
Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”
Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».
Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946
La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.
La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.
His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.
È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni.»

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie
Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.
È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).
Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.
È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.
Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE
Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre
i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.
Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:
«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero
che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,
non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;
una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,
inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.
Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;
fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.
Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,
sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,
la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,
il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,
lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io
che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato
gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker
parlano alla radio con eloquio forbito.
Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,
il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto
di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,
sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo
un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:
“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.
Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra
La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann
c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra
la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:
tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario
eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:
resta il cigolio della giostra illuminata.
Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.
Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;
al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala
ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento
questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.
Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,
le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;
una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.
Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d’annunzio e benito mussolini
Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano
a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra
alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;
camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)
“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre
la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)
Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,
esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio
con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.
Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto
immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.
Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,
getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.
Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.
Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio
i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.
Una bandiera bianca prende vita dal mare.
Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano
Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi
è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,
irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,
guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.
«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.
Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo
e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,
prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,
fa lo stesso.
Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna
e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.
Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,
il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.
Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta
verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio
e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;
sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali
reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata
che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità
diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –
una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.
Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,
una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.
Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento
con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?
Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?
Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice
del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –
piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:
il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.
Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:
“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,
replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa
o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,
indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso
ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito
a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,
(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli
e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».
Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco
tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?
Il secolo dei lumi e della tolleranza?
Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein
ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.
Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,
si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi
e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»
(1992-2013)
Fayyum ritratto di Donna romana
Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.
THREE STILLS IN THE FRAME
The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.
A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.
Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.
A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile
A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas
Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.
A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?
A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”
(1992-2013)
Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa
Nota di Gino Rago
Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:
«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».
I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.
1- Silvana Baroni
Persa e ritrovata
Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.
2 – Gino Rago
il Vuoto, lo specchio
Cara Signora Jolanda W. ,
[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.
Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,
Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,
sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.
Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,
lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,
hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.
Una risata da dietro i gerani.
*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]
3 -Ghiannis Ritsos
Quarta dimesione [da Crisotemi ]
” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.
C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]
4- Guido Galdini
Specchio
è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?
Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
5 – Giuseppe Talia Continua a leggere →
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