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Poesia senza plot di Giuseppe Talia, Mimmo Pugliese, Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Ermeneutiche di Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023https://giorgiolinguaglossa.substack.com/p/eur-roma-nuvola-di-fuksas-domenica

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]

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Crisi del linguaggio mimetico

Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale e provinciale ha cessato di essere un prodotto culturale, fa a meno di ogni contenuto critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è diventata una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare. È una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani, una carboneria di officianti di una liturgia privata, una società di alchemici della parola…

«Benvenuti in tempi interessanti», è l’augurio in stile derisorio di Slavoj Žižek, il filosofo eclettico marxista il quale così continua:

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

Ecco, appunto,  Žižek coglie nel segno: manchiamo di libertà, il nostro linguaggio, la nostra immaginazione mancano di libertà. La top pop poesia, la poetry kitchen, la pseudo-soap poetry e la false flag-top picture parlano di ciò, della impossibilità del mondo attuale a vedersi riprodotto in una rappresentazione. Perché?

Perché per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia o della narrativa o della pittura.

L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.

I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…

È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.

Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto, “Faust chiama mefistofele per una metastasi”, dal titolo eloquente del libro di poesia diFrancesco Paolo Intini.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giuseppe Talia

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Nello Stato di sWAp non ci sono frontiere con i Paesi vicini. L’entrata e l’uscita dal territorio può avvenire in qualsiasi momento. Quotidianamente. Agevolmente. In pochi istanti. Con un semplice segnale acustico di tua scelta sWAp.

Il sistema su cui si fonda lo Stato di sWAp è così efficiente, efficace ed economico che supera di gran lunga il Trattato di Schengen.

La geografia dello Stato di sWAp si espande ininterrottamente senza alcuna barriera. Puoi essere dove non sei. Dove sei. Dove non puoi esserci. Essendoci al contempo.

Non è previsto alcun censimento della popolazione. Lo Stato di sWAp è l’unico stato al mondo in cui i vivi e i morti coabitano contestualmente.

La lingua ufficiale dello Stato di sWAp è generativa. Si compone. Si scompone. Si frammista. La Buuuu-language è l’unica lingua al mondo i cui lemmi e parole possono essere sostituiti per intero dall’immagine di uno stato d’animo.

Non c’è una vera e propria capitale nello Stato di sWAp. La tecnocrazia è minore del 30 per cento sui circa 82 kg di CO2 per ciascuno degli abitanti prodotti dagli altri Stati.

In sWAp la leggerezza fa rima con lentezza. Il tempo in sWAp è intermittente. Tiene in conto e ingloba i fusi orari terracquei, a partire dall’ora di Greenwich. Collega i quattro angoli del mondo in tempo reale, fin su le stelle.

La sanità è efficientissima. Si possono ricevere consulti medici specialistici, non solo da singoli professionisti, ma da interi gruppi. I gruppi di sWAp -sWAp -sWAp sono tra i più rinomati del mondo per la loro caratteristica esperienziale e la tecno-simbologia emoji utilizzata.

La religione ufficiale dello Stato di sWAp è di difficile definizione -la parola è il francobollo dell’immagine. sWAp riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestare la propria fede e il proprio credo.

L’interconnessione di sWAp permette nell’immediatezza di recuperare reperti, prove, attestazioni, immagini e video.

La memoria nello Stato di sWAp è soggetta a tariffazioni previste dagli operatori economici che forniscono i servizi di appoggio alla rete infrastrutturale in divenire.

Le altre opzioni sWAp sono di norma previste con le funzioni, rispondi, inoltra, elimina, archivia.

Il backup di sWAp avviene una volta a settimana. Nella cartella “salva una vita”, nome e cognome, si possono recuperare tutte le storie del passato.

L’economia dello Stato di sWAp si regge sul principio dell’inseparabilità del capitale e della tecnologia. Il capitale pensa e la tecnologia realizza.

La virtualizzazione della finanza, in associazione al lavoro immateriale, permette allo Stato di d’incamerare i profitti necessari per il mantenimento del benessere collettivo di sWAp.

Le tasse in sWAp sono previste in pochissimi e specifici casi e di norma non superano i centesimi. Sono accettate tutte le valute esistenti e quelle che verranno.

Il Prodotto interno lordo dello Stato di sWAp è correlato al numero della popolazione dei richiedenti la residenza. I flussi in entrata sono illimitati.

La fabbrica del mondo di sWAp utilizza esclusivamente metadati prodotti da nuove dimensioni.

(Tallia -16 settembre 2023)

https://twitter.com/i/status/1418592112644435971

Crisi del plot e della poesia-racconto

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle suppellettili, delle sciorinature fatte passare per analisi psicologiche. Ma restano sciorinature senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia kitchen, come appare chiaro in questa composizione di Giuseppe Talia, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messi lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol e dopo Rotcko, a distanza di settanta anni da Warhol e da Rotcko. Paul Celan e Zbigniew Herbert del Rapporto dalla città assediata (1983) sono ancora poeti del modernismo. Invece, la poesia italiana dagli anni sessanta ad oggi si ostina a fare del plot, del racconto. Mi chiedo: che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o di “un “passaporto sWAp”.

Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità di fare della poesia-racconto, di fare racconti in poesia, non ha ancora preso atto che oggi i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto, magari in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, perché non c’è nulla da raccontare che non sia già stato narrato dai media, la poiesis deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace la poesia di Giuseppe Talia, di Vincenzo Petronelli, di Mimmo Pugliese, di Nunzia Binetti e degli altri autori kitchen, anche loro aborriscono il racconto. I loro avatar, i loro sosia io li leggo in versione pop, come una versione della fine della storia, della fine dell’umanesimo, del modernismo e del post-modernismo.

(Marie Laure Colasson) Continua a leggere

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Poesie di Vincenzo Petronelli, Il vuoto come spazio creativo, La poesia del modernismo di Herbert istituisce la metafora assoluta che collima con il pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza l’eterogeneo e il contraddittorio che permeano l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa. Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Saul Steinberg Lady in bath 1

Saul Steinberg, woman in bath, 1949 – L’attesa

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»? – Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Il «vuoto» non è affatto una esperienza, non si può fare espereinza del «vuoto», il «vuoto» avviene e basta, avviene nel linguaggio come mancanza di linguaggio, infatti la nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico intende il «vuoto» come distanza dai propri contenuti personali, dalle fraseologie giustificazioniste dell’io.

La poesia esistenzialista del modernismo novecentesco si situa nella zona di congiunzione tra temporalità e memoria. Quella zona opaca, insondabile dove hanno luogo gli eventi opachi e porosi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Là sono situati i momenti significativi dell’esistenza di cui noi stessi nulla sappiamo, ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero. L’esperienza dell’esserci heideggeriano è fondamentalmente ubiqua: abita la memoria e la temporalità.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova poesia della nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. Guardare attraverso i linguaggi. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse perspicere due modi diversi di sondare la memoria. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci. La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer
Descending man, Jason Langer

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La poesia lavora incessantemente attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. Ad esempio, in questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

La poesia del modernismo di Herbert istituisce la metafora assoluta che collima con il pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza l’eterogeneo e il contraddittorio che permeano l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi»,1] scrive Adorno in Dialettica negativa. «Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare».2] È questa l’aporia del linguaggio. La tautologia e la contraddizione mostrano che esse si trovano, convergono, nella metafora, la quale contiene in sé sia la tautologia (il non-identico è lo stesso che l’identico) che la contraddizione (il non-identico non è l’identico). Da ciò se ne può dedurre che nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, il lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile. Talché voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.

Il discorso poetico del modernismo tende «naturalmente» alla metafora e alla metonimiaNella poesia modernista classica l’assurdo e il derisorio si fondano sul reddito di cittadinanza della storia, nient’altro che un titolo di borsa, gli uomini sono i titolari di questo titolo a scadenza fissa, titoli trimestrali, decennali e ventennali che valgono fin che valgono, fin quando lo stato non dichiara default. La storia, che dopo il 1989 è stata destituita in storialità, aveva senso per il modernismo proprio perché ha un significato e la poesia modernista aveva il compito specifico di presentare il falso e il similoro, da Eliot al primo Montale fino a Herbert. La nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico invece parte dal concetto opposto: la storialità non richiede più l’ausilio della memoria e del tempo, la memoria e il tempo si sono frantumati e il linguaggio poetico assume l’opzione sospensiva, sospende il tempo e lo spazio, i suoi frasari sfiorano sempre il corrimano dell’assurdo e delll’ultroneo,  scoprono il «fuori significato» e il «fuori senso», il «fuori tempo» e il «fuori spazio».

1] T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42
2] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1979 p. 33

Lucio Mayoor Tosi Germinazioni

Lucio Mayoor Tosi, Untitled, acrilico su legno 80×80, 2022

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Due poesie di Vincenzo Petronelli

Il vuoto come spazio creativo

Affinando sempre più il proprio percorso, la Nuova ontologia estetica ha individuato la sua dimensione valorizzante nella poetica delle sedimentazioni della parola, partendo dalla raccolta differenziata dei residui, dai reflui depositati tra le macerie dei discorsi e delle scritture, per giungere alla ricostruzione delle tessere affastellate nel vuoto della nostra epoca, tratteggiandone, ma con la peculiarità di un’attitudine quasi pre-analitica, la filogenesi stessa. Il concetto di vuoto, più volte ripreso da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle Parole è illuminante nel rappresentare epistemologicamente la poetica della Noe. La nuova ontologia estetica, in fondo, si caratterizza per il suo impegno verso una ridefinizione critica della poiesis e, conseguentemente, di una sua palingenesi, che non può non partire, come sempre del resto, nelle fasi di ri-generazione dell’uomo, da un’iniziale deflagrazione, che disarticoli le impalcature del “sistema”.

Del resto si tratta di una riflessione ben nota ai filosofi, agli antropologi e storici delle religioni, agli studiosi di psicanalisi: «In ogni chaos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto» così suona un aforisma di Carl Gustav Jung.

Il vuoto, come sottolinea Giorgio Linguaglossa, che nella visione materialistica dominante nella nostra società, viene inteso come nulla, come dissoluzione di spazi pieni (semplicemente perché lo spazio vuoto non è contemplato nella cultura del “riempimento”, dello sfruttamento intensivo dei contorni) è in realtà l’anfratto in cui si cela lo spazio vitale, l’energia creativa del cosmo.

Si sa che le scienze suddette (filosofia, antropologia, storia delle religioni, psicanalisi) fondano proprio sulle contrapposizioni binarie, le spiegazioni delle teorie della vita e del cosmo: esattamente come evidenziato nell’aforisma di Jung, chaos e cosmos.

La ricerca antropologica ha da tempo messo in evidenza come alla base di vari sistemi e modelli culturali, sia antichi che contemporanei, si trovino teorie e credenze che ripropongono tale classificazione dualistica della realtà, fondate ad esempio sulla polarità sessuale, oppure su opposizioni proprie della sfera spirituale: basti pensare ad esempio alla contrapposizione sacro/profano, puro/impuro. Come ha evidenziato la filosofa Francesca Gambetti, lo stesso logos, il ragionamento, la matrice della riflessione filosofica, nasce come tentativo di sottrazione ordinante delle vicende umane dal caos. I grandi miti cosmogonici della Teogonia esiodea si basano proprio sulla narrazione della nascita dell’universo, a partire dallo spazio del chaos primigenio, del kosmos, come verrà definito dai Pitagorici.

La teogonia, a partire dalle vittorie di Kronos e di Zeus, ritrae cosmicamente il trionfo dell’ordine sovrano sulla natura, per poi successivamente, quando tempo cosmico, tempo religioso e tempo degli uomini finalmente si integrarono, a partire dal VI secolo a.C., sostituire alle genealogie divine quelle umane, che fondandosi sugli stessi schemi, raccontano colonizzazioni, fondazioni di città ed esplorazioni, per approdare dalle cosmogonie alle cosmografie, ed essere infine traslate verso le narrazioni dei primi filosofi.

