Il Rapporto Annuale dell’ “Ombra delle Parole” nel 2014 documento statistico di WordPress.com
L’anno 2014 per il tuo blog [lombradelleparole.wordpress.com] – glinguaglossa@gmail.com – Gmail
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Gabriella Kuferzin è autrice completamente inedita, questa è la sua prima pubblicazione; è nata a Trieste nel 1964. Di madrelingua slovena, si è trasferita a Cittadella (PD) all’età di sei anni e ha studiato lingue straniere all’Università di Venezia. Insegna Inglese alla Scuola Secondaria Inferiore di Cittadella. Ama l’arte in tutte le sue forme che tende a sperimentare quando e come può. Dopo anni di depressione la poesia l’ha aiutata a trovare una dimensione e a tentare di capire se stessa.
Nota dell’autrice
Nelle poesie di questa breve raccolta, scritte in diversi periodi nell’arco di cinque o sei anni, scandaglio non solo gli anfratti del mio io ma affronto anche vaste tematiche, che vanno dall’essere poeta alla poesia in sé, alla filosofia, alla depressione, alla letteratura, ad avvenimenti accaduti come le bombe nella metropolitana di Londra, oppure scrivo semplici cartoline da Boston. Gioco con la lingua, con i ritmi, azzardo versi scrivendoli e riscrivendoli, scarnificandoli fino all’osso, e, rileggendomi, ne sono sempre insoddisfatta. E’ un mio difetto: dopo aver visto l’abisso, voler vivere troppo intensamente, come se ogni giorno fosse l’ultimo, voler provare tutto, magari senza concludere nulla ma, anche se per brevi attimi, gioire dell’ineffabile bellezza della mente umana. Quella degli altri e anche la mia.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Quando lessi queste poesie di Gabriella Kuferzin (propostami da Flavio Almerighi) rimasi molto colpito dalla asciuttezza della sua versificazione e dalla capacità che dimostrava l’autrice di utilizzare il lessico come pietre appuntite, come armi di difesa e di offesa; un lessico affilato come ossidiana quello dell’autrice, breve, preciso, scolpito. Con le sue parole:
«Gioco con la lingua, con i ritmi, azzardo versi scrivendoli e riscrivendoli, scarnificandoli fino all’osso, e, rileggendomi, ne sono sempre insoddisfatta. E’ un mio difetto: dopo aver visto l’abisso, voler vivere troppo intensamente, come se ogni giorno fosse l’ultimo, voler provare tutto, magari senza concludere nulla ma, anche se per brevi attimi, gioire dell’ineffabile bellezza della mente umana. Quella degli altri e anche la mia».
Una poesia che si immerge decisa nell’autoanalisi, alla scoperta di se stessa, una ininterrotta immersione alla scoperta del buco nero dell’esistenza con un coraggio encomiabile e ammirevole. Un tipo di poesia che ha come capostipite l’americana Sylvia Plath di “Ariel” e di “Lady Lazarus” e che da noi ha avuto dei tentativi di imitazione da parte di tante generazioni di poetesse ma tutti mal riusciti perché non è affatto facile mimare un tormento linguistico senza che vi sia un sotto stante tormento esistenziale. Nella Kuferzin invece si può percepire la genuinità di ciò che scrive perché l’autrice non cerca mai di mettere in vetrina i propri tormenti interiori ma anzi tende a nasconderli sotto il velo delle metafore. Complimenti.
Symphony No. 2
Un abbaglio
sul metallo
gelido dell’ala
ed è
un nuovo sole
fuori dalle nebbie instabili
da multiformi ansiti di vuoto
via dalla palpitazione ritmica
di oboi misteriosi
un volo oltre le nuvole
in un largo maestoso
dilatazione cosmica del tempo
battiti decelerati
si espande l’orizzonte
sugli ondeggianti afflati
plana la sinfonia e gli archi
ne danno la misura
e il mondo sottostante
diventa solamente
una reminiscenza oscura.
.
Symphony No. 2, Philip Glass
sul volo London-Esbjerg, 11.04.200
The Bostonians
Fra i due pinnacoli
del Longfellow Bridge si adagia
il sole prima di morire
scie di un rosso buono
caldo lungo il fiume
alle spalle boulevard francesi
nozze di Figaro sull’erba
e
abbracciate alla laguna sotto i salici
due gondole riposano sognando
il Vecchio Mondo oltre i grattacieli.
Underground
Mind — the gap.
ripeteva la voce sicura
ad ogni stantuffante apertura
di porta automatica
Chissà se lo dice ancora a chi
va nel girone dei deflagrati
a raccattar brandelli
di sorrisi e sangue raggrumato
mentre il vento dondola
fotografie impiccate
ad un afono “ecce homo”
di ogni lampione prosternato
su fiori lividi di lacrime.
E noi qui a disperdere parole
nel ragionare di teodicea
e di quale dio esecrare
e quando si spegne il televisore
cercare malamente di dormire.
Vorrei ancora solo quel prato a Regent’s Park
anestetico di margherite ingenue in cui
bere il cielo mimetizzata a palmi in su
mentre una bacchetta ritma un Maple Leaf Rag
e la domenica si srotola.
Versus
Andare a capo anche se c’è ancora
spazio, allagare quanti di acetilcolina
cortocircuitando sovraccariche sinapsi
divergenti di intelletto danneggiato
Giustificare acrobazie di salti
mortali su filigrane di rasoio, versi
impiccati sopra il vuoto esistenziale
di un’assordante afasia feriale
Impastare crete di significanti
a seccar su fogli degni solamente
di raffermare scrivanie malmesse
ad arte accartocciati su se stessi
e mai – lasciati entrare nelle teste
batte alle porte, urla mendico il poeta
e trova spranghe – sputa tutto il sangue
sulle incensate librerie di niente
e scarnificandosi le unghie scava
la sua fossa ancora troppo grande
per quello sterile cumulo di ossa
avrà un rottame di narcisi finti
e in croce un verbo, una sola voce
visse.
Ofelia
Occhi spalancati
di due fiori abbandonati
nel ghiaccio
del lago
stupiti guardate lassù
le nuvole scorrere via
su di un sorriso
imprigionato
di una primavera che fu
di un’estate che non sarà
Il sole non vi scioglierà
dalle orbite vuote
di chi ha vissuto
e smarrito
l’amore
abbiatene cura,
accarezzatela
di angelici petali
non le restate che voi.
.
Monossido di Carbonio
.
Eleganti spire di fumo
vestivano il corpo sensuale
snello rantolante nervoso
Maledetta vena di pazzia
che aveva pulsato fra i teli
fibrillata nei polsi incagliati
alle laccate sbarre del letto
. . .E tu con quella voce che Urlava Poesia come un uomo
Indossati i vermigli rossetti
E gli occhi incendiati di brama
d’amore carnale cos’hai fatto
. .Come ti sei permessa
di dare del tu a dio senza temere
alzare la testa altera combattere
e poi decidere quando tacere
. . .Come hai potuto
accodarti all’ignobile fila di
Suicide Vergini dei Grandi
Versi tu che potevi alzarti
Dai medesimi scranni dei vati
lanciando alla folla in delirio
scarpe rosse dai tacchi a spillo
incoronandoti i ricci d’alloro
. . .Se potessi ti ucciderei io.
Fard
A dadi si gioca la vita
Death sul Vascello di ossa,
la sua amante colore di lebbra
strappa spettrali vittorie
alle paludose Tombe
e urlare non serve – le Ferraglie
del Tempo Sospeso
vendicano l’empietà
di una esistenza
in assenza
di vento
in assenza
di pianto elucubrazione
e gravoso movimento
Sottrarsi alle passioni
disertare l’amore
assoluto per l’azzardo
di poter soffrire
lega il tuo Albatro
attorno al tuo collo
marcio putrefatto monile
su sacrileghi strati di fard
e vestiti sfarzosi
e dietro la pelle
un infinito
Niente.
.
Cavalli di Frisia
Lasciata cader l’armatura
alle ultime luci la sera,
o lavati inviolabili incanti
alle vene di debole aurora
uno spacco e torno disorientata
in terra di nessuno dannata
e non trovo più casa
e ancora li vedo arrivare
i furenti cavalli di frisia
fra nubifragi di filo spinato
e quell’eco di urlo strozzato
nel groviglio mi incaglio le vesti
e stupisco di sangue le mani
Ma dura solo un momento oramai
perché da dodici mesi sei tu
ad uscire da quella trincea
riafferrarmi le braccia e gli stracci
riportarmi oltre quel muro a secco
che sfiancherà la mia guerra
e clemente ricami gli strappi
mi raccogli i capelli e i brandelli
e mi baci.
A proposito di Heidegger
A stendere righe
incaute bisettrici
dell’anima
mi si svelano percezioni
psichicamente dislocate
tortuose sinapsi
metabolicamente alterate
astrusi ingranaggi
ellitticamente accelerati
avulsioni da rette parallele
insonni incubazioni
e travagliate germinazioni
di retorico nulla
o macrografico tutto
emorragie verbali
aberrazioni intellettuali
macerazione di sé
e sinestetiche
folgorazioni
Righe
. .di
. .grafemi
. .ingombranti
A volte vorrei
dissiparle alla scogliera
e riuscire a stare ferma
distesa
a prendere il sole.
Piombo
Spurio il sole dissecca
stracci di petali appesi
ad agonizzanti rimpianti
di un’estate dissolta
e allaga lenzuola aggrovigliate
ad avanzi di sogni lasciati
affossare nel letto
Scrivimi una poesia – mi chiedi
e non ricordo nemmeno il mio nome
in quest’altra risacca di piombo
slegate le braccia s’impigliano
in vesti e capelli, nei gesti
del non pensare
seziono curiosa le vene
al tagliere in cucina, niente
sangue né rivelazioni
quindi aspetto seduta il ritorno
del riflesso allo specchio,
delle mie perdute parole
nel frattempo vivendo i tuoi versi
mescolando amore e caffè
e sorrisi.
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Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli di Firenze ha pubblicato il suo ultimo libro, il poema nuovomondo, finalista al Premio Palmi, Metauro, Minturnae, rosa finale del Premio Marazza e vincitore del Saturo d’Argento – Città di Leporano. Fra le sue più recenti pubblicazioni: “Lettere lungo la strada” (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano di Belgirate), “L’oceano e altri giorni” (2005, già finalista ai Premi Libero de Libero inedito 2003, edito Guido Gozzano di Belgirate e Ultima Frontiera di Volterra e vincitore del Premio Minturnae Giovani). Una selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (“Poesía escogida”, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si è svolta dal 2007 al 2013 in collaborazione con la rivista Sagarana, nella quale ha proposto principalmente autori del Costa Rica e del Centro America, mai tradotti in Italia, e con alcune case editrici, che hanno pubblicato la prima traduzione italiana di Eunice Odio (“Questo è il bosco e altre poesie”, Via del Vento 2009, Menzione Speciale Camaiore per la traduzione) e la prima traduzione italiana di Laureano Albán, (“Gli infimi crepuscoli”, Via del Vento 2010 e “Poesie imperdonabili”, Passigli 2011, finalista Premio Internazionale Camaiore, rosa finale Premio Marazza per la traduzione). Ha pubblicato per La Recherche due ebook di traduzioni liberamente scaricabili: “Nell’imminenza del giorno” (2013) e “Ad ora incerta” (2014).
Dal poema nuovomondo di Tomaso Pieragnolo, Passigli Editori, 2010.
Nota al libro:
In un cerchio temporale e interiore continuamente aperto e concluso che comprende in sé creazione e distruzione, stratificate pulsioni di un mondo quanto mai reale e al contempo illusorio, il viaggio di ogni singolo essere verso l’inconosciuto confluisce nel flusso eracliteo di un’umanità vitale, errante, sempre più spesso incerta e confusa da esponenziali stimoli e vacui valori. Questo breve quanto intenso poema restituisce la visione di un luogo urgente e necessario, la consapevolezza che in questa epoca contraddittoria e cruciale solo l’Amore nel suo senso più ampio e terreno possa condurci verso un ‘nuovomondo’.
pagina 14
Forse il primo uomo e la prima donna
di colpo due colombe nella fitta
orditura, due strappi nella ripetizione
del castigo, scalzi appena eretti allo sbaraglio
della precaria luce immaginano
precipui un luogo futuro, bestiali
e spaventati ancora da improvvise
estinzioni e pazze circolazioni
di stormi, metalli e distanze;
così nudi addiacciano in strapiombi di gole
indurite e nel prodigo divenire
in frammento, mentre un bilico rapido
d’urgenze minaccia la disgregata
moltitudine e un perenne vento verde
colma franate frontiere e nascite
continuamente offerte. Caparbiamente
avanzano fra tutte le cose prescelti
con fortunale criterio, erranti giorno
dopo giorno e sopravvissuti al possente
stallo innescano l’impronta numerosa
che l’aperta asprezza muta, il corpo scricchiolante
contro l’ora e l’ereditato disordine,
bruciando ancora la netta cicatrice
che il giorno definisce in precipitosi
vertici. Ma gioioso è il creato nei suoi
molteplici fermenti, dilunga lingue mute
e selve commoventi.
pagina 15
Ma dimmi che cosa abbandona
cedendo l’ultima frontiera
l’itinerante nell’orma dei suoi piedi,
ogni momento sconvolto nella sua precedente
metà e la timorosa sopravvivenza
di ogni giorno come una memoria appena
afferrata nell’aria; un corpo conteso
e masticato dal grugno ritorto
del mare, sputato con resti
di zattera dalla plumbea gola dell’acqua,
sollevato cento volte con schiaffo
fragoroso nel saldo legame del sale,
riparato infine in mutevoli geografie
con verbo scardinato e scomposte ossa.
E nel culmine di fiumi respinti,
di scosse selve demolite, di un’orbita
che consueta frana riluttando uomo
e roccia, si decima il costante esodo,
l’orma plantare rimossa dall’urlo
del vento, il delirio culminante
sulla pietra che giunge ogni notte
macchiata dal siero di nuove estinzioni.
Ma sempre torna la luce come un lido e l’ombra
come una palpebra verde continua
a fermentare colori e reca labile
la pioggia i suoi celesti crini;
nell’interezza cresce il tempo e sogna
il recente popolo che la vita
non si smarrisce.
pagina 33
Scalzante è il passo, il muro appena
levato già rantola a valle e scoppia
la nuova falla sopra l’ultimo rattoppo;
incolume al bene, impermeabile
alla fortuna che cieca ti cerca
per evitarti, non c’è confine sufficiente
che contenga questo vagolare in terra
d’altri che non è più rotonda
ma sale verticale e dura
senza appiglio, perché possa concludersi
il giorno in mani escoriate e inutilmente
appese alla punta. Ma nella mancanza
dove solo prolifica il dolo sarà
così nascente la nuova coscienza
come ruga nell’occhio accecato da troppo
rapido appagamento, perché senza
fondare il fondo crolla il maestro
edificio e così la sorte di nascere
in buoni tempi allevati sulle macerie
del perdente e poco dopo sulla fame
dell’infante, ingurgitando tutto
nel sovrappeso di dolenti generazioni
senza più occhi che per il breve orto
e l’appagato interruttore.
.
pagina 43
Ma è questo l’ultimo uomo o il primo
se con deteriori forme e ripartito
errore disarticola il futuro in sboccato
rumore e permanente gorgo che precario
rende l’idioma e urgente, recando
intransigente miseria che dura
comprime e senza rotta l’ultima
palpitante stella nel vuoto che balza
eccessivo devolvendo il proprio declino;
e un minimo dubito può nascere
e nascosto, alla vista inabitato
affacciarsi, andando in cerca d’ombra essere
fronda, perché imbizzarrita appare la vita
e a volte precaria scalciando striglia
l’uomo che giace inerte nel suo orgoglio.
Cerca terra per un nuovo legno o solo
il possesso di un successivo
giorno, il luogo dove nessuno uccise
la colomba o errando d’incatenare
la programmata sventura con perseveranza
sterminata, perché l’uomo sia terrestre,
terrestre l’avvenire e una memoria
che non si offuschi, perché un giorno possa
nascere in origine dell’amore
contro stridi di smodato rumore, inetta
sovranità e abulica crescita
di sola materia che per se stessa
prova compassione e rimedio.
pagina 50
E che nelle tue mani io senta stridere
il bosco, la stilla costante che appura
come un astro la crescita del movente,
l’odore che notturno arrampica d’invisibili
linfe, o il rigurgito dell’ape sulla lingua;
e un mattino di recente autunno siano
i tuoi baci lungamente attesi per notti
di solo una immobile stella, stordisca così
il mio grido contro il minerale del cielo
e precisati in questa folle rocca senza
sentinelle sull’albero cieche giungano
le vivenze ai tuoi piedi, donna
dolce la tua testa mi sfoglia il petto
come un’iride caduta al fondo, descrivi
petali con la tua saliva ed è
un paese intero l’amore, è un indugio
attraverso il tempo, possiamo
tornare ad essere i primi con solo
l’ombra un pudico abbraccio se percorrendo
il parallelo incolume un bilico riduce
la nostra distanza, così io avrei
più mani per toccarti, dita
per raccoglierti, braccia per accoglierti
e nomi per destarti, potremmo essere
dove i pesci lisciano via, raggiante mia,
salto di gioia se tu mi distrai,
come una sete mi abbevero a questa
sola stilla che non si stacca, considera
le mie parole come un dono e fanne
un fascio di rami verdi ancora, affinché
dal mio sonno io veda accomiatarsi gli inganni.
.
pagina 60
Ma stride un rifiuto e snida luoghi
abbandonati, stringe nelle sue secche
mani contro la crudezza solo
una rosa che dissuona fin qui e l’equivoco
verbo a tutti sbraita con disabile
idioma, rivolge il suo costante
rovescio e in quantità trasparsa replica
al giorno una forma d’oblio che non termina,
uno stesso finale, la millesima
mostra di vana forza che divide
il colore, divarica il mese, istiga
il nesso e volge promesse; forse è il declino
di molti secoli, o l’arresa permanenza
nel senno di limiti e nella terra,
le età diversamente accumulate
in necessarie metà che sole
non s’aprono ed errando cercano
il disperso tatto. Ma è nello scoppio
rapido d’un seme la fronte del nitido
giorno, il frutto di fallibile
specie o forse solo il luogo che per te
voglio eternamente conservare.
pagina 62
Perché ero al tuo corpo destinato
come il nascituro alla stella più
lontana congiunta solo nel momento,
ero ai tuoi fianchi fusi aderente come
la nebbia al tronco dilatato e alle tue nari
una densa umidità d’un tratto inalata e forse
per questo non sono nell’esistere
incappato senza camminare, ho potuto
oltre vedere ciò che il tuo naso deciso
additava, più in là della rumorosa
terra e di dimore cumulate senza lemma,
per essere nuovamente un uomo e una donna
nella solitudine riconciliati,
spogliati con tutto ciò che vuole
sussistere e l’abbondanza disertare
del vecchio Dio senza nuovi frutti e da tanti
malanni giungere per una volta
all’inizio della vita.
pagina 63
Perché all’inizio della vita tende
ogni buona cosa, il fugato dubbio
o il decente perdono che l’ottusa
insistenza attanaglia, la madre verde
di rugiada estenuata e fresca
di nubi e di recenti piogge
che il suo nuziale attende perigliosa
ancora incerta tra l’amore e l’odio;
è il millesimato astro che non può
più esistere nemmeno un’ora staccato
dal suo eccesso, affinché ogni stilla viva
per sempre attratta da due roghi e della luce
l’esatto alternarsi, perché sia possibile
invece amarsi e più non sapere
se qui comincia davvero un nuovomondo
o se ciechi viviamo la fine del tempo.
Si trascrive per i lettori del blog un recente scambio di commenti tra Giorgio Linguaglossa e la signora Claudia Crocco sul sito “le parole e le cose” a proposito di un articolo della Crocco sulla poesia contemporanea. Crediamo sia interessante il modo con il quale la Crocco e la redazione del sito si siano sottratti a rispondere alle obiezioni di fondo espresse da Linguaglossa operando una censura delle idee, indice, non solo di debolezza teorica, arroganza e presunzione, ma anche di incapacità ad accettare il terreno di un approfondimento critico delle questioni di poetica poste.
LA CENSURA DI NATALE
Pur apprezzando lo sforzo dell’autrice dell’articolo, mi chiedo: come si fa a dedurre delle linee generali di sviluppo della poesia italiana contemporanea se si parte da due libri di ragazzi, lasciatemelo dire, molto modesti; davvero, lasciamo almeno maturare un po’ questi ragazzi e non affibbiamo loro delle responsabilità eccessive. I testi riportati sono più che eloquenti intorno al loro modesto bagaglio tecnico e maturità espressiva. Ci sono autori contemporanei di maggiore livello estetico da prendere in considerazione sui quali costruire un discorso critico, credo.
Se posso chiederti, Giorgio, quali sono? Tu da chi partiresti? Un saluto.
Gentile Gabriele Fratini,
in generale sono restio a fare dei nomi di autori di poesia contemporanei, chi ha curiosità in tal senso può rovistare nel blog lombradelleparole.wordpress.com che faccio con altri autori, ma certo una cosa va detta: è da molti anni che non vedo in giro un autore giovane (diciamo 30 o 40 anni) che abbia maturato una propria maturità espressiva, tutti più o meno scrivono in un buon italiano medio, mediamente coltivato; io cercherei invece in autori più anziani i quali hanno avuto il tempo di metabolizzare il mondo molto complesso di oggi. Potrei fare due nomi di poetesse morte: Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996) e morta nello stesso anno e Maria Rosaria Madonna autrice di un unico libro Stige (1992) e morta nel 2002. Tra i vivi io direi Anna Ventura, autrice che ha iniziato nel 1978 e che ha stampato quest’anno una Antologia Tu quoque (1978-2013) e, tra gli uomini, Roberto Bertoldo (che è anche filosofo) autore di alcuni pregevoli libri, Steven Grieco e Luigi Manzi. Ma, al di là dei nomi, mi sembra che la direzione di sviluppo della poesia italiana del tardo Novecento e di questi ultimi anni sia quella che io ho sintetizzato nella formula “Dalla lirica al discorso poetico” nel mio omonimo lavoro critico “Storia della poesia italiana (1945-2012) stampato con EdiLet di Roma . Il discorso critico sulla poesia italiana di questi ultimi decenni è ovviamente molto complesso e non può certo essere riassunto qui in poche righe, chi è interessato alla problematica della poesia contemporanea può consultare il blog sul quale scrivo.
Cordiali saluti
Grazie Giorgio Linguaglossa, leggerò ciò che trovo di questi autori, e il suo blog. Sono interessato ad approfondire. Tra lei e Claudia Crocco mi avete fornito molto materiale da leggere. Buone feste.
Francesca Diano
Gentile Gabriele Fratini,
trascrivo un mio commento fatto sull’ombra delle parole del 25 maggio 2014 alle 16.11=
«Sono particolarmente contento della qualità delle poesie di questo post: Antonio Sagredo, Annamaria De Pietro, Francesca Diano e Donatella Costantina Giancaspero ci offrono un tipo di poesia che si allontana e di molto dalla poesia che oggi va di moda un po’ troppo facile e, diciamolo pure, abbastanza scontata che tratta il “quotidiano” e il “privato”. L’intento dell’Ombra delle Parole è appunto quello di mostrare che c’è un altro tipo di poesia, che tratta tematiche e non tematismi, che ri-adotta le tematiche eterne, ad esempio quelle del rapporto che lega l’uomo contemporaneo con il Potere, e quella che tenta di decifrare(e leggere) in modo nuovo il Mito (e non usarlo in modo parassitario per abbellire una composizione).
Sono convinto che la scelta di un “tema” diverso è già in sé un atto ESTETICO e POLITICO, di contro all’omologismo che invade le scritture poetiche parassitarie che non pensano neanche a mettere in discussione i propri assunti di partenza. Per fare una poesia diversa bisogna prima pensarla, averla pensata lungamente; è fin troppo facile fare poesia di seconda mano, diciamo assumere come dato di fatto la “secondarietà” come un assioma basandosi sull’assunto che tanto il Novecento ha già detto tutto e che non c’è niente di nuovo a dirsi e a farsi. E allora, occorre dirlo in modo netto..e chiaro: c’è oggi in Italia chi fa, con ottimi risultati una poesia che non assume la “secondarietà” come dogma inconfutabile. La “secondarietà” si confuta da sola: chi continua a scrivere in continuità con la linea discendente di una tradizione che non c’è più tradisce soltanto il buon senso oltre che la logica elementare del pensiero.
È oggi possibile scrivere una poesia che non ricalca parassitariamente le orme di quella passata».
Sì grazie Giorgio lo avevo letto e sono abbastanza d’accordo. Ho lasciato un commento. Sto visitando anche il suo sito
Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc.
La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».
@Giorgio Linguaglossa
Non deduco linee generali a partire da due libri: mi pare che il mio discorso sia un po’ più ampio, e che vengano tirate in ballo altre opere. Inoltre, cosa le fa pensare che io non abbia costruito discorsi critici su autori (e periodi) diversi altrove?
Mi fa piacere che abbia avuto modo di esprimere la sua opinione e di segnalare il suo sito. Da ora in poi, però, verranno approvati soltanto commenti in cui si discute il post.
gentile Claudia Crocco,
le faccio presente che mi sono limitato a rispondere alla domanda di Gabriele Fratini. Peraltro, la mia riflessione era intesa ad approfondire e ampliare il discorso da lei avviato. Ritengo che avviare un discorso critico parallelo a partire dal suo post sia utile e interessante per chi voglia capire di che cosa si sta parlando. Forse lei intende la riflessione come un semplice commento interpolazione al suo testo, io invece ho un’altra idea del dibattito critico che credo debba essere una agorà dove si confrontano le tesi e non un luogo dove si emettono dei silenziatori.
Gentile Giorgio Linguaglossa,
se avessi voluto mettere dei silenziatori e non dare vita a un dibattito critico, non avrei approvato giudizi negativi sul mio saggio (un paio dei primi). E non avrei approvato cinque suoi commenti, nei quali il discorso critico si basa solo su citazioni da suoi testi (con l’eccezione di Adorno) e dal suo sito. Mi creda, non ho intenzioni censorie.
Mi pare che lei abbia anche risposto a Fratini e che nessuno lo abbia impedito.
Non vedo molta volontà di confronto, però, da parte sua.
Saluti,
C.
gentile Claudia Crocco,
comprendo perfettamente che il suo angolo visuale parte dall’esame di due autori della generazione degli anni Ottanta (la sua medesima) per valorizzarne il lavoro, forse è giusto così, ognuno parte dalla cognizione dei propri interessi, il suo lavoro interpretativo è utile, ma necessariamente parziale, e, per rispetto del suo impegno, non sono entrato a contestare o dimidiare il suo articolo o parti del suo articolo, che va bene così, ha dato il suo contributo critico a una serie di problemi veramente vasti e complessi. Però, suvvia, sia concesso anche all’interlocutore di turno di ampliare l’orizzonte del discorso anche a chi utilizza altre categorie di pensiero critico, non si richiuda a riccio entro il proprio recinto, da parte mia non c’è alcuna intenzione paternalistica ma chiedo che da parte sua neanche ci sia una intenzione censoria.
Gentile Giorgio Linguaglossa,
e invece si sbaglia. Parlo di due libri di miei coetanei, è vero, ma poi il discorso diventa più ampio, e altre opere vengono coinvolte. D’altronde, il Novecento è pieno di critici che compiono (senz’altro meglio di me, certo) la stessa operazione. Non penso affatto che parlare di opere della mia generazione sia limitante, né che conduca a usare categorie ristrette. Al contrario, mi sforzo di usare categorie che siano in continuità con la storiografia della poesia che ho studiato, e allo stesso tempo adeguate a ciò che si scrive oggi. Non so quanto mi riesca; però rifiuto del tutto il suo commento generico, superficiale, e paternalista. Ben venga qualsiasi commento puntuale, anche brusco, ma basta con questo tronfio tono condiscendente. Mi faccia pure le pulci, se vuole: you are welcome. Non approverò più commenti autoreferenziali in cui, per “ampliare gli orizzonti”, sponsorizza solo le sue opere e il suo sito.
Saluti,
C.
gentile Claudia Crocco,
mi creda, lo ripeto, non sono entrato dentro la sua argomentazione critica non per snobismo o per (come lei mi accusa) paternalismo, ma perché i problemi sono veramente molto complessi i cui nodi si possono rintracciare (se li si vuole risolvere) ben prima della generazione degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta. Prendiamo ad esempio l’opera del maggior poeta italiano del Novecento: Eugenio Montale. Partiamo da lì.
Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.
La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.
C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro sostiene di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.
Oggi va di moda
Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo “Satura” (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo
Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.
Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1968), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.
Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
25 dicembre ore 10,00
Claudia Crocco
@Giorgio Linguaglossa.
Intervengo un’ultima volta per dirle due cose:
1) il suo commento esprime molta presunzione. Questo sito dà spesso attenzione a poeti di valore, e di recente ha pubblicato svariate cose su Fortini. Non mi pare che lei sia l’unico a occuparsi in modo serio di poesia contemporanea, come sembra suggerire qui.
2) Non approverò più commenti di questo tipo.
Saluti,
C.
25 dicembre ore 10.30
Giorgio Linguaglossa
gentile Claudia Crocco,
lei è arrivata al dunque: con tono intimidatorio dichiara che censurerà (“non approverò”) ogni altro mio intervento “di questo tipo”, sottraendosi così al dialogo e all’approfondimento delle questioni estetiche che avevo posto con il mio contributo. Le faccio presente che io non ho espresso pareri irriguardosi o, come lei scrive, “Presuntuosi” nei confronti del suo articolo, anzi, ho scritto che andava bene ma che occorreva ampliare la riflessione sulla crisi della poesia e retrodatarla agli inizi degli anni Settanta. A questa mia legittima obiezione lei non ha risposto. Le ricordo che è lei l’autrice dell’articolo e se un interlocutore le pone una questione (fondata o infondata) è lei che deve rispondere con un approfondimento o una precisazione. Il suo diniego a fornire alcuna risposta è indice di un atteggiamento sprezzante e irriguardoso non soltanto nei miei confronti (che avevo posto la questione) ma nei confronti di tutti i lettori del blog.
Chiedo infine alla redazione del sito se è lei che può decidere di censurare una discussione o se, invece, questo compito spetti alla Direzione del sito.
E questa è una domanda che pongo alla Direzione del sito, che, spero, non vorrà sottrarsi alla mia legittima richiesta. Preciso, inoltre, che anch’io sono direttore di un blog e che non ho mai censurato nessuno tranne commenti che sfioravano il codice penale con frasari offensivi o diffamatori.
cordialità. Giorgio Linguaglossa
Risposta della redazione del sito.
@Linguaglossa
(gs)
Antonio Coppola è nato a Reggio Calabria vive a Roma dal 1970. Si laurea all’Università di Roma La Sapienza in Lettere Moderne; giornalista-pubblicista dal 1972, ha scritto su quotidiani Nazionali, quali: Momento sera, Avanti, Il Secolo, Giornale d’Italia, Giornale di Calabria e riviste: La fiera Letteraria, Il Veltro, Libri e riviste d’Italia, La Vallisa, Capoverso, Lettere Meridiane, Quaderni di Rassegna Sindacale e Medicina dei Lavoratori (editi dalla CGIL). Ha pubblicato Terre al bivio; Frontiera di maschere (con pref. di Saverio Vollaro) in successione: Caro Enigma, A colloquio con il padre, La memoria profonda, Da Emmaus le parole, Morte ad Halabja, Gli angeli del Bonamico, La Poesia nella Scuola (incontro con l’autore), L’ombra dei gigli infranti, Nei vivai di Dio. Di recente, a cura dell’autore, esce La luce trasgressiva e, successivamente, Voci contro nella poesia contemporanea italiana e straniera. Ha fondato ed è direttore responsabile di foglio di poesia e Quaderno quadrimestrale di Poesia Cultura letteraria e Arte. Attualmente è direttore della rivista di letteratura I fiori del male. Gli sono state dedicate due monografie di approfondimento alla sua opera poetica, la prima di Maria Grazia Lenisa, l’altra, più recente, da Francesco Dell’Apa. Ha scritto saggi su autori italiani e stranieri.
Commento di Paolo Carlucci
L’orizzonte credo più autentico entro il quale collocare la poetica di Antonio Coppola sia quello di un impeto vitale che si fa onda di storia, cellula di ricordo. E’ cuneo di forza in lui l’accostare il fuoco barocco della parola-immagine allo stordimento del presente. E’ in questo iato che l’impeto lirico, appassionato e struggente si fa in Coppola cifra di uno sradicamento, c’è sete di una ricerca nella rovina di un’onda storica che, spezzandosi, rinvergina il suo sogno poetico, intenso canto di una memoria sentimentale e sociale. Queste riflessioni scaturiscono dalla lettura dei suoi versi, editi e inediti ed ora raccolti in un volume corposo, anche in virtù di traduzioni in inglese e francese di alcune sillogi che provano del Nostro la fedeltà alla Musa. Poesia / Ti allevo da prima il diluvio. Sin dalla seconda raccolta, Frontiera di maschere(1978), Antonio Coppola rivendica come sua radice di poeta, l’urgenza lirica. La seta dei ricordi domina, infatti, molte delle sue vedute del Sud. Fermo al tuo giorno d’ognissanti,/ ricordi il mattino che vedesti cantare/ la civetta?… La casa ha un lontano sapore di anice/ rigida balaustrata–/ t’appartiene un grumo di memorie, un raspo di uva saccheggiata.
Il vento del mito del Sud lo affascina, spaesandolo però come apolide della memoria. Pure nella folla di un’umanità di maschere, cappelli abbassati in questa giungla divoranti semidèi, irrompe il bisogno di una passione totale, che smalta di etica verghiana le sue amare riflessioni sull’uomo solo ruggine di tempo colto nella sua somiglianza al contadino strapaese / chiuso in fradici ricoveri,/ la lezione dura al vento, al mare/ il pescatore infilza il sarago. Offre spesso squarci descrittivi di paesaggi meridionali graffiati dalla fiumara del tempus edax della storia, il suo io è già una maschera che nel ricordo ha la sua essenza. Nel piano ondulato di prospere viti / l’occhio ballerino dell’allodola / si grazia di giallo… Lavora il calzolaio alla suola battuta… Un contadino mi racconta come quest’anno la filossera ha distrutto il frutto sulla vite. Sale da questi paesaggi dell’anima una sete di domande, la ricerca nella pelle degli umili il mistero di un Dio ucciso e risorto come pungolo di un divenire, essere nella storia. Lo testimoniano ampiamente numerose liriche sia inedite che più recenti come quelle raccolte nella sezione Paesaggi, folgorazioni e sradicamenti (2014) e cresce questo sdegno in alcune importanti poesie di testimonianza civile dedicate ai naufragi dei migranti a Lampedusa, dove la voce dei morti si fa corale atto d’accusa contro la falsa Italia matrigna e ha reminiscenze classiche come il ricordo delle Sirene.
