederla ancora,
in non sue case affaccendata, il fuoco
alimentare a scarse legna. D’altri
tempi al ricordo doloroso il cuore
si stringe, come ad un rimorso, in petto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.

Avevo una bambina, oggi una donna.
Di me vedevo in lei la miglior parte.
Tempo funesto anche trovava l’arte
di staccarla da me, che la radice
vede in me dei suoi mali, né più l’occhio
mi volge, azzurro, con l’usato affetto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.

Avevo una città bella tra i monti
rocciosi e il mare luminoso. Mia
perché vi nacqui, più che d’altri mia
che la scoprivo fanciullo, ed adulto
per sempre a Italia la sposai col canto.
Vivere si doveva. Ed io per tanto
scelsi fra i mali il più degno: fu il piccolo
d’antichi libri raro negozietto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
ed il tedesco lurco.

Avevo un cimitero ove mia madre
riposa, e i vecchi di mia madre. Bello
come un giardino; e quante volte in quello
mi rifugiavo col pensiero! Oscuri
esigli e lunghi, altre vicende, dubbio
quel giardino mi mostrano e quel letto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
– anche la tomba – ed il tedesco lurco.

nelly-sachs-92

nelly-sachs-92

Nelly Sachs

Und wenn diese meine Haut zerschlagen sein wird,
so werde ich ohne mein Fleisch Gott schauen
Hiob

O die Schornsteine
Auf den sinnreich erdachten Wohnungen des Todes,
Als Israels Leib zog aufgelest in Rauch
Durch die Luft –
Als Essenkehrer ihn ein Stern empfing
Der schwarz wurde
Oder war es ein Sonnenstrahl?
O die Schornsteine!
Freiheitswege für Jeremias und Hiobs Staub –
Wer erdachte euch und baute Stein auf Stein
Den Weg für Flüchtlinge aus Rauch?
O die Wohnungen des Todes,
Einladend hergerichtet
Für den Wirt des Hauses, der sonst Gast war –
O ihr Finger,
Die Eingangsschwelle legend
Wie ein Messer zwischen Leben und Tod –
O ihr Schornsteine,
O ihr Finger,
Und Israels Leib im Rauch durch die Luft!

E quando questa mia pelle sarà dissolta
Allora contemplerò Dio senza la mia carne.

Libro di Giobbe

Oh i camini
Sulle ingegnose dimore della morte,
quando il corpo d’Israele si disperde in fumo
per l’aria –
come uno spazzacamino una stella l’accolse
e divenne nera
oppure era un raggio di sole?
Oh i camini!
Vie di libertà per le ceneri di Job e Geremia –
Chi vi ha inventati ed edificato pietra su pietra
Il sentiero dei fuggiaschi di fumo?
Oh le dimore della morte
Accogliente imbandita
per il padrone di casa, che altrimenti era ospite –
Oh voi dita
Che posate la soglia
Come un coltello tra vita e morte –
Oh voi camini,
oh voi dita
e il corpo d’Israele in fumo nell’aria!

Nelly Sachs (trad. Chiara Catapano)

edith dzieduszycka 1

Edith Dzieduszycka

Due poesie

Freddo
tiepido
caldo
rovente
memoria
grida
camion che si allontana
su una strada vuota
camion spalancato
dietro
rannicchiati
tremanti
stretti
uomini
donne
strappati
portati via
diavolo sa dove
a poco a poco rubati
alla vista
alla vita
Padre
madre
cosa diventerete
quando vi rivedrò
sorelle
prendetemi per mano
cosa diventeremo
rimaniamo saldate.
Una macchia oscura
ormai punto soltanto
che scompare
lontano
sul nastro grigioblu
di una strada vuota
lacrime
assenza
silenzio
paura del viaggio
paura dei viaggi.

*

Fuggono le parole
per evocare l’ieri
così come via vanno
i giorni alla deriva
Tra loro sol rimane
un ponte tenui fili
oscillanti in balia
dei capricci del vento

Sfumano le immagini
si smorza il dolore
che fa posto a dei vuoti
ormai pieni d’assenza
Tal brandelli di carne
strapazzati dal tempo
sfilacciano le ombre
leggere si dissolvono
al soffio più potente
dell’ombra maiuscola
che su di noi allarga
nera la sua mantella

Le voci soffocate
nel silenzio lontano
a sentirsi tradite
urlano nella notte
e senza più speranza
al risvolto perduto
di nostre anime
s’aggrappano smarrite.

