Antonella Antonelli
Un’altra fuga
“E’ mia la dipendenza?”
Ti chiedo smarrita.
“E quali catene ti ho dato io?
Nessuna. Sei libera di andare,
scegliere, volermi e non volermi.
Non smetterò mai di cercarti
lasciandoti andare”
“E come faccio io senza catene?
Passa dunque da qui, la mia indipendenza?”
Togli gli occhiali,
mi fissi negli occhi
con gli occhi stanchi,
come fosse faticoso,
ancora una volta,
spiegarmi:
“elemosini amori incatenanti
per non perderti, e poi scappi
senza mai liberarti.
Una semplice evasione
la tua fuga.”
Resta appena socchiusa
la tua bocca, come volessi aggiungere
qualcosa.
“Come faccio ad amarti
se non mi tieni?”
“A catena amore, come un cane fedele?
Io non ti tengo, no.
Sei libera di andare oppure di restare.”
Ti abbraccio di slancio, stupita.
Metto la testa sulle tue gambe,
mi sfiori i ricci, li sento
aggrovigliarsi tra le tue dita.
Vorrei fossi un gigante
e io nella tua mano, ballerina,
girare sul palmo fino a cadervi.
Mi tiri su.
Metti gli occhiali
ti rimetti a leggere
metti mille libri a sommergerti.
Mille capelli sulla tua testa ferma.
E’ notte e di notte i pensieri
ruzzolano come palloni su scale popolari.
Odore di refettorio dalle porte aperte.
Il caldo si mescola, vorrei andare
una gamba piegata, l’altra pronta,
ma non mi dici niente
ti chiedo “posso restare?”
“decidi tu, amore”.
Sposti gli occhiali, mi guardi
e i tuoi occhi si muovono rapidi
sulle mie labbra incerte
“no, meglio che vada” dico
e mi sento piangere,
in silenzio, senza lacrime o scosse
dentro, come un innaffiatoio bucato.
“Peccato” dici “è già così buio.”
Ti rimetti a leggere
“allora resto” ti dico fiduciosa.
“No. Ora va.”
“S’insegna così la libertà?”
Ti chiedo altera e delusa.
Continui a leggere.
Ognuno in questo gioco ha la sua parte.
“Mi lanci un’altra sfida?”
Non mi rispondi.
Vedo gli occhiali, fili bianchi e una poltrona.
Me ne vado con il tuo silenzio.
E questa, è solo un’altra fuga.

Nazario Pardini
Contro le lune
Ho sempre fissa, padre, la tua immagine;
i nostri sogni, il cielo: prevedere
dure gelate a divorare pane,
piogge future ad annullare semi;
e brezze, e folate affilate
a recidere illusioni mai appagate.
Eppure si aspettava primavera
immaginando anche il suo profumo
nel suono nemico dell’urlo invernale.
È sempre fissa, sì!, la tua visione:
tronco scheggiato da lame
forgiate dal tempo;
fronda sfrascata da inverni ribelli;
idea appesantita
da troppe lune piene. Sì!, ti rivedo
ancora qui con me, padre immolato,
a regalarmi odori d’erbe offerte
alle frullane lucide di sole.
Sai, padre!
Qui non ci sono più terre feraci
disposte a dare vita
a mèssi generose;
fronde feconde
ad ospitare nidi da allevare.
Sulla tue terre crescono le case
abbracciate fra loro
come pietre di cava sopra storie
destinate a finire. Chiedo solo
– al cielo, a qualcuno, non so a chi –
che mi mantenga in seno la tua voce,
che mi mantenga in cuore il tuo sorriso,
il tuo sagrato profumato d’erba,
e la tua voglia, maledetta voglia,
di seminare sogni anche nei giorni
più neri della notte.
Contro le lune.
13/05/2013 h. 11 (inedito)

Stefanie Golisch
Fly and Fall
.
Piano il giorno apre gli occhi
per salutare la mattina di fine agosto.
