Rosa Pierno è nata a Napoli nel 1959 e ivi laureata in Architettura, vive a Roma. Dal 1993 fa parte della redazione della rivista di ricerca letteraria “Anterem” diretta da Flavio Ermini, Verona. Cura la rubrica Tangenze per la rivista d’arte “Il Libretto”, edizioni Pagine d’arte, Svizzera. Ha curato per tre anni il blog “Trasversale” (2011-2014). Suoi testi sono presenti nelle riviste Anterem, Poesia, Musica/Realtà, Next, Malavoglia, Almanacco, Bloc Notes, èlites, Semicerchio, Il Segnale, Formafluens, l’Ulisse, Equipèco. E’ presente con la sua cospicua attività critica nei seguenti siti e riviste: Mannieditore, Tellusfoglio, VicoAcitillo, Carte allineate, Anterem, L’Immaginazione, Malavoglia, Lietocolle, Lucreziana 2008, Il Segnale, PoetryInTime, Rebstein, Lietocolle, Leggendaria, Milanocosa, I fogli, TestualeCritica.
Ha pubblicato i libri:
“Corpi” Anterem, Verona, 1991,
“Buio e Blu” Anterem, Verona, 1993,
“Didascalie su Baruchello” Roma, 1994,
“Interni d’autore” Edizioni Joyce & Company, Roma, 1995
“Musicale” Anterem, Verona, 1999
“Arte da camera” edizioni d’if , Napoli, 2004
“Trasversale” Anterem, Verona, 2006 (Premio Feronia Città di Fiano 2006 Sezione Poesia)
“Coppie improbabili”, Milano, 2007 Edizioni Pagine d’arte
“Artificio”, Robin, Roma, 2012
E’ presente nelle antologie:
“Akusma” edita da Metauro edizioni (2000)
“Poesia in azione” a cura di Vaccaro e Guidetti, , Milano, edito da Milanocosa,
“CIRPS” (antologia multimediale) curata da Francesco Muzzioli (2001)
“Verso l’inizio. Percorsi di ricerca poetica oltre il Novecento” Verona, Anterem, 1999
“Parola plurale”Luca Sossella editore, Roma 2005
“Monti Lepini” con Davoglio, Hajdari, Pierno, Theophilo a cura di Filippo Bettini, Quaderni del Capanno2008
“Calendario della poesia italiana”Alhambra publishing, Belgio, 2010
“Blanc de ta nuque” di Stefano Guglielmin, 2012
Suoi testi sono presenti nei seguenti libri e cataloghi d’arte
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Anatomia dell’«Artificio»
Il vocabolario Trecccani annota: «artifìcio (o artifìzio) s. m. [dal lat. artificium, der. di artĭfex «artefice»]. – a. Uso dell’arte per ottenere fini determinati, quindi abilità, maestria nell’operare: bassorilievo scolpito con a. mirabile. b. Espediente trovato con arte per raggiungere un migliore effetto, per creare un’illusione, per far apparire più bella una cosa… Quindi anche astuzia, stratagemma: ottenere con artificio, con artifici; servirsi dei più abili a.; o affettazione, ricercatezza: gli a. dell’oratoria».
Rosa Pierno in questo libro adotta la strategia dell’artificio sul tema dell’«amore», una sorta di anatomia dell’artificio come anatomia dell’amore. Viene indagato «L’amore fossile», «lo stato del non amore», in quanto «Lo stato del non amore differisce da quello in cui amore regna per totale mancanza di colore: la realtà non ha luce né suono, né gusto né alterazione, non arpiona l’animo, né lo trascina; non ci sono picchi da registrare o epiche imprese da compiere o viale fiorito da percorrere e nemmeno pietraia da superare. Stato del non amore è vuoto teatro, polveroso palco».Viene tracciata tutta la fenomenologia dell’«amore»: «unione e separazione, somiglianze e differenze, proiezioni, mente e corpo, molteplicità e identità», etc. «Occorre distinguere – scrive l’autrice – la relazione che intrattengo con il tuo corpo da quella che intrattengo con la tua mente, poiché entità non assimilabili. Non dovrò considerare mente e corpo un intero, ma come due distinte persone». Assistiamo ad una conversione dei tropi in immagini e della loro metaforizzazione in due personaggi fittizi che occupano la scena.
