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Stanislav Dvorský (1940-2020): L’inizio del gioco a cura di Petr Král, traduzione di Antonio Parente, Dvorský  Chiama questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti  

Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale, Pomodoro

Stanislav Dvorský

L’inizio del gioco

non ho nessun amico dietro le finestre scure d’azzurro
lancio soltanto dei sassolini con accortezza per non rompere nulla
ricordiamo ancora i giochi giudiziosi quando sull’acqua si formano dei cerchi sbadiglianti
il cordoglio sorride non ho nulla da perdere
nemmeno le mie mani mobili
nemmeno i miei amici
nella vuotezza zincata del profondo banco di mescita
tanti avanzi convincenti dell’eternità usignola
una volta ero un eccellente tiratore e i miei amici continuano ad applaudirmi
ho sparato già quasi tutte le cartucce
non riesco a fare centro continuo ad essere
come vivo come vivo

* * *

Tarda estate

il ponte di fili bianchi sospeso
sulla baia assente di palombari inchinati

una seppia morta da tre giorni
contempla qualcuno di loro con occhio riconoscente
tutto il limaccio al centro della maestà stagnante del vetro
non volge altrove il capo
culla in grembo il bimbo d’inchiostro

gli raccontai le mie allucinazioni jazzistiche
innalzai un recinto brunito intorno all’idiota
infastidito dagli ordini perenni sul foglio senza righe
alzai i tacchi
delle scarpe sotto il tavolo
pittai il recinto color pelle con vernice color pelle
in modo da non essere troppo visibile
in modo da non stare in piedi
avevo i miei riposi illuminati i ceppi floreali
del resto è la mia missione
poche volte il sistema solare comprende tutti i simboli esterni
perché persino facendo notevole attenzione l’intonazione sfugge dalle narici

lo chiamai col nome di battesimo
nessuno si voltò

Zborcené plochy (Piani distrutti, 1996)

* * *

Bottiglia Molotov

le fiamme disegnano mandrie di animali galoppanti lungo il soffitto del vagone frigorifero che con un ampio tornante si precipita sui binari chissà dove
apicoltori portalettere spazzini intere stazioni di inseminazione un’unica enorme moltitudine armata di forconi asce e attizzatori
si precipita con terrore su piazza Democrazia popolare

questi fenomeni sono visibili nelle nostre bevande
dove cala di sbieco il basso sole primaverile
quando un vento fresco spinge a soffi la tenda nel profondo della stanza

* * *

Tra le cosce di questa primavera

pezzi di cannelli di paraffina nell’attimo in cui cambiano sostanza

della tua eterna nudità (buia: sussurro “di nicotina”)
è anche così il punto focale della notte il resto della pelliccia
dopo un istante pieno di sego caldo

poi le arterie pulsano gemi il nastro al buio fruscia
(mettiamo Wheels of Fire basso basso)
e alla finestra si accendono azzurri i fumi alcolici
invano
senza futuro

Dobyvatelé a pařezy (Espugnatori e ceppi, 2004)

Stanislav Dvorsky 2018 Petr Kral

Stanislav Dvorsky e Petr Kral

.

Petr Král

Black and Blue[2]

Quando conobbi Standa Dvorský, alla luce arancione della leggendaria “stagione del ‘59”, diventò subito per me l’amico-iniziatore (secondo la definizione di Sarane Alexandrian), colui col quale è possibile instaurare un vero dialogo, complice e contendente allo stesso tempo, colui che ci apre le porte del mondo e di ciò che vi sarà per noi di fondamentale, e che ci aiuta in maniera decisiva a chiarire i nostri pensieri.

[…]

Molti erano i tratti da noi condivisi, che costituivano la nostra esperienza e la nostra “memoria” comuni, se non altro grazie alla sistematica e reciproca comunicazione: l’esistenzialismo e il surrealismo, il poetismo e il dadaismo, la decadenza di fine secolo e l’ubriacamento degli anni Venti, le incisioni e le comiche mute, i vizi dei salottini e gli amori delle gite scolastiche, la canzone Zasu di Jaroslav Ježek e il Castello di Kafka, i vaporetti domenicali e i salotti in fondo al lago, Voskovec + Werich e Rimbaud con Verlain, la cicoria di Pečky e l’Hispano Suiza, gli smoking bianchi e i maglioni alla beatnick, l’assenzio e il jazz… Ognuno poneva l’accento su cose diverse e costruiva tutto in maniera differente; Standa lo faceva in maniera meno casuale, come se sapesse fin dall’inizio quello che voleva.

[…]

Dopo aver letto i suoi primi testi, fu chiaro che la nostra generazione aveva in Dvorský uno dei suoi autori chiave, il proprio poeta, il quale in modo unico ma essenziale riassumeva le idee, “le sensazioni” e le posizioni degli altri. In molti di quelli che allora lo conobbero i suoi testi ebbero di colpo un influenza determinate; ad esempio, l’opera di Karel Šebek non sarebbe stata la stessa senza di loro, e anch’io non sono sicuro se le mie “visioni” poetiche non siano per metà di Standa – tanto intimamente alcune delle sue immagini si sono impresse nella mia memoria.

Nei suoi testi poetistico-dadaistici del periodo precedente il 1959, nei quali andava assumendo sempre più vigore l’influenza surrealista, traspare la sua caratteristica concezione delle tre componenti che – in diverse proporzioni e relazioni – formeranno l’intera sua opera: il lirismo, la narrazione poetica, il discorso sarcastico. Se la sua narrazione ha, fino a quel momento, una comunanza con le poesie-sogno del Nezval surrealista e il suo discorso con la provocazione dadaista, dietro il lirismo di Dvorský trapela soprattutto, ed è cosa non senza significato, Halas. E ciò sia per quel che riguarda la visione del mondo del poeta e il suo sviluppo personale, sia per il ruolo dello stesso Halas nello sviluppo della poesia ceca. Continua a leggere

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Petr Král (1941-2020), Poesie inedite dalla raccolta inedita Distanze, Un testo inedito degli anni settanta di Petr Král, con uno stralcio di una intervista a Pavel Řezníček nella quale si accenna alla nascita del movimento surrealista praghese degli anni Sessanta, Traduzioni di Antonio Parente

Antonio Parente 

Testo di Petr Král di fine anni 1970, uscito nella raccolta L’era dei vivi (1980).

 

Natura per tutti

                           Per Hélène Renon

1

Boschi al pomeriggio, a un passo e distanti dall’eterno fruscio delle banconote, boschi con un seducente ciuffo boschivo in mezzo ai boschi. E nel bel mezzo una casa bianca, inabitata. La casa solitaria custodisce il suo segreto, c’è un uomo solo sul tetto, l’ultimo giardiniere, a sorvegliarla. È in bianco, gli dona; bianco da sempre, il mare che tace discretamente sotto le lenzuola nelle soffitte vuote + il tracollo degli abbaini a fine pomeriggio. Per il sangue, si deve già andare un po’ più lontano: ai palchi macchiettati dei teatri chiusi fuori città, agli ultimi brandelli di sangue nei fumaioli desolati degli affumicatoi, e alle viscere scarlatte del viveur vestito di bianco mentre cammina pazientemente su e giù per la banchina vuota del porto, evitando accuratamente lo sguardo dei vitaioli intorno a lui. Il pomeriggio raggiunge il suo inesorabile apice. Qua e là una lingua pende ancora sul libro, qua e là dei sederi risvegliati luccicano di nuovo sulla radura; questo è il momento giusto, se mai ce ne sia uno per piantare la propria bandiera in mezzo alla gloria versata. Ora o mai più. Anche i corridori si fanno impazienti; solo dopo alcune false partenze riescono finalmente a partire in gruppo, prima che ognuno di loro si renda conto di essere di nuovo solo ad ansimare nel bosco.

E continuano anche le piccole faccende umane: il buttero arrossisce con successo e sistema una bistecca a sostegno del biliardo cigolante, i medici ridacchianti si allontanano dalla natura mansueta del parco verso il fresco delle sale operatorie. In lungo e in largo, singolarmente e in gruppo, siamo tutti una famiglia disseminata; i pallidi trionfano sugli abbronzati, e poi sono questi ultimi a prevalere, alcuni più miti e meno appariscenti di altri. Chiudete il libro, tanto è già pieno. Aprite la porta, tanto non c’è nessuno. I sorrisi dorati brillano appena a loro convenienza nell’erba esuberante; lo scoiattolo morto vola nella spazzatura, Rosaspina si fa il letto in cielo, siamo tutti ai piedi di un’unica scogliera; la casa bianca sorveglia il solitario sul tetto, che da tempo non si sente più a casa, in nessun luogo. Ognuno di noi dimentica sempre che anche il ritorno da un viaggio è solo un altro viaggio: quando ci troviamo nella radura e l’edificio familiare diventa di nuovo bianco in lontananza davanti a noi, tra gli steli del migliarino, stiamo solo navigando ancora una volta verso il porto dall’altra parte dell’oceano.

 

2

Poi ci spogliamo, un calzino, l’altro, un po’ schizzinosi e un po’ cospiratori mettiamo via i nostri straccetti dall’odore familiare, mentre il cavastivali ci guarda con la calma di chi durerà comunque fino alla prossima guerra. Sì, avete sentito bene: una folata di vento improvvisa, e nell’incogliere del crepuscolo è di nuovo impossibile sapere quando, perché e a chi si rizzino i capelli, e tanto meno su quale testa. Né alla fine ci si intende sul fatto che il sole sia solo una velatura occasionale su un mondo permanentemente grigio, o se il grigio sia, al contrario, solo un velo occasionale sull’oro di giornate sempre magnifiche. Ci vorrà ancora un po’ prima che ci si dissolva nei propri pensieri; ci saranno sempre dei resti non digeriti, se non quelli che ora discendono sull’erba lungo la pista deserta. Mentre il velodromo ci circondava con il nostro stesso silenzio, ci ergevamo qui taciturni al tempo in cui il centro del mondo avvizziva. Lenin? una semplice ombra, e poco più in là, un Casanova in un casto fremito.

Non c’è niente di peggio di quando cala la penombra, il lamento del vento nelle sue stesse viscere; quando ombreggia il crepuscolo, le teste che ricadono nel giorno sono teste inutili, cesti traboccanti di un bagliore vuoto. Chi può mai affermare che non abbiamo fatto nulla? Ognuna delle rovine di cui è imbottito il crepuscolo è opera nostra, comprese quelle che puntellano il cielo fatiscente. L’oscurità ha inghiottito i sentieri, ma l’uomo continua a disegnarne i labirinti nella notte del cervello. Rimanemmo in piedi e bagnati accanto alle gabbie degli animali fradici, circondati da ogni lato dalla pelliccia madida degli sterpeti, in attesa soltanto del fulmine globulare. Almeno questo era ieri; oggi ne parliamo soltanto, di nuovo, mentre lo stesso fulmine riverbera nelle profondità delle nostre gole. L’oggi, un pallido frammento di lampada dietro una cortina di gocce silenziose che tormentano la nuda autostrada. Il mammut dei tempi, Lenin? C’era una volta, o forse no; sussurrato. Possiamo piovere indisturbati.

 

Petr Král

Tutta la ruggine

Ma
donna tutta quella ruggine
di condutture corrotte cumuli caduti
rivelata nel terreno smosso da scavature
come forme quotidiane di seminterrati
sotto i piedi e le gambe
anche di dolce avvenenza del viandante e della viandante vivi Ma
donna e come sale qui pervade i corpi con severo crepitio
si drizza come il fruscio di foglie cadute la fiamma secca ma
donna in cui riarde
ciò che più non cova che mi riempie della tua carne
e in te stridono le mie ossa
porta a noi l’acuto brusio
del bosco antico dei suoi turbolenti rami delle venature infiammate
dei cespugli ardenti di cerve

* * *

“Ridi”, lo sollecitarono
Il cuore lo comprese
ma la bocca si irrigidì

Continuare a sparare alla cieca
o semplicemente sbandierare

* * *

Il bisogno di andare
seguire la strada
il marciapiede
Cicche e ciliegie
Nei vuoti
l’intera giornata nuova

Di notte il buio enfisema
nella sciamatura di stelle
Nella camera da letto
qua e là un fermaglio
Sotto il tavolo briciole
A volte una meteora
Un dente caduto
Una scalfittura di unghia
sulla parete
La saliva rimanente
all’angolo
Nell’occhio del paesaggio
solo una macchiolina d’albero
Subito una cicca
e poi un nocciolo
Il bicchiere che al tatto
si allontana di nuovo

* * *

Il bucato torna a noi
in uno sventolio spudoratamente candido
Il brandello di nuvole
dovrebbe ora consegnarlo qualcuno
se solo da qualche parte in Moravia
dietro l’impervia femminilità del declivio
dove continua a levarsi
e a scomparire
Le silenziose fabbriche del nulla
nuove città vuote

(dalla raccolta inedita Distanze)

Ecco uno stralcio della intervista inedita in italiano al poeta ceco Pavel Řezníček a cura di Viki Shock, pubblicata su Babylon n.7, 05., nella quale si narra un aneddoto in cui compare Petr Král circa la nascita della poesia del secondo surrealismo ceco, nella traduzione di Antonio Parente.  Continua a leggere

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Lucio Mayoor Tosi, Quattro poesie inedite, Oasi, Poesie per Petr Král, Giorgio Linguaglossa, Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi, Falce e martello all’epoca del Covid19, 2020

Questa immagine di Lucio Mayoor Tosi, con la falce e il martello che se ne vanno per i fatti loro, e il rosso bolscevico che fa da innocuo sfondo, è un esempio di picture kitchen; la falce e il martello sono diventati degli emblemi come il coltello e la forchetta, come la macchinetta da caffè Moka, sono diventati oggetti del design alla moda, desueti e dimenticati, de-storicizzati, de-realizzati. E la picture kitchen ne prende atto, Lucio ne fa un manifesto del fuori-senso, un simulacro senza più originale, un dispositivo imaginale senza più un linguaggio storico. Sono oggetti dis-ancorati dal quotidiano, come tutti gli altri oggetti del quotidiano, del resto, che appaiono fuori-contesto, fuori-senso, fuori-significato.
(g.l.)

.

Oasi. Poesie per Petr Král

di Lucio Mayoor Tosi

N. 1

Noi siamo abbandonati. Il mondo va nei bar mentre si discute
di Covid 19, maiuscolo. Ma io ci faccio una pippa.

Mascherina in fronte, suggerisce l’ascoltatore, un rapper
d’alluminio anni 2030. Per chi ama le farfalle.

Senti, ti chiamo. Abbiamo stenografiche del paleolitico
ancora funzionanti. Codici a barre, cose così.

La prima luna deroga d’affitto, un insieme di lampi
al cherosene di marca comunista, Cose che mettono nostalgia.

Ma naturalmente, sai, per via dei distici, guarda:
mancano denti a sinistra, sotto. Alcuni scrivono

come piovesse. Oddio, sempre come piovesse. Ripeto.
Stile mio di carrozza a sonagli, d’altronde siamo,

sono come sul vacillare del forno le cornucopie,
direbbero certi scrittori del realismo. Fantastico,

puoi toccare parole chiudendo gli occhi, Uh uh uh,
queste sono vere farfalle. Quasi un digiuno.

Cappotti che hanno perduto la fodera. Critici
che andrebbero da Michelangelo a correggere baffi.

Perché chissà quale odore, profumo di passato
si nasconde nella terrapieno delle azalee. Comunque,

difendersi dal senso di colpa, se viene Natale
e non hai niente da regalare ai nipoti.

Zio d’America scrive poesie ma è sfortunato.
O ha qualcosa che non va nella testa. Karma negativo,

quando le cose vanno bene, ecco che si rompe
un bicchiere dei due che sono rimasti.

L’effetto è immediato. Significa che siano a un passo
dal tesoro, Antartide. Ora o mai più!

N. 2

Così se ne vanno in volo, il coro figli angeli
in una faccia di vecchio inchiostro. Le spalle curve,

gli anni a chiedersi come mai, e risponde Minosse
ti sbrano in un hamburger. Più o meno

un trapassare di scaltre fanciulle sopra il divano
(oh! Sempre piove), ma come derelitti sperare

nel flusso di corrente, che arrivi Broadway
come Singapore chissà perché, tabacco a ciocche.

Quindi sterminare mosche, sole amiche.
O prendersi l’intervallo su cornicioni in centro città.

Un po’ più in basso, ecco, dove scorre vecchia poesia
e l’autore frigge uova – come piovesse. D’altronde

piove sempre. I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.
E noi, chi noi, io, ecco. Allora infilo perline.

N. 3

L’archivio portaricordi in fretta seppellisce
voli che altrimenti, morisse il gatto, le lune sarebbero

filo d’aria in ascensori per paradise, non ricordo.
Quindi scrivo Mio caro… Mia cara. Punto.

Oggi molte teste in controluce sembrano ostriche
che nel corpo riflettono sentimenti. Provare

per smentire se altrimenti – e sempre piove –
forse e volendo, anche l’angolo in cui saremmo morti.

«Sono un pericolo pubblico, ecco perché
vivo solo. Conto i giorni col loro nome».

«Prima era diverso, fingevo luce alle finestre,
Ma non vale. Finisce per strada un convoglio

di idiozie».

N. 4

La durata di un film, e non andiamo oltre.
Miss prevosto, prima che diventasse l’ultimo dei bastardi

disse tra i quartieri il nome di ogni colpevole,
più o meno all’ora dell’aperitivo.

A destra fecero commenti di destra, a sinistra
si stracciarono le vesti. I colpevoli sono parole

marionette. Dimmi prima chi sei. Poi traduci
per la folla. Sanno già tutto ma preferiscono

sentirselo dire, che sono stronzi. Sì, come è vero
lo sbattere d’ali di piccione sul sagrato. Niente più

che somarelli addomesticati a rabbia latente,
per via di congiure spropositate a danno di tutti.

Ma che fa? L’azienda auto pensieri ha per nome
meraviglia in dodici lingue, non una che vada bene.

Al complotto finanziario aggiungiamo chiavi
di violino, la caca-forte dei rimandi accesa.

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Polittico, acrilico, 2017

Giorgio Linguaglossa

Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

Sembra quasi che una zona di auto sospensione del e dal linguaggio si sia verificata, che sia accaduta quella cosa magica per cui il linguaggio si stacca da se stesso e va per i fatti suoi, indipendente dall’io e dal noi, questi maledetti pronomi personali che hanno infestato la poesia del novecento e hanno dilapidato le esistenze degli uomini del XXI secolo… C’era da aspettarselo che un giorno sarebbe arrivato un poeta auto sospeso dall’io che fa una poesia come l’avrebbero desiderata i dadaisti e gli eslegi di tutte le avanguardie. È che Lucio Mayoor Tosi ha compreso fino in fondo che cosa significhi fare oggi una poetry kitchen, fare una poesia con gli utensili che stanno in cucina, accettare di impiegare le parole con contratto a tempo determinato, senza alcuna presunzione di durata, di voler durare per l’eternità! Ah, che brutta parola l’eternità, Lucio Tosi  la scapperebbe, lui che fa una poesia dell’effimero, che dura appena un battito d’ali, friabile e leggera che appena l’afferri e ti accorgi che ti è rimasto sulle dita il polline malinconico delle sue ali… E anche il gozzaniano «archivio portaricordi» ormai è in disuso, seppellito dai suoi stessi ricordi… E anche «l’azienda auto pensieri» è finita in rigatteria, con tutti i rigurgiti versali delle poetiche normative e oggettuali del post-moderno… E poi quelle frasette messe lì come per sbaglio: «I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.»;  «quando le cose vanno bene, ecco che si rompe/ un bicchiere dei due che sono rimasti», che sono davvero eccellenti per il loro non voler dire nulla di serio o di faceto o di accettabile, per il loro essere assolutamente transeunti, per elencare il fuori-senso delle parole che usiamo ogni giorno  come carta moneta. Questa è, per l’appunto, poetry kitchen, il cui aedo, Mario Gabriele, le ha dato i natali con L’erba di Stonehenge del 2016. Lucio Tosi si è inoltrato molto in avanti in quella zona di confine, di indistinzione, di indiscernibilità, di enigmaticità propri del linguaggio della transvalutazione del banale, quella zona in cui avviene che tra le parole cessano i collegamenti di senso e di significato per via di una auto sospensione del linguaggio, come se quelle parole avessero raggiunto il momento temporale che precede di un attimo la loro rispettiva differenziazione, non per via di una dis-somiglianza quanto per via di uno slittamento di senso, per via di una vicinanza prossima che si è poi rivelata una lontananza estrema, quasi che quella contiguità tra le parole, quella colla che le teneva insieme si fosse all’improvviso dissolta e quella antica alleanza, quella antica filiazione si fosse convertita in dis-alleanza, in fibrillazione. Tutto ciò apparirebbe contro natura, sembrerebbe contro la natura della parole, che sono fatte per stare insieme accanto ad una stufa, la stufa del significato, e che invece si sono ritrovate all’aperto, esposte alle intemperie e alle basse temperature, al gelo del nostro modo di vita e dei nostri valori de-valorizzati e tra svalutati… ma è che le parole non sono fatte per comunicare, Lucio Tosi lo sa bene, sono ordigni fatti per ingannare e irretire gli uomini, non sono portatori di buone intenzioni o di alate metempisicosi dello spirito, sono degli strumenti acuminati e affilati con cui puoi far male se davvero le pensi in relazione ai loro significati consolidati.

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Prose poetiche inedite di Karel Šebek (1941-1995) scritte per scommessa, e una poesia, Tentativo di suicidio, traduzione di Antonio Parente con un dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

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A seguito di una scommessa tra Karel Šebek e Petr Král, vinta da quest’ultimo,  Sebek dovette scrivere per un anno tutti i sogni che faceva durante la notte.
Eccone alcuni inediti in italiano tradotti da Antonio Parente.

Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.

Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková. Qui:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/22/karel-sebek-1941-1995-3-x-nulla-cura-e-introduzione-di-petr-kral-traduzione-di-antonio-parente-mimesis-hebenon-milano-2015-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-un-compiuto-progetto-poe/

(Petr Král)

Karel Šebek nasce a Vrchlabi il 3 aprile 1941 e scompare nell’aprile del 1995. Poeta, collagista, paracadutista di poesia. I suoi scritti sono apparsi, tra l’altro, sulle riviste ceche “Analogon”, “Literarni noviny”, “Tvar”, “Orientace”, “Host”, “Vokno” e “Doutnik”, in Francia su “La Crécelle Noire”, “Camouflage” e “Melog”, in Italia su “Hebenon”. Inoltre, è presente nelle antologie Surrealistické vychodisko (Via d’uscita surrealista, 1969), Cesti prokleti basnici (Poeti cechi maledetti, 1998) e Le surréalisme en Tchéchoslovaquie (Parigi, 1983). Ha alle spalle una trentina di tentativi di suicidio; l’ha sempre scampata, ma dall’aprile del 1995 risulta scomparso. Può darsi che si sia avverato il suo sogno da bambino, il suicidio. Ha pubblicato le seguenti raccolte: Ruce vzhuru (Mani in alto, 1990), Probud se andeli, peklo spi (Svegliati angelo, l’inferno dorme, 1994), Ani hlt motyla (Nemmeno un sorso di farfalla, insieme con Eva Valkova, 1995), Divej se do tmy, je tak barevna (Guarda nel buio, com’è varipinto, 1996) e 3xnulla per Mimesis, 2015.

Motto: La poesia è un indimenticabile gioco alla propria vita

Karel Sebek

Caro Petr,
non tutto è perduto, te lo assicuro, ho anche capito come fare per assolvere in tempo la prossima volta il mio dovere verso i sogni e verso di te: ogni notte che salterò, andrà ad aggiungersi a quella di Capodanno, quando, come d’accordo, tireremo a sorte di nuovo. E quindi ora dovrà aggiungere martedì notte, mercoledì notte e lunedi notte, immagino. Allora, arrivederci al 3 gennaio 1968, per l’estrazione a sorte, per il momento. Vedo che ancora una volta, mi sono sobbarcato un bel carico.
Ti ho spedito davvero una cartolina postale terribile, che sembrava provenire dallo stesso mondo dal quale l’ho effettivamente inviata, dal momento che te l’ho scritta in uno stato di coscienza parziale.
Scusami, non lo farò mai più.

Vorrei ancora salvare almeno i sogni della notte tra giovedì e venerdì e tra venerdì e sabato / oggi è sabato /.

notte 13-14 aprile 1967
Sto andando verso l’ospedale di Vrchlabi, dove devo recarmi per una ragione che non conosco, prendo una porticina che non ho mai notato prima, a quanto pare è un’altra portineria, più piccola, sostitutiva, che viene utilizzato solo in casi estremi, in realtà qui passano occasionalmente solo i dipendenti, due uomini che vi lavorano, i quali altrimenti fanno da guida ai pazienti per il parco dell’ospedale; tutto ciò mi viene spiegato, su mia domanda, da uno dei due uomini. Oltrepassata la portineria, il terreno cambia radicalmente, la distanza fino all’edificio principale dell’ospedale ora è circa dieci volte maggiore, e tra la “portineria” e l’edificio vi sono ovunque delle gole profonde, in realtà qui parrebbe una versione un po’ caricaturale o maggiorata della collina dietro l’ospedale dove in passato andavo sullo slittino durante le vacanza di fine semestre.
Quindi, tutto qui è accresciuto, la recinzione è stata estesa, e forse anche la portineria era originariamente solo una casetta nei campi, ed è perciò che allora non la notai.
Ci sono anche gli sciatori, ma niente neve – vanno molto veloce per i prati, credo abbastanza primaverili – in realtà tutti intorno si muovono sugli sci, il postino, “i pedoni”, i medici, un poliziotto che scia sul prato, riconosco in lui con stupore il mio compagno di classe di una volta, Kubáček – tutto accade proprio in quei giorni in cui ho smesso di tenere il diario. Per questo mi è sfuggito tanto in così poco tempo – in sogno cerco solo di pensare e di non vedere immagini – ora in sogno riesco con la sola forza di volontà a fermare nella sala del cinema la proiezione del film –

notte 14-15 aprile 1967
Come tante volte di nuovo in viaggio per una città straniera – ma questo accade a sogno già iniziato, non ricordo l’inizio, soltanto il momento in cui sto tornando tra dei gitanti dopo aver, nel frattempo, lasciato la gita e fatto ritorno a casa per un po’ – tra i gitanti cerco mio padre, ma mi vergogno a chiedere a qualcuno e così rimango in piedi vicino alla porta – nel frattempo qui tutti hanno imparato molto, mi sono perso tutti i giochi erotici fondamentali – dappertutto grandi gruppi di ragazze, una di loro mi dice che qui non esiste più l’idea di timidezza, innocenza, morale e così via – io non la capisco, credo che tutto questo sia soltanto un camuffamento a scapito mio.
In un altro momento del sogno, Martin decora la parte esterna del cinematografo con fotografie di alcuni attori del cinema russo, lo aiuto, deve essere uno scherzo, ho l’impressione di poter conquistare una ragazza se fossi capace di procurarle almeno un numero del giornalino Frecce veloci.
Fuori città, in pieno mattino, la fine di qualche festa alla quale hanno partecipato quasi tutti i cittadini, passo tra due ragazze, sono ancora in abito da ballo e mi chiedono se non possa aiutarle a svestirsi a casa loro. La terza ragazza, che le precede, dice che lei si veste sempre da sola in casa.
Improvvisamente mi ritrovo ai piedi di un ripido pendio, sopra ci sono sono alcuni libri, mi arrampico gattonando, ci sono vespe o api, devo fare ritorno, dall’altra parte della collina c’è un accampamento indiano, bisogno avvicinarsi di nascosto, ora riesco a discendere il pendio, quasi perpendicolare, e in maniera di certo magistrale. Lassù trovo dei libri pornografici, come realizzo in sogno, per ragazzette, o anche ragazze. Forse è una lettura pornografica come lo possono essere le immagini pornografiche di D.Tanning.-.
Per il momento è tutto. Come ti ho scritto sulla cartolina, ti invierò una lettera, te lo giuro, domenica durante il turno notturno / oggi ho intenzione di divertirmi, dovrebbe arrivare Martin / “L’età dell’oro” te la spedisco lunedì insieme alla lettera. Forse riceverai tutto in una volta, perché oggi è il sabato libero e quindi anche questa lettera, purtroppo, ritarderà. Buon
sabato e domenica.
Tuo Karel

20 aprile 67
Gesù, Petr, dr. Miroslav,
già mi avrai sicuramente mandato al diavolo, me e tutta Jilemnice, e senza alcun dubbio me lo merito. Mi sento come se tornassi ora dopo una settimana trascorsa in birreria. Improvvisamente sento una grande responsabilità, ma è già troppo tardi. Mi sono appena dato uno schiaffo.
Quando avrò finito di scriverti, vado alla posta a spedire questa lettera e a comprare un mucchio di cartoline postali e da domani schioccherà la frusta.

notte 18-19 aprile 67
Ricordo vagamente che il sogno ha inizio in soffitta a Vrchlabi, nella metà superiore dove si sale la scala. Ma all’improvviso c’è un lungo corridoio, dove si sentono degli spari. Anch’io sparo col revolver, ma le pallottole volano talmente lentamente che non solo riesco a vederle, ma che quando, per esempio, sparo in alto, il colpo non raggiunge il soffitto.
A lunga distanza da me, in quel corridoio, un canadese insegue un uomo che ride di lui e alla fine riesce a ucciderlo. Quando mi avvicino, vedo che si tratta di – Benjamin Peret, in sogno però somiglia in parte ad un mio compagno di classe Zdeněk Paulu, è morto, ma allo stesso tempo ride.
D’un tratto mi ritrovo in una grotta profonda, c’è l’intera famiglia reale, sui quadri alle pareti, ma sono vivi e conversano. Cercano di accordarsi, nei dipinti, su chi fuggirà dall’immagine nelle macchie sul muro. Non lontana, l’amante principe, la quale non appartiene alla famiglia reale, ed è già nascosta in una macchia monocromatica, è il suo profilo. Indossa un cappello. Tutto ciò lo vedo da un buco nel muro di una stanza dell’appartamento di Vrchlabi dei miei genitori. C’è anche un tesoro nascosto in una sorta di ingranaggio, è possibile trovarlo solo in determinati intervalli di tempo, quando le rotelle ruotano in una certa posizione. Si tratta soltanto di pochi secondi.
Ho dieci minuti di tempo per trovare il tesoro, mi dico in sogno. L’intero ingranaggio improvvisamente mi rimane in mano. – In un altro punto del sogno di quella stessa notte, Zbynek mi critica per il mio scorretto uso delle virgole nelle frasi. – Sto tornando al cimitero dalla festa di ieri insieme a Martin, sullo stesso luogo dove eravamo ieri ora c’è una tenda e dentro due pipe.
– In un altro momento della notte, divento testimone del furto di una cassa di bombe a mano, I probabili colpevoli sono due ragazzini, ne vengo a conoscenza grazie a due piccoli telefoni, ognuno dei quali può essere utilizzato solo su un orecchio.

notte 19-20 aprile 67
È mattina e io discendo il ripido declivio che parte da Kukaček, dove una volta ho campeggiato, è completamente deserto, improvvisamente in una curva incontro una bella donna in là con gli anni, diciamo di 35 anni, e cado subito tra le sue braccia. Mi dice che potrei fare l’amore con lei solo giù su un ponte. Lungo la strada, si spoglia, ma una volta giù improvvisamente mi rendo conto che si tratta di una trappola, e che lei è una specie di agente che sobilla la gente per farla iscrivere all’Accademia delle arti performative. Giù proiettano un film, e il paesaggio aperto diventa abbastanza rapidamente una stanza chiusa, si tratta di 8 1/2, ma è una versione del tutto diversa,
lo dico a qualcuno che mi siede accanto nel cinema, ma lui mi dice che oltre a questa seconda versione ne esiste anche una terza, completamente dissimile dalla prima, e che corrisponde soltanto a tratti alla seconda. Il film che sto vedendo si svolge in una stanzetta, dove su due buchi profondi si trovano delle tavole marce di pioggia, tavole che bisogna attraversare per arrivare in una stanza successiva e salvare una donna che si è suicidata lì. Cerco di oltrepassare le tavole di legno, c’è anche un bambino piccolo, ma così piccolo che riesce a starmi nel palmo della mano, mi sta quasi per cadere in uno dei buchi, ma all’ultimo secondo riesco a riafferrarlo. In quella stanza c’è bisogno di salvare la suicida, e per ciò devo trovare due fili. Mi aiuta un grassone che sbuffa orribilmente e soffia tutto intorno a sé, alla fine facciamo a gara a tirare quei fili, io vinco e lego le mai della donna così saldamente che i fili penetrano la carne fino a scomparirvi del tutto.
La donna ulula di dolore. Sono confuso. Il grassone ora è disteso dietro un paravento e alletta a sé il bimbetto con vari gesti piuttosto ripugnanti. Bisogna impedirlo, preferibilmente correre verso i genitori, ma lui (il grassone) e il bimbetto sono miei fratelli. Cerco di fare delle smorfie in direzione del paravento e l’omaccione davvero ripete quelle stesse smorfie, quindi mi convinco che si tratta di mio fratello: Improvvisamente il suo viso fa delle smorfie dal giornale (è un’immagine vivente sul giornale) – Un congresso psicoanalitico, dove sono stato invitato a dimostrare
sperimentalmente l’uccisione di due miei amici di scuola (Kašlík e Mařas), Vado al deposito munizioni per la pistola, mi sembra d’un tratto, di una grande facilità uccidere quelle due persone e mi sento di ottimo umore, come se avessi preso le pillole. Mi dico che quando sarà a corto di pillole, lo farò più spesso. Intorno a me due soldati gettano dalla porta del magazzino delle grandi mine. Dicono che devo portare verso un non meglio specificato lungomare un sacco che somiglia a una enorme zampogna, Non ce la faccio a portarlo, tutti i soldati mi scherniscono. A uno di loro dico qualcosa tipo e se invece di quei due uccidessi due tenenti? Un tenente si avvicina a me estraendo la pistola. È sicuro che mi sparerà. Ma lui mi dice che non me la passerò tanto liscia per questo. Prende una una sorta di piastra con dei chiodi appuntiti e me la sbatte in faccia. ho un chiodo per occhio. Continua a leggere

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Petr Král (Praga, 1941-2020) La nuova poesia ceca. La nuova fenomenologia del poetico, Poesie, Traduzione dal francese di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, Critica di Sanda Voïca, Laurent Albarracin

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi poster 2020

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941 da una famiglia di medici e muore il 17 giugno 2020. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017 per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute. Antonio Parente ha tradotto di Král molte poesie in italiano pubblicate da Mimesis, Tutto sul crepusculo nel 2015.