Ecco ciò che sta per accadere oggi:
Un uomo troverà l’amore e un altro lo perderà.
Qualcuno arriverà alla stazione giusto in tempo,
mentre un altro attenderà invano.
Un merlo sussurra nell’orecchio di un altro, che bello volare e cadere.
Qualcuno inaugurerà il giorno con una bottiglia di birra,
e un altro ascolterà a lungo l’eco dei sogni complessi.
Qualcuno scriverà una lettera scarlatta,
mentre nel cuore ferito del suo vicino non è rimasta una sola parola.
Una bambina si sveglierà dai suoi sogni notturni
stringendo il suo orsacchiotto, e una donna si sveglierà
soltanto per morire a metà mattina poiché il giorno
richiede tutto questo. Lottando scivolerà via davanti agli occhi
dei vivi nello stesso momento in cui
un pittore finalmente trova il suo blu.
Oggi sarà il mio giorno pensa il giovane,
mentre si allena, impaziente di gettarsi nella mischia.
Nella cantina di una casa abbandonata,
una gatta tigre gioca con un topo soltanto
per intrattenere la piccola cosa
Quel che il pittore non sa
è che quel blu non esiste,
ma soltanto una voce lontana,
quasi non udibile nel brusio di tutto questo fare all’amore,
morire, chiacchierare con gli amici, mangiare, bere,
spaventarsi e gioire,
impaziente di placare l’insaziabile
oggi

Adriano Accattino
Può significare una svolta del respiro… non è più
parola, ma toglie la capacità di parlare
Forse qui, affrancatosi qui e in quale modo..
forse si libera ancora qualcos’altro
A partire da questo punto… ora può percorrere
le proprie strade… più volte
Tra le speranze vi sia quella di parlare per conto
di un Altro. Forse è concepibile un incontro..
Su questo indugia, s’azzarda… mette in rapporto
con la creatura
Nessuno può dire quanto… la pausa del respiro
duri ancora
*
Cerco la stessa cosa, la figura, in vista del luogo,
del farsi libera, del passo in avanti
Oppure tenta di percepire la figura nella direzione
che le è propria, fugge innanzi
Ben sappiamo dove vada la sua vita, dove sia
per andare: così era andata la sua vita
Gli risultava talvolta sgradito il fatto
di non poter camminare sulla destra
Ecco l’oscurità che muove da una distanza
che essa stessa, forse, ha tentato di progettare
Noi professiamo l’oscurità*
* da Poesie rubate Mimesis, 2013

Ivan Pozzoni
Ivan Pozzoni
PENE D’ARTISTA
Non conosco chi è Ninnj Di Stefano Busà,
– c’aggia fa!- non appena Kairos Editore
mi chiederà ancora 200€, così da essere inserito,
con tre testi, ne L’evoluzione delle forme poetiche
La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio,
nun me resta che accettà, in modo da essere anche io migliore,
migliore di come sono, 200€ migliorano la mia scrittura,
è la vittoria dell’economia, sul conflitto tra natura e cultura.
Chi cazzo è Ninnj Di Stefano Busà?
Forse un’emula di De Signorinibus, o De Signorinibus
un emulo ermetico der medico de li mortacci,
non funziona, quando bustrofedo alle due di notte,
dopo succo d’uva e Sangria, un Bellini, Porto,
divento incoerente, una sorta di Don Chisciotte,
meglio dei vari Don Abbondio che bazzicano l’orto
dell’irta arte italiana, disponibili a versare,
non nel senso di fare versi, 1500€ a Carabba,
con lo scopo recondito di farsi pubblicare,
facendo sermoni sulla gratuità dell’arte
quando vai a chiedere 30€ di quota solidale
per sconfiggere i cartelli dell’industria editoriale.