Scrive Roman Jakobson: «Sulla trasformazione di immagini reali in tropi, sulla loro metaforizzazione, è basato il simbolismo come scuola poetica […] Per quanto riguarda il tempo letterario, un vasto campo di ricerca è rappresentato dall’artificio dello spostamento temporale».1 Parole illuminanti che ci introducono da subito all’interno dell’«artificio» poetico di Rosa Pierno.. In questo libro, si ha uno «spostamento di genere», l’«artificio» investe il genere stesso della «poesia», che diventa un elzeviro in bilico tra l’autoriflessione e la riflessione filosofica, una sorta di analitica dell’amore e del non amore, «eros e anteros», «amor sacro e amor profano», «Venere e Adone», «fuochi artificiati», luogo della «simulazione» e della «dissimulazione», «gioco delle corrispondenze speculari», «avvistamenti», «assalti», «affetti», «spazi sacri», con tutta una serie di corollari e di epifenomeni: «Anteros risveglia in coloro che sono amati la necessità di donare amore. Alleato di Eros, gareggia con lui per il possesso di un ramo di palma o di una mela. L’amore reciproco è solo in questa gara, contesa interna al dominio stesso dell’amore, in cui concorrono sensi e ragione»; «la mente contempla il corpo come esistente in sé, fino a quando non ricava un’altra affezione che ne esclude l’esistenza…»
Il problema della transvalutazione dei generi e della loro crescente ibridazione lo si può comprendere meglio se accettiamo di partire dalla crisi della forma poetica che data dalla metà dell’Ottocento con Les fleur du mal (1859) di Baudelaire, crisi che si aggrava nel Novecento ben prima della prima guerra mondiale, per giungere ai giorni nostri come stabilizzazione permanente della crisi, e quindi con la definitiva ibridazione dei generi artistici e della loro messa in liquidazione. Con la sovversione dei generi artistici. È la via maestra per comprendere questo libro, misterioso e alchemico, trattatello metafisico sull’amore non amore e disamore. Categorie centrali sono quindi il traslato (il passaggio da un genere all’altro), il procedimento meta ironico e l’ossimoro («amore non amore»), che, come scrive Jakobson, «rivela chiaramente la sua natura verbale poiché, secondo la definizione della filosofia contemporanea, se ha significato, esso non ha oggetto (come ad esempio “il cerchio quadrato”)».2
Luogo principe dell’artificio è il «teatro» del «mondo», luogo figurale per eccellenza in cui «qualsiasi cosa può accadervi», dove il «Tempo ideale coincide col tempo della festa», luogo di trasformazione e trasmutazione delle immagini reali in tropi, dei miti in riti e dei tropi in allegorie. Sull’assito del palcoscenico del «mondo» avviene l’incontro tra due attanti intorno a quella cosa misteriosa che non sappiamo più che cosa sia: «definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni, teoremi, corollari, tutto un ventaglio di strumenti per circoscrivere l’amore, per controllarlo, per sviscerarlo e all’occorrenza troncarlo». l’«Amore è moto turbinoso di schizzato concorso, di commistamento… Dialogo, lotta, caduta e trionfo senza soluzione di continuità».
Rosa Pierno fa una de-mitologizzazione del luogo retorico dell’amore, raffigurando in forma saggistica e suasoria la comportamentistica e lo psicologismo degli attanti-amanti. Infatti, «ci vuole metodo per porre ordine, per creare argini e trovare l’ago nel pagliaio. Metodo per distinguere fra regola e arbitrio… Medio proporzionale fra ragione e passione… [che] spalanca nuove prospettive».

città di sera
«E così – scrive Gilberto Isella nella prefazione – avviene l’incontro con il monstrum, dentro e fuori di noi. Il mostro-attore-maschera che calca il palcoscenico artificioso della vita, colui che sperimenta il ludus malinconico (quel navigare, fin dall’età barocca, tra reliquie oggettuali umanoidi), in un irrequieto concerto di tropi dove la sinestesia sposa l’ossimoro e ogni creatura si scopre entità ana- e metamorfica. Il mostruoso non è che l’effetto del mostrare, evidenza portata all’eccesso, mentre l’eccedere, da parte sua, declina l’accadere in forma di turbolenza: “Amore è moto turbinoso di schizzato concorso, di commistamento” E ancora: “Dialogo, lotta, caduta e trionfo senza soluzione di continuità (Artificio)».