Ecco, la potenza del vuoto è nella sua immensa forza creatrice, ma c’è bisogno di uno sconvolgimento tellurico per valorizzarla, essendo ormai la nostra società imballata comodamente nei suoi depositi ingombranti, nei quali è ormai scaffalata anche buona parte della produzione della cosiddetta intelligencija, protesa esclusivamente ad una concezione dell’impegno intellettuale intesa come perpetuazione del proprio scranno.

Guardandosi bene ovviamente, dai rischi insiti in qualsiasi forma di “ordinamento” post rivoluzionario, la Noe si pone precisamente come detonatore di tale forza tellurica, in grado di ristabilire non tanto un nuovo modello poetico in sé per sé, quanto una nuova visione del mondo, per il tramite della poesia, che rifletti realmente la condizione dell’uomo di oggi.

Fragmenta historica 2

Lady D’Ardboe legge poesie di Proust al sabato nel suo salone sul Donegal.
Suo marito cura la scabbia con lo spritz ed alleva vitelli via internet.

Dall’uscio, la ragazza vede gli animali inginocchiati: in fondo
anche la figlia di un pastore può sfiorare le costole del Signore.

Il carico di droga è già sbarcato a Brandon Bay.
In quest’esercizio non si fa credito. Non si accettano resi sul venduto.

Al confine orientale, i contadini nell’afterhour scattano selfies.
Rifugiati di etnìa Pashtun accucciati in primo piano, implorano la grazia.

La donna avrà cinquant’anni, forse novanta. Cerca pezzi da rivendere
il carburatore, forse lo spinterogeno: sputa in terra con la bocca impastata.

Joseph Ward combattè contro gli inglesi nell’Easter Riding.
Suo nipote ha fatto carriera, assicurando carichi d’armi verso lo Zimbabwe.
Hic et nunc: qui ed ora, in saecula saeculorum.

Le insegne già spente oltre l’ora del coprifuoco. “Avete il green pass?”
Il cameriere serve spezzatino in zuppa e filetto Stroganoff.
“Volodymyr, per il giorno dell’Apocalisse pensavo di indossare il nuovo tailleur”.

“Gli Yankees peggiori sono proprio quelli di sangue irlandese.
Ormai preferiscono gli spaghetti all’Irish stew”.
“Padre, mi ha appena sfiorata. Sono impura?”.

Nella sua camera del Metropolitan, Artemidora ha una flebo nel braccio.
Una macchia di limone si allarga sul suo letto.
Dopo pranzo arriva il “cessato allarme” via mail.

Fragmenta historica 3

I piemontesi entrarono in casa nostra a cavallo sotto la neve di febbraio.
“Qu’est qu’il y à dans cet enfer?”. Le truppe distribuivano pasticcini al vaiolo.
Questa mattina il generale Cialdini sorseggia un tè, nel caffè Francesco II.

Chamberlain ordina sushi formula all you can eat tramite whatsapp
dopo aver scongiurato la guerra. A tavola con lui, Breton legge Il capitale.

Ivan Ilič discute con il fornaio dal braccio anchilosato ed i baffi
asimmetrici; si scambiano gli elmetti e le croci sul petto.

Si accede dall’entrata di servizio, al porto di Barcelona nel 1937.
I proletari surrealisti cantano melodie in minore: “Adios Guernica y que será, será”.

L’Uruguay ha un capezzolo turgido ed il grembo dilatato.
Sigarette, whisky y coño: “what a wonderful world!”
La poltrona shiatsu davanti al fonte battesimale.

L’ultima volta che hanno visto Tanya offriva bottiglie molotov in piazza.
I soldati decifravano la guepière, contando i denti tra le dita.

“Perché non cucini per i nostri difensori, non lavori calzini a maglia?”
“Buon Dio! Perché non vieni a riprenderti i guerrieri?”

Era il sesto giorno della creazione dell’Ucraina ed era primavera.
L’arcangelo Gabriele era il fantasma dell’opera al teatro di Kyiv.

Al mattino, si torna come sempre a lavorare
Sotto la coperta livida di Cork.

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Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970 e risiede ad Erba in provincia di Como, dove è approdato diciotto anni fa. Dal 2018 è presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni suoi scritti sono presenti nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

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Stralci di  Giorgio Agamben, un Appunto di Giorgio Linguaglossa, l’artista è l’uomo senza contenuto che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla, Poesie di Edith Dzieduszycka, Mauro Pierno, Giuseppe Talia, Marina Petrillo

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L’artista è l’uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla

Scrive Giorgio Agamben:

«Ciò di cui l’artista fa esperienza nell’opera d’arte è, infatti, che la soggettività artistica è l’essenza assoluta, per la quale ogni materia è indifferente: ma il puro principio creativo-formale, scisso da ogni contenuto, è l’assoluta inessenzialità astratta che annienta e dissolve ogni contenuto in un continuo sforzo per trascendere e realizzare se stessa. Se l’artista cerca ora in un contenuto o in una fede determinata la propria certezza, è nella menzogna, perché sa che la pura soggettività artistica è l’essenza di ogni cosa; ma se cerca in questa la propria realtà, si trova nella condizione paradossale di dover trovare la propria essenza proprio in ciò che è inessenziale, il proprio contenuto in ciò che è soltanto forma. La sua condizione è, perciò, la lacerazione radicale: e, fuori di questa lacerazione, in lui tutto è menzogna.

Messo di fronte alla trascendenza del principio creativo-formale, l’artista può, sì, abbandonandosi alla sua violenza, cercare di vivere in questo principio come un nuovo contenuto nel generale declino di tutti i contenuti, e fare della sua lacerazione l’esperienza fondamentale a partire dalla quale una nuova stazione umana diventi possibile; egli può, come Rimbaud, accettare di possedersi soltanto nell’estrema alienazione, o, come Artaud, cercare nell’al di là teatrale dell’arte il crogiolo alchemico in cui l’uomo possa rifare il proprio corpo e conciliare la propria lacerazione; ma, benché creda di essersi così portato all’altezza del proprio principio, e, in questo tentativo, sia realmente penetrato in una zona dove nessun altro uomo vorrebbe seguirlo, in prossimità di un rischio che lo minaccia più profondamente di qualsiasi altro mortale, l’artista resta tuttavia ancora al di qua della sua essenza, perché ha ormai definitivamente perduto il suo contenuto ed è condannato a dimorare, per così dire, sempre a fianco della propria realtà. L’artista è l’uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla dell’espressione ed altra consistenza che questa incomprensibile stazione al di qua di se stesso».1

1] G. Agamben L’uomo senza contenuto, Quodlibet, 1994, pp. 83-83

Appunto di Giorgio Linguaglossa:

L’affermazione di Agamben dell’artista come «l’uomo senza contenuto» si attaglia in maniera mirabile alla poesia della nuova ontologia estetica che ha convertito la «mancanza di contenuto» in forza propellente. Nella poesia kitchen vengono riciclate le situazioni rigorosamente pop, le parole ibernate, gli stracci, i bottoni delle divise da netturbino, le tessere dell’Atac, i biglietti dell’autobus, minutaglie, rigatterie… i poeti kitchen sono dei rigattieri, commercianti del bric à brac, chirurghi di fasullerie, trafficanti di opzionerie, di reperti; pongono nella rigatteria dei bottoni demodé anche l’«io» con tutto il repertorio di pessima metafisica e dei suoi corollari servizievoli; riutilizzano i cimeli come carta assorbente, incartapecorita, carta da tappezzeria invecchiata e fuori uso. La poesia kitchen parla del nulla al nulla, sa di nulla, totalmente occupata dall’inessenziale, ingombra di masserizie, di referti, di cadaveri, di scarti, di isotopi dismessi e radioattivi, composta di superfluità; poesia effimera, melliflua, antimetafisica, situazionale, posizionale, che manca di essenza e aborrisce qualsivoglia essenza, qualsiasi posizione privilegiata o punto di vista altometrico o altolocato; poesia composta da attrezzerie inutilizzabili, infungibili, oggettistica da Buster Keaton. Poesia impermeabile alle lusingherie delle poetiche impegnate sul senso o sul decoro, sulle soperchierie da guida Michelin della ricerca del «fare anima» e del «fare senso» con tanto di stellette dei ristoranti à la page.

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una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere

Giorgio Linguaglossa:

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»?. Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Meister Eckhart ci ha parlato del «vuoto» quale esperienza interiore essenziale per accedere alla dimensione spirituale, ovvero, fare «vuoto» come distacco dai propri contenuti personali per poter accedere ad una dimensione più vera e profonda.

È da qui che ha inizio la riflessione poetica dei poeti nuovi dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica, dal punto di congiunzione tra temporalità e memoria. Quel punto opaco, insondabile dove hanno avuto luogo gli eventi significativi, paradossalmente opachi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci.

La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

I grandi poeti lavorano incessantemente per tutta la vita attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. In questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

perché istituisce una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere, dove l’assurdo della denotazione collima con il rigore del pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza intuitiva l’eterogeneo e il contraddittorio che permea l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa, assunto che viene invalidato dal pensiero della communis opinio ma che è inverato dall’esperienza della metafora nella poesia, dove essa si rivela essere un concentrato di impossibilità drasticamente verosimile ed immediatamente intuitiva.

T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42

gif donna in corridoio

L’esistenza ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente

Domanda di Giorgio Linguaglossa:

L’esistenza ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente

La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse sono lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza «credenze», ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue «credenze».

Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. L’esserci ha terrore del vuoto, e cerca di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi, di esorcizzarlo e lo sostituisce con le credenze (Trump, Orban, Putin, Salvini, papa Francesco, Cristianesimo, Islam, Lega, 5Stelle, PD, Unione europea, Cina, Russia, Mondo etc… una infinitudine di «credenze» che costituiscono la sostanza della civilizzazione)

Oggi, nelle società post-democratiche dell’occidente l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa, biologica, e il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici dell’Occidente fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori, è la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Per esempio, ciò che si legge nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita». Continua a leggere

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Mario M. Gabriele, Una poesia inedita da Registro di Bordo, con un Dialogo tra l’autore e Giorgio Linguaglossa – L’ontologia del frammento e della derelizione – Il Kitsch

 

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Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone/ del giorno dopo con The very thought of you!

da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-registro-bordo-2/

Mario M. Gabriele

Si stava sotto i segni dell’autunno.
Perdersi era l’unica certezza

di chi aveva poca fede nel domani.
Bruciavano radici e sciami di pensieri.

Di un lume si parlò all’ombra del paravento.
Maxuell ha una baita con attico e telescopio.

Cerca altri mondi, la strada per Compostela.
Ho ancora il Libro di Rose del 48,

curato da Giovanni Ferretti.
Nel mese delle rimembranze

pregammo per la madre di Arnold.
C’è un poemetto che mi attende la sera.

Quando Lowell morì in taxi
aveva dedicato tutto a To Mother.

Una notte Daddy mi venne in sogno
con annunci paranormali: la fine di Anthony.

Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone
del giorno dopo con The very thought of you!

-Togliete le serrature dalle porte.
Togliete anche le porte dai cardini-.

Non andrò in Africa. Salutatemi Mandela.
A novembre tornano i solisti della UBS Verbier

per un resoconto su Beethoven.
Fotomontaggi e selfie non bastano a ricaricare il giorno.

Clark ha un problema con l’anima.
Non c’è giorno che non perda piume strada facendo.