M’inchino a Ninnj Di Stefano Busà
– c’aggia fa!- senza aver capito se è una donna, un uomo, un trans,
se è un uomo, o un trans, non m’inchino,
minchia, mi sento troppo brillo per continuare,
e non sono abituato a brillare, mi toccherà tornar da Ambra,
a letto, come un’ombra, senza far rumore,
lei mette i tappi nelle orecchie per non sentirmi battere,
io, quando batte lei, nel senso di battere al Pc,
mi metto un tappo in bocca, è meraviglioso spiarla scrivere,
di lei sono sicuro che non è un uomo, o un trans,
– svelando queste cose rischio di ritrovarmi cadavere-,
o un emulo imperterrito di Oronzo Canà
davanti alla fama imperitura di Ninnj Di Stefano Busà.
(inedito)

Ambra Simeone
Ambra Simeone
mi prendo la libertà di quel che scrivo
e poi questa storia della libertà io davvero me la sono sempre chiesta,
che ti dicono che molte persone della tv, politici, soubrette, giornalisti, attori
e che persino molti scrittori famosi, non sono liberi come quelli che non li conosce nessuno,
perché a loro manca di fare certe cose normali, come andare a fare una passeggiata da soli,
farsi fotografare solo quando vogliono loro, fare l’amore senza dire niente a nessuno,
e che allora la notorietà non è più una questione di libertà, se dicono, che più sei noto
e più perdi la libertà di fare certe cose, come le fanno tutti gli altri sconosciuti,
ma a molti sembrerebbe una bufala, e allora non conviene essere famosi? lo dicono tutti?
io quindi me la sono sempre chiesta questa cosa qua, che forse uno è libero se non è riconosciuto
è libero se nessuno sa chi è, cosa fa e come vive, uno è libero se diventa invisibile,
e forse è proprio una bella scusa, una bella invenzione ideata da chissà quale creatore,
mah, sarà, proprio un bell’affare la libertà, che uno però non è libero di diventare famoso,
ma di essere uno come tanti, uno in una massa indistinta di sconosciuti, così ti dicono,
dunque secondo me la libertà l’ha inventata un bravissimo scrittore.

tiziana antonilli
Tiziana Antonilli
Come si chiamava
Lei che inavvertita folgorava l’occhiaia
scomponendone il viola
si accapigliava con l’inerzia
sbranandola
ridisegnandoci
ombretto rosso sole
inanellava il blu
inarreso dello sguardo.
Sopravvive
ma solo quando l’inverno cede
e la prima rondine
posa stanchezza
allora sembra di nuovo possibile
che uno schiocco di dita
ci inabissi all’istante
ma quella sfrontatezza quanto
insegue
sanguina
esige
se è ancora?

.
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Maria Pia Quintavalla
Qui, che ridiventa nido
I)
Se mi mettessi fuori a testimone,
del tempo e del mercato,
che la stessa scena ogni giorno
r i c o n c r e a
ma per meglio cogliere nel flusso
che si libera, io lenta
navigante che non sporge più
non rema a braccia a nuoto,
nuove luci arricchiscono disegnano
i suoi i fianchi flessi come l’iride.
Se testimone fossi dell’intero,
nel verso io potrei smorta
carpire un suono madido che afferra,
piega a lato in frescura,
la bocca benedice non sente più
pianti nolenti ma bambini
lesti nel correre,
che ricambiano il suo v o l o.
II)
Rivivi la tua infanzia, mentre ricrei
a Itaca, col padre
nel nome tuo familia nova che
come l’altra, drammatica insoluta
perché per crescere occorreva
essere amati, io adulta genitrice
della vita che si fa futura,
non mentore soltanto di occasione – infanzia
che si genera rifà mi pianta
intorno a un’ostrica mi incolla
alla matrice unita al male
con il bene, un arco soddisfatto
in sincronia f u t u r a.
.
.
.
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.
.
Roberto Maggiani
da “La bellezza non si somma” (Italic, 2013)
Dio
Ho imparato ad evocarti
dai colori e dalle forme delle cose.