Petr Král

poesie da Ce qui s’est passé, Edition le Réalgar, 2017

Et voilà soudain il ne reste pas grand-chose Nadia fut trouvée noyée
sous une écluse Prokop a fini de respirer malgré la bouteille d’oxygène
Karel Š. a disparu à jamais dans la forêt
Moi-même d’un seul coup d’œil retourné depuis les boîtes à lettres
vers l’escalier j’ai vu se dissiper d’emblée quarante ans de vie en France

Avec l’arrivée de Miloš vint une animation nouvelle une fois il s’est levé pour marcher d’un pas incertain parmi les verres sur la table
sans savoir lui-même jusqu’où
Prokop pendant les séances de vendredi s’appuyait au mur
et pratiquait le théâtre tel qu’il l’a toujours voulu faire
dans ses seules paroles et grimaces

L’essentiel était de rendre rayonnante la rouille du monde
ou du moins d’être là quand en fin d’été
avec le soleil elle rentrait de biais dans les salles d’un bois

*

Ed ecco che all’improvviso non rimane molto Nadia fu trovata annegata
sotto una chiusa Prokop ha smesso di respirare malgrado la bombola di ossigeno
Karel Š. è scomparso per sempre nella foresta
Io stesso, d’un sol colpo d’occhio, sono tornato dalle cassette postali
verso le scale ho visto dissiparsi d’un colpo quaranta anni di vita in Francia

Con l’arrivo di Miloš ci fu una nuova animazione una volta si alzò per camminare con un passo incerto tra i bicchieri sul tavolo
senza sapere lui stesso fino a che punto
Prokop durante le sessioni del venerdì si appoggiava al muro
e praticava il teatro come sempre faceva
con le sue uniche parole e smorfie

La cosa principale era rendere radiosa la ruggine del mondo
o almeno di essere lì quando a fine estate
con il sole lei rientrava di sbieco nelle stanze di un bosco

*

Il fallait disperser par le monde
même la mémoire sursaturée faire passer la mémorable goutte d’un sang partagé fraternellement
sur son doigt devant le poussiéreux JE sans maître dans un tunnel du métro parisien

De Paris aussi on partait par la suite il n’était pas nécessaire de savoir à la quête de quoi
pour que ce soit nécessaire
traîner la nuit vers Barcelone par des autoroutes désertes
dans un miroitement à perte de vue de flocons de neige
et d’étoiles çà et là longer en route des pêcheurs inconnus un boucher préludant dans un verger à un affrontement décisif
avec sa propre planète de viande suspendue
au voyage de retour voir les miroirs
dressés au seuil des maisons près des frontières

Parfois cependant on passait l’été dans la ville faisant sur le boulevard avec d’autres orphelins
la queue pour le tabac pour la fin du dimanche
et pour rien
Les ambulances passaient sans s’arrêter peut-être en route vers une autre métropole

au ciel apparaissaient le soir de distants messages
sans destinataire
On avait alors laissé également derrière soi
des villes entières d’accessoires usés d’accordéons dégonflés de genouillères
et de balles de tennis éraflées
du fond le plus secret nous en parvenait jusqu’à l’éclat
d’une enclume mère immaculée
avant que quelqu’un ne commence à compter fermement
pour lancer le morceau suivant

*

Il Mangiaparole n. 9 Petr Kral

Occorreva disperdere per il mondo
anche la memoria soprassatura far passare la memorabile goccia di un sangue condiviso fraternamente
sul suo dito dinanzi al polveroso IO senza padrone in un tunnel della metro parigina

Anche da Parigi dopo siamo partiti, non c’era bisogno di sapere in cerca di che cosa
perché fosse necessario
trascinare la notte verso Barcellona per autostrade deserte
in un luccichio a perdita d’occhio di fiocchi di neve
e di stelle qua e là camminare lungo la strada di pescatori sconosciuti un macellaio che prelude in un frutteto a uno scontro decisivo
con il suo proprio pianeta di carne sospeso
durante il viaggio di ritorno vedere gli specchi
in piedi sulla soglia delle case vicino alle frontiere

A volte tuttavia si passava l’estate in città facendo sul viale con altri orfani
la coda per il tabacco alla fine della domenica
e per niente
Le ambulanze passavano senza fermarsi forse dirette verso un’altra metropoli

nel cielo apparivano la sera lontani messaggi
senza destinatario
Avevamo anche lasciato alle spalle delle città intere
di accessori consumati da fisarmoniche sgonfiate di ginocchiere
e palline da tennis graffiate
dal più segreto fondo si giungeva allo scoppio
di un’incudine madre immacolata
prima che qualcuno cominciasse a contare con fermezza
per iniziare il pezzo seguente

Petr Kral (1)

*

Face à la flaque de sang au seuil de l’échoppe du tatoueur
baillait immense la mer

Plus au fond de la ville le courant d’air seul
enrobait de ses draps les dormeurs
dans les salles d’attente des chambres

Une autre fois l’hotel et le cinéma
en vis-à-vis formaient une mètropole entière

L’idée d’une pièce montée oubliée sur le siège arrière
d’un taxi nous poussait autant vers le monde
que l’exemple d’un portemanteau jailli vers les champs
et la vision d’un éventail s’écartant pour nous
entre deux cuisses en feu
L’important de toute façon était de tout se raconter
par la suite alors qu’on repeignait encore l’appartement
derrière les fenêtres d’en face

Les uns se contentaient d’avoir vu une épingle à cheveux
flotter dans le Mississippi
d’autres tournaient le dos même aux vagues montantes des villes

la victoire sous un nom d’emprunt
tournait timide dans la plaine environnante

Parler ou bien se taire
mais ne mettre jamais le point final

*

Di fronte alla pozza di sangue sulla soglia del negozio di tatuaggi
sbadigliava immenso il mare

Più in basso nella città, la corrente d’aria da sola
avvolgeva con le sue lenzuola i dormienti
nelle sale d’attesa delle camere

Un’altra volta l’hotel e il cinema
di fronte formava un’intera metropoli

L’idea di un pezzo montato dimenticato sul sedile posteriore
di un taxi ci spingeva così tanto verso il mondo
che l’esempio di un appendiabiti ingiallito spuntato verso i campi
e la visione di un ventaglio che si apre per noi
tra due cosce in fiamme
L’importante comunque era di raccontarsi tutto
nel mentre che si stava ancora dipingendo l’appartamento
dietro le finestre di fronte

Alcuni si accontentavano di aver visto una forcina
che galleggiava nel Mississippi
altri voltavano le spalle anche alle ondate crescenti delle città

la vittoria sotto un nome preso in prestito
tornava timida nella pianura circostante

Parlare o tacere
ma non mettere mai il punto finale

*

Le silence partagé avec une Italienne envoutante
à une table du hall de gare fut une rencontre d’amour importante
même si la brise après
comme auparavant ne tournait que des pages vides

On suçait reconnaissant vos extrémités douces
ou amères jusqu’à ce que le dimanche au-dehors
s’écartat de la fenêtre

La guinbarde de l’Eternité reculait à son tour fréquemment
devant le trafic frénétique de l’Histoire

Il apparaissait clairement que même toute musique
n’est qu’une transcription apaisante des sautes de vent
et de secousses du sol qui d’avance nettoient la maison nous chassant
de la planète

Restaient les chantiers dans l’un tu enterrais chaque fois
en le longeant le dernier téléphone noir
au-dessous d’une autre pendait seul de la grue
un point d’interrogation en métal

Certaines d’entre vous également avaient le chemisier dans une ville
et la jupe dans une autre
Le béret de Wanda emporté par le vent
s’éloignait vers le bas de l’avenue
Quelques tours d’hélice ont dispersé les billets du magot sur la plaine
comme les manuscripts du poète de Camaret

A présent boire seulement à une bouteille une goutte d’Italie
et à l’autre un peu d’Espagne
sans pour autant quitter des yeux la pente d’en face

*

Il silenzio condiviso con una italiana ammaliante
a un tavolo nella sala della stazione fu un incontro d’amore importante
anche se la brezza dopo
come prima non girava che delle pagine vuote

Si succhiava riconoscente le vostre morbide estremità
o amare fino a quando la domenica fuori
si allontanava dalla finestra

La catapecchia dell’eternità a sua volta si ritirava di frequente
di fronte al frenetico traffico della storia

Era chiaro che anche tutta la musica
non è che una trascrizione rilassante delle oscillazioni del vento
e delle scosse del terreno che in anticipo pulivano la casa scacciandoci
dal pianeta

Restavano i cantieri in uno tu seppellivi ogni volta
camminando l’ultimo telefono nero
sotto un altro pendeva da solo dalla gru
un punto interrogativo in metallo

Alcuni di voi avevano anche la camicetta in una città
e la gonna in un altra
Il berretto di Wanda portato via dal vento
si allontanava lungo la fine del viale
Qualche giro di elica ha disperso le banconote sulla pianura
come i manoscritti del poeta di Camaret

Adesso bere solo da una bottiglia una goccia dell’Italia
e dall’altra un po’ di Spagna
senza, per tutto ciò, distogliere lo sguardo dalla discesa di fronte

*

petr kral 1

petr kral

Standa me disait tu te protèges le visage
comme si la menace venait du dehors

On se penchait ensemble sur le jeu des petits papiers
tout come sur les cravates le clair-obscur s’écartait
ma celle en fibres de fougère restait enfouie à jamais
dans les année vingt

Après le toast de minuit le vieux Perahim tout à coup
regarda alentour d’un oeil interrogateur : Qu’allons-nous faire
avec le monde ?
Même de la Russie où jadis il avait fuit Hitler
il a dû  plus tard presque s’échapper

Mayo bien qu’entouré à present
d’un monde de succédanés se nourrissait jusqu’à la fin
du beurre et des oeufs tels que dans un matin d’été
il les vit en Grèce étalés sur des chaises
au seuil des maisons près du port

Nous on regardait aussi parfois
en face nos maître et mentors
peu à peu jour aux premiers éclairs d’un orage
on part d’un rire soulagé au-dessus de l’assiette
vers laquelle on s’incline bien loin d’eux

*

Standa mi diceva tu proteggi il tuo viso
come se la minaccia venisse dall’esterno

Ci chinavamo insieme sul gioco dei piccoli giornali
come sulle cravatte il chiaroscuro si scostava
ma quella in fibra di felce restava seppellita per sempre
negli anni venti

Dopo il brindisi di mezzanotte il vecchio Perahim all’improvviso
si guardò attorno con un occhio interrogativo: Che cosa ne faremo
del mondo?
Perfino dalla Russia dove una volta era fuggito Hitler
ha dovuto più tardi quasi scappare
Mayo benché circondato adesso
da un mondo di succedanei si nutriva fino alla fine
di burro ed uova tal ché in una mattina d’estate
le vide in Grecia appoggiate su delle sedie
sulla soglia delle case accanto al porto

Anche noi a volte guardavamo
di fronte nostri maestri e mentori
a poco a poco ai primi lampi d’un temporale
iniziamo con una risata sollevata sopra il piatto
verso il quale ci si inchina ben lontano da loro

*

Les autres quelquefois venaient également nous accueillir
à la gare oui c’était toujours nous quand aprés la traversée de l’océan
je descend de l’avion en tenue de tennis
Prokop et Vlasta me tendent une balle pour ce jeu
qui ètait tombée dans leur cave par un hublot ouvert

A Sázava le visage en sang
je frappais à la porte derrière laquelle je vous croyais faire la fête
sans moi
au fond d’un vieux tacot par la suite
je frissonnais tout seul baigné de clair de lune
dont la pâleur dèvolait notre nudité
et l’enrobait mieux que le soleil ce tuteur rigolard
qu’on laissait volontiers aux sportifs et aux ingénieurs en lunette moires

Dans la journée de même que vous beautés
on habillait un peu notre viande
pour l’empêcher de trop s’égarer Il arrivait même qu’on la rende si pimpante
qu’elle nous surveillait à son tour elle revenait pourtant toute loqueteuse
de même que nous

Vous suite à nos visite de votre chair
vous retirez parfois derrière le seul horizon
des lignes dans vos lettres
Toute une ville neuve accompagnait au retour
Chacune de ses maisons bien sur ètait un garde-robe à part
auquel il nous fallait s’atteler Sans se faire reconnaitre
laisser la ville bien s’incruster dans la masse de nos èpaules

*

Gli altri a volte venivano egualmente ad accoglierci
alla stazione dei treni, sì, eravamo sempre noi quando, dopo la traversata dell’oceano,
scendo dall’aereo con l’attrezzatura da tennis
Prokop e Vlasta mi tendono una palla per questo gioco
che era caduta nella loro cantina da un oblò aperto

A Sazava la faccia insanguinata
bussavo alla porta dietro la quale vi credevo festeggiando
senza di me
in fondo a un vecchio catorcio in seguito
io rabbrividivo tutto solo, impregnato di chiaro di luna
il cui pallore svelava la nostra nudità
e la vestiva meglio del sole, questo guardiano ridacchiante
che lasciavamo volentieri agli sportivi e agli ingegneri con gli occhiali da sole

In quel giorno così come voi bellezze
vestivamo un po’ la nostra carne
per impedirgli di smarrirsi troppo Accadeva perfino che la si rendeva così allegra
che lei a sua volta ci osservava lei tornava tuttavia tutta sbrindellata
proprio come noi

In quanto a voi in seguito alle nostre visite alla vostra carne
vi ritirate a volte dietro il solo orizzonte
delle linee nelle vostre lettere
Un’intera città nuova accompagnava al ritorno
Ciascuna delle sue case era ovviamente un guardaroba a parte
che dovevamo affrontare Senza farsi riconoscere
lasciare che la città si radichi bene nella massa delle nostre spalle

*

Petr Kral 2016 caffè Slavia, PragaLe voyage dèsormais se poursuivait par à-coups
sans poutant s’arréter Même si centains d’entre nous se mariaient fondaient des familles
voire s’installaient dans leur propre pavillon
avec jardinet lui pouvait émerger en rivière souterraine
aux endroits le plus imprévus
et dans les contrées le plus lointaines On se dépassait à bord de voiture étrangères
sur des plaines toujours plus proches du Sud
jusqu’à s’installer ensemble sur les Ramblas
devant un verre de vieux porto et des cartes postales d’une fraicheur estivale
pour nos psychanalystes
Une autre fois on ne se cachait et se retrouvait mutuellement
que dans les bistros d’un même quartier

Il fallait che je vienne à Lyon
pour surprendre dans l’ombre d’une entrée de fraiches éclaboussures de lumière
et pour voire dans un parc une ultime giclée de soleil
couler sur un arbre comme un signe distant de l’inaccessibile nudité

*

Il viaggio oramai procedeva a singhiozzo
senza potersi fermare Anche se alcuni di noi si sposavano
fondevano famiglie
si sistemavano perfino nel loro proprio padiglione
con il giardinetto lui poteva emergere come fiume sotterraneo
nei posti più imprevisti
e nelle contrade più lontane Ci si superava a bordo di macchine straniere
sopra pianure sempre più vicine al Sud
fino a stabilirsi insieme sulle Ramblas
davanti a un bicchiere di vecchio porto e cartoline d’une freschezza estiva
per i nostri psicanalisti
Un’altra volta ci si nascondeva e ci si ritrovava soltanto
nei bistrot d’uno stesso quartiere

Dovevo venire a Londra
per sorprendere nell’ombra d’un ingresso freschi spruzzi di luce
e per vedere in un parco un ultimo schizzo di sole
sgocciolare su un albero come un segno distante d’inaccessibile nudità

*

Una poesia  della nostalgia?  della  rammemorazione  di una vita passata senza passare? Testimonianze? Per chi? O piuttosto  fissazioni delle vertigini d’un tempo antico e odierno – vertigini personali, che hanno coinciso o forse no con le tempeste, le vertigini e a volte perfino con i maelström della Storia – quando si tentava di “fare splendere la ruggine del mondo“.

Quando si è voluto cambiare la propria vita e il mondo – “bisognava disperdere nel mondo / perfino la memoria sovra-satura e far passare la memorabile goccia di un sangue condiviso fraternamente / sul proprio dito davanti al polveroso IO senza maestro…”, privi della sicurezza d’esserci riusciti; si può sempre ritornare  sul lavoro, con uno sguardo e delle parole a posteriori, fare un bilancio… Per sé stesso e per quelli che vorranno sapere.

La gioventù rimava con viaggi, spensieratezza, fiducia, lotta di classe, addirittura rivoluzione da fare…

L’amicizia, ugualmente: “Mentre con Alain tentiamo di leggere il nostro destino / nel viso l’uno dell’altro (…)”

Sfilata di ricordi, sogni, viaggi (città, paesi, cammini), amori, amicizie, un bagliore, un bosco, un paesaggio, la luna, il litorale, utopie vissute o soltanto sognate , libri e autori, delusioni, povertà, politica.

Rimane tutto molto vago ed insieme  molto preciso: scrivere una vita, perfino delle vite e delle epoche in trenta poemi (poesie),  non lunghi, senza titoli: scommessa riuscita, quando si conosce la vita tumultuosa dell’autore poeta. Il fermento di un tempo non è assolutamente spento, ma quello che emerge principalmente è il sentimento di galleggiamento permanente, l’impressione di un andare e venire tra le diverse tappe della vita e sopratutto tra gli atti di un tempo e la scrittura attuale, il che dà, al di là di un puzzle nel mentre si costruisce, l’impressione di un’impossibilità a decifrare, analizzare o regalare parole definitive a qualunque cosa. La Storia ha camminato, la gente, tra cui il poeta Petr Král , anche – e questo cammino del passato non si è fermato, continua a muoversi e ad imporre delle parole per dirlo. “Gli intrighi delle nostre storie andavano facendosi impenetrabili.” La Storia è già stata scritta, alcuni la scrivono o la riscrivono ancora – ma esistono le storie personali, che proviamo ad integrare all’altra – o semplicemente a metterle accanto, oggetto o animale, che non ci hanno ancora lasciato: la vita, semplicemente. La cosa più importante rimane sempre il raggiungimento del «qui senza dimensioni / l’attenzione rinnovata per i suoi angoli e arrotondati // Altrimenti non rimangono che facce / e ancora facce dappertutto spiaccicate Cominciando certo con quella che ogni mattina emergeva di fronte allo specchio.» E mai dimenticare: «… quel augurio primo / e ultimo: mettere il dito nella piaga del mondo /quella appena socchiusa…” Con la speranza che un giorno “si aggirerà da qualche parte una Sfinge lontana / per incontrare noi stessi.» E sopratutto: «L’importante comunque era di raccontarsi tutto / in seguito(…)».  E questo quando «La carretta dell’Eternità indietreggiava spesso anche lei  / davanti al traffico frenetico della Storia.»

E verso la fine molto pessimista di questa raccolta: «Appariva chiaramente che perfino ogni musica non è che la trascrizione lenitiva dei salti del vento  / e degli scossoni del suolo che puliscono in anticipo la casa cacciandoci fuori/ dal pianeta.»

(Sanda Voïca – trad. di Edith Dzieduszycka)

*

Un titolo come Quel che è successo, ci si poteva aspettare un libro di ricordi, un bilancio, una messa in chiaro. Era senza contare con “il diritto al grigio” (1) rivendicato dal suo autore, e che ha per altro meno a che vedere con un’estetica del flou che con una presa in conto del banale e del prosaico, come il fondo perpetuo sul quale si stabilisce il poema. Rimane il fatto che se il libro è in realtà basato sui ricordi, ci dovremo rassegnare per quanto riguarda la loro messa in ordine e al chiaro. Sorgono infatti nel più grande disordine, senza classificazione cronologica né geografica, né tematica.

Petr Král, nato nel 1941 a Praga, è vissuto a Parigi dal 1968 al 2006, prima di ritornare nella sua città natale. Ha viaggiato (America, Spagna), ha frequentato i gruppi post-surrealisti cechi e francesi, ha conosciuto pittori e scrittori. Ha girovagato nelle città, visto dei film, ascoltato musica… Ma quel che risale dei giorni passati non è in alcun modo ordinato, gerarchizzato. Ogni evento genera memoria, dal più grigio al più clamoroso, senza distinzione per quanto rileva dall’ordinario o dallo straordinario, lo scintillio d’un frammento del passato alle prese colla ganga opaca del quotidiano più contingente. Da qui la strana ibridazione del verso e della prosa nel poema di Král: il verso è lungo, senza punteggiatura (salvo la maiuscola che marca l’inizio di una frase), non cerca la densità né l’equilibrio né la fluidità sintattica. Il suo verso somiglia piuttosto a una prosa che zoppica, a una lingua corrente (addirittura famigliare) sbilenca e sincopata. Il poema si presenta come una specie di racconto narrato il più vicino possibile alla grisaille dei giorni, nel fuso incatenato della loro successione. Per cui le immagini sono meno folgoranti che fuggitive, più elegiache che surrealiste. Però, a volte, succede che sia proprio l’oro del tempo a strappare la nebbia e l’ossidazione dei giorni.

L’essenziale era di far splendere la ruggine del mondo
o almeno di esserci quando alla fine dell’estate
con il sole rientrava di sbieco nelle stanze d’un bosco.

La nostalgia di Král non consiste in generale nel prelevare i momenti più felici, ma a darli nella loro continuità grigia, nel loro sfilare un po’ triste e vano. Non si tratta di idealizzare il passato né di abbellirlo, ma al contrario di mostrarlo già all’origine complicato dal rimpianto che accompagnerà il suo ricordo. Le cose e gli eventi sono spesso banali, aneddotici, desueti, poveri, come  logorati dalla loro semplice presenza nella trama del tempo. Al limite, il solo carattere che li distingue gli uni dagli altri e le mette in esergo, è la loro incongruità, la loro stranezza, il loro aspetto leggermente inappropriato, come quei copricapo da indiani in saldo / sulle bancarelle del mercato delle pulce”. La sua nostalgia ha qualche cosa di onirico, ma non nel senso che eliminerebbe la realtà privilegiando il sogno, ben piuttosto perché, come in sogno, la memoria raccoglie tutta la realtà indiscriminatamente, o in modo selettivo ma azzardoso, in ogni modo fuori da ogni criterio razionale. I ricordi risalgono dal passato secondo la logica disordinata e imparabile del sogno e si sistemano gli uni accanto agli altri senza che la stranezza del loro avvicinamento li disturbi in alcun modo.

Così come in un sogno (un incubo?), l’inavvicinabile può costeggiare  l’assolutamente vicino.

Il marciapiede di fronte a volte si trovava più lontano
dell’altro bordo della città quello dove tutta la gente si precipitava
pompieri fresche ragazze per le feste in vecchia Ford
re in esilio al volante d’un taxi
noi stessi vi ci recavamo senza però andare via da qui.

L’esilio non ha bisogno di paesi né di lunghe distanze visto che può cominciare subito dal marciapiede di fronte.. Il passato è un miscuglio d’età dell’oro e di tempo grigio, arrugginito, bloccato. E’ come l’inconscio del tempo alle prese con il presente.

(Laurent Albarracin – trad. di Edith Dzieduszycka)

[1] Le Droit au gris, éditions Le Cri Jacques Darras, 1994.

*

Praga, Moldava

Praga sul fiume

Adesso che il grande poeta ceco ci ha lasciato ci scopriamo più poveri, Petr Král è un modello per tutta la poesia europea più sofisticata, ci rammarichiamo che un poeta del suo livello non sia stato pubblicato in Italia dagli editori a maggior diffusione nazionale, come si dice di solito con un eufemismo. Antonio Parente ha tradotto in modo mirabile le sue poesie, che anche in italiano ci consegnano un poeta di straordinaria complessità, novità e semplicità. Quando lo incontrai due estati or sono al caffè Slavia di Praga, mi chiese come mai la nuova ontologia estetica partisse dalla raccolta di Tomas Tranströmer del 1954, 17 poesie. Io gli risposi che la poesia italiana degli ultimi cinque sei decenni continuava a restare ancorata alla formula dicotomica di lirica-antilirica, formula asfittica e di corto respiro, e che occorreva ripensare le novità introdotte dalla poesia di Tranströmer per poter elaborare, in Italia, una poesia più moderna. Petr sorrise e mi disse che anche a suo avviso la poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non era portatrice di nessuna novità significativa e che forse era necessario che la poesia italiana si prendesse una epoché, una sorta di beato esilio di massa dalla scrittura routinaria ed «elegiaca» (sottolineò con enfasi la parola «elegiaca») in cui si era persa. Rimasi sbigottito e sorpreso dall’acume di quella sua osservazione. Poi passammo ad altro. Il suo volto recava le tracce di una vita difficile e dispendiosa, una ragnatela di minute e minutissime rughe incorniciava il suo volto severo, ma le sue parole erano sempre gentili…

«Anche da Parigi si partiva in seguito non era necessario sapere alla ricerca di che cosa perché fosse necessario» (P. K.)

Una vastissima parte, anzi, la quasi totalità delle nostre esperienze sono esperite senza che la «coscienza» intervenga in prima persona, ma semmai essa interviene in modo autonomo e automatico. Rarissimi sono i casi della nostre esperienze nei quali interviene una mente cosciente cui abitualmente diamo il nome di «io». Questo fatto è evidentissimo quando guidiamo una automobile. Durante l’attività di guida possiamo conversare amabilmente con il nostro vicino, possiamo pensare alla lezione che abbiamo appreso il giorno prima, senza per questo che la guida ne venga disturbata, è come se ci fossero due «coscienze», una in stato di sonno che organizza la guida, e una in stato di veglia, che ripensa al libro che abbiamo studiato il giorno prima. Di fatto, è evidente che noi guidiamo con una «coscienza automatica». Ecco, la poesia di Petr Král riflette questa processualità della coscienza dell’uomo moderno, è intrisa di più «coscienze» che si giustappongono e si sovrappongono, l’una ad insaputa dell’altra. Questa caratteristica della poesia kraliana non è soltanto una caratteristica stilistica, quella di Král non è una semplice distassia, ma un dato di fatto ontologico dell’esistenza dell’uomo moderno che la sua poesia recepisce con una straordinaria capacità reticolare di trattenere e sgomitolare tutti i fili della aggrovigliata matassa dell’esistenza. Di fatto, la «coscienza» è del tutto inutile per lo svolgimento delle attività e dei calcoli di tutti i giorni, anzi, a volte l’impiego della coscienza potrebbe rallentare il calcolo delle azioni che stiamo facendo, come accade al un pianista che muove tutte e dieci le dita in modo meravigliosamente armonico senza che intervenga la coscienza a governare i movimenti delle dieci dita e dei pedali del pianoforte. In tutte queste attività la coscienza è perfettamente inutile, anzi, è superflua.

L’io non è la sede della coscienza, come comunemente si crede, l’io è una metafora che indica uno spazio mentale dove noi, per semplicità didattica e comunicativa, siamo soliti porre l’accadere di alcune cose che avvengono nel nostro spazio mentale con il coinvolgimento della coscienza. Ma ciò è inesatto, la «coscienza» non ha sede nell’io, anzi, verosimilmente essa non ha una propria residenza, non ha un «luogo» e un indirizzo dove abita. Possiamo pensare alla coscienza come una nuvola che sta in tutte le cose o come una ragnatela filamentosa, ma non è necessario affatto pensare che le cose abitino in questa nuvola, perché essa nuvola c’è e non c’è… interviene solo in alcuni rarissimi casi.

«Una parola così poco metaforica come il verbo inglese “to be” (essere), fu generata da una metafora. Essa deriva infatti dal sanscrito bhu, (crescere o far crescere), mentre le forme inglesi am, (io sono), e is, (è), si sono evolute dalla stessa radice del sanscrito asmi (respirare). Fa piacere scoprire che la coniugazione irregolare del verbo inglese più banale conserva un ricordo del tempo in cui l’uomo non possedeva una parola a sé per «esistenza» e poteva dire solo che qualcosa «cresce» o «respira». Ovviamente, noi non siamo coscienti che il concetto di essere è generato in tal modo da una metafora riguardante la crescita e la respirazione. Le parole astratte sono antiche monete le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso». 1

Nelle poesie di Petr Král abbiamo un mirabile esempio di scrittura poetica «semiautomatica», pensata sul filo di una coscienza non cosciente, o meglio, di una coscienza semiautomatica che è in atto in noi in ogni momento della nostra giornata, ed anche dei nostri sogni. La scrittura poetica di Petr Král è molto vicina a quella idea di cosa che noi pensiamo debba essere la poesia di oggi: una scrittura che nasce dalla memoria semiautomatica della coscienza irriflessa, fitta di polinomi frastici instabili, nei quali sarebbe tempo perso andare a cercare il senso delle singole proposizioni o dell’insieme con un occhiale neoverista e neorealista, con un concetto neoliberale della proposizione poetica come è in uso nella tradizione della poesia italiana degli ultimi decenni. La promiscuità, il disallineamento frastico, la distassia, la dismetria, lo spaesamento dell’io sono caratteristiche fondanti di questo tipo di fenomenologia del poetico, e Král è indubbiamente un maestro in questo genere di poesia modernissima.

(Giorgio Linguaglossa)

1 Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, 1976 p. 74

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Il Coronavirus nella poesia di oggi, La zona grigia, Pensare la zona grigia è compito del pensiero, Poesie di Dante Alighieri, Tomas Tranströmer, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda

Lucio Mayoor Tosi La Gioconda

[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà  a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra  per i prossimi milioni di anni…]
.
«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
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1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
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Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
Caro Gino Rago,
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il virus ci rende deboli e fragili, ci isola ed esaspera gli egoismi e gli individualismi, i populismi e i sovranismi. Nello stato della «nuda vita» agambeniana ognuno si preoccuperà della propria sopravvivenza. La solidarietà sarà una parola del passato. L’uguaglianza dello stato di diritto anche.
Il filosofo «Žižek afferma che il virus ha assestato un colpo mortale al capitalismo, ed evoca i fantasmi di un oscuro comunismo. Crede anche che il virus possa far cadere il regime cinese. Žižek si sbaglia. Non succederà niente di tutto ciò.» Condivido l’analisi del filosofo cinese Byung-Chul-Han. La Cina spaccia il suo Stato di polizia digitale come la soluzione della pandemia, esibirà la superiorità del suo sistema rispetto a quello delle democrazie dell’Europa. Idem Putin il quale ha dichiarato più volte che le democrazie liberali dell’Europa sono in disfacimento.
(Giorgio Linguaglossa)
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1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116

Giuseppe Talìa

La poesia del dopo COVID-19.

