Sotto le iniziali M. B. si cela il grande amore di tutta la vita di Brodskij, la Musa indiscussa a cui il poeta dedicò nel corso degli anni numerosissimi versi: Marina Basmanova. Così la descriveva, un po’ severa, Anna Achmatova: “Sottile, intelligente e com’è bella! E neanche un filo di trucco! Solo acqua fredda”. Ed effettivamente c’era in questa ragazza qualcosa di misterioso e grande.
Era nata e cresciuta a Leningrado. Suo padre era un artista famoso, allievo di Petrov-Vodkin. Trasmise quasi in eredità alla figlia l’amore per la pittura. Quando Marina, ancora una illustratrice all’inizio del suo percorso, andava all’Ermitage per immergersi nel lavoro dei grandi maestri, attirava involontariamente l’attenzione di molti visitatori. Alta e snella, con la fronte ampia, capelli marrone scuro lunghi fino alle spalle, sembrava uscita da un quadro del Rinascimento.
Il tuo ricciolo non si arrotola nell’anello
(e non si trovano dita per questo)
nel tentativo di delineare il viso
come prima lo delineava la ciocca.
(J. B.)
Non le mancavano gli ammiratori ma lei non aveva fretta di rinunciare alla sua libertà. Secondo la testimonianza degli amici che la conoscevano bene, la Basmanova si distingueva dalle sue coetanee anche per un altro aspetto: l’amore per tutto ciò che era misterioso ed enigmatico. Aveva inventato un suo linguaggio cifrato per tenere un diario e sulla parete della sua stanza era tracciato sempre in codice un inusuale motto: “Essere, non sembrare”. Perché scelse proprio lui, non lo sa nessuno. Passano gli anni e una degli amici intimi di Brodskij, la scrittrice Ljudmila Stern, nel suo libro “Brodskij: Osja, Josif, Joseph” così ricorderà la Basmanova: “Sembrava molto timida. Non brillava per acutezza e non partecipava alle punzecchiature verbali quando ci sfottevamo reciprocamente. A volte se ne stava per tutta la sera senza aprire bocca”.
Brodskij e Marina si incontrarono per la prima volta il 2 marzo del 1962 ad una festicciola a casa del futuro famoso compositore Boris Tishchenko. Il poeta aveva 22 anni e Marina due di più. Da quel giorno non si separarono più. Lui le leggeva i suoi ultimi versi, Marina lo iniziava alla pittura e lo portava per musei e mostre. Gli amici ritenevano concordi che presto si sarebbero stufati l’uno dell’altro: l’irriverente, sofferente Brodskij e la tranquilla, giudiziosa Marina. Fuoco e acqua. Luna e sole. Marina amava Brodskij col suo stesso ardore? E’ difficile dirlo… Di certo lui la idolatrava!
Io ero soltanto ciò
che tu sfioravi col palmo della mano,
su cui nella sorda, scura
notte chinavi la fronte.
(J. B.)
Ma già allora non tutto era rosa e fiori. Né il padre della Basmanova né i genitori di lui vedevano di buon occhio la loro relazione. E, cosa fondamentale, la stessa Marina non voleva sposarsi. I due litigavano spesso e di continuo “si lasciavano per sempre”. In seguito a questi screzi Brodskij cadeva in una profonda depressione. Spesso andava a casa degli Stern pallido come una mummia, con fresche bende insanguinate ai polsi, in silenzio fumava in cucina una sigaretta dopo l’altra. Ljudmila temeva che l’amico potesse davvero prima o poi farsi seriamente del male. Perciò, quando per l’ennesima volta si presentò da loro con le mani bendate, Victor Stern gli disse a bruciapelo: “Ascolta, Osja, smettila… così spaventi la gente. Se un giorno decidi davvero di farla finita, chiedimi di spiegarti come si fa”. Brodskij accettò il consiglio, non li “spaventò” più ma le cose non andarono meglio.
In questa storia non mancò un banale triangolo amoroso. All’inizio degli anni ’60, Brodskij aveva stretto una solida amicizia con Anatolij Najman, Evghenij Rejn e Dmitrij Bobiscev: facevano tutti parte del gruppo di poeti vicini ad Anna Achmatova la quale, tuttavia, stimava Brodskij più degli altri e gli aveva predetto una grande gloria poetica. Per questo, quando alla vigilia del nuovo anno 1964 Brodskij riuscì a sfuggire alla polizia, temendo di essere arrestato per parassitismo, chiese a Bobiscev di prendersi cura di Marina. Lui la portò da alcuni suoi amici in una dacia a Selonogorsk e la presentò come “la fidanzata di Brodskij”. Tutta la compagnia la accolse festosamente ma, siccome la timida Marina sedette tutta la sera in silenzio, presto si dimenticarono di lei. Cosa successe dopo nessuno lo sa: forse sofferente per l’indifferenza dei presenti o perché da tempo nutriva un interesse per il bel Bobiscev, fatto sta che la silenziosa Marina passò la notte con lui. Agli amici che lo rimprovereranno di aver tradito la fiducia di Brodskij, Bobiscev replicò di non ritenersi affatto colpevole asserendo che Marina era andata da lui e non viceversa e che alla sua domanda se non era la fidanzata di Brodskij, lei aveva risposto alterata: “Io non mi considero la sua fidanzata e quello che pensa lui, sono affari suoi”…
Che peccato che ciò che fu per me
la tua esistenza, non fu per te la mia esistenza.