Questo impegno di poeta civile e appassionato sempre si condensa nell’ultima parte dell’opera, dedicando un vero libro vibrante di sdegno alla tragedia dei curdi massacrati da Saddam Hussein in genocidi verso cui l’occidente spesso ha chiuso colpevolmente gli occhi in nome di realpolitik internazionale. Un epicedio in undici stazioni dove maggiormente sentiamo quella pelle della vita farsi maschera, simbolo nella morte atroce domanda più spinosa di pace e di amore. Per l’amore di Dio non lasciate sola una madre, / un figlio ha sotto la terra / ucciso dai gas tossici di Saddam/.Siete tanti fantomas che avete terrore/ e lo stesso terrore con cui / mi guardi e io ti guardo. E in questo tragico muto guardarsi di maschere c’è forse più vero e duro quel canto di vita nella storia che il poeta ci dà come una domanda aperta.
(Paolo Carlucci)
Lungo i ginepri
Scenderà questa notte opaca,
spalancata intorno al fosso.
Nella resta dei limoni un lepre
si sgarbuglia dalla cenere di un falò.
Lungo i ginepri in fila indiana
sale questa notte già cielo
come il vento come il fiume
scappa e non sa dove fermarsi.
Scende dalla strada il giocoliere
su un cuscino di foglie,
dal laghetto la murena
in una subacquea acrobazia
sparisce nel biancore delle pietre.
.
Gli uccelli nel ronco
Il tempo era di Quaresima canto di nenia
quando i suoni a mezzodì spalancano
forcipe di pettine; la crisalide appesa
nel becco d’una averla nell’afrore dei fieni.
Non esageravo nel contare gli uccelli
nel ronco in un profumo di sambuchi.
Il dolce aere calmo più d’un campanile,
c’era pure un silenzio dorato che traversava
il rumore dei morti, isolava la nostra quiete
in un ricordare sinistro.
Fu un suono semplice dell’aria
a far cambiare le nostre risate
in nenia di gruppo; la morte rumorosa
all’oltraggio dei vivi. Siamo qui
ad ascoltare quella musica che ebbe un dolore
sordo, inquieto: giorno e notte la faccia
dura della luna l’avevo davanti china
sui nostri persi volti gelidi, sul prato
odoroso l’altra morte sovrumana.
.
Una Scilla variopinta
Presto svanirò in questo mare
di triboli e curve di cielo
in una Scilla variopinta
addormentata sul sentiero fiorito.
L’onda scavalla i recinti
le azalee nane paiono ruscelli
si trascinano fino agli ulivi della Piana.
I tuoi capelli d’oro sopra l’acqua
brillano da un capo all’altro
e il gracidare acuto dell’ilo
si ode tra i sassi roventi.
Nuvole abbrancate
Questi giovedì di penitenza
si schiantano nelle cento valli
in un cielo minaccioso; sui crinali
novembre rovescia l’ombra dei morti.
Nel buio del fogliame s’intravedono i colli
nella celeste indifferenza. Tra i rovi
è impigliata una cinciallegra lungo
la strada dei pruni storti nelle macchie.
L’Aspromonte agro e temuto celeste sonno
ha riammesso la vita dal suo inferno. Accanto
le nuvole abbrancate alla Calabria.
.
Dio è morto?
Non saprei quale strada rifare
per cercarti Dio, sopra le selve
le foreste o tra gli spazi infiniti, (nell’attesa?)
Ti cerco nella voce che canta il creato
per rintracciare la strada del mio paese;
che ne faccio del tempo seminato.
La terra del mio paese piange,
certo che nessun Dio più nascerà;
la terra in cui sono nato
è il più dolce guanciale.
Sono già deserto: il roveto brucia,
placa Signore la sgradevole sorpresa,
eri l’accordo mio di tutti gli uomini.
Gli uomini ti hanno ucciso,
ti abbiamo ucciso mio Dio!
Si è spezzato il grappolo, sei morto:
fa il miracolo, inarca gli orizzonti
dividi le acque dalle acque,
fai dell’Uno che sia Tua somiglianza,
salva l’innocenza, le nostre anime.
Una Parca
Dalle casematte torno alla strada
frequentata che porta alla carrabile.
Azzurra la trasparenza dell’acqua
nel luogo in cui si spande la luna,
una Parca lavorando la tela
spezza il filo della vita:
furiosa così non l’avevo mai vista.
In questi sassi siedo ero e sono
l’ultima cosa che mi rimane.
.
Il tuo corpo caldo
Mia amica Telka ti scrivo
nella sonorità insonne delle ore
mio custodito ricordo del tuo corpo
caldo che le mie mani raccontano.
Ti scrivo in attesa di un paradiso
cui conviene restare e aspettare,
sacrifico le distanze invasate di verde
per te in questo affocato inverno.
Ti scrivo nelle adunanze delle anime
per giungere insieme a una soglia
intenerita nel mio calore igneo.
.
Madre prudente
Mi viene in dono, madre,
quell’attimo vivo che non si ripete
né la voce di quando c’eri;
resterò solo in questa avara terra.
Quanto hai patito prima di me
nel vuoto e nel bisogno
di aggrapparti a noi a quell’onda
che ci separò. Quanto il tuo cuore
fu disaminato cruccio non lo saprò mai.
Dall’oblio avrai sollievo non da noi
ma da Dio -tunica rossa di gemme-
Madre prudente non ti chiederò
altro che restare giorno e notte vicino.
Un giorno che non sarò mai esistito
mi camminerai accanto in terra incerta.
Ho ripassato i ritratti familiari
Nella luce dove tutto è prevedibile
la memoria ha un segnale che si avverte.
Ho ripassato i ritratti familiari, le pareti
dove appesi rimasero i quadri, la chiesa
dove andavi a genufletteti. “L’aria
è spenta, il tempo sembra un teatro dismesso
un fondo opaco nelle acque buie
del nostro sonno”. Spaesato nel paesaggio
la casa ingoia ogni imago.
Non sono lieto dei miei ricordi:
cammina dentro l’ombra della notte
il mio sarcofago che deambula.
.
Ti amerò in paradiso
Ora ch’è finita la stagione dei lampi
ti amerò in un paradiso lontano
con le mie settanta primavere.
Ancora da solitario inamabile
mi tufferò nell’anima
nell’imponderabile sogno
per poi benedire le cose perdute.
Su ogni antera di papavero
ci sei tu, rosso palpito vespertino
a bruciare mille e poi mille corolle.
Afferrerò la speranza -cellula dea-
in supplente e squallido contrario
sul filo di una condanna annunciata.
Un fato greco
Nel cuore di due mari
ho edificato la mia Itaca;
di giorno il grecale da’ staffilate
alla mia isola oltre il promontorio
di Scilla; dai terrazzi agguanto il sole
con le mani ma è solo illusione di mare.
Vengo di rado fanciullo bianco
per terre segrete che non conosco,
un fato greco nel mio cuore povero
ma felice, oggi inaspettatamente ferito.
.
.
Provocazione di poeta
E sotto forma d’amore
che ho inquinata l’anima,
ma qui taciuta perfino la falena,
che sia Dio l’ossessione o bellezza?
E’ certamente il guizzo,
l’epilogo il cui delirio
fu provocazione di poeta.
Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana
Massimo Giannotta è nato nel 1949, scrittore, critico, traduttore, vive a Roma e si occupa di editoria, di teatro e di televisione. Collabora con diverse Case editrici e riviste, è redattore della rivista on line ‘Le reti di Dedalus’. Ha seguito alcuni settori del Sindacato Nazionale Scrittori. È fondatore dell’associazione culturale La città e le stelle. Dopo le prime prove: Nostra Patria, 1981; Il Ventre della Notte e Libro di Metamorfosi del 1993; ha lavorato per circa dieci anni alla realizzazione di un itinerario di ‘scrittura sperimentale epica’ costituito di quattro libri: Portolano, 1998; La conta di Lancelot, 1998; La fortezza marina, 2001 e il Ciclo della crudeltà, 2006. Nel 2009 ha pubblicato: Incerte latitudini. Nel 2014 ha pubblicato Protocolli di autodifesa. Ha al suo attivo lavori di traduzione da varie lingue e Galassia romana, 2001, ricerca sulla poesia a Roma.
Commento: scrittura come navigazione
Ci sono libri che somigliano a cantieri, a officine: come per la città di Tecla descritta da Calvino, ci si chiede, osservandoli, quale sia il senso del costruire, quale il progetto. Gli operai non rispondono, sono troppo indaffarati. Solo quando scende la notte, indicando il cantiere, dicono: ecco il progetto. Così, i Protocolli di Autodifesa di Massimo Giannotta sono a un tempo il cantiere e il progetto.
Da anni, Giannotta persegue solitariamente e con tenacia una forma di narrazione che mescola versi e prose, documenti d’archivio, testi specialistici, epistole: “il riciclaggio, la reinvenzione di materiali ‘trovati’ come oggetti, come reperti, si direbbe talora come relitti” ha scritto Mario Lunetta a proposito di Ciclo della crudeltà (2006). E “relitti” è un termine non casuale, se si considera che al centro del lavoro letterario di Giannotta c’è la tradizione del grande romanzo di mare, la linea Melville-Conrad, la fascinazione per i diari di bordo (ancora in Ciclo della crudeltà, descrive il presente – le notizie funeste, il traffico per le strade della città – come una traversata marittima: «pressione 1024 millibar, in aumento / vento da NNW, mare mosso / Mare di auto lungo le tangenziali».
Senza il mare – ma un mare mai solo astratto, mai solo metaforico – è impensabile la produzione di Giannotta: da quel Portolano di mari iperborei (1998), con le sue mappe e rotte, con le sue affascinanti “note di meteorologia”, dove la descrizione dei fenomeni atmosferici finisce per somigliare a un inventario del visibile, con le pagine di calcoli, gli inserti di scienza nautica, alla Fortezza marina (2001), con un Ismaele evocato già nell’incipit, con le «procedure d’imbarco», le istruzioni per il caricamento dello stivaggio e le sue notizie di naufragi, si ha la netta impressione che per Giannotta la scrittura sia navigazione. E se per Conrad nascere è cadere in mare, Giannotta non dimentica mai che come Sindibàd o Robison Crusoe in agguato o alle spalle c’è sempre un naufragio. «Quando feci naufragio sull’isola, dopo aver ripreso le forze, esploravo il luogo dove il mare mi aveva gettato» si legge nella sezione “Storie del porto” in La fortezza marina, e mi pare che centrale sia quel verbo all’imperfetto – «esploravo» –, perché ogni libro di Giannotta è la traccia, il referto di un’esplorazione. Avanza, osserva, prende e riprende le misure, sosta, traccia mappe, ne traccia ulteriori, raccoglie indizi, voci prossime o remote, scruta l’orizzonte, individua un approdo. La struttura stessa del suo lavoro – pensata per “cicli”, per tessere di un insieme ampio – è come l’itinerario di un unico, lungo viaggio. Carico di “incerti” come ogni viaggio – e su questo punto si aprono i Protocolli di Autodifesa, con un prologo-sommario che squaderna al lettore scritture che evocheranno confini, imbarchi, rotte e approdi.
La suggestiva cartina degli «itinerari e luoghi della scrittura» disegnata da Giannotta (esperimento già presente in Portolano) ha al centro, in alto, il «mare incognitum»: le linee del viaggio, dei viaggi possibili, in quei dintorni si interrompono. Ai margini in alto e in basso due scritte segnalano «Qui c’è la guerra». E lampi lividi di guerre aprono il racconto: «E i morti? Cosa suggeriscono i morti che non hanno parole?». Sono pagine nervose, scandite da un segnale orario insistente, che offrono una prospettiva dall’alto sulla catastrofe: è come vedere l’Angelo della Storia, l’Angelus novus di Benjamin volare sopra le macerie. «Quando saranno stanche le tue ali – scrive Giannotta –, come sono stanchi i tuoi occhi, non troverai un nido dove posare, non troverai nulla che accolga la tua immensa stanchezza».
I bruschi cambi di tema, e di tono, sono – qui più che nei libri precedenti – il tratto essenziale di una narrazione che procede per accumulo, a strati: il risultato non è un collage, ma qualcosa di molto diverso. Un flusso, una tensione progressiva, un approssimarsi/tendere a (una meta, un approdo appunto: ma quale esattamente?). I versi soccorrono la prosa, le fanno da cassa di risonanza. Su tutto grava un cielo minaccioso, piove, piove incessantemente, e «le parole sono color della pioggia», le città sono flagellate da piogge acide: l’umanità è una folla confusa, caotica, appestata. Anche gli uomini sono navi, o relitti. «Raccogliamo quello che è rimasto e cerchiamo di trasformarci in un’altra nave. Sempre che ci riesca: il tempo è ormai contato». È carico di pietà lo sguardo di Giannotta: «Kyrie, pietà» scrive a un tratto, e riscatta dall’oblio, pezzo per pezzo, il materiale recuperato dopo il naufragio di una ipotetica, novella nave Argo.
Protocolli di Autodifesa dilata il tempo e lo spazio, ricongiunge il mito al presente, lo reinventa, recupera storie lontane e notizie di ieri, mescola calcoli, brogliacci, diari, lettere, dialoghi esistenzialisti, dispacci su una grande Peste in arrivo, che il Potere si ostina a negare. Giannotta è un visionario che sfida ogni testo e il suo senso già mentre compone, accumula, riusa, traccia, cancella, poi segna di nuovo. Se il mare si acquieta per un attimo, ricorda; o scrive d’amore. Ma il mare è quasi sempre in burrasca, non sembra amico nel suo maestoso splendore, è il luogo che un giorno, diceva Borges, ci dirà chi siamo. «El mar, el siempre mar», che c’era ed era prima che il tempo si coniasse in giorni, come scrive ancora Borges. «Prima o poi il mare arriva dappertutto» aggiunge Giannotta in una delle pagine più belle e ispirate: «Prima ci pare di sentirlo sciabordare nelle sentine, di percepirne l’odore nei gavoni, come se lentamente salisse entro di noi, o meglio come se inevitabilmente ci trovassimo fatalmente a sprofondare nell’oblio del suo grembo».
Così, chi credeva impraticabile il grande romanzo di mare nel presente dovrà ricredersi: Giannotta l’ha prima smembrato e poi ricomposto a suo modo. E il mare non è più solo il mare, in questa sua scrittura multiforme e burrascosa.
(Paolo Di Paolo)
(Massimo Giannotta da Protocolli di Autodifesa empiria, 2014 pp. 158 € 15)
Canzone delle terre di confine
Noi
che camminammo a lungo
tenacemente procedendo
nelle imperturbate solitudini
strette nel gelo
dell’aria cristallina,
da questa altura
da cui lo sguardo spazia
pellegrini
di una ricerca senza fine
cautamente mischiando
dei nostri passi il suono
a misurare solitudini alterne
nelle sere incantate
nascosti dentro la notte
uno all’altra donando
effimeri sospiri.
Ci vedrà l’alba livida
a separarci di nuovo
a inseguire senza riposo le nostre esauste chimere
e sotto la falda del cappello
l’aria tersa del bordo
nel cammino
gelosamente a conservare.
*
Noi che sopravviviamo qui
in questo posto ormai inabitabile
in perpetuo sinistro carnevale
depredato dai saccheggi e dalle scorrerie
dentro questa sorda, insopportabile
macchina di tortura
tra fiori di plastica
e fumi fetenti
frastornati dalle voci degli imbonitori
dai venditori di merce avariata
dove i televisori a tutto volume
chiamano
a comprare, comprare e comprare.
Noi abitiamo qui
ogni giorno
inevitabilmente
dentro il nostro stesso esilio.
CANZONA SCANZONATA
della fine dell’amore
Fiore dipinto
dicevi a tutti che m’amavi tanto
ma non m’avevi mai troppo convinto
Fiore dipinto
Fiore de pianto
l’amore tuo era soltanto finto
a sotterra’ l’annamo ar camposanto
Fiore de pianto
Fiore gentile
doppo che so’ salito pe’ ‘ste scale
nel letto tuo so’ stato fin’ aprile
Fiore gentile
*
Siamo noi
cittadini di città grigie
flagellate dalle piogge acide
sperduti
tra folle che brulicano cieche
in questi luoghi
dove s’incrociano innumeri segrete appartenenze
cupole
in perpetua, sanguinosa lotta tra loro
libera interpretazione della concorrenza
dove s’incontrano in interminabili code
le grigie confraternite dei questuanti
in fila per qualche cosca
per qualche ‘ndrina
per qualche comitato di malaffare
sgomitando
tra i clientes
tra i sanfedisti
i razzisti
i leghisti
i tronisti
il trust dei cavolfiori
il festival del canzone
i principi di dinastie squalificate e indegne
con le loro corone di latta.
in attesa della propria briciola,
del proprio boccone
scegliendo con pazienza
una collocazione tra i parassiti
tra quelli
che di qualcun altro sono più bravi
e sanno fare meglio il mestiere di boia.
Lune calanti
La luna è mutilata questa notte
come noi
intenti nel ricordo
delle prodighe lune
ricolme come pesche
quando s’aveva voglia di cantare.
Le stanze del Minotauro
Ritorno per noi non sarà
per noi che penetrammo
nel grembo oscuro della terra
non madre
ma matrigna
a cercare le nere stanze del mostro
con l’azzurro rimpianto del mare
misurando
l’inadeguatezza della lama del pugnale
a cercare la bestia
che, dicono,
si senta bramire orrendamente nel fondo
ma il cui urlo immaginiamo soltanto di udire.
Forse
a noi destinato
il silenzio
mentre l’esile fiamma della lucerna
riesce appena a spartire il buio d’un passo
è dolente il ricordo si Ariadne
rapita dal rosso amore
dall’amore che tutto accende e tutto crudelmente brucia
di cui noi ereditammo
solo la fredda cenere
e l’oscura pena
non il filo
che doveva guidare il ritorno.
Terza Luna
Al bar della terza luna
frequentato
da gente poco raccomandabile
accanto al bevitore solitario
al barista assonnato
a cui la donna con la faccia tragica
dice della luna piena
dice
e dice
come in confessione
e forse nessuno l’ascolta
tento di ubriacarmi
ma ho voglia di fuggire
mentre fuori
nell’ombra
una città di tombe aspetta con infinita pazienza
nel plenilunio
sembra che anche i morti gridino
*
Materiale recuperato dopo il naufragio:
Un rotolo di gherlino
Sei braccia di scotta
un coltello spuntato
Un telo impermeabile
Una cappa
Un lacerto di vela
Una banda strappata
Un bugliolo
un remo
Una scatola di emergenza con
. 10 ami assortiti
. un rotolo di lenza,
. un eliografo
. fiammiferi antivento
. un ago da velaio
. filo cerato da vele
. tre razzi di segnalazione
Legname vario
. pezzi di fasciame
. un frammento della falsachiglia
. due bagli quasi completi
. una scheggia della coperta
Un mezzomarinaio
Una sàssola
Una giara di olive
Una scatola di galetta.
Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ – che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso – εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo”, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)
Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall’infanzia.
Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa(Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), Il fico sulla fortezza (Fazi, 2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì). Nel 2010 è uscita un’antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010 (Poesie, Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum). Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia(L’Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). E’ stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui principalmente inglese, spagnolo, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane (anche scolastiche) e straniere.
Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana
Mentre camminavo sull’isola
e guardavo il mare azzurro
quieto e luminoso, ho pensato questo:
“Isola, noi passiamo velocemente, come passano
le stagioni, tu pure però ti trasformi,
cresci, diminuisci, sei stata un tempo sepolta
dal mare completamente,
e un giorno tornerai a esserlo
così le tue colline diminuiscono
e nuovi monti vedi nascere,
senza dire che un asteroide
può colpirti e per sempre annientarti,
così per te sono in pena…”.
“Non essere in pena per me
se devo morire morirò
però mentre viviamo cerchiamo di stare tranquilli,
guarda questo sole tiepido e il mare
azzurro, e guarda come fioriscono le mie colline”.
“No, noi che moriamo
e che cadiamo uno sull’altro come le foglie
noi ti salveremo da morte
e se un asteroide ti minaccerà
noi lo distruggeremo prima che possa toccarti;
se il sole, esaurito l’idrogeno,
si espanderà fino a noi
noi incanaleremo la sua energia
da qualche altra parte, e tu rimarrai illesa
perché sai, ci siamo affezionati a te, isola,
e non permetteremo mai più
che qualcuno ti faccia male”.
Torno ancora qui, bar del Grìgolo
e mi siedo sulle stesse sedie,
il mare vibra e il caro odore dell’aria
mi raggiunge, e lo Schiopparello, terra dei miei avi,
vedo, che di vino profumato
riempiva le cantine degli avi
e di grano i granai.
Se ti vedesse adesso il nonno, direbbe:
“Come stranamente selvatiche sono
le campagne, e quante case le ingombrano,
e se le campagne sono abbandonate
perché tante case?
Quale terribile catastrofe il mio
antico luogo natio ha devastato?”.
“Nonno – direi – un’economia più redditizia
ha trasformato l’isola: il turismo;
tutti vengono a vederla, tutti bagnarsi
vogliono nelle sue acque trasparenti;
gli elbani sono diventati ricchi,
ognuno ha molti beni e è contento”.
“Se sono contenti, sono contento
anch’io – erano tanto poveri –
pensavo anch’io che un futuro
più luminoso meritasse l’isola,
certo non so se in tutta questa confusione
sarei contento a vivere, ma vedi nel tempo
ogni cosa si trasforma e è difficile
anzi è impossibile fare paragoni”.
“Caro nonno, che siano più contenti
i tuoi compaesani non lo saprei dire
perché, è vero, hanno beni, e non mancano
di cibi e vesti ricercate, e agi
ma che la loro vita sia migliore
questo non lo so dire, e forse è impossibile
come dici tu, fare paragoni”.
Il nonno guardava i suoi campi ora attraversati da strade
e occupati da ville e stabilimenti
e gli venivano agli occhi le lacrime
e mi diceva: “Sono contento sai
di rivedere i miei luoghi anche se sono cambiati,
ma così come vedi un figlio cresciuto o invecchiato
non gli vuoi meno bene
così questi luoghi mi sono sempre cari
e in loro, e in me, niente è cambiato”.
E vedo ancora l’isola galleggiare
nel suo mare, mentre mi allontano.
“Isola, non ti voglio lasciare”, le dico
e lei mi risponde: “Vai, devi andare”
ed poi mi dice: “Ogni volta che sei venuto,
che per caso io non c’ero?
Che non ero sempre qui, al mio posto?”.
“Sì, isola – rispondo – ogni volta che sono venuto
tu eri sempre qui, e mi aspettavi”.
Con la mano accarezzo i monti, e la vorrei stringere,
ma devo andare.
“Isola, ma quando morirò, ti rivedrò?”.
Ma lei già non mi rispondeva più,
forse ero lontano e non sentivo la sua voce
e c’era un velo di nebbia, tra me e lei,
e il rumore della nave.
Forse mi rispondeva, ma così piano
che io non potevo più sentire.
Ma poi pensavo: ma se lei se ne vuole andare,
ma perché la devo tenere?
perché deve sempre stare a aspettare me,
se ha un desiderio di viaggiare, perché non lo può fare?
Vedi, le persone vanno e vengono
tu invece stai, e non ti muovi mai.
Se vengo adesso alle tue rive,
tu sei sempre lì, dove eri.
Se dormo dentro di te, m’alzo e vado in un punto
il mare è sempre lì, davanti a me.
Vorrei sedermi davanti al mare
e non vorrei alzarmi più.
È mattina presto e il tuo odore
penetra nel mio corpo,
ti guardo che ti muovi, a volte ti riposi,
a volte invece ti agiti.
Il tuo respiro m’è caro, e non potrei vivere senza di lui.
Dalle vallette lontane mi chiami e mi dici
“vieni nel mio grembo, dormi dentro di me”.
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginariodi Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Giuseppina Di Leo. Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959, sono laureata in Lettere; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Mie poesie, un racconto e interventi di critica letteraria sono ospitati su libri e riviste (Proa Italia, Poeti e Poesia, Limina Mentis Editore, Incroci), nonché su blog e siti dedicati alla poesia. Dieci sue poesia sono state pubblicate nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016, pp. 352 € 16)
A proposito di Utopia
Nel mondo vivono infiniti altri mondi, tutti carichi e intrisi di soggettività. Alle volte l’unione tra le parti è una chimera (come nel caso in cui si sprofonda nello sfruttamento dell’uomo da parte di un altro uomo, e come nel caso delle guerre fratricide – e tutte le guerre hanno questa caratteristica malvagia in comune); altre volte far convergere i punti di dissidio è il tentativo esperito nato dal bisogno di sanare la frattura che ci portiamo dentro dal nostro “essere gettati” nel mondo. Ma, quando la percezione dell’abbandono si fa chiara, ecco che comprendiamo la ricchezza contenuta in noi stessi e così anche la ricchezza e la bellezza di ciò che ci circonda. Sarebbe ideale vivere fraternamente. Con le proprie idee così diverse (religiose, politiche), poter insegnare ai più piccoli che la diversità è un dono di cui aver sempre bisogno, il pane e il sale della civile convivenza e perciò anche della vita. Da questo nostro minuscolo vivere troveremmo l’agognata immortalità. Dalla mia attenzione al mondo, mediata dalla necessità di esso, nasce questo mio bisogno di poesia.
(Giuseppina Di Leo)
*
Un enorme gatto grigio, se ne stava seduto
immobile nell’atrio mentre la pioggia lo bagnava
sembrava non sentire lo schiocco delle gocce
cadergli addosso. Strana scena, pensai
ed immaginai me stessa nella pioggia
così provocante il cielo a una mia reazione
immediata di autodifesa. Ma il gatto sembrava
non avvertisse e l’acqua lo inzuppava.
Forse provava piacere. Forse su quell’essere
la pioggia aveva
lo stesso effetto portato dal sole sulle foglie.
(20 febbraio 2011 / 15 dic. 2014)
*
Se non fosse per la scelta del colore
(il giallo dei colza al posto del bianco,
supponiamo, delle margherite)
Guy de Maupassant tratteggia
la campagna francese
come una bandiera patriottica
nel viaggio delle ospiti
della casa Tellier
da Fécamp a Virville.
Va bene il blu dei fiordalisi
per la prima comunione della nipotina
e il rosso dei papaveri
con l’immagine di Madame. Maupassant
descrive tipi piuttosto che personaggi
natura morta dai colori marci
rutilante anche nel moralismo:
gli aspetti psicologici sono la sua bravura.
Come nel passaggio in cui la bambina
si ritrova a trascorrere la vigilia
della sua prima comunione
in compagnia di Rose,
anch’ella, come l’altra,
incapace di dormire. E Maupassant:
«E fino all’alba la comunicanda poggiò la fronte sul petto nudo della prostituta».
(17 ott. 011 – 26 ag. 014)
*
Islands in the stream*
Un cielo pesante sfrangia i tufi
sui muri delle case richiami del vento
pioggia in anse aperte, più spesso
punti di maggiore incontro con l’azzurro.
Se mancasse questo inverno
ne avvertirei l’assenza. Forse
non oggi, se tanto spegne dentro
la crudezza dell’addio.
Seduto intorno il cielo pesante del nord.
Tu, intanto, aspetterai
un altro inverno per avere nostalgia?
Solo spigoli i rosai delle pietre
combacianti il cielo, l’azzurro che ferisce
islands in the stream
conflitto della lontananza. Aspetteremo
nell’immenso spalancato fondo di un paesaggio
un altro inverno per sentire noi
aderente l’azzurro più vicino.
(20 sett. 012 / 17 dic. 014)
*Islands in the stream= Espressione coniata da Wordsworth in The Prelude (1805), per indicare i ricordi, individuati come isole non spazzate via dal flusso del tempo.
*
Come nella più antica delle rappresentazioni
il re e la regina siederanno in trono
accanto i ministri saccenti, gli osservanti
dell’ordine discreto
del minuto di silenzio
per le vittime delle stragi
per quelle della malavita
per i comandanti in armi.
Con tenacia
la distanza da loro ci separerà.
(19.aprile.2013 / 25.ott.013)
Il figlio di Crono ti donò il sonno di Zefiro
e il sonno ti portò il sogno del ritorno
e tu vedesti gli uomini lavorare i campi
le donne nelle arti affaccendate
e le vecchie agli usci silenziose ad aspettare.
Sul mare il vento dondolava il sogno
si apriva la strada
in nove giornate
seguendo un fine (a te, ignaro)
di nove anni.
Ma ti tormentava l’impazienza del giorno
il suo tafano ti pungeva.
Furono gli uomini della tua nave i pensieri
d’un tratto passarono dal letto alla stanza
e quando si squarciò l’otre
di colpo, dai mille cavalli in fuga
la furia ti sconvolse la ragione.
(18 ott. 2014)
La topografia delle nostre abitudini
*
Parto con il tenente Giovanni Drogo
lui diretto alla fortezza Bastiani.
Il mio viaggio finisce in un giorno.
Alla stazione un altro lui
mi chiedeva: «Ma dove vai?».
Simbolicamente.
*
E così, Giovanni Drogo rifiuta
la proposta del medico
di spacciarsi per malato di cuore,
non gli va, e su due piedi decide di rimanere.
Per quale ragione? Per la forza dell’abitudine.
L’abitudine è la vera fortezza Bastiani
soggiogati, si fatica non poco ad allontanarsene:
«Drogo ha deciso di rimanere.».
*
Tracciamo insieme le linee della città
che non amiamo, ma che non lasceremo mai
ed ecco la topografia delle nostre abitudini
di noi che da trent’anni
professiamo di amarci, stanchi nel dirlo.
*
«Scendo per un caffè.»
*
La loro unione poteva essere definita perfetta
in tutti i suoi aspetti; mai una sbavatura
mai un momento di noia
mai un litigio; in sintesi: mai niente
di tutte le questioni, sebbene minuscole,
che lacerano e logorano il rapporto a due:
una unione invidiabile, di quelle che
con gli estimatori, fanno parlare
anche gli invidiosi.
*
Le nostre ombre sporcano il paesaggio
da questo punto in poi si vedono i declivi
alzarsi nell’inverno delle nuvole.
Severo il cielo è come questa notte
che non passa.
(28.10.013)
*
«Quel medesimo sole illumina contemporaneamente
gli squallidi lavatoi e certe praterie lontane».
È sottile inquietudine, del tutto nuova filtra
nella fortezza Bastiani, uno stato d’animo,
avvertito con sorpresa in sé da Drogo.
Certo, c’è già stato
l’omicidio “regolare” del povero Lazzari,
troppo ingenuo per capire che non poteva permettersi
di correre dietro alla sua fantasia: non avrebbe dovuto.
Ma lui voleva solo accertarsi che il cavallino nero
visto per i campi non fosse il suo, roba di un momento
niente di più: a cosa gli serviva conoscere la parola d’ordine?
e perché mai avrebbe dovuto scomodare gli altri
e informarli per un’uscita della durata di un attimo?
Con il mio telefonino scarico, ora che sono in viaggio,
percepisco il senso di liberazione del giovane Lazzari
il cavallino nero mette alla prova anche le tentazioni.
Per questo egli si era allontanato, all’insaputa di tutti,
ignaro che, così facendo,
stava per divenire ignaro e sconosciuto persino di sé stesso.
Ben gli sta, dice a suo modo Matti a proposito del tiro perfetto,
centrato alla fronte dal “Moretto”, il bravo Martelli,
nonostante quell’altro lo avesse invocato: «Moretto,
come, non mi riconosci? sono io, sono Lazzari».
Tutto inutile, che fosse proprio lui, Lazzari, e non
un nemico qualsiasi, a Moretto non gli poteva bastare.
*
Drogo ha avuto già il sogno premonitore:
il tenente Angustina morirà subito dopo.
La primavera alla fortezza Bastiani corre
come una novità mai vista. Così il maggiore Drogo
abbandona la fortezza e se ne torna a casa.
In «serpa alla carrozza erano due soldati,
il cocchiere e l’attendente» . Drogo, dunque,
lascia la fortezza nell’ora in cui c’è da affrontare
lo straniero. Ma non se ne va per suo volere.
La malattia smette di essere un’alternativa
la consapevolezza del nostro vivere invita a diffidare
si affaccia tra le false illusioni, come nel sogno
il palazzo signorile con gli spiriti fata invitanti.
E di poi il saluto al capitano
incontrato nell’arrivo s’incrocerà,
al suo posto, a un rifiuto eclatante: Drogo
va via senza aspettare il comandante
Simeoni, e con lui sconfesserà tutto intero
il valore delle armi nel finale.
Czesław Miłosz (Szetejne 1911 – Cracovia 2004)figlio di Aleksander Miłosz, ingegnere civile e di Weronica (nata Kuna), figlio di un fratello del bisnonno del grande poeta lituano di lingua francese Oscar Vladislas de Lubicz Milosz.
A Šeteniai, oggi in Lituania, ma allora facente parte dell’Impero russo, Czesław Miłosz frequenta le scuole superiori e l’università a Vilnius, oggi in Lituania ma allora in Polonia. Cofondatore del gruppo letterario “Zagary”, fa il suo debutto nel 1930 con due volumi di poesia. Lavora per la radio polacca e continua il proprio percorso creativo seguendo con attenzione i fatti che affliggeranno la Polonia, stretta tra le rivendicazioni di Germania e Russia. Passa la maggior parte della guerra a Varsavia lavorando per la stampa underground.
Dopo la guerra, diventa addetto culturale all’ambasciata polacca a Washington e successivamente a Parigi, nel 1951 Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al clima culturale imposto da un’élite politica e intellettuale formatasi a Mosca, non esita a manifestare il proprio scetticismo sulle prospettive del socialismo reale. In seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in Francia , per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A contatto con il clima culturale fervente di Berkeley, in California, dove insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica dedicandosi parallelamente all’attività di traduzione, cruciale per la diffusione della poesia polacca in ambito anglo-americano e successivamente europeo.
