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In un momento che vede l’Italia in procinto di pericolo per la sicurezza nazionale e per la collocazione internazionale del Paese, Una Domanda di Roberto Bertoldo a Giorgio Linguaglossa a proposito dei sedici autori presenti nella antologia Poetry kitchen pubblicata da Progetto Cultura nel 2022. Perché una poesia kitchen? Poesia kitchen, poesia da frigobar, messa giù con un linguaggio da frigidaire con parole conservate al freddo, ibernate; e anche kitsch poetry, instant poetry, poesia abrasiva, ablativa, colliquativa, manipolata, poesia palinsesto

Caro Giorgio Linguaglossa, avendo letto il tuo saggio L’elefante sta bene in salotto e l’antologia di autori vari Poetry Kitchen, vorrei rivolgerti dei quesiti su alcune problematiche che ti hanno visto fondatore di un movimento che si propone come avanguardia principalmente artistico-poetica.

 Domanda: La forte impronta descrittiva ravvivata da un’operazione tropologica, che comporta anche la metalepsi di cui parli nel saggio in oggetto, insieme alla costruzione a frammento che a volte richiama un’interpretazione allegorica unificatrice a livello semantico, è ciò che in modo più evidente vi differenzia dal minimalismo. Così si va dal descrittivismo più tradizionale di Guido Galdini, arricchito da personificazioni, traslati, ecc., al descrittivismo diffratto di altri autori e a quello principalmente narrativo. Ci sono poi molti riferimenti a personaggi noti e tanti altri aspetti che, come dice Marie Laure Colasson nella prefazione al suo libro di poesie Les choses de la vie, fanno sì che la poetry kitchen sia «un genere ibrido, fluido, mutevole, instabile». In tutto questo l’io non è assente. In che senso non sarebbe un «io plenipotenziario ed ergonomico»?

(Roberto Bertoldo)

Risposta: dal mio libro di critica: Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), Società Editrice Fiorentina, 2013 Firenze, pp. 150 € 15.

Nella poesia [italiana] degli Anni Dieci è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici.

E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico.

A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.

Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.

Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.

Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.

Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione linguistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie?

Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.

Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!

Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono (in pieno post-moderno) le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?

Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico del modello letterario mitopoietico.

Ma chi non è d’accordo sullo scrivere una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di una struttura critica, di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.

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Gino Rago, Strutture serendipiche, Mauro Pierno, Poesie da Antologia Poetry kitchen, Francesco Paolo Intini due poesie kitchen, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Jacopo Ricciardi sulla poetry kitchen, La poesia maggioritaria di questi ultimi decenni adotta pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato

Mauro Pierno
da antologia Poetry kitchen (Progetto Cultura 2022)
1
Il basilico dei vicini la sera si finge morto
di fronte alle nostre serie TV
Una Olivetti 32 vuole riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Einstein pipa in bocca violino sotto il mento
suona la relatività in quattro dimensioni
I cavalieri stanno aspettando
che la partenza sia per sempre rimandata
Per rifiorire sull’altro versante.
Prima o poi. Domani. O forse…
2
Ora i proletari erano tutti agenti di commercio
Odorava di miele la catena di montaggio
La pagina quindici oscillò di sette secoli
Il fantasma entrò dalla porta blindata
Il secondo altissimo e magrissimo
indossava occhiali di tartaruga rossicci e mocassini neri in vernice
la carrozza di mezzogiorno, lungo il viale dello Steccato,
accompagna il cambio della guardia nella torre d’avvistamento.
3
Le mani rumorosamente sfregarono il gel disinfettante.
Lo sciacquone derubricato mondò i peccati.
Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione
Daniil Charms sente nell’aria come un sibilo,
a distanza di chilometri non dà peso al fatto.
Pensa:
“Sarà stato il miagolio di un gatto
O uno starnuto dal Cremlino”.
Intorno sta un paesaggio deforme.
4
Due uomini non si capiscono ma conversano –
Molti altri umani si uniscono a loro.
“Avevi promesso di scrivere.”
“Ho preso appunti. Ma li ho mangiati.”
Un faro illumina un peschereccio che ondeggia.
Qualcuno paga con il bancomat.
Le dico, dattero. Non ho altre parole.
Toh, sei cavalli.
“Guerre, guerre e ancora guerre…basta, non studio più.”
Sofia lancia il libro dalla parte opposta della cameretta.
5
Alice non trova l’uscita dal Paese delle meraviglie,
Arianna gli offre la soluzione in cambio del cappello a fiori
Una squadriglia d’uccelli in alto nel cielo
nelle vesti di poliziotti sospettosi armati di binocoli ispezionano le migrazioni
i cieli inferociti sul mare
non si rassegnano a diventare uno sfondo
Strisciando sul guscio, sbriciolandone il calco.
Oltre i muri il pigolio, l’allucciolio, il bio
Monoliti contro un cielo blu-nero. Ghetti verticali.
6
Non c’era tempo per la chimica.
Il verso generava spettri di risonanza magnetica.
Gli schiamazzi della Performance si sentirono
Fino al terzo secolo avanti Cristo.
In un bastone da passeggio con il manico di avorio,
in un ombrello tricolore, in un fazzoletto profumato.
Molly è tornata ad innaffiare i gerani questa mattina: il professore dice
che Urano è nella costellazione del Leone e che l’oltre non avrà dominio.

Gino Rago
Strutture serendipiche

John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
Il vespasiano in via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna – un bicchierino di Rum x “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.

Francesco Paolo Intini (da Facebook del 29 settembre 2022)

Spyke di fine settembre

Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.
Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!
La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
-Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
-Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.
Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi
Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito
Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
-Io non sono Antigone -ripete un ragno sul muro
Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.
La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche
L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’ insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere in-significanti e inoperose (g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni minori adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di centricità dell’io, di «identità», di «soggetto», di «riconoscibilità», di «originarietà» della scrittura poetica implica un rivolgimento: porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione», di un «nuovo paradigma», di una «nuova forma-poesia». Il discorso poetico della poetry kitchen passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento incentrato sulla metastasi dell’io egolalico ed elegiaco e su una «forma-poesia riconoscibile». Il capitalismo cognitivo in crisi di identità e di accumulazione genera ovunque normologia e riconoscibilità, quello che occorre è l’«irriconoscibilità», una poiesis che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica. Continua a leggere

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Un omaggio a Elio Pecora – Happy new year – 15 poesie per 15 poeti. Poesie di Antonella Anedda, Pier Luigi Bacchini, Maria Clelia Cardona, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Roberto Deidier, Umberto Fiori, Biancamaria Frabotta, Mariangela Gualtieri, Jolanda Insana, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Renzo Paris, Antonio Riccardi, Valentino Zeichen

 In occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione a Elio Pecora, le edizioni San Marco dei Giustiniani hanno pubblicato un volume collettaneo contenente  poesie di altri poeti italiani per festeggiare l’evento. Riproponiamo in questa sede una scelta delle poesie e degli autori che hanno contribuito alla realizzazione del libro Geografie primaverili. Poesie per Elio Pecora a cura di Roberto Deidier, 2006.

È anche l’occasione per mostrare gli scritti di un ampio ventaglio di poeti contemporanei. Il loro omaggio al poeta Elio Pecora è anche un omaggio alla Musa. Sarebbe un buon segno se tali esempi si moltiplicassero e più di frequente i poeti concedessero le proprie poesie per festeggiare una personalità poetica, o salutare  qualcosa che si allontana da noi, o si avvicina…

È questo il modo, dell’Ombra delle Parole, di salutare un poeta rappresentativo di Roma, città di adozione del poeta napoletano, e della intima vocazione dell’Urbe da sempre città cosmopolitica, aperta a tutte le suggestioni culturali e a tutti i poeti provenienti da qualsiasi latitudine e longitudine.

E questa latitudinalità e longitudinalità di Roma è sempre stata una caratteristica della città eterna che ha accolto e allevato poeti, scrittori e artisti di varia nazionalità e provenienza in accordo con la sua vocazione millenaria e la sua storia cosmopolitica.