«Curiosità – Si può essere curiosi di libri, di stampe, di quadri, di medaglie, di bulbi di tulipano, di giade, di mostri, di pietre, di fossili, di pesci con strumenti da scasso, di lucciole con lumi, di corni di animali inesistenti. Venere non è mai troppo lontana con Amorino dalle collezioni. Anche alchimia e filosofia ermetica, col miracolo dell’ottica, hanno partecipato alla costruzione del sapere. Curiosità, fra teologia e scienza, producendo raccolte, ha consentito di porre la questione della libera conoscenza».
Riguardo alla nota tesi della mitologizzazione dell’opera d’arte, Gianni Vattimo sostiene che poche opere d’arte possono essere considerate come «fondatrici» di «mondo», e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Ma, a rigor di termini, si tratta allora di capire in che termini un’opera è abitabile e se essa possa costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi tentativo di ermeneutica: non è un fatto secondario che un’opera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il mondo di ogni opera sia inscritto sempre in un mondo più ampio secondo una geometria concentrica di mondi. Tuttavia, la definizione dell’opera come fondazione di mondo ci sembra calzante, in via del tutto eccezionale, a proposito di opere collettive, vere «enciclopedie tribali», come i poemi omerici o la Bibbia: in questo caso l’opera rappresenta la genesi culturale di una civiltà e di un popolo, la struttura del suo ethos.
Leggendo quest’opera di Rosa Pierno si ha ragione di ritenere che l’opera d’arte di oggi sia una «enciclopedia individuale», portatrice di individualità ormai scisse dalla comunità, che non è fondatrice di alcunché, al massimo può fondare la propria unicità, può s-fondare se stessa come alterità irriconoscibile e nient’altro. Forse, a lettura ultimata, il percorso sotterraneo del libro lo si può ritrovare nel mito dell’androgino come figuralità che riunisce in sé entrambe le polarità sessuali, luogo dove gli ossimori e le alterità si conciliano.
1 Jakobson Roman Questioni di teoria e analisi testuali Einaudi, 1985
2 Ibidem p. 6
da Artificio, Robin, 2012
LA MAPPA DEL TESTO
Se si volesse tracciare il diagramma dei loro incontri, avvicinamenti, disguidi, mancate coincidenze, fughe, ritorni, incomprensioni, addii definitivi e sovrapposizioni carnali si avrebbe una mappa illeggibile, piena di tumuli, di itinerari che s’incrociano, di puntini sospensivi e di stendardi caduti, di profezie e di affermazioni successivamente negate, di documenti falsificati e di baci rubati, di dediche d’amore eterno e di rifiuti poi rinegoziati. Di questa cartografia d’amore si tenta, qui, di ricostruire il perduto testo attraverso un mosaico composto con citazioni prelevate da varie fonti: testi classici o memorie personali, il tutto impiantato in un terriccio misto a detriti e reperti, in cui ciò che è antico è riportato alla luce e ciò che è attuale proviene da atavica memoria. Passato e presente senza distinzione.
TEATRO
Teatro è mondo in cui vigono condizioni particolari: qualsiasi cosa può accadervi e in un solo luogo e in una sola ora. Inizio del mondo, conversazione col serpente o tradimento con mandragola. Tutto ciò che è immaginabile vi viene rappresentato.
Tempo ideale coincide col tempo della festa. La celebrazione è proiettata sui fondali, sui visi, sulle vesti. Fra matrimoni e ingressi del principe o del papa, tutto scorre senza soluzione e Reginella non ne salta alcuna di parata o di elegante e sontuosa comparsata.
Che sia comica, tragica o satirica la rappresentazione, lei è presente sempre. A cavallo o a piedi, vestita con una rete, mezza digiuna e mezza sazia, si offre come enigma. E a tratti è doppia: principessa o lazzara, dipende dalle storie che attraversa.