Nel 1980 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura con la motivazione:
(EN) « Who with uncompromising clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe conflicts. » |
(IT) « A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti. » |
(Motivazione del premio Nobel per la letteratura) |
Nello stesso anno, gli operai di Solidarnosc trascrivono brani di una sua poesia ai piedi del monumento dedicato ai lavoratori uccisi dalla polizia di partito durante gli scioperi di contestazione.
In ambito saggistico, Czesław Miłosz contribuisce al dibattito sulla possibilità di intraprendere il lavoro culturale in quanto azione politica e sociale, allineandosi alle tematiche dell’ambiente intellettuale francese dei primi anni cinquanta e fornendone, tuttavia, una chiave di lettura distinta e originale. Ne La mente prigioniera (1953), testo che unisce la riflessione saggistica a tecniche romanzesche, Czesław Miłosz affronta il complesso rapporto tra letteratura e società nell’ambito delle democrazie popolari satelliti del mondo sovietico. Demistificando esplicitamente ogni idealizzazione del socialismo reale, evoca e analizza tanto l’adesione quanto la dissociazione degli intellettuali al sistema (il Murti-Bing) consolidatosi in Polonia nel dopoguerra. In aperto contrasto con la lettura ideologizzata dell’intellettuale dissidente diffusasi nell’ambiente europeo filo-comunista, Czesław Miłosz ritrae la condizione divisa dell’individuo all’interno di un regime totalitario, attribuendone la libertà di pensiero e parola ad una pratica eretica (il ketman) basata sulla dissimulazione, sulla perfetta comprensione e conversione dei meccanismi censorii in cui vive. Fonte di aspre polemiche fin dall’uscita, il saggio-romanzo offre una prospettiva critica inedita sulla libertà umana, e una chiave di lettura preziosa al registro antifrastico che domina la produzione del poeta, come mostra il mondo evocato nel noto componimento Fanciullo d’Europa.
In un dialogo sulla letteratura con Josif Brodskij, realizzato nel 1989 e pubblicato nel 2001 sulla rivista Zeszyty Literackie, parlando degli scrittori che l’hanno influenzato, Czesław Miłosz scrive:
« E poi l’influenza, una forte influenza del mio cugino francese Oscar Milosz. Aveva scritto in maniera stupefacente il suo primo trattato metafisico nel 1916, conoscendo lo sviluppo delle teorie di Einstein (…) se non sbaglio pubblicate nella sua prima versione proprio in quello stesso anno. Lui credeva che la teoria della relatività aprisse le porte di una nuova era di armonia tra la scienza, la religione e l’arte. Per il semplice motivo che il mondo newtoniano è per principio contrario all’immaginazione, all’arte, alla religione. Io perciò seguii quella traccia e constatai con stupore che erano idee prossime a William Blake, che, anche se ovviamente non poteva sapere nulla della relatività, aveva fatto nascere le proprie teorie nella fisica. E anche Goethe, in una sorta di ribellione istintiva contro la via intrapresa dalla scienza ottocentesca (…) Una questione fondamentale è che per Newton lo spazio era stabile e obbiettivo, invece per la fisica contemporanea e anche per Oscar Milosz, una cosa simile non può esistere perché tutto è un unicum di moto, materia, tempo e spazio.» |
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Quando ancora l’Europa era divisa da una pesante cortina di ferro e due civiltà si fronteggiavano con immensi eserciti ed armi nucleari, in un’epoca, che oggi ci sembra lontana, in cui l’intelligentsia europea, tranne pochissime eccezioni, non intravedeva tutto l’orrore e la irrazionalità della dittatura staliniana, Czeslaw Milosz seppe riconoscere per tempo la scaturigine profonda del Male ed abbandonò la sua patria per l’esilio prima in Europa e poi negli Stati Uniti. Si dirà che l’esilio è in fondo il destino ultimo dell’uomo del Novecento e che il problema politico dell’Occidente è piuttosto la mancanza di autenticità che non l’esilio politico. Ma non è così, per Milosz l’abbandono della sua Polonia non significò l’abbandono della patria, né tanto meno l’abbandono della sua madre lingua, anzi, fu durante gli anni dell’esilio che Milosz scrisse le poesie forse più belle del Novecento. Nato in una terra di confine, la Lituania, il poeta polacco si trovò costretto a combattere una battaglia che lo sovrastava per grandezza e per entità delle masse umane chiamate allo scontro.
Brodskij ha scritto che ci sono dei momenti in cui una civiltà ha bisogno dei suoi uomini della periferia per ritrovare se stessa, ha bisogno degli uomini del limen, e Milosz fu uno di questi, fu un uomo impegnato lungo una lontana frontiera, convinto che la Storia e il destino richiedevano da lui un atto inequivocabile e pienamente riconoscibile che fornisse un esempio ed un monito. Già questa doppia appartenenza a due popoli della frontiera dovette fortificare in lui la fiducia che ciò che confligge con l’umanesimo della civiltà europea non può che perire e dissolversi. Come il suo grande maestro, il russo Osip Mandel’stam (nato in Polonia e vissuto in Russia), del quale Milosz si dichiarò più volte allievo, il poeta polacco fu il vero tutore della civiltà europea proprio nel momento in cui, dopo la follia nazista, un altro pericolo incombeva all’orizzonte: il dispotismo comunista. Attraverso Mandel’stam, Milosz ritorna a Dante, costruisce il suo verso e la sua metrica sul calco dell’endecasillabo, convinto che il linguaggio della poesia europea sia il vero depositario di quella civiltà, il suo sperimentare le forme della Tradizione è un tutt’uno con l’esigenza di una espressione universale, che parli a tutte le genti dell’Europa, in una lingua traducibile presso tutte le lingue europee. Convinto che la poesia europea debba divenire la casa comune di tutte le intelligenze libere dell’Europa, Milosz scrive in forme armoniose e cristalline dove la barbarie non potrà mai penetrare, né l’intolleranza o la sopraffazione. E’ avvenuto così che le poesie di Milosz siano – per noi europei della frontiera a Sud di Eurolandia – state scritte anche per noi e ci riguardano da vicino per il contributo agli errori della storia europea che anche l’Italia ha dato.
Forse soltanto la nazione polacca ha richiesto tanto alla poesia: essere all’altezza del suo Tempo, reggere l’urto della Storia, essere una bandiera di libertà e di indipendenza. Per un dispetto della storia, tutto un popolo riconobbe i propri poeti, insieme a Milosz, la Szymborska, Herbert ed altre grandi personalità che hanno saputo rappresentare il proprio tempo.
Milosz è stato un europeo integrale, convinto che anche la Russia fosse parte integrante dello spirito europeo e parte essenziale della storia della civiltà europea, egli è stato anche il rappresentante di quello spirito cristiano che nelle sue tre principali confessioni (cattolica, protestante, ortodossa) ha costituito lo zoccolo ideologico del vecchio continente. Ma Milosz è un poeta cristiano, non cattolico, e la sua poesia sembra indirizzarsi, oggi più che mai, anche ai popoli del Tigri e dell’Eufrate, l’antico popolo dei Parti, per richiamarli al comune destino di speranza e di com-unione e di pace universale.
(le poesie sono tratte da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti)
Campo de fiori
A Roma in Campo de Fiori
Ceste di olive e limoni,
Selciato con spruzzi di vino
E con schegge di fiori.
Frutti rosati di mare
Ammassati sui banchi,
Bracciate d’uva nera
Sulle pesche vellutate.
Proprio su questa piazza
Fu arso Giordano Bruno,
Il boia accese il rogo
Fra il popolino curioso.
E appena il fuoco si spense,
La folla tornò a bere,
Ceste di olive e limoni
Sulle teste dei venditori.
Rammentai Campo de Fiori
A Varsavia presso la giostra,
Una chiara sera d’aprile,
Al suono d’una gaia orchestra.
La musica soffocava
Gli spari dal ghetto,
Volavano le coppie
Alte nel cielo terso.
A tratti il vento alle fiamme
Strappava neri aquiloni,
E la gente ridendo
La fuliggine afferrava.
Gonfiava le gonne alle ragazze
Quel vento dalle case in fiamme,
Scherzavano liete le folle
Nella domenica festosa.
Si dirà che la morale
E’ che a Varsavia o a Roma
La gente si diverte, ama
Incurante dei martiri sul rogo.
Oppure si vedrà la morale
Nella fugacità delle cose
Umane, nell’oblio che nasce
Prima ancora che il fuoco cessi.
Io invece pensavo allora
A quelli che muoiono soli,
Pensavo che quando Giordano
Salì su quel patibolo,
Non trovò nella lingua umana
Nemmeno una parola
Per dire addio all’umanità,
L’umanità che restava.
Già correvano a ubriacarsi,
A smerciare bianche asterie,
Ceste di olive e limoni
Recavan nel gaio brusìo.
E lui era già distante,
quasi fossero secoli,
La sua scomparsa nel fuoco
Essi attesero appena.
Di questi morenti, soli,
Già obliati dal mondo,
Anche la lingua ci è estranea,
Come lingua d’antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
E allora dopo tanti anni
Nel nuovo Campo de Fiori
Un poeta accenderà la rivolta.
(1943, Varsavia)
Il senso
– Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte, dietro l’uccello, il monte e il tramonto del sole.
Letture che richiamano il vero significato.
Ciò che non corrispondeva, corrisponderà.
Ciò che era incomprensibile, sarà compreso.
Ma se non c’è la fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un indizio
Soltanto un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
Si susseguono non curandosi del senso
E non c’è niente sulla terra, tranne questa terra?
Se così fosse, resterebbe tuttavia
La parola una volta destata da effimere labbra,
Che corre e corre, messo instancabile,
Verso campi interstellari, nel mulinello delle galassie
E protesta, chiama, grida.
Salda notte…
Salda notte. Non sfiorerà il tuo volto
né fuoco di labbra, né ombra furtiva.
Nelle tenebre del sogno t’ascolto
e splendi così, come giorno che arriva.
Tu sei la notte. E amandoti la mia mente
ha previsto il destino e i futuri lutti.
Fuggi il volgo, e la gloria verrà rasente
e annegherà la musica nei flutti.
Forti son gli ostili, e il mondo è troppo stretto
e tu, o amata, fedele gli resti.
Di sambuco sull’acqua un rametto,
spinto dal vento da ignote foreste.
C’è tanto senno, e non femminea clemenza
nelle tue fragili mani, o Peritura.
Sulla fronte lo splendore della scienza:
luna nascosta, non ancora matura.
(1934)
.
Elegia
Non con l’eterno oblio, non con la memoria o il chiasso
di città, non con la nebbia dei monti il mondo ti darà pace.
Finché dopo anni di lotte una croce oppure un masso,
ove un uccello come sui resti di Troia canterà fugace.
Amor, cibo, bevande ci seguono lungo la strada,
ma non verso di loro l’acuto sguardo è rivolto.
Le pesanti palpebre brucia la luce spietata
e sommesso il tempo avverte, prima di passar sul corpo.
Gentili animali fedeli, l’effimera gente
invano strappano le mani nell’estasi rapprese.
E da terra una voce si leva: ombra, nostro erede,
ti avremmo forse chiamato sì a lungo per niente?
(1935, Parigi)
.
Frammento
Sorella, dammi dell’acqua e perdona se ho peccato,
La tua cornetta abbaglia come le Alpi all’alba,
E sulle sue falde si stendono ombrose vallate,
A destra la terra di Tur, a sinistra Ghilead.
Tu hai occhi ebrei, io sono Slavo, la rabbia
Del mondo caparbio ci ha colpito e sconfitto. Tendi
E con la mia fronte incontra le tue mani lievi,
Ancora dinanzi a me la musica si levi
Dei cani di campagna, dei tintinnanti armenti.
Chiudi la finestra, là fuori Giunoni germane
Saltano nel mio fiume turbando del fondo la quiete,
Ove prima era solo il pescatore e la sua rete
Nel volteggiare intorno di rondoni e capineri.
Neri, bellici carri le pasture hanno solcato,
Volano i vessilli fiammanti e balena arrossato
Il muro del letto, e vibran sul tavolo i bicchieri.
Non andartene, resta con me. Poiché m’è parso
Un giorno, che il cuore diventasse di sasso
E che tra le lenzuola ormai un altro giacesse,
Pur ferito gravemente, grande e bambinesco,
E una suora di carità con lo sguardo socchiuso
Filasse lunghi fili dalle nubi come da un fuso.
(1935, Parigi)
Il popolo
Il più puro dei popoli quando li giudica il bagliore dei lampi,
E’ spensierato e scaltro nell’ardua quotidianità,
Senza pietà per le vedove e gli orfani, senza pietà per i vecchi,
Ruba di mano a un bimbo una crosta di pane.
Sacrifica la vita per attirar sui nemici l’ira dei cieli
E col pianto degli orfani e delle donne li sconfigge.
Il potere affida a gente con occhi da mercante di gioielli,
Offre onori a gente con l’anima d’un gestore di bordelli.
I suoi migliori figli resteranno sconosciuti,
Appariranno una volta sola per morir sulle barricate.
Le amare lacrime di questo popolo tagliano il canto a metà,
E quando a un tratto il canto tace, si gridano facezie.
Negli angoli delle stanze l’ombra si ferma additando il cuore,
Dietro la finestra ulula un cane a un invisibile pianeta.
Popolo grande e invincibile, popolo beffardo,
Che riconosce la verità senza parlarne.
Bivacca nei mercati, tratta con le burle,
Smercia vecchie maniglie rubate nelle rovine.
Popolo coi berretti gualciti, con tutti i beni in un fagotto,
Che cerca dimore ad occidente e nel meridione.
Non ha città né monumenti, né scultura, né pittura,
Trasmette di bocca in bocca solo la voce e i presagi dei poeti.
L’uomo di questo popolo, chino sulla cuna del figlio,
Ripete parole di speranza, sempre tuttora vane.
(1945, Cracovia)
A Jonathan Swift
A te mi rivolgo, o decano,
E i tuoi buoni consigli imploro.
Per un incontro così strano
Non mi ornerò di alcun decoro.
Vedo l’oceano verdeggiante
Sferzare gli scogli ben saldi,
Sopra dita di spuma bianche
Le isole come smeraldi.
Oltreirlanda il masso amaranto
E cangiante della torbiera,
Nelle case – del gufo il canto
Per l’umile pasto della sera.
Guizza la parrucca d’argento
E dalla penna una mappa scorre
Per l’arte e per l’insegnamento.
Mai stando all’idea che ricorre.
Nella mappa, in ciò ch’è tracciato,
La mia nave non s’è sperduta.
Brobdingnag ho visitato
Senza trascurare Laputa.
Degli Jahu ho visto la gente
Cui la propria merda è diletta,
Nel timor servile vivente
Progenie di spie maledetta.
In fasi affatto ineguali
La mia vita s’è frantumata ,
Nel cuore il sale dei fortunali
Ma ancor non è tutta svotata.
Dell’accecamento misterioso
Sugli occhi non ho messo le bende.
E un franco sdegno furioso
Irraggia il dover che mi attende.
Tu puoi indicarmi, o decano,
Come si crea quel fluido raro,
Come oltre all’inchiostro rimane
Un di più in fondo al calamaro.
Del tuo tempo svelami il volto,
Perché io non faccia una figura oscena
Come fa chi dell’uomo parla molto
E solo in sogno guaisce appena.
Il Principe dei suoi versetti
Si degna di volere adulatori
E piegano i loro culetti
I cortigiani Whigs e Tories.
Il Principe, o decano, sbaglia spesso
Pur se ragione e forza arreca.
Con un soffio dalla gloria verrà messo
Nell’inferno d’una cartoteca.
Il gufo, il tuo tetto scarno,
La notte che sparge la pioggia,
Duran più dei prìncipi di marmo
E d’ogni lusinghevole foggia.
Ancor oggi la tua voce detta:
La cosa umana non è ultimata.
Chi dice che la storia è perfetta
Muoia di morte disarmata.
Coraggio, o figlio. Tu guiderai
La buffa flotta sui mari agitati
E i falli degli stati-formicai
Saran dalle nubi lapidati.
Finché il cielo sarà e l’uomo
Per nuove città prepara uno scalo.
Oltre a questo non c’è perdono.
Cercherò di farlo, o mio decano.
(1947, Washington, D.C.)
A Tadeusz Różewicz, Poeta
Concordi nella gioia sono tutti gli attrezzi
Quando il poeta varca il giardino della terra.
Quattrocento fiumi azzurri hanno lavorato
Alla sua nascita e il baco da seta
Ha ordito per lui i suoi lucenti nidi.
L’ala d’una mosca, il muso d’una farfalla
Si son foggiati pensando a lui
E l’alto edificio del lupino
Gli ha schiarato la notte ai margini del campo.
Or dunque gioiscono tutti gli attrezzi
Racchiusi negli scrigni e nelle giare del verde
Aspettando il suo tocco per risonare.
Lode alla parte del mondo che genera un poeta!
La sua fama corre lungo le acque costiere
Ove nelle brume sonnecchiano i gabbiani
E oltre ancora, là dove ondeggiano le navi.
La sua fama corre sotto la luna montana
E addita il poeta dietro il tavolo
Nella gelida stanza, in una città ignota,
Mentre l’orologio della torre suona le ore.
La sua casa è in un ago di pino, nel grido d’un capriolo,
Nello scoppio delle stelle e dentro il palmo umano.
L’orologio non misura i suoi canti. L’eco
Come in una conchiglia l’antica età del mare
Non ammutisce mai. Egli perdura. E possente
E’ il suo sussurro che sorregge gli uomini.
Fortunato il popolo che ha un poeta
E nelle sue fatiche non procede in silenzio.
Soltanto i retori non amano il poeta.
Seduti su scanni di vetro svolgono
Lunghi rotoli, chilometri di generosità.
E intorno rintrona il riso del poeta
E la sua vita che non ha confine.
Sono adirati. Sanno che il loro seggio andrà in frantumi
E là dove sedevano non crescerà
Nemmeno un fuscello. Un cerchio di zolfo bruciato,
Rossa, arida polvere schivata anche dalle formiche.
(1948, Washington D.C.)
.
Quando dicevo il vero…
Quando dicevo il vero, sprezzanti risi di ratti giornalistici
Strizzandomi l’occhio cercavano di dirmi: abbiamo capito.
E per anni potei soltanto serbare il disprezzo,
Consapevole che sarà loro l’ultimo trionfo,
Perché hanno avuto a turno ciò che volevano:
A ciascuno la sua razione di nullità.
(1962)
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare con editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesiaBlumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013) Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha curato l’Antologia di poesia contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016) e il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga . Ha fondato la rivista lombradelleparole.wordpress.com
e-mail: glinguaglossa.@gmail.com
Archiviato in poesia polacca
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ – che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso – εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo”, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)
NON SI DA’ TRASCENDENZA SENZA IL QUOTIDIANO
«La luce guarda l’ombra dall’alto». Poesie di Adam Zagajevski commentate
(da Adam Zagajewski Poesie a cura di Krystyna Jaworska. Adelphi, 2012, p. 227 € 20.00)
Adam Zagajewski nasce a Leopoli, 21 giugno 1945, poeta e saggista polacco, risiede a Parigi dal 1981 al 2002. In seguito di trasferisce a Cracovia, dove insegna letteratura presso la University of Chicago. È noto soprattutto per il poema Try To Praise The Mutilated World, uscito a puntate sul periodico statunitense The New Yorker e divenuto celebre dopo gli attentati dell’11 settembre 2011, e per le sue pubblicazioni sul poeta connazionale, Czesław Miłosz Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. Ha vinto il Neustadt International Prize for Literatur nel 2004; è il secondo polacco, proprio dopo l’amato Miłosz, a vincere il premio conferito dall’università statunitense.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Il metodo di composizione di Zagajevski è ben visibile in questa breve poesia che inizia con la voce dell’io narrante il quale dichiara: «io ancora non ci sono», distico appena preceduto dalla annotazione stenografica e storica: «Anni Trenta». Il prosieguo della composizione è qui: una serie di annotazioni che hanno sembianza di ovvietà, così come ovvi sono gli eventi che accadono: «germoglia l’erba»; «una ragazza mangia un gelato alla fragola»; «qualcuno ascolta Schumann». Apparentemente, tutto è in ordine, il mondo va come dieci o cento anni prima, tutto appare normale, anche la poesia risulta costruita con annotazioni normalissime, sembrano delle fotografie, delle istantanee. Anche se andassimo a strologare su che cosa c’è di speciale in questa poesia dovemmo arrenderci perché lì non c’è proprio nulla di speciale o di eccezionale. Tutta la poesia è appesa a un filo, quell’«io ancora non ci sono», che fa mormorare il poeta «che felicità». La felicità del personaggio parlante è appesa appunto a quel non-esserci, a quel filo sottilissimo, perché subito dopo si scatenerà la più grande mattanza del genere umano che si sia mai vista sulla scena del mondo.
Anni Trenta
Io ancora non ci sono
Germoglia l’erba
Una ragazza mangia un gelato alla fragola
Qualcuno ascolta Schumann
(il folle Schumann,
smarrito)
Che felicità
Io ancora non ci sono
Sento tutto.
Ha scritto Zagajevski: «Non sono uno storico, ma mi piacerebbe che la letteratura assumesse, consapevolmente e in tutta serietà, il ruolo di una cronaca storica. Non voglio che segua l’esempio degli storici contemporanei, perlopiù pesci freddi che hanno passato la loro vita in archivi polverosi che scrivono una lingua burocratica brutta e inumana, una lingua di legno prosciugata di tutta la poesia, piatta come un pidocchio e grigia come il giornale quotidiano. Vorrei che tornasse a esempi più antichi, chissà, addirittura greci, all’ideale del poeta storico, una persona che ha visto e sperimentato direttamente quel che descrive, oppure ha attinto alla vivente tradizione orale della sua famiglia o della sua tribù, che non teme né il conflitto né i sentimenti, ma ha tuttavia a cuore la ricostruzione scrupolosa della vicenda che narra». (citato in John Lukacs, Democrazia e populismo, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Longanesi, 2006, p. 179)
«Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesie e nei racconti mette quello che non sa». (citato in Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci, Feltrinelli, 2004, p. 138).
Non si dà trascendenza senza il quotidiano e non si dà quotidiano senza trascendenza. Questi due aspetti della vita sono complementari e inscindibili nella poesia di Zagajevski. La poesia «diario» di Zagajevski oscilla tra le dimensioni del quotidiano e quella della trascendnza. Il poeta polacco pone il problema di una poesia che non sia soltanto ermeneutica, ovvero, descrizione fenomenica della vita degli oggetti linguistici e non ma anche «cronaca», «diario», estraniazione degli «oggetti» dalla loro configurazione spazio-temporale. Gli «oggetti» prendono vita dalla intenzione simbolico significante della poesia che li fa ri-vivere. Gli «oggetti» sospendono la loro condizione di «nature morte» linguistiche confinate in una zona neutra della significazione e riprendono a vivere una vita significante, una nuova configurazione della significazione. Gli «oggetti» escono dalla loro condizione di sospensione di vita e ritornano nel mondo dei segni significanti e significazionisti. Gli «oggetti» riprendono a vivere. La poesia nasce «dalla vita degli oggetti» (si tratta beninteso sempre e soltanto di oggetti linguistici, che possono vivere soltanto all’interno dei loro vestiti linguistici). Nella poesia che prende spunto dal quadro di Vermeer, «La ragazza con l’orecchino di perla», improvvisamente, la «fanciulla» riprende vita, diventa cosa viva, diventa «luce (che) guarda l’ombra dall’alto»:
La fanciulla di Vermeer
La fanciulla di Vermeer, ora famosa
mi guarda. La perla mi guarda.
La fanciulla di Vermeer ha labbra
rosse, umide, lucenti.
Fanciulla di Vermeer, perla,
turbante azzurro: tu sei luce,
e io sono fatto d’ombra.
La luce guarda l’ombra dall’alto,
con indulgenza, forse con rimpianto.
Il rapporto soggetto-oggetto, osservante e osservato, è rovesciato; è «la fanciulla di Vermeer» che «guarda» il soggetto poetante («la perla mi guarda»). È un concetto esattamente opposto a quello invalso da un pensiero estetico che pensa l’oggetto linguistico in guisa riflessiva, che contempla la precedenza e la prevalenza del principio soggettivo secondo il quale la poesia nasce «dalla vita del soggetto» secondo un procedimento lineare: di qua il soggetto e di là l’oggetto. L’«ombra» è la condizione del rigor mortis degli «oggetti» e del «soggetto», il loro mutismo significazionista dipende dalla condizione di «ombra» entro la quale sono (siamo) immersi nella vita diurna: «La luce guarda l’ombra dall’alto»; la «luce» è il principio attivo, il principio agente, «l’ombra» è la dimensione del «soggetto» costretto nella dimensione della non-significanza, dell’oscurità. L’oggetto della poesia è il lettore; la poesia diventa un periscopio che guarda il mondo, si pone a disposizione del lettore, si scinde in due versanti: l’autore e il lettore (il soggetto e l’oggetto). Il lettore può e deve vivere all’interno della poesia (in altri termini: l’oggetto può e deve vivere all’interno della poesia). Per Zagajevski i grandi artisti sono gli spiriti costretti nella dimensione della zona d’ombra ma sono i soli che riescono ad uscire da quella zona di neutralità della significazione meramente linguistica per raggiungere la «luce» della significazione simbolica. Questa è la dimensione spirituale nella quale si trovano Franz Schubert e il «pianista», essi sfiorano, toccano una «grande ricchezza» ma sono «poveri», della povertà dell’«ombra», l’unica dimensione che però consente loro di raggiungere la piena significazione del piano simbolico. La «morte» («il grande cacciatore di talenti») è la dimensione attigua a quella dell’«ombra». La poesia di Zagajevski è tutta situata nella dimensione intermedia tra la luce e l’ombra, una sorta di rappresentazione plastica in bianco e nero:
Diciassettenne
Franz Schubert, un adolescente
di diciassette anni, scrive la musica
per il lamento di Gretchen, sua coetanea.
Meine Ruh ist hin, mein Hertz ist schwer.
Il grande cacciatore di talenti la morte, subito
gli riserva una benevola attenzione.
Manda inviti, uno dopo l’altro.
Uno. Dopo. L’altro. Schubert domanda
comprensione, non vuole presentarsi
a mani vuote. L’invito non si può declinare.
Quattordici anni dopo si tiene
il suo primo concerto sull’altra sponda.
Perché la limpidezza uccide? Perché la forza acceca?
Meine Ruh ist hin, mein Hertz ist schwer
La morte di un pianista
Mentre gli altri facevano guerre
o negoziavano la pace, oppure giacevano
in scomodi letti di ospedale
o su qualche campo, lui per giorni interi
eseguiva le sonate di Beethoven,
e le sue magre dita, come quelle di un avaro,
toccavano grandi ricchezze
che non erano sue.
Così, le «magre dita» del «pianista» toccano «grandi ricchezze». Alla condizione antinomica di «luce» ed «ombra» viene associata la condizione attigua ma antinomica anch’essa della povertà e della ricchezza. La poesia nasce da questa situazione direi ontica di contraddizione. Ma se «la poesia nasce dalla contraddizione» e «la vita è tradimento» (dizioni di Zagajevski), la poiesis è condannata a restare eternamente in bilico tra «contraddizione» e «tradimento», eternamente ambigua, in mezzo al falso e al vero, in una condizione intermedia tra la significazione e la non-significazione, tra la «luce» e l’«ombra». È questo il suo télos.
L’attimo
Un attimo di chiarezza dura così poco.
L’oscurità resta più a lungo. Vi sono
più oceani che terraferma. Più
ombra che forma.
«E se Eraclito e Parmenide / avessero ragione contemporaneamente / e due mondi esistessero affiancati / uno tranquillo, l’altro folle»? Il poeta polacco accetta la compresenza di entrambe le dimensioni, quella del divenire e quella della eternità dell’essere; la poiesis abita entrambe le dimensioni, ribalta, sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore, va molto più in là: la sua poesia ci dice che il lettore deve stare all’interno dell’opera, deve provare ad abitarvi, ad abitare in entrambe le dimensioni del divenire e della stasi dell’essere:
Lava
E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle; una freccia
scocca immemore, e l’altra indulgente
lo osserva; lo stesso flutto si frange e non si frange,
gli animali nascono e muoiono nello stesso istante,
le foglie di betulla giocano con il vento e al contempo
si struggono in una crudele fiamma rugginosa.
La lava uccide e serba, il cuore batte e viene colpito,
c’era la guerra, la guerra non c’era,
gli ebrei sono morti, vivono gli ebrei, le città bruciarono,
le città rimangono, l’amore avvizzisce, il bacio è eterno,
le ali dello sparviero devono essere brune,
tu sei sempre con me, anche se non ci siamo più,
le navi affondano, la sabbia canta e le nuvole
vagano come veli nuziali sfilacciati.
Tutto è perduto. Tanto incanto. I colli
reggono cauti lunghi stendardi boscosi,
il muschio sale sul campanile di pietra della chiesa
e con labbra minute timidamente loda il Settentrione.
Al crepuscolo i gelsomini brillano come lampade
folli stordite dalla propria luce.
Nel museo davanti a una tela scura
si stringono pupille feline. Tutto è finito.
I cavalieri galoppano su cavalli neri, il tiranno scrive
una sgrammaticata condanna a morte.
La giovinezza si dissolve nell’arco
di un giorno, i volti delle fanciulle si fanno
medaglioni, la disperazione volge in estasi
e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo
come grappoli d’uva e la bellezza dura, tremula, immota
e Dio c’è e muore, la notte torna a noi
sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada.
L’opera non abita la coscienza del lettore ma il «mondo», le «cose», gli «oggetti». L’opera abita dentro «la vita degli oggetti». L’opera è un evento che si esprime mediante un linguaggio: quello degli oggetti. Per il poeta polacco, l’opera è al servizio della «tribù», è stata fatta per la «tribù», non ha alcun senso al di fuori della «tribù». Può essere, è vero, tradotta in un’altra lingua per un’altra tribù, ma diventerà significante per quell’altra «tribù» soltanto se ha avuto un significato simbolico per la prima. Il poeta polacco infatti è stato accusato che la sua poesia sia maliziosamente scritta in vista delle traduzioni in altre lingue, che sia agevolmente traducibile. Ecco, siamo arrivati al nocciolo del concetto di una poesia traducibile, che deve seguire e rispettare, anche nel lessico e nella sintassi, l’essenza profonda della lingua naturale. Proprio perché l’opera è istitutrice di un «mondo», in tale «nuovo mondo» il lettore deve provare a vivere nel mezzo delle immagini (degli oggetti) e dei pensieri (degli oggetti). Gli oggetti a loro modo pensano, vivono, e la poesia deve in qualche modo captare «la vita degli oggetti». Le immagini, nella poesia di Zagajevski (come anche in quella di un altro poeta, Tomas Tranströmer), escono dall’«ombra», vengono alla «luce», escono dalla povertà ed attingono la ricchezza, sembrano uscire fuori della pagina, toccare le «cose» stesse, sono talmente tangibili e evidenti che noi ci chiediamo: com’è possibile? Come può avvenire questo?
Parlammo a lungo nella notte, in cucina;
alla morbida luce della lampada a petrolio
gli oggetti, incoraggiati dalla sua delicatezza,
spuntavano dal buio, svelando i propri
nomi: sedia, tavolo, saliera.
Kierkegaard su Hegel
Kierkegaard diceva di Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l’intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e quegli stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un’angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia: Nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.
Si ha qui un procedimento inverso a quello della de-mitologizzazione cui ci ha condotto un certo pensiero estetico; qui, al contrario, si verifica una vera e propria mitologizzazione della poesia. La poesia diventa il monumento di se stessa: gli «oggetti» sembrano uscire dal testo per raggiungere il lettore. La poesia è un «prisma» (dizione di Zagajevski) di immagini che dialogano tra di loro e attirano il lettore entro la loro maglia sottile di riverberi e di rifrazioni semantiche (ma la semantica non è analoga alla luce?), ma è un «prisma» tratto dal continuum storico, è un ente prismatico posto nel bel mezzo di una dimensione spazio-temporale: una «prospettiva» (dal latino pro-specere, guardare avanti) e una «aspettativa» (una attesa posta nel tempo storico). Ma il «prisma» è una figura astratta, una figura geometrica composta da una molteplicità di piani, è una figura che riflette in modo sempre diverso la «luce» e i piani di lettura (ottica) del lettore: cambiando il punto di vista del lettore cambia l’intensità della «luce» riflessa dal «prisma», cambia il tipo di lettura ottica. Analogamente, la poesia di Zagajevski non è una poesia «epifanica» ma «epicletica», «non tanto dell’esperire un’illuminazione improvvisa e fugace, quanto dell’esperire un’anticipazione di tale visione, dell’aspirare a una trascendenza che pare attenderci. È quindi una prospettiva escatologica che dà senso all’esistenza e al suo vissuto».* La prospettiva entro cui si cala questo «prisma» si misura con il riferimento a un ordito temporale e la aspettativa si misura entro un ordito di ordine spaziale. Se l’aspettativa è attesa del Tempo (messianico, cronologico, interno, esterno), la prospettiva non si può esplorare se non con riferimento ad un «viaggio» che si muove nel Tempo della Storia degli uomini. Tutti gli uomini della «tribù» sono viaggiatori, conoscono il mondo per mezzo del «viaggio», e il «viaggio» è possibile soltanto nel mondo; la poesia è la «cronistoria» del viaggio di un uomo che racconta qualcosa intorno a degli oggetti linguistici. Dire «viaggio» equivale a dire «esilio». L’uomo si trova già da sempre in esilio, anche a casa propria, anche nella casa del linguaggio, anzi, il suo è un esilio forzato. La lingua gli ripete continuamente l’eterno ritornello: «non avrai altra lingua all’infuori di me».