 

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 ( tel.349/4439444; email:e.pecora@tiscali.it). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la  critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse,  Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

I suoi libri di poesia: La chiave di vetro  (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto(Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle  (Roma, Rossi & Spera 1990); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure   (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi(Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro, Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore  (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.

I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2007; Un cane in viaggio (Illustrato da Beppe Giacobbe), ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.

I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia, ed. Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed. Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni con  Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed. Aragno 2012.

I testi per il teatro rappresentati: Alcesti, 1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani;  Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio,  RadioTre il 19 ottobre 1997.

Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume Teatro. Un ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.

Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.

Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in  francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese ( Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)

Ha curato:  Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori, 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed. Pagine 2013.

Antonella Anedda

Oggi la vita è fulgida. Ho visto un corvo abbassarsi
su uno dei gradini della scala:
è stato un miracolo di nerità lucente
un lungo inchiostro sul bianco della pietra. L’intera discesa
– la mia e del corvo – sapeva di betulla e miele. I nostri corpi
– del corvo e mio – erano svelti e vecchi.
Guardandolo muoversi mi accorsi
di quanto il nero fosse offuscato
di qualche macchia e di come l’andatura fosse
incerta. Anche le mie gambe, qua e là macchiate dall’età e dal sole
erano un segno come per lui quel cieco saltellare.
eppure entrambi in amore
amavamo: lui le poche lucide piume, io un residuo di grazia:
l’affusolarsi delle gambe fino ai piedi e i piedi leggermente contratti
fragili (come i suoi) con artigli cremisi.
Ora voliamo lui verso il cielo e io verso la terra
laggiù sotto la scala che mi aspetta:
un lembo ancora senza colore, ma con muschio e pietre
un continente inesplorato.

È un bene che vacilla.

Il cielo chiude il corvo.
La pietra mi scricchiola sui passi un’orchestra di ghiaia.
inghiotte parti di me. Rode i talloni.

Pier Luigi Bacchini

Mappa dei voli

Quando gli astronomici migratori atterrano –

e intersecano i transiti
sulle geografie primaverili

e le scheletriche cicogne trovano posto
sulle pagine dei tetti
tra i fastidiosi battiti dei loro stecchi,
come femori di gru
con scricchiolii vocali,
allora anche i vocianti cigni s’adunano
con disperazione di urli
e di versi inconcludenti
e pieni di echi:
desolazioni, –
e resta un pianeta disabitato, con specchianti
solitudini di fiumi
e foreste estreme. Nell’attesa

del necessario compimento:
di chi mirabilmente se ne renda conto.
Ma tutto poi è stato depredato.
scavato, dal dispositivo degli istinti,
dall’alluminio degli uffici.
E hanno affumicato le nubi –
e imprigionate nelle stie
tutte le cangianti squadriglie delle oche

– e lo svasso dell’Oregon
in coppia
come ballerine stilizzate –
coercite
dalle linee primordiali.

Come la sterna costretta
nella piccola patria astrale, e quella pescatrice, la sula

che è sempre come un sasso
verticalmente scagliato nel mare.

.
Maria Clelia Cardona

A Elio

Non parlerò di poesia in questo biglietto augurale,
Elio, talvolta coperto di nubi, però mai piovoso,
mai autunnale, piuttosto custode di una luce primaria
che irradia calore, parole che nutrono germogli, luci
accese sulle acque terrestri, musica che vibra nell’aria.

A distanza i sensori captano tempeste magnetiche,
ombre, zone di solitaria, raccolta cura.

Non parlerò di poesia nel mandarti un augurio
che pure la sottintende e la include –
per le tante condivise passioni, per l’eloquenza
del tacere, per il parlare quanto tutti tacciono,
per un gelido divertito notturno aspettando l’Aci,
per il prossimo libro di cui vorrai
farci dono.

.
Maurizio Cucchi

Il marinaio scende nella botola
con uno straccio, fischiettando,
e dal fondo si alza subito un rumore
assordante di macchina. Poi ricompare,
si aggiusta il berretto sulla fronte
e guarda l’orizzonte, indifferente.
Sa già che presto si rivedrà il paese.
gif-women-colored

Milo De Angelis

Un’assoluta
gioia ci ha mancati
per un soffio
e ora precipita
tra due pareti, attimo
separato dal suo nucleo
e foglia moribonda, annuncio
di una volta sola: così
siamo stati vicini
al grido, nel cuore
buio dell’estate,
così ci lasciamo.

.
Roberto Deidier

Quindici giorni soltanto ed eravamo
Ancora sotto il cielo del raccolto –
Su assi di legno rozzo non marciva
L’allegria della mezza estate
Protetta dall’ala scura della notte.

Si sono addensate le stelle
Di Agosto, un lampo ha squarciato
L’illusione di quel tetto sicuro,
L’aria ha ceduto il suo spessore
Ai limpidi contorni di settembre.

Adesso la pioggia è rada e insiste,
L’ombra della montagna scende rapida
Ed io so a quest’ora
Cosa muove i passanti verso casa,
Cosa ti bisbiglia il bosco.

.
Umberto Fiori

Tre poesie dalla serie «Voi»

È quasi vuoto lo spiazzo
sotto i piloni del cavalcavia.
L’ultimo camper mette in moto,
si accoda alla carovana: via, via.

Via, lontano. Che fretta. Non vi bastava
l’aria, la luce, la compagnia?
Sarà più bella, Forlì?
Sarà più allegra, Pavia?

Andate, senza voltarvi.

E io, qui.

*

Come vorrei obbedirvi,
zorri e fatine.
Fare onore alle zeppole, ai coriandoli.
Lasciarvi, lasciarmi correre.

Ma è troppo pieno
il bicchiere di spuma.

Laggiù, nello specchio, è
troppo nudo
quel muso di scimpanzè,
è troppo grande il costume
da moschettiere.

*

Vi ho salutato.

Ve ne siete accorti,
pezzi di merda?
E allora: rispondete.

Non ce la fate più
nemmeno a fare così con la testa,
nemmeno a sollevare – che ne so –
un braccio, un dito? Siete
malati, siete morti? No?

e allora alzatevi, su, venite.

Spacchiamoci la faccia. Niente più facce.
Chiudiamo i conti, stiamoci di fronte
l’ultima volta.
Poi, però,
che sia veramente finita.

(gennaio, 2006)
gif-marilynBiancamaria Frabotta

Sosti sulla riva senza svestirti
temendo il dio che porta il tuo nome.
Indovinarti bisogna sotto la camicia
abbigliato dentro l’ombra di stanze
che davvero non sanno come riempire
le ombre, incerte nelle pose della vita
per compagnia rimaste accanto a loro
o sospese ariette
sparse all’orizzonte
o nuvole pericolanti a rincorrersi
intere, gran parte di quel tempo
che occorre al sole per oscurarsi.

.
Mariangela Gualtieri

Ti ricordi quando abbiamo disceso il fiume camminando sui sassi? Quando ti ero alle spalle, dove il fiume era largo, io ti ho visto volare. I nostri passi più belli sono stati in quel punto. È solamente dopo che ci siamo bagnati le scarpe.

.
Jolanda Insana

ricominciare da zero?
incespica il porcospino e io galleggio
e il cargo delle illusioni d’è rovesciato
sul suo pennone nero
non voglio acqua non voglio aceto
non voglio verde non voglio cielo
il geco è andato in letargo.

.
Vivian Lamarque

Una lettera da Pennino nella casella?
Proprio da Pennino Sandro Penna? Allora
si scrive anche là? Nell’aldilà? Si raccomanda
di festeggiare Pecora per bene, gli ho scritto
tranquillo ci sta pensando Deidier,
mi ha scritto la festa dov’è? Gli ho scritto
ancora non lo so, mi ha scritto forse
verrò, gli ho scritto magari Pennino! Poiché,
in terra non c’è più nessuno lo sai?
come te.