Città è scenografia ideale. Città è mentale. Punto prospettico equivale a retorico artificio: si accentri il mondo, gli si dia forma immutabile, ordine inalienabile! Si vada a dare inizio allo spettacolo!
COMMEDIA
Nel principio della commedia, quando si levò la gran cortina, si vide una nuvola in aria, nella quale era Venere, con la stella Espero a destra e con la stella Giulia a sinistra; le quali tutte e tre insieme cantarono un madrigale in onore della bella donzella. Di lei cantarono la triste storia, di come il suo crudele amante pur desiderandola la rifuggisse, degli ostacoli che follia pose sul loro sentiero e dell’ambiguo epilogo. Sì che gli spettatori, colti da affetti subitanei, tirarono fuori i fazzoletti e mare crearono ai piedi della città dipinta.
ARTIFICI
Dall’universo delle cose all’universo delle parole: molteplici forme conservano la loro autonomia e tutte insieme stanno sulle tavole del palco. Commedie sono metafore rappresentanti azioni per mezzo degli abiti e della voce e macchine teatrali rappresentano luoghi per mezzo d’apparenze: mari ondeggianti e selve mobili su cui volteggiano volanti corpi.
Spazio d’illusione, spazio di rievocazione, spazio naturale, spazio artificiale sono creati dalla medesima macchina celata. Dalla piazza si passa al palazzo: teatro è in pubblico e in privato spazio.
In così stretto loco è da non credersi quante viuzze, palazzi, cornici, logge e terrazzi! Assoluto artificiale coincide con la più vivida realtà.
FESTA
Muse con bellissimi drappi, cinte di argentei rami di olivo, hanno i crespi capelli cosparsi di fiori e un grande cappello ornato di ghirlande di agnocasto. Segue selvaggia donna con pelle di pantera e musa la tallona, più lascivetta, vestita di splendido drappo con assai svolazzi.
Giovinetti preannunciano il corteo marino ondeggiando e quando aprono le loro fila al centro appare una ninfa che indossa una veste dipinta di color smeraldo e ha per scettro una lisca gigante. La seguono tritoni con vesti tempestate di ostriche e di cozze, di telline e di maruzze. Tritoni circondano la dea del mare con diadema di diamanti, vestita di sola rete avente sullo strascico un’aragosta con moventi chele. Bambini e bambinelle chiudono il corteo e Reginella scalza segue danzando.
Persino una nave con trenta remi entra nella città su un carro camuffato mosso da dieci cavalli, mentre d’intorno gli spumeggia il mare, setoso drappo di spumeggiante seta, tanto che sballottata appare dai marosi.
All’indomani della festa, nella sala, addossati alle pareti o ammucchiati sul pavimento, carri allegorici, archi di trionfo, trofei di marmo, teatri di verzure, corone d’oro e d’alloro, lapidi commemorative, bandiere e stendardi, manti regali e delfini per fontane sono il deposto segno del trionfo celebrato: il signore a cavallo nella città è entrato.

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SECONDO ATTO
Dopo l’intervallo del primo atto, si sente tuonare; al qual strepito la scena tutta muta aspetto, poiché compare all’improvviso una nuvola tirata da pavoni, sulla quale sta a sedere Giunone e sull’arco celeste Iride, serva di Giunone, che deve annunciare le nozze dell’eletta donzella.
La donzella casca dalle nuvole: “Il folle uomo mi ha dunque chiesta in moglie? Com’è possibile, se l’ho io ricusato? Se anelo ad attraversare l’Averno per non essere preda di quell’uomo sciroccato? Oh, certo, qui, urge dare nuovo corso alla storia e chiedere udienza al tribunale dell’umana saggezza, poiché amore non è comunque privo di voglie, pur se è privo di ragione”. E crolla come marionetta coi rescissi fili crolla.