Riguardo al Nostro Giuseppe Conte, poeta, che nel tempo ha invocato gli dei e che continua, dopo aver preso un abbaglio clamoroso scambiando un modesto video montaggio di un’agenzia di propaganda per un’immagine reale della prima guerra mondiale, non ce lo dimentichiamo, ricordiamo questa sestina cattiva da La Musa Last Minute, Progetto Cultura, Roma 2018.

Giuseppe Conte

Né ferite né fioriture sono possibili
Lo dice il telegiornale non stop h24
E alla tavola rotonda che fu di re Artù
Si siedono ora tredici famiglie del gruppo
Bilderberg a cui importa solo il think tank
Della Parca parcheggiata nell’Economia

 

 

Tomas Tranströmer

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:
«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1

La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. Solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere com-presi nella nostra più vera essenza.
Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.”

(Giorgio Linguaglossa)

E’ incredibile come la quartina di Tranströmer, con quel finale:

Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

corrisponda alla nostra situazione quotidiana, prigionieri all’interno delle nostre abitazioni, con tutte le porte e le finestre chiuse a causa del virus Covid19.

 (Marie Laure Colasson)

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 1
K. invia il Signor F. sulla terra con una minuscola teca

K. sfregò uno zolfanello sul muro e accese il sigaro.
Il suo occhio di vetro sembrava osservarmi.

Poi accese il fuoco, ci mise sopra un bricco il quale cominciò a tossire.
Uscì fuori una figura di fumo che si contorceva.

«Ecco, questo è il Signor F.» disse K. «È una persona ragionevole,
con lui si possono fare ottimi affari…».
«Sa, è stato per tanto tempo nell’aldilà. Adesso però è stato dichiarato innocente.
E per questo riabilitato e restituito al pianeta Terra,
tra gli umani».
Fece una giravolta. Uno sgambetto.
Si infilò il monocolo sull’occhio di vetro.

Mostrò una minuscola teca. «Ecco, questo è il vasetto di Pandora.
Contiene il Covid19, un affaruccio con la corona lipidica che si scioglie ad una temperatura
di 27 gradi. Mille volte più piccolo di un globulo rosso…».
Azazello fece uno sberleffo, una piroetta.

«La sentenza di assoluzione è la prova di un errore giudiziario», disse K. con sussiego, riprendendo il discorso interrotto.
«Ciascuno è intimamente innocente»,
«E intimamente colpevole». «La confessione è il miglior argomento
in pro del giudizio».

Poi prese a passeggiare in cerchio.

Nel frattempo una ladyboy in calzamaglia a rete iniziò a litigare con Azazello.
«Sei piccolo e brutto!, e stupido!, non sai neanche come si tratta una Milady!, tornatene da dove sei venuto, scimunito!».

«È estremamente riprovevole giocare con il Covid19, non crede?», riprese K. il filo del discorso dove lo aveva lasciato. E si aggiustò la mascherina.

Nel frattempo, la teiera si alzò dal tavolo
E versò nella tazza di F. un tè bollente.
Che il Signor F. bevve d’un sorso. Deglutì sonoramente.

Il pomo d’avorio fece su e giù.

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Gino Rago, Poesia, In memoria di Joseph Roth, Un necrologio in distici a 81 anni dalla morte, 27 maggio 1939, Commenti di Edith Dzieduszycka. Giorgio Linguaglossa

Foto selfie Sophie-Marceau

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

Gino Rago

Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
una morte lieve

«Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
Una morte lieve».*
[…]
Un cavallo lipizzano alzò per un istante
La zampa destra in segno di commiato.

Il lampadario cadde sui legni della sala del valzer,
Shearazade pianse.

La contessa W. della milleduesima notte
Sgranò gli occhi dai riflessi di violette e miosotide.

E tutti i presenti se ne innamorarono.
[…]
La mattina del 23 di un mese di primavera
Nel 1939 cadde a terra di schianto.

Come Andreas
Nella leggenda del santo bevitore.

Era nel caffè Tournon.
Aveva scritto per anni e bevuto calvados

Fino a perdere il senno.
Non fu portato nella sagrestia

Della chiesa di Santa Teresa
Ma all’ ospedale Necker.

Lo legarono con cinghie al letto
Come l’ultimo dei mendicanti.

Dalla sua cartella clinica:
“Non-ha-ricevuto-nessuna-cura”
[…]
Il 27 dello stesso mese morì.
Il giorno 30 il funerale al cimitero Thiais.

Nei sobborghi di Parigi
Le pietre si fecero parole.

Un messo di Otto d’Asburgo
Pretendente al trono d’Austria

Elogiò in lui
«Il-fedele-combattente-della-Imperial-Regia- Monarchia».

Un comunista gli rispose con rabbia
Che il morto era stato «Joseph il rosso».

Un sacerdote cattolico benedisse la salma.
Tutti gli ebrei presenti furono offesi

Dal fatto che un ebreo
Che discendeva da generazioni di devoti ebrei

Fosse costretto in una religione non sua.
[…]
Forse il morto fu contento dello schiamazzo
Sulla sua tomba di periferia,

Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
Pagano e musulmano.

E bevitore, sebbene non santo.
Abitò da solo il regno-del-non-dove

Nella stanza del Bioscopio universale.
[…]
«La morte simbolista di Roth…
Come quella nel ‘28

Di Nina Ivanovna Petrovskaja
Della Bohéme russa in esilio a Parigi.

Aprì da sola il gas nello squallore
D’un albergo d’un quartiere popolare».
[…]
Joseph Roth, inabile anche alla morte,
Vita-non-vita d’un sopravvissuto

Alla fine di un mondo, di una lingua,
Di una storia.

Scrivendo divenne monarchico.
Sempre scrivendo divenne devoto.
[…]
Voleva credere e divenne credente.
Ma forse cercava soltanto sé stesso

Nei frammenti della Finis Austriae.
Alla fine il naufragio.

Viso tumefatto. Piedi gonfi.
Bottiglie vuote in fila di calvados e gin.

Tentò di scacciare da sé l’anticristo.
[…]
L’incenso di tutte le chiese.
Moriva di maggio l’uomo.

Nasceva il-soldato-della-penna
In-servizio-permanente-effettivo,

Da quel giorno Joseph Roth è di tutti.

Gino Rago
* [La leggenda del santo bevitore]

Edith Dzieduszycka

“[…]Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
Pagano e musulmano.

E bevitore, sebbene non santo.
Abitò da solo il regno-del-non-dove

Nella stanza del Bioscopio universale[…]”

A Gino Rago, nato nel 1950, vivendo tra Roma e la Calabria, in provincia di Trebisacce, per 30 anni docente di chimica, poeta ora legato all’Ombra delle Parole e alla Rivista Mangiaparole, siamo grati per molti motivi, di cui due essenziali.

Dopo aver diffuso a profusione durante gli ultimi mesi dell’anno 2019, e con grande generosità, una ricca girandola di recensioni, erudite e approfondite, – di cui abbiamo approfittato in abbondanza, noi poeti e lettori, grazie alla preziosa ospitalità di Antonio Spagnuolo sul suo blog Poetrydream -, Gino Rago, poeta egli stesso, amante e vestale della poesia, ci narra ora lo strano destino ambivalente di Joseph Roth, nato nel 1894 in Galizia, ora Ukraina, – vicino a Lwow, luogo d’origine della famiglia di mio marito -, con la voce obbiettiva e precisa del biografo.

Parallelamente ci offre anche la sua versione personale e ritmata di tale vita con una lunga poesia in cui reinterpreta a modo suo e riesuma col ritmo ondoso dei distici, da un oltretomba evanescente, quel poeta di classe, di origini asburgiche, conosciuto sopratutto grazie alla sua famosa “Leggenda del santo bevitore”.

Gino Rago presentò la sua poesia, qui pubblicata, a Trieste in occasione degli ottanta anni dalla morte di Joseph Roth.

“La mattina del 23 del mese di…
dell’anno 1939 cadde a terra di schianto

come Andreas
della leggenda del santo bevitore.

Era nel caffè Tournon,
dove aveva scritto per anni e bevuto calvados

fino a perdere il senno.”

Gino Rago in questo necrologio per Joseph Roth lavora sulla forma-poesia e propone i suoi versi in forma di distici. Su questo preciso aspetto cedo la parola a Giorgio Linguaglossa:

«[…] La scrittura poetica in distici non è una tecnica di scrittura.

Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce. Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico. L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura ripropongono figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla. Il distico istituisce visivamente il nulla. Si tratta di una percezione singolarissima.
Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima[…]»

Un giornalista, questo Joseph Roth, uno scrittore e grande viaggiatore, un essere complesso e paradossale, ubriacone dalla scrittura raffinata e cesellata, che ho scoperto tempo fa con grande godimento attraverso le pagine del suo “Lo specchio cieco”. Vi racconta la storia conclusa tragicamente – incidente, suicidio?- della ragazza Fini innamorata di un fantomatico Rabold .

“Nessuno seppe se avrebbe voluto andare in cielo ed era caduta in acqua. Si infranse sulle morbide scale di nuvole d’oro e di porpora.” Un inabissarsi sicuramente simbolico essendo il 1925 data di pubblicazione di quel piccolo gioiello ambientato a Vienna, o “piccolo romanzo” come da lui chiamato.

Tre giorni invece per cadere anche lui, Joseph Roth, tre giorni per morire, tre giorni per venir seppellito, lui ebreo, – scandalo – dopo la benedizione da parte di un prete cattolico. Ma Joseph era ben al di là di queste piccolezze. Chi sa in quale misura avranno influito sulla sua mente giovanile gli strani comportamenti di suo padre che verrà affidato ad un rabbino forse del tipo Rasputin?

Giorgio Linguaglossa

Proviamo a pensare la poesia come una «composizione musicale», come una «polifonia», come un «polittico», o come un «sistema polifonico», con voci di contralto, di tenore, di basso etc., con «voci» interne ed esterne, dell’io e di altri, con rumori di fondo, con interferenze, contaminazioni, concatenazioni di storie e di eventi; proviamo a pensare di rimodulare i «toni» a secondo della posizione delle «parole» all’interno di un sistema dinamico qual è il verso; proviamo a pensare questo sistema dinamico come «sistema in movimento»; proviamo a immaginare la composizione non come un sistema statico-unilineare. Se pensiamo alla cosa chiamata poesia in termini di polifonia entro un sistema spaziale, ed anche di organizzazione formale ma all’interno di un sistema spaziale… ecco che il tempo verrà da sé. In fin dei conti, lo spazio e il tempo (lo afferma Einstein) sono correlati. Proviamo a pensare al poeta come un compositore di musica in uno spazio vuoto, in uno spazio in espansione. Proviamo a pensare il poeta come un calzolaio che crea la tomaia e la suola, che le incolla e le batte col martello e ne fa una scarpa. Proviamo a pensare alla parola in termini di «massa sonora», e di inserire questa «massa» in un circuito orbitale che ruota attorno ad un astro anch’esso inpresso in un movimento di traslazione Insomma, io credo che abbiamo molto da imparare dalla critica musicale e da musicisti come Ligeti e Giacinto Scelsi.

Ecco, Gino Rago ha avuto il coraggio di adottare la «forma-polittico» come la più adatta a rappresentare l’essenza del nostro tempo, la scrittura in frammenti e il polinomio frastico sono gli antenati del «polittico». Non si può adire al «polittico» se non si lavora prima sul «frammento» e sulla «dis-connessione», sulla interruzione, sulla peritropè, sul salto. Occorre entrare in sintonia con il sistema dinamico del «polittico» per scrivere in «polittici». Finalmente, la poesia italiana si è emancipata dallo schema dualistico, statico e lineare di lirica e anti-lirica, si è liberata, d’un colpo, dell’elegia e della poesia monologo dell’io. Finalmente ci troviamo di fronte un nuovo modello di poesia polifonica. Gino Rago ha compreso le enormi potenzialità di questa nuova forma-poesia. La nuova ontologia estetica in fin dei conti è questo: la forma-poesia più ardua e problematica del nostro tempo, che unisce la simultaneità dei tempi e degli spazi in una unica dimensione.

Strilli Giorgio Sopravvivere a un attacco di radioonde e di scafandri

Bio-bibliografia essenziale di Joseph Roth
Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco del primo Novecento,
non è una figura letteraria molto conosciuta, oltre l’area linguistica tedesca, se non per il racconto autobiografico più noto, ovvero Die Legende vom heiligen Trinker, (La leggenda del santo bevitore) scritto nel 1939, diventato celebre anche grazie all’omonimo film (del 1988) di Ermanno Olmi.
Nasce nel 1894 da una famiglia ebraica in Galizia, nella città di Brody, che ora si trova in Polonia ma che a quell’epoca apparteneva al groviglio di stati che componeva l’impero Austro-Ungarico.
Nel 1913 arriva a Vienna, la grande capitale, per studiare germanistica all’università. In condizioni economiche davvero precarie inizia, grazie alla sua abilità stilistica, una collaborazione con il giornale Österreichs Illustrierte Zeitung dove vengono pubblicati i suoi primi articoli e le sue prime poesie. Scoppia la Grande guerra ma Joseph è un pacifista.
Si arruola solo nel 1916 e vive in una caserma di Vienna come addetto Ufficio stampa dell’esercito. Anche in questo periodo scrive. Le sue parole vengono pubblicate sul quotidiano Der Abend e sul settimanale Der Friede. Il direttore di quest’ultimo sarà colui che, terminato il conflitto, recluterà Roth come collaboratore per le pagine culturali del Der Neue Tag. Qui descrive nei suoi articoli la vita quotidiana della gente nella Vienna del dopoguerra come una sorta di cronaca cittadina, spesso trasposta in chiave metaforica.
Nel 1920 il giornale chiude e il giornalista si reca nella più vivace Berlino dove lavora per il Berliner Börsen-Courier prima e successivamente per alcuni anni come corrispondente culturale nel più conosciuto Frankfurter Zeitung dove inizierà una corrispondenza con Stefan Zweig che diventerà suo mecenate. Nella redazione di questa importante testata sviluppa numerosi reportages, che spesso lo portano a Parigi, in Albania, in Polonia e anche in Italia.
La vita sentimentale dello scrittore è molto travagliata. Sposa a Vienna Friederike (Friedl) Reichler che lo segue a Berlino. Ma la vita mondana e frenetica dello scrittore, oltre alla sua morbosa e insana gelosia, provocano nella moglie una forte crisi tale da destabilizzarla quasi completamente. Roth dopo i primi sensi di colpa conosce diverse donne con le quali intrattiene numerose relazioni.
Con l’ascesa al potere di Hitler nel 1933, data la sua origine ebraica, è costretto ad emigrare. Dapprima si trasferisce in Francia, poi nei Paesi Bassi e infine nuovamente in Francia.
Nonostante in Germania i suoi libri vengano bruciati, nei Paesi che lo ospitano, rispetto a molti altri scrittori emigrati, continua ad avere la possibilità di pubblicare opere.
Nel 1936 incontra la scrittrice Irmgard Keun con la quale vive a Parigi, ma nel 1938 si lasceranno. Tra il 1937 e il 1939 la situazione economica, oltre alla salute di Roth, peggiorano. Beve e viene trasferito all’ospizio dei poveri. Il 27 maggio 1939 muore a Parigi per polmonite.
Raffinato cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico (quell’Impero che fu in grado di riunire popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse) benché egli stesso fosse nato alla periferia dell’impero, nell’odierna Ucraina, lascia alla letteratura universale svariate opere (La cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky, La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore).

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27, 28 ottobre 2018. Dialoghi e Commenti su La Memoria, il Tempo, lo Spazio, l’Oblio della Memoria, la Postverità, Ipoverità, Iperverità, de-materializzazione, la Poesia, l’Inconscio – Poesie di Mario M. Gabriele, Francesca Dono, Mauro Pierno, Gino Rago, La storica domanda di Mandel’štam: «con chi parla il poeta?». Rispondo: «con la Memoria»

 

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Giorgio Linguaglossa

 Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive un saggio Sull’Interlocutore e punta la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.

 Oggi mi sembra che questo sia il problema centrale per la poesia italiana: Con chi parla la poesia di Bacchini? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto, richiede una grande lentezza. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede invece una grande velocità. Come mai questo fenomeno?  Che cosa è cambiato nella poesia italiana? Con chi parla la poesia post-montaliana (post Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?

Io penso che la poesia del presente e del futuro debba avere al centro della propria ricerca la questione della memoria e dell’oblio della memoria. E riproporrei la storica domanda di Mandel’štam: «con chi parla il poeta?». Rispondo: «con la Memoria».

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La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.

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Mario M. Gabriele, dalla raccolta di prossima pubblicazione Registro di bordo

La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.

Risalimmo le scale fino alla mansarda
per vedere La Bella Elena di Offenbach

-Portami fuori da questo luogo – disse Catherine.
Le ricordai I canti dell’esperienza e dell’infermità.

Uno chiese un calice d’oro per l’altare
senza aver mai incontrato le carmelitane.

A Vladivostock pagammo in sogno 30 kopejki
per passare il Golden Bridge. 

Un avvoltoio si posò nella steppa
scegliendo il meglio della rappresaglia.

–  Presto- disse Cristian,
-bisognerà rivedere i passepartout -. 

E non eravamo ancora certi se ricaricare gli orologi,
dare il veleno ai topi. 

Paulin si fece avanti tenendo tra le mani
un biglietto per Okinawa.

Le condizioni anomale del tempo toccarono le rose
tranne la Primavera di Botticelli.

.

Mauro Pierno

un tempo, quale tempo,
se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge
se nella mano
un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire
che non dovrai riscrivere
mai.
un cielo sereno,
profondamente sereno e sgombro di nuvole.
Un antefatto.
Inquietante.)

.

 Francesca Dono

Non conosco la donna che cammina.
Neanche gli altri spinti solo da un invisibile risacca.

Sono tutti qui. Al mercato rionale dei vestiti incrociati. Una folla vagante. Fedra raccoglie quello che trova nel pantano. In un minuto qualunque.
L’autunno sale alle bocche spogliate

anche quest’anno. A dispetto dei sospiri più fitti. Sound di
onde a digiuno. Un déjà-vu palpitante. Nero crostaceo del freddo.

Appendix

(Lacera et misera bestia non orare pro nobis .Tuos utero feroce. In abbundantia disordinem ordinatus pescis )

.

Gino Rago
Versi da alcune meditazioni sul Quadridimensionalismo

Su La Quarta Dimensione

“La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.

Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?

Fanno riapparire il tempo nello spazio?

[…]

Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalla profondità delle quattro dimensioni.

Perché l’uomo è spaziotempo.
Perché al profondo, nel lungo e nel largo

soltanto l’uomo lega ciò che è stato.
Il tempo perduto. Il tempo passato.

Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.

E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra. […]”

Gif Vogue cover

Mario M Gabriele

Un giorno ho chiesto a uno psichiatra, amico di vecchia data, se l’uomo è in grado di vivere senza la memoria. È possibile, mi disse, solo se è una sua libera scelta o se è un paziente affetto da Alzheimer. Il ricordo può essere positivo, se gli elementi che lo determinano si correlano al piacere della vita, o negativo se i dati ad esso correlati, sono dolorosi e incancellabili e quindi di sradicamento dall’archivio della memoria.”Il cervello, scrive Sergio della Sala su “Micromega” n7 -2010 – pag. 37 ha una doppia funzione, anche secondo Umberto Veronesi, che si lascia attrarre dall’idea del cervello double face.”
Nota è la sua intuizione nell’affermare che “siamo largamente imperfetti con le nostre debolezze e le nostre difficoltà, con un cervello che ha un emisfero cognitivo, razionale, logico, matematico, e l’altro emisfero che elabora sentimenti, emozioni, fantasie”.
Su questi indirizzi operativi il cervello conserva o abbandona la memoria secondo il rapporto che essa ci propone.
Ma c’è anche un altro punto di vista: quello di Edoardo Boncinelli, che in fatto di funzionalità della mente e del suo operare con la memoria ne spiega la ragione osservando che “la mente è tutto ciò che accade nella nostra testa. C’è anche una periferia che noi chiamiamo cuore, perché molte delle nostre emozioni le sentiamo nei vasi che passano vicino al cuore”. Da qui l’accettazione o il rifiuto di ciò che domina la nostra vita con il ricordo.
Scrive Barbara Spinelli su “Il Corriere della sera” che Il Novecento è stato il secolo ammalato di amnesia: Non a caso, Claudio Magris citando il libro della Spinelli: Il sonno della memoria, rileva che” tutto il tema del volume ruota intorno al sonno della ragione e sottolinea il valore razionale, oggettivo e non elegiaco-sentimentale della memoria. Come il sonno della ragione, anche quello della memoria può generare mostri” Continua a leggere

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Antonio Riccardi, Poesie da Tormenti della cattività, Garzanti, 2018, pp. 156, € 18 – con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Saul Steinberg 1961-1962

Saul Steinberg 1961-1962

Antonio Riccardi è nato a Parma nel 1962 e vive a Milano, a Sesto San Giovanni, è direttore editoriale della SEM. Ha raccolto il suo lavoro poetico nel volume Il profitto domestico (Mondadori, 1996), al quale sono seguiti, un secondo libro di versi, Gli impianti del dovere e della guerra (Garzanti, 2004) e un terzo, Tormenti della cattività (Garzanti, 2018). Collabora a diverse riviste e giornali e fa parte del comitato di redazione di “Nuovi Argomenti” e di “Letture”. Ha curato il volume di saggi Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio (San Paolo) e le edizioni, negli Oscar Mondadori, del Candelaio e della Cenere delle ceneri di Giordano Bruno.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Penso che la poesia di Antonio Riccardi, dal libro di esordio, Il profitto domestico (1996) fino a quest’ultimo, sia una ricerca al fondo di quella cosa che io amo chiamare la «metafora silenziosa», una ricerca che perlustra il fondale di quel mare interiore che comunemente chiamiamo «memoria». Che cos’è la «memoria»? Possiamo dire che è quella sorta di «spazializzazione» (spazio interno della mente) che è un connotato più primitivo della coscienza, lo spazio dove avvengono i paraferendi di tutte le metafore, lo spazio mentale che l’uomo adotta come suo proprio habitat, perché sia chiaro che l’uomo abita il proprio habitat mentale nel quale è ricompresa la coscienza e, in particolare, la coscienza linguistica e, perché no, anche l’inconscio linguistico e l’inconscio pre-linguistico… La poesia di livello abita sempre entro la cornice di questa sorta di «spazio mentale» dove il linguaggio acquista una particolare «risonanza interiore», non mi riferisco qui soltanto alla risonanza semantica in quanto questa è una particolare forma, quella linguistica, in cui si dà il fenomeno della risonanza, qui parlo di «risonanza interiore», che è un’altra cosa.

La «risonanza interiore» che intendo può aver luogo soltanto in uno «spazio mentale» abitato dalla memoria, che non è soltanto lo spazio linguistico tipico della coscienza quanto uno «spazio-non-spazio», «un interno-che-non-è-interno», un «interno che non è in nessun luogo». La ricerca del poeta parmense ha il suo luogo di elezione a «Cattabiano», e precisamente tra le pareti del podere dei suoi nonni e genitori, è lì che ha luogo la ricerca della memoria familiare della sua poesia.
In questi ultimi anni, anche sollecitato dalle discussioni che avvengono su queste colonne, penso sempre più profondamente che la poesia abiti questo «spazio mentale», questo «spazio interno», quello è il suo habitat naturale. E così il discorso poetico si pone a cavallo tra lo spazio mentale interno e quello esterno, tra ciò che era una volta il pensiero prima del linguaggio e il pensiero del linguaggio…

Foto Saul Steinberg Masquerade, 1959-1961

Saul Steinberg, Masquerada, 1959

In realtà, noi parlando e ascoltando non facciamo altro che «inventare» uno spazio mentale dentro la nostra mente e nella mente dei nostri interlocutori, noi costruiamo sempre, in continuazione, il nostro e altrui spazio mentale, è una attività di tutti i giorni, che ci riguarda tutti, è un pensiero, questo, intuitivo che, se ci pensiamo un attimo, non possiamo metterlo in dubbio…
La poesia è la ri-costruzione di questo «spazio mentale», frutto della memoria e del mondo quadri dimensionale nel quale siamo immersi fin dalla nascita. La poesia lavora filogeneticamente per l’ampliamento di questo «spazio mentale», quindi è utilissima, anzi, è una attività indispensabile per la sopravvivenza dell’homo sapiens.

indice, invece…
cattività e cedevolezza
la seconda non meno della prima
aspra, tormentosa.

Uno, un matrimonio in due quadri
dovendo per virtù e desiderando
la felicità secondo principio.

Due, tre fagiani, le rane e uno stormo di corvi
per la proprietà transitiva delle bestie
a memoria del podere di Cattabiano.

Tre, per dire il retablo degli amori
se tra le nicchie una sola diavolina
dà fuoco al teatro dei ricordi.

Quattro, al lavoro o in guerra sempre
una dell’altro filigrana e veleno
ancora per virtù purificando a morte.

Cinque, con l’esercizio della fine
sul piano del cenotafio se il nome
è un racconto in miniatura.

E infine, l’enigma dietro il deposto
tra la folla disperata del compianto
perché rosso amasse tanto
un semplice primate.

 

L’oblio della memoria

Il recupero della memoria di cui la poesia di questi ultimi anni è protagonista indiscussa, ha radici senz’altro in una crisi di sistema della nostra recente storia nazionale; ho già parlato dell’oblio della memoria che data dal 1972, anno di pubblicazione della poesia Lettera a Telemaco di Iosif Brodskij; in particolare, la crisi del sistema Italia di cui assistiamo alla recita sul palco della politica in questi ultimi anni, una narrativa per certi aspetti comico-drammatica, tutto ciò, penso, ha avuto delle conseguenze anche nel mondo della poesia. I recentissimi libri di Letizia Leone, Viola norimberga (2018), di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (2017), Donatella Costantina Giancaspero, Ma da un presagio d’ali (2015) e il mio Il tedio di Dio (2018), sono alcuni tra i tanti esempi di un pensiero poetante che segna un ritorno alla ri-costruzione problematica della memoria, di una identità personale e collettiva. Questo è un compito che la poesia non può delegare ad altre forme d’arte e che deve far proprio.

L’atto poetico da cui prende le mosse la poesia di Antonio Riccardi è un atto che pone esso stesso i limiti entro i quali dovrà accadere la narratizzazione dell’io analogale, nient’altro che un “Disturbo nello speculare”, come recita il sotto titolo della prima sezione del libro. Ma l’io analogale è nient’altro che l’io della memoria che ripercorre l’itinerario analogico colto in alcuni istanti strategici.

Considera cosa vedi e cosa vorresti
misurarne la distanza
sulla tua carta millimetrata:
il minor danno, il beneficio certo
le solite cose temperate

La visualizzazione fa parte integrante dello «speculare»: l’io vede se stesso muoversi in una «distanza» su una «carta millimetrata»; è esattamente questa la costruzione di un «io analogale» che il secondo «io» vede muoversi in uno spazio mentale. La coscienza dell’io poetico non è un deposito, un magazzino, una cosa o una funzione di qualcosa d’altro, ma è uno «spazio» analogale interno alla mente, una superficie «speculare» che possiamo ragguagliare alla funzione dello specchio che riflette il reale ma che soltanto mediante l’atto di narrativizzazione dell’io poetico può prendere forma e presenza. Tutto ciò che c’è nello specchio è un nulla, lo specchio riflette il nulla.

Questa consapevolezza muove la poesia di Riccardi, il che è qualcosa di diverso dal realismo poetico che si è fatto nel novecento. Ecco che nello «speculare» si situa un «disturbo», qualcosa accade ma come per analogia a qualcos’altro che sta in un altro luogo, in un’altra dimensione; la dizione poetica opera attraverso la ri-costruzione di uno spazio analogale, «speculare», cioè capovolto, nel quale opera e agisce un «io» analogale che è in grado di osservare se stesso e lo spazio e il tempo, analogamente a quanto accade all’io che si muove nelle quattro dimensioni, ciò che consente all’io «speculare» di prendere le misure dell’io reale e di muoversi in contiguità ad esso.

Ovviamente, si tratta di un qualcosa di analogale. Nella poesia più evoluta che si fa in occidente, c’è un io analogale che agisce in luogo dell’io posizionato nel mondo e quest’io opera mediante la narrativizzazione, cioè un raccontare che riproduce le azioni dell’io nel mondo reale. La poesia costituisce l’interno di una cornice analogale dove viene agita la narrativizzazione. La poesia e il romanzo sono le forme d’arte che più hanno contribuito a questa opera di narrativizzazione filogenetica della civiltà borghese degli ultimi due secoli, sono il luogo in cui si riproduce e si rinnova continuamente il racconto dell’io reale.

È questa, penso, la caratteristica della scrittura poetica di Antonio Riccardi, il suo è un neoverismo non mimetico del reale ma analogale del reale, prende l’abbrivio e si sviluppa da un presupposto: il tempo spazializzato e lo spazio temporalizzato nell’io analogale «speculare» che riacciuffa cose e spezzoni dalla memoria; il viaggio dell’io è il viaggio in un mondo che riproduce il mondo reale come il computer riproduce il mondo tridimensionale sul monitor bidimensionale.
La poesia di Riccardi «attualizza» lo spazio e il tempo proprio come noi attualizziamo l’immagine tridimensionale vedendola sullo schermo di un pc; la narrativizzazione è incentrata per lo più sulla terza persona o sulla prima persona plurale, in modo impersonale… si tratta di un io analogale che costruisce e svolge la «sua» realtà.

Il sostrato metaforico del pensiero poetico di Riccardi espresso prevalentemente nella terza persona o nella prima plurale, richiede nel lettore un atto di intellezione molto complesso; la poesia seleziona necessariamente alcuni particolari, alcuni frammenti della cineteca mnemonica perché il reale nel suo vero significato ci sfugge continuamente. La poesia è già metafora del reale e non ha bisogno di alcuna altra forma di metaforizzazione del reale, sembra suggerirci Riccardi, può procedere tranquillamente alla narrativizzazione di tutto ciò che è accaduto e accade alla luce del riflettore della memoria dell’io.
Il corpo, o meglio, le singole parti del corpo svolgono un ruolo centrale nella messa in azione della memoria, ad esempio, centrale è il ruolo della «mano nel discorso»; infatti, il titolo della seconda sezione recita: “Lo strano e notevole ruolo della mano nel discorso”.

da Tormenti della cattività
Primo tormento – Scene da un matrimonio

Considera chi siamo e cosa no.
Cosa non più, diresti tu
correggendomi sottovoce
e cosa volevamo diventare.
Speculari, pronosticavi.

Adesso però considera lo strano
e notevole ruolo della mano
nel discorso. Sei sempre e solo tu
a mimare cronofasi e ferite
nella nostra cronologia.

*

In un giorno di luce equatoriale
nel cimitero di Cattabiano
ho visto tre giovani fagiani
cercare tra le tombe.

erano giorno e mese della morte
di mio padre Pier Giovanni
la stessa luce e il caldo di allora
ma in un’altra vita, con più fatica

e già nel più futuro.

Il libro è la mappa di una ricerca quasi scientifica condotta con un linguaggio dichiarativo da «naturalista». Esemplare nella sezione il “Secondo tormento”, una sotto sezione, titolata “Le rane”, si legge: «Osservazioni di un naturalista sulla classe degli animali anfibi nel podere della famiglia R.». Se vogliamo, il ritorno alla poesia-racconto di cui ci sono in giro numerose testimonianze, segna l’approssimarsi di una crisi sempre più acuta della società italiana; il bisogno di raccontare e raccontarsi è qualcosa di molto diverso dal bisogno del racconto dell’estroversione dell’io della poesia del minimalismo dagli anni settanta ai giorni nostri.

