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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa e Promenades nocturnes, Collage 30×40 cm, 2023, I collages vogliono accompagnare il passeggiatore durante una passeggiata notturna al lume dei fanali e delle ombre di una città. Il solitario passeggiatore è un cittadino anonimo di una città anonima, è un senza nome, è privo di identità, non sappiamo da dove viene né dove va, Analogamente, le sue poesie kitchen sono esercizi, ghiribizzi di personaggi solitari, di avatar che «passeggiano», schermidori che si atteggiano in atti di scherma… cioè esseri anonimi e eteronimi che «consumano» il tempo e lo spazio in quanto non hanno nessuna occupazione lavorativa. Il lavoro, sembra dirci la Colasson, è la Cosa che rende schiavo l’uomo, l’unico momento di libertà e di jouissance è l’atto gratuito della promenade, È lo stato di Emergenza che produce lo spazio

Promenade notturna 7 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 4 Collage 40x40, 2023

Promenade_nocturne_14 collage 50x50, 2023

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collages denominati promenades nocturnes di Marie Laure Colasson vogliono accompagnare il passeggiatore durante una passeggiata notturna al lume dei fanali e delle ombre di una città. Il solitario passeggiatore è un cittadino anonimo di una città anonima, è un senza nome, è un privo di identità, un immigrato, un clandestino che non sappiamo da dove viene né dove va. Analogamente, le poesie kitchen  della Colasson sono esercizi, ghiribizzi di personaggi solitari, di avatar che «passeggiano», schermidori che si atteggiano in atti di scherma… cioè esseri anonimi e eteronimi che non-consumano il tempo e lo spazio in quanto non hanno nessuna occupazione lavorativa. Il lavoro, sembra dirci la Colasson, è la Cosa che rende schiavo l’uomo, l’unico momento di libertà e di jouissance è l’atto gratuito della promenade nocturne senza capo né coda, senza «finalità» o telos, con il solo scopo di liberarsi dalla schiavitù del lavoro e dalla ideologia del liberalismo, come anche di quella del socialismo che vedono nel lavoro la massima realizzazione dell’uomo-cittadino, al pari della religione che vede nel lavoro dell’anima e nella liturgia dell’anima la massima realizzazione della interiorità religiosa. Il «lavoro» è un concetto della teologia trasposto e transvalutato nella economia del Capitale. Nulla di tutto questo nell’atto kitchen di Marie Laure Colasson e in quello della poiesis kitchen, qui c’è l’irrisione e la derisione per ogni atto che provenga dall’«io penso dunque sono» o dalla «interiorità» di Ignazio di Loyola; l’atto kitchen respinge il «lavoro» con le sue ideologie d’accatto (politiche e religiose) e le spedisce indietro, nell’aldi qua della vita terrena. Il kitchen è l’atto di non-compromissione, di rigetto della seriosità tutta ideologica dell’atto del «lavoro» e della sua autoconservazione intese in accezione teologica e in quella politica. Il Kitchen che dice «Preferirei di no», apre uno spazio di profanazione e di liberazione. E si ferma lì.

Promenade_nocturne_15_collage_50x50_2023

Promenade notturna 3 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Promenade notturna 9 collage 30x40

Promenade nocturne 10 collage 30 × 40cm 2023

Marie Laure Colasson Ordo Rerum Struttura dissipativa

[Marie Laure Colasson, acrilici, Struttura dissipativa 50×50 cm, 2020 – «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo»]
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È lo stato di emergenza che produce l’immagine. È l’immagine che produce lo spazio. L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per le composizioni spaziali dei quadri di Marie Laure Colasson. Provate a togliere l’immagine dei colori dai quadri della Colasson, e tutto cade di colpo nella insignificanza amorfa.
La pittura della Colasson non è pittura astratta ma figuralità dello spazio, figuralità delle forme nello spazio, ricerca dello spazio mediante delle forme che emergono da un luogo di cui non sapevamo nulla. Delle forme abnormi, raccapriccianti sono sorte da uno stato di emergenza. L’inconscio che vive in un continuo stato di emergenza. Forme abrupte insorgono e lacerano il tessuto delle relazioni spaziali dello spazio che precedeva l’istante del loro insorgere distruggendo i fragili equilibri architettonici sui quali si reggeva la precedente costruzione spaziale. Queste Strutture dissipative indicano una emergenza, raffigurano questo insorgimento di forme abrupte che non conosciamo, di cui non ne sappiamo nulla e di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. L’insorgenza dell’Estraneo è la tematica di questa pittura. Di qui il dis-equilibrio, il dis-formismo, il cataclisma, l’apocatastasi. Queste Strutture dissipative sono la raffigurazione dell’istante in cui una forma estranea irrompe nel nostro ordinato universo percettivo e ne diffrange il lessico e la sintassi, producendone l’implosione, la erogazione di un dis-servizio che viene ad infirmare la struttura di forme in equilibrio che preesisteva all’atto dell’insorgimento dell’Estraneo. Accade il trauma. L’insorgere dell’abrupto ci respinge, volgiamo lo sguardo altrove. Non possiamo guardare più oltre, cerchiamo inavvertitamente il corrimano della distanza, siamo costretti a prendere le distanze dall’abrupto. Ci accorgiamo di essere prigionieri di una contraddizione. Non possiamo avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza, e non possiamo anelare alla latenza di ciò che vorrebbe manifestarsi nella illatenza. Mettiamo in atto istintivamente un distanziamento sociale.

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Giuseppe Gallo, Quattro mollette blu made in Cina, Progetto Cultura, Roma, 2022, pp. 70,€ 12, con una Nota dell’autore, Lettura di Marie Laure Colasson

Il linguaggio è “il vetro che riflette chi passa davanti e chi passa dietro”, che registra lo spettatore, il suo tempo e il suo sguardo,
proprio come gli specchi di Pistoletto che interagiscono con le ombre che osservano se stesse mentre vagano davanti ai propri
riflessi. Il linguaggio è “spectaculum” (g.g.)

Cover Giuseppe Gallo Quattro mollette blu

Giuseppe Gallo, è nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie,  elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano,  a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018), ha pubblicato il romanzo Vi lowo tutti, (Progetto cultura, Roma, 2021). È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. È redattore della rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

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Victor si alzò dal divano e spense il televisore.
Le parole gli piovevano addosso come una grandine di virus.
Guardò intorno. Mary in cucina,
Jerry a percuotere le pelli dei bisonti.
afferrò la prima parola che gli venne a tiro
e la spiaccicò sul piano della scrivania.
La seconda la schiacciò sul dorso dei libri allineati sullo scaffale.
— Che c’è? Gli chiese Mary dalla cucina.
— Faccio un po’ di pulizia! Le rispose Vic.
La terza la affogò nel water insieme alla carta igienica.
La quarta e la quinta le scaraventò dalla finestra sul marciapiede.
Jerry avvertì gli insoliti rumori.
— Che c’è, papi?
— Niente, Jerry. Mi preparo al…
— a cosa, papi? a che ti prepari?
— al… al…
E fu silenzio.

Giuseppe Gallo ha scritto questo libro di ex-post-liriche in questi ultimi due anni, immagino, e si vede, si può notare chiarissimamente che sotto il testo c’è un altro testo, barrato, un testo denegato e rinnegato: quello della antica poesia post-lirica del novecento, quella cosa che si chiama oggi poesia narrativa o narrativeggiata, una sorta di rospo o ircocervo che va bene un po’ per tutti i palati ma che è roba da gettare nella pattumiera. Ecco, Giuseppe Gallo proviene da un libro scritto in dialetto calabro, Arringheide (2018), di seicento pagine con annesso un vocabolarietto con la traduzione in italiano dei lemmi meno accessibili al lettore. Gallo, nato a San Pietro a Maida in Calabria nel 1950, ha attraversato il secondo novecento dallo speculum del suo dialetto, aspro ed irto che inizia così: «Na vota quando tutti sti fjumari… (Una volta quando tutte queste fiumare…)» al modo antico delle favole dove si narra una storia lontana in un tempo lontano con un idioma lontano. Questo particolarissimo angolo visuale ha consentito all’autore di avere tra le mani un parallasse, uno strumento, cioè un binocolo dal quale osservare il mondo di oggi così diverso da quello narrato appena quattro anni fa nell’opera in idioma. Soltanto per mezzo di un potentissimo straniamento si può accedere dalla poesia in dialetto alla poesia in Lingua maggiore, quell’italiano che è stato imposto agli italiani dai piemontesi ma che è stato recepito solo dagli anni sessanta del novecento quando è intervenuta la televisione che ha televisizzato le plebi meridionali come quelle settentrionali, una benemerenza non da poco per uno strumento dotato di video parlante che oggi ci appare arcaico e vetusto. Così sono nati gli italiani, quella cosa abnorme che spaventava e inorridiva Pasolini dove cantavano gli usignuoli della Chiesa cattolica, dove i letterati si accapigliavano in post-avanguardie vecchie e nuove, tutte imbelli, tutte gratuite e tutte illeggibili.

Le ginestre che divennero finestre

Si mise il pennello nell’occhio destro.
Mary lo colse sul fatto.
— Perché vuoi accecarti, Jerry mio?
Jerry rimase perplesso.
La intravedeva ancora con l’occhio sinistro.
allora prese un altro pennello e lo ficcò dentro l’occhio sinistro.
— Perché ti sei accecato, Jerry mio?
— Per vedere l’altra faccia del mondo! Le rispose Jerry
continuando a dipingere un cespuglio di finestre.

La stessa morte

Jerry era nato con la camicia.
Victor lo avvertì in sogno: — Prima o poi ti schiaccerà!
— E perché?— gli rispose Jerry. — Non pesa nemmeno!
Infatti non pesava.
E se la portò in giro, fresca d’estate e calda d’inverno.
Mary se ne accorse.
— Jerry, è un anno che indossi la stessa camicia.
Non vedi che s’è fatta nera come la morte?
Toglila che la metto in lavatrice.
E Jerry, che ubbidiva ancora,
si tolse la camicia e la poggiò nelle sue mani.
Quando la indossò di nuovo, odorosa di bucato,
Jerry si sentì soffocare.
Si piegò in due e le spalle gli schiacciarono le costole e il petto.
Il cuore gli scoppiò.
— Hai visto?— gli domandò Victor in un altro sogno.
— Che ti dicevo?
— Ma come facevi a saperlo? Lo interrogò Jerry.
— Perché quella era la mia camicia! Gli rispose Victor.

Scrive Francesco Gallo nella prefazione:

«La raccolta è uno squarcio su un album fotografico di famiglia, o meglio, una story-board: Victor è il marito di Mary, genitori di Jerry e Terry; a loro si affiancano altri pochi soggetti: lo Zio nick, la cugina Flory».

La onomastica inglese non penso stia qui ad indicare gli effetti della globalizzazione quanto una spersonalizzazione de-soggettivazione dei protagonisti che, da attori, si sono trasformati in attanti e da attanti in avatar, in Figure che abitano una zona neutra, una «zona gaming» come piace dire all’autore; e qui sta il nuovo di questo libro, che non si tratta più delle esperienze private di personaggi (veri o inventati), questo schema concettuale poteva andare bene per la poesia modernista del novecento ma non più oggi, e un poeta consapevole come Giuseppe Gallo penso utilizzi questa nominologia in quanto tale, in quanto nominologia, come dei prefissi telefonici che hanno al seguito un numero, che se fai quel numero ti risponde poi una segreteria telefonica e se parli dopo il segnale acustico, risponde un nastro registrato che ti invita a parlare ad un altro nastro magnetico che reca impressa una voce. Siamo diventati tutti delle voci che parlano ad impulso in dei nastri magnetici, siamo un po’ tutti dei nastri magnetici che ripetiamo a memoria delle parole imparate a memoria, e questa nominologia che parla mediante delle fraseologie è appunto una realtà virtuale!, in realtà nessuno di quei personaggi esiste, e noi stessi non esistiamo. E questo è kitchen, squisitamente kitchen. Senza volerlo o esserne cosciente Giuseppe Gallo, assiduo frequentatore della poesia kitchen, ha tratto dalla poesia kitchen la spinta propulsiva per allontanarsi dallo story telling della poesia di accademia, come dire: «ho avuto dei pessimi maestri ma è stata una buona scuola», tanto è vero che il linguaggio e lo stile dell’opera ne sono stati beneficiati disboscando i lessemi pleonastici e le parole intonse, lasciando soltanto le parole immediatamente utili al testo.Del resto, il titolo è squisitamente kitchen: Quattro mollette blu made in Cina.
Ma è che un linguaggio, uno stile non cambiano dall’oggi al domani, ogni cambiamento, anche quello più improvviso e sismico come la poetry kitchen va assimilato, processato, occorre del tempo di digestione, e questo tempo è stato messo bene ad usufrutto (stavo per dire usufritto) dall’autore. Un linguaggio non si cambia come cambiamo una camicia con una nuova fresca di bucato, occorre del tempo, se non altro per mettere la camicia sporca in lavatrice, avviare il congegno con un click, e stirarla ben profumata con del deodorante. Adesso la camicia è pronta per essere indossata.

Sulla stessa sedia

C’è del rosso e del blu
sulle pareti della sua camera.
Vic vi entra dopo un giorno di assenza.
Nemmeno la distanza rassicura la sua esitazione.
Si apparta nei suoi scarti,
nelle foto dei compleanni,
nei ghirigori sui fogli pastosi delle carte,
nelle pagine dei libri inframezzate
dagli attimi di inchiostro.
Si acquieta sulla sua sedia
come un vecchio ospite
in attesa d’una cortesia.
— Papi, che ci fai tu qui?
Non sa risponderle a parole.
Rigira tra le dita
le penne che ha infilato spesso nei capelli.
— Per conoscerti meglio!
Vorrebbe sorprenderla,
ma alla sua età non c’è più meraviglia.
Così continua a tacere
come se dovesse ancora chiederle
il permesso di respirare nel suo spazio.
Sui libri un velo di polvere,
sul letto lo scompiglio del disordine.
Nemmeno sua madre addomestica le sue scontentezze, e lui?
Le calze fra una scarpa e l’altra,
le mutandine sulla maniglia di ottone
i reggiseni sul cuscino,
i colliri e le creme sul bordo di marmo…
C’è anche del nero e del viola sulla parete di fondo
che fronteggia l’armadio.
I manifesti di Kurt Cobain.
Qualcuno è ripiegato su se stesso.
Com’è che sei capitata qui?
Perché adesso non ci sei?
a ripensarci, Vic dice di non averla mai raggiunta.
oppure d’essere arrivato in ritardo
come nei film americani
in cui i padri dimenticano di riprendere i figli da scuola.
Vic ruota fra le dita il cappellino bianco di paglia
che le comprò a Parigi per l’estate…
l’emozione dell’acqua ai suoi piedi,
il sentimento dell’ombra…
Che pacchia! Quando avevano la stessa età.
Tutti e quattro. Senza bisogno del perdono.
Meglio finirla qui.
Si rialza dal suo calore e allenta la cravatta.
— Papi, perché sei venuto a cercarmi?
Mi hai trovato o sono sempre assente?
Qualsiasi risposta risulterebbe goffa e fuori luogo.
— Sappi, però, che ho tappato la finestra,
che ho messo qualche like sulle tue foto,
accucciato sulla stessa sedia
e che ho gridato anch’io: Mamy! Mamy!
C’era da aspettarselo.
Che pacchia! Quando avevano la stessa età.
Tutti e quattro.
Capitolando sulla stessa sabbia. Continua a leggere

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Letizia Leone, Estasi  della  Macellazione, da How the Trojan War Ended I Don’t Remember  – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20, Lettura di Giorgio Linguaglossa, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra

antology-how-the-troja-war-ended-i-dont-remember

(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember . Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20)

L’idea forte di questa Antologia pubblicata negli Stati Uniti con Chelsea Editions nel 2017 è la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è diventato globale e glocale e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza.

Il mio personale impegno di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anonimo Romano, Anna Ventura fino a Letizia Leone indebitamente trascurati e lateralizzati. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, compito della ermeneutica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni dettate da interessi di parte. Letizia Leone si pone nella linea di coloro che hanno optato per una scrittura poetica modernistica che si rifacesse al mito come fonte originaria di nuova interpretazione. La poetessa romana sviluppa il mito del satiro Marsia che sfidò il dio Apollo ad una tenzone musicale per essere poi sconfitta con un sotterfugio dal dio e condannata ad essere scorticata viva. La Leone adotta il traslato, immagina il mito dal vivo, entra direttamente nella «macelleria» dove è stato compiuto l’olocausto della ninfa Marsia (o del satiro Marsia?), il terribile misfatto da cui avranno inizio tutti i misfatti e i delitti perpetrati contro le donne e i diversi. Marsia è morto ma Marsia è vivo (viva?), e lo sarà per migliaia di anni fin quando ci saranno dei diversi e delle donne che vengono torturate e uccise per un ciuffo di capelli fuori ordinanza come l’iraniana Masha Amini che ha dato il via all’autunno di rivolta e di proteste nel paese islamico, ma il mito di Marsia ripreso da Letizia Leone vuole indicarci anche le tribolazioni di tutti i diversi e di tutte le donne che hanno lottato e lottano contro i soprusi e le angherie degli uomini di potere e degli dèi proconsolari, contro tutte le ideologie del potere maschilista, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra.

Anche da Letizia Leone si diparte la individuazione della linea che segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e posiziocentriche che continuano inconsapevolmente la grammatica regionale ed epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si sia definitivamente esaurita. E che occorra aprire una nuova pagina.

Riporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

(Giorgio Linguaglossa)

1] Giorgio Agamben, Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

(da Letizia Leone, La disgrazia elementare, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011)
(da AA.VV. Poesia Italiana Contemporanea, a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)
(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)

Giorgio Ortona Letizia celestina 42 x 70 olio su tela 2020

Opera di Giorgio Ortona, ritratto di Letizia Leone

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Letizia Leone

Estasi Della Macellazione
Chi conosce l’indirizzo dei mattatoi?

Supplizio fossile
(Del Satiro Marsia che osò sfidare in gara musicale il dio Apollo e finì scorticato vivo: strumento cantante.)

No,
non avresti dovuto scherzare col suono
col grido di do
questo drago illeso nel fuoco della campana,
nell’arca di bronzo. Né usare

le note
dell’uovo spaccato
quasi fossero venti, Marsia!
Per non dire delle folate d’aria
sullo scheletro vibratorio delle sillabe.

Hai immolato il tuo corpo.
Raggiante di silenzio e morte
sembra il lavoro di un sadico
ma c’è troppa letizia di un dio
in questo fasto del sangue.

E che altro?
Il canto di lode
travolse gli alberi da olocausto,
era dunque musica incosciente
la risata quadrata della natura?
Poi si sa, un dio
in questo caso Apollo,
è un mezzo vivo con poca musica,
affamata di grida guerriere
la sua sordità.
E come si canta?

I

Dapprima il gioco di Apollo

fu pantomima del tuono
grande musica totemica.
Imitava – lui, dio pappagallo-
i rumori robusti delle materie:
folgori mareggiate sfregamenti
di bestie contro cortecce
poi passò agli animali,
esaurito il coro della natura,
prese dai vivi il fiato per un canto,
l’invidioso.
Ma gli inni primaverili, l’accompagnamento
dei cembali, i tintinnii, in fondo
lo mettevano a disagio
che farsene di un Cantico solare?
Costruire un tamburo di pelle
dura e gonfia con pezzi d’animale
e assordare Marte con quest’arma sonora
al ritmo delle arterie
una crociata di rombi, urla
a squarciagola
e le lingue profonde dei selvaggi
farle volare mozzate con la freccia sibilante
di un suono e gli schizzi di sangue,
questo si che è uno strumento cantante
da pestare con mani e piedi
su una terra assetata
– se è vero che i suoni incurvano e spezzano-
e poi si potrebbe amplificare tutto in un
antro! Questo pensava Apollo.

Oppure un altro ordigno: il corno.
Con tamburo e corno
sarebbe stato più facile imboccare la via dell’inferno.

II

Ma questi, di far risuonare caverne
erano desideri inespressi
profondi. Che qui come dio
gli toccava accoppiarsi al sole
all’armonia delle piante
alla forza altalena di una scala maggiore,
una gru di toni e ipertoni
dai ritmi edificatori,
insomma
all’unisono con i bocci
tanta musica alata
a nutrire gli insetti non nati
pronti a tuffarsi nella luce.

Perché un cantare supremo era il suo compito
apollineo, celebrare il culto
della vita con la lira.
Altro che clamori infernali. Continua a leggere

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Domande di Roberto Bertoldo a Giorgio Linguaglossa a proposito dei sedici autori presenti nella antologia Poetry kitchen pubblicata da Progetto Cultura nel 2022, L’elefante sta bene in salotto ma nessuno lo vede, o meglio, tutti fanno finta che non c’è nessun elefante… tutti pensano di essere originali quando invece sono semplicemente maggioritari, si vive nel maggioritario, si cerca il securitario, si riconosce il compromissorio, siamo tutti diventati sostanzialmente ibridi e ibridatizzati

giraffa antropomorfaIbrido kitsch: giraffa antropomorfa femminile

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Caro Giorgio Linguaglossa, avendo letto il tuo saggio L’elefante sta bene in salotto e l’antologia di autori vari Poetry Kitchen, vorrei rivolgerti dei quesiti su alcune problematiche che ti hanno visto fondatore di un movimento che si propone come avanguardia principalmente artistico-poetica.

(Roberto Bertoldo)

Domanda: Prima di iniziare volevo chiederti l’eventuale conferma che la seguente affermazione tratta dal tuo saggio sintetizzi pienamente la tua e vostra posizione circa la “modalità kitchen”: «La riduzione del reale da trauma a spettro e dell’immaginario da riflesso narcisistico e scenario fantasmatico a categoria ontologica è uno dei punti decisivi e più importanti della modalità kitchen e del suo modo di operare» (p. 45).

Risposta: Confermo. Tengo a precisare che la poetry kitchen non è un movimento di «avanguardia» o di «retroguardia», entrambe categorie del lontano novecento che sono un po’ come i cibi scaduti, puzzano di stantio. Viviamo in un mondo in cui ciascuno si comporta come se non ci fosse alcun Elefante nel salotto, tutti agiscono e pensano a secondo di quello che conviene all’inconscio cognitivo di ciascuno, e così tutti pensano di essere originali quando invece sono semplicemente maggioritari, si vive nel maggioritario, si cerca il securitario, si riconosce il compromissorio. Siamo tutti diventati sostanzialmente ibridi e ibridatizzati.

Domanda: Uno dei principi espressi nel vario e complesso saggio L’elefante sta bene in salotto è che la metafisica è finita. Ora io sono contrario a questa asserzione, non credo che sia finita ma che si sia scoperto il suo inganno e che questa scoperta sia a sua volta un inganno, che è un inganno e così via all’infinito. La metafisica è a mio avviso evitabile solo in modo epifanico, da qui il valore del simbolismo in tutte le sue sfumature capaci di cogliere la “fisicità” ovvero l’immanenza delle cose. La tua tesi è chiara ma potresti esporla alla luce di questa posizione dissenziente? Per esempio mediante la tua critica al carattere epifenomenico della poesia occidentale.

Risposta: Qualcuno mi ha rubato le parole, me le ha sottratte. In questi ultimi anni è avvenuto in me un fenomeno strano: qualcuno mi ha rubato le parole, me le ha sottratte pian piano, un ladro si è infiltrato nella mia mente e mi ha trafugato le parole: QUELLE parole della «critica» con le quali si fabbricano le schede-libro delle note di lettura e dei quarti di copertina. Non sono più capace di adoperare: QUELLE parole per redigere le cosiddette «recensioni» o «note di lettura». Sono così rimasto senza parole. Non sono più capace di redigere quegli scritti augurali e procedurali che ammiro con sempre maggior stupore nelle schedine critiche che leggo in giro. Mi sono accorto che il vuoto ha inghiottito tutte QUELLE parole, e di QUELLE parole non è rimasto più nulla. E ne ho preso semplicemente atto.

Per questo sono stato accusato di essere un cavaliere del vuoto, un nullista, un nichilista, un nullificatore o non so che altro. Mi sono accorto che sono diventato incapace di adoperare QUELLE parole della poesia maggioritaria e posiziocentrica che si scrive oggi, quelle poesie corporali, confessionali, augurali, non so come dire, alla Mariangela Gualtieri, alla Vivien Lamarque e, ultimamente, alla Franco Arminio. Sono ormai diventato allergico a QUELLE parole. Le ho perdute. Le ho scacciate. E Penso che una analoga allergia sia stata avvertita anche dagli autori della antologia kitchen.

Fare poesia kitchen implica fare i conti con il nulla, il vuoto, l’insignificanza. Pensare di fare una poiesis dell’originario è una sciocchezza e una ingenuità filosofica, gli enti sono lontanissime tracce dell’Originario, di cui niente sappiamo e che comunque si è dissolto, si è auto tolto.

Scrive Giorgio Agamben:

«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco (corsivo mio), nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla “cura di sé”, sulla “pratica di sé”. Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».*

Ci sono in giro una molteplicità di «autori di poesia» impegnati nell’opera di auto storicizzazione della propria poesia, non c’è bisogno di altri posiziocentrici. La nuova poesia o possiede un disegno generale della poesia occidentale o, in mancanza di un Grande Progetto, si finisce per scrivere parole sulla sabbia.

Ancora nel 1966, anno dell’intervista a Montale in una trattoria, il poeta italiano poteva affermare tranquillamente che non ascoltava mai la radio e non possedeva la televisione. Io mi limito ad osservare che la nuova poesia, la «nuova ontologia estetica» non potrebbe essere nata senza la piena immersione nella civiltà mediatica. Oggi, se ci si pensa un attimo, non è possibile in alcun modo rifugiarsi in un angolo oscurato della civiltà mediatica, siamo tutti, volenti o nolenti, in qualche misura intaccati ed influenzati dal mondo mediatico. La fine della metafisica di cui qui si parla non è un optional che si può rifiutare e da cui ci si può difendere con una resistenza, una ostruzione, la metafisica è l’essere che si dispiega e che è giunta alla sua fine annunciata. In altre parole, la fine dell’essere è già stata segnata dall’insorgere della civiltà mediatica. Non volerne prendere atto, è, appunto, un atto di cecità oltre che di ingenuità.
La nuova ontologia del poetico e la poetry kitchen è il presente e il futuro della poesia perché implica l’accettazione di dover misurarsi con il mondo mediatico. La maieutica mediatica è un’ottima scuola. Ho avuto pessimi maestri, ed è stata una buona scuola.

* [da una intervista reperibile on line]

Domanda: Ma oltre al mondo ontologico non è metafisico pure il linguaggio verbale? E non lo sono anche il mondo fenomenico e quello che, nell’immaginario, lo trascende? Non è dunque proprio l’epifenomeno, che voi ritenete onnipresente nella poesia occidentale e che condannate, il solo modo in poesia di disattivare la metafisicità della lingua?

Risposta. «Epifenomeno» è una categoria che non ho mai usato, è una parola che rischia di portarci fuori strada. Ritengo «onnipresente» nella poesia occidentale la poesia dell’io plenipotenziario e penitenziario, quello sì, l’io petrarchista dove l’io è un «epifenomeno». Disattivare la lingua dalla servitù ad un significato, questo sì ritengo sia il compito di una nuova ontologia del poetico o poetry kitchen che dir si voglia.

Domanda: Se ho ben capito l’Instant poetry, una sorta di poesia estemporanea senza tema, che può rientrare nell’ambito del surrealismo, e la Kitsch poetry, con le sue consapevoli, volute nefandezze atte a rimuovere la bellezza stantia, compongono la Poetry Kitchen, il tavolo da lavoro per il riutilizzo della materia poetica. Non so se alla Poetry Kitchen ci siate arrivati per gradi o improvvisamente, non conosco la cronistoria se non un accenno del percorso della NOE. Non so per esempio se c’entra il collettivo Malika’s Kitchen di Malika Booker. Comunque la Poetry Kitchen mi pare una forma conchiusa di minimalismo ma con un impegno sociale esplicito e fondato sulla quotidianità e con un linguaggio ordinario, addirittura volutamente corrivo. L’impegno è nobile ma è come prendere una carota e renderla poetica cucinandola. Fare, simbolicamente, di una carota un’opera d’arte significa certamente rivitalizzare gli oggetti e toglierli dal dominio stantio dei salotti, col rischio però di idealizzarli, nonostante sia un modo valido per avere un fondamento concreto. Il rischio è l’«aglio di bassa cucina», come diceva Verlaine, che potrebbe essere il padre antico del progetto poetico di cui state parlando. Il Novecento, in alcuni casi, ha preferito fare di un’opera d’arte un oggetto quotidiano: tuttavia mangiare tutti i giorni Ossi di seppia, Guernica, la Sonata per pianoforte e violino in la maggiore n. 9, op. 47, San Rocco e un donatore o Blumenbilder, pur essendo didatticamente a mio modo di vedere più utile, ha in effetti poco a che fare con la creatività e rientrerebbe nel citazionismo postmoderno. In ogni caso i progetti sono dannosi in poesia, a meno di riuscire a non farsi prendere dalla foga del disegno e osservare non solo la strumentazione e l’azione ma l’ecumene. Certamente a differenza dell’arte postmoderna il vostro non è citazionismo, non è atto di natura parnassiana, di “metarte”, ma rivitalizza la quotidianità e i suoi oggetti. Le vostre opere dunque non mirano primariamente ad un esito estetico, nonostante l’inevitabilità di quest’ultimo, ma a rappresentare la vostra personale attuazione estetica. Mi scuso per gli inevitabili fraintendimenti di questa mia riflessione-quesito tutt’altro che assertiva.

Risposta: Con il «nuovo paradigma»  della nuova ontologia estetica cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una di seguito all’altra le «parole», la scacchiera delle parole le quali obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico, pluriprospettico, pluri spaziale, pluri temporale. Nella poetry kitchen non c’è più un metronomo perché non c’è più una unità metrica, di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.), che influiscono in maniera determinante a modellizzare gli «enunciati» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta, scombiccherata. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti, o addirittura la mancanza totale della punteggiatura. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno della struttura compositiva si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini», l’impiego delle quali nella poetry kitchen è molto diverso da quello della pratica surrealista, nel kitchen i salti temporali e spaziali sono assolutamente indispensabili, il capovolgimento e la peritropè contraddistinguono la pratica kitchen.

Domanda: Leggendo l’antologia Poetry kitchen, al di là della innegabile validità e forza dei testi che la compongono, ho notato in alcuni autori quell’epigonismo che contraddistingue i gruppi letterari e artistici. Questo fatto non è necessariamente negativo, come dimostrò per esempio il futurismo, ma non rischia di etichettare come scolastica tutta l’operazione creativa? E quando parli, con coerenza alla linea di rivitalizzazione degli oggetti, di «compostaggio dei linguaggi deiettati, dismessi e tolti» (p. 51) confermi la natura necessariamente scolastica della nuova poesia?

Risposta: Deriva da una lettura pregiudiziale indicare come «scolastica» la modalità kitchen, «scolastica» è la poesia dell’io plenipotenziario ed ergonomico che si fa in Italia da quaranta anni a questa parte, che vuole essere anfibia e posiziocentrica quando invece è semplicemente banale.

Due autori dalla Antologia Poetry kitchen

Giuseppe Gallo Continua a leggere

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Il postmoderno è finito là dove comincia il Covid? A proposito di alcuni enunciati standard che abbondano nei siti web e nelle comunicazioni via web Si tratta di alcuni esempi di messaggi anisotropi, neutri, standard, impersonali, oggettivi, persuasivi, assertori, direi gentili della gentilezza di un linguaggio robotizzato, standardizzato, programmato, un linguaggio allo stato cristallino, sostanzialmente ambiguo ed eterodiretto che può essere interpretato in molti modi diversi a seconda delle sollecitazioni psichiche ed endopsichiche che intercettano, Poesie kitchen di Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Giorgio Linguaglossa

Joseph Cornell scatola con barattoli

Joseph Cornell (1903-1972), scatola delle ombre

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Questa poesia del ’93 è un mirabile esempio di poesia rimasta senza parole:

Predrag Bjelošević

Аhi, sonetto

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(93.)

con la poesia postata sopra di Predrag Bjelošević, il poeta serbo è andato d’un colpo, al di là dell’avanguardia, l’ha scavalcata, ha ridotto il testo a una serie di crocette con segno più. E la poesia è fatta. È andato oltre per un semplice motivo: che OGGI non si dà più nessuna avanguardia e nessuna retroguardia, la sperimentazione che si fa nella poesia kitchen è FUORI da questi binari, è deragliata. Per sempre. Questo è un punto che contraddistingue la nuova poesia, comunque la si voglia nominare.
La poesia che si farà, se si farà, ne dovrà tenere conto.

(Marie Laure Colasson)

Una poesia inedita di Alfonso Cataldi

Reven è atterrata in una bolla di fieno e fiori profumati.
Scava il primo tunnel

all’uscita sorprende le velleità preindustriali della ruota.
“Cosa avrò sbagliato nella vita?”

Esterrefatta, Francesca separa i bianchi dai capi colorati.

“Non cadrà più la neve sulle agenzie immobiliari di nuova apertura”
si sbilancia il guardiano all’ingresso della città

che alza e abbassa la sbarra
su nessuno che entra e nessuno che esce.

Il massaggiatore spunta nei sottotetti esistenziali
porta con sé il lettino a valigia sempre carico

I residenti attendono la meraviglia della resa
della cecità che prepara il riscatto.

(31/12/2021)

Raffaele Ciccarone

Set 38

con le spalle rivolte
alla Fontana di Trevi
i poeti di Kitchen Poetry
lanciano monetine nella fontana
augurandosi un buon nuovo anno
un drone Kitchen dall’alto
scatta foto ricordo

Giorgio Linguaglossa

A proposito di alcuni enunciati standard

Posto qui alcuni enunciati standard che abbondano nei siti web e nelle comunicazioni via web. Si tratta di alcuni esempi di messaggi anisotropi, neutri, standard, impersonali, oggettivi, persuasivi, assertori, direi gentili della gentilezza di un linguaggio robotizzato, standardizzato, programmato. Si tratta di un linguaggio allo stato cristallino, sostanzialmente ambiguo ed eterodiretto che può essere interpretato in molti modi diversi a seconda delle sollecitazioni psichiche ed endopsichiche che intercettano.

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Così Treccani definisce la «anisotropia»:

«Proprietà per cui in una sostanza il valore di una grandezza fisica (velocità di accrescimento, indice di rifrazione, conducibilità elettrica e termica ecc.) dipende dalla direzione che si considera. Fenomeni di anisotropia naturale si manifestano nelle sostanze allo stato cristallino e mesomorfico, ma non nelle sostanze amorfe; fenomeni di a. artificiale possono prodursi in sostanze amorfe in conseguenza di determinate sollecitazioni: per es., un’a. ottica, che si manifesta nel fenomeno della birifrazione, può insorgere in alcuni vetri e in alcuni liquidi in conseguenza di sollecitazioni meccaniche o dell’azione di un campo elettrico.»

L’assimilazione di questo genere di linguaggi in un testo poetico o narrativo è un fenomeno del tutto naturale che si verifica in modo inconscio in ogni istante della nostra vita di relazione. Ovviamente, in un testo poetico plurilingue e pluristile questi linguaggi vengono, per così dire, messi in vetrina, esposti alla visibilità, cioè, esposti alla verificazione e alla falsificazione, vengono cioè demistificati nei loro contenuti ipoveritativi e meramente strumentali.

È per queste ragioni che, ad esempio, nei miei testi poetici impiego (cito) questo tipo di messaggi comunicazionali, per esporli nella loro nudità, esporli nella loro falsa coscienza.
È per queste ragioni che questo genere di enunciati si possono rintracciare in gran quantità nella poetry kitchen di vari autori.

“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone”, ha scritto Philip K. Dick, talento visionario del romanzo fantascientifico.

L’epoca del Covid segna fine del post-moderno. Le parole imbruttite, le parole smargiasse e ipoveritative che pronunciano i politici italiani e le massaie di pordenone, le parole erranee dei filosofi italiani (Cacciari e Agamben), le parole dei cabarettisti dei media e delle televisioni a pagamento pubblicitario, le parole pubblicitarie, le parole zambracche stanno seminando una zizzania malefica e obbrobriosa. La Commedia kitchen è appena agli inizi, è appena agli indizi.

Ha scritto Umberto Eco:

«L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.

Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.

Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta».1

1 Umberto Eco, Di un realismo negativo, in Bentornata realtà, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Torino, Einaudi 2012

Chiedo: ma veramente il postmoderno è finito là dove comincia il Covid?

Con il Covid è finito il postmoderno. E con il postmoderno è finito un certo modo di considerare il passato, cioè la tradizione… ed è finito anche un certo modo di guardare il futuro. Nell’epoca presente c’è qualcosa che ci sfugge, come sfugge ai radar dei filosofi della «libertà», Cacciari e Agamben. Ebbene, la loro filosofia non è più in grado di leggere il presente, parlare del Green Pass come di un passaporto sovietico per il controllo dei cittadini mi sembra una enormità, io mi sento privato della mia libertà dal Covid, non dallo strumento di protezione denominato Green Pass. Ma se Cacciari e Agamben avessero letto un poeta come Predrag Bjelošević si sarebbero accorti che il poeta serbo da almeno venti anni parlava di «buio», tutta la sua poesia ruota intorno a questa macro metafora per spiegare il nostro presente. Viaggiamo, camminiamo, ci scambiamo strette di mani e insulti ma nel «buio», siamo semplicemente nel «buio», dove non c’è filosofia che ci possa illuminare. E la poesia non può fare altro che indicarci la necessità di un altro paio di occhiali e magari l’aiuto di una torcia elettrica: occorre vedere bene, molto bene il «buio», guardarlo bene in faccia. E la poetry kitchen, se ha ancora senso parlare di poiesis, scommette tutta la propria integrità nello scandaglio di questo «buio».

Raffaele Ciccarone, sono del 1950, ex bancario in pensione, risiedo a Milano, dipingo e scrivo. Le mie poesie sono inedite per lo più. Per un periodo ho pubblicato su una piattaforma online con uno pseudonimo, circa un centinaio di poesie, e qualche prosa. Ho partecipato a gruppi di poesia a Milano.
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Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud
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Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poisis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry.