CANONE ENIGMATICO
Enigmatico è quel canone nel quale i conseguenti non sono dedotti dagli antecedenti. Se amor non ti guida, via non trovi. Il cammino è costellato da errori: periodi confusi, clausole imperfette, cadenze fuori di proposito, le male accomodate parti, i passaggi senza vaghezza, i numeri privi di proporzione, i movimenti mancanti di propositi e infiniti altri disordini e sommosse. Con siffatta zavorra non si potrà addivenire a soluzione. Tocca riscrivere tutto il testo, correggere, accomodare, accordare musica e parole, sentimento e ragione. Sarà necessario ricominciare daccapo. Dal primo appuntamento. Magari con altro non bacato amante.
EFFIMERA CERTEZZA
Non è sottoponibile a dubbio la salda convinzione di essere in amore. E’ un sapere conquistato non per via logica. Non è nemmeno legato a un sistema morale che vuole solo il bene dell’amato. Non amarti mi è altrettanto naturale.
E’ atemporale l’amore, nell’arco di una vita può morire e ritornare. Vivere sommerso o sopravvivere, adamantino come un teorema, a ogni quotidiano avvenimento. Si può dimostrare logicamente che sei l’amore mio più grande e altrettanto razionalmente che nemmeno ti stimavo.
Se avviene per sola via logica la dimostrazione della verità, per la medesima via avviene che si possano divellere tali fondamenta. Attraverso l’analisi delle frasi e degli atti vale la pena ogni giorno di annotare se oggi mi ami o provi disamore. Verificando solo dopo anni da quale parte la bilancia pende.
Che non vi sia nulla dell’effetto che non fosse nella causa, e che la tua fuga fosse contenuta in ciclico ritorno e la tua ricomparsa determinasse la mia ritirata, non vuol dire che qualcosa di ciò che è stato fosse predicibile.
Non vi è sostanza che non cessi di esistere, quando cessa di durare, e durata non è distinta dalla sostanza che attraverso il pensiero. Amore continua a perdurare nonostante sia dileguata la confidenza, franta la relazione, caduta la conversazione.
Le tue membra come singole parti non ricomponibili, inconfrontabili con altre, non sovrapponibili nemmeno con altri ricordi che ho di te, non differiscono mai però dall’unico corpo che amo.
E’ necessario che gli amanti si allontanino un po’ l’uno dall’altro, poiché, per quanto piccolo sia questo allontanamento, esso non cessa di essere una vera divisione e, dunque, meglio lasciarsi definitivamente.
In una causa ci deve essere perlomeno tanta realtà quanta ve ne è nel suo effetto. Non si spiega, in ogni caso, l’amore che provo con l’uomo per cui lo provo.
E’ ancora possibile ciò che non è ancora avvenuto, ma che avverrà prima o poi. Malgrado ciò, non avverrà che i nostri sguardi si incrocino, che tu mi riconosca come parte del tuo corpo. A causa del tuo diniego, solo il nostro amore non è possibile nell’universo intero.
Nel nostro modo d’intendere l’amore sussistono chiarezza e oscurità insieme. Lo intendiamo e ci è impossibile comprenderlo. Lo viviamo e non lo accettiamo, lo estirpiamo da noi e ce lo ritroviamo dentro indistruttibile.
E’ contraddittorio concepire nello stesso tempo la mente come distinta dal corpo e in unione con esso, e pur tuttavia la distanza non è solo quella esistente tra i nostri due corpi, né ci uniamo soltanto con essi.
IN FORMA LOGICA
Vero è ciò che si può provare e falso il non vero. Impossibile è ciò in cui entra un termine contraddittorio. Dunque, il nostro amore è vero, è falso, è impossibile.
Non è vero che non si possa effettuare alcun calcolo sull’amore: è anch’esso una quantità.
Si può venire sicuramente a conoscenza di molte cose sulla natura dell’amore, in base al principio che non può sussistere alcuna differenza tra ipotesi e conclusioni. Affermare che amo non può comportare che io lo neghi un istante dopo. Né il futuro può cancellare il passato.
Il vero amore non può essere ridotto a identità: ciò nonostante la perfetta sovrapposizione viene tentata mediante atto di unione fisica reiterato fino allo sfinimento che avvicina progressivamente alla coincidenza, sebbene mai pervenga a essa.