Le immagini della poesia di Zagajevski sono porte che ci portano ad altre porte, sono orizzonti che dischiudono altri orizzonti, sono immagini che ci conducono ad altre immagini in un gioco di specchi senza fine («quando la fiamma della metafora fonde due oggetti finora liberi»); le immagini diventano così sinusoidali, vanno dal tempo allo spazio, e ritornano indietro, dallo spazio al tempo, per poi ricominciare daccapo il loro ciclo vitale, le immagini conservano la traccia dell’apparenza, dell’illusione di uscire fuori dalla dimensione spazio-temporale. È la loro legge di auto conservazione. Sono immagini tratte dalla «storia» degli uomini, il poeta, come noi tutti, è un semplice «cronista» della storia, un modesto cronista che abita il piano della quotidianità della storia individuale e di quella della collettività: «non siamo mai capaci di dimorare stabilmente nella trascendenza… Torniamo sempre alla quotidianità: dopo aver esperito l’epifania, dopo aver scritto una poesia, entriamo in cucina e ci mettiamo a pensare a cosa mangiare per cena».** La trascendenza è l’altra faccia della quotidianità, l’altra faccia di una stessa medaglia. Non si dà trascendenza senza il quotidiano.
(Giorgio Linguaglossa)
* cit. in Dalla vita degli oggetti Postfazione di Krystyna Jaworska p. 222, Adelphi, 2012
** Ibidem
Ricordi
Sfoglia i tuoi ricordi
cuci per loro una coperta di stoffa.
Scosta le tende e cambia l’aria.
Sii per loro cordiale, leggero.
Questi ricordi sono tuoi.
Pensaci mentre nuoti
nel mare dei Sargassi della memoria
e l’erba marina crescendo ti cuce la bocca.
Questi ricordi sono tuoi,
non li dimenticherai fino alla fine.
Mistica per principianti
Il giorno era mite, la luce amica.
Quel tedesco sulla terrazza del caffè
teneva sulle ginocchia un libricino.
Riuscii a leggere il titolo:
Mistica per principianti.
All’improvviso compresi che le rondini
in ricognizione
con striduli richiami
sulle vie di Montepulciano
e i dialoghi sommessi degli intimiditi
viaggiatori dell’Europa Orientale detta Centrale,
e i bianchi aironi fermi – ieri, ier l’altro? –
nelle risaie come tante monache,
e il crepuscolo, lento e sistematico,
che cancellava i profili delle case medievali,
e gli olivi sulle basse colline,
esposti ai venti e agli incendi,
e la testa della Principessa ignota
e le vetrate delle chiese come ali di farfalla
cosparse del polline dei fiori,
e il piccolo usignolo che si esercitava nella recita
accanto all’autostrada,
e i viaggi, tutti i viaggi,
erano soltanto mistica per principianti,
un corso introduttivo, prolegomeni
di un esame rimandato
a più tardi.
R. dicembre
Sorci letterari – dice R. – ecco chi siamo.
Ci incontriamo in coda davanti alle casse dei cinema economici.
Al tramonto, quando negli stagni verdi affondano pesanti soli
di broccato, usciamo dalla biblioteca arricchiti dall’opera di Kafka
– illuminati sorci in giubbotti militari, in cappotti
del potenziale esercito di un despota colto; polizia segreta
di un poeta che forse giungerà al potere in una provincia lontana.
Sorci con borse di studio, domande confidenziali, osservazioni sarcastiche,
topi dal pelo irto, dai baffi ispidi, pungenti.
Ci conoscono le grandi città, l’asfalto rovente, le dame di carità,
non ci hanno mai visto i deserti, l’oceano e la fitta giungla.
Benedettini di un’epoca atea, missionari di una facile disperazione,
siamo forse una forma transitoria in un lungo processo evolutivo,
il cui fine, l’indirizzo e il senso ancor a nessuno furono svelati.
e siamo ripagati con una monetina d’oro, priva di valore: la voluttà
di un attimo, quando la fiamma della metafora fonde due oggetti finora liberi,
quando l’astore scende in picchiata l’esattore si fa il segno della croce.
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2003 viene raggiunto dalla interdizione a pubblicare con editori a diffusione nazionale. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha fondato il blog lombradelleparole.wordpress.com
e-mail: glinguaglossa.@gmail.com
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginariodi Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)
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Czesław Miłosz (Szetejne 1911 – Cracovia 2004) figlio di Aleksander Miłosz, ingegnere civile e di Weronica (nata Kuna), figlio di un fratello del bisnonno del grande poeta lituano di lingua francese Oscar Vladislas de Lubicz Milosz.
A Šeteniai, oggi in Lituania, ma allora facente parte dell’Impero russo, Czesław Miłosz frequenta le scuole superiori e l’università a Vilnius, oggi in Lituania ma allora in Polonia. Cofondatore del gruppo letterario “Zagary”, fa il suo debutto nel 1930 con due volumi di poesia. Lavora per la radio polacca e continua il proprio percorso creativo seguendo con attenzione i fatti che affliggeranno la Polonia, stretta tra le rivendicazioni di Germania e Russia. Passa la maggior parte della guerra a Varsavia lavorando per la stampa underground.
Dopo la guerra, diventa addetto culturale all’ambasciata polacca a Washington e successivamente a Parigi, nel 1951 Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al clima culturale imposto da un’élite politica e intellettuale formatasi a Mosca, non esita a manifestare il proprio scetticismo sulle prospettive del socialismo reale. In seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in Francia , per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A contatto con il clima culturale fervente di Berkeley, inCalifornia, dove insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica dedicandosi parallelamente all’attività di traduzione, cruciale per la diffusione della poesia polacca in ambito anglo-americano e successivamente europeo.
Nel 1980 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura con la motivazione:
(EN) « Who with uncompromising clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe conflicts. » |
(IT) « A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti. » |
(Motivazione del premio Nobel per la letteratura) |
Nello stesso anno, gli operai di Solidarnosc trascrivono brani di una sua poesia ai piedi del monumento dedicato ai lavoratori uccisi dalla polizia di partito durante gli scioperi di contestazione.
In ambito saggistico, Czesław Miłosz contribuisce al dibattito sulla possibilità di intraprendere il lavoro culturale in quanto azione politica e sociale, allineandosi alle tematiche dell’ambiente intellettuale francese dei primi anni cinquanta e fornendone, tuttavia, una chiave di lettura distinta e originale. Ne La mente prigioniera (1953), testo che unisce la riflessione saggistica a tecniche romanzesche, Czesław Miłosz affronta il complesso rapporto tra letteratura e società nell’ambito delle democrazie popolari satelliti del mondo sovietico. Demistificando esplicitamente ogni idealizzazione del socialismo reale, evoca e analizza tanto l’adesione quanto la dissociazione degli intellettuali al sistema (il Murti-Bing) consolidatosi in Polonia nel dopoguerra. In aperto contrasto con la lettura ideologizzata dell’intellettuale dissidente diffusasi nell’ambiente europeo filo-comunista, Czesław Miłosz ritrae la condizione divisa dell’individuo all’interno di un regime totalitario, attribuendone la libertà di pensiero e parola ad una pratica eretica (il ketman) basata sulla dissimulazione, sulla perfetta comprensione e conversione dei meccanismi censorii in cui vive. Fonte di aspre polemiche fin dall’uscita, il saggio-romanzo offre una prospettiva critica inedita sulla libertà umana, e una chiave di lettura preziosa al registro antifrastico che domina la produzione del poeta, come mostra il mondo evocato nel noto componimento Fanciullo d’Europa.
In un dialogo sulla letteratura conJosif Brodskij, realizzato nel 1989 e pubblicato nel 2001 sulla rivista Zeszyty Literackie, parlando degli scrittori che l’hanno influenzato, Czesław Miłosz scrive:
« E poi l’influenza, una forte influenza del mio cugino francese Oscar Milosz. Aveva scritto in maniera stupefacente il suo primo trattato metafisico nel 1916, conoscendo lo sviluppo delle teorie di Einstein (…) se non sbaglio pubblicate nella sua prima versione proprio in quello stesso anno. Lui credeva che la teoria della relatività aprisse le porte di una nuova era di armonia tra la scienza, la religione e l’arte. Per il semplice motivo che il mondo newtoniano è per principio contrario all’immaginazione, all’arte, alla religione. Io perciò seguii quella traccia e constatai con stupore che erano idee prossime a William Blake, che, anche se ovviamente non poteva sapere nulla della relatività, aveva fatto nascere le proprie teorie nella fisica. E anche Goethe, in una sorta di ribellione istintiva contro la via intrapresa dalla scienza ottocentesca (…) Una questione fondamentale è che per Newton lo spazio era stabile e obbiettivo, invece per la fisica contemporanea e anche per Oscar Milosz, una cosa simile non può esistere perché tutto è un unicum di moto, materia, tempo e spazio.» |
CZESLAW MILOSZ, POETA DELL’INATTUALITÀ
(da L’Unità del 15 agosto 2004)
Sperando nel Caso rivelatore e illuminante in cui credevano gli Antichi, apro di colpo le pagine della mia copia ormai semiconsunta delle Poesie di Czeslaw Milosz, e il libro si schiude su Caduta, una poesia del 1975, che nella versione di Pietro Marchesani recita: “La morte di un uomo è come la caduta d’uno stato potente, / che possedeva eserciti prodi, capi e profeti, / e ricchi porti, e bastimenti su tutti i mari, / e ora a nessuno correrà in aiuto, con nessuno stringerà alleanza, / perché le sue città sono vuote, la popolazione dispersa, / il cardo ha ricoperto la sua terra un tempo doviziosa di messi, / la sua missione dimenticata, perduta la lingua, / dialetto di un paesello lontano su inaccessibili monti”. Ed è subito la sua voce, il tono inconfondibile del Milosz poeta, qual salmodiare asciutto sul filo del canto ma come incidendo con uno stilo acuminato su una tavoletta o su una pietra. Il “dialetto di un paesello lontano” fu il polacco, la lingua in cui al contrario di Nabokov o di Brodskij che in esilio abbandonarono il russo, continuò a scrivere i suoi libri pur vivendo esiliato a Parigi per dieci anni e poi negli Stati Uniti dal 1961 e fino alla morte.
Cos’era esattamente Czeslaw Milosz, un saggista, un acuto politologo, un poeta? Nel 1953 uscì La mente prigioniera, un saggio capitale sulla capacità del totalitarismo sovietico di occupare la mente devastandola con l’uso di una perpetua falsificazione dei concetti, nel 1959 Milosz pubblicò La mia Europa, un racconto-saggio bellissimo dove biografia e saggistica politica, memoria du temps perdu e arte del ritratto si univano in una sorta di libro totale in cui il ricordare diventava una sorta di filo di Arianna intellettuale per scoprire la storia nascosta sotto la Storia; nel 1980, l’anno del premio Nobel, usciva La terra di Ulro, una enigmatica discesa nelle correnti sotterranee della cultura europea da Swedenborg a Blake a Dostoevskij alla Weil e fino al misterioso Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, poeta lituano-polacco ma in lingua francese tradotto anche da Montale, esoterico esageta dell’Apocalisse e per di più zio di Czeslaw. Dove si trovava il vero Milosz, in quale forma di scrittura e di avventura intellettuale? Con una sorprendente capacità di restare fedele a se stesso nel cambiamento, Milosz era perfettamente consapevole di questo suo spirito salamandrino difficilmente catalogabile, e trent’anni dopo aver pubblicato La mente prigioniera scrisse una prefazione: “Il mio libro spiacque praticamente a tutti. Gli ammiratori del comunismo sovietico lo giudicavano insultante, mentre gli anticomunisti sostenevano che mancava di una posizione politica chiaramente definita e sospettavano l’autore di essere ancora, in fondo al cuore, un marxista”.
In realtà Milosz aveva tracciato con La mente prigioniera un disegno del totalitarismo straordinariamente anti-ideologico, provando a scavare dentro la “mente prigioniera” con una sensibilità sottilissima per i dettagli concreti, e era riuscito a creare uno strumento conoscitivo che non smette di essere attuale: non è forse ancora oggi il “desiderio di sicurezza” a spingere verso un nuovo totalitarismo mediatizzato la mente occidentale? Milosz era riuscito a scavare dentro la rete intricata della menzogna che si compiace di sé senza mai cedere alla tentazione dell’astrazione o a quella della risposta risolutiva: si era mosso nella foresta totalitaria disincantata e arsa dell’inquinamento ideologico con le armi di un poeta, e il suo sismografo corporale non si era ingannato sulle trappole mentali della propria epoca.
Negli anni seguenti Milosz continuò a aggirarsi in quella waste land che con una espressione presa a William Blake aveva chiamato La terra di Ulro, il luogo dove “l’uomo mutilato” della modernità si limita a sopravvivere, e arrivò a una sorta di pessimismo sul presente quasi senza vie di uscita. Contro l’idea scientifica di un mondo disumanizzato perché misurabile e razionalizzabile fin dentro i campi di concentramento, nella Terra di Ulro Milosz cercò di costruire una mappa per evadere dalla modernità, una apologia dell’inattualità, una genealogia per dissidenti assoluti: muovendosi tra Dostoevskij demonologo della società di massa e Blake profeta dell’Immaginazione contro la schiavitù dell’industria.
Milosz provò disperatamente a contrapporre alle lacerazioni e all’anomia provocate dalla cieca tracotanza della tecnica, una dimensione totalmente altra dell’esistenza: la capacità immaginativa, l’arte di vedere il mondo secondo una prospettiva creaturale, uno sguardo capace di ridare significato a una vita spezzata dall’alienazione. Ma questa operazione quasi alchemica di ritrovamento dell’essenza vitale diventata filosofia era destinata al fallimento: solo attraverso la poesia, solo in quel territorio sospeso dove vigono le leggi dell’immaginazione, era possibile il suo sogno di risalire la corrente, di arrivare in un luogo dove le cose potessero essere nominate con il loro nome proprio. Ma per quali vie? Nei versi di Ars poetica Milosz parlò dell’ispirazione con una sorta di splendido ossimoro che affermava negando: “Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente: / sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse, / sbattiamo quindi gli occhi come se fosse balzata fuori una tigre, ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi. Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon, /benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo…”, e mescolando ironia e metafisica concludeva quasi con rassegnazione: “è lecito scrivere versi di rado e controvoglia, /B spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento”. Ma proprio attraverso questo tono “basso” e “colloquiale”, appare improvvisa in Milosz la visitazione demoniaca, la rivelazione di un’altra possibilità: “Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano / provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo. / Mi sembra che da una propensione reciproca così grande / potrebbe finalmente risultare la verità ultima”. Ma la verità ultima è sfuggente, e soprattutto è mascherata dalla metamorfosi della realtà, ed è per questo che nessuna poesia che cerchi di afferrarne anche solo un brandello può essere definitiva: “Ricomincio continuamente da capo, perché ciò che dispongo in racconto / si rivela una finzione, comprensibile per gli altri, non per me, / e il desiderio di verità mi rende disonesto”.
Il pericolo che si nasconde nella poesia è la finzione, l’abbellimento estetizzante delle cose, la perdita del contorno reale del mondo in cambio della sua ombra menzognera: “Cos’è la poesia che non salva i popoli né le persone? / Una complicità di menzogne ufficiali, una cantilena di ubriachi a cui fra un attimo verrà tagliata la gola, / una lettura per signorinette”. La poesia forza con Milosz la cittadella della ragione pura e la mette a soqquadro con la sorpresa, ma nello stesso tempo non rinuncia nemmeno a una briciola del suo potere conoscitivo: ma come potrebbe farlo rinunciando all’elemento visionario? È questo il gesto da classico della modernità che Milosz ha attuato, e contro la modernità. Attraverso tutte le forme e gli stili della poesia contemporanea, Milosz ha contrabbandato qualcosa che doveva essere irriducibilmente diverso da esse, ma che in realtà si è espresso proprio nelle ferite e nelle lacerazioni del contemporaneo.
In una poesia del 1945 sulle macerie di Varsavia, aveva scritto di non voler cantare per i morti, di non voler sottostare al ricatto nichilistico della distruzione: “Sono forse venuto al mondo / per diventare una prefica? / Io voglio cantare i festini, / i boschetti gioiosi dove mi conduceva Shakespeare. Lasciate / ai poeti un istante di gioia / o perirà il vostro mondo”.
Nel cuore stesso della mitologia di morte del secolo breve la grandezza di Milosz è stata nel suo non cedere al ricatto del lamento, nel suo scavare senza illusioni sorgenti nel mezzo stesso delle macerie, in quella ostinazione a conservare e a dire il bene anche quando tutto sembra sommerso dall’orrore e dal brutto, semplicemente “perché nell’infelicità accorre una qualche armonia e bellezza”.
Ma la sua non fu la bellezza degli estetismi a un tanto al chilo, e fino all’ultimo lo accompagnò il dubbio che scrivere fosse ancora un esercitare potere, una forma dell’avidità e della sopraffazione. Fu per questo che la poesia, come aveva chiesto, lo visitò a volte sotto le sembianze di un demone benigno, come quel Dono che dà il titolo a una sua poesia: “Un giorno così felice. / La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino. / Non c’erano cose sulla terra che desiderasse avere. / Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare. / Il male accadutomi, l’avevo dimenticato / Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono. / Nessun dolore nel mio corpo. / Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele”. Non c’era più di questi attimi di salvezza che la poesia potesse concedere a lui che la scriveva e a noi che la leggiamo: appena un filo di voce, sull’orlo del precipizio, per chiamare finalmente le cose con il loro vero nome.
(Giuseppe Montesano)
Czeslaw Milosz
Orfeo e Euridice
Sulle lastre del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo era piegato dal vento impetuoso,
che gli tirava il soprabito, faceva roteare matasse di nebbia,
si agitava nelle foglie degli alberi. I fari delle auto
ad ogni afflusso di nebbia si smorzavano.
Si fermò davanti alla porta a vetri incerto
se le forze lo avrebbero sorretto in quell’ultima prova.
Ricordava le parole di lei: “Sei un uomo buono”.
Non lo credeva molto. I poeti lirici
hanno di solito, pensava, un cuore freddo.
E’ quasi un limite. La perfezione dell’arte
si ottiene in cambio di tale imperfezione.
Soltanto il suo amore lo riscaldava,
lo rendeva umano.
Quando era con lei, diversamente pensava di sé.
Non poteva deluderla, adesso che era morta.
Spinse la porta. Percorreva un labirinto di corridoi,
di ascensori.
La luce livida non era luce, ma oscurità terrestre.
I cani elettronici gli passavano accanto senza frusciare.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento,
sempre più giù.
Sentiva freddo. Era consapevole di trovarsi
nel Nessunluogo.
Sotto migliaia di secoli rappresi,
nel cenerume di putrefatte generazioni,
quel regno sembrava senza fondo e
senza fine.
Lo circondavano i volti di una calca di ombre.
Alcuni li riconosceva. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva con forza la sua vita insieme con la sua colpa
e temeva d’incontrare quelli cui aveva fatto del male.
Ma essi avevano perso la capacità di ricordare.
Guardavano altrove, indifferenti a lui.
Come sua difesa aveva la lira a nove corde.
Portava in essa la musica della terra contro l’abisso,
che addormenta tutti i suoni col silenzio.
La musica lo dominava. Allora era remissivo.
Si arrendeva al canto imposto,
in estasi.
Come la sua lira, era soltanto uno strumento.
Finché giunse al palazzo dei governanti di quel regno.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli seccati,
nero di nudi rami e di grumosi rametti,
e il suo trono, funereo ametista – ascoltava.
Egli cantava il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
L’acqua fumante di un riflesso rosato.
I colori: cinabro, carminio,
siena bruciata, azzurro,
i piaceri di nuotare presso
gli scogli di marmo.
Il convito sulla terrazza nel chiasso
del porto dei pescatori.
Il sapore del vino, del sale, delle olive, della senape,
delle mandorle.
Il volo della rondine e del falco, il solenne
volo di uno stormo
di pellicani sul golfo.
Il profumo di fasci di lillà nella pioggia d’estate.
Cantava che componeva le sue parole contro la morte
e che nessuna sua rima lodava il nulla.
Non so, disse la dea, se tu l’ami,
ma sei giunto fin qui per riprenderla.
Ti sarà restituita. A una sola condizione.
Non ti è permesso parlarle. E sulla via del ritorno
di voltarti, per vedere se ti segue.
Ermes portò Euridice.
Il suo volto era diverso, affatto grigio,
le palpebre abbassate, sotto di esse l’ombra delle ciglia.
Avanzava come irrigidita, condotta dalla mano
della sua guida. Ah, come voleva pronunciare
il suo nome, svegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo che aveva accettato
la condizione.
Si avviarono. Prima lui, e dietro, ma non subito,
il battito sonoro dei sandali e quello tenue
dei piedi di lei impediti dalla veste come sudario.
Il sentiero in salita era fosforescente
nell’oscurità, simile alle pareti di un tunnel.
Si fermava e restava in ascolto. Ma allora
anche essi si fermavano, una fievole eco.
Quando riprendeva a camminare, risonava il duplice battito,
una volta gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Sotto la sua fede cresceva il dubbio
e lo avvolgeva come freddo convolvolo.
Non sapendo piangere, piangeva per la perdita
delle speranze umane nella rinascita dei morti,
perché adesso era come ogni mortale,
la sua lira taceva e sognava senza difesa.
Sapeva di dover credere e non sapeva credere.
E a lungo doveva durare l’incerta veglia
dei propri passi contati nel torpore.
Albeggiava. Apparvero i gomiti delle rocce
sotto l’occhio luminoso dell’uscita dal sottosuolo.
E accadde ciò che aveva presentito. Quando girò la testa,
dietro a lui sul sentiero non c’era nessuno.
Il sole. E il cielo e le nuvole su di esso.
Soltanto ora sentì gridarsi dentro: Euridice!
Come vivrò senza di te, o consolatrice!
Ma profumavano le erbe, durava basso il ronzio delle api.
E si addormentò, con la guancia sulla calda terra.
(traduzione di Paolo Statuti)
Archiviato in poesia polacca
Enis Batur, (Esckisehir, in Anatolia, 1952) è considerato il maggior poeta turco nell’attuale panorama letterario medio-orientale. Ha studiato a Istanbul, ad Ankara, a Parigi. Ha ricevuto, fin dagli anni trascorsi al Liceo francese di Saint – Joseph di Istanbul, una educazione improntata sulla cultura europea; e dal 1970 si stabilisce a Parigi dove si laurea in Lettere nel 1974 soggiornandovi a lungo. Ha soggiornato, negli anni successivi, anche a Napoli, Roma, Ankara, Esckisehir. A Roma è stato invitato, insieme a ad altri autori italiani e stranieri da Maria Luisa Spaziani a far parte della “Cattedra di Poesia” da lei fondata. Dal 1999 al 2003 ha insegnato alla Université Francophone de Galatasaray a Istanbul.
Animatore culturale, scrittore di saggi, di cinema, di musica, dà vita ad alcune riviste di Arte e di Letteratura e ben presto assume la direzione della prestigiosa rivista Sanat Dunyamiz. Diviene, tra l’altro, direttore editoriale della importante casa editrice turca Remzi Kitabevi a Istanbul. Dal 1992 al 2004 ha diretto la Yapi Kredi, sempre a Istanbul, e ha curato la pubblicazione di Proust, Sartre, Celine, Derrida, Focault, Barthes.
Ampia la sua produzione poetica, narrativa, saggistica, il cui successo di critica e di pubblico è pieno e immediato nonostante la sua apertura verso la cultura occidentale. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue: italiano, persiano, arabo, inglese, tedesco, francese e rumeno. La traduzione in lingua italiana della maggior parte dei suoi lavori è stata curata da Işıl Saatçioğlu, studiosa di letteratura e valente saggista. Tra i suoi critici: Dogan Hizlan, Melih Cevdet Anday.
La sua opera, in lingua turca, contiene un centinaio di titoli, per la maggior parte testi di poesia. Eros ve Hgades e Una solitudine medievale risalgono al 1973; seguono: Libro intermedio, Vangelo secondo Satana, 1979; Serbatoio (Sarnic, 1985); Lucerna (1981); Divan grigio (poema ottomano, 1990) Prove di coma; Cosa fatata (Perisey): una raccolta di liriche composte dal 1985 al 1992, premiata dal prestigioso Sureye Odulu e recensito da Hizlan. Seguono: Scritti e sigilli, (Yazilar ve Tugralar) Fondazione Piazzolla, Roma, 1992 che raccoglie la sua opera poetica dal 1973 al 1987; il poema: Le sarcophage des pleureuses, pubblicato con la casa editrice francese Fata Morgana, (2000); Imago mundi a cura di Işıl Saatçioğlu e recensito da Maio Luzi, edito da Garzanti, Milano, 1994. Ha inoltre pubblicato i poemetti: Talismano e tragedia; Route serpentine (Artes Sud); Penceler (Artigli). In prosa: Seme di cocomero; i romanzi: La pomme e Conoscenza amaro (Artes Sud, 2004); Diario di Saint Nazaire (Meet 2001). Tra i saggi: Mio labirinto-biblioteca (Blu Rotondo, 2006); Questa matita è un camaleonte, 1988; Poesia e ideologia: uno studio sulle letterature europee, (1979).
Enis Batur è il poeta turco vivente che ha maggiormente contribuito a recare una innovativa impronta occidentalizzante alla poesia turca contemporanea, imprimendo un decisivo “sigillo d’identità” alle nuove generazioni del suo paese; un paese costituito, come è noto, da molteplici forze eterogenee data la compresenza di diverse etnie linguistiche, ideologiche, religiose talora in forte contrapposizione tra loro: da quelle liberali e moderatamente progressiste aperte all’Occidente europeo, a quelle ancorate a resistenze integraliste.
L’intensa attività letteraria di Enis Batur introduce nuove tonalità foniche ed espressive riuscendo a conciliare senza forzature modernità e mito, suggestioni e risonanze del leggendario mondo medio-orientale delle origini con le più avanzate ricerche formali sul linguaggio: l’introduzione di sapienti filtri linguistici nella struttura frastica, la scansione ritmica del verso, la centralità, tutta occidentale dell’io, la sua coscienza esistenziale e simbolica che da Dante va perpetuandosi fino a Pound e oltre.
Le scelte artistiche di Batur fin dagli inizi degli anni Ottanta appaiono, dunque, ben delineate sulla base di una ricerca sperimentale sulla materia linguistica con l’introduzione di dissonanze espressive e foniche, di “cortocircuiti” interni al gioco verbale al fine di piegarne la struttura oltre il referente specifico, senza tuttavia violarne la peculiarità semantica originaria. Spazialità, simbolismo, colore, sono i cardini di questa scrittura che visualizza la complessità di ruoli archetipici dell’ “intellettuale-vate” e del “monaco-errante” sintetizzati nelle espressioni: “mesih-aydin” e “kasis-sair” che traspaiono nella tensione frastica del testo.
Il poeta, secondo la visione baturiana, non può non avvertire la responsabilità di arricchire la poesia dell’apporto vitale di tutti i suoi rami, di farne fluire la linfa nel grande “tronco-serbatoio” del corpus poetico, ponendo in rilievo la simbologia del doppio attraverso l’immagine ricorrente del “grande uccello” (che abbraccia nel volo i due orizzonti che spaziano da Levante a Ponente) nel quale il poeta, alla ricerca costante di un equilibrio attraverso la poesia, s’identifica.
Batur è il poeta dell’io sdoppiato, dei tanti io disseminati in innumerevoli altri come tanti se stesso fino ad esaurire quasi se stesso nello scambio: (…) Un continuo viaggio in cui vado fuori di me, ovvero un viaggio verso il mio vero io. Un viaggio-processo in cui egli vive problematicamente fino in fondo la propria condizione metamorfica. Nel Sarcofago delle donne che piangono, sembra approdare a un finale congiungimento con l’altro da sé nell’unità dell’io.
(Marisa Papa Ruggiero)
da Serbatoio
.
Papiro, inchiostro, piuma d’oca.
Dalla mia radice sorge un boato verso la vetta
verso il nucleo di un evo scuro,
apro dinanzi a me un atlante: di scala infinita,
che copre la terra, i cieli e oltre i cieli,
un atlante per monte e vallata, mar interno, alto mare, mar morto,
un atlante per il mio volto derviscio vagante per monti e valli,
per la mia voce di vate, il mio sguardo di monaco errante.
Flaneur, wanderer, santo vagabondo
Immerso in invincibili stupori: dov’è il mio nido,
dov’è il muto monumento di deserto eretto da me
al signore-padrone che ho ucciso, dove sono i bambini
che di notte partorisco senza fine: d’improvviso calo su di me
come un incubo, come fossi un acquazzone
non invocato:
seppur trabocco e faccio traboccare
trascorro dappertutto.
.
*
Mio sosia, mio simile, mio specchio: crolla
l’era e nel vento, che turbina le pagine
di tutti i calendari verso il vuoto, si mescolano i giorni e le notti.
Si fermano gli orologi
e non riusciamo più a fissare
sulle facce contrastanti delle lancette
quel sottile equilibrio.
E una vite non combacia ormai
nel giro che la spana, un verbo
mi si aggira sulla punta della lingua e
un imponente uccello,
veloce, muto e acuto
dispone al volo le ali dentro me,
e dal limitare di un volo senza ritorno,
guarda in lontananza, con pena e un po’ d’orgoglio,
l’infinita aritmetica
degli orizzonti che seguono all’orizzonte,
e come saettando da un arco
senza aprire le ali
si allontana dalla gravità,
con l’invisibile forza della sua sorgente invisibile.
Imago mundi
Ecco, leggo sul mio corpo le impronte
pian piano: il tatuaggio irato sulla spalla sinistra
è del secolo in cui erravo in una nave genovese,
mercante ambulante. Più giù, sulla coscia
l’ombra del pugnale. Le macchie che talvolta trascorrono
sul mio indecifrabile viso sono ricordo
di una malaria indiana. I miei occhi?
I miei occhi sono senza luce, sono senza storia:
pietrificati a Pompei dallo sgomento, cavati a Ninive
da una statua di gatto in oro massiccio,
forse caduti da un affresco,
sono due valori vani,
volati via forse con le loro espressioni complesse
da un’icona il cui volto
il tempo in fretta rode.
da Fumo
Si sono aggirate dentro i miei sogni d’argento
di notte in notte
le donne tartare dalle grandi mammelle
e un cavallo schiuma,
ha battuto le grondaie la pioggia,
sui tetti di lamiera
sulla scaletta di un accordo
si è arrampicato su e giù
il pianoforte senza sosta,
era settembre
oppure fra settembre e ottobre
un mese in cui nessuno ha conosciuto nessuno?
fumo di sigaretta in una stanza e silenzio,
ci eravamo riuniti Vladimir, Sergei e io,
quanto era privo di senso suicidarsi,
non suicidarsi.
Ho girato dentro un sonno d’argento
dietro alle selvagge cavalle bianche,
sono passato velocemente davanti alle mie fasce
e alla mia pietra,
ho visto: in una stanza incendiati tutti
si erano riuniti
il Tempo che avevo trafitto, il fumo di sigaretta,
il proiettile uscito dalla canna
– mi sono svegliato,
mentre stavo per fermare: due treni in me scontrati.
.
(traduzione di Işıl Saatçioğlu, in Scritti e Sigilli
Vladimir e Sergej sono i nomi, rispettivamente, dei poeti Maiakovskij e Esenin).
*
Guardava i gabbiani di continuo.
Non capiva: perché nel vuoto
innalzandosi uno, uno discendendo
trascorrevano il loro tempo
alla ricerca di un equilibrio
che di nuovo si sarebbe spezzato.
Un suo amico pensava alle cose da fare
credeva a ciò che pensavano
di nuovo pensava “forse di continuo
devono mettere alla prova le ali”
aveva detto, e di nuovo cercava
alla domanda che lui stesso aveva posto
tutte le repliche adatte: pensare alle cose da fare
senza dar retta ai loro pensieri
era rivoltarle come un guanto.
Anche i gabbiani facevano così, d’altronde:
s’innalzava uno, planava un altro,
cercavano per un precario equilibrio il punto d’oro.
.
[la serie: Pençeler (Artigli), raccoglie 25 poesie]
Sul Finire dell’Anno degli Aztechi
(…)
Io sono andato alla fine del buio.
Lì ho gridato quando erano mute le finestre
e le porte chiuse a chiavistello:
è ritornata l’eco e mi ha colpito
sul volto: se sono affondato, sedimento, nel mio fondo
non mi agiti più nessuno.
La silloge Perisey raccoglie liriche costruite con sensibilità scenica come in una ideale stanza, ritrae momenti di vita colti nell’immediatezza di esperienze relazionali.
.
da Fugue, IV scena
(…)
“L’avrei dovuta portare nelle mie città”
aveva detto l’uomo. “Nelle mie vie,
nei miei vicoli ciechi, nelle case in cui
ho traslocato senza fine, nessuna delle quali ho dimenticato”.
.
da Facce, V
Non vergognatevi del male c’è in voi, io
amo il fuoco che vi si spande sulle guance,
amo io il male e l’intimo che lievita su
dal vostro collo. Lo si potesse svelare,
se solo poteste stracciarvi la camicia
da cima a fondo. Conterei ad una ad una
le vostre ciglia biondissime mentre cola
e risale il petto, una mano appassitami
nel fuoco, l’altra sui vostri orecchi:
bionda peluria sottile, mammella,
cascata.
da Facce, VI
così lucente, il sole d’estate. I pori della pelle opaca
aperti alle vie d’acqua salata, brillano i suoi occhi
se toglie gli occhiali: uno marrone, l’altro verde:
questi capelli dalla radice grigia, quest’inizio
di rughe e da una mappa di fine indefinita: correndo
di espressione in espressione appaiono e scompaiono
negli Specchi Magici dolore, nostalgia, tocchi d’ape
e cotone. È un pesante vocabolario il vostro viso,
sapessi leggerlo.
Marisa Papa Ruggiero studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli. (Corsi post diploma di Graphic Design, di Arti Applicate, Corso di Pittura, Accademia Belle Arti e diploma di laurea. A Napoli, dove da anni vive e opera, ha svolto attività didattica e artistica. E’ intensamente attiva sia sul fronte della scrittura creativa, con particolare riguardo alla poesia, sia su quello della verbo-visualità, con partecipazione a mostre e a raccolte antologiche.
