Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 75,5×28 cm. acrilico su tavola, 2021
Gli haiku di Tomas Tranströmer
di Giuseppe Gallo
Tutti gli haiku dovrebbero essere “profondi abissi di pensiero!”, cosi diceva Maria Cristina Lombardi, a proposito degli haiku di Tomas Tranströmer, nella presentazione ai lettori italiani di Il grande mistero, (Crocetti Ed., Milano 2011, p. 7). Un abisso ricavato attraverso similitudini e metafore, immagini primarie e secondarie, per mezzo di un linguaggio simultaneamente astratto e concreto. In Tranströmer, afferma sempre la Lombardi, “La comprensione” di queste invenzioni e metamorfosi, di questi “richiami a figure ritmico-sonore” e ad «espressioni metaforiche bimembri presuppone conoscenze di mitologia nordica perché, ad esempio, l’oro, che in quella mitologia viene designato come “fiamma dell’onda», per un lettore italiano risulterebbe incomprensibile. Ecco un haiku di Tranströmer, dove egli «cerca di afferrare gli istanti luminosi che gli rivelano nuove dimensioni di significato, squarciando l’immenso mistero che circonda l’uomo con metafore che scompongono, comprimono, fondono e ricreano» (op. cit. p. 9).
“shiragiku no me ni tatete miru chiri mo nashi
. Guardando attentamente i crisantemi bianchi– non un granello di polvere”
Guardando attentamente, anche noi troviamo che lo haiku in questione è costruito, come pure quello Tranströmer, sulla esposizione di due immagini, sulla loro interazione e sulla loro capacità evocativa all’interno della cultura di riferimento. Per noi occidentali il crisantemo evoca la morte, il granello di sabbia, l’infinitamente piccolo, l’atomo della materia e l’attimo del tempo, si pensi alla clessidra… Ebbene, in questo caso, “Bashō si sta complimentando con l’ospite (Sonome), rappresentato dai crisantemi bianchi, mettendo l’accento sui fiori e, per allusione, alla purezza dell’ospite stesso. Possiamo dunque concludere che ogni “vedere” presuppone anche una cultura. Oggi che viviamo in un’epoca in cui è caduta ogni ideologia, ogni barriera e ogni distinzione tra i piani linguistici e le forme dei pensieri, tutto sembra cadere nel caos dei fenomeni, delle ambiguità e del paradosso. Ogni immagine non è più immagine di se stessa, ma di altro e lo stesso “principio di identità”, ormai è un principio in disuso, mi viene da chiedermi: cos’è la metafora? Che rapporto esiste tra la metafora e l’immagine? “Di che materia sono fatte le immagini?” Chi viene prima, l’immagine o il pensiero? Che funzione svolge, la metafora, all’interno della forma haiku? Ricordate l’interrogativo di Shakespeare: “Di che materia sono fatti i sogni?” La domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci, insieme a Tranströmer, di che materia sono fatte le parole? E perché il mondo ci appare come “un grande mistero”? E’ il mondo una immensa metafora? E perché la metafora sorregge le nostre domande e le nostre risposte? Perché la metafora elaborata in un presente, momentaneo e fugace, scompiglia il fluire del tempo, incidendo il passato e preconizzando il futuro? È la metafora a veicolare la poesia o l’arte in genere?
“In fondo, volendo essere radicali,” afferma Gianna Chiesa Isnardi “la parola stessa non è forse metafora della realtà,…?” (T. Tranströmer, La lugubre gondola, a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Bur Rizzol, 2011, p. 97) E tale realtà non è data dalla parola? E la parola non è fondata sulla immagine che contiene? E il nostro pensare non è forse “un pensare attraverso le immagini” contenute nella parola? È evidente allora che “la metafora rinvia al linguaggio della percezione e a quello figurativo” (T. Tranströmer, op. cit., p. 98); che la metafora avvia “l’esplorazione dei legami inaspettati fra le cose del mondo e fra esse e l’uomo…” ( op. cit., p. 99); e che non ci può essere metafora senza “un secondo termine di paragone, uno specchio.” , (op. cit, p. 99). Specchio che significa riflesso di un’immagine, fusione, confusione e divergenza. In definitiva, ogni parola contiene se stessa nella duplicità delle proprie ombre, sotto l’aspetto del “significato” e del “significante”. Entrando nelle parole è come se entrassimo in quello specchio, rifratto e frammentario, ambiguo e misterioso, che è il linguaggio. Entriamo nell’ enigma. Nel vero e nel falso. In quella metafora che tenta di svelare “ciò che sta “dietro le parole” (op. cit, p.101). “Cosa sei tu, dietro te stesso?” si chiedeva Freud. Riusciremo mai a saperlo? Riusciremo mai a tagliare il nodo gordiano di questa ambigua domanda? “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188) Ebbene, cos’è “questa frattura della presenza” che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben risponde che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. Che sia la metafora la porta di accesso a questo “fondamento”? E la frattura dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il nostro linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Ovvero metafora. Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla, precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e in piena confusione per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro. Il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio in cui ci perdiamo può esserci di aiuto per l’esperienza della realtà? In effetti, tutto ciò che noi abbiamo esperito o possiamo esperire, del nostro essere nel mondo e di noi stessi è diventato, e diventa, linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale. Ecco un esempio dove la metafora svolge la funzione per cui è nata.
…. Sono trasportato dentro la mia ombra come un violino nella sua custodia nera.
L’unica cosa che voglio dire scintilla irraggiungibile come l’argento al banco dei pegni.
(T. Tranströmer, La lugubre gondola, op. cit., p. 13)
La metafora, dunque, ha la funzione di arpionare le sembianze, i realia, della natura, ridurre queste “macchie” a nostra rappresentazione, rendendole soggettive ed oggettive, nell’illusione che possano contenere, non solo il vuoto, ma anche, gli emblemi della nostra stessa esistenza. * Entrammo. Un’unica enorme sala, silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era come una pista da pattinaggio abbandonata. Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia». Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»
Il mondo è diventato un labirinto di Giorgio Linguaglossa
Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi.
* Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato. Continua a leggere →
Entrammo. Un’unica enorme sala, silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era come una pista da pattinaggio abbandonata. Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Scrive Tomas Tranströmer
nel risvolto di copertina del libro di esordio 17 poesie (1954):
«Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, cultura e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha lì’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati e concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una contro tendenza nei confronti di questo processo. Le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare».
Così chiosa Gianna Chiesa Isnardi
«Per corrispondere a questo intento occorrerà dunque un approccio completamente diverso, una diversa capacità di osservare il mondo. Non si dovrà partire dunque tanto da tecniche e strategie comunicative, quanto, piuttosto, da stimoli esterni – trascurati dalle strutture convenzionali e spesso all’apparenza incoerenti – che siano capaci di destare impulsi interiori: frammenti che infondano una ispirazione. Un atteggiamento di sostanziale passività, di ascolto e ricezione cui solo in un momento successivo seguirà l’elaborazione poetica nella quale coscienza, capacità analitica e intelletto saranno chiamati a operare. La difficoltà (il lavoro segreto del poeta) consiste in questo: far emergere questi frammenti, rivestirli di immagine, di suono, di ritmo, in una parola di poesia. Il che significa anche, forse soprattutto, creare un insieme senza falsificare ciò che in questi frammenti portatori di ispirazione vi era di originario o di poco chiaro… Il testo poetico si pone dunque come luogo d’incontro in cui si congiungono sul piano dell’accostamento orizzontale e su quello dell’intersecazione verticale da un lato le immagini e dall’altro tutto ciò che esse simboleggiano o evocano.