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Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” di Gianni Vattimo, Dalle categorie della metapsicologia, il Todestrieb di Freud, all’odierna disfunzionalità radicale di Thanatos, di Marie Laure Colasson, Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismodi Donatella Di Cesare, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Davide D’Alessandro

Lucio Mayoor Tosi Frammento

Lucio Mayoor Tosi, frammento, 2021

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Marie Laure Colasson

Dalle categorie della metapsicologia, il Todestrieb di Freud, all’odierna disfunzionalità radicale di Thanatos

Il mondo comunque continua, in ogni modo e comunque, non finisce, o meglio, finirà non finendo.
Il neoliberalismo in Italia e in Europa promuove la discoteca. E infatti, apre le discoteche e chiude le scuole. E nessuno protesta. I filosofi italiani Cacciari e Agamben protestano contro il Green Pass ragguagliata alla stella gialla e non si rendono conto della bestemmia che pronunciano, non vedono l’enormità della loro macroscopica svista, si guardano bene dal protestare per la chiusura delle scuole e la DAD.
Dobbiamo prendere atto che QUELLE filosofie non sono le nostre, che dobbiamo ricominciare tutto daccapo, che la vera ragione dello scandalo è che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, atro che il Green Pass.
Il mondo comunque non finisce, o meglio, finisce finendo interminabilmente, come afferma Charles Simic. E tutta la bellettristica della pseudo arte dei giorni nostri non finirà perché il neoliberalismo ha bisogno di quella pseudo arte, ha bisogno di fingersi democratico e presentabile, quando invece è impresentabile, grottesco e iniquo.
A questa menzogna la poiesis kitchen presenta la vera faccia del mondo, un mondo capovolto, la vera faccia nascosta che il neoliberalismo si guarda bene dal mettere in mostra, e che dissimula in tutti i modi. l paradosso è diventato realtà: i Cacciari e gli Agamben sono utili e redditizi agli interessi del neoliberalismo dei ricchi e dei ricchissimi, le categorie della psicopatologia sono diventate categorie del Politico, strutture ontologiche: Il Todestrieb, l’istinto di morte della meta psicologia di Freud è diventato una struttura ontologica, gli uomini del XXI secolo optano per la morte sotterranea e invisibile. Come afferma Žižek, una «disfunzionalità radicale» è subentrata all’antica categoria della meta psicologia di Freud e noi assistiamo con sbalordimento e incredulità a questo Evento. L’Evento è una «macchia» invisibile, un frammento fuori posizione. «La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione» (g.l.).

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Giorgio Agamben

Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo
di Donatella Di Cesare
– 20 dic 2021
da espresso.repubblica.it

È stato il filosofo più significativo di questi ultimi decenni. Ma da quando ha iniziato a commentare gli eventi legati al coronavirus ha abbracciato il negazionismo. Sarà quindi necessario preservare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva

Mentre volge al termine il secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere, tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che investe in pieno la filosofia. Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza.

Giorgio Agamben – piaccia o no – è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato l’insegna di un nuovo pensiero critico. Per quelli della mia generazione, che hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri – soprattutto a partire da “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 – hanno costituito la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso, un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato dell’economia. Sulla scia della migliore tradizione del Novecento – da Foucault ad Arendt, da Benjamin a Heidegger – Agamben ci ha offerto il vocabolario e il repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia post-totalitaria che mantiene un legame con il passato?

Tanto più traumatico è quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato “L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza. Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. Nel mio pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o rimuovere.

Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della polis, ci sembrò quasi insopportabile – fin quando non emerse la sofferenza di chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. L’immagine dei camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto di non ritorno. Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica dei confini chiusi. L’Europa reagì.

Per Agamben era tempo di riconoscere a chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. I suoi post si sono susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 – “Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” – dove il green pass viene paragonato alla stella gialla. Un paragone osceno, che ha dato la stura ai peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione per il dubbio e la precauzione”, è storia recente.

È motivata la preoccupazione per una deriva securitaria. La politica della paura, la fobocrazia che governa e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con lo stato d’eccezione. Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il sale della democrazia.

Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica, non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata…». Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo.

No, non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla «organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo.

Com’è noto Agamben si è ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass. Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il piano di vaccinazione. Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili. Mi sarei aspettata dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati morire. Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo peso. Nulla di ciò.

Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare categorie concetti, termini, alcuni – come “stato d’eccezione” – divenuti quasi ormai grotteschi. E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica, dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.

Donatella De Cesare

Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” Il filosofo esterrefatto per Cacciari e Agamben. E indica la via in Kant e Rorty
da Davide D’Alessandro da huffingtonpost

Salgo le scale e immagino il professore Gianni Vattimo seduto davanti alla finestra a leggere i giornali, che passano in fretta, e a rimirare la Mole, che non passa mai. Mi accoglie con le mani giunte e quel sorriso dolce e stanco di chi è costretto alla poltrona. Di fronte svetta la libreria, dove campeggiano i libri di Heidegger, di Nietzsche e i suoi, tradotti in tutte le lingue del mondo; perché, sia detto con chiarezza, è lui il filosofo italiano più tradotto all’estero. Della versione cinese ci limitiamo a guardare la bella copertina. Dentro è inutile avventurarsi.

Gli chiedo se devo mostrargli il green pass della doppia vaccinazione ma lui, lucidissimo, non abbocca: “Sono in attesa della terza dose e tutto questo chiasso francamente mi provoca fastidio e sconcerto”.

Ma come, gli dico, si fanno incontri e manifestazioni sulla dittatura sanitaria, sulla sorveglianza, sui complotti politico-tecnico-finanziari, si fa addirittura riferimento ai metodi di Hermann Wilhelm Göring e tu te ne stai qui, buono buono, zitto zitto, ad assaggiare una fettina di torta alle mele e a sorseggiare un po’ di vino bianco? Si fa più serioso: “Guarda, a me sembra un’autentica follia. Ma come si può arrivare a sostenere simili sciocchezze? Stanno usando il green pass e il malcontento generale per arrivare chissà dove. Purtroppo, la responsabilità non è soltanto dei Cacciari e degli Agamben, ma anche di un sistema mediatico che insiste sul tema, concedendo pochissimo o nessuno spazio ad altri tipi di dibattiti, che sarebbero ben più importanti. Vorrei partecipare a incontri e manifestazioni sulla povertà, sull’eutanasia, vorrei parlare di questi temi a studenti coinvolti colpevolmente in una confusione generale”.

Gli porgo la pagina di un libro dov’è l’idea dello Stato da parte di Kant: “L’idea dello Stato è quella in cui nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà di altri di tendere a uno scopo simile, la quale può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale”. Vattimo si illumina: “Ecco, scolpiamola sulla pietra e non parliamone più. Anzi, possiamo issarla a mo’ di bandiera e farla sventolare per le piazze. Una volta i Movimenti nascevano su ben altre motivazioni, oggi mi tocca leggere che le riunioni sul green pass potrebbero preparare la nascita di qualche Movimento. Non ho parole. Ma dove siamo finiti?”.

C’è un filosofo al quale il professore affiderebbe la lettura di questo complicato tempo presente ed è Rorty: “Certo, perché le sue parole sono attuali, edificanti, positive. Il pensiero filosofico può essere al centro del discorso pubblico, ma non sul green pass. Non mi sento affatto sorvegliato. Mi sento un po’ spento e amareggiato. Aprire i giornali al mattino e leggere menti, ritenute brillanti, che si accapigliano sul nulla è deprimente. I dati, inconfutabili, ci dicono che la stragrande maggioranza degli esseri umani è ancora in piedi grazie al vaccino. I controlli sono necessari, poiché lo Stato non può consentire che la libertà sfrenata e pericolosa di qualcuno possa compromettere la libertà e, ciò che più conta, la vita di altri. Se non comprendiamo questo, di che cosa parliamo? Di quale filosofia parliamo? Povera filosofia!”.

Lo saluto ricordandogli che la filosofia della quale resto attento lettore è in “Scritti filosofici e politici”, la sua opera (quasi) omnia edita da La nave di Teseo. Il professore sorride ancora. Un raggio di sole lambisce la Mole. Il pensiero debole è più forte che mai.

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Giorgio Agamben, Che cosa resta? Quattro poesie kitchen di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Composizione in polittico e Instant poetry, Mario M. Gabriele, Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno, L’ES è in rotta con la sfera volitiva, Salvatore Sciarrino, Sulla composizione, Una poesia di Francesco Paolo Intini, Brasileira

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Lucio Mayoor Tosi, Composizione in polittico

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Ascoltiamo le parole di un maestro della musica contemporanea, Salvatore Sciarrino, sulla «composizione»

«…è come se io partissi a rovescio, immaginassi il punto di arrivo e poi studiassi come arrivarci, e questo secondo me rovescia un po’ il modo di procedere della composizione così come la conosco io attraverso la scuola… per me l’immaginazione sonora è la prima cosa, il che non vuol dire soltanto immaginare un suono ma immaginare il modo verso il quale tu vai e dentro il quale tu vuoi visitare e che contiene delle cose che ti attirano e ti danno la voglia di prenderle con te e mostrarle agli altri… se non avviene dentro di noi uno sforzo molto forte di superare, non gli ostacoli, ma proprio di bucare i muri… aprire porte dove non ci sono porte, noi non otteniamo nessun risultato. Un pezzo di musica in più o in meno non ci serve, noi abbiamo bisogno di cose che ci sorprendono, che ci rapiscano e ci trasformino. Quindi, la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando… dentro quale parte ci vogliamo avventurare, questa è la prima cosa, il resto è già scontato, perché se c’è la immaginazione di una nuova opera, il resto riguarda più i dettagli o come realizzarla».

Giorgio Agamben.
Che cosa resta?

1.
«Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato». Questa frase di Flaiano – uno scrittore le cui battute vanno prese estremamente sul serio – contiene una verità su cui vale la pena di riflettere. Il futuro, come la crisi, è infatti oggi uno dei principali e più efficaci dispositivi del potere. Che esso venga agitato come un minaccioso spauracchio (impoverimento e catastrofi ecologiche) o come un radioso avvenire (come dallo stucchevole progressismo), si tratta in ogni caso di far passare l’idea che noi dobbiamo orientare le nostre azioni e i nostri pensieri unicamente su di esso. Che dobbiamo, cioè, lasciare da parte il passato, che non si può cambiare ed è quindi inutile – o tutt’al più da conservare in un museo – e, quanto al presente, interessarcene solo nella misura in cui serve a preparare il futuro. Nulla di più falso: la sola cosa che possediamo e possiamo conoscere con qualche certezza è il passato mentre il presente è per definizione difficile da afferrare e il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata che nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro: costui sta quasi sempre cercando di intrappolarvi o di raggirarvi. «Non permetterò mai all’ombra del futuro» ha scritto Ivan Illich «di posarsi sui concetti attraverso cui cerco di pensare ciò che è e ciò che è stato». E Benjamin ha osservato che nel ricordo (che è qualcosa di diverso dalla memoria come immobile archivio) noi agiamo in realtà sul passato, lo rendiamo in qualche modo nuovamente possibile. Flaiano aveva allora ragione suggerendoci di fare progetti sul passato. Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente, mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente.

3.
Nicola Chiaromonte ha scritto una volta che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non è che cosa abbiamo avuto o non avuto, ma che cosa resta di essa (corsivo del redattore). Che cosa resta di una vita – ma anche e ancor prima: che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? All’intervistatore che le chiedeva «che cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?», Hannah Arendt rispose «resta la lingua». Ma che cos’è una lingua come resto, una lingua che sopravvive al mondo di cui era espressione? E che cosa ci resta, quando ci resta soltanto la lingua? Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? (corsivo del redattore). Ricordo che Ingeborg Bachmann mi disse una volta che non era capace di andare dal macellaio e chiedergli: «mi dia un chilo di fettine». Non credo che volesse dire che la lingua della poesia è una lingua più pura, che si trova al di là della lingua che usiamo dal macellaio o per gli altri usi quotidiani. Credo piuttosto che la lingua della poesia sia l’indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane, così come qualcuno ha scritto che l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto. Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. La poesia e il pensiero attraversano la lingua in direzione del nome, di quell’elemento della lingua che non discorre e non informa, che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama. Un breve testo che Italo Calvino usava dedicare agli amici come il suo «testamento spirituale» si chiude con una serie di frasi mozze e quasi ansimanti: «tema della memoria – memoria perduta – il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio.1

Queste note riproducono parte dell’intervento al Salone del libro di Torino il 20 maggio 2017.
(Giorgio Agamben, 13 giugno 2017)
1 Id., «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018]

Mario M. Gabriele

Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno. L’ES è in rotta con la sfera volitiva. C’è chi predilige forme e oggetti di varia natura, tra cui si annotano materassi, letti, tavoli, armadi, cassettiere, scaffali, divani, poltrone, sedie, carrozzine, girelli, culle, televisori, videoregistratori, lavatrici, frigoriferi, elettrodomestici da incasso, condizionatori, stufe e mascherine Covid, assieme a materiale chimico ed edile, come amianto, colori, vernici, bombole di gas e ossigeno, provette con idrogeno, elio, litio, boro, azoto, antimonio, argon, bismuto, cobalto, cripto, per creare un polittico? Una pala sacra? O una scuola primaria per poeti del futuro? Ciò significa mettere in scena figure e oggetti apocrifi nel tentativo di creare un camaleontismo linguistico di elevazione così bassa in cui il lettore si perde nel gioco smaliziato di significati e feuilleton. E chi lo pratica non abiura i propri solipsismi, e grovigli letterari e scientifici, che in molti casi si autodistruggono da soli, bloccando la poesia dalla sua funzione d’Arte. Svuota poesia? Sì! Ma anche svuota cantina!

Quattro poetry kitchen di Gino Rago

Bubù de Montparnasse fa il gigolò
con l’amante di Jean-Luc Nancy

Domani torno a Paris avec Madame Batignolles
aspettami alle Tuileries

scrive madame Fru-frù all’ispettore Poirot
bisogna arrestare il poeta Iacopò Ricciardì

e tutti gli altri della kitsch poetry

*
Sul notturno Roma-Paris
Ne pas se pencher au dehors

dice Madame Colasson all’uccello Pettì
Un talebano dice Ohibò al pappagallo Totò

e fa la pipì sulla moquette del wagon-lit
Si salvi chi può dice da un oblò

il Presidente Biden al nano Cocò
*

A Parigi, sotto la finestra dell’atelier
di Marie Laure Colasson

in Rue du Lapin, près du marché aux puces,
un tenente de ll’Armée Française,

Edition par Lucien Rousselot,
arresta la danseuse étoile de l’Opéra.
*

Giorgio De Chirico guida il taxì,
Marcel Duchamp espone l’orinatoio a Trinità dei Monti

Ennio Flaiano ci fa la pipì,
prende al volo un colibrì

Lucio Mayoor Tosì entra nel “Notturno” di Madame Colasson
e invita l’uccello Pettì al Caffè de Paris Continua a leggere

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La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde, Perché ciò che si perde è di Dio, Stralci di Giorgio Agamben, Carlo Salzani, Giorgio Linguaglossa, L’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica, “l’animale che ha il linguaggio”, Il feticismo della merce, il gioco, il giocattolo, Il tema della frattura metafisica fra significante e significato, Il linguaggio poetico liofilizzato e de-politicizzato di oggi, Poesia kitsch di Pavel Řezníček, Guido Galdini, Francesco Paolo Intini

gerhard-richter-Ulrike Meinhof, 1977 foto

Gerhard Richter, Ulrike Meinhof, foto, 1977
[Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative?] (G. Agamben) [l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto, la lingua è l’indistruttibile che può essere continuamente distrutta] (g.l.)

.

Scrive Carlo Salzani:

«La filosofia di Agamben potrebbe essere meglio rubricata (se proprio si ha bisogno di etichette) come una critica integrale dell’ontologia dell’Occidente. Allo stesso modo, la sua proposta politica, la pars construens del suo progetto, risulta incomprensibile (e anche per questo ha ricevuto tanti attacchi) se non la si pensa all’interno di questo ambito: una nuova politica (data l’insormontabile crisi della vecchia) è possibile solo attraverso una nuova ontologia. Nello stesso ambito dobbiamo anche inserire le analisi dell’estetica (o, meglio, dell’arte), della letteratura, dell’etica e del linguaggio: la questione, per Agamben, è sempre una questione di quello che Aristotele chiamava prote philosophia, “filosofia prima”. Un’importanza centrale assume in questo senso l’analisi del linguaggio, giacché l’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica,“l’animale che ha il linguaggio”, ma questa definizione non può essere presa e accettata acriticamente, dev’essere, anzi, problematizzata, analizzata e indagata al di là dei suoi presupposti metafisici.

Questa è la preoccupazione costante e inaggirabile che Agamben metterà esplicitamente al centro di ogni sua elaborazione, giacché dalla risposta che la civiltà occidentale ogni volta darà alla domanda “Cosa significa avere il linguaggio?”non dipende solo lo status della linguistica e delle scienze ingenerale, o dell’arte e della letteratura, ma quello della definizione stessa di “umano”, e quindi della vita, dell’etica e della politica. Inscindibile da queste questioni è quella del tempo e della storia, ed è anch’essa una questione che, in modo coerente e sostanzialmente invariato, informa ogni singola opera di Agamben. Vivere e agire, e cioè l’etica e la politica, avvengono solo nel tempo e a partire dal tempo, per cui la critica dell’ontologia occidentale significa anche e innanzi tutto una critica dell’idea di tempo e di storia che da questa ontologia deriva e che, allo stesso tempo, a essa dà forma. La proposta di una nuova ontologia significherà allora la proposta di una nuova idea di tempo e di storia, di una nuova esperienza del vivere e dell’agire nel tempo.

Questo modo apre uno spazio all’“epifania dell’inafferrabile” (S 13). L’“appropriazione” che l’intenzione accidiosa/ malinconica concede è “fantasmagorica”, ma proprio in quanto tale essa apre uno spazio all’“esistenza dell’irreale” e delimita una scena in cui “l’io può entrare in rapporto con esso e tentare un’appropriazione che nessun processo potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare” (S 26). Una “nuova dimensione” è in questo modo aperta, un “intermediario luogo epifanico” (S 32) che mette l’uomo in contatto con un mondo, quello in cui desiderio e oggetto interagiscono, da cui dipende la sua felicità. La stessa struttura è individuata nella seconda “stanza”, la più benjaminiana perché tratta temi e autori classici delle ricerche dell’ultimo Benjamin nei “Passages” di Parigi e nel libro su Baudelaire (il feticismo della merce, Freud, Marx, Baudelaire, il dandy, il giocattolo), anche se il debito rimane implicito e “senza virgolette”.

Qui il rapporto tra conoscenza, desiderio e oggetto è cercato nel modello del “feticcio”, dalla sua analisi freudiana come “presenza di un’assenza”, al “feticismo della merce” individuato da Marx nello sdoppiamento tra valore d’uso e valore di scambio, che rende la merce inafferrabile e fantasmagorica. Il passo al di là di questa frattura è individuato nella rivoluzione poetica di Baudelaire (un Baudelaire molto benjaminiano), che all’invadenza della merce oppose la mercificazione assoluta dell’opera d’arte, nella quale il processo di feticizzazione è “spinto fino al punto da annullare la realtà stessa della merce in quanto tale” (S 51). Facendo dell’opera il veicolo stesso dell’inafferrabile, Baudelaire assegna all’arte il compito di appropriarsi dell’irrealtà e, come il dandy, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose che vada oltre il valore d’uso e il valore di scambio. Portando fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé, il dandy e la poesia moderna oppongono all’accumulazione capitalistica del valore di scambio e al godimento del valore d’uso del marxismo “la possibilità di un nuovo rapporto con le cose: l’appropriazione dell’irrealtà” (S 59).

La terza “stanza”, che ricostruisce la teoria del fantasma nella lirica tardo-stilnovista, non solo è la più estesa, ma occupa il posto centrale della ricerca in quanto ne costituisce il modello. È anche la “stanza” in cui l’influenza del metodo warburghiano è più evidente ed esplicita (e ad Aby Warburg, tra gli altri, è dedicata). Quella che viene qui ricostruita, mediante una lunga, minuziosa ed estremamente erudita analisi della teoria della sensazione medioevale, è la relazione tra amore e immagine: secondo la psicologia medioevale, gli oggetti sensibili imprimono nei sensi la loro forma e quest’impressione (chiamata “fantasma”) è ricevuta dalla fantasia, che la conserva anche in assenza dell’oggetto. Questo “fantasma” costituisce una sorta di intermediario fra l’anima e la materia e permette così di spiegare tutti gli influssi fra il corporeo e l’incorporeo, compreso l’amore: “L’oggetto dell’amore è infatti un fantasma, ma questo fantasma è uno ‘spirito’, inserito, come tale, in un circolo pneumatico in cui si aboliscono e si confondono i confini fra l’esterno e l’interno, il corporeo e l’incorporeo, il desiderio e il suo oggetto” (S 128).

L’amore è in quanto tale “fantasmatico”, cioè irreale, e, come l’accidia/ malinconia, nel suo fissarsi sull’inaccessibilità del suo oggetto esso è “patologico”, è la “malattia mortale” dell’immaginazione. È con gli stilnovisti che questo processo riceve una“nobilitazione soteriologica”: nel linguaggio poetico (esemplificato soprattutto dalla teorizzazione di Dante) inteso come dettato d’amore, gli stilnovisti cercano di colmare la frattura metafisica fra visibile e invisibile, corporeo e incorporeo, apparire ed essere. Eros e poesia sono qui legati e coinvolti in una comune appartenenza che scuote la distinzione semantica tra significante e significato e che concilia la frattura fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto: “il fantasma genera il desiderio, il desiderio si traduce in parole e la parola delimita uno spazio in cui diventa possibile l’appropriazione di ciò che non potrebbe altrimenti essere né appropriato né goduto” (S 153). Il tema della frattura metafisica fra significante e significato è analizzato a fondo nell’ultima “stanza”, che presenta una critica della semiologia moderna. La dualità del manifestante e della cosa manifestata che costituisce il segno rispecchia la“frattura originale della presenza”: “tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare” (S 160-61). La nozione semiotica del segno come unità espressiva di significante (S) e significato (s) rimuove e occulta la frattura originale, e quest’oblio metafisico si manifesta nella barriera (/)del grafo che indica il segno: S/s. Non interrogandosi sul senso di questa barriera, di questa divisione/differenza, la metafisica occidentale (di cui la semiologia moderna rappresenta il momento culminante e l’impasse) copre l’abisso spalancato fra il significante e il significato; essa non è quindi che “l’oblio della differenza originaria tra significante e significato” (S 63).

In questo senso, la strutturazione metafisica del significare nella semiologia rende il fatto linguistico qualcosa di “impossibile”,mostra (nella barriera /) l’impossibilità del segno di prodursi nella pienezza della presenza. Il progetto della decostruzione di Derrida ha messo a nudo, per Agamben, l’eredità metafisica della semiologia moderna, ha posto l’accento su e ha svelato la frattura originaria, ma far venire alla luce il fondamento negativo della metafisica non significa superarla, e la decostruzione qui si è fermata. Una “semiologia liberata” che voglia “far segno” verso un nuovo modello del significare, verso “un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura […] insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato” (S 165), dovrebbe portare lo sguardo proprio su questa barriera, su questa “articolazione invisibile” che indichi la strada per quello che Eraclito chiamava “armonia”, e cioè una stazione “giusta” nella presenza.

[contemporaneo]

La sconnessione e l’inattualità conferiscono alla contemporaneità la struttura dell’“urgenza”: la contemporaneità “è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma” (NU 26), e lo fa mettendo in relazione i tempi, l’arcaico con il moderno, l’origine con il presente. 

“Nietzsche situa […] la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. (NU 20)

“Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente” (NU 23)

per eccellenza” è quindi il tempo messianico, il “tempo di ora”che trasforma e mobilita il tempo come esigenza di compimento. Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di“citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra,acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. (NU 31)
Agamben, nella sua opera, ha diretto uno sguardo impietoso sulle tenebre del nostro presente e ha cercato di “illuminarle”e di rispondere alla loro sfida mettendole in relazione con gli altri tempi. E, se proprio di “attualità” si deve parlare, allora l’attualità del pensiero di Agamben sta proprio in questo: nell’aver fatto del presente il “tempo” della propria opera».

da C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, il melangolo, 2013 pp. 178, € 14
SALZANI-Agamben 03-10_opuscula 08/10/13 12:39 Pagina 177 Continua a leggere

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L’uso della metafora negli haiku di Tomas Tranströmer e dei classici giapponesi, a cura di Giuseppe Gallo, con una Chiosa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 74,5x28 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 75,5×28 cm. acrilico su tavola, 2021

Strilli Transtromer Prendi la tua tomba

Gli haiku di Tomas Tranströmer

di Giuseppe Gallo

Tutti gli haiku dovrebbero essere “profondi abissi di pensiero!”, cosi diceva Maria Cristina Lombardi, a proposito degli haiku di Tomas Tranströmer, nella presentazione ai lettori italiani di Il grande mistero, (Crocetti Ed., Milano 2011, p. 7).
Un abisso ricavato attraverso similitudini e metafore, immagini primarie e secondarie, per mezzo di un linguaggio simultaneamente astratto e concreto. In Tranströmer, afferma sempre la Lombardi, “La comprensione” di queste invenzioni e metamorfosi, di questi “richiami a figure ritmico-sonore” e ad «espressioni metaforiche bimembri presuppone conoscenze di mitologia nordica perché, ad esempio, l’oro, che in quella mitologia viene designato come “fiamma dell’onda», per un lettore italiano risulterebbe incomprensibile. Ecco un haiku di Tranströmer, dove egli «cerca di afferrare gli istanti luminosi che gli rivelano nuove dimensioni di significato, squarciando l’immenso mistero che circonda l’uomo con metafore che scompongono, comprimono, fondono e ricreano» (op. cit. p. 9).

“shiragiku no me ni tatete miru chiri mo nashi

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Guardando attentamente
i crisantemi bianchi–
non un granello di polvere”


Guardando attentamente, anche noi troviamo che lo haiku in questione è costruito, come pure quello Tranströmer, sulla esposizione di due immagini, sulla loro interazione e sulla loro capacità evocativa all’interno della cultura di riferimento. Per noi occidentali il crisantemo evoca la morte, il granello di sabbia, l’infinitamente piccolo, l’atomo della materia e l’attimo del tempo, si pensi alla clessidra…
Ebbene, in questo caso, “Bashō si sta complimentando con l’ospite (Sonome), rappresentato dai crisantemi bianchi, mettendo l’accento sui fiori e, per allusione, alla purezza dell’ospite stesso. Possiamo dunque concludere che ogni “vedere” presuppone anche una cultura. Oggi che viviamo in un’epoca in cui è caduta ogni ideologia, ogni barriera e ogni distinzione tra i piani linguistici e le forme dei pensieri, tutto sembra cadere nel caos dei fenomeni, delle ambiguità e del paradosso. Ogni immagine non è più immagine di se stessa, ma di altro e lo stesso “principio di identità”, ormai è un principio in disuso, mi viene da chiedermi: cos’è la metafora? Che rapporto esiste tra la metafora e l’immagine? “Di che materia sono fatte le immagini?” Chi viene prima, l’immagine o il pensiero? Che funzione svolge, la metafora, all’interno della forma haiku? Ricordate l’interrogativo di Shakespeare: “Di che materia sono fatti i sogni?”
La domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci, insieme a Tranströmer, di che materia sono fatte le parole? E perché il mondo ci appare come “un grande mistero”? E’ il mondo una immensa metafora? E perché la metafora sorregge le nostre domande e le nostre risposte? Perché la metafora elaborata in un presente, momentaneo e fugace, scompiglia il fluire del tempo, incidendo il passato e preconizzando il futuro? È la metafora a veicolare la poesia o l’arte in genere?


“In fondo, volendo essere radicali,” afferma Gianna Chiesa Isnardi “la parola stessa non è forse metafora della realtà,…?” (T. Tranströmer, La lugubre gondola, a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Bur Rizzol, 2011, p. 97) E tale realtà non è data dalla parola? E la parola non è fondata sulla immagine che contiene? E il nostro pensare non è forse “un pensare attraverso le immagini” contenute nella parola? È evidente allora che “la metafora rinvia al linguaggio della percezione e a quello figurativo” (T. Tranströmer, op. cit., p. 98); che la metafora avvia “l’esplorazione dei legami inaspettati fra le cose del mondo e fra esse e l’uomo…” ( op. cit., p. 99); e che non ci può essere metafora senza “un secondo termine di paragone, uno specchio.” , (op. cit, p. 99). Specchio che significa riflesso di un’immagine, fusione, confusione e divergenza. In definitiva, ogni parola contiene se stessa nella duplicità delle proprie ombre, sotto l’aspetto del “significato” e del “significante”. Entrando nelle parole è come se entrassimo in quello specchio, rifratto e frammentario, ambiguo e misterioso, che è il linguaggio. Entriamo nell’ enigma. Nel vero e nel falso. In quella metafora che tenta di svelare “ciò che sta “dietro le parole” (op. cit, p.101). “Cosa sei tu, dietro te stesso?” si chiedeva Freud. Riusciremo mai a saperlo? Riusciremo mai a tagliare il nodo gordiano di questa ambigua domanda? “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188) Ebbene, cos’è “questa frattura della presenza” che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben risponde che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. Che sia la metafora la porta di accesso a questo “fondamento”? E la frattura dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il nostro linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Ovvero metafora. Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla, precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e in piena confusione per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro.
Il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio in cui ci perdiamo può esserci di aiuto per l’esperienza della realtà? In effetti, tutto ciò che noi abbiamo esperito o possiamo esperire, del nostro essere nel mondo e di noi stessi è diventato, e diventa, linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale.
Ecco un esempio dove la metafora svolge la funzione per cui è nata.


…. Sono trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.

L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
al banco dei pegni.

(T. Tranströmer, La lugubre gondola, op. cit., p. 13)

La metafora, dunque, ha la funzione di arpionare le sembianze, i realia, della natura, ridurre queste “macchie” a nostra rappresentazione, rendendole soggettive ed oggettive, nell’illusione che possano contenere, non solo il vuoto, ma anche, gli emblemi della nostra stessa esistenza.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia». Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi.
Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso:
«Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Strilli Transtromer le posate d'argento

Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

Il mondo è diventato un labirinto
di Giorgio Linguaglossa

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi.

*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato. Continua a leggere

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36 twitter instant poetry di Vari Autori europei, La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose ma realizza immediatamente il suo significato, Il potere extra semantico della semantica viene così ad evidenza, Il linguaggio reso inoperoso acquista smagliante auto evidenza, La poetry kitchen è un modello di experimentum linguae che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio

Marie Laure Colasson 40x23 Stuttura dissipativa 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 40×23 cm., acrilico 2021

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La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato. In un certo senso nella poetry kitchen si rende evidente il «potere extra semantico della semantica»; quello che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act). L’enunciato «io giuro» è il paradigma perfetto di un tale atto in quanto chiama la parola alla immediatezza del denotato il cui significato non può essere posto in dubbio da nessuno pena la infrazione del giuramento. Il linguaggio è quella cosa che presuppone il passaggio dalla langue alla parole, e cioè dalla parola nella sua mera consistenza lessicale, a prescindere dal suo impiego nel discorso, alla denotazione, a una istanza di discorso in atto. Il linguaggio è la struttura presupponente che fonda tutte le altre strutture del pensiero.

Possiamo dire che nella instant poetry la parola chiama a sé la veredizione del significato nel circolo della veredizione, con esclusione di qualsiasi dubbio; la poetry kitchen persegue la tautologia: è vero ciò che viene enunciato;  esercita una espropriazione del significato nel mentre che maneggia il potere locutorio come atto di libertà assoluta dal significante e dal significato. La poetry kitchen non esegue nessuna appropriazione del linguaggio, non esercita alcun dominio sul linguaggio, lasciandolo lì dov’è.

Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».1 La struttura denotativa e quella performativa del linguaggio sono caratteri storici della lingua umana,  appartengono in toto alla storia della metafisica occidentale, non v’è nulla di originario o di eterno nella lingua. Non è un caso che nell’epoca del predominio della tecnica questa struttura denotativa abbia raggiunto il suo limite massimo raggiungibile, la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane.

Per poter essere in grado di agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello della adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un fatto.
La poesia è proposta, in Il Regno e la Gloria, da Agamben, come paradigma della disattivazione del linguaggio, in essa il linguaggio è reso inoperoso: la poesia marca il punto in cui la lingua «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile».2 

Non a caso Agamben assume la poesia a modello di una parola che disattiva le funzioni comunicative e informative del linguaggio rendendo evidente la sua immediata «medialità», il suo essere mero «mezzo», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile».3 Il superamento della metafisica implica un nuovo modello del significare, e qui Agamben presenta, di sfuggita, un aspetto che costituirà uno degli assunti principali della sua soteriologia: che lo scioglimento della contraddizione della metafisica si fonda in un nuovo linguaggio, in una nuova parola, nella poesia, in «un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato».4 
L’experimentum linguae è nella poesia kitchen collegato all’«uso» del linguaggio come ricerca di un diverso e più profondo statuto della parola, di un’esperienza della parola liberata che apra lo spazio della gratuità dell’uso.
La poetry kitchen è, in tal senso, un modello di experimentum linguae, che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio quando esso viene reso inoperoso.
Ecco una serie di esempi di strutture linguistiche performative.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008 pp. 74-75.
2  G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza 2007, pp. 274-75
3 Ibidem, p. 274.
4 G. Agamben, 1977, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,Torino, Einaudi, p. 165.

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Instant poetry di Giorgio Linguaglossa

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Lettera di Vincenzo Petronelli agli Amici dell’Ombra delle parole sul proprio tragitto, Dalla poesia del novecento verso una Nuova ontologia estetica, Poetry kitchen e Instant poetry, con una scelta delle poesie

L’umano non è per Giorgio Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, Zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che «sono sempre assolutamente nella lingua», ne è privo e deve riceverlo dal di fuori, e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso). La teoria agambeniana dell’«in-fanzia», come luogo nel quale  si è privi di lingua, si pone dunque esplicitamente come uno svolgimento della distinzione tra semiotico e semantico formulata da Benveniste. Forse proprio in questa sottilissima linea divisoria tra semiotico e semantico è possibile per un poeta di oggi situare il linguaggio poetico come linguaggio già pronto, ready language, una zona neutra di indistinzione tra il sistema semiotico e il sistema semantico.
Ready language poetry di Giorgio Linguaglossa

Caro Giorgio,

raccolgo con grande piacere il tuo invito a sottoporre ai lettori dell’ “Ombra delle Parole” questo profilo della mia storia poetica.
Ho sempre amato la poesia e la sua capacità di “curvare” le parole, come frutto dell’attrazione per la magia della parola e per la possibilità di plasmarla. Come tanti, ho cominciato a cimentarmi con i primi versi in età tardo-adolescenziale, per avviarmi a dei tentativi più “seri” e “sensati” attorno ai vent’anni, in un contesto culturale caratterizzato da interessi estremamente eclettici, culminati in un percorso di studi storico – antropologici, ambito nel quale successivamente sono stato anche ricercatore e che tuttora continuo a seguire come cultore della materia. Se da un lato tale versatilità mi ha permesso di individuare da subito la capacità della poesia di farsi vettore di questa visione olistica della vita e del mondo (tanto che ho sempre amato definire la mia poesia “antropologica”) dall’altro lato ne ha segnato probabilmente un limite nella ricerca iniziale sul linguaggio, in quanto ingabbiata nella commistione con la passione, altrettanto pregnante, per la musica e dall’idea – che ha accompagnato a lungo la mia versificazione in quel periodo – della ricerca di un registro popolareggiante, ricerca mutuata tanto dall’influenza cantautorale e dal filone musicale folk-rock, quanto dal mio retroterra antropologico. Se per un verso ciò mi ha conferito subito quel gusto per la narrazione e l’astrazione dalla logica dell'”Io” e dalle tendenze della poesia salottiera ed elitaria, dall’altro ha determinato il limite, in quella fase, di un indugio ed un compiacimento per il gusto folkorico – comunque qui inteso nel senso nobile, cioè antropologico del termine- per un lirismo esplicito, ostentato. Il risultato, al contrario delle premesse, finiva per appiattire il possibile spettro espressivo dei miei versi, sacrificandone l’eclettismo e ciò nonostante da sempre abbia attinto a letture e riferimenti poetici i più disparati, di differenti tradizioni geografiche e linguistiche e di diversa impostazione stilistico – espressiva, ma se ciò penetrava nella mia scrittura di allora con vari stimoli e suggestioni, non riusciva ancora ad incunearsi nella mia scrittura dal punto di vista tecnico.
I modelli prevalenti finirono per essere poeti sicuramente immensi (senza alcuna lontana pretesa di volermi a loro assimilare) come Yeats o Garcia Lorca, ma che presto ho cominciato ad avvertire distanti dalle mie istanze poetiche: ferma restando l’importanza e la centralità assunta nella mia formazione dalla cultura popolare, cominciavo a rendermi conto del fatto che essa non fosse un monolite, ma che al contrario, essendo a sua volta coinvolta nei processi di trasformazione del mondo e della società tutta, soggetta a mutamenti di paradigmi e declinazioni ed ad ampliamenti di territori ontologici.

Ecco un esempio di “parti” di quest’epoca: nel primo caso si tratta di un brano composto nel dialetto di Barletta – la mia città – naturalmente seguito dalla traduzione in italiano, ed il secondo in italiano.

Un amore di rosa

Giugne ièrre ‘na nàve de cundrabbandiére
ca da sope ‘e pelùne arruave abbásce ‘o puorte
e assèvene ‘i menénne a aspettà i frastière,
assave a zinghere ca addevenave ‘a sòrte.

Luglie profumave de cièlse e de lemone
e de promèsse ‘nu fagugne d’a condrore;
stèvene ciènde rose sope ‘o balcone
e da nbiètte te zumbave ngánne ‘u core.

A agòste scettièste nu sòlte abbásce ‘o puozze
che ‘na lèttre lôrde, ráchele de sánghe
e rendrunave rête ‘e iárevere ‘a carròzze,
ma ‘u bbêne nôn vêne crè e pscrè nemmánghe.

Traduzione

Giugno era una nave di contrabbandieri
che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
e usciva la zingara che leggeva la sorte.

Luglio profumava di gelsi e di limone
e di promesse nel favonio della controra;
c’erano cento rose sul balcone
e il cuore dal petto ti saltava in gola.

Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
con una lettera, rantolo di sangue
e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.

Il volo

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di confine
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.

Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.

Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.

Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rifrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.

Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Penso che appaiano fin troppo evidenti i richiami ad immagini evocative della cultura contadina ed i riferimenti ad una poesia popolareggiante liricamente ridondante.

Se c’è un elemento che ritengo essere stata invece un’intuizione interessante è la modalità con cui ho fin da subito esperito l’uso delle lingue locali: paradossalmente, nonostante la pervasione di questo lirismo popolareggiante, cui apparentemente il dialetto è subordinato, l’idea del ricorso alle lingue locali è invece stato immediatamente associato più alla ricerca di una koinè universale, al punto che scritti che potrebbero sembrare nati da episodi di vissuto locale, affondano la loro genesi in esperienze o vissuti connessi ad una formazione che mi ha sempre fatto vedere nelle radici un trampolino da cui spaziare verso il mondo, per cui quest’attitudine antropologica è corrisposto anche ad un continuo ampliamento del bacino geografico dei miei interessi. In effetti, tale afflato si è accompagnato anche ad una robusta conoscenza linguistica (mi sono dilettato anche nella composizione – estemporanea in verità – in alcune lingue estere di mia conoscenza) e conseguentemente nella possibilità di viaggiare molto, cosa che ha influenzato le mie suggestioni poetiche, ma prediligendo stilisticamente farle convergere in una sorta di declinazione universalistica che mi permettesse l'”accorciamento delle distanze”, attraverso un processo di contaminazione e di traduzione, una una sorta di Bringing it all back home, per la quale necessitavo di una lingua affettivamente vicina al mio vissuto personale, ma al tempo stesso neutra: disegno al quale le lingue locali della mia area si prestano perfettamente per il fatto di non possedere una tradizione poetica radicata e di essere dunque sganciate da dettami “di scuola”. Risulta però evidente a posteriori come anche questa potenzialità del registro linguistico, rimanesse compressa in un quadro eccessivamente lirico – folkorico.

Alla fine degli anni ’90, ho cominciato a percepire una distanza sempre più stridente da questo modo di fare poesia, avviando un percorso palingenetico, abbinato non solo ad una necessità di rinnovamento personale della mia versificazione, ma anche – in un contesto in cui nel frattempo avevo cominciato ad ampliare i miei orizzonti di conoscenza poetica e del panorama della produzione poetica contemporanea – dell’inderogabilità per ogni poeta, anche il più modesto, di cercare di offrire un contributo al progresso delle attività artistiche e del sapere, per testimoniare nella propria opera il proprio tempo.
La “prima pietra” di questo percorso di rinnovamento è stato l’incontro con la poesia di Paul Muldoon, poeta nord-irlandese considerato la voce vivente più alta della poesia in lingua inglese con il suo stile fortemente allusivo e talvolta criptico, l’ironia ed autoironia, con i giochi di parole ed una musicalità “atipica”; un poeta di transizione se vogliamo, tra una poesia ancora “oggettiva”, ma con una complessità architettonica già straniante e ri-strutturante. Un poeta, Muldoon, che adotta in alcuni capitoli della sua produzione, anche la poesia narrativa, ma secondo la consuetudine “alta” tipica in questo senso della poesia anglo-sassone, che quasi contemporaneamente mi ha dischiuso le porte all’approfondimento anche di altri poeti, in particolare quella di altri due poeti irlandesi: Seamus Heaney e Patrik Kavanagh, sebbene tra loro molto diversi.

Tra i miei scritti di quel periodo (siamo ormai all’inizio degli anni 2000) ce n’è forse solo una che può avere un barlume di dignità, anche in questo caso composta in barlettano:

U Spusalizzie

Atténəmə jêrə də Cérəgnolə
manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;
mamminəmə jêrə andrəsànə,
propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbàbunə
ndò i dibbətə pəsèvenə
accomə a na zochə ngánnə.

Na sciurnàtə appêsə də Márzə,
nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:
“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,
ng’i vuléimə scì a truà a fòrzə? Cə jə, tə fêtə
l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.

‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,
mamminəmə assavə i fotograféje
da ìində o tərèttə,
adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;
méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə
ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,
i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.

Il matrimonio

Mio padre era di Cerignola
maneggiava le parole come coltelli;
mia madre era andriese,
proprio la città dei contadini e dei “signorsì”
dove i debiti pesavano
come una corda intorno al collo.

Un giorno incerto di Marzo
mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:
“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.

Alla sera, dopo che finiva di cucire,
mia madre tirava fuori le fotografie
dal cassetto,
raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;
mentre mio padre andava a dormire e si gingillava
con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,
i bastardi che gli portavano sfortuna. Continua a leggere

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Dalla «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (con Stige del 1992) al ready language della poetry kitchen e della instant poetry, La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente, La pop-poesia scopre la valenza gestuale del linguaggio, Poesie kitchen di Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Dalla «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna  (con Stige del 1992) al ready language della poetry kitchen

La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen. Dal 1992 anno che segna l’edizione di Stige di Madonna, scompare definitivamente dal periscopio della forma-poesia la possibilità di adottare una «struttura tragica», se ne accorgerà lei stessa, ne sono la prova le poesie poi apparse nel 2018, postume: Stige. Tutte le poesie (1990-2002), opera pubblicata da Progetto Cultura nel 2018, quando l’abbandono del «neolatino» segna, marca l’abbandono della «struttura tragica». La nuova fenomenologia del poetico investigata dai poeti dell’Ombra delle Parole in questi ultimi anni è un po’ la presa di consapevolezza della impossibilità di operare un riformismo moderato nell’ambito della forma-poesia del secondo novecento, che lavorava per successivi aggiustamenti e rimaneggiamenti della forma-poesia post-montaliana, post-Satura (1971). Ad un certo punto agli intelletti più avvertiti e sensibili appare chiaro che quella via si era ormai esaurita e si presentava senza sbocco. La poetry kitchen è il risultato di questa assunzione di responsabilità, ed il ready language ne è stato il necessario supplemento linguistico e stilistico.
La poesia di Guido Galdini, con i suoi pseudo limerick, si muove in questa direzione di responsabilità; le storie di una pallottola di Gino Rago, la poesia collage di Mario Gabriele, la instant poetry di Lucio Mayoor Tosi, di Mimmo Pugliese e Mauro Pierno in varia misura e con strumenti linguistici diversi adoperano un linguaggio che si trova già pronto nelle discariche linguistiche della nostra civiltà mediatica.

La pop-poesia scopre la valenza gestuale del linguaggio, il ready language è finalmente libero dal significato e dal senso; il linguaggio del ready language ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non riusciva a vedere, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo. Wittgenstein lo aveva messo in chiaro da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è funzione di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza gestuale-strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. Una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La poetry kitchen fa uso di linguaggio gestuale e figurato allo stato puro, è un ready language che rende evidente il fuori-significato, il fuori-senso. L’ontologia del linguaggio poetico del novecento faceva poiesis del non-senso, al massimo confezionava anti-poesia, nella poetry kitchen invece la valenza del linguaggio figurato e gestuale viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole dall’irretimento del linguaggio mediatico-strumentale. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente

non si pone più il quesito del perché qualcosa ha ragione di esistere e qualche altra cosa no, tutto esiste contemporaneamente, magari in un’altra dimensione, e quindi tutto è contemporaneo. Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina, da ciò che abbiamo in dispensa, nella credenza, a portata di mano. La poesia la si fa con ciò che abbiamo in frigorifero, con gli avanzi di ciò che abbiamo in frigorifero.
Lacanianamente, il Simbolico è sempre mancante in un punto X. Il punto X è il punto non rappresentabile della rappresentazione. In quel punto il Simbolico non è simbolizzabile, questo significa semplicemente che il Simbolico è simbolizzabile proprio grazie a quel buco lasciato vuoto, grazie a quel punto non-simbolizzabile.

Il processo simbolico funziona così, da un lato opera entro un contesto fantasmatico, dall’altro implica una X non simbolizzabile, un «nucleo reale-impossibile» (dizione di Slavoj Žižek ), un punto vuoto, un punto cieco che inghiotte il Simbolico e che ne consente l’emersione. Ecco che la triade Reale-Simbolico-Immaginario comincia a prendere profondità e senso: il Simbolico è sì la dimensione dominante nell’uomo, ma essa, proprio perché umana, non è concepibile indipendentemente dal Reale (che forclude e che presuppone) né dall’Immaginario da cui è fondata e che continua a suscitare.
Nel seminario lacaniano RSI del 1974-5 questa emergenza fondamentale riveste una funzione psico-sociale, un aspetto individuale-collettivo: la costellazione Immaginario-Simbolico-Reale si dà in un nodo borromeo in quanto discende dal funzionamento dialettico: il Reale è la mancanza che si iscrive nel Simbolico, e l’Immaginario è la cornice fantasmatica che consente al Simbolico di emergere.

Quand’è che si incontra il Reale? Rispondo: la poiesis è il luogo ideale dove si può incontrare il Reale nel suo travestimento nel Simbolico.
Scrive Žižek: «Quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio- un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic- che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso».

Una nuova imagery di parole sorge quando sorge un nuovo condominio di Wortvorstellungen (rappresentazioni di parole) irriconoscibili. La nuova patria metafisica delle parole è nient’altro che questo: un nuovo condominio di parole irriconoscibili di cui ci è tolta la possibilità di appropriarcene. Fare uso del linguaggio come di un vuoto a perdere, farlo in modo che giri a vuoto, privo di referente e di denotazione.

Ciò che emerge dal Reale è l’immagine del «tram addormentato» in questo verso di Marie Laure Colasson in chiusura di una sua poesia. Vi sono due modalità mediante le quali l’uomo si può relazionare al linguaggio, quella inautentica, tipicamente novecentesca, ha a che fare con la «voce», in quella autentica invece non vi è né lingua, né patrimonio di nomi che si tramandano, bensì solo una dimora personale che non presuppone niente prima di essa, che il linguaggio è infondato.
Recuperare un rapporto autentico con il linguaggio significa recuperare l’immediatezza della sua espressione di pari passo con la sua infondatezza. Si tratta di esporre il linguaggio nel suo esser-così e alla sua maniera, senza appropriazione e senza illusione.

«Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato»

In questo verso della Colasson è evidente che ciò che è inverosimile e inappropriato (la metafora di «un viso mal rasato e sudato» che equivale al «tram [che] si è addormentato), diventa invece perfettamente verosimile e appropriato. Questo verso «tradizionale», quasi lirico, posto in chiusura di una poesia kitchen, aumenta a dismisura l’effetto di straniamento della poesia, la rende inesplicabile e insondabile in quanto riporta nel Simbolico la faglia, la schisi che si è aperta nel Reale. Il Punto X è la casella vuota della scacchiera, in ultima analisi, un Enigma.

1 S. Žižek, Che cos’è l’immaginario, Il Sagiatore, 1999, p.32

La Voce

Agamben continua l’intervento Hölderlin-Heidegger sostenendo che nell’articolazione / disarticolazione originaria si dà, secondo la tradizione, una “in-vocazione”: l’uomo è già da sempre richiamato ad assumere quel presupposto che prende il nome di Voce. Quindi in-vocazione significa tanto che si è “situati” anzitutto nella Voce, quanto che si è richiamati già da sempre presso di essa.

In Sein und Zeit ciò che richiama o in-voca è la lautlose Stimme (“voce senza suono”); cioè la voce silenziosa della coscienza che richiama il Dasein a se stesso. Agamben sottolinea, in Il linguaggio e la morte, il fatto che in Heidegger si dia un’«improvvisa reintegrazione del tema della Stimme» (op. cit. p. 73), che la spaesatezza dell’ Angst sembrava invece aver eliminato. La Voce è una pura intenzione di significare che non dice nulla di determinato. È un voler-aver-coscienza (Gewissen -haben-Wollen) anteriore ad ogni aver-coscienza di qualcosa di determinato.

Così Agamben può scrivere: «giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nel luogo del linguaggio, il Dasein trova un’altra Voce, anche se una Voce che chiama solo nel modo del silenzio». (op. cit. p. 74)

Agamben afferma così che il proposito heideggeriano di pensare il linguaggio al di là della Voce non è stato mantenuto, poiché, al pari della metafisica, il filosofo tedesco ha pensato l’esperienza del linguaggio a partire da quel fondamento negativo che è la Stimme. In questa negatività si situa – secondo la tradizione – l’aver-luogo del linguaggio come «pura intenzione di significare, come puro voler dire, in cui qualcosa si dà a comprendere senza che ancora si produca un evento determinato di significato» (ivi : 45).
In quanto è un non-più voce non-ancora significato, la Voce è il “fondamento” negativo che permette che «l’essere ed il linguaggio abbiano luogo».1

Sfugge nel linguaggio significante verso un passato, un esser-stato. Ma a questo proposito la parola poetica interviene per indicare un altro orizzonte al di là della negatività. In Hölderlin-Heidegger, si sostiene che Hölderlin – in Über die Verfassungsweise des poetischen Geistes – chiama l’aver-luogo della parola poetica “Stimmung”. Questa è lo spazio che si apre fra ciò che viene espresso in una poesia e l’elaborazione ideale. Tale “sentimento trascendentale” permette all’uomo di trovare “la sua parola”.* Lo riconduce alla disarticolazione fra vivente e parlante senza anteporre alcuna Voce, cosicché egli potrà finalmente proferire una parola libera «di un linguaggio che fosse veramente e integralmente il suo linguaggio».2

* In Il linguaggio e la morte, scrive Agamben:
«senza il richiamo della Voce, anche la decisione autentica (che è essenzialmente un ‘lasciarsi chiamare’, sich vorrufen lassen), sarebbe impossibile, come impossibile sarebbe anche da parte del Dasein l’assunzione della sua possibilità più propria e insuperabile: la morte»
(op. cit. p.: 75)

https://www.academia.edu/3163642/Jacopo_DAlonzo_Linguaggio_e_passioni_nella_filosofia_di_Giorgio_Agamben?email_work_card=title
2 Ibidem

Giorgio Linguaglossa

Le fanfare dei carabinieri a cavallo nuotano nel collirio
della materia oscura
Il pianoforte a coda litiga con i bersaglieri
a Porta Pia
Il cappello con le piume prenota una scatola di Pentotal
Le parole sono uscite a prendere il caffè
Dopo pranzo
Un manichino con la valigetta 24 ore
ha preso il treno per Parigi
Una ferrovia sospesa collega l’EUR alla Magliana
Una funivia con i vagoni pentastellati
attraversa l’Urbe in tutte le direzioni
Carlo Calenda candidato sindaco di Roma
Dixit
Il premier Giuseppe Conte deglutisce
il «Vaffa» di Grillo
La signorina Buonasera dice: «Buongiorno»
«Dopo il peggio viene il meglio», dice Flaiano
«Se non ci fosse la domenica dopo il sabato verrebbe il lunedì»,
dice Enzo Tortora al pappagallo Totò
«Il mio ideale di bellezza è lo scimpanzè Bonobo»
precisò la tgirl Aurelio Bang
Vota Antonio Vota Antonio Vota Antonio…
«Sarebbe preferibile»,
disse il maresciallo Oudinot

Lucio Mayoor Tosi

Instant poetry

Instant poetry Lucio Mayoor Tosi

http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-da-horcrux-5/?fbclid=IwAR1T3hxAq-_lpl8P26LhINX9Jn1Mg_91_fNsPMtT2F7EVWDGU76JmtLR40k

Mario M. Gabriele
inedito da HORCRUX

Buon Giorno Signor Klister.
Ha risolto il problema?
con tutto il materiale indiziario
in suo possesso,
dovrebbe giungere a conclusione
il contezioso con le parti offese.

La doglianza è fondata
ed ha tutti i contraddittori
perché i ricorrenti Marx,
Heidegger,
Derrida,
Nietzsche,
e gli iscritti al Circolo di Vienna,
possano procedere alla loro richiesta
di diritti offesi.

Non si può stare sempre al buio!
C’è da capire qualcosa, disse Klister a Corbin.

Domanda impertinente.
Che fa uscire i topi dalla fogna.

Non ho niente da dire,
se non quello che dissi
ai Priori del Convento
quando rimasi solo nella stanza
a cercare le ampolle,
le brocche,
i vasi di veleni per la morte.

Il Nulla non ha voce.
Non si chiude agli spazi,
né al tempo.

Ha un assorbimento universale
senza alcun punto di interruzione.

Ci pensi bene!
Scusi, ma non afferro il concetto.
Se sta qui, disse Klister
lo deve al Nulla.

Gianmarco Vermigliani,
filosofo della Università di Boston,
scrisse che il cervello è una specie di caffè
in ebollizione, con due tazzine
di cui una piena e l’altra vuota.

Credo che un contradditorio
debba essere fatto
sentenziò Corvin.

Ho capito. Lei ha sempre un po’
di Essential CBD Extract che la salva
da ogni entertainment,
concluse Klister.

Su instagram
appaiono tante escursioni mentali
da individuare un certo
-esternalismo attivo-.

Oh bambù, bum bum!
I semi che piantasti
si sono rinvigoriti?
Hanno prodotto bouquet
per la Regina Margarethe?

I quadri di Julie Mehretu
hanno proposto figurazioni esterne
al Whitney Museum
in quattro parti di acrilici su tela
già esposti nella prima edizione
di Art Basel Cities a Buenos Aires.

Mi scorre il sangue sapendo
che la cucitrice di nuvole e lampi,
una certa Signora Bresson,
possa un giorno
raggiungere il piano superiore
restando in quarantena.

Ciao, Miss Shelin,
a quest’ora dovresti essere
in terapia ormonale
per evitare i sintomi vasomotori
che mettono in azione
il tromboembolismo venoso
se non ricorri subito al gabapentin.

Sia nel primo che nel secondo caso
il risultato è sempre lo stesso,

Come al solito, disse Klister,
non capisco,
e resto con il Direttore del Dipartimento
Federale, se mai abbia letto notizie
da Il Guardian su Because of Who I Am?

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020) e Remainders (2021). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
 .

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Giorgio De Chirico guida il taxi, Instant poetry di Gino Rago, La de-politicizzazione e la de-qualificazione della forma-poesia in Italia, di Giorgio Linguaglossa, Commenti e poesie di Mimmo Pugliese, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno,

Poetry kitchen di

Mario M. Gabriele

Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.

Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.

Si può affermare che la Instant poetry è un atto linguistico performativo e rappresenta nella lingua una sua antichissima potenzialità, dormiente nell’uso che si fa oggi delle lingue, che viene rimessa in potenza, in atto.
Scrive Agamben:
«Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che inesso si realizza» (G. Agamben p. 62). Con il passaggio al monoteismo il nomedi Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina».1 Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; (cfr. AUSTIN 1962); «io giuro» è il modello di un tale atto. Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».2

Per poter agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un atto-fatto.
La instant poetry è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo, per consuetudine, passato.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008, pp. 71-72
2 Ibidem p. 74-75.

 

“Lucio Mayoor Tosi entra nel “Notturno” di Madame Colasson,
invita l’uccello Petty al Caffè de Paris”
Mi piace: non perché ci sono anch’io, ma perché di fatto è un bell’esempio di “eccetera”, scritto in fuori senso.
È proprio scrittura giapponese!
Forse nuova epifania, fatta di suoni, accompagnati da immagini.
(Lucio Mayoor Tosi)

.

Giorgio Linguaglossa

La de-politicizzazione e la de-qualificazione della forma-poesia in Italia

caro Mario,

la poesia di super nicchia che è stata fatta in Italia e in Occidente da alcuni decenni, si è rivelata altrettanto invasiva nell’epoca Covid che ha registrato un altissimo tasso di pseudo poesia considerata come demanio privato delle strutture psicologiche dell’io, con le conseguenti malattie esantematiche e psicosomatiche e compiacente fibrillazione della malaise dell’io.
Il mio giudizio su questa pseudo poesia non può che essere severamente negativo. Si tratta nel migliore dei casi di episodi, di sintomi psicanalitici che registrano un malanno psicologico e di sfruttarlo come pseudo tematica del disagio esistenziale. Si tratta di una miserabile e regressiva strategia di sopravvivenza alla crisi politica delle democrazie de-politicizzate dell’Occidente con un superpiù di auto lacerazione e di auto flagellazione dei lacerti di un io posticcio e positivizzato.
Riassumo qui i punti principali della malattia pandemica che ha attinto la poesia contemporanea:

– Si fa consapevolmente una poesia da supernicchia;
– La pseudo poesia positivizzata ed edulcorata che si fa oggi in Italia la si fa avendo già in mente un certo indirizzo dei destinatari e un calcolo di leggibilità e di comunicabilità privatistica;
– Si circoscrive il microlinguaggio poetico a misura delle dimensioni lillipuziane dell’io;
– Si rinuncia del tutto alla questione del ruolo della poesia e della letteratura nel mondo storico di oggi;
– Ritorna in vigore una certa mitologia del «poeta» visto come depositario di saggezza, seriosità, tristezza, pensosità ombelicale;
– Ritorna in auge il mito di una «poesia» vista come luogo neutro della ambiguità e della astoricità in una posizione di involucro dell’anima ferita e malata ( ingenuo alibi ideologico e smaccata mistificazione culturale);
– Nessuna capacità e volontà di rinnovamento del linguaggio poetico visto come un che di separato dai linguaggi della comunicazione delle emittenti linguistiche;
– Moltiplicazione delle tematiche private, privatistiche e quotidiane opportunamente devalutate in chiave privatistica e de-politicizzata;
– Moltiplicazione di forme narrativizzate ad imitazione della prosa;
– Moltiplicazione del taglio narrativo, diaristico, quotidiano e prosastico;
– Moltiplicazione di un super linguaggio de-politicizzato e lucidato;
– Adozione delle pratiche onanistiche, auto assolutorie e regressive confezionate in forma poetica.

 
Mario M. Gabriele

Condivido pienamente questo esame critico sulla poesia di oggi, sempre più asfittica, da reflusso gastro esofageo. Se solo una parte dei poeti, che utilizzano questi collanti abrasivi, sempre più plasticizzati e degradabili, riuscisse a proporre una più significativa difesa della parola poetica, si avrebbe un parlare chiaro e sincero. Restiamo, purtroppo, in un esercizio estetico che non guarda alla riprogettazione della poesia necessaria alla sua sopravvivenza, ma in un cantiere dove i materiali utilizzati franano ad una prima lettura perché onnicomprensivi di tutte le turbe elencate da Giorgio Linguaglossa.

Mauro Pierno

Finita l’epoca dei poppatoi,
la devastazione connetteva girandole e chiodi

d’acciaio, beninteso le sorprese nelle molotov
perfino dai dirimpettai non erano comprese.

Di certo dapprima di stimare le stive con impegno
si erano svuotati i guardaroba e gli armadietti.

La scuola anche quella era finita da un pezzo.
L’orgoglio in polvere venduto da Amazon

e la corrente sfusa, divertente, la si apprezzava
spargendo forte il tasto On.

Elettrico sei, quanto ti diverti o stai seduto, elettrico sei quando dormi, quando mangi, quando sorridi.

La funzione è compatibile con la sostituzione, il terzo verso puoi spostarlo a piacimento

anche abbattere le barriere, spostare muri, salutare, fare ciao ciao, con la manina. Ricostruire.

Mario M. Gabriele

Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.

Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.

Poetry kitchen

di Mario M. Gabriele, da Horxcrux

Al bar scegliemmo il tavolo esagonale:
tre posti per la famiglia Valpellina
e tre ai figli del filosofo Casella.

Sui muri c’erano versi di Murilo Mendes
e un repertorio fotografico della città.

Accettati i confini di un’isola poetica,
il linguaggio si fece astruso
con tutte le biodiversità estetiche.

Un gatto scambiò le gambe di Meddy per una lettiera.
Ci fu un dialogo sui social networks
sommando alla fine follower e like.

In attesa che lo chef preparasse hamburger e whisky Gin,
un venditore di flaconi e stick,
ci propose Instant Reset di Fenty Skin,
il Sauvage di Dior
e il Rouge H di Hérmes.

Riprendemmo il discorso, serafico e quantistico,
citando il lume di Diogene.

-Habemus vitam- disse uno dei figli di Casella,
ricercatore all’Artemisia.

-Allucinanti- esclamò la signora Valpellina
-sono le centurie e le abrasioni-.

C’era una richiesta di pertinenza
affidata a Giusy De Luca,
esperta di advocacy e digital strategy.

Solinas riferì i dati in laboratorio
su Emoglobina e Linfociti del piccolo Larry.

Il Memorial finì quando un cigno nero
entrò nella stanza con le finestre aperte
e i lumi spenti.

Chiamati a rapporto Kant e San Tommaso
ordinammo cioccolatini Pomellato.

Essendo dei flâneurs preferimmo l’albergo All Right
dove Jean Russell esibiva un altro Premio Pritzker
mentre il gourmet passava da un tavolo all’altro.

 

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Il gioco distrugge l’ordine sincronico e diacronico degli eventi per inventarne un altro sempre diverso, Manifesto di un unico articolo, di Giorgio Linguaglossa, Il gesto scaccia il significante, è estraneo al significante, lo ripudia, e così scaccia anche il significato, Poesie kitchen di Gino Rago e Mimmo Pugliese, Struttura cristallografica di Marie Laure Colasson, acrilico su tavola, 2020

Marie Laure Colasson Abstract_13[«struttura cristallografica» di Marie Laure Colasson, acrilico su tavola 2020 30×30 cm.]
Come sappiamo, la forma poliedrica dei cristallo è conseguenza della sua velocità d’accrescimento che si manifesta come proprietà anisotropa discontinua, cioè con valori diversi nelle varie direzioni di accrescimento. La «struttura cristallografica» è una struttura a risparmio energetico massimo. Così anche nelle figurazioni di Marie Laure Colasson essa può prosperare soltanto in sistemi molto prossimi allo stato di equilibrio energetico.
In questa «struttura cristallografica» del 2012 si rinviene una ricerca volta a individuare una «struttura permanente», una struttura che precede l’ingresso in essa del Fattore X, l’Indice del mutamento. La successiva ricerca sulle «strutture dissipative» di fine ventennio rivolgerà l’attenzione su quelle soluzioni figurali che si oppongono alla dissipazione e all’entropia mediante una sorprendente ricomposizione delle forze termodinamiche interne alle stesse. È evidente che la ricerca di un momento di equilibrio tra le icone e le forme geometriche della «struttura permanente» risponda alla esigenza ipotetica di individuare una struttura libidica fissa, stabile, come istanza di non corresponsione con la volubile e mutagena economia del desiderio. Il crollo della «struttura permanente» o «struttura cristallografica» che si verifica nella ricerca figurale colassoniana degli anni 2012-2015 sta a significare che non v’è né vi può essere una struttura stabile in qualsiasi sistema figurale complesso in quanto, come sappiamo, la instabilità è la legge fondamentale che governa i sistemi complessi. C’è, è avvertibile in questo lavoro, un mana, un colore di fondo dato dalla nostalgia per il sistema dei sistemi, per la stabilità della «struttura cristallografica» che la ricerca ulteriore in direzione della «struttura dissipativa» si incaricherà di smentire.
Per «struttura dissipativa» si intende nel mondo fisico un sistema termodinamicamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia.
Nel corso degli anni dieci, la «struttura dissipativa» prenderà il sopravvento sulla «struttura cristallografica», e l’indagine della pittrice si concentrerà sulla fluidificazione delle forze dissipative che avvengono all’interno di ogni «struttura dissipativa».
(Giorgio Linguaglossa)

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Manifesto di un unico articolo 

Qui, in questi twitter poetry, ovvero, nella poetry kitchen o poesia buffet, siamo nel pieno della poesia gestuale, o meglio, del gesto in poesia. Il gesto scaccia il significante, è estraneo al significante, lo ripudia, e così scaccia anche il significato. Quando c’è il gesto linguistico non c’è il significante, potremmo chiosare. E non c’è neanche il significato.
Forse questo elemento non è ben chiaro a tutti coloro che ci seguono, qui stiamo facendo un qualcosa che non è mai stato esperito nella poesia italiana. In tal modo la poesia ritorna ad essere libera, torna ad essere il prodotto di una azione. Il gesto è nient’altro che una azione, una azione interrotta, che si interrompe, che si ferma, che forse torna indietro, accenna ad una esitazione, ad una esclamazione, ad una interrogazione magari senza raggiungerla o sfiorarla. Il gesto crea una zona di indeterminazione e di indiscernibilità, non si sa più chi l’ha compiuto e dove è diretto, dis-loca il linguaggio, lo disarticola, divide il soggetto dal predicato e il predicato dall’oggetto del contendere, non ha più a che fare con un contendere; rifiuta, rifugge il contendere e il contenzioso; il gesto si ferma un attimo prima che raggiunga la compiutezza dell’atto; il gesto non è un atto, non è un atto mancato che non giunge a destinazione; il gesto linguistico introduce delle parentesi, una sospensione; il gesto non ha referenze, non è compiuto per fiducia e nemmeno per sfiducia, non preannuncia un patto e non proviene da un patto, sfugge al valore di scambio (non può essere scambiato con un altro gesto), e si sottrae al valore d’uso (un gesto non può essere usato né pro né contro alcuno o alcunché). Ovviamente, il gesto non è sprovvisto affatto di pensiero, anzi, il pensiero nel gesto è libero, libero di non essere stato ancora pensato; il pensiero è nel gesto, soltanto nel gesto ma in nuce, quasi un pensiero infantile che non è diventato adulto; quando invece viene intrappolato in un significante e in un significato il pensiero perisce in quanto inscatolato, bollinato, brevettato. Il gesto linguistico non vuole diventare una azione, semplicemente si sottrae un attimo prima che divenga azione. Ecco perché il gesto linguistico è rivoluzionario, perché mostra il lato marionettistico dell’uso che noi facciamo del linguaggio costretto e soggiogato nel discorso da risultato, coscritto e ammanettato nell’oggetto. Il gesto linguistico è la spia dell’inconscio, mostra una zona di libertà, è infantile in quanto si accontenta di una libertà che non diventerà mai adulta. Il gesto rende il soggetto una marionetta, lo mostra per quello che realmente è, senza sotterfugi e senza ipocrisie.

(Giorgio Linguaglossa)

Giorgio Linguaglossa

Il gioco distrugge l’ordine sincronico e diacronico degli eventi per inventarne un altro sempre diverso

La poesia kitchen fa gioco, è gioco che gioca con il gioco, in tal modo mostra evidente che l’essenza del gioco è la chiave segreta che apre le contraddizioni del reale; il gioco svela l’arcano portandolo alla luce, rendendo evidente ciò che la ratio del mondo amministrato vorrebbe celare: l’apertura di nuove temporalità e di un diverso ordine degli eventi. Non siamo noi che giochiamo con le parole, occorre ribaltare l’approccio a questa questione: sono le parole che giocano con noi, il soggetto è soltanto un ricettacolo delle parole, un loro epifenomeno. Il soggetto è quindi un fenomeno, un riflesso delle parole. Si tratta di un sovvertimento totale della concezione che ha abitato il novecento. Dove sono le parole non ci siamo noi. Il gioco distrugge l’ordine sincronico e diacronico degli eventi per inventarne un altro sempre diverso, il gioco scopre che contiguo al reale c’è un altro reale, e così via.
Fare collezione e collazione della rovina delle parole, delle parole deiettate nel ciclo della produzione e del consumo e di quelle sopravvissute in quanto residui, resti, scarti questo è un compito onorevole per la poiesis critica: reimpiegare le parole reimpiegandole in un ordine diacronico e sincronico che non è predisposto per la produzione e il consumo.1

Scrive Natalia Accetta:

«Che cosa significa giocare? Per Agamben, significa “fare storia”. Chi gioca è come un collezionista che “astrae l’oggetto dalla sua distanza diacronica o dalla sua vicinanza sincronica e lo capta nella remota possibilità della storia” (104). Da ciò segue che una delle figure in cui la relazione fra storia e gioco vien pensata sia quella del collezionista: “Ciò con cui i bambini giocano è la storia” – sostiene Agamben – “il gioco è quella relazione con gli oggetti e i comportamenti umani che capta in loro il puro carattere storico-temporale” (104-05). La connessione fra gioco e mito permette di mettere in rilievo il fatto che, mentre il rito trasforma gli avvenimenti in struttura – e, quindi, risolve la contraddizione fra il passato mitico ed il presente annullando lo iato che li separa e situando nuovamente gli avvenimenti nella struttura sincronica – il gioco distrugge la relazione passato/presente disarticolando la struttura in avvenimenti: “Se dunque il mito è una macchina per trasformare la diacronia in sincronia, il gioco è al contrario una macchina che trasforma la sincronia in diacronia” (107). Fra sincronia e dia-cronia il gioco rilocalizza strutture ed avvenimenti in un tempo-adesso che problematizza il legame col passato ed ha la capacità di produrre “distanze differenziali fra diacronia e sincronia” (108)».

1 Le citazioni sono tratte da Giorgio Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, 2001.
da https://www.academia.edu/41661577/Dalla_segnatura_allavanguardia_Agamben_e_Benjamin_fra_rovina_e_colle_zione?email_work_card=reading-history

Gino Rago
Madame Colasson va dal maestro di sartoria Emilio Schubert

Seconda versione
*
Sulla porta del monolocale in via Archimede 11, in Roma
Calimero, il piccione tutto nero,
trova un messaggio su cartoncino in carta Fabriano.
C’è scritto:
«Colombella ti tradisce, è partita per Londra
con uno degli attori del film “Gomorra”.
Prima è stata nell’atelier delle sorelle Fontana,
poi si è imbarcata sull’aereo a Ciampino,
modello da sera in velluto nero
con grande drappeggio posteriore
in raso bianco».

Il dottor Giorgio Linguaglossa,
direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani n.18
riferisce in un messaggio riservatissimo
al piccione tutto nero che al momento di salutare le amiche
Colombella ha detto:
«Ho gettato un soldo nella Fontana di Trevi
e molti, molti di più al Casinò Royal…».

Madame Colasson va con Soraya
dal maestro di sartoria Emilio Schubert di via Frattina n. 36.
Sta provando un tailleur di flanella rosso-cardinale
da autunno e principio inverno.

«Madame, il tailleur le lascia le spalle nude
è per riunioni al chiuso,
altrimenti all’aperto le consiglio questo décolleté,
modello classico a coda di rondine dietro,
con tacchi vertiginosi, borsa di coccodrillo e un topazio gigante
all’anulare sinistro»,
le dice il maestro Schubert.

Soraya è indignata, va in via dell’Oca n.27,
Elsa Morante sta finendo il romanzo “Menzogna e sortilegio”.
Quattro gatti, tre siamesi e un persiano,
prendono il sole.
Fa ingresso nella camera Madame Colasson con il famoso tailleur,
dà uno schiaffo ad Ennio Flaiano che la stava importunando
e un bacio allo scrittore Pasquale Festa Campanile.
«Ho i piedi saldamente poggiati sulle nuvole!», dice,
mentre i bersaglieri entrano a Roma da Porta Pia.
Roma, 20 settembre 1870.

Mimmo Pugliese

IMBIANCAVI LA PARETE

Imbiancavi la parete di esami universitari
c’era spazio solo per il guinzaglio del baco da seta.
Gli equinozi sfidavano i guanti.

Nel condominio con le orecchie a stella
qualcuno si è portato via i ponti,
le carrucole somigliano alle balene.

La mascella confinava con la sabbia bagnata,
passavano treni di sfingi, cambiavano il profilo
dell’igloo.

Erano quei giorni che trovi al discount :
ragli di vetri rotti, ippopotami inclinati.

Gli sbandieratori hanno svelato enigmi.
Centomila fiati hanno taciuto..

Tossisce echi di Ufo il ricordo di una vecchia poltrona.
Il giornale radio del prossimo matrimonio.

I chiodi delle Termopili sono stati ritrovati in un bistrot
da contrabbandieri di Samarcanda al soldo dello Scià

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Testo compostato in stile kitchen di Mauro Pierno, Pseudo quasi limerick di Guido Galdini, Natale, di Lucio Mayoor Tosi, Foto di Kim Jong un. Direi una foto-pop in stile kitchen di regime e figurazione digitale di Salvini che riceve in faccia uno scapaccione da Papa Francesco

Dittatore

[Foto di Kim Jong un. Direi una foto-pop. La foto pop di una pornostar internazionale]

.Salvini e Papa Bergoglio

[opera digitale kitchen-pop  dell’aspirante dittatorello dello stivale]

.

La tranquilla banalità del porno è ben visibile in questa fotografia del dittatore nordcoreano, addirittura ingenua, direi igienizzata, edulcorata, gentile, scattata e studiata con meticolosa precisione dello staff pubblicitario del dittatore per dare ai sudditi coreani una immagine normale del governante impegnato a sbrogliare gli affari di stato, con il gatto nero che osserva qualcosa fuori quadro, la carta geografica con isole e oceano azzurro, la grande tavola con scritture e cifre in geroglifici coreani, i telefoni bianchi in fila, il retro di un porta fotografie, un innocuo monitor, un tavolo in cristallo, carte e scartoffie, una biro e, infine, il faccione del dittatore un po’ obeso chino nell’atto della scrittura con la pappagorgia pendula e il taglio dei capelli come va di moda oggi in tutto il mondo presso i giovani del mondo post-comunista… Non c’è da fare nessun commento a questa fotografia, è essa che commenta se stessa, il commentatore non è più necessario perché non c’è niente da commentare, l’evidenza è auto evidente, si mostra perché è. Al pari del nostro aspirante dittatorello di provincia che chiede «pieni poteri» a torso nudo da una spiaggia del Papeete beach, nella rappresentazione digitale la Figura è rappresentata ricevere uno scapaccione dal Papa Francesco. Come dire, l’istante esce dalla storia per abitare la storialità. Il tempo diventa istante e l’istante diventa eternità, l’eternità del banale normale. È la nostra metafisica, la metafisica dell’età del sovranismo di cartongesso. Il significato si è distaccato totalmente dal significante, penso che dovremmo prenderne atto.
Giorgio Agamben scrive che «La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce». Quella metafisica del significante è diventata ormai un relitto, dobbiamo trovare il coraggio di camminare in un mondo privo di metafisica senza appoggiarci sulla mistica del significante e del significato, ignorando che tra di essi si è interposta una frattura irresolvibile. Una poiesis che non trae le conseguenze di questo assunto è una poiesis acritica. La foto di regime, il selfie di regime di Kim Jong un, seduto, bonario e tranquillizzante alla sua scrivania con il gatto miagolante non è molto diversa dal nuovo look di Salvini in giacca e cravatta e occhiali severi sulla faccia per dare un significato rassicurante rispetto alle immagini di qualche mese fa che lo ritraevano in canottiera o torso ignudo sulla spiaggia del Papeete a dichiarare caduto il governo del Conte1 e in quelle di Rimini e della Versilia a fare il disc-jay.
La nostra è l’epoca del totalitarismo e del populismo, della crisi delle democrazie liberali. È la nostra crisi, quella crisi che si vede, in contro luce e in filigrana, nella pornografia bianca delle pseudo poesie di oggi che ci parlano della pericardite, del pericardio e della peritonite, nei romanzi omiletici che ci narrano le convulsioni dei sentimenti. La foto di regime di Kim Jong Un alla scrivania non è diversa dalle foto di Salvini a torso nudo al Papeete, quelle foto creano uno sgradevole effetto di intimità e di familiarità, il medesimo effetto di estraneazione che ci crea la poesia da camera in vigore nelle democrazie liberali. C’è un legame ben visibile tra la foto del regime nordcoreano e la poesia del pericardio educato, la poesia della pornografia gentile dei giorni nostri a democrazia liberale.