.
Valerio Magrelli

Musica, musica,
che vuoi da me?
Quale perfido Claudio
mi versò nell’orecchio il tuo giusquiamo?
Sovrano spodestato e posseduto,
preda di questa febbre auricolare,
sento il veleno pulsare e mi chiedo:
«Musica, musica,
che vuoi da me?»

.

Renzo Paris

Maggio 1974. Nella libreria
di piazza di Spagna c’era
un commesso poeta. Parlava

sottovoce, si lagnava della
poca attenzione dei lettori
ai romanzi d’autore. Diventammo

subito amici, ridanciani,
duellanti, con Dario che voleva
scoronarci, noi amanti

della poesia antica: tu penniano
io corbieriano. Suonavi la
chitarra, cantavi canzoni

napoletane. Ti esibisti anche tu
al Beat 72 quando i poeti
della nostra generazione
attirarono l’attenzione dei
nottambuli romani. in sordina,
sobrio, letterato fino al midollo,

ci guardavi come garzoncelli
scherzosi. È cattolico chi
segue qualcuno, Elio e la

Bellezza se con conduce a Dio,
è opera del Demonio? Sono domande
insorte in coda a questi versi per i tuoi

settant’anni. Chi siamo diventati
in una goccia di tempo? Ci attendono,
quando la vita sembra ancora

tutta da vivere, terra e cenere. Vale
Elio, vale.

.
Antonio Riccardi

Acquarama

1.
Lo sai che il mondo intero, e dentro
ogni atomo per sé, contiene troppe cose:
più di tutto il siero e la viltà.

Sono troppo bella per perdere così,
per aspettare qualcosa da te…
hai detto baciandomi lentamente
nel chiaroscuro dei bambù.

2.
Lo vedi ho una vita friabile
sento i grani della polvere e dell’amore
vicino alla radice.
Lo so che vorresti restare
la ragazza che s’incanta
e che non perdo, per sempre
mai più…

Poco più in alto
trascinando stelle e paglia, il sole
portava nell’aria più dolce
nutrimenti e farfalle.

3.
Il nostro eroe era francese, o milanese,
sentiva il profumo della felicità
nelle stesse strade di Milano
dove adesso nevica la lana dei pioppi.

Sempre dopo la furia, ingrati
l’uno dell’altra, ti sento
vibrare di delusione
e sento il mio privilegio franare
la mia bella vita ossidarsi e finire.

4.
Guardiamoli nel filmino
i giorni lucenti del nostro avvenire
– l’idea che avevi dell’uomo perfetto,
di una bella casa, di una cucina moderna
di una vacanza sull’Isola dei gabbiani.

Lo sai, nei nostri piccoli affari
tu sei sempre la più severa…

.
Valentino Zeichen

1.
Elio mantiene le distanze
dall’oscuro mondo interiore
quanto dall’intimismo deteriore.
Elio è un poeta filosofo
incline all’innesto interiore
d’un globo della filosofia
per schiarire le identità
dall’oscura profondità.
Lui canta cose mondane
le cui metafore hanno
parentele nell’aldilà,
delle quali si parla
senza mai nominarle.
Certi poeti si calano
nella caverna platonica,
altri rimangono all’aperto
e vi proiettano dentro
le ombre delle forme.
Elio è un proiezionista,
appartiene alla stirpe
dei poeti flemmatici
che scherzano filosoficamente
passando avanti e indietro
davanti alla caverna platonica.

2.
Quale sintetico scultore fonde
i sentimenti sfuggenti nella forma,
i suoi versi intonati hanno
un ritmo congeniale al cuore.
Il suo calco linguistico
imprime la mondanità
e il suo estro bizzarro insegue
il carro dei poeti latini;
contende loro il metro
nell’eterna fuggitività
dello spazio/tempo.
Suo è il neoclassicismo vivo
marmo che incarna il verso
e non diviene mai stucco.
Elio è infine poeta di poeti;
con garbo ci prende in giro
e per noi non è cosa da poco
essere privilegiati soggetti
dei suoi sfrecciati cammei.

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Biancamaria Frabotta (1946) POESIE SCELTE Da Mani mortali (Mondadori, 2012, pp. 158, € 15); La viandanza (1995); Terra contigua (1999); Il rumore bianco (1985) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – “La poesia nell’epoca del balenante selfie”; “Il genere monologico post-lirico”; “La prepotente psicologizzazione del linguaggio poetico”; “Un registro lessicale che comprende l’alto e il basso, che fa convivere il prosaico e l’umile con il sublime”; “La ristrutturazione della forma elegiaca”

città Hamburger Bahnhof

Hamburger Bahnhof

Biancamaria Frabotta è nata nel 1946 a Roma, dove insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università “La Sapienza”. Negli anni Settanta ha partecipato al movimento femminista con ampia attività pubblicistica. Autrice di saggi e di varie opere di critica letteraria, ha scritto un romanzo: Velocità di fuga (Reverdito, 1989) e Quartetto per masse e voce sola (Donzelli, 2009); opere teatrali:Trittico dell’obbedienza (Sellerio,1996) e radiodrammi. Ha curato l’antologia di poesia femminile italiana dal dopoguerra a oggi Donne in poesia (Savelli, 1976) e l’antologia di saggi e di testi poetici Poeti della malinconia (Donzelli, 2001). Ha pubblicato le seguenti opere di poesia: Effeminata (Geiger,1976, con una Nota critica di Antonio Porta); Il rumore bianco (Feltrinelli, 1982, con Prefazione di Antonio Porta); Appunti di volo e altre poesie (La Cometa,1985); Controcanto al chiuso (Rossi § Spera Editori,1991, con disegni e litografie di Solvejg Albeverio Manzoni); La viandanza (Mondadori, 1995, Premio Montale); Ne resta uno (Il Ponte, 1996, sedici haiku, con sei incisioni di Giulia Napoleone); Terra contigua (Empiria, 1999); La pianta del pane (Mondadori, 2003); Gli eterni lavori (San Marco dei Giustiniani, 2005); I nuovi climi, (Brunello, 2007); Da mani mortali (Mondadori, 2012).

E-mail:    bfrabotta@libero.it

città Tomas Saraceno

città Tomas Saraceno

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Per parlare bisogna essere in due», scriveva agli inizi degli anni Venti Vasìlij Ròzanov.* Non è una boutade ma una constatazione di fatto e, del resto, sempre lo stesso scrittore scrive che «per chi è solo non esiste interesse perché per averne, bisogna essere in due».