La poesia dunque piuttosto che un centro statico in cui gli elementi convergono verso una definitiva collocazione, è un luogo dinamico nel quale essi possono, nella loro intrinseca fragilità e mutevolezza, manifestarsi e interagire per esprimere intuizioni, visioni, illuminazioni, squarci di verità ma anche, ma anche e contemporaneamente, riflessioni sempre nuove, incertezze, ambiguità e non da ultimo, dubbi. Nella poesia di Tranströmer l’uomo sta al centro di un mondo nel quale non è più capace di orientarsi e con il quale ha perso il contatto… Una poesia dunque ‘aperta’, un’arte che si sforza di indagare l’ininterrotto fluire della vita…
Estrema semplicità significa in Tranströmer estrema concisione. la prima impressione che scaturisce dalla lettura dei testi di questo autore è infatti quella di un perfetto nitore delle figure poetiche proposte cui fanno da immediato contrappunto le riflessioni che ne scaturiscono. Pressoché totale è l’assenza di elementi non direttamente aderenti all’immagine e alla sensazione evocata e la concentrazione – che egli stesso ha definito come essenza del parlare poetico – è massima. precisione nelle scelte lessicali e strutturali, prevalenza delle frasi affermative e della struttura lineare, relativa povertà verbale, laconicità, ricorso in misura minima agli elementi connettivi del discorso, frasi talora apparentemente frammentarie, costruzioni ellittiche, uso misurato della ripetizione con l’unico scopo di ricondurre l’attenzione del lettore al punto focale della riflessione poetica, attrazione reciproca fra elementi contrastanti, ossimori, associazione (seppure non immediatamente percepibile) di immagini e conseguentemente di idee, forza espressiva della parola portata all’estremo: un’arte della concisione che risle, almeno in parte, a grandi modelli del ‘900 come, soprattutto, Ezra Pound, T.S. Eliot o il grande Harry Martinson.»*
Si tratta di un documento assai importante perché ci rivela una concezione della poesia molto distante da quello in auge negli anni cinquanta in Italia. Ancora oggi queste parole del poeta svedese suonano come un invito a cambiare la prospettiva dalla quale consideriamo il linguaggio e il mondo. È da queste semplici osservazioni di Tranströmer che nasce la nuova sensibilità che condurrà alla nuova poesia della nuova ontologia estetica.
Ancora Tranströmer
«…la musicalità delle parole nel senso che uno sperimenta con vocali e consonanti in un certo modo, non è mai stata una attrattiva particolare per me». Tuttavia, nella stessa occasione, parlando del proprio desiderio giovanile di divenire compositore, rivela: «… ma poi ci sono sempre taluni impulsi musicali, che mi arrivano e a volte ciò succede in relazione a una poesia, così c’è come una sorta di ombra della poesia che si fa avanti sotto forma di esperienza musicale. Il che io non registro ma resta là in qualche modo nella coscienza». Inoltre, il poeta svedese precisa che la musica è da lui considerata comunicare direttamente e ispirare in modo straordinario.
In un’altra occasione, dice: «Io sono stato influenzato dal linguaggio della musica, il linguaggio della forma, è difficile dire in quale modo». Qualche tempo dopo, a chi gli domandava se sentisse le limitazioni imposte dalla lingua, il poeta rispondeva così:
«Le sento in modo straordinariamente forte – e forse la mia poesia è una sorta di compensazione per ciò che in realtà andrebbe espresso in musica. «La musica mi dà sempre forti emozioni. Senza musica non posso vivere. Tuttavia io non credo che si possano trasporre automaticamente le forme della musica nella lirica… Spesso forse c’è una sorta di orchestrazione nelle mie poesie. La musica ha questo in comune con la poesia, che è uno spazio di tempo, con un inizio e una fine, a differenza delle arti figurative.»
La musica. E io resto prigioniero nel suo arazzo
*
La musica è una casa di vetro sul pendio in cui le pietre volano
*
Entrammo. Un’unica enorme sala, silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era come una pista da pattinaggio abbandonata. Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
* Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003, p 58 e segg.ti
La Lugubre gondola, composizione per violino e pianoforte. In visita a Venezia presso la figlia Cosima e il marito di lei, Richard Wagner, nell’inverno 1882-1883, List si era ispirato al passaggio di gondole funebri dirette al cimitero, e aveva tentato d di riprodurre in musica l’impressione che ne aveva ricevuta. Trauergondel fu, secondo una dichiarazione dello stesso autore, una sorta di composizione profetica in quanto qualche tempo dopo (il 13 febbraio del 1883) Wagner moriva.
Tomas Tranströmer
da La lugubre gondola (1996)
I Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner. Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.
Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima il volto una bandiera bianca. La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno e uno di andata.Continua a leggere →
Lars Gustafsson (Västerås, 17 maggio 1936 – 3 aprile 2016) è stato considerato il più internazionale scrittore svedese contemporaneo. Studioso di matematica e filosofia, poeta, saggista, drammaturgo, romanziere fra i più tradotti all’estero, e in questa sua intensa attività (oltre cento i libri pubblicati: poesie, saggi di critica letteraria, romanzi che sono stati tradotti in quindici lingue) ha ottenuto molti riconoscimenti. Nel 1996, quando ottenne il Pilot Prize (istituito per premiare con 150.000 corone svedesi chi si distingueva nella letteratura), fu descritto come filosofo, poeta, visionario. Diplomato nel 1960 all’Università di Upsala dove ha studiato sociologia e filosofia, ha conseguito il dottorato nel 1978.
È stato sposato tre volte ed avuto quattro figli dalle prime due mogli. I romanzi che gli hanno dato la notorietà a livello internazionale, è stato il ciclo Crepe nel muro di cui fanno parte cinque libri: Lo stesso signor Gustafsson (1971), La lana (1973), Festa in famiglia (1975), Sigismondo (1976) e Morte di un apicultore (1978), tutti caratterizzati da da domande esistenziali mischiate all’assurdo ad al comico. Ha insegnato Storia del Pensiero Europeo all’Università di Austin, Texas, dal 1983, anno successivo alla separazione con la prima moglie, e fino al 2006, anno successivo al suo terzo matrimonio e del pensionamento, a seguito del quale si è ritirato a Södermalm, quartiere di Stoccolma. Nel 1986 è stato fatto cavaliere dell’Ordre des Arts et des Lettres. In Italia ha ricevuto il Premio Agrigento e il Premio Grinzane Cavour.
Giorgio Linguaglossa, Praga, 20 agosto, 2018
Giorgio Linguaglossa
Considerazioni storiche sull’esistenzialismo
György Lukacs in Storia e coscienza di classe (1923) propone una diversa categoria in contrapposizione a quella heideggeriana di «autenticità», successivamente ripresa dal pensiero marxista: la «falsa coscienza». Ma qui si tratta di una categoria di ordine generale che prendeva lo spunto dall’evento della Rivoluzione d’ottobre in Russia. Ben più importante ai nostri fini di inquadramento filosofico sull’autenticità è il libro L’anima e le forme (1911), (che comprende saggi su Rudolf Kassner, Søren Kierkegaard, Novalis, Theodor Storm, Stefan George, Charles-Louis Philippe, Richard Beer-Hofmann, Laurence Sterne e Paul Ernst. Tra le influenze, sono visibili quelle esercitate dagli ideologi neokantiani della «filosofia della vita», i quali presupponevano la vita come principio assoluto, origine di ogni manifestazione dell’attività umana. L’anima umana, attraverso le «forme»). Sono le strutture che danno significato alla realtà umana, rendendola necessaria e non causale e contingente; il compito dell’uomo è visto in termini individuali: trasformare la banalità e l’inessenzialità della propria esistenza quotidiana in quella pienezza di vita in cui consiste l’assoluto. Ma di fronte al principio assoluto, trascendente e positivo, della «Vita», le forme del mondo umano non possono essere che inadeguate, e pertanto ogni esistenza individuale si manifesta «come scacco ontologicamente necessario di fronte a un assoluto annichilante, totalmente altro rispetto al mondo della storia che diventa in sé e completamente, per necessità d’essenza, il mondo del negativo».1
Il tema principale che lega i saggi raccolti in Die Seele und die Formen è per l’appunto il rapporto non pacificato fra l’anima e le forme significanti. In quale modo l’individuo riesce ad esprimere, a dare forma, al flusso dinamico della sua interiorità?