(J. B.)
Quando giunsero a Brodskij le voci del tradimento di Marina, si precipitò a Leningrado, disgustato da tutto. Passeranno gli anni e ricorderà così tutto ciò: “Non me ne importava niente se mi sbattevano in galera o no. E tutto il processo successivo era una sciocchezza a confronto di quello che era accaduto con Marina…”.
Direttamente dalla stazione piombò da Bobiscev, ci fu tra i due una dolorosa spiegazione che li rese nemici per tutta la vita. Quindi andò da Marina ma lei nemmeno gli aprì la porta. Dopo qualche giorno Brodskij fu arrestato direttamente in strada e rinchiuso in un ospedale psichiatrico; ne seguì il famoso processo al termine del quale fu mandato a scontare una pena di tre anni nella regione di Archangelsk. In seguito, quando già viveva in America, raccontò senza remore alla Stern che: “Tutto ciò era per me meno importante della storia con Marina. Tutte le mie forze interiori se ne erano andate per riappacificarmi con questa infelicità”.
Addio, cara. Togliti l’anello, abbonati ad una rivista di moda.
E puoi sputare in faccia a chi prenderà il mio posto.
(J. B.)
Nel villaggio di Norenskaja Brodskij scrive alcuni tra i suoi versi migliori di nuovo grazie a Marina che lo raggiunse lì e vi rimase a lungo. Lui era pronto a perdonarle tutto purché non finisse la loro favola e stessero ancora insieme. Ma… arrivò Bobiscev e la Basmanova se ne andò con lui. Ma poi tornò. E così per diverse volte. Brodskij soffriva, vagava per la casa vuota ma non poteva cambiare nulla: non si sceglie l’amore, come la patria e i genitori. Tra questi incontri e addii nel 1968 nacque il loro figlio Andrej al quale fu dato solo il cognome della madre forse per evitargli il complesso destino di altri figli famosi, quali il figlio dell’Achmatova e Gumilev e il figlio della Cvetaeva. Il poeta sperava che ora Marina si decidesse ad ufficializzare la loro unione ma Marina rifiutò anche questa volta e nemmeno la notizia dell’espulsione del poeta dall’URSS le fece cambiare idea. Nonostante le sue speranze Brodskij se ne andò da solo.
In seguito Marina mise fine anche alla storia con Bobiscev, preferendo crescere da sola il figlio.
La ferita bruciò ancora a lungo: come per vendicarsi del tradimento, Brodskij si trasformò in un cinico che non credeva più nell’amore e cambiava donne come fossero guanti, asserendo più volte che non poteva vivere sotto lo stesso tetto se non col suo amatissimo gatto Mississipi. Ma continuò a scrivere versi dedicati a M.B. Una volta, in risposta ad un invito a tornare a Leningrado, rispose con amarezza: “No, non si torna sul luogo dell’amore!”
Tuttavia tutto cambiò quando nella vita di Brodskij apparve una giovane studentessa italiana di madre russa di trent’anni più giovane e straordinariamente somigliante a Marina, Maria Sozzani: nel 1991 si sposarono e dopo un anno nacque la loro unica figlia che chiamarono Anna in onore di Anna Achmatova. Gli anni passati con la giovane moglie furono felici e dall’inizio degli anni ’90 Brodskij non dedicherà più versi alla Basmanova.
Ma nel 1989 aveva scritto una poesia nella quale questa volta si era rivolto a lei con parole ironiche e sprezzanti:
…. Un quarto di secolo fa nutrivi una gran passione per il kebab e i datteri,
disegnavi a china sul block notes, cantavi un po’,
ti divertivi con me; ma poi ti sei messa con un ingegnere-chimico
e, a giudicare dalle lettere, sei diventata straordinariamente stupida…
Quando Ljudmila Stern lesse questi versi, gli scrisse una lettera furente: “Joseph, perdonami o detestami ma non posso tacere. Cosa hai annunciato al mondo con questa poesia? Che, alla fine, hai smesso di amare M.B. e ti sei liberato dopo un quarto di secolo del suo incantesimo? Che sei guarito dalla “malattia cronica?” Ed in onore di questo avvenimento l’hai colpita nel plesso solare? A che scopo l’indipendente “libero figlio dell’etere” sputa attraverso l’oceano in faccia alla donna che ha amato ‘più degli angeli e di Sé Stesso’?”