Ho iniziato con questa citazione di Ròzanov per indicare la paradossalità in cui si è venuta a trovare la poesia post-lirica dopo la crisi del Sessantotto in Italia. Una forma-poesia, quella del post-ermetismo è venuta definitivamente a cadere. Con Trasumanar e organizzar del 1971 la poesia di un certo tipo, di tipo pubblicistica, diciamo, è venuta meno, ha perso terreno; lo stesso Montale, il padre della poesia italiana, con Satura (1971) cambia registro, cambia le carte in tavola e ci consegna una poesia del privato, del quotidiano e delle occasioni. Fortini continuerà per la sua strada, nel 1994 pubblica Composita solvantur, ma rimarrà sempre più un isolato, però anche nella sua poesia penetra, osmoticamente, a lungo andare, il privato e il personale. Amelia Rosselli (1930) nel 1963 pubblica Variazioni belliche, e Andrea Zanzotto pubblica La Beltà nel 1968, ed appare evidente che lo sperimentalismo dà i suoi migliori frutti al di fuori della propria compagine di scuola. Lo sperimentalismo, dopo il ’68 entra in crisi irreversibile e rimarrà in piedi soltanto presso epigoni di secondo piano. Questo il quadro. In particolare, la poesia di Biancamaria Frabotta, dagli esordi degli anni Ottanta ai nostri giorni, preferisce dissodare il genere monologico post-lirico dove il «chi parla» è un solitario, una persona massa che ci parla della propria monadicità. Il paese è cambiato velocemente, il ’68 si è decomposto e dissolto nel buio della lotta armata e negli anni bui. All’impegno civile e politico è subentrata l’euforia consumistica, il disimpegno e il ritorno al privato. La poesia diventa un atto liberatorio, di fede, è stato detto, di partecipazione individualistica all’agorà. La nuova poesia degli anni Ottanta recepisce  la mutazione genetica degli «oggetti» e del linguaggio relazionale, posa l’attenzione sul ripristino della forma elegiaca opportunamente ricorretta, introietta le vicende del vissuto, del privato e del quotidiano. Sorge, in definitiva, una diversa linguisticità ed una nuova sensibilità per la lingua della poesia nella misura in cui l’interlocutore pubblico della poesia diventa sempre più rarefatto e sfuggente e il suo pubblico si assottiglia e tende ad essere circoscritto al pubblico della ristretta cerchia della poesia. La poesia della Frabotta si è trovata, da subito, fin dagli inizi, dagli anni Ottanta, da Il rumore bianco (1985), ad apprestare una sensibilità particolarmente attenta alla problematica del «rumore» di un certo tipo, e precisamente «bianco», quel particolare rumore che nasce dal rumore di tutti i colori del nostro mondo, dalla promiscuità dei linguaggi e dei rumori di tutte le emittenti linguistiche. È un merito della poesia della Frabotta che essa recepisca, in consonanza con i tempi, questo nuovo fenomeno dei linguaggi proprio della nuova civiltà mediatica. Un altro aspetto tipico del registro stilistico e lessicale della poesia della Frabotta è la prepotente psicologizzazione del suo linguaggio poetico e la assimilazione entro la propria contestura stilistica del linguaggio del quotidiano, il linguaggio di tutti i giorni. Questo direi che è stato, grosso modo, il filo conduttore della poesia frabottiana dagli anni Ottanta ai giorni nostri, e questo tragitto è ben visibile in quest’ultimo volume che riunisce il lavoro degli ultimi dieci anni.

La gran parte della poesia contemporanea, la parte intellettualmente più recettiva, ha dovuto prendere atto di questa direzione di marcia macro poetica. Ma c’è un distinguo da fare, la differenza di fondo è che è stato il romanzo, per il tramite dei suoi vari generi, ad occupare lo spazio lasciato scoperto dalla poesia; e questo fenomeno avrà un peso sempre maggiore sulla poesia italiana di questi ultimi decenni. Ma questo è già un altro discorso.

È passato quasi un secolo da quando il grande lirico Boris Pasternak lodava le qualità poetiche di un asettico elenco di orari ferroviari, e due secoli da quando Stendhal raccomandava la lettura del Code Civil. Ad ogni mutamento di civiltà occorre reimparare a ri-nominare le cose, a dialogare con il lettore tramite il discorso con l’Alter Ego. In fin dei conti, il romanzo, la poesia, intesi come generi letterari, altro non sono che strumenti che consentono la sempre nuova ridefinizione del dialogo delle cose e con le cose. Ridefinizione nel senso di capacità e perspicuità della costruzione di codici linguistici e stilistici più idonei alla rappresentazione di nuovi «oggetti».

Se leggiamo una poesia emblematica di quest’ultimo libro di Biancamaria Frabotta avremo chiaro il valore del ripristino e della ristrutturazione della forma elegiaca posata però su un calco metrico che oscilla dal settenario al novenario, fino a punte di un verso atonico di quattordici sillabe; con questa opzione metrica la composizione assume un respiro più mosso e articolato che non se fosse stata scritta in un metro più regolare. È l’imprevedibilità del calco metrico che dà il senso del tempo che passa ed è passato. L’elegia sta tutta qui, deve dare il senso del tempo trascorso, indicare una distanza. Il lessico è scelto tra quello basso, di uso comune, con punte espressive sugli aggettivi in funzione avverbiale (azzurranti, palpitanti, affioranti, taglienti) che funzionano non da rafforzativi o da qualificativi del sostantivo (non solo) ma anche come modalità avverbiali e come semafori fonici di richiami e di rimandi tra suoni che si ripetono e si allungano sulla superficie della composizione al pari di un refrain di un pezzo musicale dove acquistano valore le durate, più che i timbri, le lunghezze di ogni singola nota più che la successione delle note. Si notano scarti e lacerti del linguaggio montaliano (sottoripa, di frodo, odoroso di calcina) ma come fusi e sfusi in un campo elegiaco molto distante dall’ologramma stilistico di Montale.

biancamaria frabotta cop da mani mortali

Quando arrivo
se ne è appena andata
come una persona
imperfettamente amata
che posa a terra a fatica
la valigia discesa, un piede
ancora sul gradino del treno
esitante e nel cuore la luce
del mare feriale
le gallerie di colpo senza
golfi, seni azzurranti, rive
mancate come ragazze viziate.
Quando arrivo
scompare sottoripa, di frodo
fra razze di spalla palpitanti
come fosse imminente il riscatto
e le figure non finite sul selciato
odoroso di calcina e carname
la città che i poeti hanno veduta
pettinata contropelo sul monte
la funicolare che porta
dove comincia la morte
e al porto, fra i pescicani
affioranti la fame dalle vasche
– ma dov’è l’Italsider, il peso
immenso dell’operaia decenza
dove la città eroina avvolta al risveglio
nella carta velina? Oh Giorgio, mio caro Giorgio
quale nuovo disastro è ora nell’alba
fra nuvole dissolte e rifatte poco in là
eguali, come Allah vuole, che il cosmo
ricrea ogni attimo che muore.
Quando arrivo
è passato molto vento fra i moli
fra gli orienti improvvisi
i turisti clandestinamente
importati d’inverno con tenere vesti
d’estate, attillate, solcate negritudini
sui passi sillabati dai tacchi taglienti
quando arrivo, trafitta
capitale delle rovine d’Italia
pupilla che grigiamente sbianca
pur di non somigliare a sé stessa
risanata Genova che mi fai male
e piegata mi colpisci al petto.

Biancamaria Frabotta, a proposito del titolo, La viandanza, di un suo libro, scrive:

«Sin dalla prima infanzia impariamo, senza discutere, a dare un sesso a tutto: persone, animali, cose e concetti. Il Sole, la Luna, il Soggetto, l’Anima hanno messo in noi radici profonde. Quasi serbassimo la remota memoria di quello che imparammo immersi nel liquido amniotico dove galleggiavamo come pesci fra fonde risorgive di balbettii dimenticati. Le parole cominciarono a fluire alle labbra più rapide dei concetti che si formavano nella mente e talvolta per qualche misteriosa ragione femminile fanno ressa nella gola occludendola con un ostinato silenzio. Divenni femmina, nel linguaggio, prima che nel corpo. Affeminata, appunto, sfrontata distorsione di senso, provocazione, proterva venuta alla luce. Mia prima plaquette che mi facesti tremare i polsi… Parlare a vanvera mi sembra oggi meno pericoloso che pensare a vanvera. La parola “viandanza”, per esempio, apolide e intrusa in quanto alla grammatica, navicella di lungo corso nel gran mare dei simboli classici (homo viator, wanderer, nostos o naufragio, identità o perdita) danzando per la via, mi dette un’anima. Al corpo ci pensò natura, il tempo gli mise l’orologio al polso. Con chi prendersela ora se il cuore perde qualche colpo, l’anomìa apre lacune nel cervello? La poesia, come una madre pietosa, raccoglierà le spoglie delle sue creature. Cosa volete che vi dica più di questo nell’epoca del balenante selfie? Qualcosa che illumini il buio e duri più dell’attimo dello struscio del dito sullo schermo?».