«Anima»: con questo termine Lukacs non intende denotare una soggettività pura, cartesiana, padrona di sé, bensì un’individualità fragile, travolta dal corso degli eventi; un’individualità all’affannosa ricerca di senso e significato della propria vita che gli appare insensata.
«Forme»: per forme l’autore intende invece le strutture dinamiche significanti con cui il singolo tenta di dare senso, unità, sistematicità, ordine al caos del vissuto. A causa della loro legalità interna, tali forme tendono ad acquisire un’indipendenza ontologica dai loro originari contenuti materiali.
La Weltanschauung tragica
In primo luogo, si fa riferimento alle forme artistiche, al modo con cui queste vengono prodotte. A livello più profondo i saggi sembrano essere spunti per trattare il tema metafisico del rapporto tra particolare e universale, libertà e necessità, l’individuo e la storia, autenticità e inautenticità; queste opposizioni polari sono conciliabili? Le forme universali mantengono intatta l’identità dell’individuo? È implicito in tutta l’opera un confronto con la filosofia hegeliana della Versöhnung; da tale confronto viene fuori una Weltanschauung tragica: le forme svolgono lo stesso ruolo regolatore del destino, selezionano le cose importanti ed eliminano quelle inessenziali, «recingono una materia che altrimenti si dissolverebbe nel tutto».2 Pertanto, l’azione travolgente della forma, della totalità è per principio opposta al tentativo di emergere dell’individuo; semmai ci dovesse essere una conciliazione tra questi due poli, essa non può che essere un sublime eroismo dell’individuo che è consapevole di essere parte di un tutto che lo trascende e che, allo stesso tempo, cela la sua individualità.
Lukács stabilisce un’opposizione tra Spirito e Natura, che si risolve in quella tra Arte e Scienza, Poesia ed Empiria. La prima è finita, è chiusa, è fine, «è qualcosa di primo e ultimo, l’altra diviene superata ogni qualvolta si produce una prestazione migliore. In breve, l’una ha una forma, l’altra no».3 La forma è il «limite e il significato» che il poeta dà alla vita, la materia grezza che è l’oggetto della sua operazione artistica: da questa materia egli può ricavare «univocità dal caos, può temprare simboli dalle apparenze incorporee, può dar forma – cioè limite e significato – alle molteplicità disarticolate e fluttuanti».4
Sull’esistenza autentica
Da questa opposizione deriva ancora che l’«esistenza autentica» non è quella del senso comune, «l’esistenza reale non raggiunge mai il limite e conosce la morte soltanto come un che di spaventosamente minaccioso, assurdo, un qualcosa che tronca improvvisamente il suo flusso»; invece, l’esistenza autentica è quella che assume in sé il suo proprio limite, la sua stessa negazione, la morte, è l’esistenza vissuta tragicamente. «inautentica» è la vita vissuta per il mondo; «autentica» è la vita consapevole «del non-valore del mondo […] e della necessità del rifiuto radicale del mondo stesso».5 Non si può non vedere, qui, oltre ai richiami di Kierkegaard e Windelband, anticipazioni di problematiche che saranno svolte da Heidegger e dall’esistenzialismo.
Un’analisi approfondita viene compiuta da Lukács in Storia e coscienza di classe (1923) sul problema della reificazione (Verdinglichung, il diventare cosa delle coscienze), sviluppato nel saggio La reificazione la coscienza del proletariato, il cui spunto è dato dalle pagine dedicate da Marx ne Il Capitale sul «carattere di feticcio della merce» e la trasformazione, che avviene soltanto nella coscienza umana, dei rapporti sociali, che intercorrono tra gli uomini, in apparenti rapporti tra cose: come scrive Lukács, «una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’«oggettività spettrale» che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparente, conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini».6 D’altra parte, nell’economia capitalistica, la capacità produttiva del lavoratore, la forza-lavoro, è una merce come ogni altra, e dunque è effettivamente una cosa: «questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce».7
l’altra notte l’ho incontrata in un sogno, Lei non mi ha riconosciuto. Eravamo in una automobile in corsa su una autostrada, un immenso ponte si slanciava nel vuoto del cosmo al centro del quale splendeva una galassia.
La critica di Adorno
Il gergo dell’autenticità (Jargon der Eigentlichkeit) è un’opera scritta da Theodor Wiesegrund Adorno nel 1964. Il «gergo dell’autenticità» è quella forma di linguaggio sorta dall’interpretazione di Essere e tempo. Il filosofo marxista denuncia la deriva semantica del linguaggio heideggeriano e analizza la terminologia filosofica di Essere e tempo cogliendo in essa la connivenza ideologica di Heidegger con il potere durante gli anni del nazismo e dopo la «svolta» (die Kehre) heideggeriana. Il linguaggio heideggeriano viene definito un «gergo» perché le immagini e le metafore adottate da Heidegger allo scopo di descrivere l’Essere rispecchiano ideologicamente una forma di vita sociale arcaica ed anacronistica come quella del mondo agrario, una società basata su un’economia autarchica, chiusa e destinata ad essere sorpassata dai moderni mezzi di produzione. La metafisica di Heidegger si rivela quindi complementare al bisogno ontologico, ovvero ad un bisogno ideologico di stabilità e di sicurezza.
Sulla base di questi assunti Adorno effettua una critica terminologica di alcuni concetti fondamentali di Essere e tempo, come la chiacchiera, la curiosità, l’angoscia e l’Essere-per-la-morte (Sein zum Tode) e l’autenticità. Capovolge la critica della cultura svolta da Heidegger in Essere e tempo. La condanna di Heidegger alla chiacchiera ed alla curiosità – due aspetti che caratterizzavano l’Esserci nello stato della sua quotidianità media – viene così interpretata da Adorno come un atto di violenza dell’identico sul non identico e come un’apologia dell’ordine sociale esistente. In una frase: «Non vi può essere vera vita nella falsa». (Dialettica negativa, Adorno)
Anche i concetti dell’angoscia e di Essere-per-la-morte non vengono interpretati da Adorno dal punto di vista esistenziale e metafisico, ma in un’ottica sociologica. Mentre l’angoscia corrisponde al timore della disoccupazione ed alla coscienza della superfluità dell’intellettuale borghese nel mondo contemporaneo, con il concetto di Essere-per-la-morte Heidegger sublima tale impotenza fino al suo limite più estremo.
Il progetto ontologico di Essere e tempo – che cercava di determinare il senso dell’Essere – si capovolge così nel non-senso, nell’apologia del «cattivo esistente» che si manifesta attraverso il tautologico linguaggio heideggeriano. Adorno mostra infatti come l’apparente impersonalità e neutralità del linguaggio heideggeriano, esemplificati in uno dei termini chiave di Essere e tempo – l’autenticità – in realtà rispecchino un atteggiamento ideologico e discriminatorio che sulla base della sola forma logica, isola ed esclude il momento del non-identico dalla continuità delle proposizioni.