Non esiste una dimostrazione del fatto che se un corpo si avvicina continuamente a un altro corpo allora è vero che si è sempre avvicinato e sempre si avvicinerà. Se si procedesse oltre si constaterebbe che non si accosterà più a esso, ma se ne allontanerà.
Se questo tendere a un solo essere è l’aggregato di due esistenze, prolungandolo si vedrà che è l’aggregato di molteplici. C’è sempre troppa folla nella stanza.
Se pure abbandoni un luogo più distante per avvicinarti, resterai sempre a una distanza siderale da me. Sarà il tuo venire verso di me una somma di momenti che mai perverrà a integra presenza.
Tutto ciò che si muove, persino in questa fossile orbita, muta di luogo. Tutto ciò che muta si trova in due momenti prossimi: tu che mi ami rabbiosamente, io che ti odio teneramente.
Non c’è nessun corpo al mondo che non subisca in ogni momento qualche passione dovuta ai corpi vicini. Io e te, pur insistendo nella medesima orbita, veniamo allontanati da altre forze.
Volere che l’amore sia permanente e mai mutevole ricade nell’opinione di coloro che vogliono che la realtà non abbia accidenti.
I corpi di due amanti hanno la stessa coesione della sabbia. L’inerzia o la pressione, la forza o la passiva resistenza si alternano in entrambi. Se un corpo non si lascia penetrare e poi cede, indebolisce colui che spinge e viceversa. Gli amanti vengono travolti dall’amore stesso e poi da esso abbandonati.
Forse la connessione fra ciò che accade in tempi e luoghi differenti è una verità che attraversa e infilza: verità di ragione. O, forse, è solo variazione nella percezione.
Che sia l’amore cagione di se stesso o sia determinato dalla presenza dell’altro non è motivo che abbia alcuna influenza nella valutazione della sua assolutezza. Corpo amato può essere assoluto e perenne pur nella sua assenza: è funzione della mente.
MOLTEPLICITA’ E IDENTITA’
Lo si afferra di colpo. Si comprende senza passi logici, senza sapere come ci si è giunti, da quale giro sul tabellone dell’oca, per quale colpo di dadi. Tuttavia comprendere, qui, non è legato allo scopo da raggiungere, alla strategia da attuare. Si comprende di colpo e di colpo si perde. A causa della medesima natura dell’amore.
E’ l’amore stesso. Senza stare a cercare nessuna esterna spiegazione. Perché si è arrivati a questo punto e mai più si ritornerà a come si era prima: un solo respiro, un moto similare, un gemito all’unisono.
Mi pare di comprendere e allo stesso tempo di non comprendere come l’amore possa piegarsi al non amore. Come il non amore non estingua l’amore. Osservo che una costante oscillazione tra me e te attraversa i concetti di difesa e dignità, di crudeltà e pietà. Ribellarsi e accettare condividono il medesimo ondeggiare e mi viene il mal di mare.
Non vi è alcuna contraddizione fra amore e ingenerosità, passione e odio, desiderio e rifiuto. Alcun paradosso ne sancisce la compresenza. Sarebbe contesto morale che vuole l’esclusione di una delle due parole. Mentre amore le reclama entrambe.
La sola possibilità che quei brandelli di frasi, lacerti di azioni, gesti timorosi e proponimenti ogni notte reiterati si potessero ricomporre in un tutto che fosse continuare a restare in amore lo si considerò come insperata provvidenziale risoluzione. Presto naufragata.
Mi pare di aderire al presente indissolubile legame, come si ascolta una frase musicale, se solo guardo i tuoi occhi chiari. Comprendo quanto lo stato di preda sia fatto naturale, a te legata per l’eternità, e morso affondo nella tua carne infliggendoti legame non meno eterno. Musica, inflessibile, prosegue il suo naturale andamento.
Nessuna ragione dovrà essere tirata in ballo, nessuna logica individuata, nemmeno la malattia mentale. Amore mette proni e amore salva. E’ l’altro lato della medesima medaglia.
Attratta nel girone dell’inferno per una tua frase sibillina e scaraventata in indigente stato dai tuoi miseri atti, sapendo che non è copione di tragedia: nemmeno a porvi freno, si esce dal teatro, si saggia libertà, si spegne con le dita la fiammella dell’illusoria tresca. Il gioco è qui scoperto, però può andare avanti un altro poco. Finché dura. Finché non sale sul palco il sostituto.