In quest’ultimo libro la Frabotta ha messo a punto un ventaglio lessicale più ampio e più composto di quello contenuto nei precedenti libri e un registro metrico più mosso e variegato rispetto, ad esempio, al libro del 1985, Rumore bianco; e questo risultato è da ascrivere alla progressiva acquisizione di un linguaggio che ha saputo intercettare i mutamenti della lingua di relazione e della storia, un registro lessicale che comprende l’alto e il basso, che fa convivere il prosaico e l’umile con il sublime: «i cavoli, i carciofi fra i narcisi». È stato un lungo percorso che ha portato la poetessa romana ad attraversare le esperienze stilistiche ricomprese in La viandanza (1995) e La pianta del pane (2003), libri nei quali si chiude la fase delle problematiche dell’autenticità legate alla vita affettiva e familiare, per affrontare, con quest’ultimo volume, una poesia dallo spettro tematico più vasto e stilisticamente di maggiore difficoltà operativa che innesta il tema dell’autenticità nella tematica della attenzione alla natura e ai suoi ritmi. Tipico di questa attenzione alla natura è il frequentissimo inquadramento dei personaggi in un ordito naturale come nella poesia che segue, con quelle ombre indecifrabili che si insinuano nella apparente chiarità della natura.

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Biancamaria Frabotta

Da Mani mortali (Mondadori, 2012)

Da quell’isola erbosa
solo tu mi telefoni
uomo di poche parole.
Nella bruma di voce
ripete un nome il buio
serrato dentro un pugno.
E rotola dentro me come un tuono
il tuo scarno commiato
da quella remota propaggine
d’Impero, dove volontariamente
alla vista degli amici vivi esiliato.
Ora non resta altro che il sangue nel viso.
Dici. Bianca. E io, Marco. Dove siamo?
Fra persone e fra luoghi non più comuni
a metà strada una spenta lingua sussurra.
Oh patria che lasci andare via i tuoi poeti!

***

Entrando nel campo cercai
le roselline selvatiche nella rete
gli iris infestanti, i papaveri
i gelsomini bianchi e dopo,
i cavoli, i carciofi fra i narcisi,
sull’arancio ferito i grappoli
profumati della zagara.
in terra giaceva l’edera vizza
screziata di morte lumache
eppure, scriveva Bernardin
non tutto era stato ucciso
dalla terribile severità di quell’inverno.
Ancora, in stile fiorito, il suo giardino
godeva di tardive, ma robuste violette
promesse di fragole e primule, risalenti
filari e tracce di linfa nei peri.
In verità le viti cominciavano
appena ad aprire i germogli.

***

Nell’estate del duemila e tre
tutto si prosciugò silenziosamente.
Un meraviglioso azzurro puntato
su di noi come un’arma radiosa
premeva i piedi sul suolo, spruzzava
di calce le pareti, entrava, senza
nemmeno una goccia di pioggia
anche di notte
dentro i nostri occhi spalancati.
Dal tronco del melo colava pece nera
e a febbraio bisognò abbatterlo intero.
Il fico si salvò scrollandosi di dosso
la veste lieve delle foglie assetate
e a luglio cogliemmo fichi secchi
da terra, come fosse Natale.
La siccità portò via anche due peschi
che si erano avviticchiati l’uno all’altro
all’insaputa di tutti, in un solo albero da fuoco.

***

L’inverno del duemila e sette
saltammo l’inverno.
Come in un capriccio di Goya
l’autunno cominciò e non finì
se non, a primavera, con le mosche
che non erano mai morte, dentro
uno specchio inquieto e velenoso.
I cittadini quasi non si accorsero
del premeditato tepore
immersi com’erano nel
traffico delle loro imprese
quotidiane – solo qualcuno
talvolta
si svegliava di notte
con un piede più gonfio, coi
capelli scomposti, per quanto
tagliati di recente, le bluse
dei pigiami arrotolate sui vetri
o in totale nudità sotto i piumoni.
In campagna ogni gemma soffriva
nel falso turgore dei getti traditi
dal sole caldo di quelle giornate
che dai prati emanavano una
intraprendente erba incolore.

 

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Biancamaria Frabotta foto di Dino Ignani

da Il rumore bianco (1985)

La mela m’insegni è doppiare la metà di sé.
La vita mi insegni è gli spicchi della mela
la meta dell’incresciosa circostanza
lo specchio che doppia il capo della buona speranza
la testa sdoppiata da una nebbia passeggiatrice
due metà in una,la mela intera, una copula di cattivo gusto.

Erosione dell’utopia o rigore della pazienza ?
Rispondere è sostituire il bianco al nero.
Prova tu che ami il disordine
delle tinte, le onde morte dell’etere
léccane il nero di grassa dolce colla
e sulla lingua spergiura ti resterà neo nata
l’altra metà della domanda, l’inesprimibile bianco
(non la domanda ma la risposta è il nostro nobile privilegio)
essere leggibile per tutti e per me indecifrabile.

a adelaide

Come deve farsi esile,minuta la vita
nel filo scabro di un rigo di poesia,
non come una giovinetta tuffarsi
ma si assottiglia fino a sparirsi
a tradirsi, non il collo maudit
di Ade che ride sotto il cappello
ma un’ode minore, minima,un soffio
eppure una bara per le tue movenze
di felino domestico, pulcino danzante,elegante
non chiedermi più, accontentati
la metamorfosi delle tue forme leggiadre
mima, perdonami :è mimesis anch’io.

Ho un buco nel mezzo della testa
che non basta la bussola
per il vento che ci fischia.
Ieri avrei detto :è la croce dei venti
il nido cilestrino dei monsoni.
Oggi certo me l’ha sparato un amico
un cecchino che pratica l’arte del rattoppo.
Chi ha aperto questa falla nello scafo ?
Aria e acqua fanno a gara.
Più cedevole agnella non c’è per la tua pasqua.

E io mi compro gli stivaletti
neri come la notte e con alti tacchi
per mettere la testa fuori dalle nuvole
per svelta correre nella pioggia del natale
e le raffiche di questa maladolescenza.
E io ti mostro gli stivaletti
attillati per scendere dalle sublimi vendette
dalle mobili scale del metrò e tu già ridi
di questi stivaletti
che mi portano dritta all’inferno giù fino a Dio.

Bianca Maria Frabottaph©campanini-baracchi

Biancamaria Frabotta ph©campanini-baracchi

da La viandanza (1995)

Appunti di volo, III
Dell’allarme pur sempre possibile
ma poco probabile nell’ora
che curva inchina il fianco
a più mitigate speranze di quiete
intendo solo il tremito
di chi mi resta a lato nonostante
anche il sibilo sia poco credibile
così perso in un rigo d’aria sbilenco
e un’alba così finta
e flebile da svanire
nel ventre sterile del grifo.
Soltanto il decollo aumenta i nostri battiti.
Volendo, potremmo,volando,toccarci i gomiti.

Post coitum test
Perfino un voto e intorno a me il vuoto
ma nulla valse a scalfirlo
quello splendido utero senza costrutto
quel cavo oscuro imbuto che così
strenuamente tenne testa
al capitombolo innamorato del tuo codino
pavoneggiante.
Eiaculato limpido,viscosità normale.
Soltanto la reazione si dimostrò alcalina
ma la vitalità spenta in quell’ora dura
risorse e ancora dura…
E dire: sarebbe nato un così bel bambino.
E invece: nemmeno fosse un serpente
da addomesticare
un sibilo lungo di vento confuse nei mari mossi
del grembo il tuo biondo vanto di generare.

Miopia
Mi presti i tuoi occhi per guardarti?
A chi negheresti una lente nitida sul mondo?
Sui denti scoperti l’urto dell’acqua lustrale
il rimbalzo fra i rami di un volubile raggio
sotto la gronda una rissa di colombe native.
Chiunque vorrebbe i tuoi occhi per guardarsi.

da La vita sedentaria

La sogliola

Greve asimmetria che mostri all’alto
un solo fianco e la portentosa migrazione
entrambi gli occhi sulla stessa banda schiaccia
e con ardua compressione
il mare ti lavora ai fianchi
la coda ti si accorcia e il muso
maestro agli interminabili agguati
alle sinistre ore del riposo
e alle stente nuotate, ora che
l’onda ti costringe
a strisciare adulta lungo il fondo
ricordi le ore beate della larva
la perfetta simmetria di un tempo
e la grazia del nuoto, vuoto
affiorante in superficie?