L’esistenzialismo svedese
L’esistenzialismo tipicamente svedese presente nella poesia di Lars Gustafsson e in altri poeti svedesi della seconda metà del novecento corrisponde a livello sociologico alla crisi della socialdemocrazia europea, è il sintomo di una inquietudine diffusa presente anche nelle società del welfare rispetto a un bisogno ontologicoe ideologico che non può essere più tacitato da un ordinamento giuridico e istituzionale ispirato ai principi della stabilità sociale e della sicurezza pubblica. La dialettica dell’esistenzialismo prescinde dalla dialettica hegeliana, rifugge da ogni soluzione di sintesi, non sintetizza gli opposti, anzi li vuole esasperare, portare alle estreme conseguenze; le contraddizioni non vengono superate: restano sempre aperte, vive, operano nella vita dell’individuo di cui costituiscono il dramma inevitabile. L’esistenzialismo di Gustafsson è pur sempre e tuttavia un esistenzialismo squisitamente individualistico, legato al personale, al privato e alle adiacenze del personale, alla abbondanza e alla insignificanza delle cose nel quotidiano, al Selbstständigkeit delle cose. Potremmo dirla così: una sorta di «falsa coscienza» interiorizzata e personale che non ha alcuna possibilità di comunicazione con le altre «false coscienze»; terminus ad quem e a quo è sempre la vicenda privata dell’individuo isolato, scisso e cosificato delle società a economia capitalistica; l’incomunicabilità, il malessere e il disagio delle società opulente caratterizzate dalla scomparsa dall’orizzonte degli eventi di ogni possibilità di una esistenza autentica.
C. Pianciola, L’anima e le forme e Teoria del romanzo, «Rivista di filosofia», 1, LV, 1964
G. Lukács, L’anima e le forme, Una lettera a Leo Popper
G. Lukács, L’anima e le forme, p. 155
Op. cit., p. 14
L. Goldamnn, prefazione a G. Lukács, Teoria del romanzo, Milano 1962, p. 20
G. Lukács, Storia e coscienza di classe, p. 108
Ivi, p. 120
Poesie di Lars Gustafsson
Vita
La vita scorre attraverso il mio tempo, e io, un volto non rasato, dove le rughe sono profonde, analizzo le tracce.
Pensieri come bestiame, avanzano sulla strada per bere, estati perdute ritornano, ad una ad una,
profonda come il cielo viene la malinconia, per la pianta di carice che fu, e le nuvole che allora rotolavano più bianche,
eppure so che tutto è uguale, che tutto è come allora e irraggiungibile; perché sono al mondo,
e perché mi prende la malinconia? E gli stessi lillà profumano come allora: Credimi: c’è un’immutabile felicità.
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Il cane
«Verso casa in un paese più tranquillo» Non c’è un paese più tranquillo di questo.
C’era il sole e camminavo sui ghiacci, i grandi ghiacci aperti che il vento spazza,
ed era domenica. Allora vidi una cosa strana, un cagnolino nero, completamente solo,
che correva più rapidamente possibile, avanti, allontanandosi dalla riva e verso lo spazio aperto,
dove tutto spariva come nebbia all’orizzonte. Correva rapidissimo e senza guardarsi intorno,
era come un gomitolo nero sul blu lucido, che il vento ha sollevato e porta con sé.
Rimasi fermo a lungo e lo guardai, ma non sembrò fermarsi e infine sparì.
Non c’è un paese più tranquillo di questo.
. Ballata sui sentieri del Västmanland
Sotto la scritta visibile di stradine, viottoli di ghiaia, passaggi, spesso con un pettine d’erba nel mezzo tra profonde orme di ruote, nascosta sotto i mucchi di rami secchi in zone nude, ancora chiara nel muschio screpolato, c’è un’altra scritta: i vecchi sentieri. Vanno di lago in lago, di valle in valle. S’affondano talora, si rendono palesi e grandi ponti di pietre medievali li trasportano sopra ruscelli scuri, si sperdono alle volte sopra rocce nude, li si smarrisce facilmente nei terreni paludosi, così inavvertiti che un attimo ci sono, e l’altro no. C’è una continuazione, c’è sempre una continuazione, se solo la si cerca, questi sentieri sono testardi, sanno cosa vogliono e con la conoscenza combinano una significativa astuzia. Tu vai ad est, la bussola insistente mostra l’est, il sentiero fedele segue la bussola, come una linea, tutto è a posto, allora il sentiero svolta a nord. A nord non c’è niente. Che vuole adesso il sentiero? Presto arriva una palude gigantesca, e il sentiero lo sapeva. Ci fa girare, con la sicurezza di uno che là c’è stato prima. Sa dove si trova la palude, sa dove la montagna diventa troppo ripida, sa cosa succede a chi scambia il nord con il sud del lago. Il sentiero ha fatto tutto tante volte prima. È questo il senso di essere un sentiero. Che lo si è fatto prima. Chi ha fatto il sentiero? Carbonai, pescatori, donne con braccia magre che raccoglievano la legna? Gli inquieti, timidi e grigi come il muschio, ancora in sogno col sangue del fratricidio sulle mani. Cacciatori d’autunno sulle tracce di fedeli bracchi col latrato di ghiaccio chiaro? Tutti e nessuno. Lo facciamo insieme, anche tu lo fai in un ventoso giorno, quando è presto o tardi sulla terra: noi scriviamo i sentieri, e i sentieri rimangono, e i sentieri sanno più di noi, e sanno tutto ciò che volevamo sapere.Continua a leggere →
ha perso il volo perché guardava il mare e il gran canyon di case camminava sull’aria ben costruita
Robin Valtiala è nato 1967 a Helsinki, Finlandia. Appartiene alla minoranza svedese-parlante e scrive in questa lingua. Lo studio delle lingue sono una sua passione. Fino ad adesso ha pubblicato sette libri:
Bakfönster, (Finestre di dietro, poesia, 1991) Fingerfärg, (Colore a dita, poesia, 1997) Kontinent utan väggar (Continente senza pareti, libro di viaggi sull’America Latina, 2000) Långa barn ska spela gamla, (I bambini adulti faranno i ruoli dei vecchi, romanzo, 2003) Mexicos uppsyn (Il volto del Messico, libro di viaggi, 2006) Som katternas sätt att minnas (Come la memoria dei gatti, romanzo, 2011) Barnvagn i överhastighet (2013) (Passeggino in sopravvelocità, collezione di poesia haiku, 2013).
* Pubblichiamo qui una poesia «normale» e una scelta di haiku del poeta finlandese Robin Valtiala da lui tradotti in italiano perché, al di là dell’impossibilità di tradurre in italiano lo schema metrico dell’haiku giapponese: “5-7-5”, tuttavia questi haiku ci danno la netta percezione di quanto questa antica forma metrica sia adatta ad imprigionare quella cosa che noi usualmente chiamiamo con il termine «nulla» o «vuoto», tipica figura del nostro tempo nichilistico. Anch’io sono profondamente convinto di quanto ha scritto Franco Volpi: «la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente», come indica bene la poesia d’apertura di Robin Valtiala. L’asintattismo, lo straniamento delle immagini e lo slogamento fraseologico sono la regola aurea del metodo di composizione del poeta finlandese, ecco il segreto della freschezza di queste composizioni, delle figure retoriche il cui impiego è tra l’altro molto vicino all’idea di poesia che la nostra rivista sta perseguendo da tempo.
(Giorgio Linguaglossa)
il figlio della mamma vertigine ha perso il volo perché guardava il mare e il gran canyon di case camminava sull’aria ben costruita mangiava formaggio formaggio formaggio formaggio formaggio studiava la gente per chi s’era pensata la città si naufragò le strade che circondano le parti alte fanno sì che sistematicamente impercettibilmente si salga entrando più all’interno in maniera che non si vede più come le case in luoghi più alti si collocano come possano su di quelle in luoghi alti il corridoio stretto che passa davanti al gabinetto dopo si torce formando un miniangiporto nella notte uno dei quadrati vuoti dello scaffale brilla come un tunnel
*
svindelmammans barn missade flyget för att det tittade på havet och på stora huskanjonen vandrade i väl uppbyggd luft åt ost ost ost ost ost studerade människorna som staden var menad för strandsatte sig gatorna som går längs de höga delarna tar en hela tiden uppåt utan att det syns inåt så att man inte längre ser hur ännu övre hus placerar sig som det går i de övre den smala gången förbi toaletten kröker sig efter den till en miniåtervändsgränd på natten lyser en av de tomma rutorna i hyllan som en tunnelContinua a leggere →
foto Jason Langer [Lei è dunque stata un’altra per otto anni/ senza saperlo]
Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.
Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.
Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.
Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.
All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer.
In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.
Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro Via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.
Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che sitrovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa è del 2017, libri pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.
(Donatella Costantina Giancaspero)
Si guarda il volto trasparente nello specchio. È del tutto estraneo.
Ermeneutica diDonatella Costantina Giancaspero
Da Lo spazio interiore (2014)
La tradita: solo un contorno senza forza
Lei è dunque stata un’altra per otto anni senza saperlo. Ogni giorno c’è stato un equivoco. Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo. L’inaudito non è nel guardare all’improvviso in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti. L’inaudito è vedere un pomeriggio scambiati otto anni della propria vita. I figli hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti una comunanza piena di antenne pendolanti. Solo lei ne è rimasta fuori. Il prezzo per la calma di tutti splendente come maggiolini è la sua esistenza falsificata. Si guarda il volto trasparente nello specchio. È del tutto estraneo. Le mani che diventano bianche intorno al lavandino non più del suo proprio biancore non sono sue. Lei non può trattenersi. E vomita tutti i ricordi menzogneri: questo volto semichiaro su di lei sciolto in desiderio e assicurazioni la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento. Lei vomita tutta questa vita falsa queste giornate dal tanfo di gusci di gambero. Infine siede sul pavimento del bagno del tutto messa a nudo. Nulla è rimasto degli otto anni. Solo il sapore di metallo in bocca. Dovete restituirmi i miei anni! I bambini se la cavano, inaspettatamente adulti, imbarazzati dalla retorica, da questi resti di disperazione che nemmeno ha parole proprie. E gli occhi dei vicini nelle maioliche del bagno! Lei siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso. Cerca di proteggere la sua povertà con la schiena contro tutti quelli che hanno saputo.Continua a leggere →
Birgitta Trotzig Nel fiume di luce – Poesie 1954-2008 Milano Mondadori, 2008 pp. 250 € 13,00
Di come i volti si disciolgano.
Di una vita con l’angoscia.
Dello zero.
Un quadro
Gli alberi hanno foglie scure, che producono un’ombra chiara, umida. Nel cuore del giardino riposa una donna, il suo corpo è caldo e nudo e roseo. Le mammelle le profumano di miele. Il cielo è blu come smalto; le sue unghie sono bianche e fragili, paiono schegge di porcellana.
Classico
I capelli gli gocciano d’acqua; il corpo riluce d’umidità. Il volto è giovane e rude, le labbra chiuse. Il sonno gli s’infila di nascosto, perfido, nel sangue che è chiaro come quello di un pesce, e gli opprime le palpebre sottili, bianche.
Nel sonno un serpente si avvolge intorno alle sue membra umide, lui diventa blu scuro e maleodorante. Il vento di mare gli sfiora le guance con un profumo caldo di miele e sale e issopo.
La morte del re
Nella giungla si muove silenziosa una tigre. La città che dorme con i suoi fuochi è sprofondata nella notte degli alberi, le loro dolci brucianti esalazioni contro i blocchi del muro.
È mezzanotte, il soldato cammina lungo il bastione. L’odore di acqua e sorbetto della notte gli posa come un telo sul volto e le membra: le stelle tremolano giù in fondo nel fiume.
Più in alto di tutto nel castello reale giace il re nel suo letto, le membra gli si contorcono in teli fradici di febbre: Il suo volto dorato è spento: fiaccole ne illuminano il corpo morente. La bocca si apre, il petto è sollevato da pesanti respiri. Le ombre vagano nelle grandi sale.
Le costellazioni avanzano lente attraverso la notte. Le membra del soldato sono trafitte da un freddo di morte. Sente passargli accanto il profumo di albero e acqua e febbre. Il re è morto: il suo volto si spegne ed è cancellato adagio dal mondo.
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al di sopra dell’orizzonte il cielo dai lamenti dei disintegrati: gerusalemme, gerusalemme
Portano un gigante morente, l’enorme creatura marcisce: barcollando lungo le vie e piazze cade in cenere man mano che l’orizzonte si appesantisce si spegne fa silenzio – tace, tace. E ogni occhio vuoto. Tutto ciò che è esteriore è finito in cenere e divenuto notte, ora è tutto interiore senza orizzonte senza spazio.
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La città buia sorge illuminata come per un’esplosione. Lui cade, vortica. È vivo.
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Gridavano in cantina, ovattati, chiusi. C’era tanto silenzio. La gente passava. Io compravo arance, detersivo. Urlavano nelle loro cantine. Giorno e notte non si sentiva niente. L’eco incessante dei rumori dei passanti. Poi niente.
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vedo dentro il verde, superficie all’infinito, sussurrante infinito, corpo dei sussurri, lingue, il verde è lingue e occhi, riflessi e mobilità, umidità, scintille di luce – in che modo ne sono separata, io non ne sono separata, io sono in un occhio, tutto è miraggi e sussurri, luce in uno specchio oscuro erra sempre più lontana dentro il bosco riflesso.
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nella cella, nella tenebra dell’albero
il fiore rosso sul muro, un’oscura bocca che diventa più grande: un sesso, un occhio che ingoia, profondo, serio
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Ci sono volti – non ci sono.
Ciò nel volto che è – non è.
Ciò che non è – è ciò che è.
Nel crepuscolo caldo-umido
Nel crepuscolo caldo-umido grigio-umido la bellezza del volatile, del danzatore negli spazi di sogno multicolori.
Le tracce della bellezza, quali profezie? Il finto sistema dell’universo si è rotto, frammenti di movimento spuntano e spariscono, nero cristallo, strani profondi colori, nuovo caos bolle sotto la bella superficie fragile che diventa bellezza per il suo andare in pezzi.
Grigia città gigante, verso est. Al di sopra della città fluttua il velo protettore, Pokrov, invisibile, nero ed enorme.
(Pokrov – l’icona di Vlacerny, Ekelöf, John Tavener). Lei ha avvolto il suo velo sopra i perseguitati e li ha nascosti nella sua invisibilità.
Un uomo solo va errando cupo nel paesaggio infinitamente splendente, il suo volto è miele (Maestro di Siena – il paesaggio fluttuante sopra il regno dei morti).
(da Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008, Mondadori – Traduzione di Daniela Marcheschi)
(soglia, confine, differenza, fuori, dentro)
(Soglia, confine, differenza, fuori, dentro)
Qual è ora la relazione fra l’arte e la natura? dove inizia lo spazio immaginario che non è né l’una né l’altra?
Di ciò che chiamano l’io si può far a meno.
Il confine, il segreto della soglia. Che cos’è fuori, che cos’è dentro, che cos’è fuori di me, che cos’è dentro di me?
Sulla soglia. Non da questa parte, non dall’altra.
Proprio nel movimento al di sopra della soglia. Si rompe la membrana d’apparenza, la contraffatta visione “io”. Allora è nudo il mondo. Luci parlano, pietre respirano. L’occhio diventa un pianeta nero, il mondo è ora capace di vedere. Alberi sollevano le radici fuori della terra, le alzano fuori del terriccio di alberi morti. Il fango e l’orma umana sono la visione della cecità, le mani e la sensibilità delle tenebre. Le costellazioni disegnano nelle profondità della notte ciò che è concluso e ciò che non è concluso.
Il Sagittario scaglia la sua freccia, è mortale.