Estratte da Nella notte un treno Editore Il Salice – 2009

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Sabino Caronia

La vergogna

No, la vecchiaia non mi fa paura,
mi fa paura l’altrui giovinezza
con quel che di famelico comporta.

Mi fa paura e più mi fa vergogna
l’esser con loro ed usurpare il posto
di morti certo assai di noi più degni.

I sommersi e i salvati, la coscienza
d’essere vivi in un mondo di morti,
di questo veramente mi vergogno.

Di cosa si vergogna Josef K .?
Di cosa si vergogna l’innocente
col coltello piantato già nel cuore?

Del tribunale occulto? Della colpa
ignota, inconsapevole? Di cosa?
Forse d ‘essere un uomo si vergogna.

Steven Grieco

Steven Grieco-Rathgeb

Троица – Trinità del Vecchio Testamento

Sono apparsi in una sfera
staccata dal pneuma,
adesso guardano
il succedersi dei secoli.

Nevica.
La rozza pianura si sdraia,
stende le braccia all’orizzonte.
Sopra i suoi lamenti e tonfi
il muto giacere è perenne.

Nel profondo, miriadi di tremiti
si scindono, balenano, si spengono.
Ma uno si è avvicinato, crescendo,
è sgorgato inalberandosi fuori dal tempo
in un silenzio di respiro.

È diventato tre angeli
che rispecchiano
la prima neve sulla pianura
e la sua brutalità.

Nei loro occhi meravigliosi
si muove il patriarca di vento
stringendo in mano un fascio d’ombre.

Questa è la prima poesia che scrissi in lingua italiana. Risale al 1973, quando dopo qualche anno di studio a Parigi, mi ero fermato a Firenze.
Il soggetto della poesia è biblico, rappresenta i tre angeli che visitano Abramo per annunciargli la nascita del figlio Isacco. Un soggetto preferito dei pittori russi di icone, particolarmente nel 15° secolo, quando la terra russa gravava sotto il giogo dei Mongoli.
Le due trinità forse più celebri sono quella di Teofane il Greco, e l’altra di Andrey Rublyov. Un link per la prima, la più folgorante, è http://www.abcgallery.com/I/icons/greek10.html
Io però sono un uomo non religioso, seppure profondamente convinto del mistero delle cose. E quindi la mia poesia (come, penso, quelle icone) allude ad un tempo fuori dal tempo, innominabile (per cui scadono parole come “Dio”, “ateismo”, “gnosis”, etc.), non raggiungibile attraverso la speranza, né con l’intelligenza, meno ancora attraverso una fede: tuttavia unico approdo esistenziale, e unica possibilità di superamento della violenza dell’uomo quando questa devasta il paesaggio umano fino a togliere ogni idealità o concretezza in cui ancora riconoscersi.
In seguito, certamente, l’uomo raccoglierà i pezzi, riprenderà a costruire, pur sapendo che quella ricostruzione per lungo tempo sarà imbevuta di veleno. Ma costruire egli deve, questo è il suo destino. Il semplice biologico andare avanti. La vita biologica se ne infischia della sua impossibilità di dare risposte alla sua pena.

(S.G.R.)

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Ingeborg Bachmann (1926-1973), nota anche come Ruth Keller (Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973) POESIE SCELTE traduzioni di Anna Maria Curci, Maria Teresa Mandalari, Silvia Bortoli

paul celan bachmann

paul celan ingeborg bachmann

http://www.letteratura.rai.it/articoli/ingeborg-bachmann-shakespeare-aveva-ragione/1014/default.aspx

In questo prezioso frammento televisivo, Ingeborg Bachmann legge una poesia dedicata a Praga e spiega chi sono per lei i boèmi. Sono degli “erranti”. La scrittrice racconta in italiano che quando conobbe Praga le venne in mente la frase di Shakespeare (contestata da Ben Johnson) “La Boemia è sul mare”, e di averne capito il senso.