.

Testo compostato in stile kitchen di Mauro Pierno

Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.(V. Petronelli)
È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat (G. Linguaglossa)
sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi(M.M. Gabriele)
non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza, (G.Gallo)
Un uomo si è perso nel parco/ha un cappello a tese larghe
porta becchime per gli uccelli/il sole non si vede (M. Pugliese)
È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio. (G. Linguaglossa)
Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita. (M.L. Colasson)
In passato eravamo poety oggi siamo kitchen!
E la pubblicità butta la pasta. (M. Pierno)
A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
all’Arco della Pace n. 5/il pomodoro rosso con il ciuffo verde/
beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
“Quante parole dobbiamo usare/per avvertire il silenzio tra le parole?” (G. Rago)
e guarda da là in alto le onde del mare
che gran fatica devono fare per arrivare
mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare (G.Galdini)
L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante, (G. Linguaglossa)
Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante… (L.M. Tosi)
quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità (V. Petronelli)
Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni (A. Sagredo)
Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine. (F.P. Intini)

Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.
È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat
sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi
non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza
Un uomo si è perso nel parco/ha un cappello a tese larghe
porta becchime per gli uccelli/il sole non si vede
È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio.
Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita.
In passato eravamo poety oggi siamo kitchen!
E la pubblicità butta la pasta.
A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
all’Arco della Pace n. 5/il pomodoro rosso con il ciuffo verde/
beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
“Quante parole dobbiamo usare/per avvertire il silenzio tra le parole?”
e guarda da là in alto le onde del mare
che gran fatica devono fare per arrivare
mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare
L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante,
Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante…
quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità
Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni
Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Poesia kitchen di Mimmo Pugliese e Francesco Paolo Intini, Una parola poetica adenotativa, uno speech act gratuito e invalido, un’esperienza della parola che apra lo spazio della gratuità, della invalidità e del dono

A proposito del nome di Dio (atto performativo o speech act)

Carlo Salzani 
https://www.academia.edu/14325340/Il_linguaggio_%C3%A8_il_sovrano_Agamben_e_la_politica_del_linguaggio

In un saggio pubblicato nel 2005, «Parodia», Agamben definisce l’ontologia come «la relazione – più o meno felice – fra linguaggio e mondo» .

«Ogni nominazione, ogni atto di parola è… un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza» (AGAMBEN 2008b: 63).

Con il passaggio al monoteismo il nome di Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides – giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina» (AGAMBEN pp. 71-72).

Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; cfr. AUSTIN 1962), e «io giuro» è il paradigma perfetto di un tale atto. Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che i performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere». (pp. 74-75)

La struttura denotativa e quella performativa del linguaggio, conclude Agamben, non sono caratteri originari ed eterni della lingua umana, ma appartengono pienamente alla storia della metafisica occidentale, che egli fonda appunto nell’esperienza di parola che individua nel giuramento. Con la «morte di Dio» (o del suo nome), questa storia sta giungendo a compimento, come mostra anche la contemporanea decadenza del giuramento nelle nostre società (nota che apre e chiude il libro). Una vita sempre più ridotta alla sua realtà puramente biologica e una parola sempre più vuota e vana segnano il momento critico in cui la metafisica, e con essa la sua politica e il suo linguaggio, dovranno arrivare a una svolta e a una trasformazione.

Cfr. Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza (2008)

Mimmo Pugliese

SUL PARAPETTO

Sul parapetto del ponte c’è la sera
ha indosso un abito di gramigna
aspetta la pioggia o forse un amante
che la porti a cena con i droni.

Un aereo è pronto al decollo
le sue ali sono coltelli aratri
quando tremano le fondamenta
e i polsi si consegnano alla sorte.

Bulbi e licheni non hanno sangue
invadono la strada oltre il cancello
uccidendo consapevolmente
quello che da bambini pareva uno zoo.

Tutte le sedie sono al loro posto
il parcheggio è pieno di giorni
nuvole senza cielo mordono
gomitoli di canapa diventati roveti.

Pochi sguardi sghembi bastano
per vedere insieme pipe e piume
consumare le creste delle montagne
intrise di nervi e vasi sanguigni.

DAVANTI CASA

Davanti casa c’era un albero
rigido padre di fiori mai nati
il citofono sembrava muoversi
da parte a parte lo tagliava una formica.

Molte auto corrono veloci
non spaventano più la volpe rossa
da quando convive con gatti e rane
nel quadro appeso in veranda.

Uno sciocco sbadiglio fa rumore
nel silenzio che era di carta
il film che ti ritorna in mente
lo volevi con un finale diverso.

Le labbra del sole schioccano baci
truccano i garofani sul balcone
si illumina il display del cellulare
non era per te la chiamata…

Hai le ciglia lunghe
un filo di polvere risalta sui lucchetti
senti respirare l’aria
addosso ai comignoli che resistono.

Potevi chiudere la porta
nascondere cuscini e lenzuola
ma tu che ne sai del vento sul mare
di quanto in alto vola il gipeto.

IN LONTANANZA

In lontananza tuona
trema un ciuffo di prezzemolo
sussulta la teiera sulla mensola
è un giorno pagano.

La boutique è chiusa
per la milionesima volta il semaforo ubbidisce
il gendarme è senza cappello
gli ottoni sono già nel prossimo secolo.

Nella casa delle stelle è festa
tornano i velieri
hanno arcobaleni sulle cime
un passero beve dal seno delle zagare..

Fiumi e mulini hanno gambe stanche
c’è neve sul pavimento
la bicicletta che hai comprato
era di un pirata.

Nel taschino hai 5 sigarette
alle dita ingiallite anelli
il deserto è una diga
zeppo di orme di granchi.

IL RUSCELLO

Il ruscello è altezzoso
sfiora nòccioli e torsi di mela
si rincorre in un arcipelago di canne
e spacca occhi di plastica.

La porta girevole dell’albergo è triste
ha alito di pietra
in memoria ha troppe cravatte troppe valigie
vorrebbe avere le ali.

Partorisce nuvole il promontorio
solo stoppie ostinate nascondono
i cunicoli scavati dalle talpe
finchè non passerà qualche ladro.

Vogliono sparare alla luna
hanno fucili di precisione
sulla collina la notte non arriva mai
un riccio attraversa la strada.

Non si sa dove finiscano le foglie
quali siano i sogni migliori
maghi e prestigiatori brindano infelici
hanno dita senza destino.

La campanula è fiorita
vicino alla panchina macchiata di ruggine
non smette di piovere
nella pozzanghera annega una pulce.

.

Mimmo Pugliese. Nato nel 1960 a San Basile (Cs) , paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato , nel maggio 2020, “Fosfeni”, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.

Francesco Paolo Intini Continua a leggere

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La gallina Nanin e l’Uccello Petty, di Gino Rago, Nanin si è invaghita di Petty, l’uccello di Madame Colasson, Nanin si abbandona al flusso di coscienza, La devalorizzazione del Reale e del Simbolico di Giorgio Linguaglossa, A proposito del nome di Dio, stralci di Giorgio Agamben e Carlo Salzani

Nanin si è invaghita di Petty, l’uccello di Madame Colasson, Nanin si abbandona al flusso di coscienza.

di Gino Rago
La gallina Nanin e l’Uccello Petty 

La gallina Nanin è ubriaca e comincia il suo flusso di coscienza.

La gallina Nanin.
«Adesso basta, non voglio più sentire
per tutto il giorno il blaterare di mio papà
che si lamenta come un bambino
a cui hanno rotto il trenino
e la trombetta della Befana
non voglio perdere la mia tranquillità!
Adesso gli fo vedere io!».

Intanto, accade un fatto strano.
Il poeta pentastellato Lucio Mayoor Tosi ha perduto la camicia a righe.
La cerca.
Si accorge che anche i colori in acrilico e i pennelli non ci sono più.
Cerca di qua, cerca di là.
La Fiat Panda del 1985 non c’è più.
Era parcheggiata davanti casa.
Anche il berretto verde con la stella dei Cinque Stelle non c’è più.
Sono scomparsi anche i pantaloni.
Gli hanno lasciato le mutande.
La cover della gallina Nanin non c’è più, è scomparsa anche lei.
Qualcuno l’ha trafugata.

Che è che non è il pittore penta stellato interpella
il critico Linguaglossa dell’Ufficio Affari Riservati.
Chiede l’intervento dei blucerchiati,
gli ispettori segreti dell’Ufficio Segretissimo.
Intervengono gli ispettori che acciuffano la gallina Nanin
che attraversa la strada di Candia Lomellina,
la ammanettano e la riportano dal suo legittimo proprietario.
Cosa fatta capo ha.

La gallina allora manda un sms alla pittrice Marie Laure Colasson,
le dice che è stata sequestrata dagli agenti di quel manigoldo di Linguaglossa,
che renderà edotto della questione il nuovo Presidente del Consiglio
Mario Draghi… E chi più ne ha più ne metta.
Comincia il flusso di coscienza.
Scrive:
«Non me ne importa nulla/ se tornando a casa/ troverò porta e finestra chiuse/ se nessuno distinguerà i rumori delle ali/ se il mio papà non saprà chi sono/ perché sempre mi diceva/ non metterti/ in cammino/ non partire se intendi tornare/ non m’importa nulla del maestro/ di Margherita/ di Molly, di Lolita/ non voglio diventare come loro/ per sempre ferme nelle stesse pagine/ negli stessi libri/ credevo di essere nelle grazie/ del presidente Mario Draghi e della sindaca pentastellata di Roma/ ma non mi hanno dato un baiocco/ hanno paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito/ da ardere/ Dio ci scampi e liberi anche di Madame Bovary/ e dei suoi mali che racconta a tutti/ Dio ci scampi e liberi / anche della Meloni, di Salvini/ di Angelo Maria Ripellino, di Franco Fortini/ di Saba, Ungaretti e Pasolini e delle loro manie/ di far sempre i soliti discorsi / di terremoti/ maremoti/ borgatari/ baraccati/ proletariati/ rivoluzioni culturali e fine del mondo…/ non voglio stare in questo secolo/ e ho le scatole piene/

anche di Anna Achmatova/ e del cucù dell’orologio/ voglio interferenze/ influenze/ ibridizzazioni/pasticci/ disturbi/ contaminazioni/ gli elegiaci/ i lirici/
è meglio che vadano all’ospedale/ dove tutto è sanificato / ma / qui lo dico/ anzi lo grido/ che mi ci vorrebbe/ forse un mese per cacciarglielo bene in testa/ma che razza di paese è questo/ sono ammalata cronica/ soggetto fragile/ e il Generale Figliuolo non manda nessuno/ né Moderna né Pfizer/ tanto lo sanno tutti che con AstraZeneca io non mi vaccino… ».

Intanto, a Piazza Navona zampetta tra i turisti l’amante segreto
della gallina, il piccione Calimero (perché è tutto nero)
che ha dei baffi da dittatore
e che frequenta i cassonetti della Capitale.
Cerca la gallina di Lucio Mayoor Tosi.

Madame Colasson tira fuori dalla borsetta Birkin un foglietto e una matita.
Scrive un messaggio al direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani, il critico Giorgio Linguaglossa:
«La gallina Nanin va ricoverata,
bisogna mandarla in un centro di disintossicazione linguistica.
Non si contano più i suoi flussi di coscienza,
delira,
non sa da che parte stare,
confonde lo spettro solare di Newton
con la teoria dei colori di Goethe…
Intervenire con la massima urgenza,
con l’atelier alla Circonvallazione Clodia,
i Notturni con le sedie pitturate,
e Strutture dissipative con la poesia milanese. .. ».

La gallina Nanin si scola una bottiglia di grappa barricata.
Interviene il commissario Montalbano.
«Signora Nanin, apra subito la porta. Deve seguirci
al commissariato della Garbatella,
non opponga resistenza, siamo agenti speciali dell’antiterrorismo.
Il direttore dell’Ufficio Affari Generali, il critico Giorgio Linguaglossa,
vuole interrogarla.
Lei è accusata di schiamazzo notturno contro l’elegia,
disturbo della quiete notturna,
improperi contro l’idillio e terrorismo parolaio
avverso agli aggettivi qualificativi del mini canone lombardo!
Si arrenda!
Getti la pistola!».

Irrompe sulla scena Sherlok Holmes.
Scende da un taxi giallo-verde guidato da un cappello senza testa.

«Signor Linguaglossa, liberi subito la gallina Nanin
e la sostituisca con l’uccello Petty di Madame Colasson
così sabotiamo il pentastellato Lucio Mayoor Tosi
e la cover dell’Antologia Poetry kitchen!».

Marie Laure Colasson scrive un altro biglietto:
«Egregio poeta Gino Rago,
il problema è che non c’è alcuna “esperienza originaria”
che possa essere resuscitata,
siamo noi che dobbiamo andare alla ricerca delle immagini
e delle parole equivalenti
lungo l’asse sinonimico e metaforico.
Non c’è un’anima che è la guardiana della originarietà,
l’anima, se c’è, è un repertorio di cose senza parole
che devono indossare un vestito di parole.
Notte stellata su di Lei,

À la prochaine fois, d’accord ?».

Giorgio Linguaglossa

Guy Debord ha coniato la definizione «società dello spettacolo» nell’omonimo libro del 1967 per indicare lo stadio ultimo e la mutazione qualitativa del capitalismo. Lo «spettacolo», per Debord, «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini»; esso descrive l’ultimo stadio dell’accumulazione capitalistica, che vive una sorta di «transustanziazione» del capitale in una forma immateriale, in una fantasmagoria spettacolare. Il capitale giunto ad un alto grado di accumulazione diventa immagine, fantasmagoria, irrealtà.

Il Grande Spettacolo della poetry kitchen  è composto dal fuoco d’artificio delle icone e degli avatar nella cornice di una spazialità plurale. Il mondo è diventato un gigantesco equivoco, un bisticcio plurale dove le parole sono diventate entità modulari e componibili, una serie infinita di icone mobili: poesia puzzle  dove il linguaggio continua a vivere in un interspazio in cui non rivela e non comunica più nulla. La spettacolarizzazione dello spettacolo in fantasmagoria e fuoco d’artificio iconico e linguistico indica senza equivoci lo sradicamento dell’uomo di oggi dalla sua dimora nella lingua, ammicca, accenna a qualcosa come una possibilità: che oltre di essa non sia possibile andare; giunto al suo stadio ultimo di insignificazione non è più possibile neanche la parodia o la auto parodia. Ciò che resta è il pastiche e il patchwork, simulazione e dissimulazione. Forse proprio questo sradicamento estremo può rendere possibile per la prima volta fare esperienza di un linguaggio che comunica se stesso, della stessa essenza linguistica dell’homo sapiens dell’epoca cibernetica, del fatto stesso che in qualche modo si continui a parlare.

Gino Rago, come nelle favole antiche, raccontandoci le vicissitudini della gallina Nanin e dell’uccello Petty, opera in una situazione ontologica tipica della modernità avanzata in cui i segni linguistici si sono moltiplicati a dismisura, senza fine e senza alcuna finalità se non l’uso improprio che ne fa la società della comunicazione infinita. Al contrario di quanto invece accade in un orizzonte linguistico primitivo – uno stadio nel quale lo scambio rituale di dono e contro-dono i segni linguistici sono contingentati entro la cornice di una diffusione limitata – dove i segni si trovano in una condizione privi di libertà di produzione e di uso. La poesia kitchen è la forma moderna dell’epica, come Omero narra le gesta di Achille, Agamennone, Ulisse, Priamo e Ettore, così Gino Rago, poeta del moderno cibernetico, ci narra le gesta della gallina Nanin e dell’uccello Petty, di personaggi realmente esistenti, i poeti kitchen, Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson e Lucio Mayoor Tosi e tanti altri tratti dalla letteratura come i commissari Ingravallo e Montalbano. 
Il poeta calabrese crea un duplice spazio: quello delle «parole liberate» (gli innumerevoli personaggi che intervengono nella sua poesia), usabili secondo il proprio desiderio e circolanti come valore di scambio; e quello in cui le parole non hanno né valore d’uso né valore di scambio (gli stessi personaggi e le relative situazioni paradossali nelle quali si trovano coinvolti sono nient’altro che delle scatole vuote, delle caselle vuote sulle quali il senso scivola, slitta via e scompare verso il fuori-senso, il fuori-significato) ma vivono in un luogo dove la disponibilità del materiale linguistico è riservata all’uso simbolico.
Il poetico simula nel linguaggio una situazione non ragguagliabile a quella delle società primitive, stabilisce una festa dello scambio e del dono come nella circolazione incessante di scambio/dono, l’unico stratagemma che consente di adire ad una ricchezza inesauribile che non ammette il residuo, dove il residuo viene sterminato. L’opulenza del linguaggio lascia il posto all’efficacia simbolica dei segni. Proprio come nelle formule pronunciate dagli sciamani che si servono di particolari e determinate parole magiche che operano direttamente sul mondo, nello scambio rituale simbolico della poesia kitchen avviene una simmetrica e risolutiva restituzione a beneficio di un senso fuori-senso non più subordinato al referente e al suo valore d’uso. Gino Rago opera una rivoluzione dove il poetico può liberamente espandersi, mette in atto una sovversione che stermina il valore d’uso e attua la reversibilità totale del senso fuori-senso. Attraverso questo percorso la commutabilità dei termini e la loro equivalenza vengono meno. Rago abbatte ogni possibilità che ci sia un residuo. La funzione della poesia, la sua utilità antropologica non sta nel senso sensato, nel sensorio, né tanto meno nel senso ammaestrato, non è più accidentale ma necessaria allo scambio perpetuo della parola con un’altra parola la quale fa sì che si avvii una rispondenza e una corrispondenza nello scambio perpetuo, una vera e propria festa della parola, una festa che ci rammenta le parole di Benjamin sulla lingua degli uccelli che si parla la domenica festiva, tra gli alberi e le nuvole, una Disneyland del libero arbitrio del fuori-senso e del fuori-significato, un palcoscenico dove si esibisce la devalorizzazione del Reale e del Simbolico. Continua a leggere

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Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa, La nuova poesia, il nuovo linguaggio critico, la poiesis, la poetry kitchen, la nuova ontologia, Logos, lo spazio poetico, Storia italiana del Covid19, I parte

Marie Laure Colasson 50x28 2021

Marie Laure Colasson, Structure, 50×28 cm, acrilico, 2021 – L’arte moderna diventa astratta quando si accorge che non si può più raffigurare l’irrappresentabile, perché la normalità è diventata finalmente rappresentabile in quanto neutra e neutrale, perché la poiesis è diventata decorativa e funzionale alla estetizzazione diffusa e fa da cornice alla immondizia e ai cassonetti dei rifiuti e che non c’è alcun experimentum da fare. Così, non è più possibile oggi fare dei ritratti che non siano kitsch o peggio, il volto umano non è più raffigurabile, così come non è più raffigurabile un paesaggio, con buona pace del zanzottismo e dei suoi fedeli seguaci. L’arte moderna diventa astratta perché ha orrore degli oggetti, che nel frattempo sono stati defenestrati dalla sanità pubblica del buon gusto. Diventa astratta perché ha in orrore la spiritualità posticcia e invereconda delle anime belle… (g.l.)

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Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

Domanda: La «nuova poesia» pone sicuramente la necessità di una «nuova lettura». Lasciamo stare per il momento se questa«nuova lettura» sia proprio quella della «nuova ontologia estetica» o sia qualcosa d’altro. Resta il fatto che la «nuova lettura» implica munirsi di una dotazione intellettuale nuova e diversa, il critico che deve fare una «nuova lettura», deve abbandonare i linguaggi ermeneutici pregressi, deve inventarne di nuovi, di desueti, non riconoscibili. Certo è che una «nuova lettura» della poesia kitchen si deve munire di strumenti «diversi», deve saper pescare nel linguaggio filosofico recente quegli spunti che ti offrano una «nuova visione» della poesia moderna. Quello che è indubbio è che gli strumenti ermeneutici tradizionali non possono aiutarci. Rinnovare il linguaggio ermeneutico (per carità, lasciamo il termine “critico”) è oggi una necessità della «nuova ontologia estetica».

Risposta: Mi dispiace, molti non capiscono il nuovo linguaggio critico, ma è perché i miei commentatori sono rimasti fedeli ad un vocabolario critico un po’ attempato, i più aggiornati, mi riferisco agli addetti ai Cultural studies, non hanno strumenti categoriali idonei a comprendere la nuova poesia, il loro è un vocabolario accademico!
Alcune persone mi hanno chiesto lumi su ciò che intendo per «linguaggio dell’esplicito e dell’implicito». Non credo di essere stato particolarmente astruso. Possiamo considerare implicito un discorso che va per linee esterne ad un oggetto, che dà per scontata la presupposizione cui una risposta sempre reca in sé, anche in modo inconscio.

Domanda: Tu hai scritto:

«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto, tra gli altri, i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, dell’attualità, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Questo tipo di scrittura che oggi va di moda è la poesia maggioritaria?

Risposta: Interrogare il logos significa che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi «impliciti», il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o non posta. Nella risposta esplicativa l’interlocutore introduce sempre uno smarcamento, una deviazione che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.

La traduzione problematologica diventa nella poesia kitchen una traslazione stilistica. I vecchi concetti di «simmetria» e di «armonia», legati ad un concetto lineare del tempo, vengono sostituiti con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella kitchen invece assistiamo ad un universo sintattico «goniometrico», plurispaziale, pluritemporale, distopico.

Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così diritte e dirette. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

Domanda: Puoi fare un esempio?

Risposta: Nella poesia kitchen è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzweg), un significato barrato, e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica, una topografia dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito.

La poesia kitchen risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare» dell’io. In questa ricerca eccentrica, spiraliforme, indiretta la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un pluri-spazio che si apre al tempo, anzi, un pluri-spazio fitto di temporalità, un tempo fatto di pluri-spazio, che apre lo spazio, lo svincola dalla sua clausura temporale. È la marca della pluri spazialità quella che appare alla lettura, un pluri-spazio inscindibilmente legato ad una molteplicità di accadimenti.

Per la poesia kitchen il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta che rimanda ad altro, che rinvia ad un altro segno, ad un significato deviato perché non vuole statuire attraverso il discorso assertorio dell’io e della comunicazione. Il discorso poetico kitchen invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia della poetry kitchen abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi appaiono e basta:

la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
(Mauro Pierno)

Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora, della metonimia, dell’immagine. La metafora e, soprattutto, la metonimia indicano così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metonimia smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia kitchen, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, ad un qualche significato o senso, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non è una glossa, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo, pur se superdissimile e superdistopico.

Domanda: A questo punto, possiamo dire che la questione della poiesis diventa una questione ontologica?

Risposta: La metafisica occidentale conosce da sempre una ontologia per la quale «l’essere è ciò che è presupposto al linguaggio (al nome che lo manifesta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice» (Agamben, Il linguaggio e la morte, p. 17). Occorre rovesciare il problema: si dà una onto-logia, «il fatto che l’essere si dica e che il dire si riferisca all’essere» (ibid.), che «l’ente in quanto ente e l’ente in quanto è detto ente sono inseparabili» (ivi, p. 18).
La questione del linguaggio è che l’essere non parla mai, l’essere è muto. È sempre il linguaggio che parla, e parla secondo la legge del linguaggio differenziale. Il linguaggio non conosce l’io, conosce soltanto il parlante, il che è molto diverso dall’«io parlo», il parlante è «colui che» parla. «Colui che» (quindi un altro) che parla in mia vece, al posto di… È il linguaggio dell’Altro che parla.
La poiesis ha sempre a che fare con il linguaggio di quel «colui che» sta parlando nell’atto in cui parla.

Marie Laure Colasson Struttura 30x30, 2020

[Marie Laure Colasson, Combustione, 30×30 cm, acrilico, 2020]

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il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.

(Tadeusz Różewicz)

Giorgio Linguaglossa

Poetry kitchen
Storia italiana del Covid19,
I parte

➡Marie Laure Colasson telefona al poeta Gino Rago.
«Non c’è più posto nelle mie “Strutture dissipative”!*»,
grida allarmata.
Tatarkiewick litiga con il filosofo Žižek, dice che “Brillo box”
è una scatola di detersivo e basta.
Marie Laure Colasson se la prende con il nano Azazello
che le vuole dare un bacio,
«Pizzichi e puzzi, fatti la barba, lavati e pussa via!».
Il nano Proculo lancia un tubetto di Astrazeneca sulla groppa di un gatto nero
nel mentre che questi galoppa nella kitchen dell’Ufficio Informazioni Riservate
di via Pietro Giordani 18,
è invaghito della gatta Johnson & Johnson.
Le dice: «Sei più bella di una Opel coupè».

➡Robert Redford e Jane Fonda.
Backstage sul set del film “The Chase” (1966).
Lui indossa una tuta da operaio, un bicchiere di plastica.
Lei sorride, sta fumando.
Ha un impermeabile grigio, ma forse no, è la foto in bianco e nero.
Che confonde.
Sembrano gentili e sorridenti.

Un selfie della putiniana deputatessa Olga Kamjenska in monokini sulla spiaggia
finisce su facebook.
Un ammiratore le scrive: «Das Nichts nichtet».

➡Piazza del Plebiscito. Milano. Giugno 2020.
La deputatessa Santanchè di “Fratelli d’Italia”, agita la borsetta Birkin n. 21.
Urla: «Il popolo ha fame!».
Strilla contro i Dpcm del governo Conte.
Scarpe con tacco a spillo metallizzato da 350 euro.
Leggings da 750 euro con lista laterale argentata.
Permanente con meches, 250 euro.
Gilet, 350 euro.
Giacca, 3000 euro.
Occhiali Ray ban da sole ottagonali, 500 euro.
T-shirt à fleur. 700 euro.
Mascherina Trussardi, 180 euro.

➡Giugno 2020, dopo la prima ondata Covid.
Una tavola rotonda di aspiranti poeti su Zoom.
La showgirl Wanda Osiris svestita da cow boy brucia il perizoma in pubblico.
Passeggia sulla passerella per il quarto d’ora di celebrità.

L’agente 007 bacia Ursula Andress sul set del film “Licenza di uccidere” (1962).
Ha inizio la saga cinematografica di James Bond,
agente segreto di Sua Maestà britannica.
Renzi attua la tattica della «opposizione al pop-corn»
contro il governo Lega-5Stelle.

L’Ombra delle Parole lancia la poetica della poetry kitchen,
poesia pop-corn, o poesia buffet.

Gino Rago invia “Storia di una pallottola n. 14” al poeta Giorgio Linguaglossa
all’Ufficio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani
con un biglietto:
«caro Linguaglossa, Lei è in pericolo».

Marie Laure Colasson è in atelier, lavora ad un’ultima “Struttura dissipativa”.*
Ci stanno dentro Marlon Brando e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Telefona a Catherine Deneuve nel film “Belle de jour”,
le dice di cambiare il rossetto, di mettere quello rosso de l’Oreal n. 37.

La crossdresser Korra del Rio si fa fotografare nuda
avvolta in una tela di ragno
per la pubblicità di una marca di profilattici.

«Seguite la video-chat erotica di Lilla13», dice una inserzione promozionale
con tanto di pose osé della mitica star.
La poesia è «una questità di stati di cose», afferma il noto critico letterario
Giorgio Linguaglossa.

➡Il filosofo Stavrakakis fa una video-chiamata ad Ewa Kant.
Dice: «Pornostar di tutto il mondo, unitevi!».
La crossdresser esce dall’armadio
svestita di tutto punto:
calzamaglia a rete, tacchi a spillo 16, perizoma.
Sta bevendo un caffè bollente.
Dice che presto salirà sul lampadario
e da lì verserà litri di “Aromatique Elixir de Clinique”
sulla testa dei piccolo borghesi
con il naso all’in sù.
Dice che vuole entrare in una “Struttura dissipativa” della Colasson
e invece si deve accontentare di un “Covid garden” di Lucio Mayoor Tosi.
La deputatessa Olga Kamjenska, “Forza Italia”,
chapeau a larghe tese Dolce & Gabbana, euro 370,
la invita ad una partouze con il Cavaliere
e l’ultrareazionario Pillon con la farfallina gialla sotto il collo.
Salvini mangia in diretta TV un cesto di ciliegie
e bacia il rosario della santissima Madonna immacolata. Continua a leggere

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Giorgio Agamben, Ciò che resta, Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? Poesia di Francesco Paolo Intini, Stanza n. 23, di Giorgio Linguaglossa, Sulla Poetry kitchen di Vincenzo Petronelli

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer

«La nuova poesia ontologica?,/ l’abat jour sul comò, i fogli tenuti insieme dalle mollette da bucato,/ il pappagallo Totò,/ suvvia Cogito, siamo seri…»

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Giorgio Agamben

Ciò che resta

Nicola Chiaromonte ha scritto una volta che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non è che cosa abbiamo avuto o non avuto, ma che cosa resta di essa. Che cosa resta di una vita – ma anche e ancor prima: che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? All’intervistatore che le chiedeva «che cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?», Hannah Arendt rispose «resta la lingua». Ma che cos’è una lingua come resto, una lingua che sopravvive al mondo di cui era espressione? E che cosa ci resta, quando ci resta soltanto la lingua? Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? Ricordo che Ingeborg Bachmann mi disse una volta che non era capace di andare dal macellaio e chiedergli: «mi dia un chilo di fettine». Non credo che volesse dire che la lingua della poesia è una lingua più pura, che si trova al di là della lingua che usiamo dal macellaio o per gli altri usi quotidiani. Credo piuttosto che la lingua della poesia sia l’indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane, così come qualcuno ha scritto che l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto. Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. La poesia e il pensiero attraversano la lingua in direzione del nome, di quell’elemento della lingua che non discorre e non informa, che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama. Un breve testo che Italo Calvino usava dedicare agli amici come il suo «testamento spirituale» si chiude con una serie di frasi mozze e quasi ansimanti: «tema della memoria – memoria perduta – il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio.

 https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta

«Da un tombino di Bari sbuca una folla»
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SENZA ATOMI DI GUARDIA.

Una goccia nel lavandino annuncia l’Africa.
A galla finalmente.

Nessuno ha abbandonato la sua colpa.
Le orche nel contatore.

Da un tombino di Bari sbuca una folla.
Sono gialli, mani e piedi legati da uno stelo.
Il capobanda ha il berretto di podestà.

La notte è stata lunga ma prima
eravamo fermi ad un semaforo.

Il rosso ci mostrò lo scolo nell’ Egeo
Dovevamo qualcosa a una Liberty.

Una contraddizione a Lesbo.
Alcuni versi di Baudelaire.

La radice tolse il respiro dalla linfa.
Nient’altro che desiderio e ambra nelle vene.

-Se attraversi il libro dei santi togli il sagrestano dalla scala d’oro.
Salendo avrai il passo del Cro-Magnon, l’alabarda di Neil Armstrong.

Una corrida al polso gridava olè:
Lo strano caso della specie che si fece Io.

Che tecnica stravince nell’inconscio?

Nessuna meraviglia se un ragno divora
La sua antilope su un baobab.

Una lavastoviglie sbranata da leoni.

Prima di attraversare il Mara restammo un attimo
Ad osservare il Pirelli. Lava dagli altoparlanti.
La mandria di dentifrici a metà acqua.

Il pentagramma aprì le fauci.

Se escono tori dalla bocca
nell’ipotesi che una colpa trovi il cuore

C’è l’inchiostro da succhiare, l’invasione della Polonia.
Tutto in un capitolo alle cinque de la tarde.

Il piano 2021 fuori spada
Una mossa di barbiere alla tiroide.

Caro Franco, mi complimento sinceramente per la tua poesia che trovo – come tanti altri tuoi componimenti – emblematici della visione della ricerca poetica della Noe. Una poesia che scavalca le convenzioni spazio-temporali, frugando tra i reticoli, gli interstizi della storia personale e collettiva, individuando le articolazioni icastiche espressive, fonetiche che consentono di ricostruire l’ontogenesi. Continuerò a seguirti con interesse, come tutti gli amici della Noe. A presto.

(Vincenzo Petronelli)

Bulgakov Azazello Gif

«A cosa devo la sua visita?», chiede Cogito sopra pensiero
mentre sbuffa del fumo da un sigaro italiano

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Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 23
Preambolo del Signor K. «La «nuova poesia ontologica?,
suvvia Cogito, siamo seri…»

Il treno è in viaggio. Porta soldati con l’elmo a punta.
Verso il fronte russo.
Il Signor K. siede nel vagone ristorante,
ha con sé la valigetta diplomatica.
Cogito ha nella tasca interna della giacca
la fotografia di Enceladon.

[…]

K. misura con ampi passi lo spazio del vagone ristorante.

«L’ideale sarebbe far fuori i tipi come Lei, Cogito.
Voi siete dei rompiscatole, lo dico con tutto il rispetto
per il vostro ruolo, ma lo dico.
La bellezza di Enceladon?, suvvia, Cogito, non sia ridicolo.
Che vuole, sarebbe semplice per me
Far premere il grilletto da uno dei miei sodali,
ma, sarebbe, appunto, eccessivamente ludico,
Ed io detesto le soluzioni finali, preferisco, invece,
complicare ciò che è rettilineo.
Flirtare con Lei, Herr Cogito, tutto sommato, mi eccita,
è come giocare al gatto e al topo.
Del resto, in fin dei conti, l’arte è un’attività onanistica,
ha qualcosa dello specchio da toeletta, ma rammenta
lo specchio ustorio…
Qualcosa di… dis…di…cevole…».

[…]

«A cosa devo la sua visita?», chiede Cogito sopra pensiero
mentre sbuffa del fumo da un sigaro italiano.

«Kyrie Eleison, Signor Cogito,
Ella è un irriducibile imbrattacarte.
Pensi che adesso, a Londra, sotto il Blackfriar Bridge,
pende il corpo di un impiccato.
Chi l’ha impiccato? Oh, bella questa! Suvvia, Cogito
non sia maleducato…».

[…]

«Ecco, diciamo – riprese K. –
che interverrò, di persona, sì, in prima persona,
di quando in quando, a secondo dei miei umori atrabiliari
negli eventi del mondo.
Lei, Mario Gabriele, Marie Laure Colasson e gli altri sodali?
Sì, penso che potremmo prendere un caffè insieme.
“Locanda dell’Ombra”, lì, nel sotoportego. Ponte dei Sospiri.
La nuova poesia ontologica?,
l’abat jour sul comò, i fogli tenuti insieme dalle mollette da bucato,
il pappagallo Totò,
suvvia Cogito, siamo seri…
mi congedo… mi prendo la libertà di comparire
e scomparire.
Di quando in quando…».

Room n. 23
Mister K. The «new ontologic poetry»?
Come on Cogito, let’s be serious…

The train is travelling. Takes soldiers with pointed helmets.
Toward the Russian front.
Mr K. is seated in the restaurant wagon,
carrying by his side the diplomatic valise.
In the inside pocket of his jacket Cogito has
the photo of Enceladon.
[…]
Mr K. measured with wide steps the space of the restaurant wagon
«The idea would be to eliminate people like you, Cogito,
you are a ball-breaker, with all respect
for your role.
The beauty of Enceladon? Come on, Cogito, don’t be ridiculous.
What do you want, it would be easy for me
to have one of my subalterns pull the trigger,
but that would be, we know, excessively playful
and I detest final solutions, rather preferring
to complicate what is simple.
Playing with you, Herr Cogito, all summed up, pleases me,
it’s like a game of cat with mouse.
Besides, adding all up, art is an onanistic activity.
It has something of the bathroom mirror, but recalls
the usury mirror.
Something un… speakable».
[…]
«To what do I owe your visit?» asks Cogito preoccupied
while he smokes an Italian cigar.
[…]
Well, let’s say – answers Mister K. –
I will intervene personally,
from time to time, according to my atrabiliar humors,
in the events of the world.
You, Mario Gabriele, Gino Rago and Francesco Paolo Intini?
Yes, I think we can take a coffe together.
At the Shadow Inn, there, in the sotoportego of the Bridge of Sospiri
The «new ontologic poetry»?
Come on Cogito, let’s be serious…
I take my leave. And I remain free to reappear.
And Disappear.
From time to time…»

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem by Giorgio Linguagloss; opening verse, “Il treno è in viaggio…”. All Rights Reserved.

Buonasera a tutti voi amici dell’Ombra e ben ritrovati. Seguendo l’evoluzione del progetto Noe in questi mesi, mi si è impressa nettamente la sensazione che il nostro percorso di de-sclerotizzazione e palingenesi stilistica e filosofica della poesia italiana, sia giunto ad un momento cruciale in quanto vada ormai pienamente definendosi e compiendosi. Trovo che il concetto di Poetry kitchen riassuma e consacri mirabilmente il percorso intrapreso da Giorgio e dalla Noe tutta in questi anni, poiché approda alla più completa destrutturazione, dis-articolazione e ri-agglutinamento del linguaggio e dei modelli poetici che hanno regnato (in gran parte incacrenendola) sulla poesia italiana degli scorsi decenni, La Poetry kitchen infatti, scardina i modelli cogniti, non solo dall’”alto” – mediante cioè l’evidenziazione antropo-filosofica della fondatezza di una nuova ontologia – ma anche dal “basso”, cioé dalle scaturigini nella praxis quotidiana di tale approccio euristico. Direi così che si possano re-indirizzare al mittente le osservazioni (che mi è capitato di udire a proposito della poetica della NOE) di eccesso di intellettualismo, problema che al contrario trovo affligga proprio il vecchio paradigma di fare poesia, ridotto ormai in molti casi (come spesso ha sottolineato Giorgio) ad un semplice e miserevole conseguimento di apprezzamenti salottieri.