Tutto parla a tutto. Nella luce dello spazio, nella luce delle tenebre. Il messaggio si rivela.
(da Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008, Mondadori – Traduzione di Daniela Marcheschi) .
Lettere alfabetiche
C’è un silenzio in ogni cosa fitto come un’esplosione, moltiplicato anni luce in un unico movimento raccolto – nell’erba, nella vipera sulla pietra, nelle frasche di prugnolo, nei gabbiani, nelle conchiglie bolle l’immensa coppa di luce solare sopra lo specchio marino, luce da luce, silenzio-luce-movimento – il nocciolo d’immobilità nell’antico silenzio in esplosione del sole.
L’immenso silenzio greve delle cose un turbine che si schianta, il ballerino derviscio in mezzo al nocciolo di pietra, l’istante che permane, la mutevolezza-danza-dell’istante, la schiuma-chiarore di lampo vecchio milioni di anni dell’istante che danza vista come immobilità, formula-vertigine, segno di lettera alfabetica.
(da Anima, 1982 – Traduzione di Daniela Marcheschi)
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
«È tardi. Il mondo va verso la sua fine»
L’opera della svedese Birgitta Trotzig è una costellazione di poesie e prose comunicanti che si susseguono dall’inizio alla fine. Oltre mezzo secolo di poesia. Un invalicabile muro divisorio. Un corpo compatto, una superficie densa come lo schisto e spessa come il feldspato, tagliente come l’ossidiana, composta di stratificazioni tettoniche successive che si richiamano ed echeggiano a distanza di anni e di decenni. Le immagini procedono per parallelismi e per verticalità: abbondano chiasmi, anafore e ripetizioni che danno l’effetto di un martellamento rafforzativo dell’indizio fondamentale delle composizioni. È un procedimento che ha qualcosa in comune con la poesia della tradizione svedese del secondo novecento. È l’area della tradizione modernista del secondo novecento. In questo universo di progenitori comuni c’è anche la tedesca Nelly Sachs da lei tradotta, che ha vissuto lungamente in Svezia. Le immagini ricorrenti nella poesia della Trotzig richiamano l’idea di una superficie dura, impenetrabile («L’invisibile è duro e impenetrabile come vetro»), che rammenta, per anamnesi e contiguità, la simbologia degli uomini: i loro volti che si sciolgono e scompaiono («Di come i volti si disciolgano. / Di una vita con l’Angoscia. / Dello zero»); il loro corpo «predestinato alla decomposizione». un universo predestinato, predeterminato alla decomposizione in un «incubo senza fondo». Ci si trova in un luogo non-luogo, in un posto privo di segnaletica, non indicato da carte geografiche o nautiche, senza indirizzo. Ci si immagina di trovarsi in una città, ma non c’è nulla che faccia pensare alla città. In realtà, il luogo o i luoghi dove si svolgono, o meglio, accadono certi fatti (una lenta, progressiva e inarrestabile decomposizione) è una città della nostra civiltà occidentale (a volte si trovano delle indicazioni, generalissime, come «Piazza del Duomo», ma il più delle volte, anzi quasi sempre, le indicazioni toponomastiche sono generiche, indistinte e indistinguibili, potrebbero essere di una città come di un’altra, di una nazione come di un’altra).
Il pensiero estremo ha a che fare con l’estremità del pensiero, è affine all’abisso del quale il pensiero non può non provare nostalgia. Tutto ciò ha a che fare solo con situazioni estreme dell’esistenza, il pensiero poetico non può che sostare ai bordi linguistici di queste esperienze estreme. Avvertiamo qualcosa di simile quotidianamente, come quando ci accorgiamo che ciò che diciamo non corrisponde esattamente a ciò che pensiamo, e ciò che pensiamo non corrisponde esattamente a ciò che avvertiamo e notiamo uno scarto tra significato e significante e ascoltiamo il richiamo che
proviene dalle crepe che si aprono nel muro dell’ovvietà, a questo punto avvertiamo oscuramente lo spaesamento, il divario che si apre tra noi e noi stessi, nel nostro stesso pensiero pensato avvertiamo un inconciliato, un inconciliabile. E veniamo gettati nell’angoscia. Qui, in questo punto risiede il fascino sinistro che l’abisso esercita su di noi, che ci rende evidente, all’improvviso, che quelle crepe nascondono in realtà un abisso.
L’angoscia è la percezione della nullità del nostro Ego, quel «solido nulla», per dirla con Leopardi, che costituisce la nostra soggettività, quella forza nullificante che annienta il mondo sotto forma di volontà di potenza, ma che può anche vivificarlo, renderlo significativo.
In realtà, il luogo dove si svolge, o meglio, accade questa assurda vicenda che è l’esistenza dell’uomo è un luogo che sta in «basso», null’altro di più preciso ci viene detto; nella poesia della Trotzig non c’è nulla che possa far pensare all’«alto». L’alto c’è, lo si intuisce, ma quello che si percepisce nettamente è un luogo che sta in «basso»
jannis kounellis
«È tanto basso qui. Il sangue gorgoglia. Niente altro che l’assordante rumore insensato di lui stesso. O silenzio. O l’incubo ermeticamente sigillato…».
Siamo nell’occhio di un imbuto «senza fondo», in un «incubo senza fondo», dove «L’argento che corrode è nell’oscurità». In questo luogo privo di spazio, senza altezza, senza profondità, senza tempo, di preparazione alla morte, non vi può essere alcun «viaggio»; già questa parola lascia presagire qualcosa di immondo e di corrivo, di impronunciabile
«Il viaggio fuori da un’asfissia, la nascita che riduce in pezzi sotto e sopra. Urlo, grido, sillabe… Nel buio, attraverso il buio, grido senza voce, parola rivolta senza labbra…».
L’uomo ha cessato di essere qualcosa di sessuato, e quindi di differenziato, appartenente alla natura e alla storia, è diventato un ente indifferenziato, né maschio né femmina, un neutro:
«Le sue mani sono di “donna”, il suo sesso di “uomo”».
Giunti a questo punto, possiamo capire come il paradigma simbolico negativo dell’uomo occidentale sia «Giuda»: «il primogenito è nudo», «Il traditore guarda l’uomo che gli lava i piedi»; ma perché Giuda tradisce? La Trotzig non lo dice, non lo spiega ma getta lì una parola quasi per caso: perché «la sua bocca è muta». Adesso sappiamo con certezza qual è la malattia segreta che ha colpito il cuore della civiltà occidentale, la malattia inguaribile che disgrega le fondamenta, le parole sono diventate parole-macchine: abbiamo perduto la potenza della parola significativa. Ed è questo lo stigma della nostra epoca, non più idonea alla trasmissione e alla ricezione del messaggio poetico. Ecco come viene descritto «Il pazzo del villaggio»: «Siede sul muro e mastica fiori, poi li risputa. Dalla gola gli escono suoni soffocati, gorgoglianti: una lingua che nessun altro vivente parla. È solo al mondo, le mosche gli sfiorano il viso. Il sole ardente è piazzato sulle palpebre…».
Chi è il pazzo del villaggio? È la «caricatura» estraniata del poeta che può produrre soltanto «suoni soffocati, gorgoglianti». E pensare che queste composizioni risalgono nientemeno che al 1954, l’anno di pubblicazione della raccolta che ha il titolo Immagini. Ecco un esempio straordinario di paesaggio nella poesia intitolata appunto, «Un paesaggio»: «Sopra il mare e il bosco posa il cielo come una gemma scura»; in un’altra composizione intitolata «Città» troviamo: «La città è piena di volti, la via, le case, gli scantinati ne brulicano…». Dunque, ci sono solo volti, enigmatici e inespressivi. Non accadono mai azioni in questa poesia. Tutto è immobile, in assenza di destino. Un mondo a-storico. Ecco come viene descritto il «sole»: «Il sole, una piccola palla dura come un sasso inghirlandata di bianche fiamme taglienti, rotola sul cielo», un piccolo capolavoro di sintesi espressionista.