Ingeborg Bachmann nasce nel 1926 in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequenta le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che conclude discutendo una tesi su Martin Heidegger, dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger”. Il suo maestro e’  il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna. Al tempo degli studi ha modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus. Diviene redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compone la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). E’ tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ha il debutto letterario. Già nel 1953 riceve il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit). In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produce il radiodramma Le cicale (Die Zikaden, 1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot, 1955) e nel 1960 il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956 vede la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese. Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattiene una relazione con l’autore Max Frisch. Nel 1958 appare Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden). Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le viene consegnato il premio Georg Büchner (Georg-Büchner-Preis), un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt, 1964), ed e’ la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Cause di morte” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimangono tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972 viene data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui viene attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), un incendio avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973 la porta alla morte, che avviene il 17 ottobre. Ingeborg Bachmann e’ sepolta dal 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato oggi il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale in coincidenza della ricorrenza della nascita.

 

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Figlia di Olga Haas e Mathias Bachmann, Ingeborg Bachmann nacque nel 1926 in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequentò l’università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che concluse discutendo una tesi su – propriamente, contro Martin Heidegger – dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger“. Il suo maestro fu il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna, da cui i membri, in seguito all’omicidio d’uno di loro (Moritz Schilick) da parte di un fanatico nazista e dell’ostilità in seguito dimostratagli dal regime politico post Anschluss erano dovuti fuggire. Nell’epoca dello studio ebbe modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus.

Il rapporto collaborativo e sentimentale tra Paul Celan ed Ingeborg Bachmann è documentato da uno scambio epistolare pubblicato nel 2008.

Presto Bachmann divenne redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compose la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). Fu tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ebbe il debutto letterario. Da allora in poi Ingeborg Bachmann fu una stella luminosa della letteratura in lingua tedessca. Già nel 1953, all’età di 27 anni, ricevette il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit).

In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produsse il radiodramma Le cicale (Die Zikaden,1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot,1955) e nel 1960  il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956  vide la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis)..

Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattenne una relazione con Max Frisch. Nel 1958  apparve Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden).

Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le fu consegnato invece il Georg-Büchner-Preis, un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt,1964), e fu la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968  il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). Nello stesso anno, tenne a Roma, presso l’Istituto tedesco di cultura, la conferenza intitolata “Il ruolo dello scrittore nella Germania divisa”. Passò poi la serata con il critico letterarioMarcel Reich-Ranicki, come lui stesso ricorda nelle sue memorie.

La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971  del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Tramandato” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimasero tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972  fu data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui fu attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), uno sfortunato incendio domestico, avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973, ebbe conseguenze fatali per l’autrice, che ne morì il 17 ottobre.

Ingeborg Bachmann è sepolta, dal 25 ottobre 1973, nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl.

*

«E io sono convinta che dove non vengono sollevate le eterne, sempre nuove domande che non risparmiano nessuno sul perché e sul fine ultimo delle cose, e le altre che a queste si legano, compresa, se volete, la questione della colpa, e dove nell’autore stesso non esiste il dubbio, il sospetto, e cioè la vera problematica, là, io credo, non può nascere nuova poesia. […] La realtà acquista un linguaggio nuovo solo tramite uno scatto morale… si ha linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori.» *

Nel 1961 Ingeborg Bachmann dedica Ihr Worte a Nelly Sachs. Bachmann stessa riferisce in una intervista, a proposito di questa poesia: «Ho scritto Voi, parole, dopo che per cinque anni non mi ero più arrischiata a scrivere una poesia, non ne volevo scrivere più, avevo proibito a me stessa di creare una struttura del genere, quella creazione chiamata poesia […]. So ancora poco di poesie, ma tra le poche cose che so c’è il sospetto. Sospetta a sufficienza di te, sospetta delle parole, della lingua, mi sono detta spesso, approfondisci questo sospetto – perché un giorno, forse, possa nascere qualcosa di nuovo – oppure nulla debba nascere.» *
La traduzione, in questo caso, è davvero (Wahrlich, come recita il titolo di un’altra poesia di Ingeborg Bachmann, dedicata alle parole e a un’altra poetessa, Anna Achmatova) un varcare, che rischia di essere impudico e azzardato, “la soglia dell’altro”. Solo un dettaglio su una difficoltà traduttiva: nel finale, Ingeborg Bachmann gioca con due termini, anzi con uno, del quale conia un plurale estraneo alla lingua corrente. Il sostantivo Wort, parola, ha in tedesco due forme di plurale: Worte, che sta per parole (dette o scritte), qui le destinatarie dei versi, e Wörter, precisamente “vocaboli”. Il sostantivo composto “Sterbenswort”, che letteralmente significa “parola di morte” è usato correntemente con l’articolo negativo “kein” e sta a indicare “neanche una parola”, “neanche un fiato”. Kein Sterbenswort è la negazione della parola, è il silenzio, mentre la contaminazione “Sterbenswörter” è usata qui, a mio parere, con l’intenzione di far risaltare il potenziale distruttivo delle parole, di determinate parole. Anche qui il gioco è tra resa e ribellione. Questa è la mia personale “resa”.