 

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Clark ha un problema con l’anima./ Non c’è giorno che non perda piume strada facendo

Giorgio Linguaglossa says:

agosto 5, 2018 at 12:52 pm

caro Mario Gabriele,

nel post di oggi dedicato a Franco Fortini, ho parlato dell’opera che chiude il novecento, Composita solvantur (1994). Dopo quest’opera la poesia italiana dormirà un sonno profondissimo costellato qua e là da rapidi e veementi sussulti dei pochissimi poeti che scrivevano contro corrente, penso a Maria Rosaria Madonna con il libro Stige (1992) riproposto quest’anno, 2018, in una edizione completa delle sue poesie: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura; penso a Roberto Bertoldo con i suoi libri, Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Pergamena dei ribelli (2011) e Il popolo che sono (2015); penso a Giorgia Stecher con Altre foto per Album (1996), libro postumo per la morte prematura della poetessa siciliana; penso all’opera di Anna Ventura che si può leggere nella Antologia Tu Quoque. Poesie 1978-2013, (2014). La tua opera di questi ultimi anni, già da prima di Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016 e In viaggio con Godot (2017) si presenta come una operazione monolitica di raccolta degli scartafacci metrici e stilistici, come un cantiere di aforismi e di citazioni, riscrittura di ciò che è finito triturato nelle rotative del nulla della nostra epoca a capitale globale e di minimalismo globale. Un giorno, se ci sarà un giorno dopo questo diluvio di sciocchezze e di banalismi della poesia di oggidì, se uno storico della letteratura vorrà fare un resoconto di ciò che è degno di salvezza dopo questa semina a strascico nella banalità, un giorno, dicevo, non si potrà fare a meno di ritornare ai tuoi ultimi libri, così effervescenti e minimal (se ce lo concede questa seconda epoca di barbarie somministrata) apparentemente leggeri che si possono leggere come acqua minerale in mezzo alle decine di migliaia di selfie degli altri libri di poesia che sono stati pubblicati dalla morte di Fortini ad oggi.

 Mario M Gabriele says:

agosto 5, 2018 at 2:18 pm

caro Giorgio,

puoi ritenerti un critico fortunato nel senso di essere stato a contatto degli esiti linguistici di nuovi poeti, pubblicati dalla Rivista L’Ombra delle parole da cui poi si è venuto a determinare il Progetto NOE, cosa che non può dirsi altrettanto verso la critica di ieri e di oggi, che ha aperto una grande lacuna alle omissioni di opere certamente valide. Scrive Romano Luperini: «La critica letteraria si chiude in se stessa, si isterilisce nell’ambito accademico e del micro specialismo, smarrisce il nesso fra filologia e interpretazione (e, anche all’opposto, aggiungerei, la coscienza della distinzione fra questi due momenti), oppure si subordina alle esigenze del mercato e dei mass -media, diventando chiacchiera impressionistica, mero intrattenimento.» Con buona pace, aggiungerei io, di ogni proposta alternativa, lavoro in progress, e fiducia in ciò che di buono si scrive. Un giorno, negli anni della guerra, era facile imbattersi in un cartello come questo: «Non si affitta ai meridionali», che proiettandolo nel campo della poesia di oggi si potrebbe sintetizzarlo in questo modo: «Non si pubblicano poesie o libri di autori sconosciuti anche se validi», come una sorta di razzismo culturale. È mancata la critica onestamente più sincera e divulgatrice, sempre al servizio del Padrone Editoriale, aprendo il campo alla storia della “parola negata”. Personalmente credo che un buon poeta debba scrivere il meglio di sé, non esibirsi con proposizioni linguistiche di gravame ipertrofico. L’ascesi della scrittura è nel piacere del testo, per dirla con Barthes, ossia in quella leggibilità che fa nascere un nuovo Ente Estetico nel segno dell’Arte e della Poliscrittura. Un caro saluto e grazie.

 

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-Togliete le serrature dalle porte./ Togliete anche le porte dai cardini-

Giorgio Linguaglossa says:

agosto 5, 2018 at 8:04 pm

Scrive Gianni Vattimo:

«Credo sia facile mostrare che nella storia della pittura, o delle arti visive, meglio, e la storia della poesia di questi ultimi decenni non hanno senso se non sono poste in relazione con il mondo delle immagini dei mass-media o con il linguaggio di questo stesso mondo. Si tratta, ancora una volta, di relazioni che in generale possono andare sotto la categoria heideggeriana della Verwindung: relazioni ironico-iconiche, che duplicano e insieme sfondano le immagini e le parole della cultura massificata, non solo, comunque, nel senso di una negazione di questa cultura. Il fatto che, nonostante tutto, oggi si diano ancora vitali prodotti “d’arte” dipende probabilmente da ciò, che questi prodotti sono il luogo in cui giocano e si incontrano, in un complesso sistema di relazioni, i tre aspetti della morte dell’arte come utopia, come Kitsch, come silenzio. La fenomenologia filosofica della nostra situazione si potrebbe dunque completare così, con il riconoscimento che l’elemento della perdurante vita dell’arte, nei prodotti che si differenziano ancora, nonostante tutto, all’interno della cornice istituzionale dell’arte, è proprio il gioco di questi vari aspetti della sua morte… Si tratta di un insieme di fenomeni con cui l’estetica filosofica tradizionale si misura con difficoltà».1]

La tua poesia è l’esatto duplicato di questa situazione, diciamo, aporetica in cui si trova l’arte e la poesia di oggi: che la tua poesia eredita di sana pianta: l’elemento della morte dell’arte e il suo susseguente silenzio; l’elemento del Kitsch; l’elemento delle frequentissime citazioni dai mass-media. Nella tua poesia questi tre elementi si trovano nella promiscuità più assoluta, confliggono e fibrillano creando una contestura semantica febbrile ed effervescente, quella che ho definito l’effetto bollicine dell’acqua minerale.

1] Gianni Vattimo, La fine della modenità, Garzanti, 1985, p. 66, 67

 Giorgio Linguaglossa says:

agosto 5, 2018 at 10:19 pm

La formula di Hölderlin resta sempre valida: «Ciò che rimane lo fondano i poeti» (Kein Ding sei wo das Wort gebricht) «Nessuna cosa sia dove la parola manca». Ma ciò che rimane è polvere, frantumi, frammenti, schegge, pulviscolo di un mondo che li ha prodotti. Dunque è ciò che resta del circuito della produzione e della distruzione che fonda l’«ontologia del frammento e della derelizione», come l’ultima ontologia possibile per un poeta di oggi costretto a raccogliere dalla discarica pubblica le fraseologie spurie che infestano la nostra civiltà. Le fraseologie presenti nella tua poesia sono eloquenti di per sé, eloquenti nel loro affollarsi verso un orizzonte degli eventi dove la parola poetica risulta spuntata, debole, indebolita, irriconoscibile. Ciò che inaugura la tua parola poetica è un mondo irriconoscibile, privo di senso, che ammicca ad un orizzonte destinale che verrà, che annuncia con trombe di plastica e di poliuretano una fine improvvida e ingloriosa.

 

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Una notte Daddy mi venne in sogno/ con annunci paranormali: la fine di Anthony.

Mario M Gabriele says: Continua a leggere

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Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA – Antologia di poesia – Commenti e Ermeneutiche: Zbigniew Herbert, Boris Pasternak, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Alejandra Pizarnik, Francesca Lo Bue, Mauro Pierno, Mariella Colonna

 

Gif Treno

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.
Sale il fumo fino alla lampada.

Una poesia inedita di Mario Gabriele

Da registro di bordo

L’afa offrì una tregua.
Il professore Ernest non ha mai fatto jogging

dopo la fibromialgia.
Per sistemare il primo piano

la famiglia Oliver ha messo nel giardino
il cartello:
                                        House for sale,

anche se l’abitazione sembra un quadro di Monet
e c’è una tomba vuota, a due passi dall’autostrada,

con le statue come sull’isola di Pasqua.
I bluesmen cantano:Happy Days,

ed è un ritorno ai fantasmi del passato
in un amarissimo amarcord di tempi sincopati.

Jessica crede nello Zen.
Padre Olmer ha lasciato il testamentum.

Nel primo capitolo del Canto di Corvin,
ci sono passaggi che ricordano il Deutoronomio.

-Non sono abbastanza sicura di andare in Lituania,
ma se non fosse possibile- disse Kalina,

-passerò il tempo a seguire
The Order of the Burial of the Dead-.

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.

Sale il fumo fino alla lampada.
Andrea rinnova aria fresca.

E’ così invecchiata Masina che non ricorda
neppure la contemplazione primaverile

con i primi raggi di marzo.
Il ritorno di Gesualdo

non ha portato i canti della Salvezza
e della Solitudine come passepartout.

Una poesia inedita di Francesca Lo Bue

Le cose

Stanno lì, livide e stizzose,
sparse in geometrie disordinate,
sono l’acre residuo dell’uomo piegato,
il sudore del fallimento canuto,
fiori immobili di pietra.
Ci sono voci che descrivano lo stupore delle albe?
Le promesse della luce?
Si rammentano, si rimordono nel silenzio le cose?

Sono voci spente,
fatalità trapassate…

Lampada che rubi le sue stelle alla notte,
veglia l’aurora delle mie parole.

Las cosas

Están por ahí, lívidas, rencorosas,
desparramadas en geometría desordenada.
Son el residuo acre del hombre vencido,
el sudor de la cana frustración.
Espesas páginas desvaídas.
¿Hay voces que describan la maravilla de las albas,
las promesas de la luz?
¿Se acuerdan… se remuerden de silencio las cosas?
Son voces apagadas,
fatalidades traspasadas…

Gif finestrino treno pioggia

Il ‘900 ha sancito la fine del primato della pittura tra le arti visive

Lucio Mayoor Tosi
27 ottobre 2017

Il ‘900 ha sancito la fine del primato della pittura tra le arti visive. Forse anche della pittura stessa. Parole che vanno da “maestria” alla semplice “qualità e spessore del pigmento”, oggi non hanno senso: chi mai si sognerebbe di pronunciarle entrando nel merito di un prodotto industriale? Pare conti l’idea, quella fulminante dell’artista, il quale potrebbe anche limitarsi a fare una telefonata per vedere realizzata la sua immaginazione. Io lo trovo divertente: tutta gente che campa avendo leader da scopiazzare… Tracce di un secolo duro a morire; ma è sempre stato così. Lasciamo la critica intesa come cronaca degli eventi al giornalismo, e raccomandare i carpentieri dell’esegesi a qualche prestigiosa école de Cuisine. Soluzioni se ne trovano sempre.

La critica di Giorgio Linguaglossa non può che essere quella acuta di un poeta, dal momento che poeta lo è. Possiamo quindi parlare di immaginazione critica, qualcosa che si possa fare solo in divenire; una critica che parta e veda dal nulla in cui ci troviamo. Il nulla offre un’ampia visione: riduce l’enormità del contingente, ridimensiona il tempo, offre vie d’uscita ovunque si guardi. Le parole della critica saranno molto simili a quelle del poeta: vere; solo che appartengono alla normalità di un altro universo – con cui prima o poi bisognerà pur fare i conti. Le questioni, o meglio i parametri di giudizio sono stati delineati: tempo, stile, rapporto con l’esistenzialità. Sono ammessi anche sfottò e ghirigori. Tanto si tratta di restauri, lavori in corso per rianimare con poesia, tra le altre, anche le parole appena venute al mondo. Alcune inaccettabili, però con riserva. Non cambia nulla, sono le fatiche di sempre. Io mi sto preparando per Hollywood.
Non ho letto molto di Kjell Espmark, abbastanza per sentirlo molto vicino alla ricerca in corso della NOE. Per questa ragione forse più interessante dello stesso Tranströmer, il quale, mi sembra abbia attraversato il cielo come una cometa, alla velocità della luce; quindi l’esito o gli esiti potrebbero anche essere diversi da quanto dimostrato dal Nobel svedese.
La poesia giace sul lettino, non per sottoporsi a un’operazione di chirurgia estetica, ma per poter riprendere a respirare, in ciascun poeta, separatamente.