Per riconoscere la tua presenza
mi bastano la soglia di una porta
sempre aperta su un patio
e una tenda
che nella brezza sappia danzare
lentamente.
Sei come un albero
che nella sua totale presenza
si assenta nell’abitudine
dello sguardo
Io invece sono come il mio gatto
che parla ai corvi lontani:
vedendoli piccoli
vorrebbe farne un boccone –
li prega di scendere
con versi inconsulti
non sapendo della loro grandezza.
Ti cerco instancabilmente
ed è solo per la nostalgia che ho di te
che scrivo poesie.

.
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.
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Carmelo Pistillo
LEI È QUI, DENTRO DI ME…
Lei è qui, dentro di me,
mi offre i sensi, torce
il suo orizzonte.
E’ in ginocchio e grida
vivi, ma io piango,
e non so quanto
il mio seme cerchi
luminescenze nella sua bocca
o quanto le sue trecce
siano già corda spezzata.
Tutto è stato così lento,
la mia testa fra le sue gambe,
le mie labbra sulle sue.
Siamo saliti e scesi
su ogni errore.
Come acrobati nell’elegia,
come acrobati nell’elegia.

.
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.
.
Faraòn Meteoses (pseud Stefano Amorese)
Inghiottitoio
(estratto)
1
Mi macera dentro per la malora
una congettura contraddittoria,
per di più di un’idea dannata
dapprincipio premeditata sotto una pensilina…
mal sopportata assai
da quel pregiudizio altrui dissuaso mai
dalla supremazia degli Àrcadi e degli aedi:
una tara ereditaria intrinseca
che sempre di più mi estranea dalle virtù degli Avi…
un’interferenza, che mi elide acidula
una vocale atona…
un sapore amaro che mi sgocciola
nell’ingestione di una Sostanza càustica…
una Bestia onnivora che mi guaisce in petto:
un autoritratto a tempera, se lo si preferisce…
una frenesia che si perpetua assidua
che mi adùltera e mi deteriora
per questo testo d’inconsistenza,
che da un incubo si è ingenerato
e che m’ingerisce…
in un buco nero divaricato.
2
In una foiba
che m’affascina fabulosa,
che non mi dice nulla
e che non ha favella…
che sia in quell’avello disseppellito
dall’unghia ippocratica del terapeuta,
che con beneficio di inventario e di bioenergetica,
mi strizzò il cervello nel sotterraneo,
cagionandomi intimamente
un malumore putrido di morfina:
una magodìa, che anche ad oggi, mi sopisce appena…
ossia il dialogo di me stesso con il mio sosia,
una messa in scena di un ricordo nitido di ciò che sono:
una comparsa anonima entro una proiezione
per chi desidera esserne l’autore.
In una simbiosi insolita, in un torbido malinteso
con il mio congenito parassito
e con l’ospite, che mi molesta e che mi fu inatteso:
un pretestuoso… un presunto me,
che non si attenua né si rasserena
nemmeno per una semicroma suonata dall’aulète
ubicata all’imboccatura…
in cui sprofondo in un tonfo sordo,
in un grido acuto…
che ormai mi ha asfissiato esausto
e compiuto nel mistero,
così come mi fu esposto
dal mio viatore muto,
col quale ho convissuto,
in cui sono compreso
e tutto ho condiviso.