Dal 1991 decorrono le sue pubblicazioni di poesia in volume con: Terra emersa, Napoli, collana L’assedio della poesia; Limite interdetto, Salerno-Roma, ed. Ripostes, 1993; Origine inversa, con nota critica di M. Bettarini, Napoli, Alfredo Guida Editore, 1995; Campo giroscopico, con prefazione di Michele Sovente, Quarto – Napoli, ed. Riccardi, 1998; Persephonia, con prefazione di Mario Lunetta, Lecce, Pietro Manni Editore, 2001; Oblique ubiquità, in Locus solus, Ed. Riccardi 2003; Passaggi di confine, con prefazione di M. Fresa, Salerno, ed. L’arca felice, 20011; Di volo e di lava, prefazione di Giancarlo Pontiggia – Alessandria, Puntoacapo editrice, 2013. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde – 2008, e alcuni libri d’artista. Suoi testi poetici sono stati rappresentati a Napoli dal gruppo di cultura teatrale L’Ascolto. E’ presente con brevi saggi critici, con testi poetici e in prosa in riviste italiane ed estere, in siti web e in blog letterari dedicati alla poesia, oltre che in raccolte antologiche. Ha partecipato come redattrice alla fondazione di alcune riviste napoletane di ricerca letteraria; attualmente è redattrice della rivista di poesia: Levania.
Archiviato in antologia di poesia contemporanea
− Chiediamo dopo i primi convenevoli – lei ha cominciato subito a scrivere per l’editore Garzanti o esistono altri suoi scritti a cura di altri editori?
− Sì, esistono, pubblicate da Sansone, le Poesie Friulane, uscite in edizioncine fuori commercio; a cura di Guanda è stato poi pubblicato anche un volume di critica.
− Da giovane si è dedicato di più alla poesia? Quali sono stati nei primi anni i suoi autori preferiti?
− Mi sono dedicato molto alla poesia, da giovane. La prima che scrissi fu all’età di sette anni e mezzo. Da ragazzo, parlo di autori extrascolastici, ho letto Carducci, un po’ meno Pascoli. A quindici anni Shakespeare e Dostoevskij.
− Non rammenta nessun particolare spiacevole, in gioventù, relativo alla sua attività di scrittore?
− Mi lasci un po’ ricordare… Sui diciassette anni, una poesia rifiutata dal giornale del Guf di Bologna perché considerata troppo personalistica.
− E uno piacevole?
− La cartolina del critico Franco Cantini: «Il suo libro mi è piaciuto tanto. Lo recensirò». Si tratta delle poesie in friulano pubblicate a venti anni. Abbiamo atteso che terminasse di dare un’occhiata al numero di marzo del nostro periodico, poi abbiamo continuato.
− È un po’ lunga questa intervista. Ci scuserà. Indubbiamente le piacerà la musica classica. Quale autore predilige? E che pensa degli indiavolati ritmi moderni?
− Fra tutti, Bach, per il suo estremo rigore mentale, per la sua mancanza di facilità. Niente da ridire sulla musica moderna. Ai cantanti italiani però preferisco quelli americani. Gli italiani mi sembrano dei dilettanti. E poiché volevamo entrare in un argomento molto delicato, siamo andati per le lunghe. Quindi abbiamo cominciato a parlare di “Una vita violenta”.
− Le è costato quattro anni di lavoro. A differenza della Sagan che sforna due libri l’anno…
− Affronta problemi difficili…
− Un semianalfabeta – abbiamo incalzato – in un paio d’ore legge la Sagan. A nostro modesto parere non esistono personaggi che s’impongono, né problemi, né originalità di trama in questi romanzi.
Ma con un sorrisetto diplomatico, Pasolini è passato ad altro argomento. E noi non abbiamo insistito.
− Leggemmo sul «Reporter» la polemica con Marotta. Riuscire a fare una bella fusione tra dialetto e lingua è senz’altro molto difficile. Potrebbe dirci, per favore, quali motivi l’hanno spinta a scrivere così?
− Sono motivi troppo lunghi per riassumerli in una risposta… Ho usato il dialetto soltanto nei due romanzi. Ho l’ambizione di scrivere romanzi veramente oggettivi, non soltanto nella sostanza ma anche nella superficie; voglio cioè raggiungere un’oggettività integrale e non posso prescindere dal fatto che nell’ambiente nel quale creo i miei personaggi si usa esprimersi in dialetto. Quando abbiamo parlato di una recensione apparsa sul «Quotidiano», di “Una vita violenta”, nella quale si diceva: «Lessi dieci anni fa una bellissima poesia di Pasolini… Cosa può ora in un fervido ingegno un’anima malata!», Pasolini ci ha spiegato che il recensore si riferiva alle prime poesie, a quelle decadentistiche e misticheggianti. Le altre del secondo periodo (“Le ceneri di Gramsci”, “La meglio gioventù”) erano già di un’anima malata. Diciamolo tra noi, cari lettori: quel critico ha fatto meticolosamente il suo dovere di recensore.
− Ha qualche altro lavoro in preparazione?
− Sto scrivendo delle poesie che raccoglierò in due volumi. Sto mettendo a posto un libro di saggi. È in preparazione un nuovo lavoro, “La mortaccia”, che descrive la discesa di una prostituta all’inferno secondo la falsariga dell’Inferno Dantesco. I personaggi che vi si trovano sono contemporanei.
− Quando avremo il piacere di leggerlo?
− Fra due o tre anni.
Qui non possiamo che esprimere i nostri auguri più fervidi: è chiaro il perché Pasolini prediliga Bach.
− Per concludere, la nostra Rivista nega che esista un problema dei giovani. Esistono i teddy-boys? E se esistono, quali pensa ne siano le cause?
− I teddy-boys esistono nelle città che somigliano alle metropoli americane: Milano, Torino, Bologna, e sono frutto della scontentezza ideologica; in questa nazione dominata dal capitalismo. Da Roma in giù, nelle zone agricole sono pochissimi e per questi ultimi la causa è da attribuirsi alla disoccupazione e alla mancanza di scuole.
«Virgola», luglio 1960
Pier Paolo Pasolini da “Le ceneri di Gramsci” (raccolta scritta nel 1954 e pubblicata nel 1957) |
Alberto Asor Rosa, in Scrittori e popolo, stigmatizza l'”eccesso di tensione” presente nei primi componimenti de Le ceneri di Gramsci pubblicata nel 1957: L’Appennino, Canto popolare, Umile Italia. Ma è sul «populismo» di Pasolini che si incentra l’analisi di Asor Rosa:
«E’ da osservare, innanzi tutto, che il populismo pasoliniano fa ora un altro passo innanzi verso una coerente completezza. Se la fase dei primi poemetti aveva rappresentato per lo scrittore il passaggio da un populismo istintivo a un populismo cosciente, ora il populismo comincia a caricarsi di un preciso significato politico. Dietro l’ideologia del populismo si profila la presenza di una cultura, che si fa garante e in un certo senso testimone oggettiva, storica della visione pasoliniana di popolo. Si fanno i nomi di Croce e Gobetti, quasi a testimoniare la comparsa di una dimensione morale; si fa, soprattutto, il nome di Gramsci, e dietro o in Gramsci s’individua la funzione attiva, rivoluzionaria, di un’ideologia marxista».
Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: “Cinera Gramsci” con le date.
I
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia
con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…
Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano
delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera
rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
– familiari da latitudini e
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
invocazioni…
III
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza…
IV
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
V
Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale…
altri vizi esso ha, altro è il nome
e la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardore
liberale… e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infime minuzie
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona
Shelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica
e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro…
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
del mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
in luride spiaggette…
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
VI
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
che al quartiere in penombra si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
caseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza –
quella vita non è che un brivido;
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
che per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione. Quanto più è vano
– in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine…
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina… Manca poco alla cena;
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccolette
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
vespertina; e scrosciano le saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce… Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
(1954)
Aldo Onorati, nato ad Albano di Roma nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Intervite oggi» e «Quaderni di filologia e critica».
Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con Edilet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, Edilet).
Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012).
La sua autorità di dantista lo porta a commentare il sommo Poeta in Italia e all’estero. Di recente, la Presidenza Centrale della Società Dante Alighieri gli ha conferito, al Vittoriano di Roma, il diploma di benemerenza con medaglia d’oro «Per la profonda conoscenza dell’Opera dantesca, al punto di diventare testimone nel mondo della Divina Commedia». È in via di pubblicazione con la stessa Società un’ampia sinossi critica dei 34 canti dell’Inferno. Le sue opere di poesia e di narrativa sono state tradotte in 16 lingue, fra cui Coreano, Esperanto, Francese, Inglese (Ultima «Incontro con Zaccaria Negroni», X ed.), Spagnolo, Portoghese, Romeno, Tedesco, Russo (la silloge «Domande assurde» è apparsa prima a Mosca, tradotta e prefata da Evghenij Solonovich, e poi in Italia), Cinese, Polacco etc. Ha diretto una collana di ecologia da Armando, scrivendo alcuni libri di successo per le scuole: «Ecologia, Cassandra del Duemila». Al presente collabora a “Pagine della Dante” e a «Leggeretutti».
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Gëzim Hajdari, uno dei maggiori poeti contemporanei, è nato in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Ha studiato all’Università di Elbasan e alla Sapienza di Roma. In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio in un’azienda per la bonifica dei terreni, due anni come militare, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione. E’ cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës.
Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha e dei recenti regimi mascherati post-comunisti; dal 1992 è esule in Italia. Bilingue, scrive in albanese e in italiano. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. E’ vincitore di numerosi premi letterari. E’ presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale.
Ha pubblicato con Ensemble, Nur: eresia e besa.
Gezim Hajdari e Laura Toppan (docente all’Università di Lorraine-Nancy 2) durante la presentazione della sua antologia Poesie scelte al Centro Internazionale di Lingua e Cultura Italiana a Parigi, 2008
Nota di Armando Gnisci
Questo scritto che il poeta albanese in esilio da molti anni in Italia, ha donato a Kuma, presenta alcune sue “Opere patriarche”[1] che sono uscite in italiano nel 2012 per la casa editrice Besa. Dobbiamo pensare a Gëzim Hajdari non solo come migrante linguistico, ma anche come uno spirito forte che vive tra noi in esilio politico. Gli italiani che lo leggono e lo apprezzano devono guardarlo come una generazione fa in Italia si guardava Rafael Alberti, il grande poeta spagnolo antifranchista in esilio da noi. Ma chi si ricorda di lui è morto. Intendo per “opere patriarche” i testi in onore della memoria delle cose vicine e di quelle lontane della storia albanese che Gëzim va studiando e traducendo in questi anni. Il poeta in esilio, in questo caso, propone al mondo e alla sua patria-nazione ancora non libera i punti memorabili della storia antica e nascosta e quella del periodo che abbiamo alle spalle della vicinissima e inesplorata, e feroce dittatura di Enver Hoxha. Il poeta in esilio, solo e con le sue mani, da sé e senza nessuno che l’aspetti o lo commissioni, costruisce monumenti di marmo e di fogli per riesumare con ardore e compassione la storia quasi morta ma giù muta dell’Albania. Lui, che è un esule politico e vive in povertà si fa storico del suo paese che non conosce ancora la sua storia. Gëzim sembra un poeta antico, in un’epoca e in una terra decadente in cui i poeti sono tanti ma minimi, dopo che Sanguineti e Zanzotto non scrivono più, e i non-poetici sono buffoni e criminali, riccastri e irresponsabili. E l’Italia non è più un paese per esuli, anche se qualche volta lo è stata.
(Armando Gnisci)
Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012
(Pubblichiamo il poema per gentile concessione della rivista Lettera Internazionale sulla quale è stato pubblicato nel n. 120, ottobre, 2014)
Fare il contadino della poesia
Fare il contadino della poesia vuol dire tornare all’Essere,
fare il contadino della poesia vuol dire riscoprire le radici,
fare il contadino della poesia vuol dire bere alla fonte,
fare il contadino della poesia vuol dire parlare con i sassi,
fare il contadino della poesia vuol dire ascoltare la terra
fare il contadino della poesia vuol dire rileggere il cielo e la terra,
fare il contadino della poesia vuol dire recuperare i sapori,
gli odori, i colori e i raggi solari mediterranei,
fare il contadino della poesia vuol dire portare nelle narici
i profumi campestri gli odori delle erbe, i canti dei merli,
fare il contadino della poesia vuol dire sapere chinarsi
a raccogliere,
fare il contadino della poesia vuol dire chiamare le cose
per nome come fanno i muratori,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un poeta
della campagna,
fare il contadino della poesia vuol dire essere allo stesso tempo
poeta di campagna e di città,
fare il contadino della poesia vuol dire avere un cuore caldo
come la pietra focaia,
fare il contadino della poesia vuol dire mangiare la terra,
fare il contadino della poesia vuol dire lavarsi con la terra,
fare il contadino della poesia vuol dire essere maledetto dagli xhin ,
fare il contadino della poesia vuol dire disincantarsi dell’industria
culturale che produce libri come le scarpe di moda,
fare il contadino della poesia vuol dire creare una poesia come il vino
della vigna, come i fichi d’india, come il pane della campagna,
fare il contadino della poesia vuol dire ridare la dignità perduta al Verbo,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un artigiano della parole,
fare il contadino della poesia vuol dire rispecchiarsi negli occhi della mucca,
fare il contadino della poesia vuol dire riconoscere nell’asino,
nel cavallo e nella mucca, i nostri antenati,
fare il contadino della poesia vuol dire che i versi abbiano
il profumo inconfondibile del pane caldo a tavola,
fare il contadino della poesia vuol dire guadagnare il piatto
quotidiano col sudore della propria fronte,
fare il contadino della poesia vuol dire sopravvivere alla giornata
lontano dalla patria tradita dai figli indegni,
fare il contadino della poesia vuol dire non possedere nulla
oltre il proprio corpo, non lasciare nulla,
fare il contadino della poesia vuol dire credere nel potere
della poesia come i credenti credono nel potere di dio,
fare il contadino della poesia vuol dire comunicare con dio,
fare il contadino della poesia vuol dire scrivere la propria Bibbia
e il proprio Corano,
fare il contadino della poesia vuol dire tornare all’origine
del messaggio del Verbo,
fare il contadino della poesia vuol dire ridare la dignità perduta
all’uomo,
fare il contadino della poesia vuol dire ricostruire il tempio
delle parole, distrutto dagli eunuchi del minimalismo sterile,
fare il contadino della poesia vuol dire sputare sulle banalità
letterarie contemporanee di Roma, osannate e glorificate dalla mafia
politica e culturale,
fare il contadino della poesia vuol dire pisciare sulle poetiche,
fare il contadino della poesia vuol dire produrre poesia, non poetica,
fare il contadino della poesia vuol dire essere poeta e non
scrittore di poesia,
fare il contadino della poesia vuol dire recuperare il senso epico,
musicale e civile della parola,
fare il contadino della poesia vuol dire scrivere semplice
ed essere profondo,
fare il contadino della poesia vuol dire farsi capire come gli epici.
fare il contadino della poesia vuol dire crescere le parole con pazienza
come il giardino cresce le pietre focaie,
fare il contadino della poesia vuol dire scrivere sul proprio corpo
fare il contadino della poesia vuol dire scrivere con il proprio corpo,
fare il contadino della poesia vuol dire vivere il corpo,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un poeta
di petto e di pancia, non di testa e di gola,
fare il contadino della poesia vuol dire recuperare la divinità
della parola,
fare il contadino della poesia vuol dire essere libero,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un individuo,
fare il contadino della poesia vuol dire non chiedere parole
in prestito,
fare il contadino della poesia vuol dire coniare la moneta
del proprio Verbo,
fare il contadino della poesia vuol dire fare della tua nazione
l’Europa,
fare il contadino della poesia vuol dire riconoscersi nella propria
voce,
fare il contadino della poesia vuol dire bellezza,
fare il contadino della poesia vuol dire eros,
fare il contadino della poesia vuol dire spingere la gente
all’amore,
fare il contadino della poesia vuol dire sedurre come seducono
gli amanti,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un amante,
fare il contadino della poesia vuol dire fare l’amore dodici volte
al giorno come una pernice,
fare il contadino della poesia vuol dire essere virile,
fare il contadino della poesia vuol dire essere Uomo,
fare il contadino della poesia vuol dire appartenere alla stessa
razza umana ed essere se stesso,
Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi
fare il contadino della poesia vuol dire essere umano,
fare il contadino della poesia vuol dire tornare al mito,
fare il contadino della poesia vuol dire metter in moto
il mondo dei sensi,
fare il contadino della poesia vuol dire scendere nel proprio
io centrale tramite gli spiriti e le divinità degli antenati
fare il contadino della poesia vuol dire contropotere,
fare il contadino della poesia vuol dire sfidare l’ordine
dei poteri oscuri,
fare il contadino della poesia vuol dire essere uno scultore
della poesia,
fare il contadino della poesia vuol dire rischiare per la propria
poesia,
fare il contadino della poesia vuol dire resistere,
fare il contadino della poesia vuol dire nutrire la propria parola
con il proprio sangue,
fare il contadino della poesia vuol dire diventare carne e sangue
delle proprie parole,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un rivoluzionario,
fare il contadino della poesia vuol dire leggere la Storia
con i propri occhi e conoscere la ControStoria,
fare il contadino della poesia vuol dire misurarsi con la Storia,
non con i propri coglioni,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un ‘eretico’,
fare il contadino della poesia vuol dire non scendere mai ai patti
con i boia dell’umanità,
fare il contadino della poesia vuol dire demistificare i pseudo miti
del realismo socialista che hanno servito il regime comunista
e la lotta di classe nella mia Albania,
fare il contadino della poesia vuol dire raccontare sempre la verità,
fare il contadino della poesia vuol dire interpretare il mondo
dalla mia Darsìa ,
fare il contadino della poesia vuol dire colloquiare con l’Europa
da balcanico,
fare il contadino della poesia vuol dire cogliere l’Assoluto,
la solitudine di dio e il mistero dell’esistenza,
fare il contadino della poesia vuol dire creare un dio a propria
somiglianza,
fare il contadino della poesia vuol dire saper leggere nel fango,
nel freddo, nel gelo, nel silenzio nella solitudine, nella polvere
che ci circonda, il mistero del proprio destino,
fare il contadino della poesia vuol dire raccontare la ferita mortale
dell’uomo svuotato dalla dittatura del denaro,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un Geremia ,
fare il contadino della poesia vuol dire tornare all’oggettività
della poesia,
fare il contadino della poesia vuol dire creare ogni giorno,
con la punta del coltello, sulla propria pelle, una nuova patria
e morire altrove,
fare il contadino della poesia vuol dire scegliere l’esilio invece
di asservirsi al potere,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un esule
esiliato nell’esilio,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un guerriero epico,
fare il contadino della poesia vuol dire essere padrone di te stesso,
fare il contadino della poesia vuol dire amare la vita,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un martire del desiderio
della parola,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un ‘kamikaze’ d’amore,
fare il contadino della poesia vuol dire sentirsi parte della totalità,
fare il contadino della poesia vuol dire insegnare a tutti ad essere
esuli e stranieri per condividere insieme destini e futuri,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un uomo di besa ,
parola data per i montanari della mia stirpe antica shqiptar ,
fare il contadino della poesia vuol dire giurare non in nome di dio,
ma in nome di besa, come fanno da secoli i miei avi malsor
delle Bjeshkët të Nëmuna
gezim hajdari
fare il contadino della poesia vuol dire vivere al confine
ubriaco di mondi,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un vero bektashi ,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un profeta,
fare il contadino della poesia vuol dire essere condannato
al silenzio per il tuo profetare,
fare il contadino della poesia vuol dire camminare sulle orme
di Gilgamesh, Omero, Li Po, Rumi, Virgilio, Milton, Hugo, Whitman,
Mandelstam, Tagore, Akhmatova, Lorca e Soynka,
fare il contadino della poesia vuol dire essere chiamato traditore
e nemico della patria, per aver denunciato i crimini e gli abusi
della dittatura di Enver Hoxha e dei recenti regimi postcomunisti
mafiosi di Sali Berisha e di Fatos Nano,
fare il contadino della poesia vuol dire non accettare premi letterari
e altre onorificenze dai governanti albanesi di oggi/di ieri,
in quanto responsabili della tragedia comunista,
fare il contadino della poesia vuol dire essere antinazionalista,
fare il contadino della poesia vuol dire essere ‘antialbanese’,
fare il contadino della poesia vuol dire non avere lettori nel tuo Paese
d’origine,
fare il contadino della poesia vuol dire scrivere in italiano e tormentarsi
in albanese,
fare il contadino della poesia vuol dire essere ignorato cinicamente
nel Paese d’origine dalla mafia politica e culturale,
fare il contadino della poesia vuol dire identificarsi con il dolore
del tuo popolo,
fare il contadino della poesia vuol dire memoria,
fare il contadino della poesia vuol dire far ricordare a te stesso
che il compito del Poeta è quello di rendere un età consapevole
dei proprio ideali,
fare il contadino della poesia vuol dire essere solo come Dante Alighieri
ed Ezra Pound,
fare il contadino della poesia vuol dire recuperare il legame, tra la pagina bianca
e l’onestà intellettuale, tra parola e verità, tra poesia e vita,
fare il contadino della poesia significa versi nati dalla vita
e non allevati in serra, o nelle scuole di scrittura,
fare il contadino della poesia vuol dire diffidare dell’arte
isterica, balbuziente, autoreferenziale dei metropolitani alienati,
fare il contadino della poesia vuol dire recuperare i veri valori
etici e la tradizione,
fare il contadino della poesia vuol dire gioia e dolore, vita e impegno,
nella vita, non nel linguaggio,
fare il contadino della poesia vuol dire essere cacciato fuori dalla Curia
dei poeti ufficiali di Roma, per aver denunciato, più di dieci anni fa,
la corruzione, i scambi di favori e le ruberie della vecchia gestione
del Centro Internazionale Eugenio Montale,
fare il contadino della poesia vuol dire abitare fuori dalle gerarchie
letterarie ufficiali, perché i veri poeti non accettano compromessi
e scambi di favori,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un poeta antico,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un vero contadino,
fare il contadino della poesia vuol dire essere un vero intellettuale.
fare il contadino della poesia vuol dire scrivere non per essere
creduto, ma per il popolo e per quelli che verranno,
fare il contadino della poesia vuol dire contribuire al beneficio
dell’umanità,
fare il contadino della poesia vuol dire salvezza,
fare il contadino della poesia vuol dire vivere negli altri,
fare il contadino della poesia vuol dire attraversare la vita,
fare il contadino della poesia vuol dire essere uno straniero di passaggio.
[1] Si tratta delle opere: I canti dei nizam, Besa, 2012, Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista, Besa 2013, nonché Epicedio Albanese, e I canti del kurbet, in uscita presso Ensemble 2015
[2] Xhin (djin): anime malvagie che escono di notte e hanno una potenza soprannaturale sugli uomini
e sulle cose. il mito appartiene alle fiabe albanesi di Darsìa.
[3] Darsìa: provincia collinosa dove è nato l’autore, situata nel nord’est della città di Lusnje, in Albania
[4] Geremia (650-586), profeta e grande poeta, testimone della crisi dello Stato di Giuda, visse con dolore la conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, il re della Babilonia; lotto contro re, contro preti, falsi profeti, traditori, avrebbe voluto la pace e la fratellanza e invece ebbe guerre, deportazioni, massacri.
[5] La besa oppure Fjala e dhanum significa sicurezza, ma anche tregua ed alleanza. E’ la fede giurata, la parola data, la protezione promessa ad un ospite, ad un amico. La besa è qualcosa di assoluto e complesso nello stesso tempo: è un patto di fedeltà che si stringe con un uomo, vivo o morto, con un’istituzione (l’ospitalità), con la propria terra. La besa supera la sfera dell’uomo singolo è diventa norma di vita collettiva e quindi virtù sociale. E’ considerata un atto di cavalleria e un dovere.
[6] Shqiptar: albanese
[7] Malsor: montanari delle Alpi, da dove proviene anche la stirpe del poeta.
[8] Bjeshkët të Nëmuna: Montagne Maledette, situate nel nord d’Albania, dove ha regnato per 500 anni il Kanun, Codice Giuridico Orale Albanese.
[9] Confraternita mistica (segueace di Jalal al Din Rum (1207-1273) in Albania cui appartiene la tradizione familiare del poeta.
[10] Enver Hoxha, uno dei dittatori comunisti più spietati dell’Europa. Governò l’Albania dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla sua morte nel 1985 come primo segretario del Partito Comunista Albanese.
[11] Sali Ram Berisha (1944). Ex-segretario del Partito Comunista di Enver Hoxha, nonché cardiologo facente parte dello staff dei medici che prendevano cura dei membri del Politburo del regime. E’ stato primo Minsitro (2005-2013), nonché Presidente della Repubblica d’Albania postcomunista (1992-1997).
[12] Fatos Nano (1952) è figlio di Thanas Nano. Già direttore della Radio Televisione durante il regime di Enver Hoxha, e di Maria Nano, ricercatore presso l’Istituto di Studi Marxisti-Lenninisti. F. Nano è stato diverse volte primo ministro dell’Albania postcomunista.
[13] Enver Hoxha (1908-1085): dittatore comunista dell’Albania, dal 1944 al 1985. Durante il suo regime, uno dei regimi più spietati del secolo scorso in Europa, sono stati uccisi 5500 mila oppositori, 4500 persone scomparse, rinchiusi nelle carceri 30 mila, rinchiusi nei campi di internamento 60 mila, oltre la distruzione dello Stato, dell’amministrazione, dell’economia, delle generazioni intere, della cultura, della spiritualità e dell’isolamento dell’Albania dal resto del mondo per più di mezzo secolo.
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Commento di Marco Onofrio
Le apparizioni in video di Ungaretti cominciano negli anni ’60. A quel tempo “televisione” in Italia significa monopolio esclusivo della Rai, e questa, in quanto Tv di Stato, non ancora condizionata dalla concorrenza delle reti private, è in grado di privilegiare criteri qualitativi nella gestione del palinsesto. Con il democristiano Ettore Bernabei al timone (1961), la Rai plasma il mezzo televisivo in senso pedagogico e politico, come opinion leader egemonico, utilizzabile a fini di consenso. L’assenza di strategie commerciali salvaguarda la durata del prodotto culturale. Caso emblematico il programma L’Approdo, curato da Leone Piccioni e trasmesso a cadenza settimanale dal 2 febbraio 1963 al 28 dicembre 1972. Si tratta della trasposizione televisiva di una rubrica radiofonica della Rai, già rivista cartacea trimestrale pubblicata dalla ERI. Ungaretti è membro di un comitato di redazione sontuoso, che annovera nomi del calibro di Bacchelli, Betocchi, Bo, Cecchi, De Robertis, Longhi, Valeri…
È soprattutto attraverso L’Approdo che passa l’apparizione in video di Ungaretti. Fin dalla seconda puntata (9 febbraio 1963: a poche ore dal sessantacinquesimo genetliaco), la trasmissione dedica tributi di attenzione ad uno dei suoi maggiori garanti di dignità culturale. E certo Ungaretti – grande poeta e già universalmente noto – sembra adatto quant’altri mai ad incarnare lo spirito di un programma che si propone di coniugare qualità e divulgazione: sostanzialmente perfetto, insomma, per l’“iperdimensione” pubblica che il mezzo televisivo si appresta con il tempo a veicolare. Ungaretti? Conosciuto dalla gente, non solo dai letterati. La sua fama pubblica già consolidata gli garantisce l’autorevolezza e la credibilità necessarie per proporsi alla platea televisiva come “il” poeta; la televisione finisce a sua volta per estendere e approfondire questa fama oltre il riverbero banalmente rimasticato del «M’illumino d’immenso», sino a farne una sorta di mito vivente. Egli può così ritagliarsi uno spazio nell’immaginario collettivo ed essere identificato anche da chi non lo conosce, o non conosce la sua poesia, o nutre scarso interesse per il fatto culturale. È anche grazie alla Tv che Ungaretti assurge, anno dopo anno, alla statura di personaggio. Nel 1968, per esempio, traduce e commenta l’Odissea in Rai, e la gente comune, incontrandolo, lo scambia per “quel grande attore della televisione”. Qualcuno, più fantasiosamente, potrebbe anche immaginare che Omero stesso sia stato catapultato a parlare dagli schermi televisivi, tanto ieratica e autorevole appare la figura del poeta. Si era fatto crescere una barba bianca alla Hemingway, da vecchio lupo di mare, pur mantenendo accesi i suoi celebri occhi da bambino, enigmatici come quelli d’un gatto: un appeal nobile e umano, austero e familiare, in grado perciò di guadagnare piuttosto naturalmente il centro della scena, assicurandosi non solo il rispetto ma anche l’affetto dei telespettatori.
Giuseppe Ungaretti
Ma la sua presenza nei programmi Rai non si limita a L’Approdo, giacché comprende anche diversi “specials” nel contesto di altre trasmissioni: sin dal “ritratto” di diciotto minuti che gli dedica Clemente Crispolti, trasmesso la sera del 7 luglio 1959. Sono appunto “ritratti”, “incontri”, “conversazioni” e “documentari” incentrati sull’uomo e sul poeta. Generalmente Ungaretti appare in video per recitare poesie, ma anche per esprimersi su certe questioni, rispondendo alle domande di un intervistatore; o per presiedere o ricevere un premio letterario; o per partecipare a un convegno o a un festival; o per incontrare gli studenti nelle scuole. Le riprese sono per lo più in interno. Ma l’occhio indiscreto della telecamera deve anche poter soddisfare le curiosità del pubblico, che vuole conoscere il poeta-personaggio nella totalità della sua sfera esistenziale. Ed ecco “Ungà” colto nel privato quotidiano, ripreso a passeggio per Roma, lungo il Tevere o tra le rovine di Caracalla, o nell’avita Lucca, o a parlare al tavolino di un bar, o a casa con accanto la nipotina… Il caso più tipico è offerto dal poeta nel suo studio mentre recita versi. Nelle immagini televisive lo si vede seduto in poltrona, inquadrato a mezzo busto, in primo piano. Non accompagna la lettura con gesti delle mani, che sono occupate a reggere il libro. La performance vocalica è doppiata da smorfie espressive e dal movimento degli occhi. Di tanto in tanto li alza dal libro verso un punto immaginario, in alto alla sua sinistra. Lo sguardo è intensamente visionario, inciso nelle rughe di sofferenza che lampeggiano sul volto per l’ansimante scansione sillabica dei versi. È come se scorgesse, fuori di sé, una sorta di oggettivazione simbolica delle parole che pronuncia; o le parole stesse gli nascessero spontanee, per la prima volta, dettate da ciò che “vede”.
eugenio montale e il picchio
Quando legge ad alta voce le sue poesie, in televisione, o in pubblico durante le presentazioni, Ungaretti può destare sospetti di istrionismo; in realtà non è un fine dicitore o un “attore” distanziato dalla materia, ma un uomo che soffre dal vivo, autenticamente –: che dona e spende tutto se stesso, e si ricapitola dalle origini, ancora una volta, ogni volta daccapo. Non risparmia nulla al “fratello umano” che lo ascolta: offre tutto ciò che può dare, anche ciò che ancora non sa di poter dare. La parola è vissuta nel sangue, in ogni sua fibra. Il pathos espressivo è autentico e per questo impressionante. Ungaretti arde all’improvviso come un tirso, e la sua fiammata non si lascia facilmente dimenticare. Sul viso gli si rende visibile una sofferenza, una pena effettiva, e a tratti un illuminarsi e vibrare che colpisce per sempre chi lo vede. È in definitiva un grande comunicatore, capace di bucare il silenzio o il teleschermo con i suoi sguardi profondissimi e la sua voce cavernosa e dolce, i suoi estri repentini e i suoi furori. Ricorda Francesco Paolo Memmo: «Aveva quegli occhi incredibili, scavati, che ti scavavano, quando lo vedevo in televisione; con una bellissima barba bianca, negli ultimi anni: lo ricordo, ad esempio, seduto accanto a un albero, su un prato, in un videoclip ante litteram, mentre Iva Zanicchi cantava una canzone evidentemente a lui dedicata» (ma Ungaretti stravedeva per Mina).
Della vocalità di Ungaretti si è occupato Emerico Giachery in un breve e magistrale saggio, Ungaretti a voce alta (2008). Occorre premettere che ogni voce, nella sua grana originaria, ha per natura incorporato un destino di credibilità. La voce non è mai neutra, ma ha significato di per sé: è portatrice di un “valore” che prescinde dal linguaggio. Questo spiega perché un bravo attore, dotato di bella voce, è in grado di far apparire valida una poesia mediocre; o, viceversa, perché una poesia valida, o anche splendida, può essere completamente rovinata da una lettura scadente. La vocalità (grazie a cui il testo poetico viene eseguito, a mo’ di partitura musicale) abbraccia i poteri del significante – intonazione, accento, ritmo, interpretazione delle figure foniche e metro-ritmiche del testo – che, secondo la distinzione di Émile Benveniste, consentono al registro semiotico-denotativo di espandersi negli “armonici” del livello semantico-connotativo: la pienezza del senso poetico (ovvero la “significanza” epifanica del testo) scaturisce dalla coesione strutturale che incorpora i poteri del significante, sondati dalla voce, ai messaggi convenzionali del significato.
Il linguista Giuseppe Paioni ha descritto in modo assai preciso la fonetica ungarettiana: il celebre “sillabato”, la nettezza degli iati, la purezza delle vocali e la variabilità della loro durata, «la vibrante rinforzata se associata a dentale o velare (…), ma senza asprezza, quasi che il suo ruolo simbolico fosse quello di virilizzare la dolcezza, senza abbandonarla (…), la sibilante preconsonantica o geminata allungata, come accarezzata (…), le nasali marcate a delimitare il prefisso»… Il sillabato ungarettiano cerca «la letteralità, le articolazioni naturali della lingua. L’effetto di questi eccessi, di questi timbri marcati è quello di astrarli, come se la voce ne accentuasse l’idea, l’evidenza, cioè di allucinarli». È un recitativo che frantuma il continuum vocale in un “salmodiare” rotto e sofferto, modulato su variazioni di volume e di altezza. «Né meramente illustrativa o espressiva né enfatica o al limite isterica, la performance ungarettiana si definisce essenzialmente come una drammaturgia sottile della parola, una “mise-en-scène” puntuale e allo stesso tempo lussuosa del testo e delle modalità con cui il testo e la sua ritmicità “lavorano” la lingua e i suoi significanti».