L’idea di ricerca poetica sottesa alla Nuova Ontologia Estetica, incentrando la sua attenzione sui lacerti del circostante, consente al poeta di muoversi alla stregua di un archeologo o di un filologo, ricostruendo i frammenti del percorso storico individuale che diventa poi epos. storia collettiva: l’opera della Noe si connota come quello che nella teoria epistemologica del sociologo ed antropologo Marcel Mauss, prende la definizione di “fatto sociale totale”, cioè di un singolo elemento di indagine gnoseologica, in grado di rischiarare la totalità della vita culturale, partendo dalla “struttura”, fino ad illuminare la “sovrastruttura”. Partendo dalla scomposizione dell’apparente, ricorrendo anche alla componente corrosiva, ironica, giocosa, – già di per sé sovversiva rispetto al “dato” – la poesia della Noe si spinge ad illuminare le dinamiche profonde della vita, fino alle le dimensioni altre, il piano sottostante l’impalcatura, in cui si annulla qualsiasi crogiolo dell’”io” su cui si è basata tanta parte della poesia novecentesca. Peraltro, un’ altra funzione che la maggior parte della poesia contemporanea italiana non è più in grado di assolvere a causa di questa forma di autismo lirico-salottiero in cui è sprofondata, è la capacità di farsi testimone del suo tempo, rispetto al quale fornire degli strumenti di interpretazione ed orientamento.

La poesia della Nuova Ontologia, ricostruendo i contorni della storia, riconquista alla poesia italiana anche questo ruolo fondante (come evidenziato anche nei mirabili interventi di Giorgio, di Jacopo Ricciardi e di Marie Laure Colasson, con i quali mi complimento per il livello della loro poesia) ed in questo tempo frantumato, caratterizzato dalle derive di un capitalismo cannibalizzato dal mondo distopico della potenza finanziaria, cui si contrappone un populismo demenzial-demagogico di ispirazione fascistoide, la riflessione offerta dalla poesia della Noe può offrire un contributo notevole alla ricomposizione del mosaico ed all’individuazione di un nuovo paradigma ontolologico globale. Parafrasando la formula di commiato del mio conterraneo Mauro Pierno dico sentitamente: GRAZIE OMBRA!

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione. 

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

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Poesia n. 42 di Marie Laure Colasson, da Les choses de la vie, Qualsiasi ierofania mi è estranea, Lettere di Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson ad un poeta, tutta la pseudoarte dei giorni nostri ha il valore dei colori che giacciono al fondo di un lavabo sporco, è pattumiera con del miele intorno per attirare le api, e i gonzi, Incisioni di Isabella Collodi

Isabella Collodi, acuaforte, Larga la foglia stretta la via

Isabella Collodi, acquaforte, Larga la foglia stretta la via

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Marie Laure Colasson

Qualsiasi ierofania mi è ostile ed estranea.

Penso che la mia poesia sia afanica, apatica, drasticamente materica, diafana e diafanica.
L’arte che attraversa tutti i suoi momenti senza poter mai giungere a un’opera che esprima il positivo/negativo è l’arte di oggi, giacché non può mai identificarsi con alcuno dei momenti del positivo/negativo. Nella mia poesia non troverete mai un momento in cui si dice il positivo/negativo di una affermazione e né il positivo/negativo di una negazione. Affermazione e negazione facevano parte di quella metafisica che intendeva le parole che contenevano una intenzionalità verso […] una direzione verso […]. Nella mia poesia non troverete mai le «parole verso», che assumono la «potenza» della negazione o la «potenza» della affermazione, che intendono il reale come Nulla, e così sono quindi Nihil, nichilismo. Il termine Nulla non è ovviamente hegeliano ma post-heideggeriano, come post-heideggeriana è la conclusione del concetto dell’arte nella surmodernità. Come intendere e raffigurare il Nulla del Nuovo Nulla? Ecco, questo è il problema. Il nuovo nichilismo della surmodernità è fatto di Cose piene, di azioni, di merci, di clic su di un computer, di I like. Oggi la nuova metafisica che è la Tecnica non ci dà alcun nichilismo, non ci consegna alcun Nihil ma ci fornisce il Pieno in grandissima quantità: il Pieno dei markettifici, il pieno del negotium che ha sostituito l’otium. Tutto ciò non coincide con nessuna essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino (hegelianamente inteso);  l’essere dell’arte si destina all’uomo come un qualcosa che non può essere pronunciato, chiamato, definito (come pronunciare il Pieno?). Probabilmente, finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo, un crepuscolo pieno di Cose piene, ovviamente, che altro non è che il modo in cui il Nulla si manifesta come Pieno di Cose, come Pieno.
La bella interiorità? Beh, mettiamo le cose in chiaro e guardiamo le cose bene in faccia: tutta la pseudoarte dei giorni nostri ha il valore dei colori che giacciono al fondo di un lavabo sporco, è pattumiera con del miele intorno per attirare le api, e i gonzi.

Lettera  di Giorgio Linguaglossa ad un giovane poeta sulla Musa (2018)

caro [Omissis],

penso che la Sua poesia riuscirà bene quando dismetterà qualsiasi postura neosperimentale, neometrica, neosonora o neoorfica e quando rinuncerà al gioco delle parole e tra le parole, quando rinuncerà a tutto, quando rinuncerà anche alla rinuncia… a quel punto soltanto potrà scoccare la poesia… la Musa, lo sa, è una Signora oltremodo timida, basta un nonnulla che si impensierisce e fugge, si sottrae, si scherma… del resto, tutti la guardano, tutti la bramano, la vorrebbero possedere… questa cosa del «possesso» è una vera barbarie, tutti i plebei dello spirito vogliono possedere la Musa, ma lei si trincera dietro il rifiuto, si rifiuta, ecco tutto, di apparire in pubblico, rigetta qualsiasi dono, qualsiasi impegno, qualsiasi obbligazione, è una fanciulla timida e solitaria, pallida, scarmigliata… vuole soltanto trincerarsi dietro una spessa coltre di silenzio e di oblio, rifugge la balbuzie dei letterati, la loro grassa ignoranza e supponenza, la loro triviale arroganza… e poi rifugge le poetiche di maggioranza, le trova triviali, ne è spaventata…

Marie Laure Colasson

“Baudelaire è il poeta che deve fronteggiare la dissoluzione della tradizione nella nuova civiltà industriale e si trova quindi nella situazione di dover inventare una nuova autorità: egli ha assolto a questo compito facendo della stessa intrasmissibilità della cultura un nuovo valore e ponendo l’esperienza dello choc al centro del proprio lavoro artistico. Lo choc è la forza d’urto di cui si caricano le cose quando perdono la loro trasmissibilità e la loro comprensibilità all’interno di un dato ordine culturale. Baudelaire capì che l’arte se voleva sopravvivere alla rovina della tradizione, l’artista doveva cercare di riprodurre nella sua opera quella stessa distruzione della trasmissibilità che era all’origine dell’esperienza dello choc: in questo modo egli sarebbe riuscito a fare dell’opera il veicolo stesso dell’intrasmissibile”.1

La situazione della poesia italiana alla fine degli anni sessanta, alla fine della rapidissima industrializzazione dell’Italia, era alquanto problematica, la poesia si trovava nella condizione di non poter contare sulla propria sopravvivenza, cioè la sopravvivenza non era affatto scontata nelle nuove condizioni di un paese industrializzato, la civiltà di massa era un dato di fatto inevitabile, e la poesia era diventata un manufatto evitabile, perituro, il suo linguaggio era diventato intrasmissibile (nell’accezione agambeniana). Montale tira le conseguenze di questo fatto storico e fa una poesia di piccoli choc quotidiani, utilizza il quotidiano per fare di esso un campo minato irto di mine-choc. Ma non porta fino in fondo questa idea che rimane nascosta dietro l’involucro dell’ironia e dell’autoironia, e dello scetticismo cosmico. Cioè fa un passo indietro proprio quando avrebbe invece dovuto fare un salto triplo mortale in avanti.

1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, 1970, p. 160

Isabella Collodi Incisione la femme 2019

Isabella Collodi, La femme, incisione, 2019
Isabella Collodi, acquaforte, topi di donna luna
Isabella Collodi, Topi di donna luna, incisione
Isabella Collodi, Mandala della stilita, china e acquerello, 40×40 cm.
Isabella Collodi mandala del virus china acquerello 40x40
Isabella Collodi, Mandala del virus, china e acquerello, 40×40 cm

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Questa è la mia ultima poesia… sulla situazione della poesia attuale… da Les choses de la vie

42.

Eredia la Pompadour et Madame Colasson
montent dans un cyclopousse conduit
par une girafe qui chante un lied de Haendel

La blanche geisha arrive de l’île d’Osaka
munie d’une petite malle en fer blanc
transportant Tristan Tzara à cheval

La Pompadour offre à André Breton
son “amour fou” au delà des mots

Eredia vole à Lucio Mayoor Tosi
son parchemin lézardé pour lui raser la barbe

Gino Rago et Mario Gabriele cherchent
des détritus aux couleurs chatoyantes
pour vacciner Madame Colasson

Hasard des hasards ils se retrouvent tous
au café des “Deux Magots” autour
d’un guéridon bancal et s’assoient sur
des chaises déraisonnables

Breton vêtu de son kimono à fleurs de lotus
s’altère avec Tristan Tzara descendu de son cheval
et proclame que le dadaïsme s’enfouit
dans la joyeuse poussière des temps

Gino Rago le critique Linguaglossa et leurs amis
assis sur des marmottes en rupture de métastases
interviennent et déclarent
que le surréalisme est dépassé
depuis que les zèbres ont perdu
leur merveilleuse géométrie générée par Malévitch

Désormais la poésie passéiste
est amplement remplacée par
l’indigeste cuisine de la poetry kitchen

Le cheval et la girafe pris au dépourvu
avalent des gélules électriques de toutes les couleurs
et vont se promener dans la rues de St. Germain des près

*
Eredia la Pompadour e Madame Colasson
salgono su un risciò guidato
da una giraffa che canta un lied di Haendel

La bianca geisha arriva dall’isola di Osaka
munita di un piccolo baule in ferro bianco
che trasporta Tristan Tzara a cavallo

La Pompadour offre ad André Breton
il suo “amour fou” al di là delle parole

Eredia ruba a Lucio Mayoor Tosi
la sua pergamena screpolata per radergli la barba

Gino Rago e Mario Gabriele cercano
dei detriti dai colori cangianti
per vaccinare Madame Colasson

Fortuna delle fortune si ritrovano tutti
al caffè dei “Deux Magots” intorno
a un tavolino traballante e si siedono su
delle sedie irragionevoli

Breton vestito con un kimono a fiori di loto
s’inalbera con Tristan Tzara sceso da cavallo
e proclama che il dadaismo se ne è fuggito
nella gioiosa polvere del tempo

Gino Rago e il critico Linguaglossa e i loro amici
assisi su delle marmotte in rottura di métastasi
intervervengono e dichiarano
che il surrealismo è superato
da quando le zebre hanno perduto
la loro meravigliosa geometria generata da Malevitch

Oramai la poesia passeista
è stata ampiamente rimpiazzata dall’indigesta
cucina della poetry kitchen

Il cavallo e la giraffa presi alla sprovvista
inghiottono delle capsule elettriche di tutti i colori
e vanno a passeggio per le vie di St. Germain des près

Pensare ad una essenza originaria della poiesis, l’abitare dell’uomo sulla terra, è quantomai fuorviante. Si può immaginare un’essenza della poiesis provenendo dal futuro, mai dal passato. Il compito urgente del nostro tempo è qui per Marie Laure Colasson quello di mettere in questione il «senso» stesso dell’opera poetica, che deve avvenire attraverso la «dimenticanza» della poesia della tradizione essendo essa intrasmissibile per eccellenza e contaminata dalla falsa coscienza; l’opera poietica torna così ad abitare il suo «luogo proprio», torna a parlare del luogo e dal luogo che conosce a menadito, con le persone, i sosia, gli avatar, e magari anche con le maschere, purché siano tutte «proprie» e non allotrie.
La poesia di Marie Laure Colasson abita il «proprio», e lo fa senza infingimenti e senza falsa coscienza. Per questo i suoi avatar sono degli Estranei familiari, sono i suoi doppi, i suoi sosia, i suoi fantasmi con cui l’autrice entra in colloquio familiare. L’opera autentica torna all’origine guardando al futuro, anzi no, provenendo dal futuro. Tornare all’origine significa qui andare avanti, fare una poiesis che abiti il futuro come luogo più proprio (e quindi il più estraneo). In tal senso, e solo in tal senso la poesia della Colasson è un’arte irrealistica in quanto realistica al massimo grado, in quanto inventa, trova il suo realismo a partire dall’irrealismo. Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis. Oggi il realismo se vuole veramente assomigliare al reale deve diventare irrealismo al massimo grado, deve provenire dal futuro, non più dal passato. Deve dimenticare il passato.

(Giorgio Linguaglossa)

Isabella Collodi

Isabella Collodi è nata a Roma, dove vive e lavora, il 19 ottobre 1957. Dopo gli studi classici, si è laureata in Psicologia nel 1982.Nel 1980 iniziava lo studio dell’incisione su rame, dedicandosi prevalentemente all’acquaforte, pur avendo, fin dall’infanzia, disegnato e dipinto. Nel 1988 ha esposto per la prima volta, nell’ambito di una rassegna di giovani artisti, organizzata dal Comune di Roma mentre nel 1994 le è stato conferito il Premio per l ‘Incisione nella Biennale del Mediterraneo ( Alessandria D’Egitto ). Vive e lavora in Circonvallazione Clodia 21, 00195 Roma. Tel 0039  06  39728551  ; Cell. 3334645566.  Hanno scritto del suo lavoro diversi storici e critici d’arte tra cui : F. Di Castro, L. Trucchi, G. Giuffrè, A. Gerbino,  Erika Langmuir, Mans Holts – Ekstrom.

Marie Laure Colasson volto 1

Marie Laure Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica è coreografa di danza contemporanea

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Marie Laure Colasson, foto, il fondo di un lavabo sporco, arte astratta, da Montale alla poetry kitchen che annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro, Dialogo tra Jacopo Ricciardi, Giuseppe Gallo, Giorgio Linguaglossa su Montale poeta principe dell’età della metafisica nel momento dell’aperitivo e del cicaleccio, che ci parla con festoni floreali e parole mitridatizzate

 
 
[Marie Laure Colasson, foto, il fondo di un lavabo sporco, arte astratta, 2020 – L’arte moderna è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio, festone floreale sul portale del cimitero della fine della metafisica]
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Montale nelle tre ultime raccolte sente il bisogno di ridurre il comportamento altisonante della poesia in quanto grande trasduttrice (Sbarbaro la utilizzava ancora in questo modo, memore di Pascoli) come a volerle togliere importanza, quasi ad umiliarla, renderla da fiammella viva a volatile cenere. Il poeta ha cercato di ridurre il volto della poesia, riuscendoci, perché non si potesse più godere del muro di quella bellezza. Si trattava di spegnere il canto in un portacenere. Montale voleva togliere dalla poesia quel sapore di maneggio, di muro che circonda poeta e lettore come una cittadella incantata, poiché egli pensava fosse errata, non vera. C’era ancora un granello di falsità, un che di erroneo, con cui lavorava il poeta. Forse è plausibile pensare che Montale volesse uscire da quella prigione che ancora la poesia in extremis era, e proseguire il percorso. Egli, un po’ come un’Alice della realtà, cercava di trovare una porta da aprire per andare oltre, andando a tastoni cieco volendo togliere ogni strumento poetico dalle mani, o meglio tentando di ridurlo fino all’estremo proprio per trovare quella porta con su scritto ‘Exit’. Ora potrebbe essere che, e qui Montale perdoni la mia presunzione, il nostro poeta (che desidera essere un non-poeta, un poeta liberato dalla schiavitù della poesia) non riesca a trovare la porta ma si ponga in una condizione di perpetua ricerca cieca. E forse Caproni, forse Luzi e pochi altri prendono il testimone di Montale individuando, in un comportamento poetico specifico e non minore, quella porta e offrono con la loro opera (nelle ultime fasi) delle ipotesi di disincastro, tracce per una chiave.

Montale pone un problema di enorme dimensione riguardo la questione del poetico: vuole che la poesia rimanente sia disintegrata dal non poetico, vuole che il poeta viva più dal lato della quotidianità non poetica per non impersonificare più né la poesia né il poeta. E, attenzione, per Montale è una ‘quotidianità’ che nasce e cresce alle spalle della sua poesia, del suo poetare passato, del suo essere poeta con determinate caratteristiche; questo ultimo fatto è fondamentale, poiché Montale indica un percorso in una condizione che lo completa come essente, ossia lui è il poeta che deve negare e quindi è il poeta che vuole negarsi, che afferma di negarsi. C’è in Montale una universalità di asserzione, che verrà raccolta da una schiera di poeti specializzati (che abbiamo citato più su) della generazione appena seguente.

Montale ci mostrerebbe quindi che lo scopo della poesia a lui futura dovrebbe negare ogni forma precedente, ogni comportamento, abitudine, attitudine, ogni meccanismo, ogni legame col poeta e con la poesia come sono stati intesi fino a quel momento; e qui ecco il punto nevralgico, Montale indica qualcosa oltre la porta da lui supposta, ma i suoi mezzi non possono aprire la porta che mostra un altro luogo con altre leggi e regole (questo Montale lo sente, credo sia innegabile). E qui c’è il rischio per i poeti seguenti di brancolare, e nemmeno nel buio, tastando ciò che vedono chiaramente, ciò che sta loro a un palmo di naso, quando dovrebbero fare esperienza di un’oscura tabula rasa della realtà (tutta la realtà, compresi poesia e poeta). A me sembra che Montale ancora oggi (e soprattutto oggi) ci richiama a questo difficilissimo compito.

“Dimenticavo la cosa più importante: la poetry kitchen annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro.” (Giorgio Linguaglossa)

È chiaro che né Montale né i suoi immediati successori offrono i mezzi per reagire alla problematica che pongono, ossia una tabula rasa dell’intera realtà (quella usata fino a quel momento, ossia monodirezionale). I loro mezzi non porteranno da nessuna parte: la loro arte avverte su di sé un presentimento di fine, di esaurimento.
Montale (con pochi altri a seguire) offre il coito interruptus della poesia. La poesia, in quello stato, si rifiuta di progredire, di andare avanti. Vado indietro a cercare un altro coito interrotto ed ecco Arthur Rimbaud e il suo abbandono della poesia dopo pochi anni di lavoro poetico, dopo aver inventato un nuovo modo di costruire il poetico: l’emettitore della Visione è la Visione. Il ‘je’ resta sempre, anche se è un ‘altro’. E non è forse la ‘logica dell’Altro’ una Visione che perde il ‘je’ e che diventa luogo concreto, e la mente una realtà che si scontra e vince contro l’unidirezionalità di una realtà superficiale apparente. E Montale? Non è visionario il suo discorso per il Nobel? Rimbaud fino al momento dell’abbandono credeva nella forza della poesia, nella sua capacità trasduttrice della Visione; la poesia in Rimbaud era liberata dalla (e nella) Visione ma restava alta e luminosa, altisonante, anche se non più retorica e servile di se stessa. Montale porta per terra (a livello terrestre) la visione e questa mette in dubbio la veridicità della realtà superficiale, fino a far mettere la poesia contro se stessa per spogliarla. La poesia di Montale non esce mai dal dubbio di esistenza della stessa realtà superficiale. La ‘logica dell’Altro’ attua un cambio di paradigma che deve creare degli strumenti completamente nuovi, allo stesso modo di quanto fece con evidenza Rimbaud e di quanto fece in modo quasi nascosto Montale. La nostra è un’epoca (dal 1870) che ha bisogno di reiniziare ogni volta e che va avanti per macro frammenti (e non più per biforcazioni).
Infine c’è la questione degli altri poeti del novecento (Tranströmer per esempio), che invece di argomentare un concetto come accade nell’ultimo Montale, già attuano una problematizzazione più fisica, cioè sul corpo della poesia, evidenziando una tensione corporea del linguaggio, delle onde sismiche che mettono in crisi la stabilità di superficie della realtà.
Quindi la ‘logica dell’Altro’ è un ‘interrotto’ plurale senza più coito. Un ‘interrotto’ fatto da ‘cose’ interrotte, di brandelli, di scarti, di scampoli di realtà. La tabula rasa si è spaccata in frammenti e i tempi navigano dispersi e mai finiti.

 

Giorgio Linguaglossa

Buongiorno Jacopo, la tua riflessione mette un punto cruciale sulla questione del secondo Montale e sull’impasse nella quale si è venuta a trovare la poesia italiana post-montaliana nei cinquanta anni a seguire la pubblicazione di Satura (1971). Il quadro storico è quello della Crisi della civiltà borghese dell’Occidente (e italiana) con i suoi risvolti e ricadute sulla forma-poesia.
Cito un pensiero conclusivo di Paolo Ruffilli pubblicato su queste colonne:

«Nella poesia “Pasquetta”, in Quaderno di quattro anni, si legge l’ulteriore ripresa ironica del tema montaliano del “dilettante di gran classe”, indicato come terza scelta possibile tra impegno e disimpegno.
L’esperienza poetica di Montale si definisce, con tutta l’ampiezza della sua “negatività”, nei termini della crisi della civiltà borghese occidentale. Ma la prospettiva di questa crisi è a tal punto individualizzata che le cose appaiono senza possibilità di soluzione e di futuro. Non ci sono, agli occhi di Montale, altre possibili società e altre possibili culture. Il crollo dei valori borghesi è, per Montale, il crollo dei “Valori”, di tutti i valori possibili.»1

Mi permetto di portare una mia esperienza personale. Nello scritto a mia firma che precede il mio libro di esorsio, Uccelli, del 1992 (ed. Scettro del Re), scrivevo:

«Può darsi che l’ultimo modo di esistenza della poesia debba essere una eroicizzazione dell’arte, una resistenza allusiva ed assoluta al mondo, tanto più che il punto di vista estetico ha perso il suo baricentro e risulta palesemente insufficiente a porre su salde basi la creazione artistica. Il poeta, quale messaggero della tempesta, come gli uccelli, non può che tacere, ciò è inscritto nel suo codice genetico». (p.7)

La poesia che apre la raccolta è un tipico esempio di drammatizzazione del lessico montaliano mantenendo ferma la dramatis personae e la forma-poesia del secondo Montale. È chiaro che cercavo una via di uscita, dall’interno, da quella impasse sia a livello lessicale che dello stile. Tentavo insomma una via, dall’interno, della crisi della forma-poesia inaugurata con Satura.
Oggi, con il senno di poi, so che allora non era possibile alcuna soluzione della crisi della forma-poesia che operasse squisitamente dall’interno; non era possibile alcun riformismo moderato della forma-poesia vidimata con Satura e il Quaderno di quattro anni. Oggi, a distanza di cinquanta anni da Satura ho capito che l’unica soluzione a quella crisi della rappresentazione era (ed è) possibile soltanto dall’esterno, e dall’esterno frantumare, dissolvere quella forma-poesia che non era in grado di portare fuori dal labirinto delle forme poetiche. Infrangere con una nuova ontologia estetica quel «muro» che anche tu menzioni, quel «muro» che ha chiuso la poesia italiana post-Satura in un recinto autopoematico.
Tu hai colto con acume nelle mie parole questa svolta: «Dimenticavo la cosa più importante: la poetry kitchen annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro.»

Il retro dell’inferno è fitto di
quisquilie e di oltraggi, pachidermi
del non senso, del posterius, del prius.
È nel fiume dell’Averno che diguazzano
i morti con le loro toghe attillate.

Il teatro dell’inferno è gremito
di voci oscure, vocabolario infantile
che mostro come un re espone il proprio mantello
regale; i diletti del giorno di nozze
sono lontani, stantii, soliloqui
d’un demente senile, d’un dio ottuso.

Un demone ricciuto contempla i
bambini che giocano con la matassa.
Ho scelto l’infanzia degli dèi.
Per annunciare i miei prodigi
ho scelto gli uccelli.

(da Uccelli, 1992)

https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/05/paolo-ruffilli-montale-uno-e-due-la-crisi-della-civilta-borghese-occidentale/

Giuseppe Gallo

Si chiedeva l’artista Tirelli, poco tempo fa, in una intervista in relazione ai suoi lavori: “Di che materia sono fatte le immagini?” Ricordate l’interrogativo di Shakspeare: “Di che materia sono fatti i sogni?” Ebbene, la domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci: di che materia sono fatte le parole? E qual è la materia “linguistica” che produce poesia? Si può andare al di là del “significato” e del “significante”? Si possono prendere le parole di petto e sperimentarne la natura enigmatica? Le risposte non possono essere nette e precise e mettere a nudo la sua struttura originaria è alquanto difficoltoso. “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”
(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188)

Ebbene, cos’è “questa frattura della presenza” che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben afferma che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. La frattura, allora, dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Ritorniamo sempre al solito problema: quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla… precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e confuso per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro. Ma si possono parlare tanti linguaggi… quello del contadino, quello del cacciatore, quello del taumaturgo… tanti linguaggi “speciali”, tante soggettività derivanti dalle tradizione e dalla storia. Nel nostro caso il linguaggio in questione è quello della poesia anche come apertura all’intersoggettività in quanto ogni espressione di poesia individuale deve “essere elevata alla validità universale”. Purtroppo, per molto tempo, il linguaggio poetico nazionale ha alloggiato nelle case dei padri, da Petrarca a Marino, da Leopardi a Quasimodo… tanto che i loro echi, contenutistici e formali, eufonici ed epigonici, ci perseguitano ancora. Certo, negli ultimi decenni del secolo scorso, qualcosa è avvenuto. Un nome per tutti: Eugenio Montale! Lo ricorda molto bene Gino Rago in un suo ultimo intervento su L’Ombra delle parole quando lo stesso Montale dei propri testi lascia scritto: « I primi tre libri, Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939), La Bufera e altro (1956), sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio» e dalla dismissione di questi “panni curiali” giunge alla ironica consapevolezza che non si può più credere “alla funzione diciamo salvifica della poesia, né all’idea della poesia come strumento rivelatore di verità, né alla poesia come folgorazione luminosa.” (G. Rago, cit.) Vorrei dire che l’assunzione di responsabilità operata da Montale rispetto alla poesia del suo ultimo tempo è qualcosa che necessita di ulteriori indagini. Non la si può edulcorare o trasformare in una semplice “soggettività discorsiva che si ri-forma come confessione e, altre volte, come monologia nell’atto di porsi-di-fronte a quell’apertura muta, nera, come un black hole che è la Storia, gli eventi della Storia. Montale dimentica, o fa finta di dimenticare, la relazione tra monologia e eterologia e riduce tuta la questione in monologia e monolinguismo. Da questo punto di vista «chiude», non «apre» la poesia italiana.” come risponde e suggerisce, Giorgio Linguaglossa, sempre sulle pagine dell’Ombra delle parole…”. E perché? Perché “Il linguaggio non è solo comunicazione, mediante suoni, di contenuti di senso; non è dunque un semplice strumento che designa le cose, e neppure soltanto discorso. È, piuttosto, originariamente, un mostrare , un far vedere , un significare… Dove c’è significato c’è anche linguaggio e dove c’è linguaggio c’è realtà” (in Gadamer e l’ermeneutica contemporanea, a cura di Massimo Marassi, Colonna Ed. 1998, p.16).

Ecco il punto: il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio ci permette l’esperienza di qualche elemento della realtà? Di qualcosa con cui noi abbiamo a che fare? Heidegger, verificando la “linguisticità” del nostro essere nel mondo, ha dovuto distinguere “il Ding, cioé la “cosa” nella sua semplice presenza, nel suo stare di fronte a noi, dalla Sache, cioè la “cosa” come ciò di cui parliamo o che pensiamo. Noi non facciamo mai esperienza di un Ding ma sempre di una Sache…” (in Gadamer, op. cit. p.16). Esiste, cioè, un mondo precostituito e prestrutturato in cui ogni Sache ha avuto la possibilità di depositarsi nelle varie espressioni linguistiche, lemmi, concetti, ecc. permettendo la nostra capacità di comprensione, di analisi e di evocazione. In altri termini ciò che noi possiamo esperire del nostro essere nel mondo e di noi stessi è linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale: se la realtà incontra ancora qualche nostra esigenza; se, invece, non ha rapporto con noi, ma solo con il nostro pensiero, allora il linguaggio può trascinarci in qualsiasi direzione, ma saranno sempre fantasticherie, elucubrazioni, soggettività irrazionali, evasioni gnostiche, sentimentalismi dell’io, ecc. e non si potrà mai dare una qualche risposta, più o meno esaustiva, allo “statuto di verità del discorso poetico”, come richiede puntualmente Linguaglossa.

Anche la poesia, però, non può nascere senza radici… il rapporto con le esperienze poetiche trascorse non potrà mai essere saltato a piè pari… nessuno lo ha fatto e nessuno lo potrà mai fare… e questo perché il linguaggio è anche memoria. Ciò non significa che dipendiamo in tutto e per tutto dal nostro passato perché bisogna specificare, che se la poiesis è sempre un “impasto” di parole, queste devono sempre più “sganciarsi” dalle varie convenzioni comunicazionali; fra loro non c’è e non ci può essere alcun determinismo, ma solo libertà! Libertà che non è data dall’ispirazione di origine romantica, dal razionalismo illuministico o scientifico, dalle libere associazioni psicanalitiche o surrealiste o da qualsia altro “ismo” non citato o ancora ignoto…
Se Montale, alla fine della propria esperienza poetica può affermare, (lo ricorda sempre Gino Rago): “Non sono sicuro che il mondo esista, che la materia esista, che io esista”, vuol dire che egli è arrivato sulla soglia dell’indicibile, nell’ultima vertigine possibile:

“… Inorridivo di essere il solo risparmiato
per qualche incaglio del Calcolatore.
Ma non fu che un istante. Un’ombra bianca
mi sfiorò, un cameriere che serviva
l’aperitivo a un non so chi, ma vivo.”

(Senza mia colpa, Quaderno di quattro anni, Mondadori, p.43)

E, purtroppo per Pasolini, questa illuminazione Montale la recepisce anche quando lo “hanno allogato in un hôtel meublé”.
Perché giriamo ancora intorno al problema? Tutti ormai ci servono aperitivi: la politica, l’economia e ogni tipo di scienza e di ricerca, e così noi smagriamo sempre più: quel “non so chi” diventa la costante che perseguita ogni nostro residuo respiro e noi non possiamo far altro che attendere il disfacimento finale. I vivi, in fondo, sono defunti e i defunti, officiano ritualità senza forma per l’apparenza dei vivi. Ecco, quindi, un esempio di come queste benedette parole possano incontrare altre parole interagendo in modo “creativo” e per evidenziare che il linguaggio contiene in sé un altissimo valore energetico ed espressivo. Il problema è che per molti poeti l’esperienza creativa si basa sulle proprie sensazioni e sulle proprie emozioni; per altri la poesia dovrebbe evocare quella dimensione trascendente che Kant, chiamava dispositio naturalis… per altri ancora è Gnosi… per altri è… qualsiasi cosa vogliate aggiungere…
E allora, su cosa si fonda, in effetti, la poesia? Quando pretendiamo “lo statuto di verità del discorso poetico” non stiamo mettendo sullo stesso piano ermeneutica e poiesis?
Impossibile la verità perché le verità saranno sempre parziali, ambigue e difettose.
Ecco cosa ne pensava Tranströmer in alcuni versi del lontano 1966, nella traduzione e interpretazione di Maria Cristina Lombardi:

Fantastico sentire come la mia poesia cresce
mentre io mi ritiro.
Cresce, prende il mio posto.
Mi toglie di mezzo.
Mi caccia via.
La poesia è pronta.

Anche in altri due versi la consapevolezza di Tranströmer, al riguardo, è chiara e decisa:

Io è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice.

Solo quando il viaggio dell’Io è iniziato per scomparire e per mai ritrovarsi, solo allora “la poesia è pronta” a varcare la soglia delle faccende umane ed apparire come fantasma “reale e concreto” tra gli uomini.

Giorgio Linguaglossa

Il problema di una nuova poetica non è dissimile da quello di una nuova politica, soltanto mediante una nuova ontologia si può giungere ad una nuova politica e ad una nuova poetica. Questa è la posizione di Agamben, che io condivido. La poiesis si situa in quella barra che si inserisce tra il Significante e il significato (S/s). Lì, in quella soglia di indifferenziazione, in quella soglia di indistinzione e di indecidibilità si posiziona la poiesis. Se la poiesis si sposta un millimetro verso il significato, è perduta; se si sposta di un millimetro verso il significante, è ugualmetne perduta, soltanto lo stare in mezzo, nel frammezzo (das Zwischen) assicura alla poiesis la sua indipendenza.
Penso che sia questa la posizione della poetry kitchen.

Marie Laure Colasson

“Baudelaire è il poeta che deve fronteggiare la dissoluzione della tradizione nella nuova civiltà industriale e si trova quindi nella situazione di dover inventare una nuova autorità: egli ha assolto a questo compito facendo della stessa intrasmissibilità della cultura un nuovo valore e ponendo l’esperienza dello choc al centro del proprio lavoro artistico. Lo choc è la forza d’urto di cui si caricano le cose quando perdono la loro trasmissibilità e la loro comprensibilità all’interno di un dato ordine culturale. Baudelaire capì che l’arte se voleva sopravvivere alla rovina della tradizione, l’artista doveva cercare di riprodurre nella sua opera quella stessa distruzione della trasmissibilità che era all’origine dell’esperienza dello choc: in questo modo egli sarebbe riuscito a fare dell’opera il veicolo stesso dell’intrasmissibile”.1

La situazione della poesia italiana alla fine degli anni sessanta, alla fine della rapidissima industrializzazione dell’Italia, era alquanto problematica, la poesia si trovava nella condizione di non poter contare sulla propria sopravvivenza, cioè la sopravvivenza non era affatto scontata nelle nuove condizioni di un paese industrializzato, la civiltà di massa era un dato di fatto inevitabile, e la poesia era diventata un manufatto evitabile, perituro, il suo linguaggio era diventato intrasmissibile (nell’accezione agambeniana). Montale tira le conseguenze di questo fatto storico e fa una poesia di piccoli choc quotidiani, utilizza il quotidiano per fare di esso un campo minato irto di mine-choc. Ma non porta fino in fondo questa idea che rimane nascosta dietro l’involucro dell’ironia e dell’autoironia, e dello scetticismo cosmico. Cioè fa un passo indietro proprio quando avrebbe invece dovuto fare un salto triplo mortale in avanti. Ma forse Montale non avrebbe potuto farlo, ci sono voluti cinquanta anni, oggi quello che non ha fatto Montale lo sta facendo la poetry kitchen. A pensarci bene, Montale è ancora un poeta principe dell’età della metafisica nel momento dell’aperitivo e del cicaleccio, parla ancora con festoni floreali e parole mitridatizzate.

1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, 1970, p. 160

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Due poesie di Franco Fortini, Leggo versi di Sereni, Sopra questa pietra, Così si chiude un’epoca della poesia italiana, Che cos’è un dispositivo poietico?, La Phoné e il Logos, Satura di Eugenio Montale, Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

Brancusi Signorina Pogany

Constantin Brancusi, Signorina Pogany

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Giorgio Linguaglossa

La Phoné e il Logos 

Dispositivi poietici e dispositivi politici sono solidali, hanno luogo nella medesima polis e presuppongono sempre una metafisica. L’articolazione originaria tra la Phoné (la voce che si toglie, viene meno e precipita nel negativo) e il Logos (il discorso articolato in un linguaggio), fonda la phoné come il negativo e il logos come positivo.
Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela una nuova metafisica. Una nuova «voce» può sorgere soltanto dal perire della vecchia «voce».
La dizione «voce senza linguaggio» significa questo emergere della voce nel e dal linguaggio, nel e dal linguaggio che sta emergendo. La «voce» è sempre alla ricerca del linguaggio più appropriato che possa ospitarla. Il linguaggio è la «casa» della «voce».
Quando la «voce» abbandona un linguaggio, ciò avviene perché quella «casa» è diventata inospitale: ci piove dai tetti, le finestre e le porte non chiudono bene alle intemperie e vi penetra il gelo d’inverno e la calura in estate. Allora, la «voce» deve abbandonare l’abitazione e si mette in viaggio alla ricerca di una nuova abitazione…
La poiesis è quell’ente per il quale ne va, nel suo esistere, del suo aver nome, del suo essere un fare nel linguaggio.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2021/02/15/inediti-di-mario-m-gabriele-lucio-mayoor-tosi-la-poesia-kitchen-pone-con-urgenza-il-problema-di-un-nuovo-rapporto-con-le-cose-e-per-farlo-assegna-altri-nomi-alle-cose-commenti-di-jaco/comment-page-1/#comment-72395

franco fortini_pier paolo pasolini

Che cos’è un dispositivo poietico?

Un dispositivo poietico è una costellazione di categorie retoriche ed ermeneutiche.
La poesia di Mario Gabriele e di Lucio Mayoor Tosi, e la poesia kitchen in generale, non può non recepire la riterritorializzazione del trash e del kitsch, prendere atto della spazzatura… non può non de-territorializzare, de-costruire, de-rottamare il già rottamato, il già costruito, il già territorializato, la spazzatura della cultura divenuta cultura del trash e del pacchiano.
Il genere lirico, il gusto euforbito ed eufonico è diventato trash e kitsch, pacchianeria dello spirito, furfanteria di manigoldi…

La poesia consapevole di oggi non può non riterritorializzare frammenti, tracce, orme, lessemi, impulsi, abreazioni, rammemorazioni, idiosincrasie, tic, vissuti, dimenticanze, obblivioni; attaccare post-it e segnalibri, segnali semaforici e somatizzazioni, pixel, trash, pseudo trash, codicilli… questo spetta all’arte, è compito dell’arte senza più voler sondare chissà quali profondità metafisiche; in fin dei conti tutte le tecniche sono parenti strette della Tecnica con la maiuscola che afferisce al Signor Capitale e ai suoi epifenomeni: gli esseri umani, gli acquirenti consumatori di merci. Il Capitale pensa, sa, ma l’arte ne è consapevole e dismette gli abiti di scena, adotta la strategia del camaleonte, si mimetizza tra gli oggetti, vuole essere un oggetto più oggetto di altri, da usare e gettare via; vuole essere un oggetto meno oggetto di altri, vuole essere un conglomerato di orme, di tracce di oggetti scomparsi, luminescenze, rifrazioni di oggetti sprofondati in chissà quale superficie…

Nel volume II/3 del progetto su Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, del 2008: oggetto dell’analisi è, qui, il paradigma del “giuramento” come luogo in cui si rende manifesto il dispositivo “veritativo” messo in campo da diritto e religione, che «sarebbero nati […] per cercare di legare le parole alle cose, per assicurare l’efficacia del linguaggio, per “vincolare, attraverso maledizioni e anatemi, il soggetto parlante al potere veritativo della sua parola”».*
Stante quanto sopra, appare evidente che nell’ambito della poiesis non si dia alcun «giuramento» di voler far coincidere le parole alle cose, qui il dispositivo veritativo non può che essere quello di scollegare, de-collegare il dispositivo veritativo tra le parole e le cose e di introdurre un altro dispositivo veritativo il cui compito precipuo sarebbe quello della istituzione della differenza tra le parole e le cose.