Con Andrea Emo non si può non riconoscere che solo il «passato… è l’unica sede dell’assoluto… (ché) il passato e la memoria sono il regno di Dio… e (solo) nel passato si manifesta l’assoluto che siamo».1
L’unico assoluto di cui possiamo disporre è la memoria, in essa viene ad evidenza la struttura aporetica della verità originaria, essendo essa verità il suo stesso auto negarsi nel positivo significare di ogni determinazione.
Però, però c’è la forma del pensiero poetante: il pensiero mitopoietico, la narrativizzazione della memoria.
In questa «forma di pensiero poetante» noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, penso, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente, da Vincenzo Vitiello nelle due domande postate in una intervista riproposta qualche tempo fa. Con Massimo Donà ripetiamo che la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).
Allora, sarà chiaro quanto andiamo dicendo e facendo: che la poesia deve ritornare ad essere MITO; si badi non racconto mitopoietico o applicazione e uso strumentale della mitologia, ma «mito», cioè narrativizzazione di momenti esemplari dell’esistenza, racconto delle esperienze che significano. Innalzare a «mito» il racconto del «reale», un po’ quello che ha fatto Kafka nei suoi romanzi e racconti, quello che ha fatto Mandel’štam nelle sue poesie della maturità, quello che fa la poesia svedese di oggi, ad esempio, tre nomi per tutti: Werner Aspenström, Tomas Traströmer, Kjell Espmark, o nella poesia dei poeti cechi Michal Ajvaz e Petr Kral.

1 A. Emo, Quaderni di metafisica, Bompiani, 1972 Q. 348 Continua a leggere

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Cinque poesie inedite di Petr Král (1941), Ce qui s’est passé – Testi originali in ceco e francese, traduzione in italiano a cura di Giorgio Linguaglossa e Edith Dzieduszycka –  L’«io», la «coscienza» e la «coscienza automatica», – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Bambino e luna

Talvolta tuttavia si trascorreva l’estate in città facendo sul viale insieme ad altri orfani/ la coda

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Gif pioggia a Parigi

Anche da Parigi si partiva in seguito non era necessario sapere alla ricerca di che cosa perché fosse necessario

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Una vastissima parte, anzi, la quasi totalità delle nostre esperienze sono esperite senza che la «coscienza» intervenga in prima persona, ma semmai essa interviene in modo autonomo e automatico. Rarissimi sono i casi della nostre esperienze nei quali interviene una mente cosciente cui abitualmente diamo il nome di «io». Questo fatto è evidentissimo quando guidiamo una automobile. Durante l’attività di guida possiamo conversare amabilmente con il nostro vicino, possiamo pensare alla lezione che abbiamo appreso il giorno prima, senza per questo che la guida ne venga disturbata, è come se ci fossero due «coscienze» una in stato di sonno che organizza la guida e una in stato di veglia, che ripensa al libro che abbiamo studiato il giorno prima. Di fatto, è evidente che noi guidiamo con una «coscienza automatica». Di fatto, la «coscienza» è del tutto inutile per lo svolgimento delle attività e dei calcoli di tutti i giorni, anzi, a volte l’impiego della coscienza potrebbe rallentare il calcolo delle azioni che stiamo facendo, come accade al un pianista che muove tutte e dieci le dita in modo meravigliosamente armonico senza che intervenga la coscienza a governare i movimenti delle dieci dita e dei pedali del pianoforte. In tutte queste attività la coscienza è perfettamente inutile, anzi, è superflua.

L’io non è la sede della coscienza, come comunemente si crede, l’io è una metafora che indica uno spazio mentale dove noi, per semplicità, poniamo l’accadere di alcune cose con il coinvolgimento della coscienza. Ma ciò è inesatto, la «coscienza» non ha sede nell’io, anzi, verosimilmente essa non ha una propria residenza, non ha un «luogo» e un indirizzo dove abita. Possiamo pensare alla coscienza come una nuvola che sta in tutte le cose, ma non è necessario affatto pensare che le cose abitino in questa nuvola, essa nuvola c’è e non c’è… interviene solo in alcuni rarissimi casi…

«Una parola così poco metaforica come il verbo inglese “to be” (essere), fu generata da una metafora. Essa deriva infatti dal sanscrito bhu, (crescere o far crescere), mentre le forme inglesi am, (io sono), e is, (è), si sono evolute dalla stessa radice del sanscrito asmi (respirare). Fa piacere scoprire che la coniugazione irregolare del verbo inglese più banale conserva un ricordo del tempo in cui l’uomo non possedeva una parola a sé per «esistenza» e poteva dire solo che qualcosa «cresce» o «respira». Ovviamente, noi non siamo coscienti che il concetto di essere è generato in tal modo da una metafora riguardante la crescita e la respirazione. Le parole astratte sono antiche monete le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso». 1]

Nelle poesie che seguono di Petr Král abbiamo un mirabile esempio di scrittura poetica «semiautomatica», pensata sul filo di una coscienza non cosciente, o meglio, della coscienza semiautomatica che è in atto in noi in ogni momento della nostra giornata, ed anche nei sogni. La scrittura poetica di Petr Král è molto vicina a quella cosa che noi pensiamo debba essere la poesia di oggi: una scrittura che nasce dalla memoria semiautomatica della coscienza irriflessa, fitta di polinomi frastici instabili, nei quali sarebbe tempo perso andare a cercare il senso delle singole proposizioni o dell’insieme con un occhiale neoverista e neorealista, come è in uso nella tradizione della poesia italiana degli ultimi decenni. La promiscuità degli attanti e delle locuzioni che ne derivano è una caratteristica fondante di questo tipo di forma-poesia.

1] Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, 1976 p. 74

Herméneutique de Giorgio Linguaglossa – (traduzione di Edith Dzieduszycka)

Une large part, je dirais même la quasi totalité de nos expériences s’effectue sans qu’intervienne la “conscience” en première personne, mais a lieu de façon autonome et automatique. Rares sont les cas qui concernent nos expériences au cours desquelles intervient un esprit conscient que nous appelons habituellement “je”. Ceci est particulièrement évident lorsque nous conduisons une voiture. Ce faisant nous pouvons bavarder aimablement avec notre voisin, penser à la leçon apprise le jour avant, sans que pour autant notre conduite en souffre; il semblerait donc qu’il existe deux “consciences”, l’une en état de sommeil qui s’occupe de la conduite, l’autre en état de veille, qui repense au livre que nous avons étudié le jour avant. Il est donc évident que nous conduisons sous l’effet d’une “conscience automatique”. La “conscience” est ainsi complètement inutile au développement des activités et des calculs quotidiens; l’emploi de la conscience pourrait au contraire ralentir le calcul des actions que nous sommes en train d’accomplir, comme il arrive au pianiste qui remue les dix doigts de façon merveilleusement harmonieuse sans qu’intervienne la conscience à gouverner ses dix doigts e les pédales du piano. Pour toutes ces activités la conscience est parfaitement inutile, elle est même superflue.

Le “je” n’est pas le siège de la conscience, comme nous le croyons généralement; le “je” est une métaphore qui indique un espace mental où, par simplicité, nous posons sur le mme plan le fait que se produisent certaines choses et la participation de la conscience. Mais cela est inexact, la “conscience” ne siège pas dans le “je”, vraisemblablement elle ne possède au contraire aucune résidence propre, ni un   “lieu” ou une adresse où résidter. Nous pouvons penser à la conscience comme à un nuage présent en toutes choses, mais il n’est absolument pas nécessaire de penser que les choses habitent ce nuage, ce nuage existe, sì e no, il n’intervient que dans certains cas extrêmement rares…

“Une parole aussi peu métaphorique comme le verbe anglais “to be” (être), provient d’une métaphore. Elle dérive en effet du sanscrit bhu (croître ou faire croître), tandis que les formes anglaises am (je suis) e is (est), ont évolué à partir de la même racine du sanscrit asmi (respirer). Il est agréable de découvrir que la conjugaison irrégulière du verbe anglais le più banal conserve un souvenir du temps où l’homme ne possédait pas une parole en soi pour “existence” et pouvait seulement dire que quelque chose “croît” ou “respire”. Nous ne sommes évidemment pas conscients du fait que le concept d'”être” nait ainsi d’une métaphore concernant la croissance et la respiration. Les paroles abstraites sont des monnaies anciennes dont les images concrètes sont consumées par l’usage continuel du discours et de ses échanges”.

Dans les poésies ci-dessous de Petr Král nous avons un excellent exemple d’écriture poétique “semi-automatique”, pensée sur le fil d’une conscience non consciente, ou mieux encore, de la conscience semi-automatique qui fonctionne en nous à chaque instant de la journée, et également dans les rêves. L’écriture poétique de Petr Král est très proche de ce que nous pensons être la poésie d’aujourd’hui: une écriture qui nait de la mémoire semi-automatique de la conscience non reflétée, pleine de polynômes ….. instables, dans lesquels il serait inutile de perdre son temps à la recherche du sens de chaque proposition ou de l”ensemble, enfourchant des lunettes néo-véristes et néo-réalistes, comme celles employées dans la tradition de la poésie italienne des dernières décennies. La promiscuité des attants et des locutions qui en dérivent est une caractéristique fondamentales de ce type de forme-poésie.

Ce qui s’est passé de Petr Král, con pitture di Vlasta Voskovec, 2017.

Et voilà soudain il ne reste pas grand-chose Nadia fut trouvée noyée
sous une écluse  Prokop a fini de respirer malgré la bouteille d’oxygène
Karel Š. a disparu à jamais dans la forêt
Moi-même d’un seul coup d’œil retourné depuis les boîtes à lettres
vers l’escalier j’ai vu se dissiper d’emblée quarante ans de vie en France

Avec l’arrivée de Miloš vint une animation nouvelle une fois
il s’est levé pour marcher d’un pas incertain parmi les verres sur la table
sans savoir lui-même jusqu’où
Prokop pendant les séances de vendredi s’appuyait au mur
et pratiquait le théâtre tel qu’il l’a toujours voulu faire
dans ses seules paroles et grimaces

L’essentiel était de rendre rayonnante la rouille du monde
ou du moins d’être là quand en fin d’été
avec le soleil elle rentrait de biais dans les salles d’un bois

*

Ed ecco che all’improvviso non rimane gran ché Nadia fu trovata annegata
sotto una chiusa  Prokop ha finito di respirare malgrado la bombola di ossigeno
Karel Š. è scomparso per sempre nella foresta
Io stesso in un colpo d’occhio ritornato indietro dalle cassette della posta
verso le scale ho visto dissiparsi così quarant’anni di vita in Francia

Con l’arrivo di Miloš accadde una nuova animazione una volta
si alzò per camminare con un passo incerto tra i bicchieri sul tavolo
senza sapere egli stesso fin dove
Prokop durante le sedute del venerdì si appoggiava al muro
e praticava il teatro come ha sempre voluto farlo
con le sue sole parole e smorfie

L’essenziale era di rendere raggiante la ruggine del mondo
o almeno di essere lì quando alla fine dell’estate
con il sole tornava di sbieco nelle stanze d’un bosco

*

Il fallait disperser par le monde
même la mémoire sursaturée faire passer la mémorable
   [goutte d’un sang partagé fraternellement
sur son doigt devant le poussiéreux JE sans maître
dans un tunnel du métro parisien

De Paris aussi on partait par la suite il n’était pas nécessaire de savoir à la quête de quoi
pour que ce soit nécessaire
traîner la nuit vers Barcelone par des autoroutes désertes
dans un miroitement à perte de vue de flocons de neige
et d’étoiles çà et là longer en route des pêcheurs inconnus un boucher préludant dans un [verger à un affrontement décisif
avec sa propre planète de viande suspendue
au voyage de retour voir les miroirs
dressés au seuil des maisons près des frontières

Parfois cependant on passait l’été dans la ville faisant sur le boulevard avec d’autres orphelins
la queue pour le tabac pour la fin du dimanche
  [et pour rien
Les ambulances passaient sans s’arrêter peut-être en route vers une autre métropole
au ciel apparaissaient le soir de distants messages
sans destinataire
On avait alors laissé également derrière soi
des villes entières d’accessoires usés d’accordéons dégonflés de genouillères
et de balles de tennis éraflées
du fond le plus secret nous en parvenait jusqu’à l’éclat
d’une enclume mère immaculée
avant que quelqu’un ne commence à compter fermement
pour lancer le morceau suivant

*

Bisognava disperdere per il mondo
perfino la memoria soprasatura fare passare la memorabile
goccia d’un sangue fraternamente condiviso
sul suo dito davanti al polveroso IO senza padrone
in un tunnel della metropolitana parigina

Anche da Parigi si partiva in seguito non era necessario sapere alla ricerca di che cosa
perché fosse necessario
trascinare la notte verso Barcellona su autostrade deserte
in un luccichio a perdita d’occhio di fiocchi di neve
e di stelle qua e là costeggiare lungo la strada pescatori sconosciuti  un 
macellaio che prelude in un frutteto a uno scontro decisivo
con la sua propria pianeta di carne sospesa
al viaggio di ritorno vedere gli specchi
issati sulla soglia delle case vicino alle frontiere

Talvolta tuttavia si trascorreva l’estate in città facendo sul viale insieme ad altri orfani
la coda per il tabacco per la fine della domenica
e per niente
Le ambulanze passavano senza fermarsi, forse in marcia verso un’altra metropoli
nel cielo apparivano la sera lontani messaggi
senza destinatari
Si erano allora lasciati dietro di sé
intere città di accessori usati di fisarmoniche sgonfiate
di ginocchiere
e di palle da tennis graffiate
dal fondo più segreto ce ne giungeva fino allo scoppio
d’una incudine madre immacolata
prima che qualcuno non inizi a contare con fermezza
per lanciare il pezzo seguente

*

Standa me disait tu te protèges le visage
comme si la menace venait du dehors

On se penchait ensemble sur le jeu des petits papiers
tout come sur les cravates le clair-obscur s’écartait
ma celle en fibres de fougère restait enfouie à jamais
dans les année vingt

Après le toast de minuit le vieux Perahim tout à coup
regarda alentour d’un oeil interrogateur : Qu’allons-nous faire
avec le monde ?
Même de la Russie où jadis il avait fui Hitler
il a du plus tard presque s’échapper
Mayo bien qu’entouré à present
d’un monde de succédanés se nourrissait jusqu’à la fin
du beurre et des oeufs tels que dans un matin d’été
il les vit en Grèce étalés sur des chaises
au seuil des maisons près du port

Nous on regardait aussi parfois
en face nos maître et mentors
peu à peu jour aux premiers éclairs d’un orage
on part d’un rire soulagé au-dessus de l’assiette
vers laquelle on s’incline bien loin d’eux

*

Standa mi diceva tu proteggi il tuo viso
come se la minaccia venisse dall’esterno

Ci chinavamo insieme sul gioco dei piccoli giornali
come sulle cravatte il chiaroscuro si scostava
ma quella in fibra di felce restava seppellita per sempre
negli anni venti

Dopo il brindisi di mezzanotte il vecchio Perahim all’improvviso
si guardò attorno con un occhio interrogativo: Che cosa ne faremo
del mondo?
Perfino dalla Russia dove una volta era fuggito Hitler
ha dovuto più tardi quasi scappare
Mayo benché circondato adesso
da un mondo di succedanei si nutriva fino alla fine
di burro ed uova tal ché in una mattina d’estate
le vide in Grecia appoggiate su delle sedie
sulla soglia delle case accanto al porto

Anche noi a volte guardavamo
di fronte nostri maestri e mentori
a poco a poco ai primi lampi d’un temporale
iniziamo con una risata sollevata sopra il piatto
verso il quale ci si inchina ben lontano da loro

Onto Petr Kral

[Petr Král] Gli altri a volte venivano egualmente ad accoglierci alla stazione dei treni, sì…

* Continua a leggere

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Poesia scritta a sei mani – Una poesia di Giuseppe Talia, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Commenti di Giorgio Mannacio, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero e altri – Uno stralcio sul frammento di Alessandro Alfieri

Aldo_Moro,_Pier_Paolo_Pasolini_-_Venezia_1964

Aldo Moro e P.P. Pasolini, Venezia, 1964

Giuseppe Talia
6 settembre 2018 alle 18:07

Presumo un apriscatole usato fino all’alba
che gira nelle mani

e non affonda. Le macchie
hanno un calibro distinto.

Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.

[Potessi farei un pingback di questi versi di Mauro Pierno]

 

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 8:38

Ripubblico qui uno stralcio di un articolo già pubblicato nell’ottobre del 2017 che inquadra il «frammento» dal punto di vista filosofico. 

Scrive Alessandro Alfieri sul n. 28 della rivista Aperture del 2012:

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.
Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.
[…]
(Per Walter Benjamin) il filosofo, o come era solito dire lui, lo “storico materialista”, il critico o anche l’artista, deve puntare il suo sguardo su oggetti apparentemente non degni di attenzione, deve farsi “pescatore di perle” per concentrarsi però sugli stracci, sugli elementi trascurati dagli accademismi ufficiali, sui frammenti dispersi e abbandonati ai margini delle strade e cacciati dalle teorie rigorose. Benjamin interpreta perciò frammenti, e il luogo privilegiato dove a dominare sono frammenti è proprio la metropoli moderna, con le vetrine dei suoi passages e le sue luci a gas, capaci di investire il passante con choc percettivi continui.
Le nostre metropoli, che proprio negli anni in cui scrive Benjamin stavano assumendo la fisionomia e l’assetto di quelle che sono diventate oggi, si caratterizzano per la velocizzazione inaudita dei ritmi di vita, dove a venire sacrificata è l’esperienza effettiva di ognuno di noi può fare del mondo, della realtà e dell’altro. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti, che alla “contemplazione” ha sostituito la “fruizione distratta” (…) Tale dimensione è in Benjamin sinonimo di rivoluzione: possibilità di riscatto da parte delle masse
[…]
In Benjamin distrazione e attività non sono in contraddizione: i fenomeni che sembrano costringere ciascuno, per volontà del capitalismo, all’omogeneizzazione e alla passività generalizzata, sono gli stessi che possono condurre l’uomo alla sua tanto sospirata rivincita e affermazione. I frammenti sono perciò da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto ovvero il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la struttura saggistica su determinati argomenti e autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, riferimenti, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico.
Qui assume un ruolo essenziale il concetto di “immagine dialettica” dominante proprio nei Passages; l’immagine dialettica, che si oppone all’epochè fenomenologica, vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione, anzi, è la stessa immagine che, affinché possa sopravvivere, pretende di essere messa in rapporto ad altro. È nell’immagine dialettica che temporalità ed eternità si fondono insieme, passato e presente si amalgamano:

“Non è che il presente getti la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio”.1]

Cogliere nel turbinio incessante e frenetico della modernità dei momenti di stasi improvvisi, delle “epifanie di senso”, capaci di illuminare di una luce differente ciò che invece ci sfugge repentinamente nella vita quotidiana dominata dalle regole del consumo: questo è il compito del filosofo dialettico e del critico della cultura; fissare lo sguardo sui frammenti per farne delle immagini dialettiche che rivelino i processi che li hanno determinati, le loro intenzionalità profonde, i loro valori allegorici e le opportunità che da esse si sprigionano.
[…]
Ontologicamente, ed anche da un punto di vista logico-semantico, l’immagine può dire qualcosa, ha un senso e può comunicare con noi solo perché è da subito a contatto con altre immagini, in rapporto di identità o differenza con esse. D’altronde, è la conoscenza stessa che opera in questa maniera, affidandosi alla “relazione” e non alla “cosa in sé”. Per comprendere questo punto, torniamo a Nietzsche: “Le proprietà di una cosa sono effetti su altre ‘cose’; se si immagina di eliminare le altre ‘cose’, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’è una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna ‘cosa in sé’”.2]
L’immagine rinvia continuamente a ciò che è altro da sé, slitta il suo senso ad un’altra immagine che rimanda a sua volta ad altre innumerevoli immagini. In questo terreno multiforme e frammentato, in assenza di un punto centrale e statico, la riflessione è demandata continuamente al suo passo successivo; questo processo consente al pensiero di vivere, di non esaurirsi in una risposta conclusiva, e di tenersi aperto all’indeterminato.

1] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2007, p. 516
2] F. Nietzsche, La volontà di potenza Bompiani, Milano, 2005, p. 308

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 9:34

A proposito di una poesia scritta a 6 mani

Qualche tempo fa, sulle pagine dei Commenti di questa rivista è stato fatto un esperimento molto interessante, è stata creata una poesia a sei mani a partire da un verso lasciato lì per caso da un commentatore. Ecco, io vorrei sottolineare questo evento perché ne è uscita fuori una poesia non riconoscibile. Imprevista e imprevedibile. Finalmente, è stato creato un qualcosa che nessuno di noi si aspettava.
Ecco la poesia composta da frammenti a 6 mani, da Ubaldo De Robertis, Antonella Zagaroli, Flavio Almerighi, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppina Di Leo. Beh, che ve ne pare? Non sarà una «bella poesia» nel senso tradizionale del termine, ma almeno c’è della elettricità dentro. Qualcosa che vibra.
.
Come la luce passerà su quel vetro o si rifletterà.
M’è dolce leggere ascoltando e vedendo.
Mi raccomando: acqua in bocca!
glu glu glu
In principio non sembrò un problema.
Betta cavalcava la pinna dello squalo
sembrando compiaciuta.
Tre squali bianchi nuotano nella vasca.
Brillano i bambini sul vetro dei bicchieri.
Manca sempre l’oliva, disse lo squalo.
Ignari
suonano con tutte le acque

.

Giuseppe Talia
4 settembre 2018 alle 18:30

.       . A Petr Král

Non c’è alcun dubbio, me lo ha detto lui.
E lui chi è? E’ l’albero. Ma non so con quale
parte dell’albero ho parlato: radici, tronco,
rami, foglie, fiori, frutto o con le cime?
Chi o cosa mi ha parlato? E chi o cosa
dell’albero mi ha risposto che non vi è dubbio?
Buon compleanno.

Gino Rago
4 settembre 2018 alle 18:42 Continua a leggere

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A proposito del concetto di Diafania nella Nuova Poesia – Poesie e Commenti di Mario Gabriele, Dvora Amir, Donatella Costantina Giancaspero, Michal Ajvaz, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Alfonso Cataldi, Giorgio Linguaglossa

 

Gif labbra occhi

Adotto la parola «diafania» per indicare una procedura compositiva «nuova» propria di alcuni poeti della nuova ontologia estetica. La parola è composta dal prefisso «dia» che significava originariamente «fra», «attraverso», cioè l’azione che si stabilisce tra due attanti, tra due o più soggetti, che passa attraverso di loro, e Phanes o Fanes, (in greco antico Φανης Phanês, “luce”), chiamato anche Protogonos (“il primo nato”) e Erikepaios (“donatore di vita”), era una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita nella cosmogonia orfica.
Il termine «diafania» mi è venuto in mente leggendo le poesie di Steven Grieco Rathgeb, Mario Gabriele e di Donatella Costantina Giancaspero; ho ripescato questo termine dalla significazione teologica che ne ha dato Teilhard de Charden e l’ho riproposto in chiave secolarizzata attribuendogli una nuova significazione, nuova in quanto suggerita dalla lettura di alcune poesie dei poeti dianzi citati. Sappiamo che una nuova poesia deve essere letta e interpretata con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie cartografie euristiche non sono più adatte alla comprensione del «nuovo». Ecco quattro versi di Mario Gabriele:

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.
Sale il fumo fino alla lampada.
Andrea rinnova aria fresca.

Se leggiamo con attenzione i versi riportati, ci accorgiamo che, apparentemente, non c’è nulla di nuovo. I versi ci dicono, in rapida successione, che alle 18 torna Milena, la quale prepara la cena (tempo presente) ma che il «tavolo ha quarant’anni» (proposizione dichiarativa senza nesso logico con le precedenti proposizioni), e che del fumo sale fino alla lampada (altra proposizione dichiarativa) mentre che «Andrea rinnova aria fresca» (altra proposizione dichiarativa e tautologica perché l’azione di rinnovare l’aria fresca è una tautologia vuota di significato). Dunque, una serie di proposizioni dichiarative auto significanti producono l’effetto di un universo in miniatura auto significato, auto significato in quanto auto giustificato, cioè fatto di proposizioni protocollari date e ricevute alla e dalla comunità per inconcusse e apodittiche. Mario Gabriele impiega nelle sue composizioni questi frasari auto giustificati che lui assembla in modo tale da farne sortire fuori dei significati nascosti, inverosimili, ultronei. Questa è, per l’appunto, una «diafania», ovvero, il darsi di Phanes, in modo immediato «attraverso» «fra», altre proposizioni che si danno in modo auto affermativo e auto apodittico. La «diafania» è in questo tipo di composizione il modo di procedere e di costruire gli «eventi» linguistici i quali sono in sé auto prodotti, auto giustificati e auto significanti. La «diafania» in Mario Gabriele sta nella procedura adottata e dal nuovo sguardo che lui posa sulle «cose» linguistiche del mondo. La «diafania» è un guardare e un produrre le «cose» linguistiche in modo da mostrare l’interna contraddittorietà e falsificabilità della propria significazione; la «diafania» è il modo scelto da Gabriele per mostrare a tutti che il re è nudo.

Se leggiamo un verso di Donatella Costantina Giancaspero, ci accorgiamo che qui siamo davanti ad una proposizione che indica una «cosa» non riconoscibile, anzi, irriconoscibile. Al contrario della procedura adottata da Mario Gabriele, nella procedura della poetessa romana abbiamo una modalità di costruzione molto differente. Leggiamo un emistichio:

un nido di vespe nel lampadario.

Gif we were born to die

Il significato di questa proposizione può essere esaminato da vari punti di vista, anche dal punto di vista psicanalitico, ma, sicuramente il significato residuale ci indica una «cosa» del tutto inutilizzabile, ed anche una «cosa» di estremo pericolo, una «cosa che impende, che resta lì, sopra le nostre teste, e che ci condiziona, ci minaccia con la sua sola presenza anche in assenza di azioni o di eventi, anzi, l’evento principe è che qui non si dà alcun «evento», l’evento è nel Phanes, nel mostrarsi per quello che è quella «cosa», un qualcosa che noi non conosciamo ma che sta lì, all’erta, in attesa di qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che potrebbe scatenare una reazione, una risposta temeraria e bellicosa. Questo è un genere di «diafania» tipica della procedura compositiva della poetessa romana. È una procedura nuovissima, mai adottata dalla poesia italiana ma ben presente ad esempio in altre tradizioni letterarie, ad esempio nei poeti cechi Petr Kral e Michal Ajvaz. La «diafania» nella Giancaspero indica, in temini psicanalitici, la rimozione di una rimozione, con il che un qualcosa è pervenuto alla soglia della istanza linguistica che le ha confezionato un vestito linguistico, quel qualcosa che non può che essere una catacresi. Ecco, la poesia della Giancaspero ha questa caratteristica, che ha sempre a che fare con la catacresi, che è il modo di darsi di Phanes, il modo di venire alla luce della vestizione linguistica di un qualcosa, di un contenuto di verità che è stato travisato e composto (tradotto) in parole inesplicabili, in un Enigma.

Mario M. Gabriele
1 maggio 2018 alle 11:04

Grazie Giorgio di questa tua ennesima fioritura critica. Vorrei entrare nel merito della diafania, presentando un testo che si energizza su questo tema, senza per questo creare amputazione con il linguaggio corrente. Trattasi di una ulteriore via di agglutinazione sferica delle idee e delle sovrapposizioni sensoriali, che alla fine si armonizzano nella struttura segmentata. E’ ovvio che questo testo ha un suo valore interpretativo solo se, come dici tu, lo si analizza “con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del nuovo”.

I
inedito da: Registro di bordo

………………………………..
Berenice non ha altro da fare
che mettere blazer di vecchia data.
La stagione resiste all’epitaffio.
Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,
salvare papiri ed ebook.
con 8 posti senza turnover.

Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
della Letteratura Italiana .
Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
Al vicolo 7 di Piazza Bologna,
nessuno ha una vita privata.
Quando la poesia sfugge
diventa grazia autonoma.

In un inverno del 93 cademmo nel crinale.
Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.
Il fiume era rientrato nell’ alveo.
Carlo già pensava alla brossure della Gita domenicale.
Ada, la magnifica Ada
dai sette lumini e corde di chitarra,
si era concentrata sugli steli di gramigna.

Una piccola colazione
portò fantasmi e sentimenti abrasi.
Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.
Lo stato delle cose è nel tempo.
La Canducci ha azzerato il debito.
Siamo in bilico.
Ofelia si trastulla con l’oboe.
La notte ha rubato la luna.

Su altri versanti sostano i giorni a venire.
Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali
con Dibattito su amore e Il Dente d’oro di Wels.
Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.

El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
Un paesino di sintassi crudele
ha aperto check-in e ogni limite.
-Oggi non è venuto nessuno;
e oggi sono morto così poco questa sera!-
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Petr Král, Ventisei brevi prose – da Nozioni di base, Miraggi, 2017, IL CONCETTO DI ESPERIENZA NELLE DISFANIE – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero – Commenti di Milan Kundera, Massimo Rizzante, Donatella Costantina Giancaspero, Yves Hersant

 

Petr Kral 2016 caffè Slavia, Praga

Petr Král con Alessandro De Vito allo Slavia caffè, Praga, 2016

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Quello che colpisce in questi mini racconti di Petr Král è il modo con il quale l’autore tratta gli «oggetti». Innanzitutto, non c’è nessuna «epifania» degli «oggetti», gli «oggetti» di Král sono quelli che tutti usiamo tutti i giorni, quindi non sono «cose» quanto oggetti che restano oggetti sia prima che durante e dopo che ne abbiamo usato. È il nostro modo di percorrere le contingenze degli oggettile disfanie degli oggetti; quelle «disfanie» sono le nostre esperienze, le micro esperienze, quelle impercettibili e invisibili esperienze-contingenze che ripetiamo in ogni attimità di ogni giorno senza pensarci su. L’idea di Král è che in quelle «disfanie» o «contingenze» si riveli un segreto che non sapevamo, o meglio, che forse sapevamo in modo inconsapevole ma che dimenticavamo subito dopo aver esperito la contingenza. In secondo luogo, le «disfanie» degli «oggetti» accadono all’improvviso quando si verifica una condizione esistenziale di allentamento dell’ordine razionale.

È chiaro che in queste «disfanie» králiane non si dà alcuna «verità» (nel senso tradizionalmente inteso dalla tradizione filosofica come emersione del nascondimento alla piena luce della visione), si danno soltanto dei contenuti veritativi, cioè quei contenuti che afferiscono alla «verità» in quanto esponenti della «non-verità». Tutti i nostri atti della vita quotidiana sono intessuti di queste attimità e di questi contenuti ideativi, solo che non ci facciamo caso e passiamo oltre, passiamo ad occuparci di altre cose, le cose che l’io auto organizzatorio ritiene serie.

Per esempio, nella poesia di un Mario Gabriele si verifica qualcosa che è l’esatto contrario di ciò che si ritrova nella poesia degli autori che presuppongono un contenuto di verità epifanico ritenuto fisso e stabile nelle dimore degli «oggetti». È chiaro che qui siamo nella antica ontologia del novecento italiano. In Král come in Mario Gabriele o nella scrittura poetica di Steven Grieco Rathgeb, ci troviamo in un altro universo esperienziale e ideativo: qui non si dà alcun contenuto di verità purchessia, in questa «nuova fenomenologia psichica», che non è una cosa solo italiana, non si dà alcun contenuto imperituro di verità ma soltanto un contenuto energetico e ideativo; la traccia psichica che lasciano gli enunciati della poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera dei quanti di energia linguistica e psichica, elementi linguistici de-simbolizzati.

Nella poesia di Petr Král, di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb ma anche in quella di Giuseppe Talia, che a una prima lettura potrebbe apparire «normale», non si rinviene nessun «focus» delle  composizioni, non si dà mai alcun centro simbolico, la loro poesia è sempre scentrata, eccentrica, ultronea, abnormale, abnormata, ci troviamo dinanzi ad una nuova fenomenologia estetica.