.
La viandanza

E un’inezia in veste di gala terge
la risacca, un’inerzia, pròdiga, mamma
vermiglia di vortici sei falsa calma
come l’onda lunga della riconoscenza.
Riconoscersi o congedo questa improvvida sosta
di sole che affoga? Làtita
il senso lontano dalla terra ferma
e tu dormi sul filo di lana
come lo stranito starsene dei non umani
oltre le curve dove ci pedina il tempo
e sull’orlo del campo anonimi frulli di freddo
e panico che abbagli i divieti, i binari.
Così recalcitra la fame degli erbivori.
E’ lo spavento dei passeri poveri quello
lo sgomento delle nubi al macero. Fra poco
ci staranno addosso in tanti i polipi
della città fantasma
con tentacoli e raggiri e tu, ora lesta
a provocarli, col guizzo circasso
dell’occhio, a patirli,sordida
giòvale, giovane Civitavecchia
sgarbata bilancia fra apocalisse e paese

***

smaniosa pazienza è la felicità che
incendia in lei troppe parole o nessuna.
Preda di insana genìa, Eugenia
nata De Falchi, o insensatezza
di un nome rapace o insensatezza
di un nome ben nato
e se il volo non fosse un voto paterno
ma una nomade svendita di senno
e un’azzurra (che vegeto caos in questa
stazione) provvida grazia di rimozione ?
O fu soltanto pigrizia la coincidenza mancata?
Il paranoico estro di disastri all’attesa
comparti e defence
custodi e silence
it’s forbidden, non leggi?
de stationner sur la passerelle
e à l’occurance
togliere il piombo
ruotare il vetro
premere il pulsante,ma bada
sarà severamente punito
l’abuso dei tuoi sontuosi capricci
futuri nutriti sui lidi di Caravani
di parche cartate di cozze
primizia del nuoto di secca
di granchi traversi la svogliata trafila
spiando tra le valve ora salse
di salmonella ricordi la misericordia dell’orto?
l’intemperanza della madreroccia
e nel grembo femmina il riccio
morte certa del mare (è la legge!)
brulicante d’uova arancia, e limoni ?
la misticanza invisa all’orgia pagana
di vergini lische, scorfani
e sparnocchie ancora in vita risenti
come torpida marciava alle narici l’alga
e la brama dell’altro, con inversa
ala d’ascesa, murata baldoria d’un istante
fu l’ardore di chi ti corresse
– Non si dice salisco, ma salgo
e tu che non soffri cavezza,coraggio fuggendo
oltre il Villaggio del Fanciullo
la Repubblica dei Ragazzi
e Marangone
fogna a cielo aperto

***

levata al cenno delle cento
macerie d’acqua in cui nacque
l’ultima cella foriera d’anfore e rancori
dove fanno il nido le murene
e luccicano le orecchie di Venere
e intendono chi non dicendo
abbastanza ha già detto troppo
e con esorbitante assedio di giubilo smura
le labbra avare di racconti
e se nell’afa sfuma
la ciminiera più alta d’Europa
neppure tu le cerchi più le lapidi labite
dal liquame della Fiumaretta
necropoli di vivi incrementi
al fabbisogno di Roma
e non avrebbe meritato l’indulto
la pena commutata nella guazza serena
di una tomba non inquinata
chi placò gli insulti della mia tosse convulsa
e divampa in cenere l’ombra
di una carrozzella in corsa
verso la rada di Sant’Agostino
dove montava la luna della buona pesca
ai polipi e spirava lo jodio sull’indomito
falò amico ai naviganti
che un vezzoso odio eclissò e ora lo smog
amico ai benestanti? E ora
nostra cocente storia convulsa
nostra avulsa radice le tombe
fra gli escrementi navigano
con la stessa indocile fretta
che sulla fusta leggera
ti induce al fasto saraceno
di crescerti la vita d’un anno.
E che spasimo per un diffidente volatile
una sorte pellegrina nel padule! e che vandala
quando tu i sandali di pena scalzando
e di corda intrecciata nella mano sudata
stringevi la merendina di Santa Costanza
scorbutica novizia della Piazza Calamatta
fluivano scalze le pozzolane sulla Scaletta
con le prime notizie della paranza e senza
che sorpresa smarrirsi nei meandri
della Piazza Leandra dove
i morti restituiti

***

all’ebete gioco del tempo ma non tu
rapita al Pirgo di corsa e che affanno
sul tuo sandalino che fila
verso il Borgo Odescalchi
dove rabida nobiltà di veli, paglie e corde
si spegne nel vuoto delle cabile
Santa Fermìna al martirio
palma alla dritta, galera a sinistra
ti insidia ora un tenente
un serpente in piedi, la corona in testa
e nel petto smilzo timida alla sbarra
quella notte fosti tu la più bella
tra le svelte acque della Ficoncella
e le tronfie in lungo a libare
succo di viti tedesche, o vita
vita tua sottile
che il gerarca corrotto cinse di raro
vanto di provinciale grazia e ritroso
non per coscienza ma per innocenza di classe
millenovecentodiciassette
riarse un rigoglio cremisi sul fianco
il fiocco, le maniche a sbuffo
e perfetto ruotava sopra il ginocchio
il taffetà tagliato a teletti
a scorno delle ricche Guglielmi
Giovannelli
d’Ardìa Caracciolo
o Rodano Cinciari
oh come vagano semplici in mente
i nomi dei tuoi primi tormenti
oh come risalta nella prossima notte
la torcia del tuo eretico orgoglio!
Poi l’Ottimo Consiglio
del millenovecentoquaranta
non portò i suoi figli in salvo
sui monti della Tolfa, ma
canicola,canizie, canile
e stillicidio di polveri
croste,ghetti e l’inverno
che inferno affacciarsi
sulla mole del Lazzaretto Vecchio!
Là i vincitori (giurarono i vinti)
giocando a palla, venivano a galla
i teschi dei frati tra le bombe
miste alla pioggia e di salso prodigio

***

tutte le notti smontava la luna
della Buona Morte ai polipi e agli òmeri mozzi.
Oh cimitero disperso fra le vasche
di sterile letame,annegato
nell’olio, nell’oblìo che
una petroliera dispensa dal largo
troppo fondo al porto lo scafo
troppo tagliente la chiglia
e che lago melmoso questo scavo
senza bisogni, questa vetrosa fronte
del treno che ci trascina
oltre le argille della Ripa Alba
e tutto è da imparare ormai
a danno,mamma, e se ne vanno
nella cavità dell’aria che grave
ora rimuove
i fumi di un’infanzia ormai appena visibile
come nei polmoni l’ombra di una trascurata influenza.

biancamaria frabotta 3

biancamaria frabotta

da Terra contigua (1999)

Il gomito di Majakovskij
Passava a frotte la spenta gente stanca.
Nessuno ti sapeva più. Nemmeno una reliquia
in quella casa che dà le spalle alla Lubianka.
E ancora bruciano le stelle, anche le più restie alla ressa
nella fosca festa dei tuoi occhi. E sopra, un raro cranio
vestito a zero perché la Storia non vi trovasse inciampo.
Cadeva neve sopra altra neve assente
e la Moskova accanto, come vasta acqua affranta.
Vari passanti stupivi. Radi borghesi .E colombi.
Trovando non voluta requie, e poco altro infine.
Il poco del bene disperso dall’uso perverso.
E non la tua candida propaganda. Non il candore delle genti.
Impietristi dal gomito alle stelle. Ma se cuore di poeta
batte nella pietra, svegliatevi cuori di pietra !
Bimbe baccanti fate a brani la sua blusa gialla !