* G. Agamben, Homo sacer, p. 105

Due poesie di Franco Fortini.

Leggendo una poesia

Leggo versi di Sereni
per un amico che morì anni fa. Rammento
quel suo amico e la casa dov’era vissuto.

E quando Sereni ebbe accompagnato
al cimitero del Verano il corpo del suo amico
per l’autostrada oltre l’Appennino ritornò
fissando a uno a uno cinquecento chilometri
riflettendo a poco a poco
verso questa città
che oscilla nei mattini di sole sulle marcite.

Non ho mai capito gli altri né me stesso
ma il modo che ho di sbagliare questo sì. Se mi arriva
una verità è nel mezzo della fronte: è
un’accusa. Ragiono
senza comprendere. Mai sono dove credo.

Avrò parlato quel mattino
come l’idiota che so essere. Qualche bava
gaia avrò avuta alle labbra. Qualche sussidio
per la mia giornata fino a notte.
Per arrivare a passi torti fino a notte.
Incredulo Sereni mi guardava
offeso no ma stupefatto. Era seduto
al suo tavolo e negli occhi sanguinosi
gli duravano le grandi costruzioni della propria morte.

La cortesia e la grazia non so bene che siano.
Dentro questo autobus che ci trasferisce c’è tale un urlìo
che non permette di parlare
e nemmeno di tacere umanamente.

Mi è stato fatto non so quando un male.
Una ingiustizia strana e indecifrabile
mi ha reso stolto e forte per sempre.
Leggo i versi di Sereni per Nicolò Gallo
e scrivo ancora una volta parola per parola.
Non tutto allora è vero quello che ho detto sin qui.
Posso anche io intendere chi noi siamo.

(da Paesaggio con serpente, 1984)

Sopra questa pietra…

Sopra questa pietra
posso ora fermarmi. Dico alcune parole
nello spazio vuoto preciso.
Le grandi storie
tentennano in sonno, vacillano
nelle teche i crani
dei poeti sovrani.
L’enigma verde ride la sua promessa.

Olmi e oh vetrate di Trinity illuminatevi!
Ecco il fulmine di giugno.
Batte l’acqua gronde e guglie.
Lo spazio dei dilemmi è verde e vuoto.
Non può vedermi più nessuno qui, nessuno
mi farà mai più.

(da Composita solvantur, 1994)

Dall’84 al ’94 passano dieci anni durante i quali scompare un sotto genere della poesia italiana: la poesia in forma di missiva che si rivolge ad un altro poeta con il quale si è in interlocuzione. Qui Fortini che si rivolge a Vittorio Sereni.
Un genere o un sotto genere letterario scompare quando le condizioni storiche mutano e ne decretano la inanità. Qui a mutare sono state le condizioni storiche: quel tipo di interlocuzione tra letterati che adottano il mezzo poetico non ha più adepti, non interessa più a nessuno, tantomeno agli interessati. Infatti, la poesia italiana che è seguita a Composita solvantur non presenterà più la crisi della comunicazione tra due persone, tra due poeti, la crisi del conflitto tra due o più poetiche. La crisi delle poetiche non richiede più lo strumento poetico per la sua espressione, perché è la crisi delle poetiche a non fare più testo.
Le poetiche che verranno dopo il 1994 non sono più in crisi perché non ci saranno più poetiche in conflitto, ma soltanto poetiche personalistiche e posiziocentriche che hanno come obiettivo primario la competizione per la visibilità e l’auto storicizzazione.
Fortini ne è ben consapevole quando scrive malincomicamente:

«Dico alcune parole/ nello spazio vuoto preciso».

Così si chiude un’epoca della poesia italiana.

eugenio montale 05Gino Rago

cari Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Jacopo Ricciardi, Mario Gabriele vorrei porvi una domanda: anche noi della poetry kitchen siamo figli del dopo Satura?

Riflessione su Eugenio Montale, Satura

Satura, il quarto libro di Eugenio Montale , quindici anni dopo La bufera contribuì nel 1971 a dare alla voce del poeta una (sorprendente?) nuova fisionomia. Una novità costruita su due diversi movimenti:
– il primo, più breve, Xenia I e II, si fonda sulle emozioni legate alla scomparsa della moglie;
– il secondo, Satura I e II, si rifà alla “satura” latina, ed è articolato con caustica ironia nell’osservazione critica di una realtà in vistoso, travolgente mutamento.

Con Satura (1971) la poesia di Montale scende dai piani alti e si apre verso una colloquialità distante dalle metafore delle Occasioni (1939) e della Bufera (1956) attraverso una semplicità espressiva fino al 1971, e a Satura, estranea alle precedenti raccolte.

Lo stesso Montale scrive:« I primi tre libri, Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939), La Bufera e altro (1956), sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio».

Il taglio diaristico-narrativo, prosaico-quotidiano di Satura da un lato denota un poeta in grado di sapersi rinnovare profondamente, dall’altro indica la maturata sfiducia nel valore della poesia e nella capacità o possibilità dei poeti a giocare un ruolo decisivo, significativo nella società del dopo ‘68/ ’69: Montale non crede più né alla funzione diciamo salvifica della poesia, né alla idea della poesia come strumento rivelatore di verità, né alla poesia come folgorazione luminosa.

La negazione della poesia impone una nuova poetica, la poetica di chi è chiamato a vivere immerso nel caotico mondo della informazione, nel martellante uso della propaganda, nell’assedio degli oggetti e nella atroce morsura di sterco e di nafta del post alluvione di Firenze che con il pack dei mobili sommerse anche l’idea stessa di poesia.

Su certi aspetti essenziali di Satura e nel nuovo, comunicativo e colloquiale percorso di Montale anche Giorgio Linguaglossa coglie nel dimesso e quotidiano lessico montaliano sia il tono basso che avvolge e coinvolge la figura di Drusilla Tanzi, come moglie, come donna, come guida e come compagna, sia la tendenza di Montale a creare un’ opera strutturata e strutturante che avrebbe influenzato tutta la poesia del dopo Satura per una Weltanschauung ironica e pessimistica nello stesso tempo, e che è valida in tutti i tempi.

Scrive Giulio Ferroni: «In Satura II, insieme a spunti polemici, ritornano con maggiore insistenza oggetti, situazioni, figure del passato: nell’attrito con un presente vuoto di senso e pieno di rumori, di parole, di rottami, questo passato si stempera in un succedersi di segni grigi», con lo stesso Montale che in Intervista immaginaria scrive:
«Non sono sicuro che il mondo esista, che la materia esista, che io esista».

*
Eugenio Montale
XENIA I

Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.

4
Avevamo studiato per l’aldilà
Un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
Che tutti siamo già morti

5
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

9.
Ascoltare era il solo modo di vedere.
Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco.

14.
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa

eugenio montale 2

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

Montale con Satura (1971) fonda una soggettività discorsiva che si ri-forma come confessione e, altre volte, come monologia nell’atto di porsi-di-fronte a quell’apertura muta, nera, come un black hole che è la Storia, gli eventi della Storia. Montale dimentica, o fa finta di dimenticare, la relazione tra monologia e eterologia e riduce tuta la questione in monologia e monolinguismo. Da questo punto di vista «chiude», non «apre» la poesia italiana.

Quello che fa Montale è una poesia rinunciataria, certo di gran classe come nessuno dei suoi contemporanei era capace di fare, fa una poesia in discesa e di pianura. Montale abbandona la «visione tragica» che lo aveva accompagnato e ispirato da Ossi di seppia (1925) a La Bufera e altro (1956). Pasolini lo bollò: «teppista borghese frequentatore di Grand Hotel». La poesia di Montale diventa monologica, cripto-monologica. Ci si confessa? A chi ci si confessa? – Se si assume la «confessione» come forma poetica dispositiva, come fa Montale, si va a finire dritti nel Foro interiore, e l’elegia rammemorativa ne è la conseguenza in sede poetica. Un risultato conservatore perché prolunga il monolinguismo fino ai suoi esiti ultimi proprio mentre il tardo Zanzotto giunge alla schizoafasia dei suoi ultimi libri degli anni novanta.

In un certo senso, tutta la poesia italiana post-Satura è anche post-montaliana (Zanzotto da questo punto di vista è un epifenomeno), appunto perché sceglie di andare, inconsapevolmente, in discesa, verso una modernizzazione del monolinguismo. A furia di derubricare la poiesis si giunge al monolinguismo del minimalismo romano-lombardo, che pure era qualcosa di decente alle origini.
Oggi siamo arrivati, dopo lunghi decenni di normologia monolinguistica appena modernizzata con innesti lessicali e di derubricazione della forma-poesia, alla poesia auto rappresentativa, in cui i poeti si auto celebrano, si auto rappresentano e si auto storicizzano.

La poetry kitchen che nasce intorno al 2020, e che prosegue la ricerca quinquennale di una nuova ontologia estetica, segna un cambio di paradigma. Ha fatto i conti con la poesia post-montaliana e l’ha messa da parte. Ha fatto i conti con le poetiche autocelebrative del tardo novecento e di questi due ultimi lustri. Non una discontinuità, di più, contrassegna una poesia che vuole misurarsi con le grandi problematiche del nostro tempo, fa una poesia in «salita», rinuncia e denuncia le scorciatoie, adotta un rapporto dialettico e conflittuale con la Storia e con il nuovo mondo globale, bandisce il ritorno all’elegia e all’io ipofisario, all’io rammemorante.
Dimenticavo la cosa più importante: la poetry kitchen annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro.

Giorgio Linguaglossa giacca bluGiorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

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gino-rago-in-grigioGino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa.. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.

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GRANDI COME QUARK E IN FONDO A CHI CHIEDERE UNA MANO? Francesco Paolo Intini, Sulla Metalessi, Giuseppe Gallo, Commenti Alfonso Cataldi, Jacopo Ricciardi, Giorgio Linguaglossa

Bulgakov Azazello Gif

Lo spazio della poesia kitchen di Francesco Paolo Intini è la «traccia» di una reciproca esclusione del significante e del significato. (g.l.)

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Francesco Paolo Intini

GRANDI COME QUARK E IN FONDO A CHI CHIEDERE UNA MANO?

L’ascensore a metà piano
Il libro di Tranströmer frantumato.

Una tempesta di spigole lascia la mano ad Einstein.
Scoglio di Pitcairn nel lavandino.

Che succede al trend di elettroni?
Uno tzunami risponde dal frigo: -Quel mazzolin…

La colla ha spento i motori
Il mar Baltico solca la stiva.

Avvistammo renne e caprioli
L’afa sciolse le pagine del pack

Vennero delle onde.
In fondo ad ognuna un volto di Baccante.

-Funziona anche così!
Gridò l’Oceano tra assi paralleli.

Uscì la Trinidad e di seguito Magellano.
Nessuna freccia nella gola.

Dalle carene agli Urali saltellano brokers.
Elettroni liberi di chiudere i mercati.

Dosi solitarie vendevano aghi
Le vene scorrevano tranquille.

Gli ascensori ricominciarono a trasportare sedie
La Siberia appostò tigri in credenza

L’Himalaya mise a posto la dentiera.

Ugo Tognazzi
© Silvio Durante / LaPresse Archivio Storico Torino 28-02-1954 Ugo Tognazzi È di scena al teatro Alfieri la compagnia di rivista di Ugo Tognazzi ed Elena Giusti che sta riscuotendo un meritato successo grazie al mattatore Tognazzi e alla sua spalla Raimondo Vianello. Nella foto: UGO TOGNAZZI nel suo camerino NEG- 55364

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«Porre all’inizio una scrittura e una traccia, significa mettere l’accento su questa esperienza originale [cioè:che l’esperienza originale sia sempre già presa in una piega, che la presenza sia ineludibilmente sempre già presa in un significare], ma non certo superarla. […] La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce, il venire in luce del suo fondamento negativo e non certo il suo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l’eredità metafisica della semiologia moderna, ciò che resta per noi ancora impossibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza,fosse soltanto una pura e indivisa stazione nell’aperto. Quel che possiamo fare è riconoscere l’originaria situazione del linguaggio, questo “plesso di differenze eternamente negative”,  nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l’accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L’algoritmo S/s deve perciò ridursi alla sola barriera: /; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere solo la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni, il cui modello abbiamo cercato di delineare nell’ainos della Sfinge, nella malinconica profondità dell’emblema, nella Verleugnung del feticista.»

(Giorgio Agamben Stanze, pp. 187-188)

Alfonso Cataldi

“Giorgio Linguaglossa ha scritto nel 2016 dei versi, che hanno per la prima volta in modo inequivocabile in Italia forato il velo di separazione tra spazio sacro e profano della poesia. Hanno cioè mostrato che non c’è più fuori e dentro, e che il poeta deve prendersi il carico di ridare alla parola la sua sonorità espressiva reale (e non sopra o sotto il reale), disorientata da decenni di avanguardie, post avanguardie, retro avanguardie:

Evgenja Arbugaeva. La sua casa in Siberia.
La porta dell’izba è aperta sulla neve.
La Torre costruita con i prosperi e l’orologio da tasca.
Traffic of Sakurabana.
Steven Grieco-Rathgeb è là.”

Cosa succede qui? Il poeta non parla degli amici, non li cita dentro i suoi versi, ma permette che essi si trovino dentro i versi. Non parla di loro, ma li lascia invece emergere. Io ad esempio ricordavo che la poesia parlasse di fiori di ciliegio trascinati dal vento, sulla strada: rileggendola capisco che quel dato era reale, esistente nella fenditura tra “Traffic of Sakurabana” e “Steven Grieco è là”.
Va sottolineato che questo processo non solo non è semplice da realizzare, ma che “va fatto accadere”, perché significa ascoltare il reale, farlo emergere, togliersi dalla soglia per permettere alla poesia di entrare nel reale – e al reale di entrare nella poesia.” (appunto di  Chiara Catapano, 2018)

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Inediti di Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, La poesia kitchen pone con urgenza il problema di un «nuovo rapporto con le «cose», e per farlo assegna altri nomi alle cose, Commenti di Jacopo Ricciardi, Giorgio Linguaglossa, I resti diroccati di quello che un tempo fu il glorioso Totem del Padre, l’Edipo oggi caduto in disuso

Gif Bergman Persona

[La società post-Edipica delle società post-democratiche de-politicizzate di oggi si esprime attraverso i simulacri. Il simulacro è il falso che si presenta sulla scena come un falso, paradossalmente autentico, cioè senza misteri, senza doppiezza e senza reticenze, in quanto doppio, triplo, quadruplo etc. di un originale andato perduto o inesistente… Il desiderio verso la «Cosa» è il desiderio della nudità, desiderio della Madre, ed è marcato dalla negatività: può sussistere solo come privazione, come ombra; è oscuro, opaco, irriducibile, inarrivabile, irraggiungibile, impalpabile, impossibile, ed è definito solo dal suo opposto, dalla non nudità]

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Un inedito di Mario M. Gabriele

da Horcrux

L’Ostrabismo Cara
era quanto di più amasse Cesare Viviani,
tra plurisensi verbali del 63
in una stagione di fuoriusciti dai parcheggi ausiliari
sebbene facesse da guida una rondinella dal cielo
che non trovava un nido nel percorso
se non un pince-sans-rire di balbettio psicogeno.

Un giorno ce ne andremo
girando la manopola di un’altra radio.

Ti ritrovi, ai confini della realtà,
a immaginare l’androide
come il nuovo ceppo organico
con Cindi Mayweather.

Natale se n’è andato spegnendo le luminarie
e gli abeti senza primavere.

Altri sub-plots li racconteremo
da Gennaio a Carnevale.

Dog annusa le scarpine da jogging
con profumo di foglie himalayane.

Oggi resteremo con gli avanzi nella dispensa,
senza cablogrammi e storytelling.

Krus ha concluso l’epistolario
con il titolo: Off Limits.

Due, tre, quattro mesi, forse anche un anno
per cambiare la sinapsi.

Se vai al super game controlla il fornello,
gli OROGEL nel frigo, se entra nelle stanze
il profumo del barbecue del Signor Elliott.

Sing Tao Thing ci ha mandato 10 haiku,
brevi come le nostre ore.

Seguiamo Molly con il suo vestito stagionale.
Non è molto, ma aiuta a superare i giorni della Memoria.

Penso che questa poesia di Mario Gabriele possa essere annoverata tra le risposte più esaustive al questito da me proposto nel commento che precede [Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?].
Gabriele parte da L’ostrabismo cara, libro di esordio di Cesare Viviani pubblicato da Feltrinelli nel 1973, e giunge ai giorni nostri, noi che viviamo nella democrazia più strampalata d’Europa, la più de-politicizzata, la più deterritorializzata dai populismi in voga.
Cosa ne posso dire? Mi trovo in difficoltà perché non c’è un commento che si possa fare a questo tipo di poesia: poesia buffet?, poesia fetish?, poetry kitchen?, kitchen e basta?, poesia da soggiorno?, poesia ad orologeria?, poesia da post-strabismo?, poesia daltonica?… non saprei come definirla, poesia pop?, poesia pop-corn?, poesia della linea giullaresca?, o post-giullare?, poesia ridanciana?, poesia della ipoverità di massa? poesia della Società Signorile di massa?, poesia carnevalesca? Non saprei proprio, è questo il punto. Forse, azzardo, trattasi di poesia-flipper; ma no, forse mi sbaglio, è la poesia di un nuovo Palazzeschi, quello de L’incendiario (1910), la poesia più rivoluzionaria del novecento che è passata sotto sordina e sottaceto ed è stata rubricata come poesia ironico-giocosa.
Forse oggi l’unico modo di scrivere poesia è questo di Gabriele di mischiare i registri dei frantumi e dei frammenti in un pluriregistro stilistico e lessicale irto di frantumi scagliosi e irti.
E lasciamolo divertire!

È che sono le cose stesse che urgono e spingono altre cose in una certa direzione. Basta ascoltare le cose. Come non avvertire il processo di feticizzazione delle parole che si è spinto tanto oltre da sovrapporre alla realtà stessa della merce in quanto tale una copia di quella stessa merce, un sosia di quelle stesse persone: un logo, un label, un marchio che richiami la merce, un nomen che richiami anamnesticamente la persona. Facendo della poiesis il luogo stesso dell’aleatorio e del non-nominabile. Il mondo è diventato non più nominabile. Baudelaire assegna all’arte il compito di appropriarsi dell’irrealtà e, come il dandy, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose che vada oltre il valore d’uso e il valore di scambio. Portando fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé, il dandy e la poesia moderna oppongono all’accumulazione capitalistica del valore di scambio e al godimento del valore d’uso del marxismo «la possibilità di un nuovo rapporto con le cose: l’appropriazione dell’irrealtà».1
La poesia kitchen pone con urgenza il problema di un «nuovo rapporto con le cose», e per farlo assegna altri nomi alle cose. Così, semplicemente, la poesia torna a nominare il mondo.

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Stanza n. 57, Il saluto del Signor K. per il santo Natale di Giorgio Linguaglossa, Video e voci recitanti di Diego De Nadai e dell’Autore, Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 57

Il saluto del Signor K. per il santo Natale

«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…

Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più

Possibile trovarsi, dove forse non c’è neanche bisogno di perdersi
o di cercare le scaturigini di alcunché.

Le parole, egregio Signor Linguaglossa, in questo luogo
sono del tutto fuori posto.

Mi perdoni questa ovvietà – disse il Signor K. –
ma lei, mi dicono, è un poeta!

Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole
nelle trappole della geometria euclidea.

Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni, i triangoli ottusi,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi…

Tutto ciò che avete amato,
cari Gino Rago e Linguaglossa, Gabriele e Lucio Mayoor Tosi
e compagnia varia.
E quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…».

Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac.
Arietta di Offenbach.
Sorrise.
La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano.
«Professione?»,
«Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose il cialtrone.
Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto.
Cravatta blu a pallini gialli.
Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda.
«Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi…
No, no, non parlo di voi, caro amico…
Parlo d’altro…».

«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.
Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi

nel suo stesso negarsi.
Che vuole, un gioco di prestigio!
Op! Op!, carta di qua, carta di là, dove sta?, di qua o di là?

Sì, mi attendo da Voi una risposta», ingiunse il cipiglio.
«Una sola, però,

intorno alla decoincisione dell’essere dal nulla.
E sì, anche intorno all’Assoluto.

Per questo vi do il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà,
al numero civico 777, piano terzo, scala D,
senza ascensore,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

Stanza n. 23 – la raccolta inedita di Giorgio Linguaglossa è un Labirinto di stanze all’interno delle quali si accede mediante delle aperture e delle chiusure personificate da porte. Le porte sono tutte chiuse. Ciò che avviene nelle Stanze sono degli eventi. La stanza non è altro che uno spazio aperto da una porta e chiuso da una porta, la porta-adito e la porta-serramento. È all’interno delle molte stanze del Labirinto che si svolge il confronto, serrato e drammatico, tra il Signor K. e Cogito. I due agonisti sono l’espressione della civiltà occidentale nel momento della sua massima crisi. È banale dirlo: alle stanze si accede attraverso una porta, al di là di essa si apre uno spazio chiuso, lo spazio della domesticità dove accade l’esistenza. In ogni stanza di questo Labirinto si svolge un evento, accade una esperienza che ha per protagonisti Cogito, il filosofo, per estensione l’uomo pensante, e il Signor K., l’Altro,  il convenuto, l’inviato nel mondo degli uomini con il preciso compito di introdurre in esso il caos, il principio di dissoluzione di tutte le cose. Il confronto è serrato, dialettico, senza esclusione di colpi, dei due uno soltanto potrà cantare vittoria. Ma, verosimilmente, se vittoria ci sarà, sarà una vittoria effimera, una vittoria di Pirro.
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Caro Francesco Paolo Intini,

sono propenso a pensare che tutta la nuova fenomenologia del poetico è, in certo modo, il prodotto del «nuovo mondo»,1 conglomerato di citazioni senza virgolette (non c’è bisogno che sia necessariamente virgolettato) di altri poeti dell’età del modernismo e dell’umanesimo, auto citazioni, ma anche montaggio, compostaggio incessante di tutto ciò che può essere montato, compostato; costellazione di appuntamenti segreti, ricordi, rammendi, parole trovate, perdute, ritrovate, parole dimenticate, fotogrammi, lapsus e, perché no, delle nostre ossessioni, delle nostre fobie. Una «pallottola» che rimbalza qua e là e che produce una sequenza impensabile di disastri, un commissario inconcludente, un misterioso «Ufficio di Informazioni Riservate» di Gino Rago che interviene ad libitum e scombuglia il corso degli eventi, un Faust che colloquia con Mefistofele, la vita come «Registro di bordo» (Mario Gabriele). Ci guida una idea di poesia ma non possediamo alcuna poesia. Ci guida una idea di mondo ma non possediamo alcun mondo. La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.
Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 Cfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009 «il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse». Continua a leggere

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Prova di una Ermeneutica archeologica, Lettura della poesia di Anna Ventura del 1990 da Le case di terra, La poesia verso un mondo privo di metafisica, di Giorgio Linguaglossa, La poetry kitchen

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Giorgio Linguaglossa

Prova di una Ermeneutica «archeologica»

Una poesia di Anna Ventura, tratta dalla raccolta Le case di terra (1990).

La parola alle cose

Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
È estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
-oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.

Sono trascorsi ben 31 anni dalla pubblicazione di questa poesia. Un tempo immenso se consideriamo che la rivoluzione telematica e globale che ha investito il mondo è tale che equivale, con il senno di poi, almeno a 300 anni. Anna Ventura viene dopo il decennio de «La parola innamorata», del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese, un vero e proprio diluvio di luoghi comunicazionali e posiziocentrismi. La Ventura si pone la seguente parola d’ordine: restituiamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose», lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari. Nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia dei pasolinismi alla Gianni D’Elia (poesia di seconda e terza mano), non c’è traccia della poesia pseudo orfica (di seconda e terza mano: Alessandro Ceni, Giuseppe Conte e coetanei), non c’è più traccia del post-sperimentalismo auto referenziale di un Edoardo Cacciatore e di Jolanda Insana e dei loro innumerevoli imitatori, qui si va alla radice: restituire la parola alle cose. Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che i poeti citati e i loro epigoni (di seconda e terza mano) hanno fatto e contraffatto: uno sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale contro valore e condivisore di quelle scritture nefaste.

Negli anni novanta si compie quel processo di trasformazione della «piccola borghesia», da categoria marxista a non-categoria; voglio dire che la piccola borghesia scompare dal telescopio della ragione e viene a far parte della «invisibilità» complessiva delle tradizionali classi storiche (borghesia, alta borghesia, piccola e media borghesia, proletariato, sotto proletariato); la nuova piccola borghesia che sortirà fuori dopo il decennio degli anni novanta sarà un ceto medio mediatizzato male acculturato che sarà preda di stilnovismi, di narcisismi, di sciovinismi, di sovranismi e populismi che avranno il loro apice con il governo giallo-verde Lega 5Stelle del governo Conte Uno (2018-2019).
Un succedaneo di questa situazione sarà il referente delle scritture poetiche destinate all’intrattenimento massmediatizzato di quella classe-non-classe che nel corso del tardo novecento e negli anni Dieci e Venti diventa una massa fluida e floreale, sarà il non-referente di un ceto medio mediatizzato «invisibile», una sorta di balena bianca capace di tutto deglutire e nulla digerire. Dopo il Craxismo arriva la debole sinistra post-comunista del Partito Democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe ora diventa un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo e importante per le sorti del capitale finanziario.

La poesia del tardo Novecento e di questi ultimi anni come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano, qua e là, delle prese di posizione da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale, pensiamo a Mario Lunetta, all’Anonimo romano, a Maria Rosaria Madonna, a Giorgia Stecher. La poesia di Anna Ventura è una di queste: la poetessa di Montesilvano salta, istintivamente, il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista del tempo di Giudici che nel frattempo è scomparsa, e si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto, che non c’è e che non si sa se mai ci sarà, ad un interlocutore «invisibile». L’odierno gusto maggioritario del poetico parametrato sul panottico digitale ci stimola all’uso di dispositivi di auto monitoraggio, ad essere accoglienti e obbedienti; oggi non c’è più una poesia che possa dirsi maggioritaria ma un modello diffuso che invita a pratiche scrittorie condivise, presentabili e comunicanti. A una scrittura servizievole.

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza: il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi, ma
non avevamo sconfitta la paura.

Per inquadrare storicamente la poetry kitchen nell’ambito del conflitto tra i generi poetici del secondo novecento, ripropongo di seguito alcune riflessioni di Giorgio Agamben e mie.

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi non solo un errore di prospettiva ma una manovra di depistaggio. Se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco e Palazzeschi con L’incendiario (1910) il poeta che fa saltare la continiana formula: Linea innica e Linea elegiaca.* Nel secondo novecento quella formula viene a cadere e deve essere sostituita da un triangolo scaleno che vede ai suoi vertici il terzo escluso: la linea postmodernistica che si evolverà nella Linea del discorso poetico che viene a situarsi a cavallo tra la fine del novecento e questi ultimi due decenni.

* Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

Il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi «politici» a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico (EdiLet. 2011), a cui faranno seguito alcuni approfondimenti sulla nuova ontologia estetica e la poetry kitchen. A mio parere la poesia del secondo Novecento e, di conseguenza anche del primo, va vista rovesciando la prospettiva: la progressiva trasformazione della lirica in discorso poetico, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

L’identificazione di una Linea dominante è un atto politico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come «il più grande poeta dopo Montale». Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne La beltà del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria; avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del secondo Novecento.

Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

La poesia verso un mondo privo di metafisica

Il gesto poetico di Letizia Leone ha una certa analogia con il gesto pittorico di Lucio Fontana. Il pittore voleva sondare il fondo dello sfondo, voleva andare a fondo, tanto a fondo da snidare ciò che c’è non solo nel fondo ma oltre il fondo, dietro il fondale del fondo. Dietro il fondale della metafisica che di quel fondo costituisce la struttura.
Letizia Leone vuole anche lei andare oltre e dietro il «fondo», sfondare il fondo, di qui il suo gesto poetico.

Ma, che cos’è questo andare al fondo del «fondo»? È nient’altro che andare Dopo e Oltre la metafisica e i suoi linguaggi per scoprire un’altra metafisica, o meglio, un mondo (poetico e linguistico) privo di metafisica… o meglio, che abbia i connotati di una nuova metafisica, quella dell’età della tecnica dispiegata.
La strada della poesia kitchen è segnata: andare al fondo del «fondo» per sbucare al di là del «fondo». Per far questo occorre liberarsi di tutti i luoghi retorici della poesia della tradizione, non soltanto saltando la dicotomia: Linea innica e Linea elegiaca, ma per progredire nella sola strada che si dà alla poesia occidentale: andare verso un discorso poetico che rappresenti la complessità del mondo privo di metafisica, il mondo della tecnica dispiegata. Se si pone attenzione agli strumenti retorici della poesia mia e di quella anche di altri compagni di strada della poetry kitchen, ci si accorgerà che viene derubricato l’intero impianto categoriale ed ermeneutico che consentiva la lettura della poesia della antica ontologia poetica.

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

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Poetry kitchen, Francesco Paolo Intini, Stralci di Giorgio Linguaglossa, Giorgio Agamben

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi, Falce e martello, 2020

Falce e martello, due icone esposte come in un museo e tra loro lo iato del muro. Un tempo questi oggetti significavano molto, per tanti una ragione di vita . Se ne lasciavi uno in un universo, conservava memoria dell’altro anche se collocato in una galassia, a distanza e tempi infiniti. Si alimentavano da idee come rivoluzione, giustizia, comunismo, uguaglianza, solidarietà, rivincita sociale che si elevavano sulla storia come cime dell’Himalaya e facevano tremare il nemico. Al loro allontanamento corrisponde dunque una perdita di memoria delle idee fondanti che ora si aggirano nella notte dei vascelli vuoti. Sullo sfondo il cielo rosso del nostro inferno. Una costante come quella gravitazionale.
(F.P.I.)

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Francesco Paolo Intini

L’ESTATE, LUNGO LA STRADA

Parla l’ulivo.
Ci sono rami che sanno cosa è successo.

Un fumo ci colse in mare aperto
cenere bianca e Regina scura in coperta.

Nike all’improvviso e lignina nelle vene.

Lo scacco è stato impreciso.
Le cose hanno voce insieme.

Charlie recita per Elisabetta:
Nessuno è scontento questa notte.

Riccardo dirige le contorsioni di cellulosa.
Formiche applaudono Merna sul toro.

Fiorisce l’io nella fossa
odore di pesce morto.

Gocciolava ossigeno e tu correvi sui prati dissuadendo.
Peccato non aver incontrato gli occhi di quei giorni.

Lasciare in mano all’Elio la città

La distanza si rifocillò in bicchieri di Prigogine
Bivaccò il metro ai piedi del Municipio

la matematica avrebbe fatto correre
I teoremi sui monopattini.

Oh madame Recamier! L’unica parigina senza palmare.
Toccherà dividere Ghigliottina da Luigi Capeto

La schiera dei poeti suicidi
sagomata in bignè.

Se fioriva il ciliegio nei versi
Ora è marmellata da spalmare su burro.

E dunque nessun pensiero nella chioma.
lo scacco matto all’inizio della partita.

Si abbrevia la visuale del camaleonte.

Il museo sogna un colpo d’angolo di trecento sessanta
lo iato del muro si fa genoma.

Il rimmel è versato, la sciagura dei tempi morti.
Silenzi imbottiti di euro da cui si allontana il trucco.

Ruotava un girasole sul lungomare
jogging del poeta benedetto da Dio.

il vincitore saprà dirci due parole sante
E non questa brodazza di Marenco.

Seguirà l’arrosto di pollo
Zuppa di suola e grizzly dopo la torta.

Non c’è un grande spettacolo
La pellicola filma il suo pubblico.

Vedemmo pascere sotto lo stesso albero
termodinamica e miracolo.

La buccia aderì al frutto.
Anche il morso ripensò il piacere nella bocca

Ricoprire di polpa i semi.
Rimediare allo strappo aggrappandosi allo stelo.

-Attraversai il Louvre perché era vuoto
E c’erano atomi di oro che non potevo penetrare.

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Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

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La nuova poiesis, Poesie di Lucio Mayoor Tosi, Marina Petrillo, Fare esperienza del noto, Abitare il poetico, di Giorgio Linguaglossa, Stralci di Giorgio Agamben da Il linguaggio e la morte, Giorgio Ortona, Catania, olio su tela

Giorgio Ortona Catania, 2017 24x30 cm

Giorgio Ortona, Catania, olio su tela, 24×30 cm 2017

 In un certo senso anche Giorgio Ortona si occupa del noto, di ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: i palazzi, le vie delle nostre città, in particolare la Roma della speculazione edilizia, gli abitanti delle città, sospesi tra il non-essere e il nulla, ma lo fa trattando questa «materia» come se fosse una materia di sogno, con colori sbiaditi e sbilenchi, con foschie che si aggrumano e si disperdono. È proprio questo quello che intendo quando scrivo «abitare il poetico». Il nostro modo di abitare il poetico, di vivere poeticamente è raffigurare le cose per come sono… una via qualsiasi di qualunque città, una vecchia Panda che sfrigola nel caldo afoso di una strada. Questo significa abitare il poetico.
(g.l.)

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Fare esperienza del noto. Abitare il poetico.

caro Lucio Mayoor Tosi,

scrivere una poesia non è far mostra di quanto uno è bravo ma, essenzialmente, un fare esperienza di linguaggio.

L’esperienza di linguaggio che ho compiuto in questa ultima Storia italiana del Covid19, non ha più la forma di un viaggio e di un racconto (da Omero a Derek Walcott) che, separandosi dalla propria dimora abituale e attraversando il caleidoscopio dell’essere e il terrore del nulla, fa ritorno là dov’era già stato in origine, come accade ed è accaduto nella metafisica dell’Occidente, piuttosto qui la parola fa ritorno ad un luogo che non è mai stato, ovvero, ad un luogo di tutti, un luogo-non-luogo in cui ci siamo tutti da sempre, che non fa più questione e non fa più esperienza, un luogo che non è stato mai lasciato ma che ho trovato già fatto e compiuto ed è qui tra noi da sempre, un luogo della in-differenza.

Tutto ciò assume la semplice figura di un’abitudine, di un abitare nel noto, di un prendere atto del noto e del notorio, di una in-differenza dove non si può fare alcuna esperienza di ciò che già sappiamo.

Pensare il negativum (la Voce) in quanto tale senza rimarcarne il fondamento e per, eticamente, semplicemente, abitualmente oltrepassare l’essere e guadagnare l’avere, non più presupporre la finzione di un inizio, di uno svolgimento e la fine di un qualcosa che definisca e richiami a un qualche ritorno.

Qui, mi trovo in consonanza con il pensiero di Agamben: quell’esperienza «abissale», sintagma tipicamente heideggeriano, e che in Heidegger ha a che fare con l’esperienza radicale della morte, dunque dell’Essere, viene, da Agamben, radicalmente ribaltata: non solo essa non ha più a che fare con la chiamata della morte e con l’Essere, ma – di più – da esperienza «abissale» essa, come esperienza del «semplice» svanire, deve farsi abitudine, esperienza abituale, abitazione nel noto, etica, abitazione del poetico.

(Giorgio Linguaglossa)

 

Giorgio Ortona Arancione, indaco e celeste, 2020, olio su tela, 63,4 x 59,4 cm

giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm

Lucio Mayoor Tosi

La strada è in vetrina. Qualcuno passa, qualcuno c’era.
Verità dura un attimo. Da che ricordo, anche meno.

E io sono crudele. Uccido a piacimento dove mancano parole.
Confido che nessuno lo verrà a sapere.

Il puro sguardo piange e non piange.

Sai bene che Lucy ormai vive solo di poesia, e solo
con Mario M. Gabriele. Non sa dove altrimenti

nascondere gli optional del mestiere, se in cofanetto
la ceralacca dei baci, oppure nel sottosuolo.

Al giudizio universale manca sempre una postilla.

Marina Petrillo

Non tacque l’ultimo senso e affidò il tramite
all’indulgere di silenziosi Astri.

Remoto atto creante in riverbero
straniato ad infinito, algoritmo di Sé stesso

in sibilante ascesa, grembo saturo di onniscienza
velata di solitudini albescenti.

Si diede orma dal rilucente
in forma nulla all’eterno respiro sino a meditare
la capienza in vasi contenenti l’Universo

ed esplodere Tutto in Amore subitaneo
all’urgente multiplo della perfezione.

In inciampo non avverso al divino spense sorriso
unico, il sole e, ovvio alla luce, vegetò la Creatura Prima.

Immemore di essere, reminiscente al calco infuso a conoscenza
Chimera effimera nel vuoto della caduta incarnata a suo precipizio.

giorgio ortona Letizia Leone,_2012,_olio_su_tavola,_59,8_x_35,6_cm

giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm

Giorgio Agamben

Stralci da Il linguaggio e la morte

Come dobbiamo pensare l’Ereignis nella prospettiva del nostro seminario? La coappartenenza e l’intreccio di essere e tempo sono stati qui posti in luce come l’aver-luogo del linguaggio nel tempo, cioè come Voce. Nell’Ereignis, potremmo allora dire, Heidegger tenta di pensare la Voce in se stessa, non più semplicemente come mera struttura logico-differenziale e come relazione puramente negativa di essere e tempo, ma come ciò che dà e accorda essere e tempo.
Egli tenta, cioè, di pensare la Voce assolta dalla negatività, la Voce assoluta. La parola Ereignis, nell’accezione heideggeriana, è semanticamente prossima alla parola Assoluto: in essa occorre, infatti, intendere lo eignen, il proprio, come in Assoluto il sé e il suo.
Ereignis potrebbe valere, in questo senso, quando as-sue-fazione, as-so-luzione. La reciproca appropriazione di essere e tempo che ha luogonell’
Ereignis è, anche, una reciproca assoluzione, che li scioglie da ogni relatività e mostra la loro relazione come la relazione assoluta, la relazione di tutte le relazioni. […] Per questo Heidegger può scrivere che, nell’Ereignis, egli cerca di pensare “l’essere senza riguardo all’essente” – cioè, nei termini del nostro seminario,l’aver-luogo del linguaggio senza riguardo a ciò che, in questo aver-luogo, è detto, formulato in proposizioni.