Peraltro, la lettura a voce alta di un testo è – già di per sé – un atto ermeneutico. Lettura e critica convergono: l’interpretazione vocale della poesia va intesa come «momento di sintesi e punto d’arrivo del processo interpretativo». E aggiunge, precisando, Giachery: «Si tratta, entro un certo limite, anche di una sorta di lettura-confessione, e certo», per ciò che riguarda Ungaretti, «di una lettura che aiuta non poco ad intendere il suo modo di sentire, di vivere l’esperienza della parola, di scandire, spaziare, scatenare la materia verbale». Orbene, che rapporto intercorre tra la vocalità dell’Ungaretti performer e il presunto ermetismo della sua poesia? E anzitutto: che cosa c’è di realmente ermetico in Ungaretti, prescindendo ovviamente dalla classificazione scolastica che lo assomma – nella comune cifra dell’ermetismo – a due poeti molto differenti (anche tra loro) come Quasimodo e Montale? La poesia di Ungaretti è “ermetica” in quanto rende ampio lo spettro del senso e si apre alla libertà delle interpretazioni. Il lettore è coinvolto attivamente nella produzione del senso (cioè nell’attuazione di una fra le tante letture possibili) della poesia. Si legga, ad esempio, l’attacco di “O notte” (da Sentimento del tempo, 1933):
Dall’ampia ansia dell’alba
svelata alberatura.
Dove si noti il predominio fonosimbolico della [a], vocale di apertura cosmica a uno «smisurato orizzonte in ansia crescente di luce e di evento» (Giachery); ma anche l’ambivalenza di «alberatura», che può denotare sia (com’è più probabile) un intrico di fronde “svelato” dalla luce del nuovo giorno, sia gli alberi di una nave privata di vele, con gradienti simbolici successivi di identificazione del mondo (compatto divenire delle cose esistenti) in imbarcazione che attraversa gli «oceanici silenzi» del tempo, e a cui l’alba toglie le vele tenebrose della notte… Quanto più cresce, come in questo caso, la libertà interpretativa del lettore, tanto più il testo è “oscuro”, cioè ambiguo, polisemantico, non chiaramente determinato. La poesia di Ungaretti è “ermetica” anche nella misura in cui tiene nascosta la significanza, cioè il livello semantico globale che saprebbe – viceversa – renderla chiarissima. Per meglio dire: tiene la significanza accessibile soprattutto alla voce viva, attraverso l’operazione supplementare, successiva alla scrittura, della performance.
La performance ungarettiana, in particolare. Come un testo magico che suppone la tradizione di un rito vocalico, e solo in esso e per esso accetta di rivelare o riflettere il proprio segreto. La voce è il passepartout che permette di aprire le gabbie del segno, di entrare nel testo, di chiarirlo nella sua verità originaria. Il suono performativo della voce è un imbuto che ci porta nell’utero della poesia, dentro la cuna del senso. Oltre quest’utero si spalanca l’abisso del silenzio infinito che contiene tutte le parole, e ogni parola è l’imboccatura di questo abisso. La voce scardina l’ordigno della poesia, ne spiega le pieghe, ne svela i sottotesti, laddove urgono i significati più profondi e veri. Capiamo allora che l’oscurità era solo apparente: si trattava in realtà di un bagliore nascosto dentro la tenebra opaca dei segni. Il “senso” della poesia ermetica è come una candela accesa: si vede appena in piena luce, alla superficie della “forma”, ma risplende come un piccolo sole nel buio cavernoso dei sottotesti. Leggendo e ricreando drammaticamente la poesia, il poeta ci restituisce l’infinito che “non cape” nella forma, ovvero gran parte di ciò che avrebbe voluto o potuto dire. Ci comunica, usando linguaggi diversi dalla scrittura, i segnali e i sensi di ciò che la scrittura non dice, o dice oscuramente. Così facendo guida e controlla l’indirizzo della decodifica, introducendo un principio di determinazione già parecchio notevole rispetto alla libertà “aperta” del lettore solitario.
Attenua dunque il principio ermetico della collaborazione attiva del lettore: il poeta stesso, ora, legge per lui. Il lettore-ascoltatore, divenuto oggetto di fascino, dovrà “limitarsi” a rielaborare segni già incanalati verso una certa direzione del senso (così leggere ad alta voce è, appunto, interpretare). Ungaretti, leggendo la propria poesia in un modo tanto scenografico e ammaliante, è come se volesse “suggerire”, se non imporre, la decodifica originaria del testo, avendo a cura che si comprenda entro il raggio di una certa direzione. La performance rappresenta una forma di comunicazione totale, sicché «nel modo della lettura di Ungaretti, molte di quelle cose che sono sempre sembrate caratteristiche tanto della sua personalità quanto della sua poesia vengono fuori. Si affaccia a un certo momento una ricomposizione di tutto in chiave di possibile auto-teatro, e tuttavia il teatro è anche rivolto agli altri» (Zanzotto). Egli torna al punto di partenza, rivive le premesse dell’atto creativo, si tuffa di nuovo nel magma da cui è emersa la poesia.
Il testo scritto viene “fissato” dalla voce come textus ne varietur, come versione ideale e forma massima della potenza: la poesia risuona in armonia con le intenzioni originarie, sfiora il luminoso archetipo da cui la scrittura – pallida copia – proviene, de-finendosi in forma. E che la scrittura, forma immobile e incisa nello spazio, debba essere “fissata” dalla voce, mobile e vibratile nel tempo, testimonia sia la straordinaria potenza della voce (e non una voce qualsiasi, ma quella suggestiva di Ungaretti), sia la particolare qualità di questa scrittura, il suo essere preformata in vista della performance, scritta a mo’ di “partitura” da eseguire, dilatandosi ed esaltandosi nella voce. È una poesia che chiede giustizia alla voce, che insomma deve “suonare” per essere davvero se stessa. Nella lettura ad alta voce si produce dunque una forma di “variante assoluta”: la poesia vive autenticamente – nella pienezza delle sue potenzialità – attraverso un rito vocalico che la accende, e la fa palpitare all’unisono col ritmo interiore del poeta, mentre questi la rivive e la scandisce attimo per attimo, respiro dentro respiro, parola dopo parola. Non è difficile rendersi conto che questo è il modo del primo Ungaretti.
Dopo i versicoli dell’Allegria, distillati per quintessenza dal simbolismo francese ed europeo, il poeta rientra nell’alveo accademico della tradizione italiana: un certo sentire barocco, che gli appartiene per istinto e anche per cultura (traduce da Gongora, Shakespeare, Racine), viene travasato entro le strutture ormai “archetipiche” del petrarchismo (dopo secoli di codificazioni stratificate e sbiadite imitazioni). La “restaurazione” operata con Sentimento del tempo determina un sovrappiù di forma che ingorga, offusca e, da ultimo, porta fuori strada il percorso aperto dalla scintillante e davvero creativa novità del Porto sepolto. Che il modo originario fosse il più conforme e congeniale alla sua verità di uomo e di poeta, lo si capisce dal fatto che Ungaretti lo conserva, nel corso degli anni, come metodo di lettura performativa. Talché anche il verso lungo (e l’endecasillabo, in particolare) delle raccolte successive, viene destrutturato, nell’atto della lettura ad alta voce, secondo il modello dell’Allegria. Come a dire che l’autentico Ungaretti è e resta il poeta dell’Allegria, anche quando scrive e poi legge pubblicamente testi che distorcono o contraddicono quelle originarie implicazioni. Si prenda ad esempio, da Il taccuino del vecchio, lo struggente e disperato appuntamento d’amore, oltre i confini del tempo, che è “Per sempre”, del 1959, in memoria della moglie Jeanne morta da un anno:
Senza niuna impazienza sognerò,
mi piegherò al lavoro
che non può mai finire.
E a poco a poco in cima
alle braccia rinate
si riapriranno mani soccorrevoli.
Nelle cavità loro
riapparsi gli occhi, ridaranno luce.
E, d’improvviso intatta
sarai risorta, mi farà da guida
di nuovo la tua voce,
per sempre ti rivedo.
Ecco come la poesia si trasforma, per una lettura televisiva, nella dizione ansimante e pausata di Ungaretti:
Senza niuna impazienza
sognerò
mi piegherò
al lavoro
che non può mai
finire
e
a poco a poco
in cima
alle braccia
rinate
si riapriranno
mani
soccorrevoli
nelle
cavità loro
riapparsi
gli occhi
ridaranno luce
e d’improvviso
intatta
sarai
risorta
mi farà
da guida
di nuovo
la tua voce
per sempre
ti rivedo.
Il metro viene spezzato dal respiro della voce, nella sua misura organica, perché emerga la verità profonda delle parole, incise – queste più che mai! – nella carne dell’esistenza, del dolore e della memoria. La pausa isola la parola nella sua densità semantica. Il silenzio accentua, per contrasto, il suono della voce: ne esalta la magia, la persuasività. La voce può così manifestare il percorso spirituale della parola, afferrandone l’eco remota. Ungaretti cerca di catturare, nella dizione franta, il ritmo nativo ed essenziale della sua poesia, lasciando affiorare il chiarore dei sottotesti e consentendo di significarne la “verità” (su tutte le possibili letture).
Anni erano passati, e vicende e tragedie Ungaretti aveva oltrepassato, evolvendo nel proprio percorso. Nuove opere, nuove ispirazioni, nuovi orizzonti. Eppure l’Ungaretti che recitava versi restava ancorato al tempo dell’Allegria, al modo di quel capolavoro, al bagliore folgorante del suo avvio. Era quella la voce “nativa” del poeta, ed egli fin da allora l’aveva conquistata, definitivamente, per sempre. Conservare così la voce più chiara, la più limpida, di cui era capace, gli serviva anche per sciogliere i grumi, le opacità della forma, nella vita pulsante della voce, dispiegata attraverso il rito divulgativo della lettura. Leggendola ad alta voce, Ungaretti estrae la propria poesia dal nodo semantico che ne racchiude il senso, dentro la profondità delle strutture. La poesia ermetica si “dis-ermetizza” nel fuoco liquido della voce. La poesia di Ungaretti, ermetica nello spazio bianco della pagina, cessa di esserlo nell’espressione totale della performance, nell’urgenza della sua vocalità.
Angela Passarello, nata ad Agrigento, vive e lavora a Milano. Ha insegnato nelle scuole elementari lingua francese e la lingua italiana agli alunni stranieri, nelle scuole medie. Crea forme con l’arte ceramica e narrazioni pittoriche. Ha pubblicato le raccolte di racconti Asina Pazza (ed. Greco @ Greco1997), di poesie La Carne dell’Angelo (ed. Joker, Novi Ligure 2002), le prose poetiche Ananta delle Voci Bianche ( I Quaderni di Correnti,Crema2008). È presente nelle antologie: Versi Diversi (edizioni Melusine, Milano 1998), Poeti per Milano (Viennepierre, Milano1998), Rane e L’Uomo, Il Pesce e L’Elefante per I Quaderni di Correnti. Ha collaborato con La Mosca di Milano. Ha fatto parte del gruppo delle Melusine. E’ stata cofondatrice e redattrice della rivista Il Monte Analogo.
Abbiamo già detto che Rupe Atenea è una collina che guarda i templi che digradano dall’altra collina di Agrigento. Due colline dunque, quella artigiana della nonna e della mamma infermiera, insomma, quella della città, che non può che pensarla diversamente da quella contadina.
E lo si capisce da Lia (il nome di una bella ragazza) che abita a Landaru, una frazione della Valle dei Templi :
Un nastrino ocra lega la tua treccia
neri lisci sembrano fili di seta i tuoi capelli
cosa rara in quest’epoca di lacche di tinture
con la messa in piega somigliavi a una signorina di città
La sera con le redini della mula il padre
veni ccà, chi facisti, i capiddi ti tagliasti? Dibbusciata
fammi a vidiri, levatillu da testa u’ fazzulettu, livatillu
gridava alle ombre nel buio du Laerdaru.
Dato che in ambiente contadino era proibito tagliarsi i capelli – era sintomo di indocilità, ribellione, trasgressione – il padre così l’apostrofò, tentando anche di frustarla con le redini.
Abbiamo poi tue testi inevitabili, onesti, perché rivelano un’ assoluta indifferenza alla morte animale che ora non c’è più, ma che c’era, altroché se c’era, quando anche la vita dell’uomo (per fame o per guerra), era in costante pericolo.
E lo conferma la poesia che segue e ha per titolo la chiesetta delle Forche, sconsacrata, con un suo campetto ripulito e due reti metalliche che “indicano ai giocatori la mira”, sopra ciò che ormai pochi sanno, ma che un tempo era la fossa comune.
Dunque una Morte, come quella spagnola o messicana , che è sempre presente, a due passi da noi tutti.
Con la roccia ippogrifo, abbiamo di nuovo la presenta del mito, del trascendente, “li aspettava sul suo dorso/ stretti l’un l’altro i bambini/ […] “sembrava guardarli con la sua forma animale/ di sera poggiata sul prato”.
L’ultimo poemetto del volume è: a mia madre, e ha titolo flashback:
davanti al Duomo con il piccione
che becca il granoturco dalle nostre mani
messe in posa dal fotografo d’occasione
la prima volta che siamo arrivate a Milano
[…]
non ho potuto fare a meno di citare questa prima strofa, perché essendo una foto ricordo di Milano, non si può fare a meno di pensarla ad Agrigento, e così diviene simbolica anche del fatto che la mente della poesia, la mente che fa poesia di Angela Passarello sia sempre là. Non qua.
(Giulia Niccolai)
Angela Passarello da Piano Argento edizioni del verri 2014 pp. 90 € 12
il gelataio
di gelataio ce n’era uno solo
dentro una casetta arrangiata
solo le tegole del tetto erano vere
di terracotta coperte di muschio
il gelato si comprava per le feste
alla mandorla aveva scaglie
simili alle foglie dell’albero in fiore
.
.
il lattaio
in una mano stringeva il bidone di latta
nell’altra il misurino forgiato con lo stagno
la sera al ritorno dal giro dei clienti
il lattaio si fermava sulla piazza a recitare
i versi di Cielo d’Alcamo ai pochi rimasti
nessun libro o scrittura solo voce e poesia
nel discendere per la via la sua ombra
si allungava sulle pareti delle case
.
la gobba
le sere di Natale giocavano d’azzardo
al primo piano nella casa della gobba
a zecchinetta a sette e mezzo a teresina
il banco non perdeva mai
le eleganti figure disegnate sulle carte
sembravano proteggerlo
Dono dei vicerè
diceva con voce stridula la gobba
indicando alle perdenti il mazzo sul tavolo
.
il cantastorie
accompagnava con il corpo la voce
mentre cantilenava miserie delitti
il sorriso segnava di amaro il suo volto
certe volte tra le parole recise si coglieva
un episodio di fuga della Chanson de geste
.
signorina Gallo
la sua voce rauca nel buio della sera
attraversa la persiana chiusa
chiede dei morti dei sopravvissuti
nel fitto buio mi raggiunge
centenaria dagli artigli aperti
farfuglia date nomi di vecchi abitanti
dal vicolo degli Ospitalieri di Malta
echi voci arrivano
salaam aleikum salaam aleikum
Lia
Un nastrino ocra lega la tua treccia
neri lisci sembrano fili di seta i tuoi capelli
cosa rara in quest’epoca di lacche di tinture
con la messampiega somigliavi a una signorina di città
La sera con le redini della mula parlante
veni ccà, chi facisti, i capiddi ti tagliasti? Dibbusciata
fammi a vidiri, levatillu da testa u’ fazzulettu, levatillu
gridava alle ombre nel buio du Lardaru*
*Lardaru è una contrada di campagna nelle vicinanze della Valle dei Templi
.
garofani
i garofani rossi nei vasi sul balcone
li annaffiava con orgoglio ogni mattina
diceva che la natura dei petali aiutava
l’ anima dei defunti al cimitero
i primi giorni del trapasso
inondavano Piano Argento di profumo
.
telefunken
arrivavano la sera con la sedia di saggina
i vicini per vedere le puntate di Canne al Vento
sullo schermo della ventunpollici appena installata
con il sonoro la luce i personaggi
nel chiaroscuro della stanza i commenti
si facevano portatori di nuovi rinascimenti
il ferro da stiro
lo muoveva nero nero
sulla superficie di lenzuola di camicie
dai fori il chiarore dei carboni
percorreva valichi piste fra le pieghe
impugnava con forza il manico antico
girava la punta solcava angoli lati
diceva dal piego dipende la forma
gli indumenti lisi li ricomponeva
nell’ordine da lei stabilito
flashback
davanti al Duomo con il piccione
che becca il granturco sulle nostre mani
messe in posa dal fotografo d’occasione
la prima volta che siamo arrivate a Milano
ti rivedo sicura attraversare la Piazza
lanci con un soffio sulla mano un bacio
alle guglie verso la bela Madunina
Quando sei partita nella tua lettera settimanale
scrivevi
mia cara figlia noi stiamo tutti bene così spero di te
Nella mia non ti dicevo dei miei smarrimenti
né di rivoluzioni in corso nella città
.
La pazza del tirassegno
la vecchia con la schiena curva e il cane
uscivano di rado
apparivano sul sentiero della rupe
il cane la precedeva marcando il territorio
la vecchia sovrastata da un fagotto di stoffa sbiadita
entrambi ritornavano poi verso la casa diroccata
al confine con il tempio di Demetra
Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Per un certo periodo di tempo si anche impegnato in politica ed è stato eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore. Nel 2000 viene chiamato a ricoprire la carica di Difensore Civico del suo Comune.
Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).
da Il sogno della luce
Divisione oculistica Ospedale Cardarelli di Napoli, un ottobre di pochi anni fa.
I
Già t’eri preparato a questa prova,
ad esser muto d’occhi,
quasi spento,
com’albero che vive per le foglie.
II
Qui senti solo lagni d’ambulanze
e muggiti-ruggiti d’aereo
ma alberi sfogliati hanno speranza
e presagio di gemme.
III
Nella rete caduto della rètina
chiedi luce ai sapienti
che invadono i tuoi occhi di colliri
e di fulgore artificiale e dicono
diagnosi severe.
Ora, antenna percossa dai marosi,
cerchi qualunque cala sottovento.
IV
Tu vedi come il grigio
prevalga sull’azzurro
nel rombo di città,
dove ai ritmi quotidiani presenze
presunte umane sempre s’affaticano.
Alto è l’albero grande della vita
buono solo per ali
e alti schiamazzi d’uccelli e di sole.
Giù ronza l’alveare,
formiche sbandano impazzite a mete
diverse, azzurre scolopendre vanno
con brusio fitto di zampe in oscuri
cunicoli. Angoli ciechi a gran voce
chiedono il sole.
Ma questa città
che dicono felice
sotterra i suoi dolori
con vacua frenesia d’impegni.
E ostende il suo sorriso, innaturale.
V
Sei nella rete anche tu, soddisfatto
d’avere in pugno una volta la vita
d’altri viventi -pesci e uccelli- ( tese
trappole e abilità fiocinatoria).
Sei certo nella rete,
t’ha catturato il grande cacciatore
o, se può consolarti, pescatore.
Tieni ferrea-mente,
aggrappati al miracolo/miraggio
di uno strappo, una rete
lacerata, la strada di salvezza.
VI
E ti ricordo, padre, in questo suono
d’ampie campane, poco
prima che chirurgici ferri offendano
i miei occhi; e saresti – credo – qui
se vivo fossi (e forse
invisibile qui sei)
a confortarmi in questa dura prova.
Per me tu così parco di parole
tu temeresti. Padre,
in questo suono di campane, in questo
grigio mattino
mi sei vicino.
La tua memoria m’avvince con braccia
forti
e cuore gentile.
VII
I tuoi affetti siedono in un grumo
di telefonici contatti, mentre
attendi l’intervento della vita:
un po’ di fremiti più o meno intensi
strappati al vortice dei quotidiani
impegni. Poi si stendono le corde
del cuore, anche le tue, e tu sei solo.
VIII
Scandito secco passo che alla porta
appari e al rischio e al dolore mi chiami
– numero uno, in sala operatoria –
hai del destino il tempo inderogabile,
il ritmo necessario, ineluttabile.
Ma non mi trema il cuore, ormai persuaso
all’evento e volto al riacquisto della
l u c e .
IX
Non sa nulla di rètine e distacchi
il cacciatore ch’è fermo nell’alba
e con saldezza d’occhi buca il buio
e attende la beccaccia. Egli al più sa
di reti e di retìne
dove la libertà dell’ali affonda.
Per lui distacco significa il tempo
dall’alzata del cane
alla capsula percossa,
tra il colpo e la caduta della preda,
ed anche quello occorrente al riporto.
Distacco, certo, è riporre il fucile,
quando si chiude la stagione della
caccia e della vita, l’addio ai campi
di verdi aromi e loquaci silenzi.
(Oculos in lucem vertit venator;
mihi oculorum lux satis esset !)
Per ora, cieco cigno,
mi guido con le mani.
X
Ecco l’età dei sogni rinverditi
a fatica, degli impulsi sfocati,
della voce dell’anima arrochita.
Questo è anche il momento del raccolto,
dei frutti d’oro, dell’opimo sunto
di anni costretti in bisaccia, ma risi
o pianti, dunque vissuti (sebbene
m’informi il libro mastro della vita
che la colonna delle uscite vince
su quella delle entrate).
Anche per questo io non so più scrivere
d’amore, più non avvampa e dilaga
questo sgorbio di cuore
che però offre agli occhi spenti trionfi
di petunie e di spighe ancora verdi.
Forse è toscano questo vivo suono
della memoria che invade indicibile
ogni fibra e un po’ stinge
l’amaritudine incombente. Voli
rapaci chiudono cerchi, s’aggancia
l’alfa all’omega, a scorno dell’effuso
profumo di viole.
XI
Sorga l’etrusco e confligga col greco
ch’è in me, sì ch’io meglio possa legare
di questa vita
i tralci.
XII
Il sole era soltanto un pane ardente
dell’orizzonte sul desco poggiato.
Radunava Giuseppe contadino
i suoi strumenti, ordigni della terra
e s’avviava a parlare con le viti.
Poi degli uccelli
caddero le note,
un soffio spense
ogni lume di sole
e tacque infine
il giorno della vita.
.
XIII
Quelli dei nonni sono volti avviati
al tramonto, son voci che si spengono
in un soffio,
figure
pronte a svanire
con pelle di cera.
Ultimo canto per il padre
Vorrei parlarti, padre, in questa notte
da questa nave che batte a fatica
le tenebre e ricerca un porto vero
dopo prove d’approdi, di conati
falliti sempre d’una piuma. Intanto
scorre il vento sull’èquore increspato,
grida un sottile silenzio, uccellino
di cristallo: perciò trabocca ancora
fiume di canto dagli argini della
memoria, note tristi che ravviva
l’arpa del cuore. Rivedono gli occhi
( o credono ) il mare verde del grano
e viti appese a sinuose colline
sotto cieli d’infanzia -azzurri, dunque-,
solerti al ruzzo passeri e fringuelli,
il tuo volto giocondo alla fatica.
Ed ora, d’oltre il cielo, sappi, padre,
che questo tumido lacerto detto
cuore serba anche il pianto del distacco
celato per pudore dai tuoi occhi,
quando partii, nel vento della vigna:
perenne graffio, padre, acre dolore.
Ubaldo de Robertis è nato a Falerone (FM) nel 1942 e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). In corso di pubblicazione: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore, 2014. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente nei blogs di poesia e critica letteraria, Imperfetta Ellisse, e Alla volta di Leucade. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, A. Spagnuolo, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi.
E’ autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), e L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria).
da Parte del discorso (poetico) di prossima pubblicazione
I
Gli incomodi pensieri ho spedito
lontano dalla vista che tra i sensi
fruisce del più ampio raggio
oltre lo spazio che tutto avvolge
oltre l’aria greve opprimente
per sentirmi redento libero
di meditare su ciò che mi attende
Ma anche il meno inquietante
al suo rivelarsi quello più fuggevole
e vago non fa che ripresentarsi.
Tutti. Tutti sono tornati
per farmi diventare cieco
II
E guardi il mare quieto dall’alto con occhi di gabbiano
diffidente da vicino lo vedi spumeggiare
di moti impercettibili corpi minuti si confrontano
divergono s’infrangono senza tregua ora qua ora là
in ogni orientamento in ogni dove onde luccicanti
al sole come mosse da un vento invisibile che soffia
in superficie dove nulla permane di ciò che sull’acqua cammina
niente di sé conduce l’onda marina solo l’eterno scivolare
non è un oggetto non ha argomenti la chiara identità
degli scogli delle sabbie finissime è solo un fluire di eventi
al pari del tuo corpo nudo fatto di incostanti molecole
e più l’onda s’appressa più l’animo trascende l’attimo
appena vissuto prima di sciogliersi nuovamente in mare
Chiedersi se la mente sia la rada dove ammarano
i gabbiani il porto che si lascia crudelmente insabbiare
da voci rauche grevi sentimenti in un solo pensiero
ecco perché il mondo temi oltre la boa oltre l’azzurro
profondo, il fosco remigare, l’ illusorio orizzonte.
III
Tutto lo spazio reca l’assenza
Ombre sui libri
Nemmeno Shakespeare riluce
Qui
non si nomina dio
Sono estraneo io
a tutti a tutto
Fuori piove a dirotto
ed io sto diventando un’Isola
.
.
IV
(La Terra Promessa)
Muore sulle barricate il mio tempo
nudo come l’ailanto grigio cenere
ha perso sgradevoli foglie l’inverno
si veste del pallore dei muri
l’indugio del merlo sul roseto esangue
come se non avessi mai amato
il rosso struggente della rosa
come se non avessi mai pianto
quando alta si aggirava la musica
e guardinga la poesia che le distanze colma
e si fa senso per sondare l’ambiguo raccapriccio della vita
lascia che sia finita che le voci
giungano assordite che si pieghi a terra l’albero
e si perdano gli occhi ad inseguire
la processione di formiche esultanti
il tripudio dei vermi e dei bruchi
tutti in marcia verso la terra promessa
magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique
V
Ho quasi consumato
la materia di cui sono fatto
ricadrò in avanti o all’indietro
dopo aver compiuto
il massimo tragitto
fortemente curvato
sprofonderò su di me
crollerò sotto il peso
delle mie ossa
e non potrò sfuggire
nulla di me potrà uscire
da quella porta
si può solo entrare
neppure la luce
di cui erano fatti i miei occhi
USCIRA’
non ha sufficiente velocità
per sottrarsi all’attrazione esiziale
il tempo stesso rallenterà
il suo corso
fino ad arrestarsi
qualcuno di quelli che hanno ruotato
accanto a me
prossimi all’azzurra sfera
dei miei sogni
scorterà ciò che ho soltanto immaginato
ospiterà il mio presente
il mio passato
dentro la propria sfera
verso il proprio verde lontano personale futuro
VI
Come furfanti s’ammassano gli anni
ma non sarà l’inverno cupo e sciatto
a schiantarti il respiro striscia il gatto
tra i tuoi piedi nudi simula sbadiglia
se ne distacca per ritornarvi lento
non sono gli arti il luogo
che il movimento avvolge morbido lieve
Il luogo è il tempo e sempre ti sorprende
l’idea di sottrarti arginando la vita
la suggestione di esistere un attimo di più
come se l’orditura dei giorni
l’uno vicino all’altro fitti stipati
possa farti dimenticare
che sarai tu a crollare muso a terra
dentro la cenere del mondo
VII
La luce meridiana riveste di eccessivo ardore
l’astuta moltitudine dei girasoli
lo stelo dritto fino al crepuscolo
inchiodato ognuno alla sua zolla di terra
l’ora in cui appare la paura
che si raffreddi l’ardente vita
l’esistente riaffiora dai clamori di un tempo
intermittenti languori la logorante intesa
di non parlarne prima della resa
che si consuma con servili mestizie
Le povere consumate notizie di te stesso
.
VIII
A capo chino come un’abitudine
tra vecchi caseggiati luoghi abitati
da ombre rigide ti sfiorano nessuna
che si distingua non avverti nei vicoli la distanza
dei passi che dentro vi risuonano
ovunque ti inabissi in disparte
dopo aver condiviso il tanfo dei bistrò
che attanaglia la gola
che tu voglia soffermarti o no
gli altri avvisi del tuo passare
soltanto per soliloqui
magritte rené
IX
Arno A Percy Shelley
Clamori di gocce che i larghi fianchi
sfiorano per nutrirsi d’ossigeno
sul greto grigio incombono verità
come rughe del volto che si specchia
in acque chiare dove cavalli scalzi
abbeverano le fronti umide e strette chiglie
da un medesimo vento sospinte
costeggiano pigramente le rive
Ho affittato una barca per scoprire alla foce
quale mare seppure sconvolto
mi darà il vantaggio di decidere
se invertire la rotta o perdermi
dove muore il fiume nell’infinita disventura
X
Ruotare attorno ad una stella
pianeta di luce sospesa
abbandonando il punto
L’origine
Dentro l’arcobaleno si vive
di un tepore sottile
coscienza nuova che imprime
nuova vita l’amore.
Lo sento l’amore all’ombra
delle cinque lune tenui
luminosità sulla pelle nuove possibilità
Nuove intenzioni.
Movimento cambiamento.
Attorno ruotare attorno
Nella realtà nulla accade
niente in quel punto in quel giorno
fissato per il mio ritorno
Aerial, Forest Canopy, Kaieteur Falls, Potaro River, River, Save Your World, Landscape, Guyana, September 2007, Freshwater; GUYANA; South America; Water; fresh water; horizontal; landscape; waterfall; waterfalls; © CI/
Wilson Harris è nato nel 1921 a New Amsterdam, nell’allora Guyana Britannica, da una famiglia nella quale si mescolano elementi europei, asiatici, africani e amerindi. In gioventù ha lavorato in spedizioni topografiche all’interno della Guyana equatoriale, che rimarrà lo scenario principale di tutta la sua opera, anche dopo il suo trasferimento definitivo in Inghilterra nel 1959. Considerato tra i maestri fondatori della moderna letteratura dei Caraibi anglofoni, nonché tra i maggiori scrittori e pensatori del mondo post-coloniale, Harris ha pubblicato ventitre romanzi, due volumi di racconti, un libro di poesie e un grande numero di saggi (vedi la raccolta The Unifished Genesis of Imagination; in italiano è stato tradotto il saggio Creolità: il crocevia di una civiltà? in «Scritture migranti», 3/2009, accessibile qui: http://www.academia.edu/8634080/Wilson_Harris_Creolit%C3%A0_il_crocevia_di_una_civilt%C3%A0_). Palace of the Peacock (tr. it. Il palazzo del pavone, Einaudi 1989) è il suo primo romanzo, capitolo iniziale della tetralogia Guyana Quartet. I suoi romanzi più recenti sono The Mask of the Beggar (2003) e The Ghost of Memory (2006), nei quali si ricapitola vertiginosamente mezzo secolo di una scrittura: un’esplorazione filosofica e visionaria attraverso processi di riscrittura e contaminazione immaginativa di mitologie, storie, cronache, archetipi e paesaggi. All’inizio di questo percorso stanno i versi seminali di Eternity to Season (1954, nuova ed. riveduta nel 1978), con le loro condensazioni metamorfiche di storia, mito, pensiero e natura.
(Andrea Gazzoni)
[da Wilson Harris, Eternity to Season, London, New Beacon Books, 1978, I ed. 1954]
Troy
The working muses nourish Hector
hero of time: small roots move
greener leaves to fathom the earth.
This is the controversial tree of time
beneath whose warring branches
the sparks of history fall. So eternity to season
the barbaric conflict of man.
So he must die first to be free.
Solid or uprooted in pain, his bright limbs
must yield their glorious intentions to the secret
root of the heart. And musing waters dart
like arrows of memory over him, a visionary: smarting tears
of the salty earth.
The everchanging branches of the world, the green
loves and the beautiful dark veins in time
must fall to lightnings and be calm in broken compassion:
but the wind moves outermost and hopeful auguries:
the strange opposition of a flower on a branch to its dark
wooden companion. On the gravel and the dry earth
each dry leaf is powder under the wheels
of war. But each brown root has protection
from the spike of flame. Each branch
tunnels to meet a well or inscrutable
history.
To be truly mortal –
must Hector to the immortals climb?
What glory has the almighty promised him?
only this –
capricious lightning of victory.
Achilles rests beside the ancient sea
and death waits in the guise of immortality.
So Hector knows the trunk of man. the branches of heroes and gods
foreshadowing the labour of all.
Loses his spear and groans to leave his love:
so is pursued by a contradiction. The fine blades of grass
point their arrows to his heart:
flowers burn. inexorable stars: his roots serve
to change illusion and forsake
blossoming coals of immortal imperfection.
Troia
Le muse operose nutrono Ettore
eroe del tempo: radici piccole spingono
foglie più fresche a sondare la terra.
Questo è l’albero controverso del tempo,
sotto i suoi rami in guerra
cadono le scintille della storia. Così dall’eternità alla stagione
il barbaro conflitto dell’uomo.
Così lui deve prima morire per essere libero.
Salde o sradicate con dolore, le sue membra splendenti
devono cedere le loro intenzioni gloriose alla segreta
radice del cuore. E acque assorte si lanciano
come frecce di memoria sopra di lui, un visionario: le lacrime brucianti
della terra salata.
I rami del mondo che mutano sempre, gli amori
verdi e le vene oscure e stupende nel tempo
devono cadere coi fulmini, placarsi nella compassione spezzata:
ma il vento sospinge dei segni, lontanissimi, fausti:
la strana opposizione di un fiore su un ramo al suo oscuro
compagno di legno. Sulla ghiaia e la terra secca
ogni foglia secca è polvere sotto le ruote
della guerra. Ma ogni radice bruna è protetta
contro le punte di fiamma. Ogni ramo
scava gallerie verso un pozzo o un’imperscrutabile
storia.
Per essere davvero mortale –
deve Ettore
agli immortali salire?
Quale gloria a lui l’onnipotente ha promesso?
questa, non altra –
i capricci del fulmine della vittoria.
Accanto all’antico mare Achille riposa
e la morte è in attesa, vestita d’immortalità.
Così Ettore conosce il tronco dell’uomo, i rami degli eroi e degli dei
che adombrano il travaglio di tutti.
E perde la sua lancia e geme lasciando il suo amore:
così una contraddizione lo insegue. L’erba affilata
punta frecce al suo cuore:
i fiori bruciano, inesorabili stelle: le sue radici servono
a mutare l’illusione e a rinunciare
ai carboni in fiore dell’imperfezione immortale.