***

All’officio dei pii, all’odio degli ignavi
(ad altri tolse lena la neve più recente)
levasti il pugno d’anni che ti perse.
Oh come pesa il peso sulle nostre spalle
ché piena luce poca luce aggrava. E noi
patémi ed elettroencefalogramma piatto.
Fortuna che venni tardi al crollo
e più non volli fiutare la tua ora
come cane che in macerie raspa.
Ora scivolo in te come in un sogno
d’erbe alte e verdi dove legge
d’amore è andare, leggeri di speranze
e leggerti all’ombra d’una folta schiera.
Batte il sole una pietra senza tempo.
I poeti muoiono sempre in tempo.

Cose chiare
Mio marito ha un cuore generoso
come il dio che dona il primo verso.
La notte non tira le coperte
sul petto non pungono i suoi peli
e la mattina vorrebbe unirsi al coro
anonimo che sole e fame assilla.
Mio marito diffida delle ore scure
e al suo cospetto io mi vergogno e anche
di vergognarmi mi vergogno.
Mio marito diffida delle cose oscure.
Così per amor suo io cambierò stile
e per lui terrò in serbo cose chiare.

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CONSIDERAZIONI SUL MINIMALISMO IN POESIA di Valerio Gaio Pedini  Poesie di Raymond Carver, Vivian Lamarque, Deborah Žerovnik con un Appunto di Giorgio Linguaglossa “L’invasione del minimalismo”

Eidetica

Eidetica

È inutile parlare della – per così dire – “piega” che ha preso la poesia con l’avvento del minimalismo: ma se l’arte è superflua, allora anche la critica è superflua. Se l’essere umano vive del superfluo, allora anche la critica diventa necessaria.

Il minimalismo nasce, si dice, negli Stati Uniti. Nasce? Come se una scuola poetica e artistica possa nascere? Va bene, i critici sono sempre soliti umanizzare la letteratura, quando invece, proprio anche grazie al minimalismo, la letteratura è diventata ciò che -si dice- debba essere: design. Ed è questo il problema, la crisi che la critica millanta.

Ma quando si parla di «crisi», non si spiega l’etimologia, si dice «crisi» così, senza rendersi conto che poi «crisi» significa scelta, criterio e, forse, necessità. Per andare avanti c’è bisogno di «crisi». Fa un po’ di pulizia nel suo essere fossile. Oggi la crisi è il minimalismo. E per quanto ci possa piacere, dobbiamo renderci conto che è un linguaggio, un modo di pensare, un linguaggio che entra fin da subito nell’archeologia della parola. Il problema dell’emozione – abilmente retorizzata – nel minimalismo è che essa è momentanea, legata al presente e la poesia diviene un luogo comune, uno spazio liquido, subito da gettare.

Raymond Carver

Raymond Carver

Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica  su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che  significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio.  «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare. Ecco tre poesie di Raymond Carver:

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.

.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”

.
La poesia che non ho scritto

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.

 Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano.

Vivian Lamarque

Vivian Lamarque

Una poetessa italo-francese farà di lì a poco un esercizio più spicciolo, più brutto, più retorico, più banale, più zuccherino, più ovvio: si tratta di Vivian Lamarque, che tanto è stata ammirata per il suo lirismo semplice ed emotivo. Delle composizioni così retoriche da far rivoltare nella tomba persino Cicerone. Ma Vivian capì tutto: ci avrebbe guadagnato e presentandosi come una non poetessa, una donna semplice, pensosa che rigettava stati d’animo “complessi”. È così diventata una poetessa cardine del ‘900. La capacità di intenerire. Ecco tre poesie di Vivian Lamarque:

 Caro albero meraviglioso

Caro albero meraviglioso
che dal treno qualcuno
ti ha tirato un sacchetto
di plastica viola
che te lo tieni lì
stupito
sulla mano del ramo
come per dire
“cos’è questo fiore strano
speriamo che il vento
se lo porti lontano”.
Ci vediamo
al prossimo viaggio
ricorderò il numero
del filare, il tuo
indirizzo, ho contato
i chilometri dopo lo scalo-merci
arrivederci.

da Gentilmente (Rizzoli, 1998)

I mattini ghiro mio


I mattini ghiro mio

come vorrei che tu imparassi ad amare i mattini
soffriresti meno ad alzarti forse
se da te fosse come qui
che quando apri le finestre
subito hai lì alberi perfetti
immobili ma a guardare bene
con anche un punto dove le foglie tremano
per un uccello appena volato via
al rumore della finestra
(o forse ghiro mio avresti sonno lo stesso).

*

Se sul treno ti siedi al contrario
con la testa girata di là
vedi meno la vita che viene
vedi meglio la vita che va.

da Poesie 1972-2002 (Mondadori, 2002)

E così, fra emozioni, digitalizzazione, opinioni, esempi, salotti e soprammobili il minimalismo diviene pane per i denti dei poeti e degli editori della necro-editoria.

La poesia italiana diventa (nulla di autentico rispetto agli albori di Carver), un nastro trasportatore di minimalisti: Valerio Magrelli, Maurizio Cucchi, Davide Rondoni, Vivian Lamarque, Biancamaria Frabotta eccetera, faranno propri gli stilemi del minimalismo, ne adotteranno la formula vincente secondo le proprie necessità, ne svilupperanno le tematiche ciascuno con le proprie direzioni di ricerca. C’è chi si concentra sulle emozioni vissute (Cucchi), chi sui bambini (Lamarque), chi fa poesia sull’opinione e diventa un opinionista letterario (Magrelli).

Fortunatamente, l’Italia respira aria fresca in alcuni minimalisti isolati quali Calamassi, che si evolve e, come un angelo, si stanca e inizia a planare sul mondo, incolpandosi dei mali del mondo. Lì Calamassi, dopo 30 anni, ristruttura tutta la sua poetica minimalista concettuale e diviene sociale. Una poetessa che si muove da sola nel suo minimalismo è Mariangela Mascia: testi lineari, semplici, “ignoranti”, la incoronano e fanno del suo minimalismo una specie di commento dedicatorio agli altri. Con la poesia ignorante Mariangela Mascia si dona. E per quanto la possa criticare male, arriva al punto di aver compreso, senza copiature il minimalismo.

alfredo de palchi

alfredo de palchi

Alfredo De Palchi, invece, de-costruisce un minimalismo spirituale, intimo, dissacrando la lingua, oggettivandola, scheggiandola, ribaltandola per renderla irriconoscibile. Diverso invece è il discorso di poetesse quali Deborah Žerovnik, in cui la dimensione tra sacro profano diventa un modo per portare alle estreme conseguenze la formula vincente del minimalismo. C’è ancora spazio per uscire dal minimalismo retorico, dobbiamo però capire quale. Ecco due poesie di Deborah Žerovnik

Deborah Žerovnik

Deborah Žerovnik

 Deborah Žerovnik

Non è mica vero che Gagliarda è la pecora bastarda…
è colpa del pastore che gli tira le tette a tutte le ore
e lei per dissenso, nel secchio del latte, ci caga e ci piscia
per render il pecorino di sapore abietto, mica per, al pastore fare dispetto
ma al gregge far capire cosa è, di rispetto, il concetto… Stella e Albina belano in coro:
“Gagliarda…non si fa, non ci si comporta così in società” ma lei di tanto belare si è rotta il cazzo
“belate così perché siete Merino, pecore dal pelo fino…le tette il pastore non vi tocca, chiudete la bocca…
voi sciocche non avete capito, chi se ne fotte del pelo grezzo o pelo fino, ciò che deve disgustare è il pecorino.
Se non mi credere chiedete a Selma, la pecora Awassi da coda grassa, che di figli fornisce il Kebabbaro, il dissenso non deve essere un evento raro!
Per lei, prenderlo in culo sarebbe gran rivoluzione, non importa se a secco o lubrificata basta non finire come carne da grigliata.”
Poi arriva Adolf il montone frisone, con svastica tatuata sul coglione, lui di pura razza nella figa ci sguazza, e belando riporta il gregge alla disciplina:
“ Il lavoro, il lavoro libere vi renderà, e quindi, che ve lo dico a fare che a pecorina dovete stare…
einz, zwei, drei… tutte in fila ben allineate, e chi si rifiuta già lo sa, che come carne da macello finirà”.