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

Nei testi poetici di Petr Král, come nelle sue prose di Nozioni di base, sarebbe errato cercare un «centro» unico della composizione, perché il «centro» appare ovunque: è dislocato e si dis-loca continuamente. Gli «oggetti», anch’essi, si dis-locano, seguendo le linearità sghembe del «presente»; un «presente» che si configura, non come vasta pianura, estesa dal «prima» al «dopo», ma come reticolato fitto di attimi e di attimità, che si dis-locano casualisticamente, allo stesso modo di una materia instabile, o di un pulviscolo.

Noi, poeti della Nuova Ontologia Estetica, ci sentiamo molto vicini alla poetica di Petr Král. Per fare un esempio, potrei citare il nostro Steven Grieco Rathgeb, le cui poesie sfuggono proprio al concetto di «centro» unico. In esse, i più svariati «centri» si dis-locano seguendo il solco delle micro fratture del reale, là dove si situano le cosiddette «disfanie».

In definitiva, le «esperienze» di questa «nuova ontologia estetica» o «nuova fenomenologia estetica», peculiari nella poetica di Král, si danno negli interstizi delle e tra le «epifanie». Il «presente» di queste «disfanie» non coincide più con ciò che risulta nelle «esperienze» delle tradizionali «epifanie». Le «esperienze» che si fanno in questa nuova ontologia o nuova fenomenologia sono assai diverse dalle antiche «esperienze», quelle dettate dalla ontologia novecentesca, la quale, considerando unicamente l’esperienza dell’«epifania», non è in grado di distinguere elementi valoriali «altri», e, di conseguenza, non potrebbe mai offrirci gli strumenti necessari per comprendere le poesie e le prose di Petr Král.

Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935) Martin Heidegger riprende la concezione dell’opera come strumento-per, come mezzo, ma con una differenza rispetto a Essere e tempo: che l’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato, non a far luogo dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di un’opera d’arte, e prende per esempio un quadro di Van Gogh, che raffigura un paio di scarpe da contadino.  In questa famosa opera, l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, abita in qualcosa di più profondo della semplice «utilizzabilità» di cui il filosofo aveva parlato in Essere e tempo: essa abita nella sua «fidatezza» (Verlassigkeit); «In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo (…) la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra, la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza». 1

Ora, nei racconti di Petr Král, i personaggi si accorgono dell’esistenza degli «oggetti» quando si interrompe la «fidatezza» di cui ci parla Heidegger: è allora che i personaggi fanno esperienza dello stupore e gli «oggetti», improvvisamente, diventano «cose», diventano altro, fanno esperienza del divario che si apre tra gli «oggetti» e le «cose», del mutismo degli oggetti-strumento e del linguaggio misterioso delle «cose». Le epifanie degli «oggetti» accadono in quei momenti in cui siamo distratti, quando pensiamo ad altro; è allora che ci accorgiamo con stupore che gli «oggetti» sono in realtà delle «cose»: quelle «cose» che noi non vedevamo e non sapevamo riconoscere.

1 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti Editore, 2000 p. 97

Ecco cosa scrive Milan Kundera di queste prose di Petr Král:

È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela. Pur sapendo che cosa vuol dire la parola “fumare”, non eravamo in grado di vedere quel che “fumare” significa in concreto, in che modo gesti banali e automatici ci legano al mondo o ci permettono di allontanarcene, come testimonia la storia del non fumatore Lenin che chiede una sigaretta a Trockij allo scopo di dimenticare per un minuto la rivoluzione. Pur sapendo che cosa vuol dire “solitudine”, la cecità esistenziale ci impediva di renderci conto che soltanto una porta sottile separa la nostra “stanza della solitudine” dal salone dove rumorosamente la festa continua.

Quante volte, alla fine di una serata, abbiamo visto una donna andarsene, ma tutto ciò che riempiva l’ultimo sguardo che gettavamo su di lei lo dimenticavamo un secondo dopo. È sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. È una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo.

Appunto di Massimo Rizzante 

«Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del portacenere, dei bicchieri e della caraffa, che immobili disegnano la pianura del tavolo». Questa “nozione di base” di Petr Král è tra le più brevi composte dal poeta. Per questo rivela l’essenza di tutte le altre, anche di quelle più lunghe.
Che si parli di una camicia che «ha fatto il suo tempo» e che ci ispira un «addio così commosso» quale quello che daremmo a «un’amante», o di una porta che durante una visita ad alcuni amici ci introduce in una stanza «attrezzata ma vacante» che «estende il nostro soggiorno» su questa terra di uno «spazio supplementare», o ancora di una vasca da bagno che improvvisamente da letto d’amore si trasforma «nella nostra tomba», tutto ciò che Petr Král tocca diventa spettacolo, spectaculum, ovvero, apparenza. È grazie al suo stupore davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo. La regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove ci abbraccia come un’amante dimenticata. Ma da dove viene lo stupore del poeta che libera le cose dalla loro funzione e che gli permette di camminare senza quel pesante fardello per le strade della prosa? Da dove viene questa grazia? Non si è mai tanto vicini alla grazia come durante quei mattini quando si assiste «stupiti allo spettacolo» di ciò che si conosce a memoria. È durante quei risvegli che tutti gli oggetti e tutte le situazioni della vita quotidiana mostrano quel che potrebbero essere, che il presente ama contemplarsi davanti allo specchio delle sue possibilità. Così Petr Král, indossando ogni giorno una camicia bianca fresca di bucato, saluta il volto mattutino di quell’amante che ogni notte dimentichiamo: l’esistenza.

Appunto di Yves Hersant

Tutto quel che dice, è di sfuggita. Senza indugio, senza mai lanciare sulle cose uno sguardo totalizzante. Ma scrutandone i dettagli, o lasciando che vengano a lui le fugaci apparizioni; lasciando che l’acutezza dell’occhiata subentri a ogni teoria; lasciando risuonare nella memoria – la sua e la nostra, che vengono quasi a confondersi – il discreto rumore dei passi, o il tintinnio del bicchiere sopra al bancone. La sua motricità pedonale, per riprendere la bizzarra espressione di Michel de Certeau, può condurlo nei più reconditi luoghi del nostro mondo mondializzato; però è tra gli arabeschi delle nostre città, dove le sue erranze evocano a volte il grand Flâneur del xix secolo, che realizza di preferenza i suoi fecondi micro viaggi. Né geografico, né geometrico, né panottico, il suo spazio è da subito quello della poesia e del mito. Eppure si rivela perfino romanzesco, perché popolato da virtualità concrete. Sgombra d’ogni lirismo e soprattutto alleata di una prosa che etichettare come “poetica” sarebbe quanto di più prosaico si possa dire, la poesia di Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: «La missione del poeta non è affatto quella del fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?». In un’opera precedente (Testimone dei crepuscoli, 1989) Petr Král offriva in parallelo una serie di poesie e il racconto degli aneddoti che li avevano generati. Al contrario, nelle pagine che state per leggere, le due correnti sono confuse: La camicia come Il vecchio saggio, La vasca come La folla, sono minuscoli ma intensi racconti-poemi incoativi, in cui si manifesta l’antica potenza delle forme brevi. Dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano che decisamente non ha nulla di banale; analista minuzioso delle condotte più surrettizie, ci riconcilia con il mondo lacerando ogni nostra certezza. Questo amante del burlesque diventa così un grande educatore dello sguardo: d’un colpo solo, ci insegna che la nostra realtà ne nasconde ben altre. Dietro ad ogni porta può aprirsi una vita nuova.

 [Petr Král, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

da Petr Král, Nozioni di base, Miraggi, 2017

Il caffè

Il sabato, dopo aver dormito a lungo, usciamo e scivoliamo indietro nel tempo con la morbida indeterminatezza che solo la mattina meno impegnata della settimana consente; ci uniamo ai vivi, un po’ di sbieco, solo quando, appoggiati al bancone del bar, ordiniamo un caffè che berremo osservando incuranti la strada e il suo sfocato viavai dietro il vetro. Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento.

La camicia 
                                              a Milan Schulz

Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle: i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda, insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia, sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto, nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani quanto la stazione, non va certo meglio.

Lo spettacolo

Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.

Radersi

Prima di raderci spalmiamo la schiuma bianca sul viso, come clown prima di entrare in scena, sotto di essa ci è più facile trovare la nostra pelle nuda; come in una parentesi di breve eternità ci attardiamo soli con noi stessi ai margini del tempo, nella cui corrente stiamo per immergerci. Proprio come accade al momento del risveglio è in quell’attimo che ci sovvengono i pensieri più profondi e originali della giornata e ancora meglio: mentre ci radiamo e misuriamo senza fretta l’estensione della nostra nudità, sappiamo tutto.
Mentre il corpo è occupato nella cura di sé, concentrato su ogni suo minimo aneddoto, l’anima, come un’ape libera, sorvola il mondo intero, e osserva i suoi nascondigli sconosciuti.
Un impercettibile tremito nell’aria o in noi stessi, un semplice niente, deciderà della riuscita della rasatura – e allo stesso modo dell’atto d’amore che in fondo ora, con il rasoio, offriamo a noi stessi. Niente è anche la brezza che sfiora la guancia con una goccia di colonia, come l’ultimo fremito dell’abisso che, grazie alla rasatura, abbiamo felicemente oltrepassato.

Gli orologi

Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità; il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita, estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci rammenta semplicemente che siamo al mondo.

Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali – si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione – senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato per anni a mantenere ostinatamente le lancette fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include tutte le altre.

L’attaccapanni

Essere solidali con l’attaccapanni e con la sua nudità, che mantiene intatta sotto il peso provvisorio dei nostri vestiti da clown.

Il cappello

Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile, un provinciale cappello tirolese e subito accanto un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili, si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto assassino, ma quale?
Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra la testa e il cappello.

Il treno

                             a Alain Roussel

Non c’è mezzo di trasporto che come il treno abbia ampliato la nostra conoscenza del mondo. Ancor prima di metterci in viaggio col nostro, già stiamo partendo con quello che si è mosso sul binario accanto, ci dà l’impressione di essere noi in movimento, ci toglie il fiato a tradimento lasciandoci solo la massa del nostro corpo, sorda e immobile, come se fossimo già tornati indietro. E quando ormai siamo in viaggio, tra le carrozze del treno che viene dalla direzione opposta ci viene incontro il cielo, inaspettatamente vicino e turbolento, scoppiettante e pulsante tra gli spazi come un cordone di vivo acciaio. Da quando i treni esistono sappiamo che quelli su cui viaggiamo non sono mai quelli in cui siamo seduti.

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Petr Král nel suo studio

Treni

I nostri treni non vanno più a vapore, ma il loro respiro è comunque più ampio dei binari che percorrono e dell’itinerario stabilito. Continua a leggere

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Gino Rago, Una Poesia, Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska, Lars Gustafsson (1936-2016), Una Poesia, Ibn Batutta – Commenti di Alfredo de Palchi, Laura Canciani, Anna Ventura, Rossana Levati, Mario M. Gabriele, Giuseppe Gallo, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa – La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto

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Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert

Gino Rago
31 marzo 2018 alle 11:59

Ecco un intreccio poetico [Lipska-Linguaglossa-Rago] a tre, con Giorgio Linguaglossa che tenta di dare scacco matto al tedio di Dio…

Gino Rago

Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
[come Roland Barthes fece con sua madre].
La sua morte l’ho appresa dalla mia amica di Vienna.
La città oggi è nella tristezza dell’autunno
[la mia amica dice che piove da tre giorni].
Entro al «Blumenstrasse» [ il Buffet caro alla Signora Schubert].
I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano.
Mi dicono il menù da lei desiderato.
La sperlunga «Octoberfest» di patate in tecia e crauti.
Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

il mio amico-poeta di Roma ha dato scacco matto al tedio di Dio.
Ha scritto in un suo verso.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Forse per questo al Buffet della Signora Schubert
l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile»
dice ancora alle mie spalle qualche verso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße»
il perché di quel nome:
«Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti.
Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle.
Gli anziani col monocolo diventavano ballerini.
Il clown macrocefalo smetteva di far ridere.
li zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude.
I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

andrò con la mia amica di Vienna
a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero
[sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].

Laura Canciani:

La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro…

Strilli GabrieleStrilli Gabriele2
Mario M. Gabriele
30 marzo 2018 alle 11:15 

Caro Giorgio,
grazie per aver concesso altri giorni di dialogo sul tema della Critica e della Nuova Poesia. Meglio così,perché in questo modo si accede ad una dialettica di più ampia sfaccettatura. Mi fermo sul primo punto: quello della Critica, senza fare una retrospettiva storica, la qual cosa sarebbe noiosa e fuori tempo, ma chiamando in causa quella di mezzo secolo,più libera e autonoma, anche se poi via via, si sarebbe asservita al potere delle grandi case editrici. Intorno agli anni Sessanta la rivista Strumenti Critici aprì un ampio dibattito, portando in primo piano l’azione dello Strutturalismo, facendo riferimento ad alcuni Autori che meritavano tale studio. Ma poi, sia il tempo che la dispersione della critica verso altri mediocri orizzonti, portarono come scrisse Mario Lavagetto alla Eutanasia della Critica, intendendo dire con questo titolo del suo volume, la fine operativa di una disciplina. Ci fu un vero tracollo della critica militante e accademica, che sembrava non interessare a nessuno, dal momento che l’Editoria maggiore si autogestiva criticamente sulle opere prodotte. Se la critica muta le proprie direzioni si rimane come tuareg nel deserto. Va bene che spetta al lettore captare il bello di un verso, ma quanto alla sua decodificazione, credo che spetti al critico svelarne il senso. Non esiste libro che non abbia bisogno del critico. Se addiveniamo a questo concetto si recuperano valori e senso dello scrivere.

Oggi, per fortuna, si assiste ad un proliferare di riviste on line, di vendite e-book, con proposizioni linguistiche, e qui cito la «Nuova Ontologia Estetica», non per mero narcisismo, ma per effettiva documentazione estetica. Non vedo nel Gruppo 63 i killer della poesia. Anzi, fu una parentesi necessaria al pascolismo e al bertoluccianesimo imperanti in quegli anni. Ci fu tutto un susseguirsi di variazioni stilistiche e di affratellamento con gli esiti linguistici europei e degli angry ypung man, con festival di poesia e di importanti presenze di poeti di diverse nazioni. Attori leggevano poesie di Montale, di Caproni, ma soprattutto delle nuove leve come Saady Yussef, Ghassan Zaqta, Tadeus Rozewicz, accompagnati dai bassisti Deep Purple, Glen Hughes, ecc. Allora i poeti avevano molte ragioni per apparire, salire sui palchi, fare happening. Ma oggi? Era sì spettacolo, allora, ma anche performance della poesia, come a San Francisco con Ferlinghetti, e a Castelporziano con William Burroughs. Insomma, veramente la poesia degli anni 60 e 80 non fu mai così popolare e palcoscenica. Si proclamò la morte della lirica a tutto vantaggio di un grande spazio di libertà semantica.

Tutti ne parlavano e tutti ne discutevano. Poi si affermò la popolazione poetica a dir poco preistorica, che tornava al linguaggio autonomo dell’IO e della riconciliazione con la Tradizione. Un bell’oscuramento della poesia e del suo cammino. Nacquero le metanarrazioni, la cultura degli aedi, l’ascensione al cielo per istituzionalizzare la Metafisica.Caddero l’immaginario evolutivo, e ogni idea di riformismo verbale. Finì il successo plateale, ma anche la diffusione della poesia che stando ad un rapporto editoriale, su 2000 copie, se ne vendevano appena 500, rispetto ad una popolazione di 60 milioni di abitanti. Si può dire che la poesia è finita? In un certo senso si, con addio al piacere del testo e ad ogni proposito di rinnovamento.

Ci troviamo, come dice Zygmunt Bauman, in una sorta di vita liquida, e di relazione antisociale perché non trasmette agglutinazione del senso della cultura. Eppure in queste acque stagnanti qualcosa si muove. È l’antagonismo che come diceva Adorno è diventato ”conflitto inevitabile”. Su questa trincea e opposizione ad una guerra di Cent’anni, Giorgio Linguaglossa sembra veramente essere un Cavaliere Esistente, per rifondare la critica e la poesia. È una nuova lezione volta a ripristinare il giusto equilibrio tra Forma e Senso del suo esistere. La parola cultura ha diverse fascinazioni, ma non può essere insabbiata sulle rive dell’Assenteismo linguistico. Torno ancora a citare Adorno quando scrive che “la cultura risente danno, se abbandonata a se stessa rischiando di perdere non solo la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza. Continua a leggere

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Petr Král – Lettera ai poeti della nuova ontologia estetica – Sabino Caronia – Un Appunto su Critica della ragione Sufficiente (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21) di Giorgio Linguaglossa con due poesie di Anna Ventura

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Lettera di Petr Král

 Chère Donatella Costantina Giancaspero,

merci de votre lettre et de l’intérêt que vous portez à mes écrits; l’article sur Notions de base, bien sûr, m’intéressera beaucoup.

Je comprends mieux, grâce à votre lettre,  la notion de “nouvelle ontologie  esthétique” et le besoin que vous avez d’une “devise” de cette sorte. Moi aussi, après tout, j’ai utilisé l’expression de “phénoménologie” poétique à propos de mes Notions de base, justement, ce qui n’est pas très loin de votre ontologie… Je trouve, en tout cas, que votre initiative pour relancer le débat sur la poésie dans le contexte actuel est une initiative heureuse et utile et qu’elle mérite  d’être connue et suivie le plus possible; et si je peux y contribuer un peu, je n’hésiterai pas à le faire, selon les circonstances et avec mes moyens personnels.

Comme vous, je serais content si cela  nous permettait également de nous rencontrer un jour. Avec un amical bonjour pragois, à vous et à vos amis ontologistes.

[Cara Donatella Giancaspero,

grazie per la tua lettera e il tuo interesse per i miei scritti; l’articolo su Nozioni di base, ovviamente, mi interesserà molto.

Capisco meglio grazie alla tua lettera, il concetto di “nuova ontologia estetica” e la necessità si dispone di un “motto” di questo tipo. Io anche, dopo tutto, ho usato l’espressione “fenomenologia” poetica a proposito delle mie Nozioni di base, che non è molto lontano dalla vostra ontologia … Io penso, comunque, che la vostra iniziativa per rilanciare il dibattito sulla poesia nel contesto attuale è un’iniziativa felice e utile e che merita di essere conosciuta e seguita il più possibile; e se posso contribuire un po’, non esiterò a farlo, secondo le circostanze e con i miei mezzi personali.

Come te, sarei felice se ci permettesse anche di incontrarci un giorno. Con un amichevole buongiorno praghese, a te e ai tuoi amici ontologisti]

[Sabino Caronia, Steven Grieco Rathgeb, Grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Sabino Caronia, soltanto un Appunto

 Giorgio Linguaglossa scrive nel Retro di copertina del volume:

Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci  illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia:  un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che  il presente non è affatto certo.

Il programma «minimo» annunciato nel sotto titolo diventa, come per magia, un programma «massimo».

Diamo la parola a Linguaglossa:

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive: «l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica». Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo. Con  Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale. La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte e stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredita di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.

Il «frammento» si da soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perche l’eta pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».

 Esponente di rilievo dell’ermeneutica contemporanea, fortemente influenzato dal pensiero di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, Vattimo ritiene che l’oltrepassamento della metafisica sfoci in un’etica dell’interpretazione. La filosofia diventa pensiero debole in quanto abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma è intesa come continua interpretazione. Esistono, dunque, diverse ragioni che contrastano le pretese della filosofia fondazionale, ma il motivo di maggior peso è dato proprio dall’ermeneutica, arte e tecnica dell’interpretazione che riguarda il rapporto tra Linguaggio ed Essere.

Esistere significa vivere in relazione ad un mondo e questo rapporto è reso possibile dal fatto che si dispone di un Linguaggio. Le cose vengono all’essere solo entro orizzonti linguistici non eterni ma storicamente qualificati. Anche il linguaggio non è una struttura eterna.

[Giuseppe Ungaretti, Eszra Pound, Grafica di Lucio Mayoor Tosi L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici]

L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici, legge ed interpreta l’essere e si rapporta ad essi. Ma, trattandosi di orizzonti temporalizzati, vale a dire non eterni, è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute su Dio, sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità. L’avventura del pensiero metafisico è giunta al suo tramonto. L’uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L’uomo si apre al mondo tramite il Linguaggio che parla. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali.

La verità diventa la trasmissione di un patrimonio linguistico e storico, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo.

Umberto Saba scriveva in Quello che resta da fare ai poeti: «un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima invenzione». È proprio quello che fa Linguaglossa quando sposta il binario Debenedettiano dalla linea Saba-Penna alla linea Tranströmer-Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb nuova ontologia estetica della poesia italiana ed europea. Leggiamo un brano significativo.

Ha scritto Linguaglossa:

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio…

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer Continua a leggere

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Guido Galdini POESIE SCELTE da Gli altri (LietoColle, 2017) con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. È finito un concetto di «reale» – Inizia un nuovo realismo – C’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico – La poesia che si fa oggi

 

Gif Skyscrapers's cataclism

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione (Roberto Bertoldo)

 

 Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria ha lavorato nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte “Il disordine delle stanze” (PuntoaCapo, 2012) e “Gli altri” (LietoColle, 2017). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. È attualmente impegnato nella stesura di un testo di informatica aziendale.

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti.
Il guardare verso e attraverso finestre che non c’erano
ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle
con proprietà terapeutiche improbabili.
L’uomo deve quindi badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
[…]
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

(Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura, 2011)

[Guido Galdini]

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Mi scrive Guido Galdini:

«I temi di questa raccolta sono molto lontani da quelli dagli Appunti Precolombiani: nel suo piccolo è il tentativo di dare un’idea dello sgretolamento del mondo contemporaneo a partire da modesti fatti quotidiani. Ho cercato, come autore, di acquisire la massima invisibilità e, nel contempo, di operare con la massima precisione. Non posso permettermi sbavature. Mi sembra di camminare in equilibrio sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo (o forse ci sono dentro da sempre senza rendermene conto e senza riuscire a risollevarmi). Il punto di partenza deve comunque essere concreto: vi sono parecchi riferimenti specifici al paese dove abito, con nomi di luoghi e riscontri immediatamente verificabili.

Lei aveva, molto acutamente, nel commentare gli estratti degli Appunti Precolombiani, fatto riferimento ad una pittura realistica (Delvaux) però prosciugata dallo spaesamento surrealista. Io mi sento affascinato in modo totale dall’informale e dall’astrazione (Afro, Santomaso, Morlotti, Veronesi, Licini), ma il mio pennello ha le setole di Antonio Donghi».

In apertura del libro di Guido Galdini c’è una citazione di René Daumal: «La porta dell’invisibile deve essere visibile» e, conseguentemente con questo assunto, l’attenzione dell’autore è incentrata sul «visibile», sugli oggetti del quotidiano, sui personaggi di tutti i giorni; una vita grigia, sbiadita, piccole cose neanche di cattivo gusto: l’ordinario, il routinario, il normale: «i venditori di ombrelli sui marciapiedi», la fornaia, le persone, i piccioni alle finestre, i colombi sul tetto, le vetrine dei negozi, la corriera, il lavandino, i marciapiedi, le automobili, una lucertola cui «si è staccata la coda», il «ponte dell’autostrada», «la cassetta per le lettere», «i portici verso piazza della Repubblica», la «cassiera»; e poi ci sono gli oggetti consueti: l’ombrello, il cellulare, la bicicletta, il televisore, le ciabatte, «le bandierine di plastica… sopra le vie di San Rocco», «i tacchi a spillo», «il gregge di pecore / che stamattina ci ha bloccato sulla circonvallazione», «il furgoncino della raccolta della carta», la «cabina telefonica», il «parcheggio del supermercato», «olio, patate, insaccati e birra… pasta e passato di pomodoro», «due panini, un cartone di latte, qualche pesca, una scatoletta di cibo per gatti», «l’edicola di fronte al castello Quistini», «le tecniche di attraversamento di una rotonda europea / sono una prova che la vita ci impone», «c’è sempre un incidente, sulla strada o al lavoro», «i libri usati», «un segnalibro», «le poesie di Raboni, / farcite di biglietti di cinema, di mostre e di filovie», «scrivono con lo spray / le banali frasi d’amore copiate da qualche foglio», «una zanzara si posa sulle pagine», «il cane che si era perso», «un tailleur grigio con il colletto di velluto», «la felicità dello schermo», «il gratta e vinci», «un batuffolo di cotone», «i riccioli biondo rosa ben curati», «bambini ammucchiati in stazione», «un mappamondo che s’illumina con la spina», «i pendolari di luglio».

salve è il saluto
che salva dall’imbarazzo di scegliere
tra il tu ed il lei, tra la
complicità e la distanza,
rimanendo sospesi
nella stessa indecenza del grigio

Come ho scritto in altre occasioni, il processo di narrativizzazione che ha investito in queste ultime decadi la poesia italiana trova qui una perfetta esemplificazione: fare una poesia della «indecenza del grigio», dei «modesti fatti quotidiani» in cui si sveli lo «sgretolamento del mondo contemporaneo», come scrive l’autore,  «sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo» è un progetto che è stato già perseguito nel secondo novecento dalla poesia di adozione milanese e lombarda, Guido Galdini è tra i più bravi in assoluto in questo tipo di poesia, ma mi chiedo se ci sia ancora spazio per uno sviluppo ulteriore in questa direzione; quella narrativizzazione, quel pedale basso, quel lessico «grigio» una volta pigiato a tutto tondo non può essere schiacciato oltre, e i nodi estetici vengono al pettine. Questo stare ossessivamente qui e ora che la poesia dei lombardi si ostina a percorrere, rischia di rivelarsi un vicolo cieco.

 Quella narrativizzazione della poesia contemporanea, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio, suasorio e minimal del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» del discorso poetico ad inseguire il narrativo.

 E allora occorrerà fare un passo indietro: la riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica, politica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto (e dell’oggetto). L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante; avrei qualche dubbio sulla scelta di porre una poesia intorno al «soggetto» perché dovremmo chiederci: quale «soggetto»?, quello che non esiste più da tempo? Quello che è stato de-fondamentalizato? Il soggetto come luogo retorico? Il soggetto come luogo dell’esperienza?

Ritengo che la poesia che si fa oggi non possa essere esentata dalla investigazione sulla crisi del «soggetto», che una «nuova ontologia estetica» non può non prendere a proprio parametro.

Però, però c’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico.

In questa forma di pensiero noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, credo, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente, da Vincenzo Vitiello nelle due domande postate qualche tempo fa e in accordo con il pensiero di Massimo Donà secondo il quale la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).

Allora, sarà chiaro quanto andiamo dicendo e facendo: che la poesia deve ritornare ad essere MITO; si badi non racconto mitopoietico o applicazione e uso strumentale della mitologia, ma «mito». Innalzare a «mito» il racconto del «reale», un po’ quello che ha fatto Kafka nei suoi romanzi e racconti, quello che ha fatto Mandel’stam nelle sue poesie della maturità, quello che fa la poesia svedese di oggi, ad esempio, alcuni nomi per tutti: Werner Aspenström, Tomas Traströmer, Kjell Espmark, Katarina Frostenson e anche: Petr Kral, Michal Ajvaz, Reznicek, Ewa Lipska.

È finito un concetto di «reale» – Inizia un nuovo realismo

Il limite della poesia italiana di questi ultimi cinquanta anni è che è restata ingabbiata all’interno di un concetto di «reale linguistico» asfittico, chiuso (vedi l’egemonia di un certo lombardismo stilistico molto affine alla prosa), un concetto di reale che seguiva pedantemente la struttura della sintassi in uso nella narrativa media italiana, un positivismo sintattico che alla fine si è dimostrato una ghigliottina per la poesia italiana, un collo di bottiglia sempre più stretto… Ad un certo punto, i poeti italiani più avvertiti e sensibili si sono accorti che in quella direzione non c’era alcuna via di uscita, e hanno cercato di cambiare strada… La «nuova ontologia estetica» altro non è che la presa di consapevolezza che una direzione e una tradizione di pensiero poetico si erano definitivamente chiuse e non restava altro da fare che cercare qualcosa di diverso…

Gif grattacieli dall'alto

l’altra notte che era umida e inquieta
mia cugina mi ha telefonato in un sogno

Guido Galdini
GLI ALTRI (persone, animali, cose) Continua a leggere

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Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura, Donatella Costantina Giancaspero, Una poesia inedita con Commenti di Giorgio Linguaglossa – La poesia italiana ai piani alti della poesia europea

Foto Walking

Dietro di te – ma forse anche intorno a me? – / qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.

 

Ormai siamo talmente abituati a considerare poesia i versi sul phon che funziona male, sull’oblò della lavatrice che non chiude, sul rubinetto del lavabo che perde acqua, sulla doccia con abbondante acqua calda scambiata per lo scrittoio, sul proprio figliolo che si fa la doccia e consuma tutta l’acqua dello scaldabagno, etc., dicevo, siamo così abituati a considerare «poesia» soltanto ciò che risponde ai canoni, non direi neanche più del minimalismo, ma al serbatoio di tutti quei truismi che sono patrimonio comune del gergo internazionale che oggi viene scambiato in tutti i paesi dell’Occidente come «poesia», che non siamo più in grado di apprezzare questi tre autentici capolavori della poesia  italiana contemporanea qui di seguito.

Foto volto con mani

È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.

Giorgio Linguaglossa
26 novembre 2017 alle 13:51

Una poesia di Lucio Mayoor Tosi:

Dietro di te – ma forse anche intorno a me? –
qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.

È davvero strano, non esserci. Non lo sapevo,
non me n’ero accorto.

Mi sorprende sapere che non siamo veri.
Che siamo pensieri. Senza me e senza te ma insieme.
Forse al mondo un posto migliore di noi non si trova.
Un posto vero, voglio dire, che non sia soltanto un’immagine.
Un posto divino, che a toccarlo sia convincente.
Una corporea entità.

È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.

*

Behind you – but maybe also around me? –
someone is feigning to be. I didn’t know it,
I wasn’t aware.

It is surprising to know we are not real.
That we are thoughts. With no me and with no you but together.
Maybe in the world a better place for us cannot be found.
A real place, I want to say, that is not only an image.
A divine place, when touching it is convincing.
A corporeal entity.

It is truly strange for me to be here. Me and you.
You who are not, I who am not and the world that seems.

© 2017 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem “Dietro di te…”
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.

Appunto di Lucio Mayoor Tosi:

In questi giorni sto scrivendo davvero male, con fatica e tanti ripensamenti. È come disegnare svogliatamente, senza convinzione. Probabilmente qualcosa sta bollendo in pentola, qualcosa di cui ancora non so nulla.
Intanto mi aggiusto l’idea, che sarebbe bello poter unire due modi di scrivere poesia: quello di Tomas Tranströmer con quello di Czeslaw Milosz. La resa in parole di Tomas con la volontà di dire che ha Czeslaw.
Ai poeti squinternati come me, conviene, e fa senz’altro bene, guardare in alto.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Caro Lucio,
questa prosa poetica o prosa in poesia o poesia in prosa, come dice Alfredo de Palchi, è una delle tue più riuscite. Tu riesci a comporre in un unico stile il periodare argomentativo con assiomi e lacerti aforistici e il periodare per immagini e per traslati. Questa è una tua caratteristica peculiare, non conosco nessuno, nella poesia italiana, che ti può stare dietro. E capisco anche il tuo tentativo di riunire in un solo stile polimorfo il periodare argomentativo di Milosz con le immagini di Tranströmer, quanto di più difficile si possa immaginare, ma sei sulla buona strada. Del resto sono proprio i parti difficili quelli che danno i migliori risultati. Complimenti. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA – LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Poesie e Commenti di Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Tadeusz Rozewicz, Alfonso Cataldi, Serenella Menichetti, Adeodato Piazza Nicolai

Foto Bauhaus 1

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità»

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:10

Dice bene Luigi Celi quando scrive che Eliot, Pound, Mandel’stam (ma io ci aggiungerei anche Pessoa, i polacchi: Milosz, Herbert, Krinicki, Rozewicz, Szymborska… i cechi Petr Kral, Ajvaz, Topol, Reznicek… gli svedesi Tranströmer, Frostenson, Aspenstrom… il finnico Rolf Jacobsen, la bulgara Josifova, la rumena Crasnaru, gli italiani Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino, le italiane Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna etc.) sono i basamenti sui quali è fondata la nuova ontologia estetica. Il basamento degli autori modernisti è quello che ha fatto la grande poesia europea del primo e secondo novecento, questo è indubbio. Penso che è da qui che bisogna ripartire. Tracciare le coordinate della migliore poesia europea è utile, anzi, indispensabile; fare critica del presente e del passato è il miglior veicolo per allestire la poesia del presente e del futuro.