È il sistema simbolico di questa poesia che si irraggia dal centro di un bradisisma lentissimo ma inarrestabile: l’immagine del morente, del bambino morente, è analoga, per la semantica e la cinetica dell’inconscio, a quella del gigante morente o dell’uomo morente.
L’immutabilità dello stile e delle tematiche dell’opera della Trotzig non è altro che fedeltà alla problematica del «principiale» della coscienza alienata. La «domanda» che l’opera nel suo complesso pone è sempre la stessa che si ripete e si riproduce con cerimonialità ossessiva. Ciò significa che dinanzi alla superproduzione delle merci l’opera si pone come un «sempre uguale», un «immutato» che sfrigola e frigge dinanzi al volgere della mutevolezza e della mutazione. Così, dirimpetto all’ideologia dominante della produzione di «stili», l’opera della Trotzig si pone come negazione dell’alterità e ripetizione del «sempre uguale» nella temporalità alienata della Storia.
L’opera della Trotzig vuole essere un polittico della civiltà occidentale vista dal punto di vista del suo buco nero: la critica radicale al Progresso e alla Storia. In una civiltà, come quella del Moderno, priva di progresso e di storia, è ancora possibile scrivere poesia? Ciò che rimane è soltanto una involontaria caricatura della poesia? La Trotzig scrive una poesia che è qualcosa di inconciliabile con l’idea di poesia. Ecco la vera ragione, credo, della scrittura in prosa della Trotzig. Il diniego assoluto di scrivere in versi per la Trotzig proviene dalla presa d’atto del suo progetto negativo.
Nel primo degli inediti inseriti nel volume ci viene finalmente concesso il filo di Arianna che ci condurrà al centro dell’immane gorgo che porrà fine alla storia, non degli uomini ma dell’universo: la «Luce»:
«Luce che trasmuta – verso-il grido, verso-il canto. Dalla concentrazione di luce scaturisce il compatto, dal flusso mobile della luce scaturisce la memoria, si ferma l’attimo […] Sono tutti morti. Sono pesanti ma leggeri. Ora monumenti alla memoria, cenotafi del buio abbandonato. // Rivoli scorrono verso il mare. Alberi crescono verso la morte. Il tempo scorre verso il silenzio. Il silenzio è un sole, gigantesco e splendente. Le labbra del sole sono vacue, silenziose. Il tempo del sole è la memoria di luce».
Siamo giunti alla fine dell’universo, una gigantesca apocatastasi di fuoco mentre la luce trasmuta nel grido e non ha più senso continuare a ragionare con le categorie umane perché ormai siamo tutti morti.
Direi che ciò che colpisce il lettore italiano è la completa estraneità di questa poesia ai paradigmi o canoni della poesia italiana. Un discorso poetico che si inserisce nel tragitto della poesia svedese del Novecento con grande originalità. Un doveroso complimento a Daniela Marcheschi che ha tradotto le poesie ed ha curato il volume con una esauriente introduzione.
Dalla Prefazione di Daniela Marcheschi
Quella volta nel buio, la solitudine con il volto aperto al vento umido del porto, luce di fanale, il tremulo buio ondeggiante: un’estasi, l’inaudito che sgorga come un canto o una zampillante acqua cupa, una forza naturale in ogni caso, fuori dal fondo dell’anima e fuori da tutte le membra, la sensazione che venga fin dalla punta delle dita, dei piedi, dalle radici del cuore, non c’è fibra che non sia partecipe – per quale miracolo sono ancora in piedi? Io sto come una corrente scrosciante – buio, buio, qualcosa di me vuole davvero e con ogni fibra annientamento, con miliardi di radici mi risucchia l’universo verso di sé, il vento, i fanali, l’acqua che scorre scintillando laggiù nel buio; io sto in una corrente, come sto ancora in piedi? vai diritto nel buio, sino alla fine, per tutta l’eternità, là non c’è fondo.
«la parola ha creato il mondo, la legge della parola ha tracciato il confine fra essere e non-essere, così si vive ora al confine
La legge rende visibile la realtà. Senza legge un abbaglio un formicolio, multicolore accumulazione cruenta di neutrali pelli corpi, con noncuranza sano e putrefatto uno sopra l’altro, qualsiasi cosa si può mangiare
La legge fa la realtà
La legge separa, maltratta, scolpisce – diventa una pietosa condizione da urlo, ora la realtà è là, il volto del Messia appare nella sua oscurità mortale (Il volto del Messia ucciso, l’interna ombra non riconosciuta, l’immagine d’angoscia che perseguita, fantasma di quanto è negato)»
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Nella costruzione che fa perno su una specie di principio di durata testuale, nel senso di forma della successione di ogni momento o “punto” della lingua e dei suoi significati, il lavoro della Trotzig presenta una certa affinità con quello di una più giovane collega, non per nulla dedicataria di una poesia di “Sammanhang material” (Contesto materiali): la danese Inger Christensen, nata nel 1933, le cui poesie in Italia sono state antologizzate solo nel 2003, nel numero 22 della rivista «Kamen’», grazie all’ottimo Bruno Berni. Nell’opera di questa poetessa dalle vertiginose capacità formali, nelle sue «variabilità», è infatti un’analoga modalità di attenzione al mondo del possibile, delle piccole percezioni in tutta la serie dell’infinitesimo e delle possibilità di ripartire la grammatica della lingua in parole, sillabe ecc., ossia in “punti” generativi di significato. Rispetto alla Trotzig, però, la Christensen lavora in una direzione più astratta e formalistica – ad esempio sul modello delle sequenze matematiche del Fibonacci -, e secondo criteri più pertinenti a una concettualità scientifica, obiettiva e naturalistica. Possibilità di realtà, la poesia della danese sembra configurarsi piuttosto come un viaggio concettuale attraverso la parola e la lingua e i loro fondamenti fonico-lessicali. I significati scaturiscono spesso non solo dalla tradizionale lettura del singolo testo in verticale (dall’alto del primo verso all’ultimo), ma anche dalla lettura in successione progressiva e lineare dei vari componimenti, che costituiscono le serie testuali, appunto come potrebbe accadere con le parti di un poema. Singolare è però che – a costruire nuove ed intricate geometrie di testi e significati – una simile possibilità di lettura in successione progressiva e orizzontale si estenda, con ulteriori ripartizioni lineari, persino alle strofe o ai versi che a loro volta compongono le poesie della Christensen. Da tale lettura in successione lineare – ad esempio di tutti i primi versi (ma ciò vale anche per gli altri) delle varie poesie che formano una sezione o un’opera intera – scaturiscono così nuove, volute, serie o possibilità testuali che moltiplicano le opportunità di senso e le rifrangono di continuo in un gioco prismatico, in grado di rimandare alla multiforme mobilità produttiva, in esperienza e conoscenza, della stessa esistenza umana (senza peraltro ignorarne gli scacchi).