ASSOLUTO
Se l’amore assoluto è già dato, ciò che posso trovare non sarà che imperfetto. Da qualche parte, in qualche luogo privo di fisico spazio, l’amore è già stato consumato.
Nessuna storia, progresso nemmeno, a tirar giù l’idea di come dovrebbe essere, quello che si vive è privo di lucore. Pallido sembiante di sfavillante sole.
Eppure, o mai amore conobbi o ciò che conobbi in seguito sempre a quello riportai.
Discende da quell’unica passione il singolo caso, i gesti che non concordano, le liquide parole che non dissetano.
Amore senza resto, senza altrove a cui demandare mancanze, da cui declinare somiglianze: unico immutabile ed eterno, perfetto e infinito, incarnato in annoiate repliche.
La durata dell’unione, i corpi che si penetrano in ogni modo, diviene interminato atto che il tempo elargisce senza soluzione.
In ogni istante, io assaggio l’incavo del tuo gomito per sempre e tu immergi la tua voce nel mio orecchio da sempre.
Asfittico luogo, con fioca luce, mentre la vista fugge da immobili membra, prive di forza, su cui nemmeno scorrendo con la lingua, alitando, soavemente nominando è possibile rinvenire alcun moto. Amore non può nulla su fossile cuore.
Se l’amore fosse tutto ciò di cui il mio essere non dubita, allora fondamento dell’amore sarebbe la libertà d’amare. Posso dirti sì o no in ogni istante. Ma anche sì e no insieme.
Che proprio gli amanti manchino di pietà l’uno verso l’altro è la cosa meno tragica e la più triste possibile. Amore che se stesso divora.
Assenza equivale a presenza in un amore finito unilateralmente o non finito, ma represso e calpestato. E’ presenza che tinge di viola e porpora i bordi del cielo. Idea che sfiora il corpo facendolo tremare.
Che l’uno rifiuti e l’altro desideri, che l’uno implori e l’altro non ascolti, pure, non risolve il legame. Non si può spezzare per sola via logica ciò che ha anche natura illogica.
Amore assoluto è ciò che non ha relazione con alcun condizionamento e limitazione. E’ l’identico e l’unico. Nutro un amore incondizionato per il tuo corpo. Non per la tua mente.
Nessuna parola finita potrà definire assoluto amore e, dunque, mille e mille volte sarà necessario ripetere che t’amo.
massimo cacciari
Giorgio Agamben
Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo
di Donatella Di Cesare – 20 dic 2021
da espresso.repubblica.it
È stato il filosofo più significativo di questi ultimi decenni. Ma da quando ha iniziato a commentare gli eventi legati al coronavirus ha abbracciato il negazionismo. Sarà quindi necessario preservare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva
Mentre volge al termine il secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere, tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che investe in pieno la filosofia. Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza.
Giorgio Agamben – piaccia o no – è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato l’insegna di un nuovo pensiero critico. Per quelli della mia generazione, che hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri – soprattutto a partire da “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 – hanno costituito la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso, un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato dell’economia. Sulla scia della migliore tradizione del Novecento – da Foucault ad Arendt, da Benjamin a Heidegger – Agamben ci ha offerto il vocabolario e il repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia post-totalitaria che mantiene un legame con il passato?
Tanto più traumatico è quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato “L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza. Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. Nel mio pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o rimuovere.
Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della polis, ci sembrò quasi insopportabile – fin quando non emerse la sofferenza di chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. L’immagine dei camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto di non ritorno. Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica dei confini chiusi. L’Europa reagì.
Per Agamben era tempo di riconoscere a chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. I suoi post si sono susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 – “Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” – dove il green pass viene paragonato alla stella gialla. Un paragone osceno, che ha dato la stura ai peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione per il dubbio e la precauzione”, è storia recente.
È motivata la preoccupazione per una deriva securitaria. La politica della paura, la fobocrazia che governa e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con lo stato d’eccezione. Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il sale della democrazia.
Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica, non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata…». Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo.
No, non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla «organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo.