Behring Straits
The tremendous voyage between two worlds
is contained in every hollow shell, in every name that echoes
a nameless bell,
in tree-trunk or cave
or sound: in drowned Asia’s bones:
a log-book in the clouds
names the straits of eternity: the marbles
of ocean and indomitable tides.
So life discovers the remotest beaches in time
that are always present in action: the interior walls of being
open like a mirrorless pool, the ocean’s nostalgia
and the stormy communication of truth turn still deeply
like settlement and root.
Untangled the trees mount to the sky
and the silence is filled with a different wave like sound
that alters dimension. The cool cave of ship
is sudden beached with sun
is drowned in a fluid ecstasy that devours and is devoured in turn
external still profound.
The voyage between two worlds
is fraught with this grandeur and this anonymity. Who blazes a trail
is overtaken by a labyrinth
leading to many conclusions.
The valleys of ocean
are spent
and the mountains stand cloudlike and august, solid and bent
to the sailor on his round. Until they figuratively drown
in an overwhelming sea or a spiritual
mound. So the incomplete discovery of the world
in the blueness of its delicacy
is broken on the beach of its lofty ground
like a wave that meets resistance and must rise unerringly
into an outline or alienation or history
into a bond that both strengthens and severs in the movement of life:
since heaven deepens the immortal sea
like eternity that disguises
a wound.
But earth waits for the continual voyager
who dances on mortal ground.
wilson harris
Stretto di Behring
Il viaggio tremendo da un mondo all’altro
è dentro ogni conchiglia cava, in ogni nome che è l’eco
di un’anonima campana,
in un tronco o caverna
o suono: nelle ossa dell’Asia sommersa:
nelle nuvole un diario di bordo
dà nome allo stretto dell’eternità: i marmi
dell’oceano e le indomabili maree.
Così la vita scopre le spiagge più remote nel tempo,
sempre presenti e in azione: le mura interne dell’essere
s’aprono come una pozza senza specchio, la nostalgia dell’oceano
e la verità che la tempesta dice si placano, nel profondo,
come insediamento e radice.
Districati gli alberi salgono al cielo
e il silenzio si colma di un’onda diversa, come suono
che cambia le dimensioni. La caverna fresca della nave
è d’un tratto tirata a secco dal sole
è sommersa in un’estasi fluida che divora, divorata a sua volta,
che è in superficie eppure è profonda.
Il viaggio da un mondo all’altro
è carico di questa grandezza e di questo anonimato. Chi traccia un sentiero
è raggiunto da un labirinto
che porta a molte conclusioni.
Le valli dell’oceano
sono dissolte
e le montagne si alzano come nuvole, solenni, salde e rivolte
al marinaio nel suo giro. Finché come in un simbolo non sono sommerse
da un incontenibile flutto o da un tumulo
sacro. Così la scoperta incompiuta del mondo
nell’azzurro della sua fragile grazia
si spezza sulla spiaggia del suo terreno rialzato.
Come un’onda che trova resistenza e deve levarsi precisa
in un profilo o un’alienazione o una storia
in un vincolo che si rinforza e recide nel movimento della vita:
perché il paradiso fa più profondo il mare immortale
come l’eternità che traveste
una piaga.
Ma la terra attende il viaggiatore incessante
che sul terreno mortale
danza.
Amazon
The world-creating jungle
travels eternity to season. Not an individual artifice –
this living movement
this tide
this paradoxical stream and stillness rousing reflection.
The living jungle is too full of voices
not to be aware of collectivity
and too swift with unseen wings
to capture certainty.
Branches against the sky tender to heaven the beauty
of the world: the store-house of heaven
breaks walls to drop tall streams.
Green islands
and bright leaves lift their blossom of sunrise
and the setting sun wears a wild rose like blood.
This self-same blossom bums the clouds: noonday skies are bitter
broken out of all proportion to individual fire
into the great bonfire of the world.
This massive fury sits timelessly
at the low windows of space.
The deep spirit of innocence
is breathless dreamless maturity:
the trees’ black hands are outstretched
in patience. The wings of a bird
fan the burning air.
External and internal
forces are separate illusions that move
beyond glitter and gloom with knife to cut inner and outer times from each other
Within an animal or god
whose stealth is an immaterial succession
of movements, so vast and precise, as to have no gesticulatory action.
.
Rio delle Amazzoni
La giungla creatrice del mondo
è in viaggio dall’eternità alla stagione. Non è un artificio d’individuo –
questo movimento vivente
questa marea
questa corrente e calma paradossale che risveglia la riflessione.
La giungla vivente è troppo piena di voci
per non sapere della collettività
e con le sue ali invisibili è troppo veloce
per catturare la certezza.
Rami contro il cielo porgono al paradiso la bellezza
del mondo: il deposito del paradiso
spezza le mura, fa cadere le alte correnti.
Isole verdi
e foglie splendenti innalzano il fiore del sole che sorge
e il sole che cala porta una rosa selvatica simile a sangue.
È questo fiore, lo stesso, a bruciare le nuvole: i cieli a mezzogiorno sono duri
spezzati oltre ogni misura di fuoco d’individuo
dentro il gran rogo del mondo.
Questa furia massiccia giace senza tempo
alle finestre basse dello spazio.
Lo spirito profondo dell’innocenza
è maturità senza fiato senza sogni:
le mani nere degli alberi si allungano
con pazienza. Le ali d’un uccello
fanno vento all’aria che brucia.
Le forze esterne, le forze interne
sono illusioni distinte che vanno
oltre il buio e le luci con un coltello a tagliare via tempi di dentro e di fuori, gli uni dagli altri,
nel corpo di un animale o di un dio
il cui passo furtivo è un’immateriale successione
di movimenti, così vasti e precisi, che non ha gesti la sua azione.
Andrea Gazzoni (http://upenn.academia.edu/andreagazzoni) è autore di Epica dell’arcipelago. Il racconto della tribù, Derek Walcott, “Omeros” (Firenze, Le Lettere, 2009) e curatore di Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari (Isernia, Cosmo Iannone, 2010). Epica, traduzione, teoria della letteratura e Digital Humanities sono al centro delle sue attuali ricerche. Ha scritto articoli nel campo della letteratura italiana moderna e della letteratura comparata, alcuni dei quali dedicati a singole figure come Kamau Brathwaite, Derek Walcott, Wilson Harris, Gëzim Hajdari, Alberto Savinio, Franco Fortini ed Eugenio Montale. Ha tradotto in italiano Diritti di passaggio di Kamau Brathwaite (Roma, Edizioni Ensemble, 2014), e sta curando l’antologia di scritti di poetica Pensiero caraibico (Roma, Edizioni Ensemble, 2015; con testi di Kamau Brathwaite, Alejo Carpentier, Édouard Glissant, Derek Walcott). È redattore della rivista di scambi interculturali «Scritture migranti» (www.scritturemigranti.it). Ha insegnato letteratura e lingua italiana alla University of Oregon, alla Portland State University, alla University of Pennsylvania e nella scuola pubblica italiana. Ha conseguito una laurea in Lettere all’Università di Bologna e un dottorato in Letteratura comparata e traduzione del testo letterario alla’Università di Siena. Attualmente è iscritto al programma di PhD in Italian Studies della University of Pennsylvania.
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Narrare in condizioni postmoderne
Nel 1979 il filosofo francese Jean-François Lyotard dà alle stampe un pamphlet di circa un centinaio di pagine, tratto da una ricerca sul “sapere” commissionata in origine dal governo canadese, che diventerà decisivo per la storia delle scienze umane in generale e della filosofia in particolare: La condizione postmoderna.
La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una “grande narrazione”, cioè a una storia che possa essere “macrostoria”, vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Lyotard, con ironia e semplicità, sostiene che, alla luce del “secolo breve” e delle acquisizioni dello strutturalismo, ogni tentativo di ricostruzione che voglia dire la totalità sull’uomo e dell’uomo ricade inevitabilmente nella violenza della totalizzazione, e nell’ingenuità di una descrizione che non può, costitutivamente, rendere giustizia a ciò che è stato detto, fatto, pensato, narrato, costruito, reso arte, immaginato nella sua molteplicità e irriducibilità ad unicum.
Ogni narrazione è una prospettiva, che ha una storia e una geografia concreta e delle premesse (più o meno) inconsce, che la condizionano inevitabilmente dall’origine. Pensare di liberarsene è illusorio e tracotante: siamo consegnati irrimediabilmente e irriducibilmente – condannati – al frammento.
Quest’idea è stata una determinante portante per più di un trentennio all’interno delle scienze umane europee, e un costante avversario teoretico (il che ne attesta la diffusione e, in qualche modo, la legittimità anche se in forma negativa) per quelle di origine, metodologia e “stampo” anglo-americano.
Tiziana Contino, Honey Money
Peter Sloterdijk: un pensatore sulla scena
Nel 1998, forse per la prima volta da quando la campana a morto della “modernità” (per lo meno, quella filosofica) era stata suonata da Lyotard, un filosofo ha tentato di rompere l’interdetto lanciato dal francese sulle grandi narrazioni: in quell’anno esce infatti in Germania il primo volume della trilogia di Sfere, a firma Peter Sloterdijk.
Sloterdijk (che è nato a Karlsruhe, nel sud della Germania, nel 1947) è nell’ambito delle scienze umane una figura nota e controversa: si è sempre posto ai margini del discorso filosofico accademico (è da anni rettore, dopo esserne stato docente, della Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, un’accademia di belle arti della provincia tedesca, che pur se innovativa e all’avanguardia nel proprio settore, di certo non è uno dei grandi atenei che hanno fatto la storia della filosofia tedesca), è stato anche conduttore di un programma televisivo, Das philosophische Quartett, dedicato a problemi di cultura e di costume, analizzati con piglio e ospiti provenienti principalmente dal campo della filosofia e della storia della cultura (il che potrebbe dire qualcosa di interessante anche all’Italia, su come la filosofia possa essere un metodo di divulgazione di alto livello – Sloterdijk infatti era presentatore, non ospite – e non debba ridursi necessariamente all’expertise del singolo, invitato e interrogato su una materia specifica), e autore di uno dei libri di filosofia più venduti di sempre in Germania, La critica della ragion cinica, che nel 1983 raggiunse la quota record di 150.000 copie vendute (e che recentemente è tornata disponibile – in versione ridotta rispetto all’originale – anche nel nostro paese).
Ma Sloterdijk è stato anche, proprio a ridosso della pubblicazione del primo volume della trilogia di Sfere (traendo da ciò non poca visibilità – Sloterdijk è anche un abile promotore di se stesso), colui che ha detto al grande padre filosofico della cultura tedesca del dopoguerra, Jürgen Habermas, che “la teoria critica è morta”, sulla scia di una feroce polemica culturale che aveva visto Habermas attaccare (infondatamente, bisogna dire) Sloterdijk per presunte tesi para-eugeniste, che egli avrebbe sostenuto nel breve saggio Regole per il parco umano, uno dei lavori più interessanti di Sloterdijk dal punto di vista teoretico.
Un tentativo postmoderno di descrivere il mondo: la trilogia di Sfere
Adesso i primi due volumi di Sfere, opera monumentale (più di 2000 pagine complessive, divise in tre tomi) da poche settimane sono finalmente disponibili anche al pubblico italiano, grazie alla meritoria opera dell’editore Raffaello Cortina di Milano, che sembra aver da qualche anno preso seriamente in carico il compito di importare Sloterdijk nella nostra nazione.
Dopo una prima edizione del 2009, ad opera del pioneristico editore Meltemi – tra i primi a investire massicciamente su Sloterdijk, all’epoca – viene ristampato, con traduzione e curatela quasi inalterate, e con una prefazione leggermente rivista di Bruno Accarino, il primo volume della trilogia: Sfere I. Bolle Microsferologia; e presentato per la prima volta in traduzione italiana il II volume della medesima opera: Sfere II. Globi Macrosferologia.
La buona prefazione di Accarino ha il merito di introdurre il lettore al milieu filosofico – o meglio, a uno dei milieux filosofici – a cui Sloterdijk può essere avvicinato: quello dell’antropologia filosofica tedesca. Questa corrente filosofica, che ha visto la propria teorizzazione e il massimo splendore nella prima metà del secolo scorso (ad opera di pensatori tanto decisivi quanto oggi parzialmente dimenticati, come Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen), tentava di porre in stretto dialogo i risultati delle scienze della vita con un’immagine organica dell’uomo nel suo mondo.
Se pure – come andremo a vedere – Sfere I può essere ricondotto a questo tipo di interesse scientifico, ci sembra che Accarino (ed è questa forse l’unica pecca della sua prefazione, che resta comunque la migliore, fino ad oggi, di quelle scritte in Italia ai volumi di Sloterdijk) tenda a sottovalutare fortemente e volutamente (fino alla dichiarazione esplicita nella nota 112 a p. LXV) la tradizione epistemologica francese in generale, e Michel Foucault in particolare, tra le fonti e gli interlocutori privilegiati di Sloterdijk, che al contrario spesso ha personalmente dichiarato quanto Foucault sia stato decisivo per il suo percorso filosofico, e che – dopo Sfere – si è dimostrato debitore e in un suo particolarissimo modo addirittura (potremmo azzardare, con una forzatura) “continuatore” delle analisi foucaultiane nel suo testo di maggiore rilevanza dopo la conclusione della trilogia, dal titolo Devi cambiare la tua vita.
Di cosa parlano i tre volumi di Sfere
Il primo volume di Sfere rappresenta il tassello fondativo della trilogia, di cui può essere così brevemente schematizzata la composizione:
Sfere I rappresenta il culmine e la summa delle analisi sulla costituzione del soggetto che avevano occupato la riflessione di Sloterdijk fin dall’interesse per l’autobiografia espresso nella sua tesi di dottorato e nei lavori successivi, scritti tra gli anni ’80 e la fine degli ’90 del secolo scorso.
Sfere II è un’ampia fenomenologia dello spirito nell’epoca della globalizzazione, che per il Nostro comincia con la formulazione filosofica delle prime immagini del mondo unitarie, del mondo inteso come cosmos, da parte dei filosofi greci, e tramonta inesorabilmente con l’epoca delle grande scoperte geografiche di Cristoforo Colombo e Magellano.
Sfere III (ancora non disponibile in italiano, e che forse è il volume dal maggior valore teoretico della trilogia, assieme al primo) conclude l’opera, fornendo un tentativo di descrizione del mondo contemporaneo, in cui il concetto di sfere si è dissolto in quello di schiume.
Soggetti, Oggetti, Noggetti: Sfere I. Bolle
L’argomento di Sfere I può essere definito un’archeologia dell’intimo. Sloterdijk indaga la costituzione dell’individuo fin dalla fase della sua gestazione nell’utero materno, costituendo con gli strumenti teoretici della psicologia del profondo, della medicina e della storia della cultura, un’antropologia filosofica che non sfugga ingenuamente al confronto con le scienze moderne, ma che se ne giovi per elaborare una teoria complessa della soggettività umana, da cui partire per reinterpretare la storia della filosofia e delle civiltà occidentali.
Sloterdijk ritiene che il periodo di gestazione sia quello fondamentale per la costituzione della soggettività umana, soprattutto a livello di retaggio psichico. Questo è il punto basilare in cui si distacca da Freud (ma anche dei critici di Freud entro il contesto della psicanalisi), introducendo il concetto, mutuato dal filosofo della cultura austriaco Thomas Macho, di noggetto, Macho è un pensatore purtroppo ancora poco noto in Italia, delle cui opere, che spaziano in un orizzonte vastissimo dalla psicoanalisi alla critica dell’economia, dal tema della morte a quello dell’animale, sarebbe necessaria una maggiore diffusione, anche solo per comprendere meglio molte delle teorie su cui si basano gli assunti sloterdijkiani, che dall’amico Macho riprende molte idee.
Sloterdijk definisce i noggetti come realtà che spiazzano l’osservatore, ponendogli di fronte qualcosa che non ha ancora una presenza oggettiva, oggetti non dati, realtà che aboliscono la divisione soggetto/oggetto, perché la precedono.
Il primo noggetto di cui Sloterdijk tratta – si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che in tutta la sua speculazione filosofica non tratterà d’altro – è la madre come ricettacolo d’intimità, come pura interiorità, come vulva, come grotta, come porta tra l’interno preoriginario e l’esteriorità come unica realtà che ci sia propriamente data. Noggetto sarà però anche il feto, che ancora non è un soggetto, ma che neanche si può definire un oggetto.
Vengono qui criticate le tre fasi che secondo la psicoanalisi freudiana danno la descrizione delle relazioni precoci (orale, anale, genitale) come inficiate fin dall’inizio dalla petitio principi della necessità del rapporto a un oggetto. In particolare nell’ultima fase, quella genitale, che per Freud è la più importante, in quanto condurrebbe al processo di formazione del soggetto.
A tali tre fasi vengono preposte (senza che per questo si possa tra di essi stabilire né una gerarchia né una consequenzialità cronologica) altri tre stadi, regimi di medialità radicale pre-orali, caratterizzati dalla loro configurazione noggettiva (che comporta l’abolizione della relazione soggetto/oggetto), che, sulla scorta delle più recenti indagini sulla struttura dello sviluppo prenatale, dovrebbero descrivere in maniera più completa il rapporto madre-feto.
L’importanza che Sloterdijk, nel proseguo della sua trilogia, darà a queste tre fasi sarà enorme: ciascuna di esse sarà il cardine su cui si baserà la sua teoria interpretativa della realtà, della storia e della cultura.
Le tre fasi
La prima fase pre-orale è una fase coabitativa fetale in cui vi è l’esperienza della presenza sensoriale dei liquidi, dei corpi e dei limiti della caverna uterina. Qui, quale precursore della realtà che diverrà poi il mondo, è presente un regno intermedio fluidico, l’ambiente uterino prenatale materno.
Questa prima fase, secondo Sloterdijk, si riproporrà di continuo, prepotentemente, in quanto l’abitare, inteso come essere-nello-spazio, costruire-lo-spazio, abitare-uno-spazio-umanizzato (e umanizzante) sarà la caratteristica fondamentale dell’essere umano: per Sloterdijk infatti l’uomo sarà null’altro che quell’animale che crea e abita uno spazio. Il II e il III volume di Sfere saranno dedicati principalmente all’esplicazione – su coordinate storiche, filosofiche e culturali sovraindividuali e intersoggettive – di tale concetto. L’immersione del feto nel liquido amniotico e nel sangue, e il rapporto con la placenta, sono le altre caratteristiche fondamentali di questo stadio.
La seconda fase pre-orale è l’iniziazione psico-acustica del feto nel mondo sonoro uterino, in cui viene posta l’attenzione sull’importanza della voce come cordone ombelicale che unisce ancora, dopo il parto, il neonato con la madre, e che sarebbe il germe di ogni comunicazione futura.
Sloterdijk dedicherà un altro capitolo (il VII) di Sfere I all’approfondimento del rapporto del feto con la musica e con l’udito in generale.
L’ultimo stadio pre-orale è quello della fase respiratoria.
Se, come visto, la prima vera esperienza del soggetto in fieri è quella dell’immersione in un medium fluido entro delle delimitazioni spaziali concretamente presenti, seppur nella loro vaghezza, si può da qui dedurre l’importanza che l’analisi dei media assume nelle considerazioni di Sloterdijk.
Una volta definito l’essere umano come un abitatore dell’interno, a causa dei propri retaggi noggettuali, tutta la trilogia di Sfere, e lo stesso concetto di sfera, possono essere descritti come dei tentativi concettuali di spiegare il fenomeno-uomo alla luce del suo rapporto con il proprio dove: una topologia dell’essere, come lo stesso Sloterdijk l’ha definita.
Queste – naturalmente – sono solo alcune delle direttive individuabili entro l’opera che stiamo presentando, che consta di 593 pagine di analisi fitte e variegate, ma di certo sono quelle che danno all’opera la sua struttura teoretica portante. Intorno ad esse si affastellano descrizioni tra le più disparate, esempi della geniale poliedricità sloterdijkiana, come i capitoli sul doppio, sull’angelo, su Giotto: tutti esempi di come, nella storia della cultura e della civiltà occidentale le forme-di-vita noggetuali abbiamo avuto retaggi che si sono esplicati nei campi più diversi: dalla letteratura alla religione, dalla pittura ai circhi e ai cabinet des curiositées.
Passare la sfera: dalle bolle ai globi
Per comprendere appieno l’inanellamento argomentativo tra i vari volumi di Sfere, e in particolare per comprendere come sia possibile il passaggio dal primo al secondo volume della trilogia, è forse utile a questo punto chiarificare il significato del titolo, ma ancor più dei sottotitoli, di quest’opera, partendo dal concetto di sfera.
L’opera di Sloterdijk è costellata di definizioni di sfera, a volte anche molto distanti l’una dall’altra. Una delle più complete è forse la seguente:
E la ragione per la quale la ricerca del nostro dove è più sensata che mai risiede nel fatto che essa si interroga sul luogo che gli uomini producono per avere ciò in cui possono apparire quello che sono. Questo luogo porta in questa sede, in memoria di una tradizione rispettabile, il nome di sfera. La sfera è la rotondità dotata di un interno, dischiusa e condivisa, che gli uomini abitano nella misura in cui pervengono a essere uomini. Poiché abitare significa sempre costruire sfere, in piccolo come in grande, gli uomini sono le creature che pongono in essere mondi circolari e guardano all’esterno, verso l’orizzonte. Vivere nelle sfere, significa produrre la dimensione nella quale gli uomini possono essere contenuti. Le sfere sono delle creazioni di spazi dotati di un effetto immunosistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno. (Sfere I, pp. 21.22)
La sfera ha dunque principalmente a che vedere con la spazialità e la creazione di spazio: è la risposta trovata da Sloterdijk alla domanda sul nostro dove, che comprende un rapporto di mutuo e reciproco rimando tra interno ed esterno, tra creare spazi e abitare. La microsferologia, come viene contrassegnata dal sottotitolo del primo volume della trilogia, descrive le bolle, ossia l’unità originaria costitutiva di quello che sarà l’individuo, le cui parti fondamentali sono l’insieme delle non-relazioni noggettuali che abbiamo descritto.
Analizzare le microsfere significa dunque analizzare l’uomo in quanto abitatore dell’interno, quale essere strutturato da una spazialità originaria, che egli tenterà di ripetere sempre e ovunque con ogni mezzo, una volta uscito dall’utero materno.
Sloterdijk sosterrà, incisivamente, che la storia della tecnica umana è la storia dell’uterotecnica: il tentativo, incompleto per antonomasia, di riproporre al di fuori dell’utero le condizioni intrauterine. Tali condizioni non includono solo la spazializzazione e il creare spazi, ma anche una vera e propria ossessione mediologica: l’immersione originaria nel medium fluido nel grembo materno e i brandelli comunicativi appartenenti alla fase orale psico-acustica perseguiteranno il soggetto in tutta la sua storia, che sarà costellata da continui tentativi di creare media perfetti per una comunicazione illimitata, ripetizione dello stadio primordiale.
Qui si effettua anche il passaggio dalla microsferologia alla macrosferologia: quest’ultima, il cui itinerario viene esplicato nel II volume della trilogia Sfere, che dal primo è preparato, coincide con la storia dell’uomo occidentale dalla grecità all’epoca delle grandi esplorazioni, ed è una fenomenologia dei tentativi (la cui somma è l’insieme delle religioni, delle filosofie, delle arti, dei commerci e delle entità politiche dispiegatesi nel corso della storia) fatti dagli uomini per crearsi
Dal primo al secondo volume
Per esemplificare e chiarire il passaggio dal primo al secondo volume e i temi principali di quest’ultimo può forse essere utile – nella grande massa di materiali contenuti nelle 942 pagine della traduzione italiana – proporre nuovamente un “taglio”, l’analisi di un tema specifico che possa dare al lettore un’idea dell’argomento e dello svolgersi generale del testo.
A mio parere, particolarmente utile a questo scopo può essere un’analisi dei capitoli II e III e VIII di Sfere II.
michele pierpaoli untitled
Nel primo di essi, dal titolo Ricordi del contenitore. Sul fondamento della solidarietà nella forma inclusiva (Sfere II, pp. 173-221), vi è la già accennata frase sloterdijkiana (mutuata da Dieter Claessens), che risulta paradigmatica per comprendere il passaggio dalle microsfere alle macrosfere: «Ogni società è un progetto utero-tecnico» (ivi, p. 180).
Dunque il retaggio della prima fase noggettuale si esplica nei processi originari d’insulazione non solamente nella ripetizione tecnica della situazione d’inclusività protettiva data dall’abitare intrauterino, ma anche dalla necessità di compartecipazione e condivisione originaria dello spazio.
La presentificazione materiale dei benefici forniti dall’essere-insieme è data, architettonicamente, dal muro di cinta: confine visibile della prima macrosfera, esso segna l’inizio del noi.
Il passo dall’inclusività fonte di privilegi all’inclusione costrittiva e portatrice di sofferenze è però breve: la dimensione ne viene data dal crescere in dimensioni sempre più imponenti delle mura delle città, fin dalle epoche più antiche della storia (si pensi alle mura di città come l’antica Babilonia), fino a diventare microcosmi da cui uscire (e in cui entrare) diventa sempre più complesso; le mura ciclopiche – infatti – divengono il simbolo della facoltà, monopolio del potere, di includere tutto ciò che si considera proprio in un ambito controllabile: dal noi si passa al mio.
Con la nascita delle fortificazioni nascono secondo Sloterdijk anche i primi impianti di potere totalizzanti: Sloteredijk interpreta come una proiezione metafisica di questo bruto fatto materiale il sorgere delle dottrine (ad esempio quella gnostica e quella manichea) che considerano ciò che è mondano e corporeo come prigioni, e vedono come la vera vita quella dell’anima, che ha patria nel puro fuori.
Queste immagini del mondo avrebbero però subito un sorpasso cognitivo, una sconfitta, da parte delle metafisiche dell’inclusività, che avranno la loro massima teorizzazione nell’ontologia filosofica greca e nella metafisica religiosa cristiana; la sfera ontologica parmenidea, e la sfera teologico-inclusiva del cristianesimo avranno secondo Sloterdijk il loro successo millenario perché in grado di dare una spiegazione immunologica particolarmente soddisfacente del reale, una spiegazione in cui il tasso d’inclusività è assoluto: la sfera cosmica sarebbe, secondo tale visione, la macro-parete che rende il genere umano unito nella grande casa datagli da Dio.
roberto cicchinè untitled 2009
Sfere locali, sfere globali, sfere infrante: Sfere II. Globi
Nel capitolo III di Sfere II dal titolo Arche, mura, confini del mondo, sistemi immunitari. A proposito dell’ontologia dello spazio circondato da mura (Ivi, pp. 223-318), Sloterdijk offre un esempio di come le sue analisi possano passare rapidamente dal piano della storia della metafisica, della religione e della filosofia a quello della storia materiale. Qui infatti Sloterdijk analizza le figure inclusive dell’arca e delle mura di cinta intendendole come dei sistemi immunitario-inclusivi concreti: l’arca per Sloterdijk è l’idea di spazio più radicale dal punto di vista morfologico che gli antichi seppero concepire; essa esprimerebbe infatti l’idea che il mondo interiore artificiale può diventare, in date circostanze, l’unico medium vivibile, di fronte a un mondo esterno ormai invivibile con cui ogni legame viene tagliato.
L’arca rappresenterebbe a livello simbolico la rottura con l’illusione materna: l’uomo diventa adulto ontologico perdendo la propria fiducia nella bontà della natura, e riponendola invece nel “contratto” con cui Dio, dopo il diluvio, assicura all’uomo che in futuro non vi sarà più annichilazione alcuna.
La trattazione sloterdijkiana passa poi dall’arca alla città, che è in qualche modo un’arca “approdata”: tutto nella grande città è volontà di dominio e opera umana, e nulla fa pensare alla possibilità di una sua scomparsa (diversamente da ogni cosa che compare al mondo, in natura). Chi vive in una città non solo ne è protetto, fisicamente e psicologicamente, ma è anche votato ad essa: alla sua costruzione, mantenimento, protezione, espansione a danno di altri déi-città.
Le mostruose città antiche esprimerebbero nella loro smisuratezza il proposito di rendere tutto lo spazio esterno uno spazio interno animato: con le grandi città antiche, secondo Sloterdijk, politica, architettura e teologia si alleano in un progetto macroimmunologico.
Infatti, quando l’antico re ordinava la costruzione della città, egli si poneva nella posizione del dio creatore di un cosmo, e in quanto tale aveva il privilegio di poter dirigere dalle torri il proprio sguardo ovunque (esemplificando così un modello fisico di onniscienza). Le mura, in questo contesto, trasformeranno progressivamente e inesorabilmente la loro funzione simbolica: esse rappresenteranno sempre più l’idea dell’inaccessibilità del divino e al contempo della sua inclusività totale.
Dunque la muraglia sarebbe addirittura un’epifania, il lato di esibizione di un’interiorità emanante, che non permette dubbi sul potere di chi la costruì: Dio è presente nelle mura e celato dalle mura. È così che secondo Sloterdijk nascono l’immagine del dio costruttore e artigiano, che sostituisce quella arcaica della Grande Madre con quella della fabbrica, e conseguentemente le religioni di redenzione orientali: dall’idea che chi ha costruito l’uomo può anche salvarlo e comprenderlo.
Secondo Sloterdijk le mura ciclopiche mesopotamiche testimoniano un cambio di formato dell’immaginazione, sono un sintomo ontologico di crisi: esse rappresentano il primo segno che l’esteriorità ha infettato la bolla microsferico-familiare fino ad ora impermeabile ad essa; nelle città fortificate lavorarono per secoli migliaia di uomini al fine di dimostrare che tutto ciò che è può essere contenuto in una forma.
Sloterdijk ritiene che questo valore psichico e simbolico delle mura inclusive sia reso evidente dai motivi che hanno portato al loro tramonto: quando si affermarono sistemi inclusivi migliori (e più a basso costo), vale a dire le metafisiche religiose, in cui gli esseri umani venivano inclusi senza doversi spendere in una vita di sforzi al fine dell’erezione di mura ciclopiche, la fortuna delle grandi città dalle mura ciclopiche tramontò.
La storia di come le immagini del mondo metafisiche abbiano creato una Macrosfera inclusiva, e di come questa sia tramontata, sono riassunte da Sloterdijk nell’illuminante capitolo VIII del testo (dal titolo L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, che fu, come capitolo a se stante, il primo testo tradotto di Sloterdijk in italiano, alla fine degli anni ’90 per l’editore Carocci, che alimentò l’equivoco, in parte non ancora dissipato, che Sloterdijk fosse un filosofo della globalizzazione, cosa che non è affatto).
Saturno visto dalla sonda Cassini
Le tre fasi della globalizzazione
Sloterdijk narra lo svolgersi, svilupparsi e il deflagrare di quelle che egli ritiene siano state le tre fasi della globalizzazione:
Globalizzazione cosmo-uranica (o onto-morfologica): ha i caratteri simbolici della creazione di un’immagine del mondo unitaria, attraverso gli strumenti metafisico-unitari e immunologici che abbiamo sopra brevemente ripercorso. Essa si compì definitivamente con la creazione di quel macro(-sferico-)sistema immunitario che era l’onto-teo-logia cattolica di derivazione greca.
Globalizzazione terrestre: è l’argomento principale del capitolo VIII. Esso tratta del periodo 1492-1945 quale insieme in sé compiuto di eventi, che Sloterdijk ritiene siano gli unici a poter essere a buon diritto definiti come storici. La storia per Sloterdijk è la storia dell’appropriazione di spazi, avvenuta entro una cornice simbolica preparata da centinaia di anni di globalizzazione cosmo-uranica. La storia delle conquiste, dell’esportazione della sfera monologica cristiana, è La storia.
Saturno ripreso dalla sonda Cassini
Per Sloterdijk il movimento storico-globale che ha visto il suo culmine col viaggio di ritorno di Magellano, ha realmente trasformato il nostro globo, in una sfera. Ma questa sfera, nel momento in cui è stata acquisita in quanto tale, quale monade geologica, è diventata anche l’ultima. L’acquisizione materiale della Terra quale luogo totalmente esplorato, conosciuto, acquisito, le cui mappe non presentavano più vuoti di conoscenze riempiti da mostri della fantasia, tale acquisizione è da considerarsi totale e sintetica. Essa ha unito in sé il pensiero teorico della sfera, quale era stato concepito da Parmenide e dal cristianesimo, a quello pratico della globalizzazione effettuata tramite navi e merci, scali in porti stranieri e guerre di conquista. Ma la grandiosità di quest’epoca si è conclusa quando la Terra ha imposto ai suoi abitanti, coloro che percorrono la sua superficie, la considerazione della propria limitatezza, unita al suo non essere inserita in uno schema immunitario d’inclusività globale. Gli uomini, da esseri fatti a immagine dell’unico Dio, che percorrevano per Suo volere la Sua creazione e che la dominavano sia materialmente che teoreticamente (quale luogo inserito in un ben preciso contesto cosmico, che la visione del mondo tolemaica pretendeva di conoscere perfettamente), diventano coloro che si rendono conto che il mandato del Dio cristiano può entrare in competizione con quello di altri dei, di altri sistemi immunitari.
Globalizzazione elettronica: è quella che si svolge attualmente nel mondo contemporaneo. Nell’ultimo stadio della globalizzazione i media non sono più tanto fisici (navi, galeoni) quanto telematici ed elettronici (onde radio, sistemi satellitari, televisione, internet, aerei).
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Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica diDe Chirico.
Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911 pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913 Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918), veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.
Commento di Renzo Paris
…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.
Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?
O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:
Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.
Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:
Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.
A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.
(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)
Le morpion
Imitons la ténacité
De cet insect qu’on méprise.
Dames, messieurs qui vous grattez,
Il ne lachera jamais prise.
.
La piattola
Imitiamo la tenacia
Di questo insetto spregiato.
Signori che vi grattate, dame,
Lui non lascerà mai la presa.
Le hibou
Mon pauvre coeur est un hibou
Qu’on cloue, qu’on décloue, qu’on recloue.
De sang, d’ardeur, il est à bout.
Tous ceux qui m’aiment, je les loue.
.
Il gufo
Il mio povere cuore è un gufo
Che s’inchioda, si schioda, si rinchioda.
Sangue ed ardore non ha quasi più.
Tutti quelli che mi amano, li lodo.
La méduse
Méduse, malheureuses tetês
Aux chevelures violettes
Vous vous plaisez dans le tempetês,
et je m’y plais comme vous faites.