Certo, all’interno di questo ampio ventaglio della poesia europea ci può stare chi, come Antonio Sagredo, privilegia un autore piuttosto che un altro, o che voglia spostare il baricentro della NOE un po’ più ad est… questo è ammissibile, e anzi anche auspicabile, ciascuno può e deve forzare l’elastico della NOE dove e quando e nella misura che ritiene più opportuno…

Sul problema dell’Essere e del Nulla, io ho la mia posizione, ma ciò non significa nulla di costrittivo, ciascuno può nutrire le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Presento qui alcuni miei «appunti» sulle questioni più propriamente filosofiche toccate dal saggio di Luigi Celi.

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.

Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Strilli Rago1Sul Frammento

Il frammento reca incisa in sé la traccia dell’essere-per-la-morte,apre un varco dal quale si può sbirciare nella dimensione dell’iscrizione della mancanza, nel vuoto che si apre nella mitica pienezza ontologica dell’essere.

Ma c’è mai stato un’epoca della mitica pienezza dell’essere? O è un nostro abbaglio? Un miserabile infortunio del pensiero?

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Sta tra il dado e la clessidra.

Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento». L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Si può anche dire così: il frammento è la dimora stabile dell’Estraneo.

Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.

Strilli LeoneSul Nichilismo

L’atto originario è un venire in presenza, ma può venire in presenza solo in quanto esso è un atto a partire dalla indistinzione e indifferenza del nulla che l’origina. Così, l’atto originario che viene in presenza è lo stesso atto originario che si auto annulla e recede nella indistinzione e nell’indifferenza del nulla. L’atto originario, proprio in quanto crea il tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio in quanto si-fa-presenza si fa anche assenza, ossia abolizione di essere e di presenza.

Il nichilismo è un immenso campo di possibilità, significa che il nulla è prolifico. Il nichilismo è il luogo della possibilizzazione di infinite possibilità espressive, indica che tutte le questioni sono aperte, che tutte le questioni sono possibilizzazioni del pensare, tutte le questioni sono possibili. In questa ottica si ha una grande estensione delle possibilità estetiche come forse mai si è avuto nel passato.

Presso i minimalisti inconsapevoli di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia e dell’arte alla moda di oggi.

Tra l’altro, agli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc. sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Král A tratti un libro ripostoGiorgio Linguaglossa

10 novembre 2017 alle 10:32

Ricevo e pubblico due poesie di Adeodato Piazza Nicolai alla maniera della nuova ontologia estetica:

Adeodato Piazza Nicolai

Alice nel paese del post-reale

Senza alcuna meraviglia. Manca soltanto un minuto
allo scoccare del vero
che non c’è. Poiché semplicemente non esiste…
[…]
scoccano le sei del pomeriggio serale. Ancora non nasce
la prima-vera. Il matto cappellaio non sa confezionare
il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie.
S’è appisolata sulla sponda dell’invisibile naviglio
dove il mago cinese sembra alquanto impaziente: ha quasi
perso la sua memoria e la regina lo incalza con inclemenza.
[…]
Quel mago fuori di testa è l’assassino che vuole far fuori
Il cappellaio nascosto dietro il pollaio
dove sospetta la differenza fra uovo e gallina.
O Alice, povera fanciulla caduta nel buco che non esiste.
Da lì fuoriesce l’amico coniglietto incapace di darle alcun consiglio.
Scappa, Alice, fuggi velocemente. Attenta al terrificante riflesso
dell’incantevole specchio dorato ma frntumato alla base …
[…]
Accipicchia a quel maledetto riflesso che illude ogni cosa
e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro
per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà.
[…]
Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza
per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.
Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.
La fuga per sempre sarà fugata/frugata e mai consumata dal fuoco
che non può bruciare e neanche bucare…
Bussa alla porta del Mad Hatter e/o Capellaio Matto
però nella casa non c’è più nessuno.
Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza
finale.
Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca
di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.
Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello
che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.
L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance
scivolano lacrime di gioia…
Postscriptum: domani verrà la nuova puntata quando
la Rossa Regina, nascosta in cantina, ordinerà le guardie
regali d’imprigionare il Mago cinese. Good-bye fino
alla prossima cinepresa…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 8 novembre, ore 21:45

I venetoi trasumananti
[—]
Un fosco mattino come pochi a Venezia. Un timido Ashenbach
chiuderà gli occhi per sempre sulle sabbie del Lido.
Pallido, certamente ammalato era sceso da qualche cittadina
austro-ungarica per l’ultima vacanza sulle strade immorali…
Passeggia sulle rive dell’Adriatico, una rosa nell’occhiello,
in cerca dell’ultimo bordello.
[…]
Cavalcati dai Venetoi, splendidi cavalli corrono sui colli.
… Arrivano i romani imperiali a soggiogarli;
dopo il millenio e alcuni centenni, anche
2 guerre mondiali attraverseranno il loro fertile territorio
e nel dopoguerra (anni 50-60-70) tanti di loro scopriranno
il dolce boom statunitense …
tutto cambierà: contadini-impresari, nobili e certi operai
faranno enormi fortune alle spese della Madre Gea — sono
esportatori di vini in tutto il mondo, di scarpe eleganti, di macchinari
e pure armamenti, tecnologie avanzate, ecc. ecc.
ingrasseranno le pance di banche e ricchi padri-padroni.
[…]
Più tardi spunterà la Lega nordista colma di sogni-promesse-
fandonie
per mandibolare i poveri superstiti nelle venete pianure
insieme alle montagne… Il loro slogan: “Far-Fuori-Roma-Ladrona”.
Alla fine anche loro diventeranno ladri e truffatori,
rispettabilmente marci ciarlatani.
[…]
Mediocri città, piccoli paesi e magre cittadine del Veneto,
insieme ai villaggi delle Dolomiti, si spappoleranno:
emigranti in ogni angolo del mondo in cerca di lavoro
e la tragedia cresce tuttora!
Appena concluso il referendum per ottenere poteri speciali
Ploden/Sappada diventerà terra friulana, abbandonando
(per agevolazioni economico-politiche?)
la Provincia di Belluno e passando al Friuli.
Quanti altri paesi confinanti seguiranno l’esempio?
Forse Cortina, Regina delle Dolomiti, sarà la prossima.
[…]
Due giorni fa un cadorino ventunenne
morì drogato …
con vari amici al funerale; fu sepolto in questo modo
un altro membro
del clan post-moderno venetoiano e non vetruviano …

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 9 novembre, ore 6:22

LD07

«la metafisica trapassa in micrologia» (Adorno)

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:51

‎Serenella Menichetti‎ da La scialuppa di Pegaso (FB)

MOLTI MA MOLTI SECOLI FA
C’ERA UN PAPA

C’era una volta un papa.
-Quale papa?-
-Un papa tutto d’oro
che spesso mangiava.-
-Che mangiava?-
-La pappa al pomodoro.
E poi si addormentava.-
-Dove si addormentava?-
-Sopra un trono.
Un trono tutto d’oro
e poi si risvegliava.-
-E che faceva?-
-Faceva colazione
mangiava un bel calzone,
con dentro un gran ripieno.-
-Che ripieno?
Addirittura un treno.-
-Un treno?-
-Si, un treno.
Un treno di prosciutto
se lo pappava tutto.-
-E poi?-
– Faceva un gran bel ratto-
-Ratto?-
-No, un gran bel retto-
-Retto?-
-No, un gran bel ritto-
-Ritto?-
-No, un gran bel rotto-
-Rotto?-
-Si, lui rompeva tutto.-
-Perchè tutto?-
-A causa di quel rutto-
Serenella Menichetti
“Filastroccare Fantasia in rete”

Strilli Tranströmer 1Gino Rago

10 novembre 2017 alle 10:58

Nel poema “LORO”, da me letto, riletto, metabolizzato e perfino AMATO, per il carico di novità di linguaggio non già specificatamente per i motivi e/o i temi che l’autrice affronta, Edith Dzieduszycka che atteggiamento assume verso il tempo? Che rapporto instaura con lo spazio? In quale conto tiene il ‘nominalismo’ (non necessariamente lirico): più precisamente, Edith Dzieduszycka parla di ‘alberi’, ‘animali’, ‘piante’ ,in generale, o gli alberi diventano pioppi, platani, cilieigi… E le piante vengono nominate come robinie, tigli, glicini… E lo stesso per gli animali e gli ‘uccelli’?

Nel caso di “LORO” Edith Dzieduszycka quale ruolo affida all’IO? Che uso fa l’autrice della punteggiatura? Il poema di Edith Dzieduszycka è o no riconducibile e interpretabile all’interno del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale (formidabile strumento ermeneutico concepito e adottato per la prima volta da Giorgio Linguaglossa)?

Edith Dzieduszycka in “LORO” è nello spirito premoderno, moderno, tardomoderno, postmoderno o addirittura si muove nella dimensione del transumanesimo…? E altro e altro ancora…

Credo che oggi l’esercizio d’un tentativo non dico di ‘critica’ ma più semplicemente di ‘tentativo d’interpretazione’ di un testo poetico non possa più sottrarsi agl’interrogativi prima rivelati e/o sommessamente elencati, per evitare che non soltanto in poesia ma anche nella critica letteraria la desertificazione si spinga anche nell’Amazzonia.

Ciò detto, ammiro la vastità di dottrina di Luigi Celi. Ma da quando Giorgio Linguaglossa mi ha accostato allo Spazio Espressivo Integrale, come strumento d’interpretazione dell’altrui poesia, non me ne distacco quando cerco d’analizzare l’altrui poesia verso per verso, così come ho tentato di fare con LORO di Edith Dzieduszycka, con Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa, con l’ALLEGORIA recente di Mary Colonna, con ‘il gondoliere turbato‘ di Francesca Dono di appena ieri.

Strilli GriecoGiorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 12:14

Un esempio di interrogazione poetica del nichilismo.

Donatella Costantina Giancaspero

Ripieghiamo in direzione del bar


Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,

in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.

Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…

Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)

traduzione in francese di Edith Dzieduszycka

Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.

D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous jusqu’à le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.

Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…

Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. 
Tout au fond, reste le doute.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoCommento di Giorgio Linguaglossa

La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».

I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.

Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario: adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento, un completamento musicale della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.

La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…

«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. La nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]

1] M. Heidegger Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976 p. 370

Strilli Gabriele2Alfonso Cataldi

10 novembre 2017 alle 13:42

Per mia sensibilità (per mio gusto?) la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quella che sento più attinente alle richieste della NOE nel momento in cui si appresta a rappresentare “il buco nero entro il quale tutto precipita”. Nei suoi versi non si esplicitano case senza tetti, alberi senza radici, automobili senza motori. Non nomina mai “senza”, “vuoto”, “mancanza”, sono le immagini potenti a restituirci la sua idea di nichilismo.

 Anna Ventura

10 novembre 2017 alle 17:02

Mi piace,molto, la poesia di Donatella Giancaspero,capace di evocare tutti i fantasmi che si nascondono dietro un’espressione banale (“Quanto zucchero?”).Forse, anche, per un mio ricordo personale. Perchè le storie si assomigliano tutte,e solo la pialla del tempo può restituirci la serenità dell’indifferenza; il che,purtroppo, non è una grande conquista. Ma,col tempo, impareremo ad amare i nostri fantasmi:quando saranno (cito ancora Didimo Chierico)”come calore di fiamma lontana”.

Strilli RagoMariella Colonna

10 novembre 2017 alle 18:31

Donatella Costantina,

hai fatto qualcosa di assolutamente inedito, non soltanto (inedito) da parte tua, ma dei poeti in genere: hai acceso un cristallo di luce autunnale sulla banalità del quotidiano. Non voglio rovinale la persuasa linearità delle parole

disegnate o meglio scolpite nella grigia presenza della stagione che avanza, preferisco citarti:

«…Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?…».

Forte l’idea dei passanti che aiutano il crepuscolo a spegnersi nell’inverno avaro di sole, compagni di un breve viaggio… che poi vanno scomparendo e noi ” li lasciamo andare” .come assecondando un’onda che va a morire sulla sabbia. Che la domanda senza risposta sia proprio la più facile…è un notevole invenzione poetica. In fondo è proprio vero, è alle domande più semplici che non sappiamo dare risposta!

Poesia Nuova, intensa.

 Gino Rago

 10 novembre 2017 alle 19:25

Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…

” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”

Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…

In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è

mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…

Foto Emma Watson minimalist

«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano» (E. D.)

Strilli TosiMariella Colonna

11 novembre 2017 alle 0:42

Carissimo Adeodato,

la tua favola di Alice è ASSOLUTAMENTE STRAORDINARIA. secondo me il segreto si nasconde nel doppio livello di realtà-favola su cui fai scorrere i tuoi versi, doppio livello in cui favola e realtà si intrecciano si confrontano, si negano, e infine si abbracciano drammaticamente, senza mai rivelare dove dobbiamo orientarci per assaporarne il messaggio:

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.

Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello

che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.

L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance

scivolano lacrime di gioia…”

“…Il cappello / che tu volevi ferito a morte per troppo dolore…” è il testimone concreto dei fatti: ma non sappiamo quali fatti e perché proprio un cappello faccia da testimone

“…L’aurora lo vede sbiadire: forse è un sogno di Alice, CHE VOLEVA QUEL DELIZIOSO CAPPELLO TUTTO PER SE’, o forse è un incubo di Alice, che lo VEDE SVANIRE CON LACRME DI GIOIA. O forse è tutt’e due le cose…un SOGNO che diventa un INCUBO.

Per capire è necessario risalire indietro.

“…scoccano le sei del pomeriggio serale…”

“… il matto cappellaio non sa confezionare / il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie…” qui il riferimento molto realistico dovrebbe essere alla realtà. Luigina ha l’influenza ma non vuole stare a letto ed è… dispersa in quello strano Paese dove, “nascosto dietro il pollaio, un mago assassino “fuori di testa” vuol uccidere il cappellaio… perché (soggetto è il mago) sospetta che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina… oppure che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina (in tal caso il soggetto, colui che sospetta è il cappellaio); certo il dubbio sulla primogenitura tra uovo e gallina è storico e forse qui ha come effetto uno sconcertamento del lettore che certo non pensa più a Luigina che non vuole stare a letto con l’influenza, ma all’ipotesi della Creazione del mondo a cui si contrappone ormai da un paio di secoli e più la teoria dell’Universo in evoluzione che nessuno (il signor Nemo?)avrebbe creato dal nulla, tantomeno Dio in Persona. OGNUNA DELLE DUE TESI è COMUNQUE INDIMOSTRABILE, ma sembra che comunque la Scienza contemporanea abbia preso una strada diversa con la teoria dei Quanti e il Principio di Indeterminazione di Eisenberg.

Ad Alice, adesso, conviene fuggire via, troppi misteri e pericoli la minacciano. C’è anche quel maledetto riflesso dello specchio dorato che va in frantumi alla base e , quindi, riflette male nella parte bassa, proprio quella dove potrebbe specchiarsi Alice! Adeodato la esorta a stare attenta “Al terrificante riflesso… che illude ogni cosa e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà…”.

[…] l’allusione alla mancanza del Padre di Alice introduce discretamente un motivo familiare intimo che fa ruotare di nuovo il cerchio magico in una direzione diversa, con Adeodato al posto di Lewis Carroll.

“…Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza

per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.

Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.”

Si ritorna al mistero del cappello, sottolineato però dal mistero più estraniante e coinvolgente ad un tempo:

“…Nella casa non c’è più nessuno…”

“…Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza

finale…” Il poeta allora chiede aiuto e salvezza alla favola poetica…e riapre il cerchio magico

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare…”

Caro Adeodato, questa è una gran bella poesia e Alice-Luigina sarà fiera di te! Hai fatto un bel regalo anche alla NOE! GRAZIE!

Strilli Dono Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 8:43

Sono d’accordo con Alfonso Cataldi: “Ripieghiamo in direzione del bar” è una poesia NOE, per le ragioni che ha detto e perché vi è accadimento – tutto cinematografico, con pochi dialoghi, silenzi e rumore di passi –. A ogni verso corrisponde un istante, e come passa il tempo così fanno i versi. Cessati gli uragani delle fantasie di questi giorni, fa piacere potersi rifugiare nel bar di una poesia. Tutto è visivo, anche il fondo della tazzina del caffè:

“Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone. 

E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.

Nel fondo, resta il dubbio”.

Il verso “Nel fondo, resta il dubbio” pare un’espressione del viso.

Complimenti a Donatella Giancaspero.

Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 9:35

Io non amo tanto le poesie di Eliot. L’arrivo degli americani ha sempre creato in Europa degli scompensi. E poi allora andava molto il giornalismo; che in poesia significa fluenza discorsiva, ritmo e musicalità: tutte cose che con le poesie che si fanno qui, c’entrano davvero poco.

Sulla poesia “Loro” di Edith Dzieduszycka, mi pare dissi a suo tempo che è un testo catartico, che sembra uscito da qualche incontro di psicoterapia. Mi è piaciuto ma non capisco perché se ne parli tanto. Però Edith sembra avere un forte temperamento o, quanto meno, la forza sembra essere tra i suoi obiettivi. Ma ho letto quasi niente di suo.

Antonio Sagredo: con la poesia NOE c’entra poco o nulla, perché è poeta a modo suo; se ha qualche similare bisogna guardare a Carlo Livia. Però ultimamente ho letto cose di Sagredo che ho trovato più vicine allo stile NOE; ho il sospetto che ci stia lavorando, come pure sta facendo Calo Livia.

Non sono tanto d’accordo con questa affermazione di Giorgio Linguaglossa: “Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia”, più che altro non vorrei passasse l’dea, del tutto irreale, che il pensiero possa essere chiassoso e che si voglia portare il lettore sulle montagne russe; piuttosto, sì, su qualche cima innevata… Sono invece pienamente d’accordo con Luigi Celi quando annota che ” Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano”. Del risveglio, non del sogno !

Foto profil Marilyn bianco e nero

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile. (E.D.)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 12:19

Edith Dzieduszycka Tre poesie inedite da Grovigli

«Le previsioni del tempo sono buone».

Il respiro di prima si trasformò in sospiro.
E allora diventava quello lì.
«Una settimana.
A volte di meno, a volte di più».

Dipendeva dalla densità della nuvola.
«È solo un tentativo – dissi – vediamo cosa succede».

Lui aveva insistito, incomprensibilmente.
Ma intuiva la finta.

«Sarebbe solo tempo perso – ribadii – corriamo
sul filo del rasoio. Aspettiamo un po’
e forse sapremo qualcosa di più».

L’appartamento era polveroso, grigio,
per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre.

«Io avrei scelto il mare insieme a due coppie di amici
che a lei, chi sa perché, non piacciono affatto».
*
Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano.
Un sentore un po’ acido alla gola, appena passato l’uscio.
L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè.

Provava un disagio indefinibile.
Forse per l’autunno in arrivo?
In quell’incertezza stava ogni volta il lato antipatico della faccenda.
Come cambiano i punti di vista secondo l’umore!
Ogni casa ha la sua impronta, la sua emanazione specifica.
Far capire. Non dire.
Questo era il suo vizio.

«Perché non potrebbe andare sempre così?»
Dovrò fare la spesa domani.

Il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi.
Cosa avrebbero dovuto dirsi?, domandarsi?, confessarsi?
Ma, ripartire?
– Che parola vuota, per andare dove? –
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
«Il tempo che si calmino gli animi».
Però aveva insistito, incomprensibilmente.
Anche se non era nelle sue abitudini.

Ma questa volta era diverso.
Ormai non avrebbe saputo più niente.
Doveva farsene una ragione.

*

Due settimane fa, esattamente.
Aveva tutte le ragioni del mondo per essere scocciato.
Ma che ci faccio qui?
Sto diventando masochista?
Il dentista consigliava un antibiotico.
quella città nella stagione incerta,
un po’ malinconica, avvolta nelle prime nebbie leggere dell’autunno.
Solo per agitare un po’ le acque.
Per una volta potrebbe fare questo sforzo.

– Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette –

Cinque anni dopo si era ripresentato lo stesso problema.
Una persona gentile, discreta, un po’ eterea e distratta.

La loro vita era diventata più complicata.
Non se ne capacitava.

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile.

Mario Gabriele In viaggio con Godot Cover gialla

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

«Le previsioni del tempo sono buone»

«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

«Due settimane fa, esattamente»

Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

Strilli Busacca Vedo la vampaDonatella Costantina  Giancaspero

11 novembre 2017 alle 14:05

Cari amici,

Edith Dzieduszycka, Alfonso Cataldi, Anna Ventura, Mariella Colonna, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, vi sono grata per l’interesse che ha suscitato in voi questa mia poesia. L’ho conclusa proprio pochi giorni fa e non pensavo che Giorgio me l’avrebbe pubblicata sulla rivista. È stata un’autentica sorpresa! Anche il suo commento lo è stato e la traduzione di Edith, che ringrazio doppiamente. Ormai, quando scrivo, mi sento sempre più convintamente attratta dalla nuova prospettiva poetica indicata dalla NOE. Ho compreso che questo orientamento mi si addice alla perfezione. Probabilmente, lo cercavo da sempre, ma senza saperlo e soprattutto senza che nessuno me ne potesse dare indicazione precisa. Perciò, non potrò mai ringraziare abbastanza Giorgio Linguaglossa, mia imprescindibile bussola, per aver corretto la mia navigazione poetica, che se ne andava un po’ a naso, diciamo, seguendo l’intuito… Con l’ago puntato sulla NOE, invece, sento di poter raggiungere nuovi (e non effimeri) territori espressivi.

Ecco, cari amici, questo mi sento di dire in risposta ai vostri commenti tanto positivi.

Anche il poemetto di Edith Dzieduszycka, “Loro”, si inserisce nella ricerca operata dalla e nella Nuova poesia; e questo già prima che si parlasse di NOE. Un dato significativo del fatto che certi esiti espressivi si affermano necessariamente, perché imposti dalle direttive del Tempo storico.

L’originalità del poema “Loro”, a mio avviso, sta nell’insieme compatto di forma e contenuto: l’una necessaria all’altro, in quanto la crisi profonda dell’Io (“il suo scacco ontologico”, come ebbe a dire Giorgio, in un precedente commento), la crisi esistenziale, emergente da questi versi, non può altro che avvalersi di frasi brevi, chiuse in se stesse dalla punteggiatura. E di un tono perentorio, che trova nel parlato la sua manifestazione più forte. Molto è stato detto riguardo a questo poemetto e tutto davvero illuminante rispetto al suo significato. In ultimo, il saggio di Luigi Celi mi pare esemplare.

Concludo così, rinnovando il mio grazie, unito all’augurio… Buona poesia a tutti voi!

Foto New York traffic

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta». (Marcuse)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 16:29

Per tornare al caro amico e interlocutore Luigi Celi,

sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla nuova ontologia estetica, dopo la valanga di commenti, poesie, rilievi che sono piovuti in coda al suo articolo. Ormai questo nuovo modo di intendere il testo poetico è una realtà, la poesia italiana si è rimessa in moto (con quali risultati lo vedremo, ma già alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti).

La Nuova Poesia della nuova ontologia estetica è già di per sé un fatto nuovo, direi travolgente, travolgente (lasciatemelo dire) per la stagnante poesia italiana di questi ultimi decenni. Un fatto epocale, storico, in fin dei conti. Come scritto da molti poeti qui intervenuti, già da tanti anni i singoli poeti cercavano nuove vie, nuovi mezzi di espressione, certe novità erano nell’aria da molti anni, basti pensare a poeti diversissimi che non si conoscevano tra di loro prima di incontrarsi qui su questa piattaforma: Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Talia, Anna Ventura, Alfonso Cataldi, Carlo Livia, Mariella Colonna, Chiara Catapano, Vincenzo Petronelli, Adeodato Piazza Nicolai, Luigina Bigon, Mauro Pierno, Laura Canciani… più altri autori che si situano nelle vicinanze di questo nuovo Grande Progetto e che ci seguono da tempo con interesse…

Io dico sempre che il nostro punto di riferimento deve essere l’Acmeismo degli anni dieci del novecento, il movimento che ha cambiato il volto della poesia del novecento (non solo russo)…

ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata», e che di conseguenza, si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari, che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece, in realtà, nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa, non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una cosa nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, raccolta di rottami dalle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms… non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di frammenti.

Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi che quel grande circuito che è il CERN di Ginevra identifica un giorno sì e un altro pure, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando.

La poesia si è prosaicizzata, prosasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

 Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 18:09

con le parole di Marcuse:

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

*

Nel 2010 così rispondevo ad una domanda postami da Luciano Troisio:

Domanda: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Risposta: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta.

Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di

una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti: Mario M. Gabriele, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Costantina Donatella Giancaspero; né bisogna dimenticare la riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein: i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche », o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto

di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

 

foto Le biglie

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno (A. Sagredo)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:20

Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica» – Spostare? – Se mai rovesciarla perché sia più efficace e incisiva e capace di conservare in un museo la vecchia poesia del ‘900 – poi a proposito di T. S. Eliot (così amato da Luigi Celi, e lo capisco) l’ho così rivoltato come un guanto di vecchio ermellino che non si riconosce più il suo specchio e la sua finzione in BISTROT:

*
Bistrot

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate ,
l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti
ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora,
ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche,
s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria,
è volata dal tetto decollando d’un tratto,
e mirando una tempestosa sera primaverile
ha sciolto i suoi anelli e s’è destata.

E davvero non ci sarà da aspettare
per l’aria pura che risale dai vicoli,
che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti;
e davvero non ci sarà da aspettare
per improvvisare una maschera, non incrociare i volti.
E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere,
e per oziare e per le notti dei piedi ……….
che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia.
Non c’è tempo per noi due,
e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe
e per mille realtà e reazioni
dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

E davvero non ci sarà più tempo
di rispondersi: sarò vile e non sarò vile?
Andare avanti diritto e salire sulle scalinate
con la chierica ben in vista…
e saranno muti per la folta capigliatura.
Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero
e intorno nemmeno una fibbia allentata,
e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia!
Non avrò timore di armonizzare gli universi?
Nell’eternità non c’è tempo
per indecisioni e reazioni che riempirà.

Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate.
Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi,
Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio,
ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti
sopra la musica che se ne va da un domestico spazio.
Così, come stare al sicuro?

E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati,
gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa
e quando non enunciato mi blocco su un pianoro,
quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete,
come potrei allora finire
a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini?
Perché non dovrei tutelarmi?

E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati,
questi piedi senza armille, imbrunite e coperte,
ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!.
È l’afrore che s’allontana da un vestito
che mi fa annoiare così?
Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa.
E che dovrei tutelarmi, allora?
E come finire?

Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali?
E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe
di tanti uomini in camicia insieme sui balconi?

Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati
inchiodati sulle onde di mari tempestosi.

E il premeriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così!
Irruvidito da corte dita,
sveglio… attivo… o sanissimo realmente,
in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me.
Non dovrei, dopo le leccornie,
aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità?
Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo,
malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta
mancante su un vassoio…
io sono un profeta – e questo mi interessa.
Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi.
Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver contegno,
e alla lunga, ne ero confortato.

E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio,
prima delle porcellane e delle leccornie,
fra maioliche bianche e qualche mutismo
tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio
di rinascere con un pianto,
di dilatare l’universo all’infinito
e di fissarlo in una risposta liberatoria,
di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò!
Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
non vi dirò nulla!”.
Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo,
rispondesse: “È quello che intendevo.
Si, è così”.

Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto,
ci sarebbe stato un vantaggio,
prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze;
prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta.
E non è quello, o poco di più?
È possibile non dire esattamente quello che non intendo!
Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete:
ci sarebbe stato un vantaggio
se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo
ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse
“Si, è così.
Non è questo ciò che intendevo”.

Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole;
non sono uno del suo seguito, uno che non servirà
a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno,
dissuadere il principe, incerto indocile strumento
irriverente, infelice d’essere inutile.
Non politico, imprudente e disordinato,
privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente;
quasi austero,
o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso.

Divento giovane, divento giovane.
Indosserò calzoni srotolati per intero.

Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca?
Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli.
Traducevano le sirene il silenzio una all’altra.
Non credo che erano mute per me.

Se ne venivano verso la riva per la sessa,
scompigliando la nera peluria di onde avvilite
quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.

Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato
accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte.

Fino a quando suoni disumani ci assopiscono,
e ci leviamo – su, dalle acque!

(antonio sagredo, Roma, 21/22 maggio 2015)

Foto uomo tigre

gli uomini ribelli/ gli angeli dannati/ cadevano a testa in giù/ l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione (T. Rozewicz)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:25

Per Edith i miei personali apprezzamenti che si ripetono identici a quel che scrissi a proposito dei suoi versi: asciuttezza e profondità coincidono… che è qualità rara.

Mario M. Gabriele

11 novembre 2017 alle 18:09

Basta questa poesia, Sagredo, per stare un po’ in allegria compagnia, come sarebbe bastato, per esempio a Leopardi aver scritto soltanto l’Infinito. Ma per un vecchio enologo come me che custodisce il vino delle migliori poesie, trovo questi tuoi versi, a parte le risonanze eliotiane e il timbro ironico, un vero colpo d’ala a cielo aperto.

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 18:00

E aggiungerei – anzi aggiungo e dichiaro – che è ormai maturo, se non già marcio (“La terra desolata” come titolo è errato, la traduzione precisa è “La terra marcia”! ) il tempo di ri-iniziare un NUOVO TEMPO per la Poesia, così come sempre è stato all’inizio di un nuovo secolo… la NOE sta dando un piccolo contributo, che è gigantesco vista la piattezza assoluta dello stato in cui versa la POESIA Italiana e non solo… i tempi sono già maturi (mi ripeto) poiché saremo fra un tempo non molto lontano davanti a sconvolgimenti che dire epocali è un eufemismo banale e spicciolo.

Avevo già dato un esempio con i versi delle mie 10 “LEGIONI” nel 1989… inascoltati poiché pioneristici : e questo è cosa ovvia per chi non ha orecchie. Sarebbe il caso che mi si desse l’opportunità di postarli…uno alla volta e per l’ultima volta… lo stile è quanto ci sia stato di meglio negli ultimi 60 anni: presunzione? No, consapevolezza.

Giorgio Linguaglossa

novembre 2017 alle 19:25

Scriveva il poeta polacco Tadeusz Rozewicz nel 1963:

[…]
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.

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Giorgio Linguaglossa: Lettura comparata di due poesie di Gian Mario Villalta e di Petr Král dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» – Commenti di Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Gino Rago

Foto in Subway 50 years

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte / nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette / e delle mollette per stendere

Faccio seguito all’intervento di Carlo Livia che ha posto nel giusto binario la nostra discussione. Che Petr Král appartenga al secondo o al terzo surrealismo praghese, è una questione storico filologica che a noi, qui, interessa fino a un certo punto. Quello che a noi interessa è la percezione, il concetto e la procedura della poesia che Král persegue e consegue con la sua opera poetica. Quello che a me appare maggiormente interessante è la portata rivoluzionaria della poesia Králiana, rivoluzionaria almeno per noi lettori italiani abituati alla lettura della poesia italiana di questi ultimi decenni.

È ovvio che, dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni la poesia di Král riesca di problematica identificazione, quasi incomprensibile. Invece, dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» la poesia Králiana diventa pienamente intelligibile. Com’è possibile, come può essere avvenuto questo fenomeno? La risposta a questo interrogativo è già in nuce nelle riflessioni di Gino Rago, di Carlo Livia, negli appunti di Donatella Costantina Giancaspero e, credo, anche nel mio commento. Quello che noi stiamo dicendo e facendo da tempo è dire che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre, innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi non è una categoria retorica ma concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico): il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Negli autori della «nuova ontologia estetica» non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta di nuovo.