*

Il Signor Cogito è l’uomo dell’Occidente. Colui che pensa dunque è. Herbert in questa poesia lo invita ad agire, perché il pensiero guida l’azione e, quest’ultima è un atto insieme etico, politico e, soprattutto, estetico. Il libro è nato come un tentativo di risposta sul tema del Signor Cogito.

(Giorgio Linguaglossa)

Zbigniew Herbert

Il sermone del signor Cogito

Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta
cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio

va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati
tra spalle voltate e nella polvere abbattute

non per vivere ti sei salvato
hai poco tempo devi testimoniare

abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio
in fin dei conti questo solo è importante

e la tua Rabbia impotente sia come il mare
ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati

non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno
per le spie i boia e i vili – essi vinceranno
sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla
e il tarlo descriverà la tua vita allineata
e non perdonare invero non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli traditi all’alba

ma guardati dall’inutile orgoglio
osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio
ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore

fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro il fulgore del cielo

ad essi non serve il tuo caldo respiro
son solo per dirti: nessuno ti consolerà

bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’
finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella

ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende
raggiungerai così quel bene che non raggiungerai

ripeti solenni parole ripetile con tenacia
come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia

e ti premieranno per questo come altrimenti non possono
con la sferza della beffa con la morte nel letamaio

va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi
nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando
che difendono un regno sconfinato e città di ceneri
sii fedele va’

(traduzione dal polacco di Paolo Statuti)

Gif Piove

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta, un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché Egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene. Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi. (Giorgio Linguaglossa)

Giorgio Linguaglossa
27 ottobre 2017

Il luogo del linguaggio poetico

Il linguaggio poetico non può mai attingere la pienezza ontologica. Essere e linguaggio obbediscono a leggi diverse: si dà un ordine del senso, a livello ontologico, un altro senso si dà a livello proposizionale nella misura in cui la sfera dell’essere resta incisa e recisa nel e dal linguaggio, evirata della sua mitica pienezza. L’unità mitica dell’essere è, appunto, un mito, anzi, un mitologema. In questa unità prelinguistica e presimbolica il linguaggio appare come l’Altro, come ciò che introduce il segno come traccia, iscrizione, gioco di presenza-assenza che il significante dischiude.

La parola poetica diventa così il luogo in cui il soggetto evanesce. Con la parola il soggetto incontra la propria nientificazione, il proprio essere-per-la-morte, l’inaugurale sottrazione che scinde la presenza ripetitiva del godimento, del piano della pienezza dell’essere dalla rappresentazione di cui il significante, come luogo in cui il soggetto diventa evanescente, è marca.
Alienazione e separazione sono la ripercussione di questa scissione, quella che Lacan chiama «la divisione del soggetto». La dimensione della soggettività si configura in questa perdita, in questa lesione della pienezza della sfera dell’essere, mitica, da cui balza fuori, letteralmente, il «soggetto parlante».

Si può adesso comprendere come in Lacan il «soggetto parlante», ovvero il soggetto tout court, sia tale solo in quanto soggetto dell’inconscio, perché qualcosa come l’inconscio freudiano ha fatto la sua irruzione nella cultura moderna.
L’inconscio, secondo la celebre intuizione di Lacan, è «strutturato come un linguaggio», si manifesta secondo le modalità retoriche della metafora e della metonimia, individuate attraverso Freud nelle operazioni della «condensazione» e dello «spostamento». L’inconscio individua in noi quanto il linguaggio dischiude come Altro. La fenomenologia dell’inconscio è basata sulle leggi del linguaggio. Con l’intervento del linguaggio si verifica uno spostamento, e di qui la catena sinonimica che introduce il significante. L’inconscio è quel luogo strutturato dalla parola come luogo dell’Altro, il risultato dell’azione del significante.

L’inconscio pertanto non va interpretato come fonte, luogo in cui sarebbero ricondotti unicamente quei desideri e quelle pulsioni che non hanno avuto accesso alla coscienza; è strutturato come un linguaggio simbolico di cui però non possediamo le chiavi di accesso, è una istanza che parla attraverso i suoi simbolismi. Ciò che Freud ha scoperto e ha chiamato inconscio è quella dimensione «proteggente avvolgente», dice Heidegger, che esiste perché c’è linguaggio, che la parola non è mero strumento di comunicazione, ma la dimensione che apre nella vita un divario tra detto e dire, tra enunciato ed enunciazione, che sloggia il soggetto dall’alveo della certezza della coscienza dell’io penso, che lo strappa alla sua chiusura autoreferenziale.

Una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa

Nox Aeterna

Un aquilone danzava in cielo con i corvi
i benigni amici dei cadaveri.

Dalla finestra aperta entra il vento del nord.
Rimbalza sugli stipiti delle porte spalancate

e si posa sulle mani di madreperla di mia madre
che suona il pianoforte.

Mio padre le ha spedito una lettera dal fronte
che non arriverà.
[…].
Un sarcofago. Amorini svolazzanti in rilievo.
Un putto immerge la mano nel sarcofago.

Il bambino mette la mano nel primo cassetto a destra del tiretto.
Ruba qualcosa, dei cioccolatini….

Il grammofono suona un quartetto di Mozart…
[…]
Il profilo di Enceladon dal cavalletto davanti alla finestra
osserva gli astanti.

Raffaello ha interrotto la pittura, la «Dama con l’ermellino».
Il cammeo sul collo di mia madre sembra oscillare.

Scrivo una lettera a mia madre:
«Le legioni di Roma si preparano ad una nuova campagna.

Marco Flaminio Rufo è morto».
[…]
Il pittore fiammingo dipinge il volto di Enceladon.
Ritrae il mio volto di profilo, in basso, nella bandella di destra,

sulla figura di un committente.
Scrivo una seconda lettera a mia madre:

«Dobbiamo partire. Per il Sud. Presto sarà inverno.
Passeremo i mesi invernali nei quartieri d’inverno».

Scrivo una lettera ad Enceladon:
«Mia cara, Sarmizegetusa è presa»,

ma dimentico di imbucarla
o un postino sbadato ha dimenticato di recapitarla.
[…]
Nina Berberova scrive un racconto:
«Il lacché e la puttana».

Io esco dalla vita ed entro nel racconto.
Sono il lacché. Le chiedo: «Maestà, perché sono qui?»,

ma la romanziera ha fretta, deve fare le valigie,
deve traslocare negli Stati Uniti,

non può rispondermi, il suo compagno Chodasevič
è stanco e malato.

Kafka va a spasso con Madame Hanska
per le vie di Praga.

Il Signor Cogito sbatte la porta ed esce di scena.
Sale sul treno blindato zeppo di soldati.

In corridoio, il filosofo tiene un discorso sulla Bellezza.
Il romanzo diventa una coppa di champagne.

Vivaldi è tornato a Venezia, abita con la sua sgualdrina
in un appartamento ammobiliato al fondaco del Ponte di Rialto.
[…]
Scrivo una lettera a mia madre:
«Presto lasceremo i quartieri d’inverno».

Quando ritornerò, penso, ritroverò il quadro
di Enceladon con l’ermellino, sul cavalletto, che mi aspetta,

sarà finito da tempo.
E i corvi saranno ancora là in alto

insieme agli aquiloni.

Mauro Pierno
28 aprile 2018 alle 18.56

dal mio Ramon:

D’improvviso l’estate
l’unica asola dell’anima;
un piccolissimo ombelico di felicità,
un fiore senza petali,
calvizie prematura
d’un uomo.

Gif waiting_for_the_train

– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –

Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni, mai sapute, vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio. Continua a leggere

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Krzysztof  Karasek (1937) – Poesie a cura di Paolo Statuti

Gif nevicata

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle
necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico
e della sintassi

Krzysztof Karasek poeta, saggista, critico letterario, è nato a Varsavia il 19 febbraio 1937. Figlio dell’artista plastico Roman Karasek. Ha frequentato l’Accademia di Educazione Fisica e ha studiato filosofia all’Università di Varsavia. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. Il suo debutto poetico risale al 1966 sul mensile Poesia. Ha fatto parte della redazione di prestigiose riviste letterarie e ha ricevuto importanti premi per la sua creazione poetica, benché Karasek mantenga le distanze dai riconoscimenti: «… non importa chi riceve un qualunque premio di poesia. Perfino il premio Nobel può essere motivo di vergogna. Ad esempio si dice che Quasimodo, dopo aver ricevuto il Nobel, che allora avrebbe meritato di più Ungaretti, uscì dalla sala impacciato e quasi scappando. La mancanza di popolarità bisogna guadagnarsela. Io ho lavorato per essa troppo a lungo per rinunciarvi a favore dei premi» – ha confessato un giorno al poeta Jarosław Mikołajewski.

Il grande poeta Zbigniew Herbert (1924 – 1998) elogiò la sua poesia: «Krzysztof Karasek a mio avviso è il poeta di maggior spicco della Nouvelle Vague polacca.

La sua è una poesia matura, intellettualmente e letterariamente assai ben costruita. Usando un liguaggio sportivo – egli “ha preceduto di una lunghezza” gli altri poeti della stessa generazione». Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), scrittore di profonda cultura, critico e notissimo pubblicista, ha detto: «La poesia di Karasek è altamente creativa e in continuo movimento, con una straordinaria immaginazione esplorativa, alla ricerca del senso dell’esistenza, del mondo, della poesia stessa. La colloco tra le maggiori realizzazioni della poesia polacca contemporanea, e perfino europea». A sua volta il poeta e critico letterario Janusz Drzewucki afferma che un’ampia gamma di voci poetiche e una certa eterogeneità hanno caratterizzato la sua creazione fin dall’inizio: «La lirica di questo autore è da sempre polifonica. Egli si serve di poetiche, stili, idiomi di ogni genere. Sa essere poeta pubblicistico, riflessivo, tradizionale e di avanguardia, sa essere univoco ed equivoco, del mondo circostante lo attira sia l’aspetto fisico che metafisico».

Nella prefazione alla raccolta L’assolata tinozza dell’infanzia (2013), il poeta e critico Grzegorz Kociuba ha scritto: «La forza di questo libro è l’intimità, la liricità intesa anche tradizionalmente… Non è soltanto l’ennesima raccolta di un autore contemporaneo, ma è il libro di un grande poeta che non getta le sue parole al vento!». Karasek parla dalla posizione del saggio che conosce la vita, la osserva attentamente e a volte anche argutamente.

Il poeta è affascinato dalla pittura. Nel ciclo I miei pittori, dedicato alla memoria del padre, è attratto in particolare da Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper. Vede la parentela tra pittura e poesia, le visioni pittoriche sono visioni sintetiche del mondo. Per questo nella poesia Lettera a Paul Cézanne scrive: «Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificio che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce». Sia il pittore che il poeta creano composizioni coesistenti, che da una sola concreta prospettiva permettono di osservare il fenomeno descritto o dipinto. La sua gamma tematica è assai ampia. Vale la pena ricordare che una parte delle sue opere poetiche si basa sui sogni, che non necessariamente tratta come visioni incomprensibili, ma come una serie di quadri collegati con la realtà e col subconscio.

Nella sua penultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015), emerge la convinzione che il processo di conoscenza del mondo sia una gioia. In una delle sue ultime interviste dichiara: «Ritengo che la gioia della creazione, dell’amore, dell’amicizia e della loro reciproca sperimentazione siano questioni per le quali valga la pena di vivere e forse anche di morire. E’ la manifestazione di qualcosa di sacro, è la gioia come una festa. Ci sono persone che vivono nei cimiteri e altri che vivono per la gioia». Della sua ultima raccolta dal titolo enigmatico E’ giunto un uomo per frustare il mare (2017) dice: «Mi hanno chiesto tante volte il perché di questo titolo, alla fine ho cominciato a rispondere che è così, affinché ognuno possa dire la sua».