La mia macelleria

Ho un impatto incompatibile
Devo sbarazzarmi di questo disagio
vuole essere me
mi guarda negli occhi
e vuole vedere tutto
ma io ho diritto alla sofferenza
questa è la mia macelleria
piena di dense nebbie dei torti
giorni bui
poliziotti sporchi
puttane
junky
un tavolo a tre gambe
senza nessun chiodo
dove invoco lentamente
giorni di orgoglio e gloria
e svantaggi dell’attuale
che la norma non ha sollevato
dal essere mascalzoni,ladri e devianti
sotto il palazzo di giustizia bombe
e poi pregare Dio per formare una famiglia
perché le promesse sono a buon mercato
ma quanto basso è giù?
ora che le utilità sono altre
mi dicono nulla
tranne che potrebbe essere peggio
ma non so stare di fronte al sole
alzare la testa e vedere la luce
mi perseguita il male
e ho diritto al dolore
dicono che si può cambiare il mondo
però i miei sogni sono andati a male
è la mia macelleria questa
durante la mattanza
ogni osso va rimosso.

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Appunto di Giorgio Linguaglossa: l’invasione del minimalismo

 Una riflessione in questa direzione è presente in Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra Conformismi e Nuove proposte pubblicato nel 2003;[1] il libro raccoglie – ho scritto nella prefazione al volume  «una ampia selezione di articoli, stroncature, recensioni, spunti di riflessione pubblicati quasi integralmente sul quadrimestrale di letteratura «Poiesis» dal 1993 al 2002. Qualche altro scritto, come quello su «Dante e Petrarca», è apparso sulla rivista internazionale di letteratura «Hebenon» (n. 5, aprile 2000); così come anche il saggio «Appunti per la costruzione della nuova poesia», è apparso su Linee odierne della poesia italiana a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio (Quaderni di Hebenon, n. 7-8 ottobre 2001). Si tratta di cavalleria leggera, azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni, condotte in solitaria esposizione e nella convinzione, un po’ donchisciottesca, di pungolare ai fianchi le istituzioni letterarie costrette e costipate in una generale epidemia di conformismo e di elefantiasi. Nella scelta ho privilegiato quegli scritti che avevano un diretto e immediato riscontro con i testi dei poeti contemporanei, e che sono stati redatti, diciamo così, nel fuoco della controversia, lasciando i saggi più propriamente speculativi ad altra più idonea occasione di pubblicità”. Si tratta di un vero e proprio “bombardamento a tappeto degli adiposi conformismi che hanno intorbidato gli anni Novanta».[2]

Ovviamente, la pars destruens precede la pars construens, poiché, come ha scritto Enzensberger in un famoso saggio del 1960: «L’inverso di ogni distruzione della poesia è la costruzione di una poetica nuova». Il volume, che consta di ben 320 pagine, è «strutturato secondo due grandi categorie estetiche: a) la belligeranza del Tramonto e b) tra Modernismo e post-modernismo, precedute da un’area di conflittualità cui ho dato significativamente il titolo di tra Egemonia e isolazionismi, nella quale sono ricomprese posizioni ‘statutarie’ come quelle di Eugenio Montale e di Giovanni Raboni e posizioni ‘isolate’ come quelle di Amelia Rosselli, di Alfredo De Palchi o degli «invisibili» Maria Rosaria Madonna, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Roberto Bertoldo, e altri significativi poeti contemporanei come Daniela Marcheschi, Patrizia Valduga, Luigi Manzi, Laura Canciani, Giorgia Stecher. Questa sezione è seguita da quella denominata l’Egemonia del conformismo, una spregiudicata serie di analisi di autori: Jolanda Insana, Biancamaria Frabotta, Vivian Lamarque, Gianni D’Elia, Albino Pierro, Mario Lunetta, Edoardo Cacciatore, Antonella Anedda  fino ad arrivare a delle messe a punto critiche su poeti di taglio elevato come Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti e Maria Luisa Spaziani».[3] Dalla visione tragica di Amelia Rosselli (La libellula è scritta nel 1958 ma viene pubblicata in volume nel 1969 come parte di Serie ospedaliera, mentre Variazioni belliche è del 1964) alla «poesia da cabaret» di Valentino Zeichen, si snoda una interminabile foce epigonica che ha finito per prosciugare qualsiasi voce e qualsiasi sussulto di criticità della poesia del tardo Novecento.

Il retroterra del minimalismo lo si può misurare tenendo presente la distanza, per così dire, che separa la «visione tragica» della Rosselli dalla sua carnevalizzazione messa in atto dal poeta di Fiume e dalla infinita schiera di «poete» che tentano di imitarne il registro stilistico.

Da questa distanza emerge, senza equivoci, la caduta perpendicolare della poesia italiana del tardo Novecento. Il risultato è andato ben oltre le più funeste previsioni: si è verificata la deiezione e la cancellazione di ogni ipotesi di poesia «diversa» o divergente dal binario del conformismo poetico del minimalismo; il minimalismo, in silenzio e in sordina, ha compiuto scientemente l’assassinio della poesia italiana ponendole un bavaglio e una museruola, imponendo una irreggimentazione al nuovo conformismo. La parola d’ordine sottaciuta ma sottostante è: l’allineamento ai parametri del Modello maggioritario, non mediante l’egemonia di una scuola o di uno stile, ma mediante la imposizione di un Modello dominante e di una alleanza di fatto tra il minimalismo di adozione romana e quello milanese.

il minimalismo come deriva delle poetiche epigoniche

 il minimalismo come deriva delle poetiche epigoniche. Se gettiamo uno sguardo retrospettivo alla poesia dei due ultimi decenni, non possiamo non notare il pendio declinante di quelle che ho definito poetiche epigoniche. Cosa intendo dire con questa definizione? Intendo dire – come ho affermato e ribadito innumerevoli volte in più occasioni sulla rivista «Poiesis» – che tutte quelle poetiche che sono sorte sulla «fede» nella tecnologia dei linguaggi, sono miseramente fallite. In primo luogo, già nel concetto così ipostatizzato dallo sperimentalismo si può notare il sostrato teologico di un atto «politico»: la fede nella costruzione dei linguaggi rivelava la ingenuità teorica di tutte quelle posizioni che speculavano sulla possibilità di «costruire» i linguaggi poetici. E che tra tutti i linguaggi proprio quello poetico si sottragga ad ogni istanza di «costruttivismo», è un dato talmente palese che oggi balza agli occhi con autoevidenza assoluta. Oggi finalmente si comincia a comprendere che se i linguaggi mediati sono fungibili e costruibili, l’unico tipo di linguaggio che non si può «produrre» è proprio quello poetico; ed una ragione ci sarà pure del perché di questa «stranezza». Da alcune parti si è parlato (a sproposito) della fattibilità di un «evento» che accade ed opera in modo quasi magico, al di là di ogni interferenza del soggetto. Appare di tutta evidenza che siffatto concetto non è degno di esser preso in alcuna seria considerazione: un evento che cade dal cielo come una manna sul deserto del Sinai, rientra più nella sfera della taumaturgia che non in quello dell’estetica, e noi possiamo tranquillamente ignorarlo in quanto abitanti del secolo primo del terzo millennio. È pacifico che, alla soglia di una poetica allo stato zero, cioè alla soglia di una poetica che faccia tabula rasa della sofisticata macchinosità del pensiero estetico del Novecento, debba e possa venire riproposta la questione della lingua come questione originaria, giacché la lingua (nella sua duplice funzione: mimetica e simbolica), in quanto principio rivolto alla comunicazione di contenuti spirituali, è categoria fondante di tutta la realtà.

[1] Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra Conformismi e Nuove proposte Coed. Libreria Croce, Scettro del Re, Roma, 2003 p. 32

 [2]  Ibid. p. 63

[3]  Ibid. p. 12

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se poteteRigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicalaEssence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme LiquideScenari ignoti e Glocalizzati.

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