(G. Agamben, Il linguaggio e la morte, p.127)

La domanda che dobbiamo porre a questo punto è: è possibile una tale assoluzione e assuefazione della Voce? È possibile assolvere la Voce dalla sia costitutiva negatività, pensare la Voce assolutamente? Tutto si decide dalla risposta che diamo a queste domande. Quel che, tuttavia, possiamo già anticipare, è che l’ Ereignis non sembra essersi integralmente sciolto dalla negatività e dall’indicibile. “Noi non possiamo mai rappresentarci l’Ereignis”; “l’Ereignis non è né si dà”; esso è nominabile solo come un pronome, come l’ Esso (Es) o come il Quello (Jenes) “che ha destinato le diverse figure dell’essere epocale”, ma che, in se stesso, è “non storico, meglio: senza destino”. Anche qui, come nell’Assoluto hegeliano, nel punto in cui, nell’Ereignis, il destinante si rivela come il proprio, la storia dell’essere giunge alla fine […] e, al pensiero, non resta letteralmente null’altro da dire e da pensare che questa “assuefazione”. Ma questa è, nella sua essenza, una espropriazione (Enteignis) e un nascondimento (Verbegung) che, ora, non si nasconde più, non è più celato in figure storiche e in parole, ma si mostra come tale: puro destinar-sé senza destino, puro obliar-sé dell’inizio. Nell’Ereignis, possiamo dire, la Voce mostra sé come ciò che, restando non detto e insignificato in ogni parola e in ogni tramandamento storico,destina l’uomo alla storia e alla significazione, come il tramandamento indicibile che fonda ogni tradizione e ogni parola umana.
Solo in questo modo la metafisica può pensare l’ethos, la dimora abituale dell’uomo.
(G. Agamben, op. cit. p.128)

In Heidegger, la figura dell’umanità as-sue-fatta, cioè post-storica, resta ambigua. Da una parte, infatti, che nell’Ereignis avvenga lo stesso nascondimento dell’essere, ma non più celato in una figura epocale e, quindi, senza più destinazione storica, può soltanto significare, se ben si riflette, che l’essere è, ora, definitivamente obliterato e che la sua storia, come Heidegger ripete, è finita. Dall’altra, Heidegger scrive che vi sono ancora, nell’Ereignis, possibilità di disvelamento che il pensiero non può esaurire e, quindi, ancora destinazioni storiche; inoltre l’uomo sembra qui avere ancora, in verità, la figura del mortale parlante. L’Ereignis è, anzi, proprio ilmovimento che porta il linguaggio come Sage alla parola umana. In questo senso, “ogni linguaggio autentico (eigentlich) – in quanto è, attraverso il movimento della Sage, assegnato all’uomo – è destinato (geschickt) e, perciò, destinale (geschicklich)”. Il linguaggio umano, pur non essendo più qui legato ad alcuna natura, resta destinato e storico.
(p. 130)

Poiché tanto l’Assoluto che l’ Ereignis sono orientati verso un esser stato, un Gewesen, di cui rappresentano la consumazione, i lineamenti di una umanità veramente assolta, as-sue-fatta – cioè integralmente senza destino – restano, in entrambi, nell’ombra.
(p. 130)

Assuefazione, assoluzione, ombra, per Agamben sono parole semanticamente contigue.  L’essere si trasduce e traduce allora nell’avere, nell’habitus, nella veste modale: «la stessa prassi sociale, la stessa parola umana divenute trasparenti a se stesse».
(p. 133).

Per questo, se volessimo caratterizzare l’orizzonte del seminario rispetto all’esser stato in Hegel e in Heidegger, potremmo dire che il pensiero si orienta qui piuttosto in direzione di un mai stato. Il seminario pensa, cioè, a partire dalla definitiva cancellazione della Voce, pensa la Voce come mai stata, non pensa più la Voce, il tramandamento indicibile. Il suo luogo è l’ethos, la dimora in-fantile – cioè senza volontà e senza Voce – dell’uomo nel linguaggio. Questa dimora – la figura di una storia e di una parola universali e mai state, che non si destinano, perciò, più in un tramandamento e in una grammatica – è ciò che resta, qui, da pensare.
(pp. 130-131)

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Estratti di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte,  Poetry kitchen, Sugli stagni Patriarsci, di Giorgio Linguaglossa, Dio non è mai nato -, disse Azazello, Poesia di Francesco Paolo Intini, Come tu ora parli, questo è l’estetica

Bulgakov Behemoth

Illustrazione del romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov

Esempi di Poetry kitchen

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa è nato ad Istanbul nel 1949 e vive a Roma. Ha diretto la rivista di letteratura “Poiesis” (1993-2015). Ha pubblicato i seguenti libri di poesia, Uccelli (1992), Paradiso (2000), La Belligeranza del Tramonto (2006), La filosofia del tè (2013), Il tedio di Dio (2018). Per la critica militante si segnalano, Dopo il Novecento (2013), Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica (2018). Ha curato le antologie Il rumore delle parole (2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016).

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Sugli stagni Patriarsci

«Dio non è mai nato” », disse Azazello.
«Questi umani sono davvero degli imbecilli se hanno potuto credere in una tale panzana», appoggiò il mago Woland.
«Dopotutto, gli abbiamo concesso il libero arbitrio, no?», interloquì il critico letterario Bezdomnyj.
«È stata quella la fregatura», caricò il mago Woland.
«Non ce ne sbarazzeremo facilmente di questa inutile buffoneria», aggiunse il gatto Azazello il quale nel mentre si asciugò il baffo destro.
«Dovremmo organizzare un grande Circo e metterci dentro tutti gli attori di questo lungo metraggio»,
disse Bezdomnyj, il quale però aveva sete; cambiò direzione e si diresse verso gli stagni Patriarsci.

Giunti che furono presso gli stagni Patriarsci, i tre inquilini del mondo si diressero verso un chiosco che, in alto, sventolava una targa con la falce e il martello dipinta in rosso.
Chiesero una bevanda.
«Avete del Campari?».
«No, caro compagno, abbiamo soltanto della risciacquatura di tubi,
una aranciata della Lega lombarda».
«Possibilmente ghiacciata», ordinò il critico Bezdomnyj…

Fu a quel punto che spuntò fuori del chiosco Belfagor,
con una giacca a quadretti e una cravatta sgargiante
il quale affermò di aver chiuso nell’armadio una farfalla de l’Opéra de Paris di nome Onilde
vestita con delle bretelles e une pagne con una bottiglietta di acqua minerale
e un pappagallo del Madagascar appollaiato su un trespolo
per farle compagnia…

«Il libero arbitrio è stata una brillante idea, eh? », disse il pappagallo
interloquendo in modo sgraziato.
La cosa gettò nello sconforto il quartetto il quale arretrò verso il succo di albicocca
con della schiuma giallastra di sopra. Che ribolliva.
Fu Bezdomnyj a replicare dicendo che «il tema era fuori tema e il contesto fuori contesto»,
e che «Dio non c’è, non è mai nato».
E così liquidò la questione.
Però non del tutto, perché intervenne Azazello il quale apostrofò
così il pappagallo:
«La questione del MES salvastati è alquanto dibattuta,
ne riparleremo a settembre».

Nel frattempo, proprio davanti agli stagni Patriarsci
un tram bolscevico attraversò di corsa i binari
e la testa del critico letterario Berlioz rotolò davanti al bizzarro quartetto.
«E quindi non può essere morto chi non è mai nato»,
chiuse la questione Bezdomnyj…

Bulgakov Azazello

Azazello, illustrazione

Sulla Poetry kitchen

caro Lucio Mayoor Tosi,

la poetry kitchen assume in sé il più alto grado di consapevolezza della negatività. Oltre di essa la nuova poiesis non può andare, la nostra epoca ci sbarra la strada.

Scrive Agamben:
«Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica
[…]
La negatività entra nell’uomo perché l’uomo ha da essere questo aver-luogo, vuole cogliere l’evento di linguaggio» (Il linguaggio e la morte, p. 43). Subito dopo Agamben si chiede: «che cosa, nell’esperienza dell’evento di linguaggio, getta nella negatività?
[…] Com’è possibile che il discorso abbia luogo, si configuri, cioè, come qualcosa che possa essere indicato?» (ibidem).

Le domande inquietanti di Agamben gettano un fascio di luce sulla nuova poiesis, la decostruzione agambeniana giunge al suo compimento. La risposta è nell’individuazione della «voce» come dispositivo fondamentale, nel senso di dialettica del fondamento, della negatività, come «dimensione ontologica fondamentale»(p. 45), e dunque come luogo negativo (non-luogo) dell’aver luogo dell’onto-logia dell’Occidente.
In questo passo giungiamo all’ultimo lido del nichilismo della ontoteologia. Nel futuro soltanto un’altra ontoteologia non più fondata sulla negatività della «voce» potrà liberarci da questa condizione di negatività.

Aggiungo una postilla.
Stavo pensando che la dialettica del fondamento sulla quale si iscrive il linguaggio, non può soltanto essere pensata come fondamento negativo (fundamentum negativum), ma come un fondamento negativo che diventa «positivo» proprio in quanto assunzione del linguaggio su di sé della negatività. Il fondamento che va a fondo dà luogo alla positività del linguaggio che accetta di accogliere il negativum.
L’accettazione del negativum è questo lasciare andare a fondo il linguaggio della tradizione.

(Giorgio Linguaglossa)

Sì, lo penso anch’io. E si metteranno a ridere perché nulla ha importanza se non nell’immediato. D’altronde questo ci viene insegnato anche dalla privazione, lo stato di necessità, l’angoscia.

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

dal punto di vista del nostro fare poiesis la nostra poesia è il nostro linguaggio, la nostra estetica è la nostra poetica e la nostra poetica è la nostra politica.
Non si danno sfere separate, come credeva la metafisica del novecento, ma siamo tutti abitanti di una unica dimensione. «Come tu ora parli, questo è l’etica», scrive Agamben. «Come tu ora parli, questo è l’estetica», chioserei io.
Nella modalità in cui tu parli, in cui e per cui qui noi parliamo, il linguaggio ha positivamente luogo, qui è l’etica. E io direi che qui è anche la poetica. L’etica e la poetica sono, in quanto coincidono, nel ‘come’, nella modalità, e la modalità è, in quanto è nell’aver-luogo della parola.
In gioco, nell’etica come anche nella poetica che sono in qui in questione, sono tanto il linguaggio quanto l’ontologia: l’onto-logica.
Oggi soltanto attingendo una parola senza destino e senza identità, possiamo accedere alle regioni della poiesis.

Il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico) positivo senza negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si scopre internamente bifide e auto contraddittoria. Perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.

(Giorgio Linguaglossa)

Bulgakov decapitazione

decapitazione…

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

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Zone d’ombra non comprese nel prezzo

Svolazzano le mie molecole per l’aria
-previsione di Margherita Hack-

Capitassero i baffetti di Baruch
non quelli di Himmler.

Ne faremo un corvo –dicono le leggi fondamentali
E appena accalappiate le invieremo la ricevuta di ritorno

Oggi si va oltre i raggi gamma. Ombra non c’è
E nemmeno gravità.

Fossero almeno scritte sulla Gazzetta Ufficiale.

C’erano di mezzo le stragi e si affacciò l’herem
Bannato anche l’ Io pace all’anima sua.

(In ricordo dell’ herem pronunciato il 27 luglio 1656 contro Baruch Spinoza) 

Giorgio Agamben

La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tutta la riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2

Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo essere spaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nel luogo del linguaggio, il Dasein trova un’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3

… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4

1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76

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Covid garden 3(particolare)BASSACovid garden 2BASSAcaro Lucio,

il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico); non si dà il positivo senza il negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si rivela internamente bifide e auto contraddittoria: perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giorgio Agamben

Stralci

La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tuttala riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2

Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo esserespaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nelluogo del linguaggio, il Dasein trovaun’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3

… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4

1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden 3 acrilico, 50x70 cm, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, olio, 2020

Marie Laure Colasson

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Marie Laure (Milaure) Colasson  francese, nasce a Torino nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in gallerie di Parigi, Bruxelles, Roma, Buenos Aires. Sue opere si trovano nei musei di Giappone, Francia e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È redattrice della rivista lombradelleparole.wordpress.com

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Poetry kitchen

L’ultima poesia di Les choses de la vie
di Marie laure Colasson.

33.

un deux deux
si si non
ouvre la valise
deux un cinq
non non si
cri d’un oiseau
deux cinq sept
non si non
monte les escalier
trois deux deux
non si si
dans la valise une robe en dentelle rouge
deux un sept
si si non
enfile la robe en dentelle rouge
deux un deux
si non si
c’est ton tour
cinq un deux
si si si
mèfiez vous d’elle
trop belle envoutante
fermez les portes les fenêtres
c’est la mort la mort
ne sait pas compter
ne sait pas dire non
mais n’oublie pas del mettre du rouge à lèvres

*

uno due due
sì sì no
apri la valigia
due uno cinque
no no sì
grido di un uccello
due cinque sette
no sì no
sali le scale
tre due due
no sì sì
nella valigia una veste di pizzo rossa
due uno sette
sì sì no
infila la veste di pizzo rossa
due uno due
sì no sì
è il tuo turno
cinque uno due
sì sì sì
diffidate di lei
troppo bella invitante
chiudete le porte e le finestre
è la morte la morte
non sa contare
non sa dire no
ma non dimentica di mettersi il rossetto sulle labbra

La collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è una ubicazione privilegiata, un luogo abitabile? Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana di nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», comprendiamo appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale.
Il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia ed approdano sulla pagina bianca. Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile.

(Giorgio Linguaglossa)

Alfonso Cataldi

Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.
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Omaggio contemporaneo

La conversione stupisce sempre un metro più avanti
Il posto di blocco scompagina gli appunti.

L’ampio parcheggio ospita la povertà di un resoconto
matrimoni combinati omaggiano il bric-à-brac contemporaneo.

Akiva è caduto nel tranello dei ghost painter
dipinge a tempo pieno reprimende da pensionare

la tenda mancante alla finestra
i panni arrotolati in fondo al letto

Dettagli. S’incollano in due ore alla barba di rappresentanza.
Cosa twitterebbe l’Incompiuto?

Un necrologio che penzola distratto
e nessuno ha il coraggio di afferrare.

Giacomo ha cinque anni e non ha chiesto mai perché
In emergenza le risposte sono appese alle finestre dell’albergo.

 

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Marie Laure Colasson Notturno 4 collage 30x30 cm 2007

Marie Laure Colasson, Collage, Notturno 30×30 cm 2010

Scrive Giorgio Agamben:
«Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di dettato: dev’esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, perché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipolata da un soggetto. (Io – è chiaro – non posso ispirar-mi).»
La conoscenza è, per Adorno, questo perdersi à fond perdu negli oggetti. Noi scopriamo gli oggetti solo quando ci avviciniamo alla «cosa» che non vediamo, che non possiamo vedere. La poiesis ha sempre a che fare con la «cosa», non con gli «oggetti». Pur moltiplicando gli oggetti fino all’inverosimile, alla fin fine ci sfuggono, si confondono, si perdono in una nebulosa indistinta.
Oggi una «poetica degli oggetti» dovrebbe tenere presente questa problematica. Gli «oggetti» non sono delle cose che puoi convocare a piacimento sulla pagina bianca con un decreto prefettizio o con un Dpcm del Presidente del Consiglio.
.
Scrive Adorno in Teoria estetica:
«Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».
.
Marie Laure Colasson scrive:
“oublions les choses ne considérons que les rapports ”.
.
Il senso di questa poiesis lo si coglie se si pensa il «polittico» (in tale categoria può rientrare anche il collage) non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e di fluttuante ma come un essere poliedrico che solo il discorso poetico può intuire, percepire e cogliere. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura come un esercizio del trapezista che esegua equilibrismi sul trapezio, è questo il suo modo di appartenere alla «terra». Il «progetto poetico» (dichtende) della verità che si pone in opera, avviene in una condizione di sospensione in una altezza. La terra per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso (fondamento autoaprentesi), che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente». La produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1
L’orientamento della nuova poesia, della nuova pittura e del nuovo romanzo è antisoggettivistico. La «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il «polittico» come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità, compossibilità di contraddittorietà. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento. Scrive Walter Benjamin:
«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2
La forma-poesia prescelta dalla Colasson è il «polittico» di frammenti, analogamente anche nella sua pittura è il collegamento inferenziale delle forme dei colori, il luogo dove l’artista abita in modo spaesante i linguaggio figurativo. Nei suoi «polittici» la Colasson entra da subito nelle linee interne delle cose, illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo, il quale lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fonosimbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso un focus o una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico e figurativo cessa di essere un discorso identitario di una identità e diventa discorso plurale della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.
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1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
2 2 W. Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

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Lucio Mayoor Tosi

A Silvia.

Ora spunta Silvia Romano. Sì, quella rubata dall’Isis.
Ma sei ancora dei nostri?

Certo, cattolica e musulmana. Come tanti non credenti.

L’affare fatto si sgrana in profili di madame al super più
della cronaca in bocca al lupo. Travaglio di mimose.

Che dire del tutto in piena autonomia e stando attenti
nel condividere il polso dove scorre segreta verità

se non che viva in pace, anche lei tra i non morti
di questa parabola di spie? Vada dal parrucchiere,

si faccia le meches, scriva un bell’articolo su Repubblica,
una lettera d’amore anche. Che tanto la gente dimentica

e muore in fretta. Cartolina: non è bello qui,
dove adesso trema l’inchiostro disoccupato sul foglio?

Le margherite scoppiano di salute, i gatti si mangiano
la spesa in tanti bocconcini, e c’è pure il Parmigiano amico,

quello delle superstar che sgambettano su allevamenti
di bestiame al massacro; ed è questa l’opera d’arte,

il fine di tutti i mezzi; quello di tingersi nei colori
della propria tribù, la sacrosanta alleanza capitanata

da Covid-19, il nuovo server delle giurisprudenze
timbro in ceralacca su promesse di mantenimento

dello stato in battibecchi di foruncolosi graffitisti
anche loro in cerca di michelangiolesca meraviglia.

Eccetera. Poi sorride lo smalto sui denti.

Gino Rago

Storia di una pallottola n. 15

All’Ufficio Informazioni Riservate di Via Pietro Giordani
intercettano questa conversazione
«Psst! Ehi! Ahò! Oh! Hum! Ouf…Eh! Toh! Puah! Ahia! Ouch! Ellallà! Pffui! No!?
Boh! Sì! Beh!? Cacchio! Mizzica! Urca!? Ma va!! Che?!! Azz!!… Te possino!!
Ma no!?. Vabbé!?. Bravo!!
Ma sì…».

Ennio Flaiano litiga con il marziano di Roma.
È che le parole scappano, se la danno a gambe, finiscono
dietro un cespuglio di Circonvallazione Clodia dove un signore sta facendo pipì
e poi scappano fino al Pincio dove assistono al funerale
della Signora chiamata poesia.

Il critico letterario Giorgio Linguaglossa convoca d’urgenza
una conferenza stampa, dice:
«Adesso basta con questa storia della pallottola e del visconte dimezzato!
Mettiamo in una busta di plastica Italo Calvino
e tutta la letteratura
degli ultimi cinquanta anni!».

Che è che non è, una pallottola entra nell’appartamento di Marie Laure Colasson.
Litiga con un quadro attaccato alla parete.
Gli oggetti discutono.
Il manico della scopa litiga con lo scolapasta, la bottiglia di Bourbon
con il cavaturaccioli.
Le voci sono quelle della caffettiera, del manichino, del marziano di cartapesta,
del visconte dimezzato e dell’abat jour.
C’è il poeta di Milano che dirige il giornale “La Padania letteraria”
il quale sorseggia un crodino al bar.

Ennio Flaiano vuole girare un film con la sindaca di Roma, Virginia Raggi in giarrettiera,
Marcello Mastoianni, Anita Ekberg e la Santanchè in mutande.
C’è anche Lucio Mayoor Tosi con la mascherina tricolore!
Entra Ewa Tagher con lo scudiscio, dice che deve ammaestrare i poeti di Milano,
che sono peggio dei leoni del Circo Togni!

Madame Colasson invia un sms al Commissariato della Garbatella:
«Intervenite! Urgente!
Ci sono i marziani!
Stanno facendo a pezzi la poesia!».

 

Marie Laure Colasson

cari Gino Ragò, e Lucio Mayoor Tosi,

che dire di questa bella pagina dedicata a me? Innanzitutto: un Grazie all’Ombra.
Dirò che tutte queste ultime pitture le ho fatte durante il corso dell’epidemia di Covid19… quanto scrive Linguaglossa è vero, probabilmente dentro di me si è mosso qualcosa, si è presentato l’Estraneo al quale ho dato udienza. riconoscere l’Estraneo è compito della poesia e della pittura, l’inconoscibile… se dovessimo trattare solo di oggetti conosciuti, a che pro fare pittura o scrivere poesie?
Condivido pienamente il vostro pensiero. E’ vero che Alain Robbe Grillet e l’école du regard siano presenti nella mia mente in qualche cassetto, non lo nego, e che il “visivo” è di grande aiuto alla poesia, la quale però, non godendo del privilegio (che ha la pittura) di rifarsi alla immagine, deve ricreare l’immagine tramite le parole e le non-parole e i non-detti. Ma le parole sono equivalenti dei colori.

A Gino Rago suggerirei di porre attenzione particolare all’Ufficio Informazioni Riservate che il suo collega Linguaglossa dirige al V piano di via Pietro Giordani. Le cose non sono chiare. Tutto questo trambusto va elucidato, e questo è il compito per il quale il commissario Ingravallo è pagato mensilmente dallo Stato, Spero che il nuovo commissario, tale Montalbano, sia più efficiente e meno dispendioso del suo predecessore.

Teniamo a mente il detto di Adorno:
«Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».

Io penso che dobbiamo imparare a pensare e a ragionare così:
«oublions les choses ne considérons que les rapports ».

Come scrive Michel Onfray: «siamo seduti sull’orlo di un vulcano», e non lo sappiamo, o facciamo finta di non saperlo.
Un abbraccio vivissimo ad entrambi.

Giorgio Linguaglossa

Viviamo e operiamo in una dimensione fatta da un ibrido mix tra pseudo metafisica (occultismo, pseudo scientismo, movimenti no-vax, fake news, verità fai-da-te, verità personali, religiosità regionali, ontologie regionali e provinciali, psicopatologie profilattiche, massificazione delle psicopatologie, etc.) e giornalismo.
Sarò banale quando dico che è con questa dimensione ibrida che la poiesis di oggi deve fare i conti. Sarò banale ma sono costretto ad annettere fiducia al detto colassoniano:
«oublions les choses ne considérons que les rapports».

Il che è un diverso modo di vedere le cose. Dal punto di vista dei rapporti le cose vengono derubricate in secondo piano. I «rapporti» sono opera di «artificio», e l’«artificio» è un modo di essere della tecnica.

Un aneddoto.

Un giorno, tanti anni fa, andai a sentire le poesie recitate di un poeta il quale calzava scarpe da ginnastica e tshirt con giacca alla moda casual. Le sue poesie invece erano popolate di immagini di campagna idillico-elegiache; insomma, c’era tutto il repertorio della natura com’era in un tempo primordiale. Alla fine, interrogato, commentai che c’era una discrasia tra le sue scarpe da ginnastica colorate e il mondo rurale delle sue poesie, che qualcosa non mi convinceva, che c’era una contraddizione: o era vera la sua poesia o le sue scarpe da ginnastica e la sua giacca casual.

Lucio Mayoor Tosi

 Una scopa appoggiata nel sottoscala, non problematizzata… darà sollievo a chi non ne può più di filtri simbolici e significanti, tra sé e la cosa. L’essere in campo vuole, cerca un rapporto diretto, non mediato. Non è un dramma, sembra più una resa dei conti. Già ogni giorno, sul far della sera il tramonto si presenta senza preamboli…
La mente, resa complessa e già sofferente di bombardamenti consumistici, continuamente distratta, incerta, divisa, non è in grado di darsi un’identità. Serve una cura, la qual cura è per me inizialmente un lasciare andare.
La semplificazione non è da condannare, così come non andrebbe condannato un bisogno. Ma è chiaro che alla semplificazione ci arriviamo da rovinati.
Né positivo, né negativo: è una scopa appoggiata nel sottoscala. Si ristabilisce l’amicizia, resta tempo per sentirsi infelici e felici.

*
 Non va sottovalutato l’apporto tecnologico, sia per il deposito di memoria utile, sia per i mezzi lavorativi e ricreativi. Una mente alleggerita da fatica, stress da responsabilità, non può più essere la stessa, nemmeno di appena cinquant’anni fa. Questo non comporta che si arrivi a totale disimpegno culturale, al contrario: proprio la sfera intellettiva e sensibile avrò bisogno di adatto nutrimento. Uscire ed entrare dal linguaggio con inserti creativi, per così dire nano-culturali, è quel che abbiamo anticipato noi della NOE in questi ultimi anni. Niente di simile era ancora stato fatto. Quale sia il posto della filosofia, non so. Ogni risposta filosofica è al tempo stesso nuova domanda…

Giorgio Linguaglossa

Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia

 «Il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse.»1

1 G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009.

 Sono propenso a pensare che tutta la nuova fenomenologia del poetico è, in certo modo, non solo una citazione senza virgolette (non c’è bisogno che sia necessariamente virgolettata) di altri poeti dell’età del modernismo e dell’umanesimo, o auto citazioni ma anche un montaggio, un compostaggio incessante di tutto ciò che può essere montato,  compostato, una costellazione di appuntamenti segreti, ricordi, parole trovate, parole dimenticate, di fotogrammi, di lapsus e, perché no, delle nostre ossessioni. Una «pallottola» che rimbalza qua e là e che produce una sequenza impensabile di disastri, un commissario inconcludente, un misterioso Ufficio di Informazioni riservate, un Faust che colloquia con Mefistofele, la vita come «Registro di bordo». Ci guida una idea di poesia ma non possediamo alcuna poesia.
Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia.
Che male c’è?.

Marie Laure Colasson Notturno 1 collage 30x30 cm 2007

Marie Laure Colasson, Collage, Notturno 30×30 cm 2010

Gino Rago

 Cari Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, 

in una delle Storie di una pallottola, mi pare la n.12, la stessa Madame Colasson pronuncia queste parole, precise, chiare, dirette a Italo Calvino:

“Marie Laure Colasson:
«La ringrazio, le farò sapere.
C’è un agente degli Affari Riservati che mi pedina,
e poi le sue Lezioni americane, sono banali, tristi,
le preferisco Queneau».”

Con queste parole sulla bocca di Milaure io dico da che parte mi sono collocato:
– dalla parte della sperimentazione senza limiti dello stesso Raymond Queneau la cui ricchissima produzione nasce dalla vastità dei suoi interessi che andavano da quelli filosofici a quelli antropologici, da quelli letterari a quelli matematici, linguistici, psicoanalitici, ecc., senza tacere quelli per le arti musicali e figurative, da un lato;

– dall’altro, dalla parte di Alain Robbe-Grillet e l’école du regard, ovvero dalla parte della registrazione dell “oggetto” secondo la pura percezione dello sguardo, nel tentativo del rifiuto definitivo di tutte le implicazioni psicologiche, ideologiche, morali, socio-politico-economiche nella sola volontà del superamento della recente deriva della “cultura umanistica” ancora fondata sullo strettissimo rapporto uomo-realtà teso alla ricerca di un “significato” da dare a ogni costo alla vita…

– Infine, ho guardato, ma con la coda dell’occhio, anche a Samuel Beckett, al Beckett che, in Acte sans paroles, mette sulla scena un uomo solo e assolutamente muto che cerca, senza riuscirvi, di afferrare oggetti, mentre gli cadono quasi addosso dall’alto…

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Nel discorso poetico della Nuova Poesia è fondamentale il gioco stesso, non i giocatori, L’Epoca del Covid19, Una Lettera di Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson Commento di Gino Rago

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa F acrilico, 225x40

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa F, acrilico su tavola, 25×40 cm 2020]
L’Evento di cui questa figurazione è la rappresentazione figurale  è dato da un galleggiare di forme larvali che nuotano nella processualità autofagocitatoria del linguaggio figurale. Tessere di una sequenza di RNA che nuotano nella processualità figurale di un Virus virale. Non sono propriamente delle cose quanto delle tessere, segmenti di RNA, simulacri iridescenti, accattivanti albedini di sostanze un tempo floreali diventate esiziali e virali. Da questo mondo di figure-segmenti umbratili e larvali è scomparso l’uomo e sono scomparse le cose. E ci chiediamo: Dove sono finite le cose? Dove si nasconde l’uomo? Domande forse inutili, che non ha senso più porsi dopo la fine dell’umanesimo, ma che non possiamo non continuare a porci.  «La domanda dov’è la cosa?, è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona di nessuno che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi X in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa».1
(Giorgio Linguaglossa)
1Giorgio Agamben Stanze, p. 69

.

Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)

Mario M. Gabriele

caro Giorgio,

essere poeti, e tu lo sai, non è cosa facile nel senso che bisogna essere prima critici di se stessi e poi costruire o de-costruire il linguaggio secondo le ragioni del fare poesia. Un giorno sul Corriere della Sera di venerdì 2 Luglio 2004, apparve un breve intervento di Giuliano Gallo con il titolo: “Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia”. Riferendosi al volume edito dal Mulino e curato da Ernesto Galli della Loggia e Loreto Di Nucci dal titolo DUE Nazioni. Qui si percepiva veramente un’Italia spaccata in due, anche se non vi appare il potere editoriale con tutte le sue filiali autarchiche, creando una “divisività” che ha dominato decenni e decenni di storia economica e culturale. In questo libro Paolo Mieli si sofferma, con una certa tristezza, sul fatto che “non stiamo producendo niente di nuovo, consapevole che ormai tutti i paesi hanno imparato a dividersi e a schierarsi senza volersi distruggere”.

E allora come la mettiamo nell’attuale Epoca del Covid19? La scomparsa del critico e dello scrittore ha portato a esautorare un paradigma poetico alternativo al dominio imperante del 900. Cercare punti di riferimento della fine della poesia elegiaca o di fine corrente letteraria, è molto difficile.

Secondo De Sanctis il vero declino della poesia italiana comincia a delinearsi nel Cinquecento mettendo all’ombra Ariosto, Machiavelli, e Guicciardini, dando appena un’ancora di salvezza ad Alfieri e Parini, “ma la direzione del diagramma poetico restava quella della decadenza”. Allora possiamo affermare, con Enzo Siciliano, che per il poeta resta sempre il buio in sala. Qui, non vorrei dimenticare Edoardo Sanguineti, con il quale ebbi un lungo discorso in trattoria, in occasione di una edizione a Campobasso del premio di Poesia Nuovo Molise, in cui lo stesso critico confessò che non era più tempo di Avanguardia mancando fronti culturali che si contendono una spinta al cambiamento.

Basta andare in libreria. Gli scaffali non si piegano sotto il peso di libri di poesia rimasti sempre un’arte marginale nell’epoca dei consumi. Tutto questo non ha permesso ai poeti della Nuova Ontologia Estetica di neutralizzarsi dentro apparati linguistici informali e contrastanti, che se pure esistenti tracciano la via al “senso vietato” di Deleuze proiettando il verso in un principio antropico ultimo, con la speranza di svilupparsi intelligentemente verso un paradigma che contenga al suo interno il coraggio di superare la fase di stallo del Post Covid 19, che è una vera macelleria.

Giorgio Linguaglossa

caro Mario,

scrive il paleontologo Stephen Jay Gould: «riavvolgiamo la videocassetta e, accertandoci di aver cancellato tutto ciò che è accaduto, riportiamoci a un certo tempo e luogo nel passato […]. Poi giriamo di nuovo il film e vediamo se la ripetizione è uguale all’originale».

Stanza n. 3

Duchamp è con la pipa. Madame Hanska è nuda. Siedono attorno ad un tavolo.
Hanska distribuisce le carte da gioco.
Duchamp deglutisce.
«Ecco a Lei. Io adesso Le darò le carte.
Tredici carte di Picche. Le disponga in fila, non importa l’ordine.
È la fila delle cause.
Scelga poi le tredici carte di Cuori. Le mescoli bene.

Disponga in fila sotto le carte di Picche una carta di Cuori.
E solo una sotto ogni carta di Picche.
Accade che nella stessa posizione delle due file si presenti in alto
una carta di Picche e in basso una carta di Cuori
con lo stesso valore.
Due Sette in terza posizione. Due Re in decima o quel che capita».

«La relazione di concordanza è un modello formale
della relazione di causalità:
Il Sette di Picche “causa” il Sette di Cuori,
Il Re di Picche “causa” il Re di Cuori, etc.

Il principio di identità simula il principio di ragion sufficiente.
È la rappresentazione del principio eziologico.
Se c’è il Sette di Picche sopra, c’è il Sette di Cuori sotto.
Se non c’è il Sette di Picche sopra, non c’è il Sette di Cuori sotto».

[…]

L’unghia smaltata di K. agguantò al volo un calice di Campari
che oscillava negli stagni Patriarsci.
Il direttore d’orchestra depose la bacchetta, i musicisti se la filarono,
il pubblico prese a fluire.
Zlatan Ibrahimovich prese a calci un pallone e fece goal.
«C’è un agente morboso», disse K. rivolto ad Azazello.
«Se c’è, c’è il morbo», rispose quest’ultimo.
Il quale tirò fuori dal taschino della giacca un ipotocasamo nuovo di zecca,
e con quello cominciò a frinire, a fare saltelli.
«Se non c’è?», chiese amabilmente Azazello, dopo una giravolta.
«C’è la guarigione», replicò K. passeggiando rumorosamente con i mocassini nuovi
made in Italy.
Il berretto verde di K. ebbe un sussulto.
«Il cosiddetto principio di concordanza.
Sono i risultati delle tre carte, caro Cogito.
Nient’altro che un gioco di prestigio.
Tuttavia, la poesia nasce da un lancio di dadi
su un piano inclinato…
Il Covid19?, un elemento della perturbazione che concorre
con la perturbazione generale…
Quella parte del tutto che vuole costantemente il male e invece concorre
a produrre costantemente il bene…
Al di là del principio del bene e del male.
Ovviamente.»

*

Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.

È nota la diffidenza che Heidegger ha sempre nutrito nei confronti del linguaggio ordinario. Le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.

È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e, con ciò, il gioco della metonimia, della metafora e della estraneazione. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige), implica una nuova e diversa valutazione del linguaggio non inteso soltanto in senso riduttivo come polisemia o per le sue qualità di ambiguità semantica, concetti che ci condurrebbero all’esterno del discorso critico e poietico. Proviamo a pensare il linguaggio come stazione apotropaica, evento, linguaggio come aver luogo e basta. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente pluricentrico, la messa in evidenza della policentricità non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nella polisemia del discorso poetico della tradizione, ma è ben di più, molto di più.

Il discorso poetico non è un in-differente, un indifferenziato, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare l’incontro con quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è cancellato dal linguaggio ordinario, che è interamente sussunto nel dominio dell’opinione e del «si dice». Continua a leggere

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Luciano Nota, Poesie da Destinatario di assenze, ArcipelagoItaca, 2020 pp. 96 € 12, Lettura di Giorgio Linguaglossa

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Michelangelo Antonioni, La notte (1961) Il discorso poetico dovrebbe tenere bene a mente questa cosa, che la parola è sempre «sentenza», «significato», «giudizio», e che ogni parola che viene pronunciata si scontra contro questo muro grigio di cemento, la «zona grigia» del linguaggio.

Luciano Nota è nato ad Accettura, in provincia di Matera. Insegnante di lettere, vive e lavora a Pordenone. Ha pubblicato: Intestatario di assenze (Campanotto 2008); Sopra la terra nera (Campanotto 2010); Tra cielo e volto (Edizioni del Leone 2012); Dentro (Associazione Culturale LucaniArt Onlus 2013); La luce delle crepe (EdiLet 2016), Destinatario di assenze (ArcipalagoItaca, 2020). Alcune  poesie sono state pubblicate su varie riviste letterarie e in diverse antologie. Cura il blog letterario “La Presenza di Erato”.

Luciano Nota è forse l’ultimo raffinato poeta lirico nell’Italia della post-lirica dell’Epoca del Covid19. È un poeta da linea Maginot, attestato sulla trincea avanzata di difesa del territorio stilistico della tradizione. Spesso con lui  ho avuto degli scambi di opinione su questo argomento, ma poi ciascuno ha fatto ritorno alla propria casamatta blindata con tanto di auguri amicali: questo, ovviamente, non ha mai precluso l’amicizia e il sodalizio. Con questo ultimo libro il poeta lucano indaga lo statuto fenomenologico della coscienza. Quel congegno che chiamiamo «coscienza» è quella cosa che fornisce l’involucro della soggettività, questo «destinatario di assenze» che converte il più concreto nel più assente, l’esperienza in memoria. Questo «destinatario» è sempre impegnato con il per-sé, o, con linguaggio heideggeriano, con la «cura preveggente» del sé. Il poeta lucano scopre che l’essere della coscienza è un ente il cui essere è sempre in questione, continuamente in bilico, che opera per problematizzazioni e sproblematizzazioni ma in modo episodico, saltuario e a-dialettico. L’esistenza non è una struttura dialettica, la struttura della coscienza non funziona mediante la dialettica ma mediante una fenomenologia degli istanti della percezione, è un congegno che replica agli eventi  in modo tale che non coincide con la soggettività ma la incide e la rende manifestamente inidonea, rivela cioè la non-adeguazione della soggettività rispetto al mondo ambiente.

La soggettività  piena di sé si rivela essere una mancanza, una latenza, una non-adeguazione a se stessa.