In uno degli ultimi incontri con i suoi elettori ha detto: «La vera poesia è il linguaggio che possiede una straordinaria dinamica. Parole incompatibili tra loro trovano il proprio posto, l’ordine è messo in dubbio. La poesia smentisce il nostro concetto di letteratura. In quest’ultima ogni opera ha un inizio, una parte centrale e una fine. In una buona composizione poetica tutto è inizio, parte centrale e fine».

Krzysztof Karasek rivolge una particolare attenzione alla poesia dei giovani. La sua sete di letteratura è inestinguibile. A tale proposito egli afferma: «In generale nella poesia mi incuriosiscono due poetiche. La prima si ha quando un verso è assai benfatto, delicato, accurato come in Herbert o Ungaretti. La seconda si ha quando agisce come se qualcuno ti infilasse nel posteriore un generatore elettrico, quando cioè è dotata di energia e ti elettrizza. Nei giovani la cosa più importante è l’imprevedibilità. Se sono diversi dagli altri. Se hanno una voce personale. E ogni volta che apro la raccolta di un giovane, spero sempre di trovare un nuovo Rimbaud».

Krzysztof Karasek

e gli stukas in picchiata sulla strada,
per la quale siamo fuggiti ad Est
e poi di nuovo ad Ovest,
riempivano le mie orecchie come galoppo
dei cavalieri dell’Apocalisse (Krzysztof Karasek)

Poesie di Krzysztof Karasek

Deutsches requiem

Ho visto la maschera mortuaria di Gottfried Benn
le orbite coperte di gesso del tempo
la fronte
che sosteneva il giogo della vita. E la bocca
dove covava ancora una piccola scintilla di rivolta
e di speranza – l’orgoglio deluso
e la dignità sconfitta; l’amarezza del resoconto
di un testimone oculare.

Tutta l’anima tedesca è concentrata in quella fronte,
in quegli occhi incavati come vetro in fondo al fiume,
l’anima di Novalis e Hölderlin, di Beethoven
e di Hegel. Mistiche tenebre
versate con ogni attrezzo della materia, e
l’anima nuda collocata nella scura fonte
di una eredità romantica; la cieca ragione
e la biologia impazzita, che crearono la superbia
di Nietzsche e l’amara saggezza di Kant

colavano da quella bocca, adesso vuota e sterile
come frammento di paesaggio dissanguato
o sonno di fiume frantumato contro l’orizzonte;
con un solo getto traboccavano dall’esofago
e cadevano ai piedi di un testimone casuale.

(1982)

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

Quando la parola sangue è assente in un verso?

La parola sangue è assente in un verso quando il sangue
è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene
non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo
mettono in libertà e nel futuro.

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si
riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,
la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,
i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di
anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze
misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle
necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico
e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della
lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore
da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti
nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:
il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città
litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo
si sono tinte di rosso).

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto
versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto
dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali
di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso
irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla
sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.
Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,
che si è iniettata di sangue.

(1982)

Agli animali piace la guerra

Agli animali piace la guerra,
il suo sapore, la forza che gira nell’aria.
Gli uccelli muoiono nel suo alito,
annerita la forma e il becco –

scheletro steso sull’aria,
sui tendini del vento.

Il polso staccato dall’osso,
le braccia vuote, private di muscoli e vene,
la mano, attraverso cui trapela la forma della luce
la circolazione sanguigna della cenere –
agli animali piace la guerra.

In qualche luogo nel folto
si sono rapprese le loro voci beffarde,
la caccia è iniziata,
la battuta si avvicina alla fonte.
Agli animali piace la guerra –
l’uomo va a caccia della propria carne,
lascia a loro l’intangibilità di gesti e sogni,
il sonno sprofonda in un udito ansioso,
di mani che non possono reggere il proprio amore.

La mia donna grida nel sonno
non potendo trattenere con le mani sfuggenti
la luce che si spegne.
A lei sembra
che dal giardino arrivino animali a cavallo,
in ordine ansioso
trova nella stanza una volpe, una talpa, una puzzola,
un lupo dorme nel suo letto
e mostra i denti. Continua a leggere

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Sul Minimalismo italiano – Dialogo tra Piero Sanavio, Rossana Levati, Giorgio Linguaglossa, Valerio Pedini, – Poesie di Zbigniew Herbert, Raymond Carver, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

 

Il Mangiaparole rivista n. 1

Il n. Uno uscirà in marzo, in copertina il poeta Alfredo de Palchi

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 9:59

Avevo scritto in un precedente Commento del 2014:

«Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«anti messaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili, che cade ed accade come per una sua legge di gravità, che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria».
Alberto Bevilacqua giunge a capire, acutamente, che oggi si può fare poesia soltanto se adoperiamo una «lingua estranea e provvisoria», una lingua che parliamo in un «corridoio di un anonimo ufficio», «in una stanza ammobiliata», in «una camera d’albergo» per incontri clandestini, una lingua di plastica, di stracci… Ecco, direi che Bevilacqua giunge fin qui… ma non può andare oltre… non può andare oltre la sua ontologia estetica…
*
Posto qui tre poesie di Raymond Carver, il padre del minimalismo americano con un commento di Valerio Pedini:

Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio. «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare. Ecco tre poesie di

Gif twin tower destruction

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito

Tre poesie di Raymond Carver:

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.
Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano. (Valerio Pedini)

Gif Balletto in microgonna

G. Linguaglossa: Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 11:04

A proposito del minimalismo italiano,

dirò che c’è una bella differenza tra il minimalismo di Carver e il minimalismo italiano, anzi, c’è un abisso… Quello di Paolo Ruffilli è un minimalismo inimitabile, alla maniera di Carver ma con lo stile ruffilliano.
Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io. Credo di essere incompatibile con il minimalismo italiano, quel medesimo minimalismo che ha imperversato sul nostro paese per più di quaranta anni come una epidemia, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi e che ha impedito di fare le riforme di cui il paese aveva estremo bisogno. Il minimalismo è il pensare in piccolo, pensare e vivere nella convinzione che tanto le cose si metteranno a posto da sole; minimalismo è stato il colpevole silenzio della Chiesa che per quattro soldi dati dallo Stato italiano alle scuole cattoliche, ha preferito tacere in lungo e in largo sulla deriva antropologica, politica, filosofica e psicologica degli italiani; minimalismo è la doppiezza, l’ambiguità, l’ipocrisia, l’ironia facile e a buon mercato. Minimalismo è avere un concetto minimale dell’etica e dell’estetica oltre che della politica. Minimalismo è il «particulare» da cui prendeva le distanze il Guicciardini; minimalismo è farsi gli affari propri, è un sistema di pensiero antropologico. Noi in Italia non abbiamo minimalisti del calibro di Carver o della Szymborska, noi qui abbiamo e Magrelli e i magrellini, i Rondoni e i rondoniani… Continua a leggere

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Rossana Levati: Fattore Tempo e Fattore Spazio nella poesia di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Giorgio Caproni, Zbigniew Herbert, Il frammento e la nuova ontologia estetica, con traduzioni delle poesie in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Onto Gino Rago_2

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità

Due poesie di Gino Rago

Il Vuoto non è il Nulla

Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
Non come vada il cielo”.
(…)
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio… Il vero poeta lo sa.
E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
(…)
In principio. Nei primissimi istanti… È solo il Vuoto.
Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. È un Vuoto zeppo di cose.
E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
(…)
È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.

(apparsa su L’Ombra delle Parole del 9. 8. 2017)

Emptiness and Nothing

He preferred talking to himself. He feared the other’s deafness.
“The will of the Holy Spirit is like going to the sky.
It’s not as if the sky comes to you”.
(…)
In Pisa everyone trembled.
The true poet loves the imperfect birth of things. As it were.
The beginning…The true poet knows it.
It is in the very first instant of the material universe.
There is no space. There is no Time.
Nothing can be seen. Because to see, photons are needed.
But in the beginning there were no photons.
Nor can one ‘stay’. Because for staying, the Space is needed.
No one can ‘attend’ (or ‘wait’).
Because to be able to attend or wait, Time is needed.
(…)
In the beginning. In the very first instant…There is only Emptiness.
Only Emptiness which isn’t as Nothing. It is an Emptiness full of things.
It is like the number zero. The zero that contains all numbers.
The negatives and the positives that summed up make zero.
In the Beginning… In the very first istant Emptiness. And Silence.
But a silence containing all sounds. Cage’s silence.
And the material universe? It comes from the fragmenting of perfection.
(…)
Was it imperfection that created this marvel?
Yes. The Whole comes from imperfection.
But the new paradigms struggle at length before being accepted.
Until Light isn’t detatched from opaque matter.
But if the Light detatches itself, photons, motion, attrition exist.
Time and space. The Man who writes life.
Poetry that explodes from fluctuating emptiness.

(appeared on L’Ombra delle Parole on 9 August 2017)

Onto mario Gabriele_1

Cattedrale delle ombre

[…]
Perché non è la notte
Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
Temendo l’ombra.
Tremando di paura di fronte all’infinito.

Se non pianti le parole come chiodi
Non sei poeta
Perché quelle parole se le prende il vento.

Se dici «morte» la falce si scatena.
Muore la Parola. Non soltanto il fiore.
Senza Parola in fiore tutto il mondo muore.

Ma se non sei poeta e nomini la morte
Muori solo tu.
Non varchi la soglia della cattedrale delle ombre.

Cathedral of the Shadows

[…]
Why is there no night
That hides God. It is you who hides him
Afraid of the shadow.
Trembling with fear in front of infinity.

If you don’t pound in words like nails
No poet are you
Since those words the wind swipes away.

If you say «death» a scythe goes wild.
The Word will die. Not only the flower.
With no Word as the blossoming flower, the whole world expires.

But if you are not poet and are naming death
You only die.
You won’t cross the threshold of the cathedral of shadows.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of two poems by Gino Rago: Il Vuoto non è il Nulla and Cattedrale delle ombre. All Rights Reserved.

giorgio caproni

Giorgio Caproni

Commento di Rossana Levati

Tornando a riflettere sulla specificità della poesia di Gino Rago Il vuoto non è il Nulla e su come in essa venga delineato in modo nuovo il fattore Tempo, il fattore Spazio e il cosiddetto “tempo interno”, credo possa essere utile un breve confronto con questo testo di Giorgio Caproni, L’idrometra.

Giorgio Caproni

L’idrometra

Di noi, testimoni del mondo,
tutte andranno perdute
le nostre testimonianze.
Le vere come le false.
La realtà come l’arte.

Il mondo delle sembianze
e della storia, egualmente
porteremo con noi
in fondo all’acqua, incerta
e lucida, il cui velo nero
nessun idrometra più
pattinerà – nessuna
libellula sorvolerà
nel deserto, intero. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA, OVVERO, LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – POESIE E COMMENTI di Mauro Pierno, Antonio Sagredo, Francesca Dono, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa

[gif  di Marilyn e Zbigniew Herbert]

Lettera di Giorgio Linguaglossa ad Antonio Sagredo

caro Antonio Sagredo,

Una interlocutrice ha scritto che ogni giorno «diventiamo sempre più sagrediani». Ben detto!, ho sempre pensato che gli «ultraplatonici ai quali sfugge sempre l’ingenuità» (Nietzsche), finiscono sempre per andare a braccetto con l’Euro e il Potere, con il conformismo dei nuovi clerici. Sia detto con la massima chiarezza: non interessano alla «nuova ontologia estetica» le capriole della poesia bene educata, quella fatta negli epicentri di Milano e nel circoletto romano di largo Argentina, noi siamo per una poesia sempre più sagrediana, sempre più mariogabrielana e sempre meno chiesastica (intesa nel senso: fatta da chierici).