Faccio un esempio di un tipo di poesia tipicamente italiana nella quale le parole «vedono» da vicino l’oggetto del «reale» in modo riconoscibile e condiviso. Prendo in esame un autore italiano molto noto, Gian Mario Villalta, da Telepatia (LietoColle, 2016). Leggiamo:

Strilli Catapano i suoni sono luce

Dove scola l’acqua nera tra i cocci di tegole
e i ciuffi di sorgo matto invadono le soglie
sotto i festoni di viticciòli, nell’ombra del vischio annidato sui pioppi,
una vita nuova d’insetti, di infime vittime e di minuscoli assassini feroci,
in agguato perenne tra i tubi, nei crolli dei muri, nelle canalette
interrate, ha conquistato il regno della ruggine.

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte
nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette
e delle mollette per stendere, altrove noi siamo inerti
e violenti a parole, con il termo a 21, la paura di perdere
la cena fuori di sabato, e qualcosa di moda, anche poco, o l’amicizia
con un nickname, abbiamo paura, soprattutto, per la sicurezza.

Nel regno della ruggine c’è un edificio riattato
oggi vuoto di uomini soli, gentili per forza
quando arrivava il cibo.
Di loro neppure più il sorriso, di chi nel sonno stringe
il nostro paradiso.

Qui il discorso poetico è immediatamente «riconoscibile», non c’è alcuna «ridondanza», non ci sono procedure di entanglement, catene sinonimiche, metafore, non ci sono deviazioni, deragliamenti, salti temporali e spaziali, insomma, ci muoviamo in un tipico concetto di poesia come adesione della «parola» al «reale riconoscibile».
Leggiamo invece una poesia di Petr Král:

Strilli Talia la somiglianza è un addio

Sono qui
Quando dietro la silhouette maturata del passante
avanzi un po’ fino alle Zattere
tra le panchine di pietra e gli alberi come in un vecchio dipinto tremolante
– le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre
sparse leggere lungo la riva
tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie – ti ritroverai di nuovo lì oggi,
e te ne pentirai. Le vecchie signore sono qui come sempre, odierne e sicure,
è oggi, la pulsazione che riempie fino all’orlo i corpi e la cornice
del quadro, soltanto chi è morto
manca. Il vapore umidiccio della stiratura di vecchie flanelle, come trattengono sibili
penetra nelle fessure del giorno che si restringono, è presente come
i becconi delle gru
che si profilano minacciosi lì dietro la cala. – Di sicuro non
dimenticano nemmeno di rimpiangere nulla,
di guardare fuori dalla cornice verso il passato e scavare un po’ il quadro
col rimpianto per ciò che fu; nessuna di loro però a casa toglie
la mano davanti alla massa ringhiosa del frigorifero
e davanti al freddo dell’inverno a venire. Sono qui oggi come noi,
nessuno è in ritardo; solo il giorno d’oggi, il pulsare, pietra colma di pietra
fino al gelido midollo, l’alzare la polvere della luce e il disegno
oscurante degli alberi, delle nostre silhouette
senza un altro strato a parte la profondità della fenditura, della
percezione
e del suo pronunciamento.

(da Massiccio e crepacci, 2004)

Foto il trasporto pubblico

le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre / sparse leggere lungo la riva / tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie…

Dalla poesia di Gian Mario Villalta si evince che il linguaggio impiegato è pensato in quanto funzionale alla «riconoscibilità mimetica» del «reale». Nella poesia di Petr Král no, il linguaggio impiegato viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale.

È ovvio che la «nuova ontologia estetica» guardi con molto interesse alla poesia di Petr  Král piuttosto che a quella di Gian Mario Villalta, ma non per partito presto, quanto perché nella poesia kraliana c’è un modo di intendere il «reale» in una accezione non più «mimetica» come è stato in auge nella tradizione poetica italiana maggioritaria di questi ultimi decenni, ma in una accezione diversa,  più complessa e problematica.

Mi fermo qui.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli De Palchi non si cancella niente

Scrive Lacan: «Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio. Continua a leggere

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Petr Král, Poesia ceca, traduzioni di Antonio Parente, con una Presentazione di Donatella Giancaspero

Laboratorio gezim e altri

Laboratorio 5 zagaroli

Quando dietro la silhouette maturata del passante avanzi un po’ fino alle Zattere

 Presentazione di Donatella  Giancaspero

Se in Internet cerchiamo Petr Král, ovvero uno dei maggiori esponenti della letteratura ceca contemporanea, verifichiamo un dato che ci rattrista e ci rallegra al tempo stesso: solo la nostra rivista telematica, L’Ombra delle Parole, gli ha dedicato ampio spazio. Pochi altri blog si sono limitati a pubblicarne due o tre poesie, al massimo, insieme a qualche breve cenno biografico, senza altro commento.

Però, l’altro giorno, cercando appunto in Internet Petr Král, mi sono imbattuta in una bella notizia: a Torino, nell’ambito della III edizione dello “Slavika Festival” (dal 18 al 25 marzo), è stata presentata l’edizione italiana di Nozioni di base (Miraggi Edizioni), un centinaio di brevi prose dello scrittore ceco, tradotte da Laura Angeloni. Precedente a questa pubblicazione, è l’eccellente antologia Tutto sul crepuscolo, che raccoglie la produzione poetica più rappresentativa di Král, realizzata con grande cura da Antonio Parente, per Mimesis (2014): lo stesso editore che, già nel 2005, aveva riunito, nel volume Sembra che qui la chiamassero neve, una pregevole selezione della poesia ceca contemporanea. Tra gli autori, il nostro Petr Král.

Nonostante questo, è sempre troppo poco per conoscere un poeta, prosatore, traduttore, saggista, autore di opere sulla storia del cinema; un grande intellettuale, insomma, che guarda la realtà con occhi “spesso piuttosto perfidamente obliqui”, come Král dichiara ironicamente nella nota introduttiva alla sua antologia Tutto sul crepuscolo.

Onto Petr Kral

Petr Král, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ma chi è Petr Král?

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico, anche come insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ’90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Autore anche di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte. Ha collaborato con la famosa rivista Positif e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

La creazione poetica di Petr Král è segnata, come abbiamo detto, dall’incontro con il surrealismo. Il tema centrale è il rapporto tra realtà e immaginario. Un rapporto che, durante gli anni Settanta, diventa via via più articolato e conduce il poeta ceco verso esiti espressivi e formali di particolare interesse: la sua poesia si configura quasi come una sorta di commento della realtà, che mescola le esperienze quotidiane più banali, gli oggetti di uso comune, con l’istantanea psicologica dei personaggi, avvolti da un alone di vuoto. I luoghi descrivono gli interni domestici, dove va in scena la vita quotidiana, oppure appartengono al paesaggio urbano: strade, piazze, autobus, lampioni, treni, stazioni avanzano sulla pagina, e, spesso, un interlocutore muto condivide il colpo d‟occhio e le riflessioni che ne scaturiscono, gli interrogativi sul significato dei gesti, sul senso di un’affannosa, quanto frustrante, esistenza. Il tutto reso in modo tale da evitare il pur minimo ristagno nel cliché del patetico. In questo contesto, l’angolo visuale dal quale si osservano le cose risulta, per così dire, “spostato” rispetto alla prospettiva consueta, quella frontale, da cui ci affaccia da decenni la nostra poesia tradizionale. Viceversa, la prospettiva di Petr Král è resa di scorcio. Per questo motivo, il discorso che ne deriva non è diretto, esplicativo, ma rimane nel non-detto, è sottinteso, mascherato, indirizzato su percorsi periferici, inconsueti. Un certo ispessimento, o indurimento di espressione, e, ancora di più, il suo contrario, ovvero quel senso di ironia e auto-ironia, peculiare di talune poesie, possono essere interpretati come una reazione difensiva contro la transitorietà del mondo, contro il nulla. E l’effetto di mascheramento che l’ironia produce, quell’apparente alleggerimento della parola, rende, al contrario, più manifesta la sofferenza esistenziale e la malinconia che l’accompagna, il dramma che la suggella.

Petr Král

Appiè di fanfara

                                                                                  a Claude Courtot

Di tutti i mezzi espressivi, la musica è quello che, probabilmente, ci delude meno. Soltanto l’ascolto di alcuni dischi fonografici, quali le prime registrazioni “giunglesche” dell’orchestra di Ellington, è capace di placare almeno un po’ quella fame interiore ed indefinibile che regolarmente si impossessa di me nel periodo pre-natalizio, nelle giornate insoddisfacentemente brevi di inizio inverno e scorcio anno. Soltanto con quei suoni preziosi e soprattutto, naturalmente, con i toni leggendari della cornetta di Armstrong di fine anni Venti, riesco a venire a patti con la malinconia che mi assale nelle serate estive e di fine primavera, quando la vita rivela in maniera così opprimente tutta la sua vana bellezza. Continua a leggere

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Antologia n. 2 nuova ontologia estetica – poesie inedite di Pavel Arsen’ev (1986) e Ryszard Krynicki (1943), Adeodato Piazza Nicolai, Giuseppe Talia, Antonio Sagredo – traduzioni di Paolo Galvagni e Paolo Statuti con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Strilli Giancaspero

(grafica degli “strilli” di Lucio Mayoor Tosi)

Giorgio Linguaglossa
31 agosto, 2017

C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».
La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. È il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.
La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime, quale suo luogo naturale, in metafore e in immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana – ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Un aneddoto, circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», redatto, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla, ormai la poesia-comunicazione ha invaso ogni pertugio di buon senso. All’epoca, avevo pubblicato (1995) sul n. 7 di Poiesis il «Manifesto della nuova poesia metafisica», che andava in direzione diametralmente opposta.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.
La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

Strilli Grieco
Due poesie di Ryszard Krynicki

[Tra i massimi poeti polacchi contemporanei, Ryszard Krynicki nasce il 24 giugno del 1943 nel lager austriaco di Wimberg, a Sankt Valentin. Ha ottenuto diversi premi letterari, tra cui il premio internazionale Kościelski (1976), è anche traduttore dal tedesco di Brecht, Nelly Sachs, Paul Celan. Il volume Punkt magnetyczny (Il punto magnetico, 1996) contiene un’ampia scelta di versi delle sue raccolte precedenti, tra cui Akt urodzenia (Atto di nascita, 1969), Organizm zbiorowy (Organismo collettivo, 1975), Nasze życie rośnie (La nostra vita cresce, 1978), la sua ultima raccolta è Kamień, szron (Il sasso, la brina, 2004). Nel 1988 Krynicki ha fondato la casa editrice a5, che pubblica poesia contemporanea, tra cui Herbert e Szymborska.
Gli esordi di Krynicki nel 1968 sono legati al movimento di Nowa Fala (Nuova Ondata), composto da poeti dello spessore di Zagajewski, Karasek, Barańczak, Kornhauser, accomunati da uno sguardo lucido e critico sul regime e dalla volontà di rispecchiarne, nella maniera più fedele, il grigiore e la disperazione quotidiani.
Nella sua poesia si riscontra la presenza di un tono quasi oracolare innestato su di un lessico sobrio, spoglio, schietto, a volte sarcastico, a volte umorale. I tratti sopra segmentali entrano con pieno diritto nella poesia occupando un posto d’onore. Esponente di spicco della generazione della Nowa Fala, Krynicki ha un timbro, una voce individuale. La sua voce si esprime bene nei momenti in cui prende posizione con interrogativi incalzanti e alti, quando può prendere posizione nei confronti del regime e della storia. Sue poesie sono reperibili nell’antologia “Almanacco dello specchio 2007”, Mondadori.]

Strilli Rago
Il poeta è pudico

Il poeta è pudico.
Lo è perché parla di sé, anche se in minima parte, immette nella poesia un moto, l’emozione di un istante vissuto proprio così, lì o altrove, ma comunque vissuto.
Almeno lo dovrebbe.
C’è chi immagina e racconta; ci inonda di versi profondi, ridondanti e colti che però non hanno vita.
Ci si può difendere da versi così? Mah!
Se piacciono, sono pur sempre poesia: falsa, copiata sbirciando componimenti di altri, ma di base una certa sensibilità c’è.
Io ho un sistema: scelgo un momento mio della giornata, butto i pensieri e leggo a voce alta, fingendomi l’autore e poi mi interrogo.
Posso dire di essere stato onesta nella lettura? Ho interpretato bene il suo pensiero? E come ne esce il suono? Scivolano le parole, o si arrotolano su se stesse?
Ecco, rispondendo a tutto questo ottengo delle prime risposte che saranno convalidate o smentite da poesie successive.
Non ho mai provato a leggere le poesie in altre lingue che la mia. Deve essere una esperienza esaltante.
Purtroppo mi difetta la pronuncia di molti idiomi, quindi è una esperienza che non farò mai.
Accetto senza riserve, quindi, il dire di questo autore. La semplicità dello scritto (e la bravura del traduttore: non scordiamoli mai) ne fa un testo prezioso.

Effetto di estraniamento

Preferisco leggere i miei versi in una lingua straniera:
occupato a rigirare cautamente in bocca
i sassolini della pronuncia corretta
sento meno la spudoratezza della mia confessione.

(traduzione di Paolo Statuti)

Strilli Leone

Due poesie di Pavel Arsen’ev

[Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a San Pietroburgo, dove vive tuttora. È ricercatore presso l’Ateneo pietroburghese (cattedra di teoria della letteratura). Pubblica versi e articoli nel sito http://www.polutona.ru, su riviste russe e straniere. Dal 2009 organizza il festival di poesia sull’Isola Kanonerskij a San Pietroburgo. È il redattore capo dell’almanacco “Translit”. Ha pubblicato le raccolte To, čto ne ukladyvaetsja v golove [Quello che non si ripone nella testa] (2005), Bescvetnye zelënye idei jarostno spjat [Idee verdi incolori dormono furenti] (2011). Suoi versi in traduzione italiana sono apparsi in Tutta la pienezza del mio petto (Lietocolle 2015)].

quando è giunta l’ora di pagare il vino
tutti in un attimo sono ritornati sobri
hanno spento la loro trasgressione francese
hanno acceso il razionalismo francese
e con zelo improbabile hanno cominciato
a contare la quota di partecipazione di ciascuno
nelle follie brille

Secondo la costituzione

il presidente risulta
il presidente conduce
il presidente introduce
il presidente è a capo
il presidente ha il diritto di fermare
il presidente viene eletto
il presidente emana
il presidente ha il diritto
il presidente può essere eletto
il presidente può avvalersi
il presidente può consegnare
il presidente insignisce
il presidente designa
il presidente non può occupare
il presidente provvede
il presidente possiede
il presidente promulga
il presidente si rivolge
il presidente determina
il presidente libera
il presidente realizza
il presidente revoca
il presidente porta
il presidente presenta
il presidente accetta
il presidente firma
il presidente conferisce
il presidente inizia
il presidente interrompe
il presidente scioglie
il presidente decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente emane
il presifentr decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente
forse

(Traduzione di Paolo Galvagni)

Strilli Dono

Giorgio Linguaglossa
19 giugno 2017 alle 15.44

Scrivevo qualche tempo addietro:
“… c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo). Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale»”.

Strilli Tosi

GiuseppeTalia (ex Panetta)
11 novembre 2014 alle 22:02
.
Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).
Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.

Quello più intrigante? Quest’altro:

Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.

Giuseppe Talia (ex Panetta)
12 novembre 2014 alle 20:17

Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

da Salumida (2010)

I vicoli di pietra sussurravano
E tu padre germogliavi d’urla
Un cerotto alla morfina piano
Cambiava i grumi delle tue pupille
Il limone giallo t’assomigliava
Magro come un gambo di nebbia
Si nasce e il mondo cambia colore
L’infanzia verde il sole giallo
Arancione in quei tramonti
Che dicono tutto
Si cresce, non si finisce mai
Di crescere, rosso, olivastro
Con gote di quel che non sai
Una caduta in bicicletta
La ferita e il sangue porpora
Nessun ideale se non il bucaneve
Il tempo carico di luce
Pieno di odori e di sapori
Sapessi dove sono anima mia
Sono dove il sole mi sbatte
Sulle rocce che si sfaldano
Sono dove il vento costruisce
Le rocce con nuovi granelli
E la pioggia solidifica e lava
Sono dove il falco fa il suo nido
E volteggia per sempre portando
Un insetto una lucertola o niente
Dove i pesci saltano sull’onda
E s’affondano nei sabbiali
Coralli ancora teneri
Sapessi a volte come il fumo
Il vapore della terra sale in aria
In piccole gocciole trasparenti
Dove la montagna erutta fuoco
Fonde l’acciaio e l’agape
La gemma che non ha valore
Ci insegna a ricordare tutto
Quando saremo fluttuanti
Fra metafore spente
Su una nave spaziale
Strapiena di gente
Notte di tuoni acqua e vento
Un finimondo finito in fretta
Un frantoio unto e dilavato
Di nuovo il sole brucia
Della frescura temporalesca
Con vigore si vendica
Stelle nella lavastoviglie
Sassi stellari e navicelle
Di sapone nello scarico
Della discarica dei gabbiani
Ingorghi di clacson e polveri
Sottili nelle viscere di Eva
Con un Adamo dal pomo torto
Nel secchio del riciclaggio
Anche oggi i passerotti
Hanno beccato le briciole
Sul balcone
Venuti a luce d’autunno
Sono volati via di colpo
Non appena la finestra

È un finale interrotto questo di Giuseppe Talia che ci richiama alla mente la poesia di Petr Král per certi suoi aspetti psichici. Il poemetto di Talia è del 2010, ha una vitalità che deriva a mio avviso dal pochissimo spazio concesso ai verbi, l’azione verbale è del tutto assente; similmente, è assente la copula «è», anch’essa messa in castigo. Il fatto è che così priva di verbi la poesia di Talia sta come slegata, sciolta, le parole sono come tanti palloncini che vanno verso il cielo e lì si perdono; prive della gravità esercitata dai verbi le parole acquistano leggerezza e gassosità, sembrano non raggiungere mai la stabilità (apparente) del significato. Una Musa last minute tanto cara a Giuseppe Talia, appesa alla improvvisazione del momento, quasi una esecuzione jazz.

(g.l.)

Strilli Gabriele
da La Musa last minute (inedito)

Guido Oldani

Fiacco di clorofilla e di gambe d’argilla
Detenuto nel container come scontenuto
Betoniera terminale del poeta mantenuto
Cementizzato nell’ars poetica, oldaniano
Realismo militante, con antologie allappanti
Per l’infelice vita di codeina e di camomilla.

Strilli Ventura

Due poesie di Adeodato Piazza Nicolai

Tu luna
Lassù come ti senti?
Sverginata allunata
calpestata espropriata
sembri perfino dimagrita.
Cosa direbbe Leopardi?
Scivolerebbe forse
una lacrima
sulle sue guancie?
Non saprei dire ma soffro
una pena infinita…
Se fossi un barbone
itinerante ti amerei
con occhi sognanti
però non lo sono.
Spreco così
parole malconcie
a lenire un poco
questa ferita.

©2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 13 luglio, ore 5:00

dall’ontologia estetica di Ajvaz

In piena umiltà inseguiamo il paradosso
della classica meta-poesia un po’ dimenticata
o messa in cantina poiché (la crediamo)
sia rimasta senza benzina. Forse meglio tuffarsi
nei labirinti borgesiani o perdersi nella sua
biblioteca infinita. Anche Jung e Jodorowski
ci conducono in fiumi sotterranei che a volte
spuntano sulla superficie, ma solo come frammenti
e lamenti delle viscere poetiche sotterrate
da troppe teorie sparpagliate a vanvera un po’
dappertutto …

E il teorema di Zeno ha ancora qualche
valore? Un disonore studiarlo tuttora? Da tempo
tento di varcare certi confini immaginari, muraglie
illusionarie. Non voglio ritornare né all’alfa né all’omega.
Lasciatemi remare e poi ascoltare il fruscio delle vele
sulla barca mai costruita dalle mie mani,
chissà se ci sono altri porti sepolti da esplorare…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 27 giugno, ore 18:30

Strilli Linguaglossa
Giuseppe Talìa
13 luglio 2017 alle 22.18

A proposito di luna, eccone tre scritte parecchi anni fa.
La prima, calza a pennello a proposito degli ultimi atti vandalici commessi all’istituto Falcone (e tutti questi “strani” roghi che bruciano in Campania, in Calabria, in Sicilia ?)

Morto il chiarore
la luna incanutita
rotola giù e si scioglie
come un’aspirina
S’acquieta il fragore
nell’aria ammutolita
si ferma sulle soglie
e scoppia come mina
E’ strage nel furore
la Torre dei Pulci ferita
Roma Milano le spoglie
e quel sospetto che affina.
La seconda, una luna che si specchia nel danno ambientale.

Dove sei?
In fondo a quale pozzo
Galleggi nel percolato?
Un cerchio di luce ! Morta?
Uno spicchio
Forse specchio
Madre?
Faccia butterata
Inguaribile
Cuore di lupo
Con ciaspole e piccone
Il biancore di neve
Candrama
Forgi il falcetto
Mieti i gambi storti.
La terza, un primo quarto (di luna)

una
sono una
non certo trina
mi vesto di crinolina
e cresco da notte a mattina
deambulante dea creta dell’universo
sono la luna di quando crescono le fragole
la luna di quando i cervi perdono le corna
minimo falcetto lievito nel sommerso
madreperla nell’immenso concesso
e porto fortuna porto sfortuna
sono di fiume e di laguna
nel cielo di china
non sono trina
sono una
una

Strilli Giancaspero

Poesia di Antonio Sagredo

Non ho mai desiderato una forma perfetta
che fosse soltanto poesia e prosa insieme
per un non comprendersi rivolto a tutti
con una misera sofferenza per il poeta e il suo lettore.

La poesia è decente quando è estranea a se stessa:
da noi si genera tutto ciò che già sapevamo,
gli occhi sono fissi per accogliere perfino una tigre,
senza requie lei nella luce con la sua coda immobile.

È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.

Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?

Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.

Mai c’è stata un’epoca in cui si leggevano libri ottusi
per avere gioia e felicità con Intolleranza e avversità.
È la stessa cosa di quando non si è letta nessuna pagina
di opere che ci giungono dalla Clinica delle Felicità.

(marzo, 2016 à la maniere di Milosz)

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La Nuova Ontologia Estetica: Poesie di Anna Ventura, Raymond Carver, Michal Ajvaz, Petr Král, con Commenti di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Gif hair pop art

Riassumo qui brevemente alcune caratteristiche dei linguaggi della «nuova ontologia estetica»:

Frammento, frammentazione, de-simbolizzazione, disparizione dell’io, presenza della contraddizione, principio di contraddittorietà, principio di negazione, diplopia della identità, principio di incontraddittorietà, il paradosso, intemporalità, multitemporalità; inversioni spazio-temporali; mobilità degli investimenti linguistico-libidici; indipendenza dell’io dalla realtà esterna; il mondo esterno visto dal «tempo interno»; il «tempo interno» dell’io, il «tempo interno» delle parole; utilizzazione del punto nella orditura della sintassi, ritorno del rimosso, asse metonimico e asse metaforico

Tutti questi sono evidenti tratti salienti dell’inconscio. E non c’è neanche bisogno di ricorrere alla procedura dei surrealisti, la «nuova ontologia estetica» viene molto tempo dopo l’esaurimento del surrealismo, vive semmai degli spezzoni e dei lacerti dell’epoca post-surrealistica, tra gli stracci delle parole, tra le parole di plastica della lingua di plastica dell’informazione, in mezzo alle parole «raffreddate» ed assopite. [g.l.]

Mario Gabriele
18 giugno 2017 alle 14.29

Bene ciò che dici Giorgio sul piano della posizione estetica della «nuova ontologia estetica». In poesia bisogna adoperare tutti gli strumenti tecnici in grado di rendere il testo ineccepibile. E’ nostro dovere offrire il meglio della esperienza linguistica e culturale. Ci stiamo lavorando sempre in crescendo (vedi Tosi e altri poeti qui presenti) non per produrre l’increabile, ma per rispondere al postmoderno poetico lasciato nelle mani di conservatori e idealisti. Ogni poeta della «nuova ontologia estetica» ha un proprio cliché estetico che lo porta a indagare su ogni aspetto della realtà, e la cosa più sorprendente che si può rilevare, è che questo modo di scrivere versi non si identifica per niente con la produzione poetica degli anni passati e con chi, per un motivo o per altro, presenta rigide tesi a sostegno dei loro lavori rispetto alla NOE.

Giorgio Linguaglossa
18 giugno 2017 alle 15.54

caro Mario,
contro i timorosi del «nuovo», contro i conservatori ad oltranza, contro chi reclama la conservazione della tradizione (come se essa fosse un capitale che sta in banca a produrre altro capitale ad interessi fissi), contro chi è recalcitrante alle nuove forme estetiche, contro chi pensa che scrivere poesia lo si possa fare a spese della tradizione utilmente collocata nel proprio bagaglio pret à porter, riporto qui un pensiero di Adorno:

“Gli argomenti contro l’estetica «cupiditas rerum novarum», che così plausibilmente possono richiamarsi alla mancanza di contenuto di tale categoria, sono intrinsecamente farisaici. Il nuovo non è una categoria soggettiva: è l’obbiettiva sostanza delle opere che costringe al nuovo perché altrimenti essa non può giungere a se stessa, strappandosi all’eteronomia. Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo… Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità. Quel che Schömberg diceva con semplicità, «chi non cerca non trova», è una parola d’ordine del nuovo […] Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obbiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo (e ciò è esemplare per le categorie dell’arte moderna) è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale, nome per modi di comportamento artistici per i quali il nuovo è vincolante, si è conservato; esso però indica ora un elemento qualitativamente diverso… indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo”. “la categoria del nuovo è centrale a partire dalla metà del XIX secolo – dal capitalismo sviluppato -“. “L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1]

1] T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33

Mario Gabriele
18 giugno 2017 alle 17.50 Continua a leggere

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ANTOLOGIA BREVE della Nuova Ontologia Estetica: Poesie di Raymond Carver, Francesca Dono, Steven Grieco-Rathgeb, Ubaldo de Robertis, Petr Král e collage di Commenti vari di Giorgio Linguaglossa – Siamo dentro la tematica del nulla. Siamo nel mezzo del nichilismo.

Raymond Carver: Tre poesie

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 9:52

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/16/poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-gino-rago-edith-dzieduszycka-letizia-leone-lucio-mayoor-tosi-mario-m-gabriele-anna-ventura-vari-stili-varie-scritture-poetiche-della-nuova-ontologi/comment-page-1/#comment-20937

cari amici,
in un articolo degli anni Dieci intitolato Sull’interlocutore, Mandel’stam, fa una notazione geniale, dice questo: che uno non si sognerebbe mai di accendere una sigaretta dalla fiamma della lampada ad olio in quanto, molto più semplicemente siamo abituati ad accendere la sigaretta dalla fiamma di un accendisigari. Questo Mandel’stam lo dice per far capire che noi nella vita di tutti i giorni seguiamo delle abitudini gestuali e linguistiche senza che ce ne avvediamo, che diamo per scontate, seguiamo in maniera inconscia certi gesti e usiamo certe frasi in maniera inconscia in base a «credenze» (Ortega y Gasset) e a quelle che Heidegger definisce «precomprensioni».

Analogamente, avviene in poesia. Noi scriviamo in base a delle «credenze» linguistiche e a delle «precomprensioni» di modi di scrivere che abbiamo già letto e digerito nella memoria; si tratta di atti memorizzati che compiamo «naturalmente».

Quando una poetessa come Elena Schwarz (1948-2010) scrive:

Secondo l’orario delle stelle lontane

(da Così vivevano i poeti, Thauma edizioni, 2013 trad Paolo Galvagni), ci avvediamo che qui noi abbiamo un esempio chiarissimo di come la poetessa russa mette in atto uno shifter, un cambio di abitudine linguistica, un cambio di abitudine iconica, mnemonica, passa da “secondo l’orario dei treni” a “secondo l’orario delle stelle”, aggiungendo il lemma “lontane”. Il risultato estetico è vivissimo, efficacissimo. Semplice, no? Anzi, semplicissimo. A volte è sufficiente uno scambio di abitudini mnemoniche e linguistiche per creare un verso efficacissimo.

Ora, ad esempio, tutta la poesia di Mario Gabriele è basata sulla puntualità e la ripetizione di questi «scambi», una miriade di «scambi» iconici che si susseguono a ritmi vertiginosi che creano una serie continua di effetti spaesanti e stranianti che raggiungono vertici di rarissima capacità iconica e mnemonica…

La NOE è anche questo, tratta una serie di espedienti retorici che già esistono da tempo nella poesia migliore del novecento europeo, espedienti che vengono utilizzati in modalità intensive. Tutto qui.

Quando Claudio Borghi e Salvatore Martino dichiarano di non riuscire a comprendere la poesia della nuova ontologia estetica, non si rendono conto che essa è nuova solo nella misura in cui impiega una serie di retorizzazioni e non altre, e le impiega in maniera intensiva. Si tratta di una intensificazione di alcune figure retoriche. È questo che fa la NOE.

Quando un poeta come Lucio Mayoor Tosi scrive:

Dalla stampa giapponese si alza un volo di pettirossi.
Ora stan li, affacciati alla finestra. Guardati dalla luna.

qui abbiamo l’impiego di un noto luogo retorico: il capovolgimento: è la luna che guarda i pettirossi che si sono alzati in volo da una «stampa giapponese». È sufficiente questo «capovolgimento» a creare l’effetto di un «mondo all’incontrario» (Bachtin), un effetto spaesante, di meraviglia…

Francesca Dono

Due poesie da Fondamenta per lo specchio (Progetto Cultura, 2017)

– estemporanea75 –

in cucina la mia camicia
dentro lo scalda latte di alluminio.
Il latte sotto la schiuma fredda
delle tue minuscole scarpe.
Ore 6,35. La penombra è prima del cielo.
Mescolo un cucchiaino nella tazza
di porcellana. Gabriella si ferma davanti
allo specchio. Un po’ di zucchero. Di là forse
la sera del 14 agosto. Un uomo e due biscotti
con tre briciole eburnee. Risalgono i gradi
dei circoli velati.
Lascio un albero alla finestra.
Poi mi ritraggo esattamente.

– la bicicletta –

la bicicletta sotto un sole basso.
Qualche soffio di vento.
Strati di polvere a
seconda dei giri. Strappi nel momento.
Scorro dentro quel telaio
quando si solleva o si appiattisce. È la pancia della strada.
Lavoro patetico
dell’unto e tra una gomma e l’altra.
Ore dodici. Un gatto s’infila
dietro le transenne del cantiere. Il miagolio della fame che non riposa.
C’è una curva.
La bicicletta barcolla col freno austero.
Poi l’ultimo fanale.

Steven Grieco Rathgeb 

Una poesia da Entrò in uno specchio (Mimesis Hebenon, 2016)

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

agli stormi di piccioni in volo

agli aquiloni che danzano più su

alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»

*

La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.

E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006

Onto DeRobertis

Ubaldo de Robertis (un inedito)

Nella dimensione di Jung

Il rampollo del caos scorre in cerchio.
Una fanciulla si sporge in piedi sulla fontana.
Le lancette girano in circolo.
Nessuno si occupa più dell’orologio da almeno sette decenni.
Sulla torre si specchiano immagini suoni remoti
echi che tornano del lungo roteare
[si riflettono forse in un gioco di specchi].
Nessuno conosce la vera posizione.
Altalenante.
In funzione dell’apparente rotazione degli astri
intorno alla sfera rosso fuoco
talvolta troppo vicina
talvolta troppo distante.

Al morire della luce
la fanciulla sconosciuta spiega lo scialle di seta
nel luogo di cui nessuno ha voce per chiedersi:
dov’è?
[come risulterà chiaramente in seguito]

Da strani fiori a sette petali salgono essenze.
Presentimenti.
Congetture si fanno sul sognatore
nel dire che si è trattato di allucinazioni:
La torre
[dislocazione verticale- verso l’alto la seduzione degli astri].
L’orologio.
Gli specchi
[sul lato contrapposto al riflettente giace il sottile strato d’argento].
Il bel giardino dai fiori a sette petali.
Il corpo condiscendente di quella fanciulla.
Lo châle volteggiante al minimo estro di vento.