1 e 2 ottobre 2018, Dialoghi e Commenti – Poesie di Nunzia Binetti, Gino Rago, Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi, Francesca Dono. (Lalie Lescorgot), Giorgio Linguaglossa
selfie Raymond Queneau
non c’è domanda che a un titolo o un altro non passi per i defilé del significante
[…]
l’Edipo però non potrà tenere indefinitamente il cartellone
in forme di società in cui
sempre più si perde il senso della tragedia
(Lacan)
Giorgio Linguaglossa
1 ottobre 2018 alle 13:37
Mi scrive una interlocutrice, Nunzia Binetti, in un messaggio:
Gentilissimo Giorgio, non conosco nei particolari il canone di Harold Boom, ma farò ricerca su questa teoria. Sto però ragionando… se ci sono attualmente solo epigoni, potremmo concludere che sia l’epigonismo la causa dell’allontanamento del lettore dalla poesia ed inoltre , come lei sostiene in più luoghi, che la poesia è morta. Il problema ( secondo me) è che tutto è stato detto o sperimentato ormai in poesia, pertanto sarà difficile trovare indirizzi inediti o fare innovazione nel modus poetandi. Personalmente trovo che alcuni poeti dei nostri giorni siano molto validi, anche se non propriamente innovativi ( non potendo essere innovativi !). Insomma io penso che la poesia non sia morta. Se riconoscessimo , poi, morta la poesia dovremmo riconoscere morta anche la critica letteraria relativa alla poesia e per due motivi :
1) perché la poesia è morta.
2) perché non esiste un metodo “scientifico”, quindi certo, con il quale stabilire cosa sia poesia e cosa non lo sia.
Diciamo pure che mi considero più ottimista di quanto lei mostra di essere. Condivido tuttavia – ed in blocco – il suo dire che la concorrenza tra poeti è terribilmente sleale (ne so qualcosa, per non parlare dei concorsi !!!) e che la poesia non può prescindere da una qualche filosofia che la conduca. Potrebbe essere proprio la filosofia quel tanto di scientifico necessario a legittimare la poesia ad essere tale ? La questione rimane aperta.
La ringrazio per la cortesia della sua risposta. Sempre con stima la saluto.
Secondo lei, Giorgio, esiste una poesia di genere ? Mi piacerebbe leggere il suo pensiero da qualche parte, se mai avesse affrontato questa tematica. Grazie.
Nunzia Binetti
24 settembre alle ore 01:18
Liberi dall’inerzia dell’indicibile
parlatemi di Potnia, del suo ventre
che più non feconda
e delle sue ginocchia genuflesse per usura.
Io parlerò di me
che scarto e ingoio pillole, ogni sei ore,
tentando di sanare la stortura,
la piaga ereditaria che consuma.
Dolore è il tempo
e lo chiamiamo Storia.
André Breton e Paul Eluard
Giorgio Linguaglossa
1 ottobre 2018 alle 17:44
cara Nunzia Binetti,
io direi di lasciare per il momento da parte il Canone occidentale di Bloom, quel canone appartiene alla storia. Noi oggi siamo usciti dalla Storia e siamo entrati nella post-storia, anzi, siamo nella post-istoria. Siamo nella storialità. Che significa? Detto così, siamo entrati in un mondo dove tutto il passato si allontana alla velocità dell’espansione dell’universo e il futuro sembra così vicino che possiamo toccarlo con mano. In questo spazio-tempo compresso noi non possiamo che abitare che le nostre «Stanze interiori», dal titolo di un prossimo libro di poesia di Tiziana Antonilli, queste «stanze», simili a piccole fortezze costruite con gli stuzzicadenti e gli zolfanelli. Non abbiamo più una religio che ci tenga tutti uniti, né una ideologia entro la quale riconoscerci, anche le «Forme» sono scomparse, affondate, dipartite… siamo rimasti soli con il nostro foro interiore…
«Si tratta − spiegava Adorno nel 1947, concludendo i suoi Minima moralia − di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». Tuttavia, pur prediligendo il frammento, non lo si riduce a esercizio di stile, disinteressato o impropriamente assolutizzato e chiuso, a «fortezza costruita con gli stuzzicadenti», diceva Leonardo Sinisgalli, il poeta delle ‘due culture’ (quella scientifica e quella umanistica, ovviamente)».