*[Letteratura come utopia – Lezioni di Francoforte, Ingeborg Bachmann. Traduzione di Vanda Perretta]

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

Voi, parole

Per Nelly Sachs, l’amica, la poetessa, con venerazione
Voi, parole, su, seguitemi!,
e anche se siamo andati avanti,
troppo avanti, ancora una volta
si va oltre, si va senza fine.

Non sta schiarendo.

La parola si tirerà soltanto
altre parole dietro,
la frase un’altra frase.
Così vorrebbe il mondo,

definitivamente, farsi invadente,
esser già detto.
Non dite il mondo.
Parole, seguitemi,
che non divenga definitiva,
no, questa brama di parole
e botta e risposta!

Non fate, ora, per un po’,
parlar alcuno tra i sentimenti,
lasciate il muscolo cuore
allenarsi in altro modo.

Lasciate, dico, lasciate.

Al sommo orecchio nulla,
nulla, dico, in un sussurro,
per la morte nulla ti venga in mente,
lascia, e seguimi, non mite,
né aspra
non consolatoria
non sconsolatamente
significativa,
e così neanche senza segno –

E, bada, non questo: un’immagine
nella tela di polvere, vuoto ruzzolare
di sillabe, vocaboli di morte.

Neanche una parola,
voi, parole!

(traduzione di Anna Maria Curci)

Ihr Worte

Für Nelly Sachs, die Freundin, die Dichterin, in Verehrung
Ihr Worte, auf, mir nach!,
und sind wir auch schon weiter,
zu weit gegangen, geht’s noch einmal
weiter, zu keinem Ende geht’s.

Es hellt nicht auf.

Das Wort
wird doch nur
andre Worte nach sich ziehn,
Satz den Satz.
So möchte Welt,
endgültig,
sich aufdrängen,
schon gesagt sein.
Sagt sie nicht.

Worte, mir nach,
daß nicht endgültig wird
– nicht diese Wortbegier
und Spruch auf Widerspruch!

Laßt eine Weile jetzt
keins der Gefühle sprechen,
den Muskel Herz
sich anders üben.

Laßt, sag ich, laßt.

Ins höchste Ohr nicht,
nichts, sag ich, geflüstert,
zum Tod fall dir nichts ein,
laß, und mir nach, nicht mild
noch bitterlich,
nicht trostreich,
ohne Trost
bezeichnend nicht,
so auch nicht zeichenlos –

Und nur nicht dies: ein Bild
im Staubgespinst, leeres Geroll
von Silben, Sterbenswörter.

Kein Sterbenswort,
Ihr Worte!
*originale: «Ihr Worte habe ich geschrieben, nachdem ich mich fünf Jahre lang nicht mehr traute, ein Gedicht zu schreiben, keines mehr schreiben wollte, mir verboten habe, noch so ein Gebilde zu machen, das man Gedicht nennt. […] Ich weiß noch immer wenig über Gedichte, aber zu dem wenigen gehört der Verdacht. Verdächtige dich genug, verdächtige die Worte, die Sprache, das habe ich mir oft gesagt, vertiefe diesen Verdacht – damit eines Tags, vielleicht, etwas Neues entstehen kann – oder es soll nichts mehr entstehen.»