Questa problematica esistenziale viene indagata mediante lo spettroscopio della forma-poesia. Resta il fatto che a mio avviso quella forma-poesia ereditata dalla tradizione della poesia italiana del novecento non può fornire, per sue intime lacune e insufficienze, un linguaggio idoneo per questa problematica, e allora il poeta lucano è costretto ad andarselo a cercare il linguaggio nelle commessure dei linguaggi ereditati, in particolare, nella poesia di Sinisgalli; e a retrocedere alle soluzioni di un Caproni, e di qui retrocedere ancora più indietro fino al linguaggio dei post-ermetici. Ed ecco affiorare nella sua poesia stilemi arcaici post-ermetici come «vortici aprichi», «danza di veli», «bocche socchiuse», «l’alfabeto ansante»; ecco affiorare in superficie la struttura dell’haiku, come bene ha dimostrato Gino Rago in una sua nota di lettura del libro; ecco il verso breve del settenario con il novenario più di rado che occupano la grande maggioranza dei testi; ecco certa sentenziosità del dettato che oscilla tra un «noi» sottinteso e un astratto che fa le veci dell’io; ecco certa predilezione per la nobiltà denominativa del linguaggio del tipo: «Farfalla di sera troppo lussuosa per farne rosario», dove c’è un quantum di surrealismo e di barocchismo meridionale che l’autore lascia cadere lì per lì in chiusura di poesia con un gesto apparentemente negligente. Infatti, le chiuse e gli incipit delle sue poesie sono sintomatiche di certa ascendenza  nobile del lessico dove il poeta  è ancora e pur sempre impegnato in una sua personalissima ricerca del senso. Perché è proprio della poesia lirica la ricerca del senso in quanto detiene le chiavi del significato. Ed è proprio la ricerca del senso dell’esistere che interessa al poeta lucano il quale scopre atterrito le tracce della presenza del nulla che minano la sobria compostezza stilistica della sua poesia. Ed ecco infine spiegato il titolo di questa raccolta: Destinatario di assenze, che chiude il cerchio anche stilistico iniziato con l’opera di esordio, Intestatario di assenze (2008). Dunque, una parabola stilistica durata dodici anni che chiude l’esperienza della poesia lirica notiana nell’età della post-lirica. Sarà interessante vedere come l’autore  lucano, l’ultimo strenuo difensore della poesia lirica, risponderà alle sfide del presente, come evolgerà, se terrà la linea difensiva Maginot o azzarderà qualche affondo in territori stilistici scoscesi e sconosciuti. C’è come una preveggenza di questa problematica nell’ultima poesia del volume:

Nuova terra

Mi piacciono i graffiti sui muri
non i cani che scrivono libri.
Leggo Hegel e Marx, Rilke e Plath.
Purtroppo morti. Pasolini, Fortini…
La nuova terra è gelo sui ginocchi.
Sui cipressi scrivono picchi.

Dove è chiara la volontà di esplorare nuovi confini del linguaggio poetico, magari ritornare ai poeti eslegi e non esigibili del secondo novecento, ai Fortini e ai Pasolini, poeti oggi messi un po’ a latere per vari motivi non tutti presentabili e rispettabili, per riprendere di nuovo il largo verso nuovi territori stilistici da esplorare.

Leggo in filigrana nel linguaggio poetico notiano questa tensione linguistica e stilistica appena trattenuta e sopita nella compiutezza del giro frastico che, penso, metterà a repentaglio la compiutezza metrica e la conclusività  stilistica della sua poesia negli anni a venire. In fin dei conti, Nota è uno degli ultimi ad abbandonare il Titanic della poesia lirica che lentamente, ma inesorabilmente, affonda ogni giorno sotto i nostri occhi. E questa tenuta ha qualcosa di audace e di ammirevole. Ma prima o poi l’argine costruito con tanta dedizione verrà probabilmente distrutto e quel settenario ben rifornito, quel novenario ben costruito dovranno arrendersi alla forza dell’irresistibile moto ondoso. E per uscire fuori da questa impasse si dovrà accettare di togliere gli ormeggi alla significazione, liberare il linguaggio poetico dal significato, lasciarlo andare libero al largo. Ma, mi chiedo, è possibile abbandonare il significato al suo destino?, dismetterlo?, dimenticarlo? Io penso di sì, il significato è una convenzione condivisa dai più e, come ogni convenzione, prima o poi finirà per essere smobilitata e smontata.

E qui ci riallacciamo alla nota tesi di Giorgio Agamben il quale sostiene che la macchina di tortura della leggenda kafkiana è, in realtà, il linguaggio: e cioè che il linguaggio è, sulla terra, uno strumento di giustizia e castigo, e il segreto della leggenda è rivelato in una frase che egli cita dal romanzo Malina di Ingeborg Bachmann (alla cui memoria Idea del linguaggio II è dedicato): «Il linguaggio è la pena». Il linguaggio in quanto significazione, per Agamben, è intrinsecamente legato al «giudizio»: «la logica ha il suo ambito esclusivo nel giudizio: il giudizio logico è, in verità, immediatamente giudizio penale, sentenza». Il discorso poetico dovrebbe tenere bene a mente questa cosa, che la parola è sempre «sentenza», «significato», «giudizio», e che ogni parola che viene pronunciata si scontra contro questo muro grigio di cemento, la «zona grigia» del linguaggio.

La coscienza non è in-sé, non è mai in coincidenza con se stessa; il  per essere posto richiede una distanza entro l’immanenza del soggetto, sempre scomposto e lacerato tra essere e coscienza di essere. La coscienza in quanto «destinatario di assenze» è un modo di non essere la propria coincidenza, di sfuggire l’identità.

Se si è presente a sé significa che non è del tutto sé. Luciano Nota scopre così che il nulla si insinua nel più intimo della coscienza, del «destinatario di assenze» in quanto nulla d’essere e potere nullificante.
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Poesia di Mario M. Gabriele, Promenade in Zelia Nuttal Gallery,  Video di Gianni Godi, Video di Diego De Nadai, Poesie di Mario M. Gabriele, Marina Petrillo, Giuseppe Gallo, Mauro Pierno

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Giuseppe Gallo

Pane al pane e vino al vino

Il Padre cullava l’idea di essere anche poeta.
Ogni tanto scriveva fiordaliso e poi sorriso.
Bruma ed aprico, rinfocola e sestante.
Una volta scrisse asfodèlo senza averne l’immagine negli occhi.
L’asfodèlo se la prese a male e protestò vivacemente.
-Perché non dici pane al pane e vino al vino?
Il Padre, allora, vide Jerry e gli scrisse Figlio sulla fronte.
Incontrò Mary nel corridoio e le scrisse Moglie sopra i seni.
Si guardò allo specchio del bagno e scrisse Padre sopra il suo riflesso.
Quando Jerry si accorse d’essere solo Figlio
se ne andò di casa a cercare una Moglie per essere Marito e Padre.
E quando Mary pensò d’essere solo Moglie
abbandonò la casa per cercare la Figlia ch’era stata
e trovare la Madre ch’era ancora.
Così, il Padre, ormai solo e poeta, tornò di fronte allo specchio del bagno,
inumidì il vetro con il proprio respiro e scrisse la parola Ombra
sulla sua Ombra.

caro Giuseppe Gallo.

la tua poesia mi ha fatto venire in mente questa frase di Giorgio Agamben: «il sottouomo deve interessarci assai più del superuomo. Questa infame zona d’irresponsabilità è il nostro primo cerchio, da cui nessuna confessione di responsabilità riuscirà a tirarci fuori».1 La poesia deve andare a sondare quella realtà del sottouomo, come tu scrivi: «Ombra sulla sua Ombra». Che cosa c’è sopra e dietro l’Ombra? Un’altra Ombra. Cosa c’è dietro il fondo? Un altro s-fondo. E così via. Fino a giungere all’Ereignis (l’evento). Con le parole di Heidegger: «l’essere svanisce nell’ Ereignis».2 Con il che la storia giunge al termine, e con essa la metafisica. L’Evento indica il punto cieco della ragione, ciò che non può essere portato a “significato” essendo lcondizione che precede e rende possibile ogni significato. Penso che la nuova poesia sia un aspetto della problematica dell’evento che si configura sotto i nostri occhi, emblematicamente rappresentato dalla perturbazione indotta nel nostro mondo dall’insorgere del Covid19.

(Giorgio Linguaglossa)

1 da http://ariliterature.org/forum/wp-content/uploads/2019/03/AGAMBEN-Quel-che-resta.pdf

2 M. Heidegger,  Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969; trad. it. a
cura di E. Mazzarella,  Tempo ed essere, Guida, Napoli  1980, p. 123

 

Mauro Pierno

In un’altra casa spingendo carrelli a vapore
un variopinto dipinto variegato al cioccolato. Senza panna.

Corresse subito la mira, la stessa ripartenza.
Suvvia i versi potrebbero misurarsi a metri, non ne avremmo difficoltà a srotolarne i nastri!

Ho fatto a meno dei decalitri questo sbottò.
Si portò la mano alla fronte, era totalmente sfebbrato.

A guardarlo non si direbbe. Colavano dal naso alternativamente i gusti cacao e fior di fragola.

Sono qui a dipingervi! Non potete, non potete ogni volta inventarne
di nuove e astruse! Questa volta sbatte forte la cella.

Sulla tavolozza le macchie correvano lungo le arterie, svoltarono.
Mirò il virus si attenne all’ordine.

Misurò la profondità del menù e svenne.

Mario M. Gabriele

L’unica cosa che Orlock disse fu: Gratia vobis et pax-
facendo frullare le ali delle rondini sul sagrato.

Giuda attese che lo chiamassero al Palazzo di Giustizia
dove c’era un bodyguard con la tagliola in mano.

Avete mai visto un uomo crescere nel pantano?
domandò Padre Cruz ai missionari nel Wuhan.

-Abbiamo bisogno di un sofà con lenzuolo di seta
e almeno 10 bicchierini di Gentleman Jack.

Il tuo viso non necessita di Chanel.
Ti toccherà tornare al passato rubando Le Illuminazioni.

Le cose come sono viaggiano a tradimento.
Ne parleremo con il Giudice al Processo.

Ci ha pensato anche Ian Bruegel, il Giovane,
con il Paradiso Terrestre alla Gemaldegalerie di Berlino.

Qualcuno si fermò nel concerto dei Pink Floid
dopo aver scritto: Liebe Christa wie geht es dir?

Si arrivava a piedi all’abbazia di Fra Petrarca
l’unico che sapeva dove fosse il Santo Graal.

I falchi passavano da un ramo all’altro
come pensieri senza sponda.

Niente più veniva alle porte del mattino
se non l’ombra del verbasco su un futuro da epitaffio.

Su tutto echeggiavano le parole di Franz Wertmuller
Oh, la soupe à l’Oignon Gratinée! –

(inedito)

Non saprei dire se questa sia una poesia post-pop o una pop-poesia, così come c’è oggi una philosophy kitchen si dà anche una poetry kitchen. Mario Gabriele sonda le possibilità della nuova poesia accostando e facendo fibrillare la Gemaldegalerie di Berlino con il Santo Graal, Wuhan e l’abbazia di Fra Petrarca, Franz Wertmuller e la soupe à l’Oignon Gratinée… mischiando il sacro col profano, reperti del museo della storia e ologrammi, fragili algoritmi poetici con assiomi e aforismi diserbati di significato. È il nostro tempo di Covid19 che richiede una poesia siffatta, né derisoria né irrisoria, che si sottrae alle categorie della critica del testo perché in realtà non c’è più nessun testo da interpretare, qui l’ermeneutica fa cilecca, mostra tutta la propria inanità. Qui c’è un testo che non si dà più come un testo, qui c’è un testo che bara con il lettore e con l’autore, e così facendo mostra che le regole del gioco sono state cambiate durante la partita, e che quindi non c’è più nessun gioco che si gioca, che la partita è finta, è frittura di pesce marcio… Continua a leggere

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Poesia e Coronavirus, Il non-linguistico, «l’indicibile», sono invenzioni del linguaggio, Poesie e Commenti di Giuseppe Gallo, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Carlo Salzani

Gif Automa

la poesia, o, meglio, il poema, è preso come esempio di quell’operazione messianica che disattiva il linguaggio nelle sue funzioni comunicativa e informativa, e in cui il linguaggio finalmente contempla la propria potenza e si apre a un nuovo, possibile uso

Lucio Mayoor Tosi

Uccidete ogni narrazione, perché è dalla narrazione che nasce la paura della morte.
(L.Mayoor Tosi)

Rilassatevi: sopra un ramo canta la luna. E’ scesa apposta, e ora fa catenelle dei vostri capelli. Tutto vi sorride. Vi sentite tranquilli, beati. Le palpebre vi si fanno pesanti. E’ piacevole riposare, avete lavorato tanto… ve lo meritate. Giuseppe Conte si è messo in viaggio, al vostro risveglio sarà qui con le caramelle Mou, che vi piacciono tanto… tanto… tanto…

… State facendo un’esperienza straordinaria. Siete soli con voi stessi… senza rimedio. E’ normale che diate fuori di testa. Osservate… è la vostra follia, quella che avevate in corpo ma non lo sapevate. Siete spaventati. E’ normale. Solo rendetevi conto: non capiterà un’altra volta… dite grazie: grazie Gesù, grazie Maometto, grazie Carletto Marx. La vita è bella, e noi siamo moribondi.

(May – 8 apr 2020)

Giuseppe Gallo

Il Padre si alzò dal divano e spense il televisore.
Le parole gli piovevano addosso come la grandine del giorno prima.
Si guardò in giro. La Moglie in cucina,
il Figlio a percuotere le pelli dei tamburi.
Afferrò la prima parola che gli venne a tiro
e la spiaccicò sul piano della scrivania.
La seconda la schiacciò sul dorso dei libri allineati sullo scaffale.
-Che c’è? gli chiese la Moglie dalla cucina.
-Faccio un po’ di pulizia! Le rispose il Marito.
La terza la affogò nel water insieme alla carta igienica.
La quarta e la quinta le scaraventò dalla finestra sul marciapiede.
Il Figlio sentì gli insoliti rumori.
-Che c’è, Padre?
-Poco o niente, Figlio. Mi preparo al…
-A cosa, Padre? A che ti prepari?
-Al… al…
E ammutolì per sempre

 

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 91

Una crossdresser nuda con la gabbia per il pene oscilla sull’altalena,
manda dei kiss kiss e dei cuoricini al gentile pubblico.

Il Commissario con la mascherina interroga Enceladon.
Il pappagallo giallo-verde sventola la bandiera italiana alla finestra.

Ripete ossessivamente:
«Preferiti, Commenti, Scarica, Condividi, Chi siamo!»

Il trans Aurelio augura a tutti: «Merry Christmas!».
La femboy Barbie si dichiara credente, fa sesso con Zozzilla
davanti alla webcam.

Lady Malipierno porta al guinzaglio la tgirl Andrea con manette dorate fetish.
Chiede al cagnolino di abbaiare.

Fanno ingresso in scena il Commissario e il filosofo Cogito,
si accomodano in poltrona e guardano un film porno.

«I comunisti sono scomparsi», dice il Commissario.
La subgirl Korra Del Rio prende il caffè

before bondage banging.
Le gemelle Kessler agitano le gambe sul palcoscenico.

«Il telefono senza fili si è interrotto, dove non sappiamo»,
dice l’assessore alla sanità lombarda

mentre il Covid19 se ne va allegramente in giro da 39 giorni.
«Outbreak in Lombardy, Italy», titolano i giornali esteri.

La tigre dello zoo di New York ha il Coronavirus.
Il pappagallo dichiara all’erario che ha fatto l’autocertificazione.

L’Anello fallico vibrante gold cammina in compagnia di un set per bondage
e un kit sadomaso new style.

Lady Fremdy passeggia in via Sistina con collarino nero in pizzo,
stringatura in lacci e borchie di metallo ai seni.

Cogito torna a casa nella Marketstrasse n. 7.
Fischietta il ritornello da avanspettacolo degli anni sessanta:

«La notte è piccola per noi, troppo piccolina!»

Carlo Salzani

Agamben sostiene che la macchina di tortura della leggenda kafkiana è, in realtà, il linguaggio: e cioè che il linguaggio è, sulla terra, uno strumento di giustizia e castigo, e il segreto della leggenda è rivelato in una frase che egli cita dal romanzo Malina di Ingeborg Bachmann (alla cui memoria Idea del linguaggio II è dedicato): «Il linguaggio è la pena». Il linguaggio in quanto significazione, per Agamben, è intrinsecamente legato al «giudizio»: «la logica ha il suo ambito esclusivo nel giudizio: il giudizio logico è, in verità, immediatamente giudizio penale, sentenza».

È questo il vero significato del linguaggio, che elude la comprensione, finché per tutti arriva «la sesta ora», in cui misuriamo e comprendiamo la nostra colpa, e giustizia è fatta. Tuttavia la svolta interpretativa avviene nella seconda parte della leggenda, quando l’Ufficiale,dal momento che comprende di non poter convincere l’Esploratore a sostenere la sua causa (la conservazione del vecchio sistema di punizione), libera il Condannato e prende il suo posto nella macchina. Il testo che la macchina deve ora scrivere sulla carne dell’Ufficiale non ha, nota Agamben, la forma di un comandamento preciso (per esempio «onora il superiore», come nel caso del Condannato), ma consiste invece nella pura e semplice ingiunzione «sii giusto». Quest’ingiunzione non solo distrugge la macchina, ma viene anche meno al suo stesso compito: «L’erpice non scriveva, solo si conficcava. […]non era tortura, […] era assassinio e basta».
.
Il precetto «sii giusto», sostiene Agamben, è l’istruzione che deve distruggere la macchina; questo significa che il significato ultimo del linguaggio è l’ingiunzione «sii giusto», ma proprio il senso di quest’ingiunzione è ciò che il linguaggio – nella sua funzione significante – non è in grado di trasmettere. Per poterlo fare deve smettere di eseguire il suo compito «penale» – e cioè, significante. Che per l’Ufficiale, alla fine, non ci fosse, «nel linguaggio, più nulla da capire»,significa per Agamben che la «giustizia» del linguaggio risiede solo nella sua distruzione – o, meglio, deposizione, désœuvrement – messianica, nel superamento messianico della sua struttura significante/penale.
Idea del linguaggio è riprodotta parola per parola, con il titolo Nella colonia penale, come seconda delle Quattro glosse a Kafka, pubblicate l’anno seguente. Anche la prima «glossa», intitolata Sulla morte apparente, tratta dello stesso soggetto: il linguaggio. Agamben si ispira qui all’omonima leggenda di Kafka per sostenere che il linguaggio è come una morte apparente. Come nel mito platonico della caverna, anche nella leggenda kafkiana, scrive Agamben, il momento decisivo è quello del ritorno. La morte infatti è l’impossibilità del ritorno, e in essa non c’è posto per noi. Solo chi ha fatto ritorno da una morte apparente sa che da una vera morte non sarebbe potuto tornare. Quindi ha derivato l’idea di una vera morte proprio da una morte apparente; e cioè: che esista qualcosa da cui non si può tornare egli l’ha scoperto solo fingendo di essere tornato da essa. Allo stesso modo, la parola non è mai stata al di fuori del linguaggio, nel non-linguistico; il non-linguistico, «l’indicibile», sono solo invenzioni del linguaggio stesso, e solo nel linguaggio è possibile concepire tali idee. Quindi Agamben conclude:

Nel punto in cui comprendiamo la parola come parola, cessiamo di immaginare parole al di là della parola, cessiamo di fingere di essere stati nella vera morte. Tornati da dove non siamo mai stati, siamo finalmente qui, dove non potremo più tornare. Il non-linguistico, taciuto dalla parola, è ora perfettamente dicibile
.
L’idea del linguaggio alla base di questi testi deriva dai saggi giovanili di Benjamin sulla lingua. Agamben postula, con Benjamin, il necessario intrecciarsi di significazione e giudizio, e questa è l’idea centrale che sostiene :

anche – sebbene rimanga spesso inavvertita – tutto il suo progetto sulla biopolitica. In Homo sacer (1995), infatti, questa affinità è usata proprio per spiegare il paradosso della sovranità: proprio come una parola acquista potere denotativo solo nella misura in cui sussiste indipendentemente dal suo uso concreto nel discorso, così la norma può riferirsi al caso concreto solo nella misura in cui è in vigore, come pura potenza, nella sospensione di ogni riferimento reale, nell’eccezione sovrana; proprio come il linguaggio presuppone il non-linguistico come ciò con cui si deve mantenere in una relazione virtuale così da poter poi denotarlo nel discorso concreto, così la legge presuppone il non-giuridico come ciò con cui si mantiene in una relazione potenziale nello stato di eccezione.

Questa struttura necessaria può solo essere sospesa nella deposizione messianica, nel «giorno della Gloria»,di qualsiasi significazione e quindi anche di qualsiasi comandamento e di qualsiasi legge. In Il tempo che resta (2000) e Il Regno e la Gloria (2007), la poesia, o, meglio, il poema, è preso come esempio di quell’operazione messianica che disattiva il linguaggio nelle sue funzioni comunicativa e informativa, e in cui il linguaggio finalmente contempla la propria potenza e si apre a un nuovo, possibile uso (corsivo della redazione). Se i testi di Idea della prosa e Quattro glosse a Kafka, a livello contenutistico, sono debitori della teoria benjaminiana, la loro «forma» è però singolarmente «kafkiana»: essi non presentano una «teoria» nella forma accademica abituale; non «spiegano», ma propongono invece, in modo alquanto evocativo, una figura e un paradosso. Il paradosso non solo mette in questione la possibilità dell’interpretazione, ma spinge anche la filosofia ai suoi limiti.1

Questi testi esemplificano perciò la più intima relazione di Agamben con l’opera kafkiana: come Liska ed altri hanno notato, Agamben, come Benjamin, trova negli scritti di Kafka sia una diagnosi critica dello stato del mondo – del linguaggio, come in Idea della prosa e Quattro glosse a Kafka, o, più spesso, dello stallo culturale e politico della modernità – sia le tracce di un’inversione messianica.*

Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995 p. 26
*https://www.academia.edu/39694144/In_un_gesto_messianico_Agamben_le

Marina Petrillo

Si abbia cura del sospetto come madrepora emersa dal fondale.
Vuoti palchi osservano bagni metafisici dove figure
dal passo umbratile, bisbigliano ad oracolo, il contraddetto evento.

Indossare candidi abiti o, su vuote piattaforme, diluire
il respiro tra piante vascolari. Connettori colgono voleri
superiori a bassa frequenza.

Soave il mandorlo determina suoi i fiori. Indulge un tempo
illuminato a sfera terrestre il cui potere attribuisce la regalità del ritorno.
In assenza plurima deterge asettico il volto a calco.

Teme oblio l’indifferente sposalizio tra geni mutanti e indivise
cellule feconde al seme della rivelazione.
Troppo prossima la fine per sorriderle di lontano.

Marina Petrillo

Se esiste in vortice il pallido sembiante, è per determinare l’esiguo tratto esistente tra il cammino e il suo antesignano. Perorare il caso sino a giungere a sua essenza, è tramite di insoluta causa cui l’animo approda straniero a ogni morale.
Se, giunta alla soglia di una variabile incostante, l’esistenza e la sua narrazione trasmutano in Forma e Verbo, ogni accordo con la fonte primaria diviene a sua volta incognita a cui l’esperire dona la traiettoria. Sospingere l’incarico senza incarnarlo, ormeggiare il ruolo in una baia atemporale, diviene frazione di un flusso del quale a stento si percepisce il nesso. Abitare lo spazio degli accadimenti come inviolata, silenziosa monade in cui ogni affanno diviene attesa.
Si ripristina il respiro oltre l’assolata piana dei sentimenti svelati a umano gesto. Dichiarata ogni menzogna, anche il linguaggio impigrisce, sino a spengersi in monotematica sindrome votata allo spaesamento. Il suono si stempera in velata ricerca di ciò che non detto, si esprime a sua insaputa. Così, in perfetta distonia, si avrà un sistema amorfo convertito a pensiero in cui rare immagini passano su un cielo topazio, creando antichi demoni o immagini archetipiche alle quali attingere.
In tale fluttuare, perde consistenza ogni dire. O scrivere. Resta testimonianza in traccia insicura, restia a ogni credo. E’ la lieve eclissi prima di ogni turbamento. Un alfabetiere alchemico in cui turbinano elementi volti alla fine.

A baldanza si insinua l’ultimo detto
presago di silenzio.
Non devia del corso suo il canto.

Procede ad orma infrante duttile
all’imminente commiato dall’esistere.

Invisibile alla nullità imperante
naufraga in altra dimensione

senza porre diaframma tra il Sé
e il congiunto suo riflesso.

Attende in sospinto moto l’impresso
lascito e annulla ogni presenza.

Varca il pendio in periplo costante
sino a smarrire l’orientato senso .

Alcun filosofo attende
poiché Poesia attarda in fiacca veste.

Del non smisurato Verbo, Musa.

Francesco Paolo Intini

[PLATEAU] Nella strozzatura di clessidra
la faccia ebete della terra.

A luna ridens corrisponde
uno sguardo di Gorgona.

Cosa si vorrebbe da queste mani possenti?
Una tappa di era glaciale?

Sale Newton sul plateau
il prato su cui portare il dobermann.

Aprile partecipa senza sussulti
sbuccia una mela dal torsolo

Mai visto un Dna spendere tanti euro
senza produrre una proteina.

Finiremo con una vista governata dai reni.
Che fine ha fatto il telecomando?

L’ultima volta che ci eccitammo
Fu per l’uccisione di un bandito internazionale.

Estraemmo vermi dal fegato
e nervi su cui passeggiare per un millennio.

Alle sette di sera cadevano lucciole cieche

Si ordinò ai peschi di restare nei boccioli
Divieto assoluto di trasformarsi in frutto.

Portarono l’ ultimo pasto alla contraddizione.
Sul muro un temporale.

C’erano bisonti e api forse il bisogno
Ma i nomi si erano persi.

Nessuna corrispondenza con i suoni della bocca.
Gridavano maggio ma ghiacciava la voce

Una donna retrocedeva su passerella.
Un bacino, alto e tondo su perno centrale

Le mani penetrate da viole.

Ologrammi perfetti per le strade.
Tanti che non si potevano nominare.

Le lingue accatastate nell’organico.

[L’AUTODAFÈ DA’ INIZIO ALLO SPETTACOLO] Alla scomparsa del Sole si accompagna
un residuo di biancospino.

Non aver visto quello che succedeva
Ha nuociuto agli occhi.

L’altro lato mostrava crateri bianchi
Le pupille non si sono mantenute intatte.

Da oggi rispetterà i ragni.
Più solido dell’acciaio il cristallo della seta.

Il mandorlo aiuterà ad annusare il vuoto.
La peristalsi non assicurerà il sesso.

Invece di Botticelli arriva un parrocchetto
a strappare il bouganville.

Costruire trincee, obbedire a strategie
di uno che non è stato scimpanzè.

Un refolo dalla porta suggerisce terrore.
Lo stesso di una rondine radente l’asfalto.

Alla scomparsa degli uomini seguì
il guadare di gnu sull’ autostrada.

[FERMATA AL GRANATELLO] Ci sono colori che agitano braccia
e buchi che assomigliano a falchi

Si parla senza gusto di cioccolatini.
I denti vanno sul sicuro.

In tempi di masticazione lenta
accadono cose che lo stomaco non ha mai visto.

La digestione investe il bar dell’angolo, la sparizione
di una rotatoria crea vortici di auto.

La distanza è percorsa in pochi istanti
ma certe costanti sembrano accelerare il passo.

Cosa chiedere di più ad una macchina ferma?

C’è l’elettrolisi sul pianerottolo
e un fulmine sale le scale.

L’assicurazione va a passo di valzer.
Una chitarra genera piccoli Hendrix

e dal basso un tocco di Metternich
rimette il Borbone sul trono.

Non sarà come prima, versi anarchici fino al 20,
esametri d’ora in poi.

Dai limoni di Sorrento nasceranno baobab.
La stirpe sanfedista è sanguigna.

Schiaccia le margherite.
Impicca pulsar agli alberi maestri.

Il Requiem dà tranquillità alla corte.
L’ agave si richiude a tabacchiera rococò.

Da dove quest’ accidia nelle locomotive?
Diventarono perfette.

Togliersi di dosso nuclei marci significò
pranzare nel nocciolo di supernova.

Dal finestrino vedemmo la costellazione Edipo.
Una carezza, un bacio sulla bocca.

Sulla locomotiva salì la regina
La caldaia mandò una colomba.

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Covid19, La peste e la noia, La «zona grigia», L’homo sapiens sapiens dell’Epoca cibernetica, Una zona grigia ci separa dall’inorganico, Poesia di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Covid 19 2

Covid19, immagine al microscopio

Giorgio Linguaglossa

La peste e la noia. La «zona grigia». L’homo sapiens sapiens dell’Epoca cibernetica

caro Francesco Paolo Intini,
cari amici e interlocutori,

Viviamo e operiamo in una sorta di «zona grigia» della storia umana.
Fino all’epoca precedente del Coronavirus vivevamo in una appendice della storia. Pensavamo di vivere nella post-storia, nella storia del Dopo la guerra fredda, in un regime di storialità purtuttavia ancora storica molto diverso dalla dimensione storica dell’epoca precedente. E invece vivevamo nell’epoca della «zona grigia». Non ce ne eravamo accorti se non per lampi e per rapide intuizioni. Si continuava a poetare e a fare arte continuando gli stilemi del tardo novecento, non avevamo alcuna consapevolezza che il mondo era radicalmente cambiato. Si pensava di vivere in un mondo asettico, dove la nostra biologia era separata dalla biologia della vita animale. Le masse erano avvolte da questa nebbia che le accecava.
Noi lo dicevamo da tempo che non si poteva continuare a vivere e a fare poiesis come avevamo fatto fino all’altro ieri, ma venivamo denigrati come menagrami, e si continuava a poetare alla maniera epigonica, si continuava a fare quadretti decorativi e rassicuranti.

Poi, improvvisamente, tutto è cambiato, la pandemia del Covid19 ci ha messi di fronte alla nuova cruda realtà, alla cruda realtà della nuda biologia alla quale anche l’homo sapiens appartiene.

Che cos’è la NOE?, la nuova ontologia estetica? Ecco, io penso che sia la risposta più urgente alla «zona grigia» in cui consiste la nostra esistenza storica e la nostra poiesis. Noi lo ripetiamo da molti anni: la Krisis è la «zona grigia» in cui si presenta il nostro modo di vita nel mondo capitalistico.

Ci trovavamo da tempo in una «zona grigia» e non ce ne siamo accorti.

Orban ha detto: «Ci penso io al Coronavirus» e si è preso i «pieni poteri». I nostri politici ciarlatani da circo Togni hanno reclamato e reclamano i «pieni poteri» per risolvere i problemi. Viviamo in un mondo di miracoli e di traumi. Le masse tele mediatiche aspettano l’evento miracolistico. E intanto vivono sotto il trauma di un essere piccolissimo che distribuisce la morte a piacimento.
Morto Dio si è risvegliato il Signor Satanasso.
Le masse immunizzate dalla scarlattina della idiozia mediatica vivono da molto tempo una vita di mera sopravvivenza, credono alla balla della diffusione del Covid19 da un laboratorio americano o cinese. Ciarlatani e pseudo intellettuali hanno affermato che si trattava di poco più di una semplice influenza. E intanto si moriva e si muore a centinaia al giorno (adesso a migliaia e domani a decine di migliaia). Le masse credono da sempre ciecamente a complotti inesistenti e ai miracoli. Ondeggiano in preda al panico.
Un cardinale ciarlatano ha affermato che il Covid19 è stato inviato sulla terra da Dio per punire l’umanità per i peccati del divorzio, dell’aborto, per le libertà sessuali, per le promiscuità sessuali; i «poeti» di regime e gli sciocchi si sono precipitati a scrivere poesie sul Covid19 con annessa lezioncina d’amore e ninne nanne soporifere…
È questa la «zona grigia» di cui si diceva…

Covid 19

Scrive Giorgio Agamben:

«Una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, se lo sarà – non credo che, almeno per chi ha conservato un minimo di lucidità, sarà possibile tornare a vivere come prima. E questa è forse oggi la cosa più disperante – anche se, com’è stato detto, “solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza”».1

Io penso invece che una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, gli uomini torneranno a vivere come prima, cioè una vita vegetativa, primitiva, dalla quale è bandita ogni dimensione politica, comunitaria e finanche affettiva, erotica, partecipativa, attiva.
Non ho speranza alcuna. Ma non ho neanche alcuna dis-peranza.

Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, nel 476 d.C., l’ultimo imperatore di Roma, gli uomini continuarono per almeno un secolo a vivere come prima continuarono a parlare il loro latino infarcito di dialettismi, a fare l’amore, a moltiplicarsi, a odiarsi, a combattersi…
Poi venne il Medioevo, vennero i secoli bui…

La mancanza di tempo coincide ed equivale all’eccesso di tempo dell’uomo della rivoluzione cibernetica. Questa mancanza/eccesso così intesa getta l’uomo in uno stato di noia diffusa, richiama l’impossibile libertà dell’uomo dell’epoca cibernetica: ingabbiato nel recinto del proprio immediato presente assoluto l’uomo dell’epoca cibernetica è incapace di rompere le catene biologiche della propria datità, dello spazio vegetativo dove è inscritto a vivere nelle nostre moderne società depoliticizzate, non può costruire se non in questa dimensione di mancanza/eccesso e di noia diffusa che caratterizza il presente assoluto. Il presente assoluto, per istituirsi come tale, ha bisogno dell’oblio assoluto, oblio del passato e del futuro, altrimenti non riuscirebbe a costituirsi quale unica dimensione dell’homo sapiens sapiens. Questa dimensione assoluta e onni avvolgente è la situazione emotiva fondamentale che getta l’uomo nella condizione di vivere in un perenne stato di noia, in una «zona grigia» che non gli fa avvertire la noia come malattia in quanto tutto è «grigio», tutto è ridotto al valore di scambio e non si dà altro modo di sortire fuori da questo sortilegio. L’uomo dell’epoca cibernetica è prigioniero del suo sortilegio ed incapace di uscirne. La «noia grigia» è la condizione assoluta per la felicità del sapiens sapiens ridotto al valore di scambio.

Grazie alla pandemia del Covid19 siamo in presenza di una vera e propria riabilitazione ontologica del simulacro nell’ambito della vita quotidiana e anche nell’ambito dell’economia estetica. La vita quotidiana è già diventata una iconomia, una economia di icone, di simulacri, di immagini. Anche il Covid19 è diventato qualcosa di affine al simulacro. Aleggia, si diffonde ovunque per vie misteriose ed imperscrutabili, un microrganismo fatto di gelatina simile ad un ologramma, ad un simulacro. Il Covid19 è così entrato prepotentemente nel nostro immaginario e nella nostra esistenza quotidiana determinandone ogni singolo atto, sconvolgendo la nostra domesticità, è penetrato nella nostra forma-di-vita determinandone ogni singolo comportamento, inducendoci in paura, angoscia, spavento, noia, orrore, acquiescenza…

Proprio in virtù di queste considerazioni, possiamo pensare la discontinuità ontologica – che non è mai opposizione dialettica ma differenza assoluta
– tra l’uomo dell’epoca pre-cibernetica, pensato in quanto Dasein, a cui è concesso un rapporto di ‘libera’ corrispondenza con l’Essere nel tempo, e l’homo sapiens sapiens dell’epoca cibernetica, il quale, incapace di accedere a questo spazio di ‘libertà’, rimane inchiodato alla necessità biologica della sua «nuda vita» continuamente ‘presente’.

Nella Stimmung della noia diffusa e di superficie che caratterizza l’homo sapiens sapiens, è possibile trovare il punto di massimo contatto tra l’uomo e l’animalità. L’animale è stordito nel suo ambiente, l’uomo è stordito nella noia. Ma si tratta di una noia molto diversa da quella descritta da Moravia nel suo omonimo romanzo (La noia, 1960),* una noia più di superficie, che stordisce il sapiens sapiens ma senza danneggiarlo, perché in fin dei conti è felice della sua posizione nel mondo, felice di non-essere felice.

*[Scrive Moravia ne La noia: “Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi versi essa assomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno:la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente.”]

Covid 19 3Scrive Giorgio Agamben:

«In questo essere ‘consegnato all’ente che si rifiuta’ come primo momento essenziale della noia, si rivela allora la struttura costitutiva di quell’ente – il Dasein – per il quale ne va nel suo stesso essere del suo stesso essere. Il Dasein può essere inchiodato nella noia all’ente che gli si rifiuta nella sua totalità perché esso è costitutivamente ‘rimesso [überantwortet] al suo proprio essere’, fattiziamente gettato e smarrito nel mondo di cui si prende cura. Ma, proprio per questo, la noia fa apparire alla luce la prossimità inaspettata fra Dasein e l’animale. Il “Dasein” annoiandosi, è consegnato (ausgelifert) a qualcosa che gli si rifiuta, esattamente come l’animale, nel suo stordimento, è esposto (hinausgesetzt) in un non rivelato».2

«L’uomo ha ormai raggiunto il suo telos storico e non resta altro, per un’umanità ridiventata animale, che la depolicitizzazione delle società umane, attraverso il dispiegamento incondizionato della oikonomia, oppure l’assunzione della stessa vita biologica come compito politico (o piuttosto impolitico) supremo […]. Di fronte a questa eclissi, il solo compito che sembra ancora conservare qualche serietà è la presa incarico e la “gestione integrale” della vita biologica, cioè della stessa animalità dell’uomo».3

Scrive Antonello Sciacchitano:

Basta un solo quanto iperenergetico – un solo fotone ad alta frequenza – proveniente da chi sa dove (irrgendwoher): dal sole o da qualche lontano cataclisma distante miliardi di anni luce, perché si produca una mutazione in una catena di acidi nucleici e un virus [ad es. il Covid19] si trasformi da innocuo saprofita in pesante patogeno in grado di effettuare lo spillover dall’animale all’uomo e produrre una pandemia.

http://www.journal-psychoanalysis.eu/come-nasce-lideologia/

https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste
2 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 68.
3 Ibidem p. 79, 80

Covid 19 7Francesco Paolo Intini Continua a leggere

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Il Coronavirus nella poesia di oggi, La zona grigia, Pensare la zona grigia è compito del pensiero, Poesie di Dante Alighieri, Tomas Tranströmer, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda

Lucio Mayoor Tosi La Gioconda

[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà  a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra  per i prossimi milioni di anni…]
.
«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
.
1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
.
Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
Caro Gino Rago,
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il v