Com’è noto Agamben si è ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass. Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il piano di vaccinazione. Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili. Mi sarei aspettata dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati morire. Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo peso. Nulla di ciò.
Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare categorie concetti, termini, alcuni – come “stato d’eccezione” – divenuti quasi ormai grotteschi. E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica, dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.
Donatella De Cesare
Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” Il filosofo esterrefatto per Cacciari e Agamben. E indica la via in Kant e Rorty
da Davide D’Alessandro da huffingtonpost
Salgo le scale e immagino il professore Gianni Vattimo seduto davanti alla finestra a leggere i giornali, che passano in fretta, e a rimirare la Mole, che non passa mai. Mi accoglie con le mani giunte e quel sorriso dolce e stanco di chi è costretto alla poltrona. Di fronte svetta la libreria, dove campeggiano i libri di Heidegger, di Nietzsche e i suoi, tradotti in tutte le lingue del mondo; perché, sia detto con chiarezza, è lui il filosofo italiano più tradotto all’estero. Della versione cinese ci limitiamo a guardare la bella copertina. Dentro è inutile avventurarsi.
Gli chiedo se devo mostrargli il green pass della doppia vaccinazione ma lui, lucidissimo, non abbocca: “Sono in attesa della terza dose e tutto questo chiasso francamente mi provoca fastidio e sconcerto”.
Ma come, gli dico, si fanno incontri e manifestazioni sulla dittatura sanitaria, sulla sorveglianza, sui complotti politico-tecnico-finanziari, si fa addirittura riferimento ai metodi di Hermann Wilhelm Göring e tu te ne stai qui, buono buono, zitto zitto, ad assaggiare una fettina di torta alle mele e a sorseggiare un po’ di vino bianco? Si fa più serioso: “Guarda, a me sembra un’autentica follia. Ma come si può arrivare a sostenere simili sciocchezze? Stanno usando il green pass e il malcontento generale per arrivare chissà dove. Purtroppo, la responsabilità non è soltanto dei Cacciari e degli Agamben, ma anche di un sistema mediatico che insiste sul tema, concedendo pochissimo o nessuno spazio ad altri tipi di dibattiti, che sarebbero ben più importanti. Vorrei partecipare a incontri e manifestazioni sulla povertà, sull’eutanasia, vorrei parlare di questi temi a studenti coinvolti colpevolmente in una confusione generale”.
Gli porgo la pagina di un libro dov’è l’idea dello Stato da parte di Kant: “L’idea dello Stato è quella in cui nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà di altri di tendere a uno scopo simile, la quale può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale”. Vattimo si illumina: “Ecco, scolpiamola sulla pietra e non parliamone più. Anzi, possiamo issarla a mo’ di bandiera e farla sventolare per le piazze. Una volta i Movimenti nascevano su ben altre motivazioni, oggi mi tocca leggere che le riunioni sul green pass potrebbero preparare la nascita di qualche Movimento. Non ho parole. Ma dove siamo finiti?”.
C’è un filosofo al quale il professore affiderebbe la lettura di questo complicato tempo presente ed è Rorty: “Certo, perché le sue parole sono attuali, edificanti, positive. Il pensiero filosofico può essere al centro del discorso pubblico, ma non sul green pass. Non mi sento affatto sorvegliato. Mi sento un po’ spento e amareggiato. Aprire i giornali al mattino e leggere menti, ritenute brillanti, che si accapigliano sul nulla è deprimente. I dati, inconfutabili, ci dicono che la stragrande maggioranza degli esseri umani è ancora in piedi grazie al vaccino. I controlli sono necessari, poiché lo Stato non può consentire che la libertà sfrenata e pericolosa di qualcuno possa compromettere la libertà e, ciò che più conta, la vita di altri. Se non comprendiamo questo, di che cosa parliamo? Di quale filosofia parliamo? Povera filosofia!”.
Lo saluto ricordandogli che la filosofia della quale resto attento lettore è in “Scritti filosofici e politici”, la sua opera (quasi) omnia edita da La nave di Teseo. Il professore sorride ancora. Un raggio di sole lambisce la Mole. Il pensiero debole è più forte che mai.