(traduzione di Anna Maria Curci)

Nulla verrà più
Nulla verrà più.
Non vi sarà più primavera.
Almanacchi millenari lo predicono a tutti.
Ma nemmeno estate e altre cose
che recano il bell’attributo estivo
nulla verrà più.
Non devi assolutamente piangere,
dice una musica.
Nessun altro dice qualcosa.

Invocazione all’Orsa Maggiore

Orsa Maggiore, scendi insita notte,
animale dal vello di nuvole
e gli occhi antichi,
occhi stellari;
sbucano dall’intrico scintillanti
le tue zampe e gli artigli,
artigli stellari;
vigili custodiamo le greggi,
pur ammaliati da te, e diffidiamo
dei tuoi lombi stanchi
e delle zampe aguzze per metà scoperte,
vecchia Orsa.

Una pigna, il vostro mondo.
Voi, le scaglie intorno.
Io lo spingo, lo rotolo,
dagli abeti in principio
agli abeti alla fine:
lo fiuto, lo tento col muso,
e con le zampe l’abbranco.

Abbiate o non abbiate timore:
versate l’obolo nella borsa sonante e date
una buona parola all’uomo cieco,
che l’Orsa trattenga al guinzaglio.
E insaporite bene gli agnelli.
Potrebbe, quest’Orsa, strappare i lacci,
non più minacciare ma dare
la caccia a tutte le pigne cadute
dagli abeti, i grandi abeti alati
precipitati dal paradiso.

da Poesie (Guanda, 2006), trad. it. M. T. Mandalari

Ancora la semina è lontana. Si vedono
terreni inzuppati di pioggia e stelle di marzo.
Nella formula di pensieri infecondi
si configura l’universo seguendo l’esempio
della luce, che non sfiora la neve.

Sotto la neve ci sarà anche polvere
e, non disfatto, il futuro nutrimento
della polvere. Oh il vento che si leva!
Altri aratri dirompono l’oscurità.
Le giornate tendono a farsi più lunghe.

Nelle lunghe giornate, non richiesti,
veniamo seminati entro quei solchi storti
e diritti, e si eclissano stelle. Nei campi
prosperiamo o ci corrompiamo a caso,
docili alla pioggia, e infine anche alla luce.

*

Dei calabroni non farò parola,
perché è facile riconoscerli.
E anche le rivoluzioni in corso
non sono pericolose.
La morte a seguito del frastuono
è ormai decisa da sempre.

Ma guardati dalle celebrità effimere
e dalle donne, dai cacciatori domenicali,
dai cosmetisti, dagli indecisi, dai bene intenzionati,
che nessun disprezzo riesce a scalfire.

Dai boschi recammo sterpi e tronchi,
e il sole a lungo tardò a sorgere per noi.
Inebriata da sequele cartacee
non riconosco più i rami,
né il muschio, che fermenta in cupi inchiostri,
né la parola, nelle cortecce incisa,
schietta e temeraria.

Logorìo di fogli, nastri registrati,
cartelloni neri… Giorno e notte
freme, dovunque sotto le stelle,
la macchina della fede. Ma nel legno,
fintanto ch’è verde, e con la bile,
fintanto ch’è amara, sono intenzionata
a scrivere quello che fu in principio!

Badate a mantenervi all’erta!

La traccia delle schegge volate è inseguita
dallo sciame dei calabroni
e intanto alla fontana
si ribella alla seduzione,
che un tempo ci ha fiaccati,
la chioma.

*

In una notte d’amore dopo una lunga notte
ho di nuovo imparato a parlare e piangevo
perché mi è uscita di bocca una parola.
Ho imparato di nuovo a camminare,
sono andata alla finestra e ho detto fame e luce
e notte mi stava bene per luce.

Dopo una notte troppo lunga,
ho dormito di nuovo bene,
confidando,

nel buio parlavo più facilmente,
continuavo a farlo di giorno.
Muovevo le dita sul mio viso,
non sono più morta.

Un cespuglio incendiato nella notte.
Il mio vendicatore si è fatto avanti e si chiamava vita.
Ho detto addirittura: lasciatemi morire e pensavo
senza timore alla morte più amata.

(Traduzione di Silvia Bortoli)

da “Non conosco mondo migliore”, Guanda, Parma, 2004

 

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