In questa situazione di estraneità reciproca alla quale ci ha condotti l’età della dimenticanza dell’essere, quella epoca che ha visto il dissolversi dell’essere nel «valore», dell’essere «che non ne è più nulla» diceva il tardo Heidegger invitandoci a «lasciar perdere l’essere». Drammatico, no? Viviamo sotto l’egida di Sua Maestà il valore di scambio, esso è il Regolo che regola e dirige le nostre esistenze, a noi la nostra epoca non ha dato altro che una stanza interiore fatta con gli stuzzicadenti e gli zolfanelli, ci ha lasciato in eredità miliardi di «frammenti» che galleggiano sul mare della datità. Tutto quello che noi possiamo fare è aggrapparci a questi «frammenti» e tenerci a galla per un po’, in attesa di tempi migliori…
Gino Rago
1 ottobre 2018 alle 18:13
In tutti i commenti, come nei versi, della pagina odierna, ricca e colta, che Giorgio Linguaglossa raccoglie e propone oggi su L’ombra serpeggia anche se non esplicitato il rapporto poesia-potere, poeta-linguaggio poetico-lingua del potere… Vorrei dare un contributo con i miei versi magnificamente commentati da Rossana Levati.
Gino Rago
Piazza dei Martiri
Piazza dei Martiri. Il sole pigro non vuole tramontare.
A destra il popolo in festa urla: «Dio salvi il Re…».
A sinistra si leva un grido di guerra:
«Dio salvi la Regina…».
Il centro della piazza oscilla.
Un urlo: «Dio salvi il Re e la Regina…»
Mentre il boia lucida i legni dell’impianto
Con la palla di grasso ottenuto dai cani morti.
La corda con il cappio pende luccicante,
Al sole del crepuscolo sembra più splendente.
Un urlo unisce la piazza da destra a sinistra
Passando per il centro: «Muoia il Re. E muoia la Regina».
Passano cesti con pane bianco.
La botte con il vino che zampilla.
Il cappio in lontananza risplende più di prima.
«Dio salvi il Re… Viva la Regina».
Il poeta lascia Piazza dei Martiri.
Non desidera il pane d’altri, rifiuta anche il vino.
Non vuole il Re. Non vuole la Regina.
Cento usignoli nel suo petto si destano. Si destano.
[In questa poesia, Piazza dei Martiri di Gino Rago] ogni distico rappresenta un momento a sé senza alcun riferimento storico preciso, il movimento di una rivoluzione. Può essere avvenuta in ogni tempo, potrebbe ripetersi oggi, tra il potere che preme con le sue esibizioni di forza e la repressione del pensiero e dell’indipendenza di giudizio. Nulla sappiamo sul tempo, solo il luogo è evocato con precisione, col riferimento a quella “Piazza dei Martiri” dove si allestisce il cappio sul patibolo del sacrificio.
La festa del primo distico allude a qualcosa di sinistro, diventa rapidamente grido di guerra al quale si adeguano gli urli di una folla che può tranquillamente augurare salvezza o morte, e che con indifferenza passa da questo a quel campo di forze politiche, ora unite, ora disgiunte, come mostra l’associazione e la dissociazione di Re e Regina nelle frasi.
Non a caso, dopo l’urlo della folla, tre distici collocati al centro della poesia alludono all’imminente esecuzione: un boia, l’allusione macabra al grasso ricavato dai cani morti, preludio ad altri morti –umani – di cui in anni successivi tutto si è depredato.
Il luccichio della corda, al centro della scena, emblema di morte e di servitù, ha qualcosa di sinistro, nel bagliore del crepuscolo che non illumina né annuncia alcunché di positivo. I segni dell’abbondanza, pane e vino (probabile allusione a un’abbondanza che è al tempo stesso sacrificio, come quello dell’Ultima Cena), rappresentano anche un banchetto umano, troppo umano, offerto in cambio della connivenza al male, qualcosa che sarebbe conveniente e decoroso accettare, pur di voltarsi dall’altra parte per non vedere il prezzo di quell’abbondanza così spudoratamente offerta a buon mercato.