Brodskij non rispose ma poco prima della morte, chissà perché, dedicò a Marina Basmanova tutti i componimenti scritti nel corso della sua vita per diverse donne. Riunendoli nel libro Nuove stanze per Augusta, scrisse semplicemente e laconicamente: “Questa è una raccolta di versi di una ventina d’anni che hanno più o meno un solo destinatario. In una certa misura è la cosa principale della mia vita”.
Marina Basmanova continua a vivere a San Pietroburgo…e continua a tacere: non ha scritto memorie, rifugge dai giornalisti, non si è mai lamentata, non ha mai commentato i suoi rapporti con Brodskij, non si trovano sue foto. Non ha mai nemmeno visitato la Casa-Museo allestita in quella “stanza e mezzo” sulla via Pestelja, che dà il nome al famoso saggio che Brodskjj dedicò alla memoria dei suoi genitori che, com’è noto, non vide più dal giorno della sua partenza né vivi né morti. D’altronde lei, Marina, in quella casa non ci aveva mai messo piede.
Tra le poesie qui presentate riteniamo che “Anno Domini”, scritta presumibilmente nel gennaio del 1968 (lo stesso anno di nascita del figlio), meriti una particolare attenzione.
Sebbene il titolo ripeta quasi letteralmente quello del libro dell’Achmatova “Anno Domini MXMXXI”, Brodskij sottolineò più volte che il “suo” Anno Domini non aveva alcuna attinenza con l’opera della grande poetessa.
Si tratta della prima composizione in cui Brodskij codifica la vita personale e l’attività artistica in immagini che richiamano un convenzionale “Impero Romano”. Ciò si spiega con la passione che egli nutriva in quel periodo per l’antichità, per il mondo latino e i suoi poeti lirici. Seguiranno Post aetatem nostram, il ciclo Lettere ad un amico romano, il lavoro teatrale Marmo, pubblicato nel 1984.
Non si può non sottolineare che l’avvenimento chiave dell’anno precedente era stato la pubblicazione del Maestro e Margherita di Bulgakov. Inizialmente Brodskij aveva avuto un atteggiamento critico nei confronti del romanzo ma, successivamente, ammise che gli avvenimenti salienti della prosa russa degli anni ’60 erano stati la riscoperta di Bulgakov e la pubblicazione del Dottor Zivago di Pasternak.
Se la descrizione del vecchio governatore, insonne e malato, rimanda alle pagine dedicate da Bulgakov a Ponzio Pilato, secondo la professoressa polacca Szymak-Peiforova (traduttrice e profonda conoscitrice dell’opera di Brodskij) la figura del misterioso scrittore, raffigurato in Anno Domini, “… potrebbe essergli stata suggerita dal passo in cui Pilato invita Levi Matteo ad entrare al suo servizio e diventare il custode della sua biblioteca. Tutta la composizione viene, così, ad essere una riflessione su una ipotetica collaborazione dello scrittore col potere, sulla responsabilità dell’artista, una variante del comportamento dello scrittore successivamente vigorosamente respinta e condannata dal poeta”.

Iosif brodskij a Venezia
INDOVINELLO PER L’ANGELO
a M.B.*
Il mondo delle coltri è rovinato dal sonno.
Ma nello sguardo teso di qualcuno
si profila nel crepuscolo notturno
il mare tagliato dalla finestra.
Due barche mettono a nudo il fondo
facendo un tutt’uno con un paio di scarpe.
La coperta rigonfia e le onde richiamano
la doppia tessera del domino.
Stretta al cuscino, la mano
scivola lungo i fusti perpendicolari
irrompendo in queste nuvole
col suo gesto sgrammaticato.
La calza sfilata sulla pietra,
ricurva nel buio come un cigno
a mo’ di svasatura guarda il soffitto
come fosse una rete annerita.
Due mari con l’aiuto di una parete,
con l’aiuto di un pensiero incerto
qui in qualche modo così divisi
che le reti da pesca nel buio pendono
vuote in questa profondità
ma aspettano tuttavia di venire a galla
grazie al filo che, unendole entrambe,
passa attraverso la croce della finestra.
Gialla, una stella riluce sull’onda,
si profilano le barche immobili.
Solo la croce ruota alla finestra
simile ad un semplice argano.
Verso la superficie da due vuoti
due reti risalgono
sperando: la croce le sposterà
e le lascerà andare in un altro posto.
C‘è così tanto silenzio che non si sentono parole,
che ad una finestra vuota pare
che la speranza di un ricco bottino
sia più forte dell’immobilità della casa.