La medusa
Meduse, sciagurate teste
Dalle capigliature violette,
vi dilettate nelle tempeste:
e anch’io come voi ci godo.
La sauterelle
Voici la fine sauterelle,
la nourriture de saint Jean.
Puissent mes vers être comme elle,
le régal des meilleurs gens.
La cavalletta
Ecco la delicata cavalletta,
Cibo di san Giovanni.
Possano i miei versi essere come lei
Il festino delle anime elette.
La mouche
Nos mouches savent des chansons
Que leur apprirent en Norvège
Les mouches ganiques qui sont
Les divinités de la neige.
La mosca
Le nostre mosche sanno canzoni
Che hanno appreso in Norvegia
Dalle mosche ganiche
Che sono le divinità della neve.
La carpe
Dans vos viviers, dans vos étangs,
carpes, que vous vivez longtemps!
Est-ce que la mort vous oublie,
poissons de la mélancolie.
La carpa
Là nei vostri vivai, nei vostri stagni,
carpe, come a lungo vivete!
Forse la morte v’oblia,
pesci della malinconia.
Jetant son encre vers les cieux,
suçant le sang de ce qu’il aime
et le trouvant délicieux,
ce monstre inhumain, c’est moi-même.
Il polipo
Gettando il suo inchiostro verso il cielo,
succhiando il sangue di ciò che ama
e trovandolo delizioso,
questo mostro inumano, sono io.
La chèvre du Thibet
Les poils de cette chèvre et même
Ceux d’or pour qui prit tant de peine
Jason, ne valent rien au prix
Des cheveux dont je suis épris
La capra del Tibet
Il vello di questa capra e perfino
Quello d’oro per cui ha tanto penato
Giasone non valgono nulla al confronto
Dei capelli che m’hanno innamorato.
Le chat
Je souhaite dans ma maison:
une femme ayant sa raison,
un chat passant parmi les livres,
des amis en toute saison
sans lesquels je ne peux pas vivre.
Il gatto
In casa mia desidero
Una donna fornita di ragione,
un gatto che passi tra i libri,
amici in ogni stagione
senza i quali non posso vivere.
La chenille
Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.
.
Il bruco
Il lavoro conduce alla ricchezza.
Poveri poeti, lavoriamo!
Il bruco faticando senza fretta
Diventa la ricca farfalla.
La souris
Belles journées, souris du temps,
vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu! Je vais avoir vingt-huit ans,
et mal vécus, à mon envie.
Il sorcio
Bei giorni, sorci del tempo,
voi mi rodete a poco a poco la vita.
Dio! Avrò presto ventottanni,
E mal vissuti, a mio capriccio.
Le serpent
Tu t’acharnes sur la beauté
Et quelles femmes ont été
Victimes de ta cruauté!
Eve, Eurydice, Cleopatre;
J’en connais encor trois ou quatre.
.
Il serpente
Tu t’accanisci contro la beltà.
E quelle donne che sono state
Vittime della tua crudeltà!
Eva, Euridice, Cleopatra:
io ne conosco ancora tre o quattro.
Archiviato in poesia francese
Adriano Corrales è nato a San Carlos in Costa Rica nel 1958. Poeta, saggista e narratore, ha pubblicato Tranvía Negro (poesia, Editores Alambique, 1995, Ediciones Perro Azul 2001), La suerte del Andariego (poesia, Ediciones Perro Azul, 1999), Los ojos del antifaz (novella, Ediciones Perro Azul 1999, Ediciones Piel de Leopardo, Buenos Aires, Argentina, 2002), Poesía de fin de siglo Nicaragua-Costa Rica (Antologia, Ediciones Perro Azul, 2001), Hacha encendida (poesia, Revista Fronteras, 2000, Ediciones El pez soluble, Caracas, Venezuela, 2002), Profesión u Oficio (Poesia, Ediciones Andrómeda 2002), Caza del poeta (Poesia, Ediciones Andrómeda, 2004), Balalaika en clave de son (novella, Editorial Costa Rica, 2005). Professore e ricercatore dell’ Instituto Tecnológico de Costa Rica, dirige riviste culturali e collabora con quotidiani e case editrici. I suoi testi poetici sono generalmente pervasi da una attenta ricerca di linguaggio, con lunghi paragrafi discorsivi colmi di immagini, suoni immediati, metafore colorite in cui sembra che il poeta cerchi di canalizzare una energia difficile da contenere. Molte poesie oscillano tra il racconto, la relazione, il ritratto e l’aneddoto, ma non per questo la spinta poetica dell’autore perde il suo slancio, spesso conferendo al testo la necessaria intensità per rifondare la propria parola.
Carta al hijo
Sería difícil escribir esta carta sin evitar las justificaciones
digresiones de caída y vela hinchada hacia el poniente
en el fósforo del Báltico un amanecer de lluvia y lágrimas
con el rostro frente a las paredes blancas de un hospital invernadero
¿Será difícil inventariar las lunas los cruces de esquina
los caballos estivales galopando a ambos lados del transiberiano
las noches de vodka alrededor de la ausencia sin tus pasos?
Será duro el batallar de los acontecimientos
las visas los pasaportes los aeropuertos los desencuentros
las callosidades del alma la inutilidad de los abrazos
Será difícil anotar que he desvivido bebido huido
hacia los agujeros del tiempo en la marcha de las palabras
Más difícil aún revisar imágenes de un país imaginario
las bombas que caen en chorrillo sobre San Miguelito la luna
el desfile de gorilas amarillos desatando el istmo con su fuego homicida
sus fauces hediondas alimañas de carnicería
y vos bajo la telaraña de la cama en la habitación del miedo
asustado y sorprendido sin comprender porqué el imperialismo
los capitales la banda neoliberal los lamepies tropicales
la horda de paisanos como perfectos chacales
el paréntesis de este centro planetario atiborrado de compañías
comerciantes del reino usureros serruchadores de tus sueños
mis sueños de una sola patria matria nuestros sueños
los de tu madre con los muñecones del teatrillo callejero
por las selvas del Darién o en el Archipiélago donde las embarcaciones
llevan traen los cuentos de los fundadores elementales
los soles de la palma el brillo soberbio de las pieles
trasiegan el pasado contra el futuro en un eterno presente
Es difícil ocultarse hijo muy difícil
escribir todo esto sin que me tiemblen las manos
y un rumor de cadenas crepitaciones inexpresables
naveguen por dentro como una estampida de bisontes guerrilleros
y la mirada se nos pueble de nubes en el olvido de nuestros nombres
Harto difícil esta tarea de acercarte a mi otro yo
el de los ojos del antifaz con la suerte del andariego
en un tranvía negro que siempre retorna y retorna
con las hilachas nocturnas de los murciélagos
siemprevivo siempreamargo cautiverio de las páginas que se humedecen
como las lapidas con el rocío de los cementerios
o las bestias que huyen perseguidas por el amazónico incendio
Me es muy difícil decirte hijo decírtelo sin faltarle al recuerdo
que yo también me caigo me lluevo me abro me cierro
me ablo me tiemblo me tenso con los látigos los templos
del primer indicio la mediada caricia el último vuelo
para decirte así sencillamente hijo sin literatura
así al puro aire que todos somos viajantes y que por eso
y a pesar de todo lo que transcurre bajo el poema
a pesar de todo lo que muero te escribo y te quiero
.
Lettera al figlio
Sarebbe difficile scrivere questa lettera senza evitare le giustificazioni
digressioni di caduta e vela soffiata verso il ponente
nel fosforo del Baltico un’alba di pioggia e lacrime
con il volto davanti alle pareti bianche di un ospedale-serra
Sarà difficile inventariare le lune gli incroci all’angolo
i cavalli estivi che galoppano su entrambi i lati della transiberiana
le notti di vodka intorno all’assenza priva dei tuoi passi?
Sarà duro il lottare degli eventi
i visti i passaporti gli aeroporti i non incontri
le callosità dell’anima l’inutilità degli abbracci
Sarà difficile annotare che ho patito bevuto sono fuggito
verso gli aghi del tempo nel cammino delle parole
Più difficile ancora ripassare immagini di un paese immaginario
le bombe che cadono a fiotti sopra San Miguelito la luna
la sfilata di gorilla gialli che sciolgono l’istmo con il loro fuoco omicida
le loro fauci fetide animali da macelleria
e tu sotto la ragnatela del letto nell’abitazione della paura
spaventato e sorpreso senza comprendere perché l’imperialismo
i capitali la banda neoliberale i leccapiedi tropicali
l’orda di paesani come perfetti sciacalli
la parentesi di questo centro planetario inzuppato di compagnie
commercianti del regno usurai segatori dei tuoi sogni
dei miei sogni di una sola patria matria dei nostri sogni
quelli di tua madre con le marionette del teatrino di strada
attraverso le selve del Darién o sull’Arcipelago dove le imbarcazioni
sopportano portano i racconti dei fondatori elementari
i soli della palma il brillio superbo delle pelli
agitano il passato contro il futuro in un eterno presente
È difficile occultarsi figlio molto difficile
scrivere tutto questo senza che mi tremino le mani
e un rumore di catene crepitazioni inesprimibili
navighino dentro come uno scoppio di bisonti guerriglieri
e lo sguardo si popoli di nubi nell’oblio dei nostri nomi
Fin troppo difficile questo compito di avvicinarti al mio altro io
quello degli occhi della maschera con la sorte del fuggiasco
in un tram oscuro che sempre ritorna e ritorna
con le filacce notturne dei pipistrelli
semprevivo sempreamaro prigionia delle pagine che si inumidiscono
come lapidi con la rugiada dei cimiteri
o delle bestie che fuggono perseguite dall’amazzonico incendio
Mi è molto difficile dirti figlio dirtelo senza venir meno al ricordo
perché anch’io cado piovo mi apro mi chiudo
mi parlo mi tremo mi tendo con le sferzate dei templi
del primo indizio la mezza carezza l’ultimo volo
per dirti così semplicemente figlio senza letteratura
così nella pura aria che tutti siamo viaggiatori e che per questo
malgrado tutto ciò che trascorre sotto la poesia
malgrado tutto ciò che muoio ti scrivo e ti amo
(dall’antologia ebook a cura e traduzione di Tomaso Pieragnolo “Ad ora incerta” – La Recherche, 2014)
Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli di Firenze ha pubblicato il suo ultimo libro, il poema nuovomondo, finalista al Premio Palmi, Metauro, Minturnae, rosa finale del Premio Marazza e vincitore del Saturo d’Argento – Città di Leporano. Fra le sue precedenti pubblicazioni: Il silenzio del cuore (1985), “La lunga notte” (1987, Premio Giovani Città di Palermo), Lettere lungo la strada (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano), L’oceano e altri giorni (2005). Una sua selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (Poesía escogida, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si è svolta in collaborazione con la rivista “Sagarana”, nella quale dal 2007 al 2013 ha proposto principalmente autori del Costa Rica e del Centro America, mai tradotti in Italia, e con alcune case editrici, che hanno pubblicato le sue traduzioni di Eunice Odio (Questo è il bosco e altre poesie, Via del Vento 2009, Menzione Speciale Camaiore per la traduzione) e di Laureano Albán, (Gli infimi crepuscoli, Via del Vento 2010 e Poesie imperdonabili, Passigli 2011, finalista Premio Internazionale Camaiore, rosa finale Premio Marazza per la traduzione). Ha pubblicato per La Recherche due ebook di traduzioni di poeti ispanoamericani, Nell’imminenza del giorno (2013) e Ad ora incerta (2014).
Archiviato in poesia americana
caro Flavio Almerighi,
ho letto con circospezione il tuo “Procellaria”. Che dire?, è un libro che non fa sconti e non vuole che il lettore gliene faccia, ha una abbottonatura, una sua chiusura, un suo modo di difendersi dai lettori improvvisati o superficiali, è un libro che non si dà facilmente, non si offre e non vuole offrirsi al primo casuale lettore. La prima poesia «Rosso d’uva» è davvero riuscita nella sua nuda crudezza, quella intitolata «Recessione» è un esempio di poesia, come si diceva una volta, impegnata, civile, tenuta su da un profondo sdegno, fatta di nervi scoperti e di umori repressi: c’è nello stile una visibile traccia della repressione ovattata e perdurante dei nostri tempi di recessione spirituale e stilistica, e lo stile tenta di ribellarsi a questa cappa di piombo che avverte attorno a sé. Procellaria è un libro che reca la traccia dello sconvolgimento dei nostri anni, la sua poesia si incide come musica rock nei solchi dei dischi di un tempo in polivinile. È qualcosa d’altri tempi, come dire, sembra un libro fuori moda. È, come dire, uno stile che ha subito un oltraggio, e che reagisce all’offesa come può. Ecco secondo me spiegata la «durezza» di certe immagini e la tenuta compattata del verso che utilizzi (che sia il verso lungo o quello breve non importa) e che tu tenti in tutti i modi di cementificare; le immagini che utilizzi sono della stessa stoffa della nostra moneta che tende alla deflazione pur in tempi di recessione; tu utilizzi la deflazione delle immagini, lavori per sottrazione, scavo, svuotamento anche là dove c’è un vuoto da colmare; tu vai per svuotamenti successivi, lavori con la sega elettrica, con le immagini de-nucleate, per ossimori e per contrasto. Eccone un esempio:
Di là dal tempo
le ore si sviteranno
come tappi dal diserbante,
sarò un’edera
semi assiderata dal sole.
Ho poi l’impressione che i titoli delle poesie siano intenzionalmente depistanti: vogliono indicare una sineddoche che conduce fuori strada il lettore, non per ingannarlo ma per offrirgli una diversa possibilità di lettura che una interpretazione letterale dei titoli altrimenti non consentirebbero; è un modo ingegnoso per portare il lettore fuori strada, fuori norma, per provocare una sua reazione.
(Giorgio Linguaglossa)
Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999) Vie di Fuga (Aletti 2002) Amori al tempo del Nasdaq (Aletti 2003) Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007) durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008) qui è Lontano (Tempo al Libro 2010) Voce dei miei occhi (Fermenti editrice 2011) Procellaria (Fermenti editrice 2013) Sono le Tre (Lietocolle 2013) Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste quali Tratti, Prospektiva, Il Foglio Clandestino.
«Carissimo Giorgio, ti ringrazio per la selezione dei brani di Procellaria che mi hai richiesto. Ho voluto che il libro fosse così, senza prefazione, con un disegnino da terza elementare in copertina, è un libro questo che ho detestato fin dal suo inizio. Composto in pochi mesi di un periodo molto duro e cruciale della mia vita, l’estate 2012. Procellaria, come ben sai è un cugino del gabbiano, molti addirittura la confondono col gabbiano. E’ un animale solitario fin dalla nascita, la procellaria infatti è figlia unica come me. Vive di pesce e dei rifiuti gettati dalle barche, ma ha la capacità unica di sapersi lanciare in alto tra due ondate di mare robuste e parallele. E’ indistruttibile, come a volte anch’io mi stupisco di essere. Un caro saluto».
(Flavio Almerighi)
testi tratti da Procellaria Fermenti, Roma, 2013
schimdtt
Rosso d’uva
Questa notte un uomo
col ghigno
di un’acquasantiera
mi ha gettato
un giornale in faccia
poi mi ha accoltellato,
rosso d’uva
il sangue corre
dove non è mai stato
mi porta dietro,
quanto silenzio – penso
mentre muoio
e mi sveglio.
.
Ho sette anni
Passo senza muovermi
stormo di ruggini
come ogni volta,
ma prima invento
per chiunque non sia qui
indistinguibili particolari
di questo sottobosco
fra vipere e asparago.
Ai miei tempi
la fortuna non serviva,
mano a mano rallento
così essere
è più chiaro,
sento girare
la macchina delle falene
con un po’ di tormento.
Sono passato poco fa
senza insegne
le ali ammansite
da un sorriso,
io non parlo mai al plurale
nemmeno di noi,
ho sette anni.
procellaria
Quando dio decise
dimenticò il compasso,
ebbe comprensione
mi carenò, sempre pronta
a sfrecciare l’acqua
con violenza, ricetta base
di ogni portata.
Difficile esercizio
la dignità cui le lettere
sono possibili soltanto
a stomaco pieno,
ho il dovere di sorvolare
avvitarmi, colpire
senza esultanza per altro,
da sempre figlia unica
riposta sulla cresta
di due onde
e sola già dal nido,
l’unica mia vita
è trovare altra forza
continuare a predare.
.
Condono
C’è un tendone di cielo stasera
Da tenere teso per fumarci sotto
Mettere un cuscino da sonno imprevisto
Senza gravare un supporto di nubi,
Le dita muoiono di rabbia
O si fidanzano in caduta libera.
Il cuore è un buon camminatore
Non ha ali non ha piedi, c’è
Al buio è più vicino, metà sognato
Metà rimasto sotto il tendone
Mi disgrazia un futuro senza,
Condono a ogni rassegnazione
Il Vuoto
Ogni onesto predatore
Sono un maturo
embrione in filigrana
concepito a caso
nato per primo,
ampio oceano perduto
schiuso al nulla
cui chiedo silenzio
come niente appaia.
Ogni onesto predatore
è mansueto, io no
sleale da sempre
so di non esserlo,
per altro dal Duemila
ho circa quarant’anni
stretti nel reticolato
di un mal di cuore
senza immaginare
cosa passi nelle ossa
della buona sorte;
grazie per l’amore
grazie per l’aringa
per avermi trovato bene
nell’apparenza dissolta
di un uomo.
.
poesia?
poesia? Certamente, forse
Quasimodo si staglia a mezzanotte
scarno frutto dimenticato
sui giardini di Sala, sere d’astate
senza idea del pezzo
solo frammenti
Gesù,
non si riprende fiato
l’immediato è di necessità virtù
giusto per recapitare in porto
quello prima
e l’attrice al suo sipario
dapprima bruciato,
poi entrato nel profilo
bianco e nero senza destino
di cui tutti risero
dall’angelo domenicale
all’ecchimosi corsara dell’annullo,
sia declino in visibilio
o mezza rovesciata in rete
la procellaria non segue la strada
l’accorcia, ruota la fune
attorno alla pertica senza risalire
in balia del vento
Menù di pesce
Mi crocifiggeranno per questo,
dovrò stare attento
nei tre giorni seguenti
a non finire all’inferno.
Siamo al primo ti amo,
menù di pesce
e un paio di palpitazioni.
Il silenzio è facile
perché si anagramma meglio,
un giorno ho incontrato qualcuno
senza soprannome
abbiamo preso insieme un caffè,
diceva del bello nelle mie mani
che si incontrava perfettamente
con le sue.
Esistere per una carezza
la meno raccomandabile
passatempo e noia
cui adattarsi
senza consumare altra pelle,
scegliere il legno della croce
sarà pura formalità.
Incauta radura
In quanto tale la foresta
è una cattedrale,
vale la pena ricordarla
alta, millenaria
incauta radura
dai capelli verdi
sopra sottoboschi e moli
tanto agile da non pestare
nemmeno i propri passi,
bellezza, ciondolio di nidi
in penombra la vista cronica
nel silenzio carico di istinti,
la pioggia si sveglia
abbandonando quella poca
superstite
malinconia di donna.
La camicia nuova
Con la camicia nuova
e orgoglio fesso da poeta
attraversa la piazza
tutta chiusa in vacanza
i denti bucati di fumo
forse per troppe parole,
il consigliere lettone e signora
drappellano i portici
inscenando dignità
sulle vetrine del tatuatore,
così va la pioggia
teneramente secca
senza speranza sparire
.
La recessione
Pizzerie etniche a ogni semaforo
il kebab è insapore ma a buon prezzo.
Esportiamo i migliori per i manovali
la bilancia è attiva, la decrescita acquisita.
I nostri vecchi rovistano cassette a mercatini chiusi
fuori orario sotto la pioggia battente;
chi è stato operaio chi facoltoso perquisisce il nulla
i bambini per ora non sanno della minestra sporca.
La sera è l’ultima recita, la notte rilegge Pasolini
alternando saette a un’aria che odora di cane bagnato,
treni e corriere portano pendolari in ritardo
e con le paghe svanite.
Le grandi città non resistono più
tutti parlano, pochi propongono nessuno accetta.
I vecchi palazzi carichi di vivibili trascorsi
sono chiusi per sempre soprattutto il sabato.
Le piccole fabbriche traslocate o scosse
fanno ressa con altre nazioni sulla via della seta
per il solito tagliente cinismo dei cinesi
nessun Marco Polo le riporterà indietro.
I banditi hanno facce da impiegati onesti,
i funzionari di partito hanno adottato le modernità,
alzano la gonna di impegni ben più sciolti
smerciano nero di seppia senza luna.
Lo zoccolo del cavallo è infranto a terra
poco distante un fuoco,
berlino Millenovecentoquarantacinque
mangiamo carne scottata nel silenzio decomposto
del mondo che è già qui.
L’inizio
L’inizio soffoca e dilata
l’ozioso diletto di Giulietta,
esibire il seno
a tre cavalli neri
scampati alla scacchiera,
la natura intorno
gira su se stessa
spezza silenzi senza fine,
preferisce ferite dolciastre
alle caste apologie
di musichette estive,
non so come si sentirà
labbra di pesca finché
non capirà che l’amore
è deliziosa dermatite,
arciere tutto ali
in ogni caso
volubile in acqua,
non esiterà a spogliarsi,
superato il taxi giallo
si fermerà a fissare
il cielo avaro
ma sempre più blu
come ripetono cantanti
stanchi di ascoltarsi.
Sul cammino poetico di Fabrizio Dall’Aglio
di Paolo Lagazzi
(…) Rispetto al cammino che ho cercato, troppo in breve, di raccontare, Colori e altri colori ci si offre come un dono, a suo modo, sorprendente. Nulla di ciò che l’autore ha visto, vissuto, intuito e scritto negli anni è rinnegato: specialmente la sezione finale delle Dediche dispiega ancora un’acuta, graffiante consapevolezza dell’irrealtà generale, dell’assenza di fondamenti in un mondo in cui il tempo è morto e lo spazio “pare zoppo”, della miseria in cui la poesia annaspa. (Tra i testi offerti a poeti o ad artisti con cui Dall’Aglio intrattiene dei rapporti speciali spicca quello, di un lancinante pathos tragico, per l’indimenticabile Gianfranco Palmery.) Eppure il libro ci trasporta, nel suo insieme, oltre questa amarezza.
STRONCATURA DI UNA POESIA di Dante Maffìa con un commento di Giorgio Linguaglossa preceduto da una riflessione di Annalisa Andreoni
Giorgio Linguaglossa in-campagna 2013 nella villa di Salvatore Martino, fuori Roma, foto di Pepito
Ha scritto di recente Annalisa Andreoni: «il compito di un buon giornalista, anche quando scrive di cultura, rimane prima di tutto quello di informare il lettore in maniera intelligente ed equilibrata, e non quello di validare la bontà di quello che viene proposto. E neanche voglio riferirmi agli interventi, sempre più frequenti, di scrittori che parlano di altri scrittori, i quali spesso scrivono di quanto sono bravi i colleghi per dovere di scuderia. Ma chi fa professione di critico letterario svolge, o dovrebbe invece svolgere, un mestiere diverso.
Guardando alla situazione generale, è un dato di fatto che negli ultimi anni si siano avvicinate pericolosamente la pratica della promozione e la pratica della critica. Il circo Barnum dei premi letterari ha contribuito, forse più di ogni altra cosa, a questa commistione, reclutando tra le file dei giurati molti critici, che finiscono, chissà come, per premiare le scelte più sponsorizzate dalle case editrici. Ma anche lo svilimento della pratica del consulente editoriale, un tempo gloriosa, e la proliferazione delle agenzie letterarie giocano un ruolo non irrilevante. Ora, la promozione è una cosa importante e legittima, perché un libro è prima di tutto un prodotto, al quale hanno lavorato molte persone, il futuro delle quali dipende dalla sua buona riuscita. Se io su un giornale leggo invece un critico, voglio che sia capace di discernere quanto in un romanzo c’è di volontaristico, mal riuscito e velleitario. Mi aspetto che sia in grado di analizzare lo stile e la lingua di un autore, di individuare se vi sia o meno uno scarto rispetto alla comunicazione verbale quotidiana e di distinguere il lavoro profondo che uno scrittore vero fa sulla lingua dalla retorica un tanto al chilo; di capire quanto, nell’autofiction oggi praticata, sia sbrodolamento diaristico, e quanto nella trama ci sia di trito e già visto persino nelle telenovelas; mi aspetto, infine, che si prenda la responsabilità di valutare esteticamente l’oggetto di cui mi parla in quanto opera letteraria e di dirmi se vale la pena che io, lettore affamato di buona letteratura, lo legga oppure no.
Giorgio Linguaglossa, 2011
Il critico militante dovrebbe tenere bene distinta la propria funzione da quella del sociologo della letteratura, al quale tocca studiare e spiegare anche tutto ciò che va sotto il nome di paraletteratura, inclusi i romanzi che una volta si chiamavano d’appendice. E’ il sociologo della letteratura che deve studiare perché si vendano centinaia di migliaia di copie di questi testi e dirci in che cosa sono rappresentativi della nostra contemporaneità. Il critico letterario, invece, non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che viene pubblicato, sulla base dell’assunto che la realtà è questa e che il suo compito è quello di interpretarla.
Se non tocca ai critici militanti dire che un romanzo è mediocre e non merita affatto di essere letto e studiato come si fa con la buona letteratura, a chi tocca? E non mi riferisco tanto alla pratica della stroncatura, in cui i critici si cimentano talora sui giornali con gli autori che non sopportano, quanto all’usanza, molto meno praticata, di tener alta l’asticella qualitativa con gli scrittori ai quali guardano con benevolenza. E’ innegabile che la letteratura, oggi, salvo poche voci note, soffra della mancanza di un tale ruolo».
(Annalisa Andreoni)
dante maffia
Una poesia di Dante Maffìa (candidato al Nobel per la letteratura dal Consiglio comunale di Roseto Capo Spulico)
Apro una pagina a caso della Antologia di Dante Maffìa La casa dei falconi. Poesie 1974-2014 puntoacapo, 2014 a pagina 143, e leggo la seguente composizione:
Sul precipizio delle cose: lezione ultima
Il desiderio si arrende soltanto alla forma e la forma amata non sapremo mai da che cosa è determinata, forse dalle abitudini del succhiotto, forse dal roteare degli occhi mentre la madre allatta. Nella tettarella si concentrano vocali e consonanti e poi si dispiegano in azioni e pensieri che fanno le sorti del mondo. Il corpo viene chiuso nell’involucro degli stimoli primordiali. E se indugi nei riverberi ti accorgi che da ogni lato sfugge la consonanza e l’accordo per farsi improbabile dissenso inchiodandoti a un dopo di cui non sarai parte.
giorgio linguaglossa sul mare Ionio 2013
Commento di Giorgio Linguaglossa
Mi chiedo: «E la poesia?, a che punto sta la critica militante della poesia?». E mi rispondo: «In nessun luogo, la critica è come l’utopia, abita il non luogo dell’Utopia».
Ma come si fa, dico io, a scrivere in un italiano così sciatto, approssimativo, incongruo, maldestro, improvvisato che viola sistematicamente l’ossatura della lingua italiana: la sua sintassi. Come si sa, la sintassi è l’ossatura di una lingua, la legislazione interna che regge la lingua, su di essa si possono plasmare i muscoli e il sistema nervoso centrale e periferico, senza di essa, o violandola, è come voler edificare un castello con la sabbia. Ebbene, mi chiedo, come si fa a scrivere il primo enunciato:
«Il desiderio si arrende soltanto alla forma»
Che cosa vuole significare (comunicare) l’autore con questa frase?, che il «desiderio» si arresta dinanzi alla «forma»? Che la «forma» sconfigge il «desiderio?». E mi chiedo: che cosa vuole significare (comunicare) l’autore con questo misterioso enunciato?, qual è il significato, diciamo, filosofico, di un tale enunciato sibillino?. Mistero della fede. Ma passiamo alla seconda frase:
«e la forma amata non sapremo mai da che cosa è determinata»
Ma, mio caro Maffìa, questa è una filosofia spicciola che lei ci sta dando, dopo duemilaequattrocento anni di studi filosofici sulla «forma» lei ci dice che «non sapremo mai da che cosa è determinata». A parte la superficialità di un tale frasario, mi colpisce l’assoluta misconoscenza dei problemi estetici che lei ha Maffìa, intendo problemi della «forma», l’arroganza con la quale erige la sua ignoranza dei problemi estetici ad assioma imperativo che vuole coinvolgere anche il lettore, tutti i lettori, ma mi stupisce anche il candore con il quale viene esternata questa filosofia spicciola come monumento di saggezza popolareggiante (o meglio, di arroganza di chi ignora le problematiche filosofiche). Ma è la precarietà intellettuale della fraseologia che segue che mi lascia veramente allibito e mi turba:
«forse dalle abitudini del succhiotto, / forse dal roteare degli occhi mentre la madre allatta»
Se ho capito bene, le questioni di «forma» «forse» dipendono «dalle abitudini del succhiotto». Beh, non nascondo il mio stupore dinanzi ad una simile lallazione di tale formidabile fraseologia. Indubbiamente, che la «forma» dipendesse dal «succhiotto» erogato in tenerissima età, a tale vertice di pensiero non c’era arrivato nessun filosofo. Resto basito. Ma, queste paralogie (o meglio, questo pressappochismo del pensiero), in confronto a ciò che segue sono nulla. Ecco il versicolo seguente:
«Nella tettarella si concentrano vocali e consonanti»
Resto ulteriormente basito. Sono sconvolto. Dunque, se ho capito bene, i problemi del linguaggio poetico («vocali e consonanti») dipendono dalla «tettarella». Lascio ai lettori ogni commento, non aggiungo altro. Ma quel che segue è ancora più sconvolgente:
«e poi si dispiegano in azioni e pensieri / che fanno le sorti del mondo».
Se abbiamo capito bene dalla «tettarella» si dispiegano azioni e pensieri che «fanno» «le sorti del mondo». A questo punto chiedo l’aiuto dei lettori perché non riesco ad afferrare come dalle «tettarelle» possano dispiegarsi «azioni e pensieri che fanno le sorti del mondo». Si tratta indubbiamente di un pensiero filosofico di straordinario pressappochismo e supponenza espresso con una sintassi claudicante e approssimativa: sarebbero le «azioni e i pensieri» «che fanno» «le sorti del mondo». Mi fermo un momento, ho bisogno di riprendere fiato, non riesco a capire come una persona di 68 anni che ha insegnato nelle scuole pubbliche possa pensare di esprimersi con questi frasari acconciati alla bell’e meglio. Ma non è finita, la frase seguente mi lascia ancora più sbigottito:
«Il corpo viene chiuso nell’involucro degli stimoli primordiali»
E qui perdo definitivamente il bandolo della matassa: adesso è subentrato «il corpo» che se ne sta «chiuso nell’involucro degli stimoli primordiali». A parte l’efferatezza dell’idioletto con il quale l’autore si esprime, di una bruttezza strabiliante, non riesco neanche a comprendere che cosa voglia dire l’autore o a che cosa alluda. Questi frasari trasudano letture frettolose e superficiali, questo linguaggio è la spia di una irredimibile subalternità culturale dell’autore calabrese. Il linguaggio poetico è uno strumento sensibilissimo frutto di secolari stratificazioni che necessariamente rifugge dalle semplificazioni e dai barbarismi di chi è culturalmente un provinciale subalterno: il linguaggio ti scopre e ti rivela sempre per quello che scrivi, non c’è possibilità di sfuggire alla legislazione della Lingua, alla sua sorveglianza. Finché è in vigore, la Lingua esercita sempre la sua jurisdictio sui suoi sudditi.
La frase seguente è:
«E se indugi nei riverberi»
E che cosa significa?, annoto che è impossibile nella lingua italiana che un soggetto indugi nei «riverberi» (e poi, riverberi di che cosa?), vocabolo certamente errato e incongruo che la fretta e la superficialità dell’autore ha ficcato dentro la composizione per darle forse, a suo avviso, lustro o profondità, e che invece rivela il pressappochismo dei suoi strumenti linguistici.
La fraseologia che segue rischia il diapason del drammatico:
«ti accorgi che da ogni lato sfugge la consonanza o l’accordo»
Veramente un monumento di non senso o di un pensiero inespresso e inesprimibile che non entra nelle scarse attitudini linguistiche dell’autore, prodotto di una violazione sistematica delle regole sintattiche e semantiche oltre che della logica. Chiedo aiuto ai lettori: che cosa vuole dire questa fraseologia malconcia?
Il finale però è un vero monumento al pressappochismo e alla faciloneria di chi proviene da una cultura subalterna:
«per farsi improbabile dissenso / inchiodandoti a un dopo di cui non sarai parte».
Così finisce questa drammatica composizione di fraseologie spurie e a-significanti. Non riesco a capire (sintatticamente) a chi si riferisca il lemma «dissenso» messo in relazione con quell’«inchiodandoti a un dopo», mi sfuggono sia il soggetto che l’oggetto di questa composizione, mi sfugge l’argomento che ha in mente l’autore, mi sfugge anche con chi e per che cosa l’estensore di queste fraseologie sta polemizzando. Quello che resta al lettore è un senso di disagio nei confronti dell’estensore di questa malconcia composizione, nei confronti della sua lingua pressappochista e improvvisata, avverto sulla pelle un senso di contaminazione per la bruttura, non tanto e non solo delle singole fraseologie, quanto dell’insieme, del tutto sgradevole, pasticciato, supponente e maldestro. Un vero circo Barnum di fraseologie mal messe in lingua italiana.
Rammento che dopo aver dato alle stampe il suo penultimo libro di “poesia” di 700 pagine, il Maffìa mi diceva vantandosene che la sua “poesia” era come un battaglione di carri armati che avrebbe asfaltato la poesia italiana del Novecento. Io, che avevo letto in anteprima alcune sue “poesie”, gli dissi incautamente che forse «era necessario intervenire con le forbici e lasciare il materiale a dormire per un po’». Il Maffìa mi guardò dall’alto del suo soggolo poietico con manifesta commiserazione. Cinque mesi più tardi uscì un altro volume di poesie di 550 pagine. “Un altro battaglione di carri armati”, pensai. Nel frattempo adottai la decisione di interrompere qualsiasi rapporto con questa persona.
(Giorgio Linguaglossa)
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