Ancora una volta il poeta attira il nostro sguardo su quel cappio che splende, trappola che facilmente si annoda e attende le sue vittime. Solo uno nella piazza si oppone ai canti di gloria, a quelli di morte, al pubblico abbeveratoio offerto troppo a buon mercato, quel poeta che abbandona il luogo della folla, della contaminazione politica, conservando dentro di se’ il canto di cento usignoli, più che mai desti nel generale sonno della ragione.
Proprio la leggerezza è, come esprimevano i poeti classici o ellenistici, l’unica virtù del poeta, talora vecchio nel corpo ma giovane e leggero nella mente e nell’anima, associato a quei volatili esili come usignoli, api o cicale che nella loro leggerezza e insignificanza ben rappresentano la poesia che sa porsi alla giusta distanza dalla pesantezza della materia.
1 ottobre 2018 alle 21:32
Ho riscritto in distici la medesima poesia che pubblicai nell’Ombra del 2014. Mi sembra che la struttura in distici metta in risalto la dialettica delle forze interne. Che ve ne pare?
Giorgio Linguaglossa
Diramazioni incorniciate dalle torrette blindate si diradavano nel buio
Diramazioni incorniciate dalle torrette blindate si diradavano nel buio.
E noi di qua dalle cancellate di filo spinato: i fortificati,
gli indigenti, i premorienti della cicatrice chiamata terra;
fitti e assiepati gli uni agli altri, guadagnammo infine gli stabilimenti dei dormienti.
(Erano costoro immersi in un sonno plumbeo).
I gendarmi li chiamavano «i copulatori del sonno».
I morienti furono sospinti con il calcio dei fucili,
assiepati e addossati gli uni agli altri.
Li chiamarono, ad uno ad uno, in correità, verificarono i loro documenti,
distinguevano i vivi dai morti, i morienti dai morituri,
i premorienti, gli irridenti, i plagiari,
proclamarono i responsi ai condannati e li divelsero dalla vita ultima,
dai falsi reggimenti, dalle ultime fondamenta,
dagli ultimi tentati stabilimenti.
Dai fondali lutei del fiume emersero le statue bianche
venute dalla cicatrice chiamata terra,
dichiararono che erano stati prigionieri del sonno,
che nulla era più come prima,
e che dopo il prima non ci sarebbe stato un dopo.
Una schiera di comandati a gettone si faceva avanti nella ressa.
Un gendarme guidava la dissoluzione dei lapidati dal sonno.
Chiesi al gendarme: «È un inizio o una fine?», ma non ottenni risposta;
intanto i maledetti cantavano alleluia e si battevano il petto
come appestati che chiedessero la grazia mentre si assiepavano
nel refettorio del dolore eterno…
ma erano anime ormai, nient’altro che anime.
«La risposta se c’è – dissero – è nei ripostigli della memoria».
All’improvviso, il ronzio d’un motore d’elicottero giunse dall’alto:
un tip tap incontinente, un bip, un tric insistente…
dall’alto, dagli altoparlanti una voce ci chiamava per nome ad uno ad uno.
I defraudati dal dolore, gli analgesici del sonno si fecero avanti
tra la schiera dei malnati e dei malvissuti;
una folla di cimiteriali malviventi vennero a noi portandoci
vivande borotalco… «mangiatene – dissero – e diventerete eterni»,
ma noi svoltammo nell’aria vetrosa del mattino dietro l’angolo del muro perimetrale.
C’era il sole eterno, accecante. Luce, luce.
I gendarmi officiarono il rito dell’iniziazione, ma era già tardi,
le statue bianche stavano con le spalle al muro, gli occhi bendati;
i malvissuti fuggivano in direzioni molteplici, dicevano
parole distanti, parlavano dei respingimenti,
degli accorgimenti, dei trucchi… ed apparivano
spaesati, inquieti… Continua a leggere →
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