Mi piace la bella poesia di Mauro Pierno fatta con gli scampoli del parlato di una mia poesia, mi piace questa ibridazione anche perché anch’io nelle mie poesie faccio frequentemente delle citazioni e dei richiami impliciti od espliciti a versi di altri poeti, così tanti che poi ne perdo finanche la memoria. Questo tessuto di scampoli, di stracci, di frasari perduti sono le nostre tombe, le nostre pietre tombali… ci stiamo bene nelle tombe… viviamo in una civiltà che ha fatto del passato un «immenso camposanto di lapidi» (cito me stesso), va quindi benissimo fare interagire «Evelyn» (personaggio inventato da Mario Gabriele) con le mie «Maschere», con il «tedio» di Pessoa, con il turlupinare sgomento di Antonio Sagredo e che il tutto finisca nella «Commedia» di Mariella Colonna. Tutto ciò è motivo di autenticità, molto vivo, effervescente come una poesia sagrediana! – La poesia deve vivere e prosperare sulla «crisi del senso», che è concetto complesso che i poetini della domenica mattina che poetano sull’io non possono minimamente neanche immaginare.

[Donatella Costantina Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb]

Mauro Pierno

L’intruso

dell’ombra
scalfisco la luce, quest’ultimo tratto indistinto
la stasi.
queste tregue di lenti fruscii, dopo,
dopo le parole in tempesta. dopo,
dopo l’acqua alta a Venezia
migliaia di volti in cornici dorate.
I volti dipinti parlavano tra di loro.
Dicevano: «Non fate entrare le ombre maledette!
Sbarrate loro l’ingresso!».
[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti.
Dicono: «Buongiorno» e «Addio».
l’intruso solo interruppe.

Una poesia di Edith Dzieduszycka si intitola «Groviglio». Ebbene, che cos’è il «groviglio»? Lascio la parola ad Adorno (filosofo troppo spesso oscurato dagli ignorantini poetini di oggi): «Il groviglio di fili, l’intreccio organicistico viene tagliato e distrutta la credenza che un elemento si combini vitalmente con l’altro, a meno che l’intreccio non diventi così fitto e arruffato da oscurarsi sul serio al senso»; «ma la soglia fra l’arte autentica, che prende su di sé la crisi del senso, ed un’arte rinunciataria, consistente in frasi protocollari in senso letterale e traslato, è che in opere significative la negazione del senso si configura come cosa negativa, nelle altre si riproduce in maniera cocciutamente positiva».1]

Facciamo dunque una poesia aggrovigliata, ibridata, sovrareale, che si fa beffe del senso, che si fa beffe del paludamento dell’anima bella e del pretesco poetese.

pittura Bauhaus

Facciamo dunque una poesia aggrovigliata, ibridata, sovra reale, che si fa beffe del senso

Alcuni pensieri sulla poesia della «nuova ontologia estetica»

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento.

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico come se nulla fosse.

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo.

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo.
Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa intervista Franco Campegiani sulla quaestio Eraclito-Omero, sulla Nuova Ontologia Estetica, sulla Logica razionalistica in occasione della pubblicazione del libro di Franco Campegiani Ribaltamenti. Democrazia dell’arché e assolutismi della dea ragione Ed. David and Matthaus, 2016

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

Domanda: Tu hai scritto: «“Il cosmo è tutto un fremito, un gran vibrare”. Così Ubaldo de Robertis, a riprova che la sua poesia frammentaria non intende porre fuori gioco l’universale, quanto piuttosto scorgerne la luce frammentata in ogni tessera dell’immenso mosaico. Sono a tutti noti i suoi interessi scientifici professionali e i riferimenti alla fisica subatomica, nel suo caso, sono quanto mai appropriati, ma i veggenti di ogni luogo e tempo hanno sempre definito quegli elementi invisibili ed impalpabili “coscienza universale”. A parer mio, è giunto il tempo che la cultura riscopra quella sapienza arcaica, quella conoscenza che ha sempre alimentato le sorgenti più remote (e sempre attuali) del mito. Non sto dicendo di tornare alla mitologia (quella è aria fritta), ma di attingere a quel serbatoio mitopoietico».

Condivido questo punto, infatti la Nuova Ontologia Estetica è interessata a valorizzare la funzione mitica, cioè una poesia che sia un sistema simbolico e non soltanto un sistema segnico, di significanti che suonano o collidono tra di loro; non mi riferisco ai tentativi di riproposizione di una poesia che si rifà alla mitologia dell’antica Grecia, perché non avrebbe più ragion d’essere, ma di un’altra cosa. Penso ad esempio alla poesia più recente di un Ubaldo de Robertis, alla poesia di Gino Rago, penso alla poesia della Szymborska e, in Italia, a quella di Anna Ventura, e anche, se me lo consenti, a certi miei esiti mitopoietici che si riallacciano alla poesia di Kjell Espmark, Lars Gustaffsson, Zbigniew Herbert…

Risposta: La Grecia classica ereditò, snaturandoli, i miti sorti nel substrato più arcaico della cultura greca. L’avvento del razionalismo pose fra parentesi, pur senza riuscire a inaridirle, le radici misterico-sapienziali della fase precedente, facendo degenerare la mitopoiesi in mitologia. L’ostilità dei Presocratici nei confronti dei poeti e degli artisti, è sintomatica di quel degrado in senso feticistico che condusse gradatamente il mito allo smarrimento delle intuizioni originarie, dissolvendosi in una molteplicità di storie vuote e sterili, di retaggi favolistici ripetitivi. Ma i Presocratici, come momento di passaggio fra l’età della Sapienza e l’età della Ragione, da un lato favorirono lo strappo (Pitagora, Parmenide) e dall’altro (Eraclito e Scuola Ionica) tentarono di impedirne il cammino. I filosofi successivi (razionalisti) furono molto più determinati e disinvolti nell’inaridire le sorgenti del Mito. A ben guardare, questo è un processo comune ad ogni cultura, così come ad ogni singolo essere umano. Durante le fasi della crescita fatichiamo terribilmente a portarci dietro il bambino che è in noi, il sapiente che è in noi, e il più delle volte finiamo per perderne memoria con seri danni per il nostro equilibrio. Purtroppo diveniamo adulti adulterandoci, ossia creandoci illusioni, ma c’è sempre un risveglio possibile al di là dell’oblio, e a quel punto il mito risorge, l’arte e la poesia tornano a giuocare ruoli fondamentali, riportandoci alla nuda interiorità di noi stessi, all’Equilibrio e allo Zero iniziali da cui riparte sempre l’avventura della cultura e della vita. Sta lì il serbatoio dell’arte, in quell’humanitas che ci vive dentro e che, essendo eterna e immutabile, è sempre viva e attuale. Trovo che la NOE sia un’esperienza ricca e affascinante. Potrà essere foriera di novità interessanti se saprà aleggiare sulle sabbie mobili dell’ideologia. Ben vengano tutte le proposte, da qualunque parte provengano, se sapranno evocare gli archetipi, l’essenza segreta e sfuggente, il bambino imbavagliato che sanguina dentro di noi.

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Domanda: Tu hai scritto: «Emblematica la polemica di Eraclito nei riguardi di Omero, laddove questi scrive: “Possa la discordia sparire tra gli dei e gli uomini”. Risponde il filosofo greco: “Omero non sa che prega per la morte dell’universo, giacché, se fosse ascoltata la sua preghiera, tutte le cose perirebbero“. La guerra (polemos) è per Eraclito la madre di tutte le cose, il grembo che le abbraccia e le affratella, la radice dell’armonia universale».1

La avversità di Eraclito verso la poesia e l’arte ha una radice antichissima, che contiene il recondito pensiero che la poesia (e l’arte) con il suo rappresentare il polemos sia pericolosa per la compagine sociale di una comunità perché inneggerebbe ai valori di distruzione dei valori piuttosto che a quelli della coesione dei valori. Non credi tu che anche oggi gravi sul pensiero filosofico questo recondito  pre-pensiero secondo cui la poesia (e l’arte) sia segretamente nociva per la coesione dei valori (estetici e non) sui quali invece deve costruirsi una comunità? Continua a leggere

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COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: IN OCCASIONE DEL PERIODO DI FESTIVITA’ IL BLOG SOSPENDE DA OGGI L’ATTIVITA’ E LA RIPRENDERA’ LUNEDI 2 GENNAIO 2016. LA REDAZIONE AUGURA BUONE FESTE A TUTTI GLI INTERLOCUTORI SPERANDO CHE L’ANNO VENTURO CI SI RITROVI IN UN MONDO MIGLIORE, Thanks, gracias, Vielen Dank, grazie, merci, teşekkür ederiz, ขอขอบคุณ, obrigados … con l’occasione del clima natalzio pubblichiamo la poesia di Zbigniew Herbert “Ipotesi su Barabba” nelle 2 versioni: di Valeria Rossella e di Paolo Statuti

zbigniew herbert accende una sigaretta

zbigniew herbert

Zbigniew Herbert

Domysły na temat Barabasza

Co stało się z Barabaszem? Pytałem nikt nie wie
Spuszczony z łańcucha wyszedł na białą ulicę
mógł skręcić w prawo iść naprzód skręcić w lewo
zakręcić się w kółko zapiać radośnie jak kogut
On Imperator własnych rąk i głowy
On Wielkorządca własnego oddechu

Pytam bo w pewien sposób brałem udział w sprawie
Zbawiony tłumem przed pałacem Pilata krzyczałem
tak jak inni uwolnij Barabasza Barabasza
Wolali wszyscy gdybym ja jeden milczał
stałoby się dokładnie tak jak się stać miało

A Barabasz być może wrócił do swej bandy
W górach zabija szybko rabuje rzetelnie
Albo założył warsztat garncarski
I ręce skalane zbrodnią
czyści w glinie stworzenia
Jest nosiwodą poganiaczem mułów lichwiarzem
właścicielem statków – na jednym z nich żeglował Paweł do Koryntian

lub – czego nie można wykluczyć –
stał się cenionym szpiclem na żołdzie Rzymian

Patrzcie i podziwiajcie zawrotną grę losu
o możliwości potencje o uśmiechy fortuny

A Nazareńczyk
został sam
bez alternatywy
ze stromą
ścieżką
krwi

Ipotesi su Barabba

Cosa ne è stato di Barabba. Ho chiesto nessuno lo sa
Libero da catene uscì sulla bianca via
poteva svoltare a destra proseguire dritto svoltare a sinistra
girare in cerchio erompere in un canto di festa come un gallo
Egli Imperatore delle proprie mani della propria testa
Egli Governatore del proprio respiro

Lo chiedo perché in certo modo ho preso parte all’affare
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
così come gli altri libera Barabba Barabba
Acclamavano tutti se io solo avessi taciuto
sarebbe accaduto esattamente quello che doveva accadere

E forse Barabba è tornato alla sua banda
Sulle montagne uccide rapido saccheggia per bene
Oppure ha messo su un negozio, fa ceramiche
e monda nell’argilla della creazione
le mani macchiate dal delitto
È portatore d’acqua mulattiere usuraio
proprietario di navi – su di una Paolo faceva vela per Corinto
oppure – cosa non da escludersi
è diventato una spia preziosa al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il gioco da vertigine del destino
su possibilità potenze sorriso della fortuna

E il Nazareno
è rimasto solo
senza alternativa
con uno scosceso
sentiero
di sangue

(c) by Valeria Rossella

Ipotesi su Barabba

Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa
Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca
poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra
fare una giravolta cantare con gioia come un gallo
Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa
Lui amministratore del proprio respiro

Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
come gli altri libera Barabba Barabba
Gridavano tutti se solo io avessi taciuto
sarebbe successo esattamente come doveva succedere

E Barabba forse tornò alla sua banda
Sui monti uccide in fretta rapina ad arte
Oppure aprì una bottega di vasi
e le mani macchiate di delitti
purifica nell’argilla della creazione
E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio
proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi
oppure – ciò che non si può escludere –
è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino
o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna

E il Nazzareno
rimase solo
senza alternativa
col ripido
sentiero
di sangue

(C) by Paolo Statuti

 

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UNA POESIA INEDITA  di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin

Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015

Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946

foto dei miei genitori, Roma, 1946

La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.

La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.

His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.

È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.

È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE

Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre

i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.

Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:

«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero

che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,

non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;

una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,

inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.

Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;

fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.

Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,

sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,

la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,

il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,

lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io

che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato

gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker

parlano alla radio con eloquio forbito.

Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,

il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto

di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,

sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo

un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:

“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.

Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra

La giostra

La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann

c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra

la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:

tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario

eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:

resta il cigolio della giostra illuminata.

Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.

Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;

al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala

ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento

questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.

Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,

le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;

una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.

Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano

a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra

alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;

camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)

“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre

la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)

Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,

esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio

con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.

Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto

immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.

Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,

getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.

Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.

Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio

i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.

Una bandiera bianca prende vita dal mare.

Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano

Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi

è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,

irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,

guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.

«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.

Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo

e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,

prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,

fa lo stesso.

Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna

e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.

Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,

il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.

Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta

verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio

e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;

sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali

reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata

che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità

diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –

una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

pitigrilli Benito_Mussolini

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.

Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,

una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.

Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento

con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?

Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?

Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice

del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –

piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:

il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.

Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:

“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,

replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa

o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,

indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso

ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito

a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,

(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli

e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».

Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco

tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?

Il secolo dei lumi e della tolleranza?

Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein

ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.

Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,

si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi

e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»

(1992-2013)

THREE STILLS IN THE FRAME

The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.

A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

roma donna acconciatura 4

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.

Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.

A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.

A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

roma donna acconciatura 1

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?

A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”

(1992-2013)

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SUL TEMA DI ZBIGNIEW HERBERT: IL RITORNO DEL PROCONSOLE. Zbigniew Herbert, Giorgio Linguaglossa, Francesco Tarantino

 

Zbigniew Herbert

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare alla corte di Cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

(traduzione di Paolo Statuti)

 

Giorgio Linguaglossa

Un giorno o l’altro tornerò alla corte di Cesare

Un giorno o l’altro tornerò alla corte di Cesare.
Non posso stare qui in eterno in questa villa di campagna
all’ombra del sicomoro e al canto degli uccelli
nell’aria vetrosa del mio esilio
ad attendere un cenno che non verrà.
Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare.
Mi chiederà Cesare le ragioni della mia insolvenza?
Userà clemenza o pretenderà la mia resa
dinanzi al Senato? Userà il bastone o la carota?
Mi imporrà una resa senza condizioni?
O mi lascerà parlare, spiegare le mie ragioni?
Sia come sia, ho deciso, mi devo preparare,
in fin dei conti l’imperatore ha bisogno di soldati
e non va tanto per il sottile, bada al sodo
e al solidus. Mi riabiliterà?, o mi darà in pasto
alle murene della sua piscina? Non lo so
e non lo voglio neanche sapere ma ciò che so
è che non posso stare qui in eterno
all’ombra del sicomoro e al canto degli uccelli.

A un battito di mani accorrono le schiave.
«Portatemi la praetesta con la danda bianca,
i calzari di cuoio e la tunica lussuosa».

Adesso sono pronto. Ho già fatto testamento.
In ogni caso mi preparo al peggio.
Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare,
gli dirò che amo la vita di campagna
stare in compagnia di villici e di bifolchi,
in qualche modo mi giustificherò,
lui capirà, capirà che faccio ammenda
dei miei trascorsi, mi riabiliterà,
sorriderà di certo, non so se di scherno
o altro, vedremo…

 

francesco tarantino 0

Francesco Tarantino

Eppur mi tocca ritornare

Com’è dura recalcitrare!
Eppur mi tocca ritornare,
a quale corte non oso decidere
che sia Cesare o qualunque altro porco
non sarà la calma della provincia
né l’ondeggiar di foglie ai sicomori:
lascerò ogni dolcezza e sentimento
per inchinarmi ai cortigiani
di un potere malato e nepotista.
Non ho meriti e non li cerco,
le mani sono pronte ad applaudire
quel che resta di un discorso profano
interrotto allorquando
mi allontanai per viver tra la gente.
Porto un fardello che non mi appartiene,
intriso di catene e di memorie,
di passi ridondanti nella mente
serrati da cancelli senza scorie.
Sarà per domani o dopodomani
che abbandonerò le vigne, le case
e tutto quanto non ha più radici;
lascerò le nubi intorno al deserto
e non aspetterò che il cielo
venga a domandarmi con che coraggio
riporterò il mio piede e gli occhi
e il mio sdegno al capitano
delle guardie e degli incantatori.
– No, statene certi, non berrò con lui! –
No, non mi fido del suo vino
dolce, al miele ma pieno di veleno!
Ad occhi chiusi fingerò di bere
e affilerò i denti restando muto
fino all’ultimo colpo di martello
col plauso di Cesare e degli dei
tra i pretoriani e le baccanti.
In fondo sono un uomo come gli altri
e ne ho abbastanza di giocare a scacchi
stando attento a Druso o a Tacito,
a quelli di sinistra
che vanno in giardino e tornano,
dopo aver seppellito il corpo
e lavano nell’acqua le lor colpe.
Non son sicuro di voler tornare
ma tornerò alla corte di Cesare,
domani o anche dopodomani,
sperando che c’intenderemo.*
* Risposte ad una poesia di Zbigniev Herbert

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Zbigniew Herbert Cinque Poesie tradotte da Paolo Statuti

KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA

Un neoclassicista del XX secolo

Zbigniew Herbert, poeta, drammaturgo e saggista, nato il 29 ottobre 1924 a Lwów e morto a Varsavia il 28 luglio 1998, è senza dubbio uno dei più illustri protagonisti della storia della poesia polacca del dopoguerra, e uno dei più conosciuti e letti oltre i confini della Polonia. Ha ricevuto infatti importanti premi internazionali, tra cui ricordiamo: Nikolaus Lenau (1965), G. Herder (1973), Gerusalemme (1990), ed è stato tradotto in diverse lingue: tedesco, inglese, ceco, olandese, svedese, italiano a cura di Piero Marchesani.
Debuttò nel 1956 con la raccolta “Corda di luce”, cui fecero seguito “Ermes, il cane e la stella” (1957), “Studio dell’oggetto” (1961), “Epigrafe” (1969), “Il signor Cogito” (1974), “Rapporto dalla città assediata” e altri versi (1983), “Elegia per l’addio” (1990), “Rovigo” (1992) e “Epilogo della tempesta” (1998). E’ autore anche di drammi e di bellissimi saggi sull’arte, come ad esempio quelli raccolti nel volume “Un barbaro nel giardino” (1962), ambientato in Italia.

La creazione di Herbert ha svolto un ruolo essenziale nel rinnovamento della poesia, alla ricerca di nuovi modi di descrivere la drammatica situazione dell’uomo moderno. Sensibile ai conflitti morali della nostra epoca, essa si serve spesso della metafora e della parabola, ricorrendo alla mitologia, alle opere d’arte, ai fenomeni naturali, ai personaggi storici e letterari dai valori simbolici. Abbina in sé il rispetto per la tradizione culturale europea con la modernità dei mezzi d’espressione, gli interessi filosofici con la semplicità poetica della lingua, l’etica e la problematica esistenziale con l’ironia e il senso dell’umorismo. Tra le sue opere più riuscite va annoverata senz’altro la raccolta “Il signor Cogito”, il cui protagonista vive i problemi fondamentali di questa poesia e viene presentato con un distacco moderatamente scherzoso, che elimina il patos e – paradossalmente – accresce il ruolo del messaggio morale contenuto in questi versi. Il carattere intellettuale della poesia di Herbert, la sua erudizione, i legami con la tradizione, nonché il genere specifico di tragicità e il senso della misura, hanno indotto una parte della critica ad inquadrarla nel neoclassicismo del XX secolo.
Particolarmente interessante è il rapporto del poeta col mondo degli oggetti. Secondo Herbert, tutto possiede una qualche propria identità. Tutto è ricolmo di contenuto e di significato. Anche la materia, a suo modo, è imbevuta di spiritualità, ma in ogni caso essa è un mistero e costituisce una barriera al di là della quale l’uomo colloca il mondo delle proprie aspirazioni e dei propri desideri. Forse – dice il poeta – l’oggetto più bello è quello che non esiste. Esso non serve a niente, non si lascia verificare in modo fisico, e quindi non si può metterne a nudo l’imperfezione. E’ un concetto ideale e non soggiace né alla temporaneità, né alla distruzione.
L’uomo deve conciliarsi col suo destino e con la missione che deve svolgere nella storia della creazione. Si tratta dell’ordine morale, del diritto naturale scritto negli strati più profondi della psiche umana; si tratta della sincerità e del coraggio di ammettere che si è soltanto uomini. E non è poco esserlo. Una simile tesi è racchiusa nella creazione di Zbigniew Herbert, spesso ardua, tagliente, ironica, piena di rigore interno, ponderosa nel suo appello racchiuso nelle ultime parole della poesia “Il sermone del signor Cogito”:
Sii fedele va’.

 

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare alla corte di cesare
ancora una volta proverò se è possibile viverci
potrei restare qui nella remota provincia
sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza
e il mite governo dei malaticci nepoti
quando tornerò non intendo cercare meriti
offrirò una parca dose di applausi
sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione
non mi daranno per questo una catena d’oro
questa di ferro deve bastarmi
ho deciso di tornare domani o dopodomani
non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio
gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia
è vetrosa i fiori odorano di cera
un’arida nube bussa sul cielo deserto
in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani
bisognerà di nuovo intendersi con il volto
con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno
con gli occhi perché siano idealmente vuoti
e con il povero mento lepre del mio volto
che trema quando entra il capitano delle guardie
di una cosa sono certo non berrò il vino con lui
quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi
e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto
cesare del resto ama il coraggio civile
entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti
in fondo è un uomo come tutti gli altri
e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno
non può bere a sazietà incessanti scacchi
la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra
poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito
uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.
Ho deciso di tornare alla corte di cesare
spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

Perché i classici
Ad A. H.
1
Nel quarto libro della Guerra del Peloponneso
Tucidite racconta la storia della sua fallita spedizione
tra i lunghi discorsi dei condottieri
le battaglie gli assedi la peste
la fitta rete d’intrighi
di brighe diplomatiche
questo episodio è come un ago
in un bosco
la colonia ateniese di Amfipolis
cadde nelle mani di Brazydas
perché Tucidite tardò a soccorrerla
pagò per questo alla città natale
con l’esilio a vita
gli esuli di ogni tempo
sanno quale prezzo sia

2
i generali delle ultime guerre
se accade un impiccio simile
guaiscono in ginocchio davanti ai posteri
elogiano il proprio eroismo
e l’innocenza
incolpano i subalterni
i colleghi invidiosi
i venti sfavorevoli
Tucidite dice soltanto
che aveva sette navi
era inverno
e navigava velocemente

3
se tema di un dramma
sarà una brocca infranta
una piccola anima infranta
con una grande compassione di sé
ciò che resterà dopo di noi
sarà come il pianto degli amanti
in un lurido alberghetto
quando spunta la tappezzeria

Rapporto dal paradiso

In paradiso una settimana lavorativa dura trenta ore
gli stipendi sono più alti i prezzi calano sempre
il lavoro fisico non stanca (effetto di una minore gravitazione)
spaccare la legna è come scrivere a macchina
l’ordinamento sociale è stabile e il regime ragionevole
davvero in paradiso è meglio che in qualsiasi altro paese
All’inizio doveva essere diverso –
cerchi luminosi cori e gradi di astrattezza
ma non si è riusciti a separare completamente
il corpo dall’anima e veniva qui
con una goccia di grasso attraverso una fibra dei muscoli
è stato necessario trarre le conclusioni
mischiare il seme dell’assoluto con il seme dell’argilla
ancora un abbandono della dottrina l’ultimo abbandono
soltanto Giovanni l’aveva previsto: risorgerete con il corpo
Pochi guardano Dio
è solo per quelli di aria pura
gli altri ascoltano i comunicati sui miracoli e i diluvi
con il tempo tutti guarderanno Dio
quando ciò avverrà non lo sa nessuno
Per il momento il sabato a mezzogiorno
le sirene muggiscono dolcemente
e dalle fabbriche escono azzurri proletari
sotto il braccio portano goffamente le ali come violini