Ed ecco nel buio della notte
alla finestra col suo chiar di luna
due orticelli sembrano un’onda
e il cespuglio di fronte al portico – un’onda schiumosa.
Ma la casa è immobile e il recinto
nell’oscurità si tuffa a mo’ di galleggiante
e un’ascia piantata nel portico
da sola fa la guardia ai tronchi affondati.
L’orologio stride. In lontananza
soffoca con un brontolio il motoscafo,
come schiaccia ostriche nella sabbia
con il piede un incorporeo osservatore.
Due occhi trasudano un grido.
Solo le palpebre, emettendo un fruscio,
nel buio li proteggono
come fossero ante.
Per quanto tempo affogare questo dolore,
travolgere con la parola a motore,
per concederle che come vaiolo si diffonda
sul caldo biancore dell’avambraccio?
Per quanto tempo? Fino al mattino? Poco probabile.
E il vento fruscia nel tentativo
di togliere il velo di gelsomino
dal volto aperto del cancelletto.
La rete è stata scelta, nei cespugli l’upupa
con un fischio anticipa il furto.
E in silenzio si blocca colui
che vaga nel buio sulla spiaggia.
(1962)
* su questa poesia compare per la prima volta la dedica “a M. B.”
a M. B.
Ho abbracciato queste spalle e sbirciato
quello che accadeva dietro la schiena
e vidi che la sedia spostata in avanti
era diventata un tutt’uno con la parete illuminata.
C’era nella lampadina una incandescenza intensificata,
sfavorevole per il logoro mobilio
e perciò il divano all’angolo scintillava
di pelle marrone come fosse gialla.
Il tavolo era vuoto. Il parquet luccicava.
La stufa era scura. Nella cornice impolverata
si è congelato il paesaggio. E soltanto la credenza
mi sembrava allora animata.
Ma una falena girava per la stanza
e deviò il mio sguardo dalla immobilità.
Se un tempo ha vissuto qui un fantasma
allora ha abbandonato questa stanza.
(Komarovo, 2 febbraio 1962)
Quando appare una nuova φωνή sorge anche un nuovo λόγος, appare una definita modalità dell’essere-nel-mondo, una definita modalità in cui il mondo incontra la storia, la polis, la politica e l’abitare il mondo, cioè l’etica. Questa modalità è una ontologia modale, sono i «modi» con cui interagiamo con il mondo che determinano il nostro essere-nel-mondo; il che implica una serie di pensieri, di azioni, di retro pensieri, di un fare, di pratiche, di passioni, di reazioni. Ad un certo punto, tutto questo conglomerato si trasforma in un nuovo stile, in un nuovo linguaggio.
Nella riflessione del Wittgenstein maturo, dalle Ricerche filosofiche in poi, è all’opera un tentativo di de-psicologizzazione del linguaggio, vale a dire un’indagine grammaticale relativa al modo in cui parliamo delle nostre esperienze «interne». Centrale, in quest’ultimo tratto del percorso wittgensteiniano, è il termine «atmosfera» (Atmosphäre): attraverso una critica di tale concetto, il filosofo austriaco analizza il nostro modo di parlare dei processi psicologici e, in particolare, della comprensione linguistica, intesa come esperienza mentale «privata». Contro l’idea che il significato accompagni la parola come una sorta di alone di senso, come un sentimento o una tonalità emotiva (Stimmung), Wittgenstein valorizza l’aspetto comunitario e già da sempre condiviso dell’accordo (Übereinstimmung) tra i parlanti. Il richiamo al modello musicale dell’accordo armonico tra le voci consente così di recuperare la dimensione atmosferica, auratica e coloristica dell’esperienza linguistica in cui si assiste a una «sintonizzazione» tra i parlanti coinvolti in un comune sentire, il cui luogo ideale è per eccellenza la forma-poesia.
Dobbiamo forse accettare che oggi il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, che in esso trovano posto come non mai le antinomie del contemporaneo.
Vero è che un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.
Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo: ma oggi la crisi si è stabilizzata, la crisi governa la crisi; i linguaggi artistici, e quelli poetici in particolare, sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e quindi invulnerabili; questi connotati, tipici del nostro tempo non devono affatto meravigliare, sono i connotati dello Zeit-Raum che è diventato un contenitore vuoto, contenitore di altro vuoto, i linguaggi poetici contengono un linguaggio invisibile, poroso, e quindi non fungibile. È come se la legge di gravità che tiene insieme le parole fosse diminuita; forse dovremmo accettare una filosofia «debole», che accetti di misurarsi con una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare poesia; forse dovremmo accostumarci ad accettare la «debolezza ontologica dei frammenti». Ed è quello che tenta di fare la «nuova ontologia estetica», che sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità, non da un sommovimento sociale ma sì da un sommovimento epocale: dalla consapevolezza della messa in liquidazione dei linguaggi poetici «rotondi».1]