Costantina Donatella Giancaspero Teatro dell'Opera

Donatella Costantina Giancaspero

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 15:51

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/16/poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-gino-rago-edith-dzieduszycka-letizia-leone-lucio-mayoor-tosi-mario-m-gabriele-anna-ventura-vari-stili-varie-scritture-poetiche-della-nuova-ontologi/comment-page-1/#comment-20945

Per esempio, tanto per restare nella linea della nuova ontologia estetica, proviamo a leggere alcuni versi, prendiamo una poesia apparentemente innocua di Donatella Costantina Giancaspero. Sembra quasi una poesia lirica di stampo tradizionale, sembra di leggere una poesia di Cristina Campo o di Fernanda Romagnoli, e invece qui si ha qualcosa di molto diverso, di molto più avanzato:

Decisa, te ne vai già
da questa nostra estate. In fretta.
Tra il letto e l’appendiabiti.
Lungo il corridoio, le pareti fanno ala
a un ottuso serpeggiare.

Di che si tratta? Chi è la persona che se ne va? La poesia non lo dice. C’è una persona che se ne va. Da notare che l’andar via della persona è reso da due oggetti disposti ortogonalmente rispetto alla persona che se ne va: «il letto e l’appendiabiti», «lungo il corridoio». Dunque, siamo in un interno, tra «le pareti» che «fanno ala» alla azione di cui trattasi: «a un ottuso serpeggiare». Dunque, c’è un indietreggiamento di una persona o di una Cosa, diciamo che si ha una personificazione di una Cosa, che la Cosa ha preso la sembianza di una persona. Ma allora sorge l’interrogativo: Chi è la persona che se ne va? Qui abbiamo a che fare con il «fantasma», con quella «mancanza a», dice Lacan che contrassegna il «fantasma», il quale si dà e nell’atto del darsi produce un cedimento strutturale a livello ontologico dell’io, cedimento che produce la sostanza immaginaria del fantasma, il quale si dà solo e soltanto in presenza del venir meno dell’io come soggetto. Insomma, qui siamo nel pieno centro della nuova ontologia estetica, qui si tratta del venir meno della Cosa, del venir meno di un personaggio che si allontana e si assottiglia tra gli oggetti consueti e consunti di una abitazione, oggetti ben noti, dunque. Al contempo, il «fantasma» rappresenta il limite interno dell’ordine simbolico, è quel qualcosa senza il quale non si dà ordine simbolico, e quindi è un attrezzo necessario e indispensabile nell’officina della poesia che stiamo esaminando… per dar vita alla Cosa che si allontana e che tende a scomparire. Ma ciò che non può scomparire, pur se attecchito da un cedimento strutturale, è l’io il quale non può che continuare a macchinare il suo desiderio affinché vi sia una macchina desiderante che metta in moto questo complesso meccanismo qual è questa poesia che narra, come apparirà chiaro, un assottigliarsi, una mancanza della Cosa, del «fantasma», uno scomparire nel nulla. Ecco, siamo dentro la tematica del nulla. Siamo nel mezzo del nichilismo.

Inoltre, il pronome personale «io» che parla, è, vistosamente, un espediente retorico e nient’altro, è una custodia vuota. È un enunciato linguistico e nient’altro.

“L’enunciazione è l’istanza linguistica, logicamente presupposta dall’esistenza stessa dell’enunciato […] che promuove il passaggio tra la competenza e la performance linguistica […] l’enunciazione è chiamata ad attualizzare lo spazio globale delle virtualità semiotiche, cioè il luogo delle strutture semio narrative […] allo stesso tempo è l’istanza di instaurazione del soggetto (dell’enunciazione). Il luogo, che si può chiamare l’ «Ego, hic et nunc», è prima della sua articolazione semioticamente vuoto e semanticamente (in quanto deposito di senso) troppo pieno: è la proiezione (per mezzo delle procedure di débrayage) fuori da questa istanza degli attanti dell’enunciato e delle coordinate spazio temporali, a costituire il soggetto dell’enunciazione attraverso tutto ciò che esso non è”, A.J. Greimas, J. Courtes, Sémiotique. Dictionaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979; a cura di Fabbri P., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007, pp. 125-126. – E. Benveniste Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Saggiatore Economici, 1994. Si veda in particolare il saggio dedicato alla funzione dei pronomi pp. 301-8.

Petr Král, con Jana Bokova

Petr Král, con Jana Bokova

Donatella Costantina Giancaspero
17 giugno 2017 alle 16:42

Al commento precedente vorrei aggiungere alcuni versi di Petr Král (tra i poeti che prediligo).

Caduta

E in ogni bottiglia vuota
c’è ancora una goccia. Col tuo pettine e il sapone

dalla valigia rovesciata cadono anche le spille nere
della forcina, che vedi per la prima volta. Da quale tasca
[persino
segreta

del cosmo deserto – L’esile forcina non toglie
o aggiunge nulla, appena un trattino di ferro tra il giorno e la
[notte,

tra la pelle morbida e la pelliccia minacciosa
del mondo. Senza di essa però qui manca

una virgola per la redenzione. Pace con lei e con te.
Tu e la forcina nella stessa giornata vuota.

(Petr Král, Tutto sul crepuscolo, ed. Mimesis
trad. di Antonio Parente)

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 18:05 Modifica

Nella poesia di Petr Král, uno dei maggiori poeti europei viventi, è presente un sistema semi automaico di scambi sinestesici e metonimici, la poesia procede in una modalità quasi automatica mediante un sistema del tipo pilota automatico ma non in funzione della rappresentazione quanto della mera presentazione di eventi.

Noi sappiamo che il sistema Inc si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di assoluta estraneità tanto dal sistema
Prec che da quello percezione-coscienza: assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, nonché una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell’inconscio.
Il nucleo dell’Inc., scrive Freud, è costituito di rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio investimento, dunque da moti di desiderio. Questi moti pulsionali sono fra loro coordinati, esistono gli uni accanto agli altri senza influenzarsi, e non si pongono in contraddizione reciproca. […] In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto dal lavoro della censura fra Inc. e Prec.
.
L’Inc dunque non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco. Esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, che consistono “ nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini ” .

L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto. Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo
Freud:

«La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc. contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec. nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali».1]
.
In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di “farsi sentire ” nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung. Questa operazione svela la natura dell’apparato psichico e del suo funzionamento, in particolare il ruolo del linguaggio nella sua strutturazione.

Nella poesia di Král viene in piena luce questo processo psichico tipico di quello che noi abbiamo chiamato «nuova ontologia estetica», dal vivo, in diretta, apparentemente senza le mediazioni dell’«io», ma come in un universo metonimico in libera uscita pulsionale… Incredibile.

1] Sigmund Freud, Metapsicologia, § L’inconscio, in Gesammelte Werke; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915), pp. 49 e segg.

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ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 

Testata violaTestata azzurraTestata azzurro intensoLucio Mayoor Tosi Composition

L’OMBRA DELLE PAROLE

 INVITO 

al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA

Giovedì 30 Marzo 2017 – h 18:00

Presso la libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106 – Roma

 La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende perseguire. L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti. Sarà presente la Redazione. Vi aspettiamo.

Programma

  1. Giorgio Linguaglossa: Lettura e Commento di tre poesie di Gabriele Pepe – L’Evento come rottura della simmetria spazio – temporale.
  2. Chiara Catapano: Ο Μαϊστρος (Maestrale – di Steven Grieco-Rathgeb): lettura e commento dell’anima inconsapevole di un paesaggio.
  3. Steven Grieco Rathgeb: Lettura e commento di una Poesia di Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge
  4. Gino Rago: da Aldo Palazzeschi a «Preghiera per un’ombra» di Giorgio Linguaglossa: verso lo “spazio espressivo integrale” passando per Rebora e Pasolini – 3 poesie brevi di Palazzeschi, Rebora, Pasolini sull’ars poetica come antefatti a «Preghiera per un’ombra».
  1. Donatella Costantina Giancaspero: Lettura e commento di una poesia di Petr Kral (da Poeti cechi, Mimesis Hebenon, 2013 traduzione di Antonio Parente).
  2. Franco Di Carlo: Dialogo con Giorgio Linguaglossa su Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini.
  3. Sabino Caronia: Kafka e il romanzo del Novecento.
  4. Ospite: Salvatore Martino che parlerà del proprio itinerario poetico.

Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Lucio Mayoor Tosi Acrilic

ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 Domanda: Tu hai scritto:

«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto più volte i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Puoi portare un esempio di poesia non appartenente a questi tipi di scrittura che oggi vanno molto di moda?

Risposta: Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.  

La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come  frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così semplici e diritte. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

Domanda: Puoi fare un esempio?

Risposta: Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta tautologica perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017)  la «quadridimensionalità». La poesia di Grieco-Rathgeb abita  un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o  commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

Domanda: puoi portare qualche testo a riprova di quello che dici?

Risposta: Senz’altro. Ecco alcune poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte dal suo volume Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Continua a leggere

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Antologia bilingue della Poesia Ceca contemporanea a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 €  16,00) Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Brno Del Zou - Izoumi, 2012Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Segnalo un libro davvero importante e insostituibile come questo pubblicato dalle edizioni Mimesis Hebenon nella collana diretta da Roberto Bertoldo a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero nevePoeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis 2005 pp. 228 €  16,00). Devo riconoscere la capacità critica e la competenza del curatore Antonio Parente nell’aver saputo individuare con precisione i valori poetici degli autori presentati (Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol), ed elogiare la perizia del traduttore che ha saputo ricostruire in un ottimo verso libero italiano il testo ceco originale. Ma l’aspetto più rilevante che mi preme sottolineare è il «nuovo» e «diverso» concetto di poesia che emerge dai numerosi testi qui presentati; con «nuovo» intendo qui individuare il valore discriminante rispetto alla linea maggioritaria che oggi sembra occupare gli scaffali della poesia italiana contemporanea. Innanzitutto, la sapiente costruzione mediante le immagini «doppie», o a «elica» (le eliche doppie, e anche le volute della scala a chiocciola), a doppio binario; in secondo luogo, la capacità di questi poeti cechi di accoppiare elementi eterogenei e contraddittori allo scopo di determinare l’immagine con più nettezza di particolari e maggiore precisione metaforica. Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

(Michal Ajvaz)

Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.

La «nuova poesia ceca» non ricerca affatto alcuna conciliazione fra ricerca sperimentale e cultura di massa, non persegue il raggiungimento di una coabitazione tra arte sperimentale e arte di massa, il felice o infelice accordo fra l’oggetto artistico e l’oggetto merce. Alla luce abbagliante della coabitazione spaesante nella società delle immagini virtuali, la poesia si trova paradossalmente a suo agio, i poeti qui convenuti sembrano prediligere un irrealismo magrittiano in direzione di un’arte a-concettuale, anti acustica. Prediligono a una «poesia verticale» una «poesia orizzontale». Una dizione piana, che non teme di apparire quasi noiosa, una oggettistica per lo più banale, e chi più ne ha più ne metta ma è la connessione spaesante tra gli oggetti che determina la «nuova visione», è la dis-connessione tra gli oggetti quella che determina la «nuova poesia ceca», del tutto fuorviante e a-concettuale per un lettore italiano abituato al minimalismo nostrano con tanto di perbenismo davvero piccolo borghese.

Come si può notare, i colori sono sordi, freddi, l’esposizione da realismo o iperrealismo, da abbecedario e da settimana enigmistica, volutamente «basso», «triviale»; alla lettura non ci coglie nessuna emozione vertiginosa e nessuna estasi, il lettore è trasportato, come su una scala mobile o un nastro semovente, attraverso palcoscenici e quinte che trascorrono dall’ordinario routinario allo strampalato post-surreale. Tra il surreale e il reale c’è di mezzo il mare, la poesia abita un corridoio di immagini e considerazioni oziose, respingenti, prosaiche, insensate che danno il senso complessivo di iperrealtà; di qui la procedura iperrealistica auto respingente che viene però sempre immediatamente decontestualizzata dallo scorrere dei fotogrammi delle immagini ordinarie, post-surreali e/o grottesche. All’improvviso, si rivela lo squarcio, la scissione; l’enigmatico deprivato di enigma appare ancor più enigmatico. La scrittura si rivela come montaggio di istantanee che fotografano l’impossibile e il grottesco. I frammenti sono accatastati l’uno all’altro senza apparente ordine, senza rigore formale. Una poesia terremotata e disartizzata le cui membra disiecta giacciono ad imperitura memoria. Nella poesia di questi cechi possiamo ancora riconoscere attraverso l’assurda tessitura dei testi l’assurda struttura del mondo, la profonda intercapedine che esiste tra il nome e tra i nomi, non più soltanto tra il nome e la cosa. Il significato se ne è andato a farsi benedire. Il problematico è stato disartizzato ed evirato. Ciò che rimane sono i poeti che non possono più abitare poeticamente il mondo.

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata «morte del surrealismo», sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’. Lo stesso autore ci confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero».

Vorrei limitarmi ad indicare ai lettori lo stratagemma impiegato da Pavel Řezníček: l’inserimento nel corpo del testo poetico di lacerti del «reale», del «quotidiano», però decontestualizzati e spostati lateralmente in modo da sconvolgere l’orizzonte di attesa del lettore, sorprenderlo, scuoterlo e coglierlo d’infilata. Procedimento questo adottato dalla poesia italiana per la prima volta da autori italiani appartenenti alla Poetry kitchen. Leggiamo alcune righe del poeta ceco:

appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

foto Pavel Řezníček
Tre poesie di Pavel Řezníček

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany
meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa
I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia
Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Foto, giostra con sedili

Una poesia di Karel Siktanc

Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso

E me stessa mando altrove

Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi

E intorno alla bara cantano qua e là

Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio

che non reggerebbe più la partitura

Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa

E adesso sarà solo altrimenti

Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere

rimbombano per via Sperone

Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri

risplende il gioiello del mio dispiacere

Apro
Chiudo a chiave

e fa freddo dappertutto E buio

È la santa Angoscia già dal principio del mondo

foto milan-napravnik-il-nido-del-buio
Una poesia di Milan Napravnik

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

foto Poeti cechi contemporanei
Una poesia di Jachym Topol:

Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente

(Martedì ci sarà la guerra, 1992)

Michal Ajvaz 1

Michal Ajvaz

:

Tre poesie di Michal Ajvaz

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

*
La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

petr kral 1

petr kral

Due poesie di Petr Kral

Edward Thomas (1878-1917)

I

Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido

II

Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.

(Per l’angelo, 2000)

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Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

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Intervento di Steven Grieco Rathgeb

Il poeta ha avuto un’idea per una poesia. Ha annotato delle immagini, ha formulato dei concetti. Insieme questi, chiamiamoli “segmenti”, allo stato iniziale racchiudono il grumo poetico primordiale, la ‘ispirazione’, che il poeta intende elaborare e far diventare una poesia, un’opera.

Secondo Andreij Tarkovskij, nel cinema l’inquadratura è un “segmento colmo di tempo”. E dice anche: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.”

Quando rifletto su queste parole, immagino di tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. Ecco, pensiamo ad un’immagine nello stesso modo: come se  questa fosse una cosa reale, vivente. E diciamo che sull’acqua, dentro l’acqua, stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono nel vento.  “Nel puro cerchio un’immagine ride.” (Perdonate la citazione montaliana).

Segmento di tempo, dunque: come nel cinema, così nella poesia. Le immagini di noi poeti sono virtuali, cerebrali, proprio per questo probabilmente le più universali e potenti! (E le più deboli.) E da lì, da quel punto di avvio dell’immagine, così semplice e originario, già inizia anche il senso che l’immagine può avere. E’ inutile “dare” il significato: L’immagine è già in sé significante. Infatti, l’uomo non può non dare un senso alle cose. L’opera poi diventa opera, la poesia diventa poesia, in quanto il poeta-artista segue un criterio di scelta dei segmenti-immagine e segmenti-concetto. Ciascuno con una propria vibrazione interna.

Per continuare la citazione di Tarkovskij: se l’inquadratura è ‘segmento colmo di tempo”,  “Ne consegue che il montaggio  è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi.”  In poesia, questa pressione vorrei forse chiamarla “densità d’immagine”.

E proprio per questo che il montaggio diventa operazione fondamentale. Per montaggio non intendo la costruzione di un sistema concettuale fatto a tavolino. Essa è l’opera di un esecutore quasi cieco, che svolge questo lavoro seguendo un solo criterio: la visione della poesia che lo ispirò all’inizio.

Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile – soprattutto per il poeta contemporaneo, che ha scordato l’antica tradizione orale, e deve “scrivere” la sua poesia. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è privilegiare il raggiungimento del  prodotto finito, un altro usare questa operazione di composizione-scomposizione-ricomposizione per far emergere la pregnanza di quel tempo interno cui allude il nostro regista. Quella densità poetica. Che poi è la viva, reale rappresentazione della visione iniziale del poeta. Che differenza c’è fra questi due modi di procedere?

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Dice Tarkovskij: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

Io questa la chiamo la visione del poeta. Che sia cineasta, pittore, musicista, è sempre poeta. In questo momento sono tutti poeti: nella loro mente trema la visione, s’increspa l’acqua nel recipiente, emerge il senso potente della verità artistica – solo artistica, nient’altro.

Facendo qualcosa di simile a tutto ciò anche in poesia, determiniamo un vero e proprio spostamento del baricentro interno della poesia. Uno spostamento, se posso dire, ontologico. Non è più questione, del connubio “senso-eufonia” come fine ultimo del poetare, ma cercare le radici del poetare, il punto incredibile che per un attimo collega interiorità interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo.

Dunque, invito il poeta anche a vedere la materia grezza della sua poesia, e il suo stesso senso di autorialità, come una unica seppure molto complessa creatura vivente ( tra l’altro non interamente sua). La poesia in fase compositiva, e la poesia finita, non sono più, come dice un altro regista, Mani Kaul, uno “spazio sacro”, mentre tutto il resto è “spazio profano”. Ora la poesia è minuscolo spazio dicibile, il mondo intorno spazio indicibile. Ma anche: come organismo vivente, essa è un tutto insieme, dicibile e indicibile. LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

Questo processo segna la fine della lunga strada della decostruzione della poesia del XX secolo. E’ l’apertura dell’opera artistica al mondo. Si arriva, come la musica contemporanea 60 anni fa con Stockhausen, a dire che c’è una assoluta equivalenza tra suono e rumore.

E aggiungo un’altra cosa: la poesia che vuole darsi una valenza sociale, politica, religiosa, filosofica non convince più. La poesia trasmette una sua propria verità artistica, non un’altra. E lì la cosa deve rimanere. Il lettore, in seguito, darà il significato che vuole lui. Può sembrare gratuito, perché poi questi significati, queste suggestioni comunque affiorano nella poesia.

E’ vero. La poesia stessa si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Indubbiamente. Ma intanto il poeta deve pensare soltanto a rappresentare quella verità artistica, quella specifica persuasione.  In questo modo la poesia, e la disciplina necessaria per rappresentarla, trovando se stesse, si innalzano sopra tutto il resto, sopra tutto quello che nella fase compositiva “sporca” la visione del poeta: e ridonano pienamente la dignità all’opera, quella dignità che i poeti stessi hanno negato alla poesia in questi ultimi 50 anni.

In questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così la poesia rende al lettore la sua libertà, che poi non è nient’altro che il semplicissimo ma sfuggente senso dell’opera artistica compiuta. La poesia compiuta.

Completo con una mia poesia del 1976:

Senza Titolo

sorge il sole degli addormentati
inonda di rosso i visi

dalla botola di luce dilaga
un cielo basso incendiandosi

i visi sono serrati in solitudine
le fronti riflettono fiammate di luce
dietro, navigano in sogni illimitati

laboratorio-1-febbraio-gruppo

Laboratorio, backstage

Letizia Leone

Lettura e interpretazione di una poesia di Gottfried Benn, REQUIEM, dal ciclo “Morgue”, 1912. Una bibliografia.

Requiem

Auf jedem Tisch zwei. Männer und Weiber
kreuzweis. Nah, nackt, und dennoch ohne Qual.
Den Schädel auf. Die Brust entzwei. Die Leiber
gebären nun ihr allerletztes Mal.

Jeder drei Näpfe voll: von Hirn bis Hoden.
Und Gottes Tempel und des Teufels Stall
nun Brust an Brust auf eines Kübels Boden
begrinsen Golgatha und Sündenfall.

Der Rest in Särge. Lauter Neugeburten:
Mannsbeine, Kinderbrust und Haar vom Weib.
Ich sah, von zweien, die dereinst sich hurten,
lag es da, wie aus einem Mutterleib.

*

Due su ogni tavolo. Di traverso tra loro uomini
e donne. Vicini, nudi, eppur senza strazio.
Il cranio aperto. Il petto squarciato. Ora
figliano i corpi un’ultima volta.

Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
E il tempio d’Iddio e la stalla del demonio
Ora petto a petto in fondo a un secchio
Ghignano a Golgota e peccato originale.

Il resto giù nelle bare. Tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
Vidi, di due che fornicavano un tempo,
là se ne stava l’avanzo, come sortito da un utero. Continua a leggere

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SETTE POESIE di Petr Král da “Tutto sul crepuscolo” Mimesis, 2014 – traduzione di Antonio Parente con un commento di Giorgio Linguaglossa

petr kral prague foto di joseph-koudelka

petr kral prague foto di joseph-koudelka

 

petr kral

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Petr Král “Tutto sul crepuscolo” Mimesis Hebenon, 2014  pp. 76, € 9 – traduzione di Antonio Parente

Francesca Tuscano che firma la prefazione del libro, cita Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione» (R.B. Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis).

«Nella nota introduttiva, Král afferma che “di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana […] laddove nella poesia italiana direi che prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui possono anche suscitare un minimo di disturbo”».

petr kral Tutto_sul_crepuscolo È indubbio che la poesia di Král, da quanto risulta dalla traduzione del bravo Antonio Parente, suoni un po’ ostica all’orecchio della tradizione poetica italiana così incardinata nel discorso diretto e nella sua fedeltà al referente, inteso come qualcosa di oggettivo e di insindacabile e non come una icona che deve essere aggirata, incontrata in tralice, evitata semmai o circumnavigata. Insomma, ciò che dal punto di vista della tradizione italiana è lo sguardo frontale, troppo detto, nella poesia di Král, invece, risulta obliquo, in tralice, frutto di uno sguardo distratto. Si tratta di due modi di concepire la visione ottica di un oggetto. Nella poesia dell’autore ceco invece è proprio l’angolo visuale dal quale si osservano le cose che è “spostato” rispetto all’angolo visuale a cui siamo abituati nella tradizione poetica italiana, spostato in quanto ogni tradizione elegge un proprio punto di vista piuttosto che un altro. Si tratta di un fatto quasi inconsapevole per chi fa e legge poesia in italiano che lo lega e lo determina ad un modo di fare poesia all’interno della tradizione italiana che potremmo definire «frontale». La poesia di un Montale e di un Sanguineti da questo punto di vista non differiscono affatto, entrambe stanno davanti all’autore e al lettore in modo frontale, diretto; ne consegue che lo sviluppo metrico e sintattico non può non seguire questa impostazione di fondo. Nella tradizione poetica italiana del novecento, non c’è una indirezione sintattica, non c’è uno sviluppo prospettico o scopico del punto di vista dell’agente poetico. Direi invece che nel poeta ceco questo “spostamento” del punto di osservazione  determina anche uno spostamento-slogamento sia dell’ordine logico-sintattico che dell’ordine musicale, ovvero, del pentagramma tonale e fonosimbolico. Da questo nucleo problematico ne deriva un nodo che non può essere sciolto dal traduttore (comunque sempre attento a trasportare nell’ordine logico-sintattico dell’italiano quanto vi può essere traslocato). Direi che l’utilità della lettura di questo poeta ceco sta proprio qui, nella sua capacità di mostrare al lettore italiano un diverso modo di considerare gli oggetti e le relazioni che ci legano al mondo degli oggetti, giacché sono gli oggetti ad essere determinati dal mondo e non viceversa, come crede il senso comune.

(Giorgio Linguaglossa)

Petr Král, con Jana Bokova

Petr Král, con Jana Bokova

 Petr Král (1942) è uno scrittore e poeta ceco, è un classico vivente della letteratura ceca. Poeta, saggista e traduttore studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU di Praga e nel 1968, dopo l’invasione russa, emigra a Parigi. Nel 1986 riceve il premio Claude Sernet per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985). Tra le numerose sue raccolte possiamo ricordare Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). È anche autore di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese e nel 2002 ha curato e tradotto per Gallimard Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002 (2002). Importante è anche la sua attività di critico letterario, cinematografico e d’arte; è autore di saggi e articoli sul cinema, contributore alla famosa rivista Positif ed ha pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Petr Kral

Petr Kral

Caduta

E in ogni bottiglia vuota
c’è ancora una goccia. Col tuo pettine e il sapone

dalla valigia rovesciata cadono anche le spille nere
della forcina, che vedi per la prima volta. Da quale tasca persino segreta

dl cosmo deserto – L’esile forcina non toglie
o aggiunge nulla, appena un trattino di ferro tra il giorno e la notte,

tra la pelle morbida e la pelliccia minacciosa
del mondo. Senza di essa però qui manca

una virgola per la redenzione. Pace con lei e con te.
Tu e la forcina nella stessa giornata vuota

(Per l’angelo, 2000)

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

Evo moderno

ad Yves

Gli eroi sono andati via;
al loro posto infila il corridoio
soltanto il sospiro di spettri di flanella,
nel cassetto a ricordo dell’antica gloria del corpo
soltanto un ciuffo di peli dimenticato.

Niente allori, maschere dorate di collera o benevolenze divine:
solo un busto stinto senza faccia all’angolo della mensola,
scarabocchiato rapidamente dal gesso della paura.

La breccia del fulmine passa senza fretta
per la grigia pietra del cielo.

I lampioni sono comunque tornati all’imbrunire,
per continuare a vegliare le stoffe nel silenzio dei negozi.

(La vacuità del mondo, 1981)

Ian Palach si dà fuoco Primavera di Praga

Ian Palach si dà fuoco Primavera di Praga

praga ponte carlo

praga ponte carlo

Paese di naufragi

Siamo qui entrambi, ma allo scorcio; per metà in ciò che c’è qui,
per metà in ciò che manca,
senza pressione: condividiamo un dormiveglia, la completezza
del vuoto incagliato tra i rami sulle nostre teste,
la gloria, che ci evita con discrezione,
finché non si riversa, intera e senza macchia,
anche attraverso l’orizzonte dei corpi.

Ancora all’ombra della costruzione orfana cadiamo soltanto a lungo
verso il bordo delle nostre convinzioni, ai piedi del silenzio
fiammeggiante dall’alto nello sguardo opposto, nel volto nudo
colto dal crepuscolo serale
nell’imbarazzo dell’incompletezza.
A tratti un libro riposto o un pettine si freddano nella polvere.
Sull’erba del terrapieno bruciato, sulla sella della collinetta vicina
il vuoto intanto si accresce – di cicatrice in cicatrice –
nella nuova casa chiara.

(Vita privata)

casinò a Praga foto pubblicitaria

casinò a Praga foto pubblicitaria

Caduta in giugno

Del giorno restano brandelli
Nulla se non cenere
L’odore di benzina sussurra basso di bruciature lontane
I segnali degli uccelli già pieni della notte
sfregano nel rivolo

I lampadari vanno accendendo nelle finestre le nostre visioni nascoste
I testimoni si disperdono per le stradine Qua e là la massa bianca
della luna o della schiena
si accinge ad illuminare nel grigiore orfano

I lampi scivolano nell’oblio vellutato Tiriamo fuori con un sorriso
subdolo i coltelli e le forchette
Il naufragio dell’uccello La bancarotta del lampadario
La crepa della schiena impigliata nella polvere dei ficus

La mano terrorizzata nella cenere del corpo
Le gonne nel mormorio al limite del crepuscolo sfiorano
le ortiche
Le fresche bellezze sul balcone splendente erette sotto una sottile
pioggia di fuliggine
pazientemente aspettano che le vengano a prendere

(Lampi radenti, 1981)

Praga

Praga

Tutto sul crepuscolo

a Jiří Kolář
l

Il giorno va spegnendosi malinconico sul duomo lontano,
i motociclisti con un unico movimento s’incurvano sotto gli alberi
verso la notte, ricotti dall’antica fiaccola –
e la prima stella è una lacrima, diamante grippato
nel velluto azzurro dell’attimo e del suo rovescio, della tomba
interiore e del silenzio sui dispersi,
che ancora indugia sul bosco bruciato.

2

Il giorno va spegnendosi sul duomo lontano,
i motociclisti con un unico movimento s’incurvano verso la notte,
la prima stella è una lacrima.
Sul duomo in lontananza, dolce, malinconica,
con un unico movimento s’incurva sotto gli alberi come verso
il fondo della grotta,
lacrima amara ma ossessiva nel velluto azzurro dell’attimo
e del suo rovescio.
Il giorno si spegne, va spegnendosi sulla cupola lontana, come se
l’ora più luminosa
avesse lontana all’orizzonte, sul fondo rosato della gola un sapore
dolce, la visione della Roma mancante,
che la malinconica estende dietro se stessa.
Con un’unica incurvatura sotto gli alberi del boulevard, con un
unico nitrito animalesco,
che sale dalla sella oscurante; come rovinano qui su di noi,
ricotti dall’antica fiaccola,
ci uniscono nonostante l’estraneità delle sue macchine solo con
la grotta familiare della notte
sul fondo di noi stessi. La prima stella è una lacrima, diamante
grippato
nel velluto azzurro dell’attimo e del suo rovescio, tomba interiore a
silenzio dei dispersi
che indugia sul bosco bruciato. Sotto gli alberi nell’esilio del
boulevard la notte che va spandendosi non è
più di un sollievo temporaneo dall’abbraccio dell’ombra meridiana.

(Lampi radenti)

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

Avanguardia

ai Rubeš

Il leggero trotterellare di uno scroscio di pioggia solo a volte portò
sollievo al bosco,
finché quello riaprì le sale al sole e nel suo fulgore
dietro di noi s’impietrì glorioso, trattenne il suo respiro pastello
in ogni albero e siepe, grigiastro, rosato, vellutatamente ingiallito,
finché ci guidò con lo sguardo l’intera
massa iridescente, la folla leggermente serrata.
Di nuovo ci veniva chiesto
solo un lontano stupore, le gesta di testimoni, coi quali come su un
antico dipinto
per un attimo ci ritirammo sorpresi a margine del percorso
davanti al tronco di un albero rovesciato, sepolta metropoli spiantata
con la terra tra le radici;
null’altro che immemorabile pesantezza e sopra qua e là già
l’ignota leggerezza
della luce che sale attraverso la verde spuma, la lieve punteggiatura
delle foglie nuove –
Camminavo per ultimo, eravate davanti a me
solo le fresche silhouette, vicine, presentite, le vostre graffiature
oscure nella pioggerella d’oro ignoto
facevano strada, celavano il traguardo, io riconoscente
dietro di voi, avrei voluto procedere così in eterno, lame d’oro,
d’umido, la verdeggiante notte
oltre gli alberi, oltre la tempesta, sorseggiare la vostra risata col
mio silenzio,
leggere nella lucentezza d’un tratto il nero spoglio
dei vostri tratti, vicino, deserto come io stesso, già in eterno in
quell’attimo
lì sotto gli alberi e in nessuno dei luoghi

(Il continente rinnovato)

Primavera-di-Praga

Primavera-di-Praga

Quello che sta pagando
ed uscendo dal locale
dove non lascia nulla solo con niente in tasca
senza cicatrici con anticipo
o con ritardo
esce in orario non tiene nulla nella cornice
della porta mentre la pulisce lievemente
con la spalla languida
Senza grassi appena orlato
dal resto della luce
è soltanto una risata ciò che manca
nella sala alle spalle
Bisbiglii ai tavoli calcoli semplici
sono dietro di lui flaccido strascico Esce tutti i problemi
ancora in sua attesa
Irradiato dal buio desertico
che gli sbadiglia accomodante vi aggiunge già la firma
la scava arruffa
con la testa Dapprima vi sveglia le piazze nude
quello che sta uscendo
per bere dalle cantine dell’attimo

(Massiccio e crepacci)

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