Mamma

Pensavo:
non cambierà mai
sempre aspetterà
col suo abito bianco
e gli occhi azzurri
sulla soglia di tutte le porte
sempre sorriderà
mettendosi la collana
finché di colpo
il filo si spezzò
adesso le perle svernano
nelle fessure del pavimento
la mamma ama il caffè
la calda stufa
la quiete
siede
si sistema gli occhiali
sul naso affilato
legge una mia poesia
e con la testa grigia disapprova
colui che è caduto dalle sue ginocchia
serra la bocca tace
dunque un mesto colloquio
sotto la lampada fonte di dolcezza
o dolore non assopito
da quali pozzi egli beve
per quali strade cammina
figlio diverso dalle attese
l’ho nutrito con un latte benigno
l’inquietudine lo brucia
l’ho lavato nel caldo sangue
ha le mani fredde e ruvide
lontano dai tuoi occhi
trafitti dal cieco amore
è più facile subire la solitudine

tra una settimana
nella fredda stanza
con un nodo in gola
leggo la tua lettera

nella lettera
i caratteri sono staccati
come i cuori che amano

Il sermone del signor Cogito

Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta
cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio

va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati
tra spalle voltate e nella polvere abbattute

non per vivere ti sei salvato
hai poco tempo devi testimoniare

abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio
in fin dei conti questo solo è importante

e la tua Rabbia impotente sia come il mare
ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati

non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno
per le spie i boia e i vili – essi vinceranno
sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla
e il tarlo descriverà la tua vita allineata
e non perdonare invero non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli traditi all’alba

ma guardati dall’inutile orgoglio
osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio
ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore

fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro il fulgore del cielo

ad essi non serve il tuo caldo respiro
son solo per dirti: nessuno ti consolerà

bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’
finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella

ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende
raggiungerai così quel bene che non raggiungerai

ripeti solenni parole ripetile con tenacia
come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia

e ti premieranno per questo come altrimenti non possono
con la sferza della beffa con la morte nel letamaio

va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi
nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando
che difendono un regno sconfinato e città di ceneri
sii fedele va’

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Ryszard Krynicki. Sette Poesie e una Dichiarazione – Traduzione di Francesca Fornari, Presentazione di Giorgio Linguaglossa

bello angelo androgino

.

Presentazione di Giorgio Linguaglossa

Tra i massimi poeti polacchi contemporanei, Ryszard Krynicki nasce il 24 giugno del 1943 nel lager austriaco di Wimberg, a Sankt Valentin. Ha ottenuto diversi premi letterari, tra cui il premio internazionale Kościelski (1976), è anche traduttore dal tedesco di Brecht, Nelly Sachs, Paul Celan. Il volume Punkt magnetyczny (Il punto magnetico, 1996, da cui sono tratte le poesie qui pubblicate “Abitiamo attraverso la pelle”, “Rue de Poitiers”, “Per non ferire nessuno e nulla, Dio”) contiene un’ampia scelta di versi delle sue raccolte precedenti, tra cui Akt urodzenia (Atto di nascita, 1969), Organizm zbiorowy (Organismo collettivo, 1975), Nasze życie rośnie (La nostra vita cresce, 1978), la sua ultima raccolta è Kamień, szron (Il sasso, la brina, 2004). Nel 1988 Krynicki ha fondato la casa editrice a5, che pubblica poesia contemporanea, tra cui Herbert e Szymborska.
Gli esordi di Krynicki nel 1968 sono legati al movimento di Nowa Fala (Nuova Ondata), composto da poeti dello spessore di Zagajewski, Karasek, Barańczak, Kornhauser, accomunati da uno sguardo lucido e critico sul regime e dalla volontà di rispecchiarne, nella maniera più fedele, il grigiore e la disperazione quotidiani.

Nella sua poesia si riscontra la presenza di un tono quasi oracolare innestato su di un lessico sobrio, spoglio, schietto, a volte sarcastico, a volte umorale. I tratti sopra segmentali entrano con pieno diritto nella poesia occupando un posto d’onore. Esponente di spicco della generazione della Nowa Fala, Krynicki ha un timbro, una voce individuale. La sua voce si esprime bene nei momenti in cui prende posizione con interrogativi incalzanti e alti, quando può prendere posizione nei confronti del regime e della storia.

Sue poesie sono reperibili nell’antologia “Almanacco dello specchio 2007”, Mondadori.

*

Sette poesie di Ryszard Krynicki

Il poeta è pudico.
Lo è perché parla di sé, anche se in minima parte, immette nella poesia un moto, l’emozione di un istante vissuto proprio così, lì o altrove, ma comunque vissuto.
Almeno lo dovrebbe.
C’è chi immagina e racconta; ci inonda di versi profondi, ridondanti e colti che però non hanno vita.
Ci si può difendere da versi così? Mah!
Se piacciono, sono pur sempre poesia: falsa, copiata sbirciando componimenti di altri, ma di base una certa sensibilità c’è.
Io ho un sistema: scelgo un momento mio della giornata, butto i pensieri e leggo a voce alta, fingendomi l’autore e poi mi interrogo.
Posso dire di essere stato onesta nella lettura? Ho interpretato bene il suo pensiero? E come ne esce il suono? Scivolano le parole, o si arrotolano su se stesse?
Ecco, rispondendo a tutto questo ottengo delle prime risposte che saranno convalidate o smentite da poesie successive.
Non ho mai provato a leggere le poesie in altre lingue che la mia. Deve essere una esperienza esaltante.
Purtroppo mi difetta la pronuncia di molti idiomi, quindi è una esperienza che non farò mai.
Accetto senza riserve, quindi, il dire di questo autore. La semplicità dello scritto (e la bravura del traduttore: non scordiamoli mai) ne fa un testo prezioso.

z11576026Q,Ryszard-Krynicki

Effetto di estraniamento

Preferisco leggere i miei versi in una lingua straniera:
occupato a rigirare cautamente in bocca
i sassolini della pronuncia corretta

sento meno la spudoratezza della mia confessione.

da “Abitiamo attraverso la pelle” di Ryszard Krynicki (Interlinea, 2012)

Mieszkamy przez skórę
za blisko, żeby się jeszcze zbliżyć: ta rozłąka,
przez mężczyzn, których ci przypominam, trwa,
poprzez mężczyzn, którzy wcześniej cię przemierzali,
[obcojęzyczny
dworzec tekstu, przez kobiety,
których nie zdobyłem na tyle, żeby o nich zapomnieć;
[tylko
ten pierworodny lęk, to po nim się poznajemy jak po
ojczystym języku
na nieznanym dworcu; najbliżsi więc
najdalsi, kochani nienawistni,
dwa obce szczepy, które przyjęły się na tym samym
[pniu, na
ściętym pniu spojrzenia, przerwanej rozmowy; oszczep
przeszył dwa zwierzęta, zwierzęta oddechu, który
utkwił nam w gardłach; oszczep? oddech? choćbyś go
zaszczepił, nie spodziewaj się drzewa
innego niż bezsenność; mieszkamy przez skórę za
[daleko,

*

Abitiamo attraverso la pelle,
troppo vicini per avvicinarci di più: questa separazione,
attraverso gli uomini che ti ricordo, dura,
attraverso gli uomini che prima ti hanno percorso,
[stazione,
in lingua straniera, di un testo, attraverso le donne
che non ho sedotto tanto da dimenticarmi di loro; solo
questo terrore primordiale, è da quello che ci
[riconosciamo come
dalla lingua madre
in una stazione sconosciuta; i più vicini e dunque
i più lontani, amati pieni di odio,
due innesti estranei, che si sono inseriti sullo stesso
[tronco, sul
tronco reciso dello sguardo, di una conversazione
[interrotta; la lancia
ha trafitto i due animali, gli animali del respiro, che
ci si è conficcato nelle gole; la lancia? il respiro? se
[anche
lo innestassi, non ti aspettare un albero
diverso dall’insonnia; abitiamo attraverso la pelle
[troppo lontano


by mówić o rozłące; trwało to między nami jak zbyt
[długa podróż,
kiedy pociąg się spóźnia i ty musisz sama
czekać na bezludnej stacji
z przygodnym nieznajomym; trwało to między nami?
[to bliskie
oddalenie, ten ból pierworodny i oddech
uproszczony do tchu; tak i wzrok był pomiędzy nami:
[mieszkamy
przez skórę spojrzenia

*

per parlare di una separazione; tra noi è durata come
[un viaggio troppo lungo,
quando il treno ritarda e tu da sola devi
aspettare nella stazione deserta
con uno sconosciuto a caso; tra noi è durata questa
[lontananza
vicina, questo dolore primordiale e il respiro
ridotto a un alito; e così c’era anche lo sguardo tra
[di noi: abitiamo
attraverso la pelle dello sguardo

(1967)

*

Niente cambia
ogni giorno attendi che ti assegnino l’appartamento
ti alzi il mondo esiste ancora
torni dal lavoro il mondo ancora esiste
leggi nel giornale
che i cinesi hanno scoperto un osso che può
rivoluzionare la scienza
e demolire la teoria di Darwin
vai a letto ti addormenti
senza ascoltare fino alla fine l’ultimo notiziario
dormi non sogni nulla
ti alzi le tue ossa non rivoluzioneranno la scienza
ti rechi a lavoro lungo la via dell’Armata Rossa
il mondo esiste ancora niente è cambiato
sul lato sinistro della via
dipende dalla direzione in cui ti muovi
insieme al paese intero
sul lato di sinistro della via
sul lato di estrema sinistra della via
sul lato sinistroide della via
sul lato levitante della via
vedi uno slogan lo scopo più alto della strada è l’uomo
sul lato etc. destro lo slogan lo scopo più alto
più in basso non riesci a leggere
più in basso cadono gocce di pioggia aerei petali di neve
niente è cambiato
le macchine imprimono nell’asfalto
la misteriosa lettera &
il tempo scorre nell’immobilità come corrente elettrica

e il tuo bambino tornando dall’asilo sa già
che lo scopo più alto è

etc.

(Traduzione di Francesca Fornari)

La lingua, questa escrescenza carnosa

Al Signor Zbigniew Herbert                                                      

                                                                            e al signor Cogito


la lingua, questa escrescenza carnosa che cresce nella ferita,
nell’aperta ferita della bocca, della bocca che si ciba di  falsa verità,
la lingua, questo cuore scoperto che batte sull’esterno, questa   nuda lama,
che è un’arma indifesa, questo bavaglio che soffoca
le fallite rivolte delle parole, questa bestia che ogni giorno familiarizza
con i denti umani, questa cosa disumana, che cresce in noi e ci
sormonta, questa bestia nutrita con la carne avvelenata del corpo,
questa bandiera rossa, che ingoiamo e sputiamo col sangue, questo
bìfido che ci accerchia, questa verace menzogna che abbaglia,
questo fanciullo, che imparando il vero, veracemente mentisce
1975

da: “Organismo collettivo” traduzione di Paolo Statuti

 

Fobia dell’altezza

Il potere soffre di fobia dell’altezza: più in alto si arrampica,
più ha paura di scen­dere sulla terra.
*

La verità?

Cos’è la verità?
Dove ha sede?
Dove la sua amministrazione?
Dov’è il con­si­glio direttivo?
Dove sono i suoi giuristi?
Dov’è la sua scorta?
Dove la sua sezione per la promozione?
Dove quella del marketing?
Com’è la sua audience?
Com’è la forza di impatto?
Com’è la sua tutela mediatica?
Si vende bene?
E’ già quo­tata in borsa?
Che valore hanno le sue azioni?

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