Al contrario, tutto è corporeo e sensibile nella Trotzig, niente è dentro o fuori, bensì «fuori e dentro» allo stesso tempo, poiché, al modo di Husserl, l’io e il mondo si incontrano, e l’essere reale si costituisce dentro di noi secondo le leggi della natura esterna. Anche per siffatte ragioni l’occhio della Trotzig non è mai quello di uno spettatore immobile; e alcune sue concatenazioni poematiche o seriali sono proprio il frutto del dinamismo prospettico delle sue immagini. Nell’intreccio delle forze inconciliabili quest’ultimo deriva da una soggettività pronta a collocarsi sempre dentro il farsi stesso delle cose. Non ci stancheremo pertanto di ripetere come l’etica – in quanto fondamento del segno e del linguaggio, dunque anche di modi della conoscenza – sia uno degli assi portanti dell’esperienza letteraria della Trotzig. L’autrice sa mirare il volto del dolore e della disperazione con fermezza e dignità quasi leopardiana, si interroga senza tregua sul bene e sul male, sulla giustizia e l’ingiustizia, reagendovi. Lontana da contenuti ideologici pregiudiziali, l’urgenza etica della Trotzig è sempre in tensione con l’estetica, giacché l’atto del conferire significati autentici alle cose compete solamente alla nostra soggettività, alla nostra coscienza che, nello slancio verso l’assoluto e la verità, si pone in attrito con il mondo e la società: sedi, queste, di realizzazioni necessariamente parziali del destino dell’essere umano. Dedicando a Simone Weil, nel 1954, un saggio incluso nella raccolta “Porträtt” (Ritratti), la Trotzig ha significativamente messo in rilievo come il risultato più alto della pensatrice francese sia non tanto la produzione filosofico-letteraria, quanto piuttosto, globalmente, la sua vita, tutta intessuta dell’ardore di «realtà» e di un’opera in grado di riflettere proprio l’esperienza della realtà medesima. Ecco perché la Trotzig vuole guardare alla sostanza dura e inesorabile di quest’ultima senza cercare consolazioni, perché posa il suo sguardo su chi è sceso fino al fondo della sventura: il «pazzo del villaggio», la «vecchia», gli «annientati» e così via. Solo là dove si conosce la solitudine, l’umiliazione, l’angoscia mortale, dove ci si deve svuotare del proprio io, può infatti accadere d’incontrare la grazia, anche quella liberatrice della morte, come leggiamo nel componimento “La povera di Bilder” (Immagini):
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«C’era una pastorella in alta montagna; i suoi calcagni erano ruvidi e polverosi.
Il silenzio vicino alla neve in alta montagna era più antico del sole.
Le sue labbra erano secche di polvere; in bocca aveva un sapore di polvere e timo. Un giorno le parlò qualcuno nel silenzio.
Il sole non smetteva di bruciare, il vento di soffiare; lei sentì come neve contro le labbra. Le sue unghie erano mangiate irregolarmente, pertanto serrò le dita e le nascose dentro le mani.
Per il suo petto fluiva fuoco; la sua pelle respirava fuoco. L’erba rinsecchita profumava. In una capanna di zolle stava in tenebre e silenzio. La morte la attraversò come una nube luminosa di notte».
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Birgitta Trotzig non indulge né al nichilismo caratteristico della mimesi naturalistica né ad una esasperata dilatazione dell’io individuale; del resto la singolarità della sua posizione nella letteratura svedese del proprio tempo è dovuta ad una precisa presa di distanza da simili poetiche assai più seguite. La sua tensione metafisica, la sua percezione del nulla e della morte, sono radicate sempre nella concreta, reale e inscindibile unione con la materia e con i suoi cicli e statuti. Ciò la differenzia anche da certi esiti della cultura filosofica di Blanchot, Lévinas o Derrida, e della poesia francese contemporanea – ad esempio di Edmond Jabès (di cui è un «ritratto» in “Porträtt”) -, che la Trotzig ha conosciuto a fondo. Inoltre, se certe visioni cosmiche ricordano risultati della poesia di Rainer Maria Rilke, a cui pure la Trotzig ha dedicato un saggio di “Porträtt”, nelle immagini da lei create restano sempre un pondus rappresentativo, un’oggettività e una forza “di cosa” o un senso tangibile del limite, che trascendono ogni esercizio di sia pur alta e rifinita letteratura, a cui Rilke non era invece estraneo. Ecco, quindi, perché la Trotzig può scrivere una poesia come la seguente, tratta ancora una volta da “Sammanhang material” (Contesto materiali):
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«(Soglia, confine, differenza, fuori, dentro)
Qual è ora la relazione fra l’arte e la natura? dove inizia lo spazio immaginario che non è né l’una né altra?
Di ciò che chiamano l’io si può far a meno.
Il confine, il segreto della soglia. Che cos’è fuori, che cos’è dentro, che cos’è fuori di me, che cos’è dentro di me?
Sulla soglia. Non da questa parte, non dall’altra.
Proprio nel movimento al di sopra della soglia. Si rompe la membrana d’apparenza, la contraffatta visione “io”. Allora è nudo il mondo. Luci parlano, pietre respirano. L’occhio diventa un pianeta nero, il mondo è ora capace di vedere. Alberi sollevano le radici fuori della terra, le alzano fuori del terriccio di alberi morti. Il fango e l’orma umana sono la visione della cecità, le mani e la sensibilità delle tenebre. Le costellazioni disegnano nelle profondità della notte ciò che è concluso e ciò che non è concluso.
Il Sagittario scaglia la sua freccia, è mortale.
Tutto parla a tutto. Nella luce dello spazio, nella luce delle tenebre. Il messaggio si rivela».
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«Il punto di energia generativa, rappresentata nella scrittura della Trotzig dalla parola e dai suoi significati, è una «soglia» o un «confine». La parola – genesi di forme possibili, che seguono la propria «legge» – ha nascita nell’anima stessa, che compartecipa della sostanza universale: non a caso, “Anima” è il titolo di una raccolta dell’autrice scandinava. Ĕ proprio a partire da quel punto del possibile progettuale che si può infatti trascendere verso le cose. Si tratta di un punto limite, se vogliano restare nell’ambito della logica di Wittgenstein, oppure di un punto “mistico” secondo certa cultura filosofica tedesca. Si pensi in particolare al pensiero contemplativo e mistico del domenicano Meister Eckhart, secondo cui Dio è inconoscibile e la fede è il tentativo di ritrovare l’unità con il divino («Trascendi te stesso» è una sua celebre esortazione); oppure alla sua analogia fra Dio e le creature che ne sono considerate lo specchio, perché ne ricevono come immagine l’essere assoluto, ma non possono possederlo. Nel saggio del 1967 dedicato al pensatore medioevale, raccolto in “Porträtt” (Ritratti), la Trotzig ne ha sottolineato la tensione razionale, l’opposizione fra l’esperienza di Dio come trascendente, Dio in sé – e completamente Altro -, e l’esperienza di Dio come immanente, intrinseco alla creazione. Ha inoltre messo in risalto i paradossi della filosofia di Meister Eckhart e il fatto che il cristianesimo è l’unità dell’inconciliabile. Ĕ probabilmente anche dalla suggestione della lettura del teologo medioevale che derivano certe forme di ripetizione lessicale e l’insistenza dell’autrice scandinava su termini come «specchio», «si specchiava», «rispecchiano» ecc., nonché uno stile ricco di vocaboli composti e di prefissi, che non agevola certo il compito dei traduttori, e fu già un uso caratteristico della scrittura eckhartiana. Secondo Eckhart, l’anima ha due volti, l’uno rivolto verso il corpo e il mondo, l’altro verso Dio o la trascendenza; e la raccolta “Anima” della Trotzig è non a caso attraversata da un sentimento di partecipazione “naturale” dell’essere umano al mistero del divino, del sacro, cioè al limite di sé e alla speranza. La conoscenza della mistica tedesca – si pensi pure a Silesius e al suo rapporto di necessità conoscitiva e psicologica con Dio – si unisce a quella della mistica ebraica: in particolare, ma non solo, del Zohar o “Libro della luce”. Ciò significa per la Trotzig anche un ulteriore punto di incontro e di ripercussioni interiori con un’esperienza contemporanea per molti versi esemplare: quella della poetessa tedesca, Premio Nobel nel 1966, Nelly Sachs, rifugiatasi com’è noto in Svezia per scampare alle persecuzioni razziali. Nel volume saggistico “Jaget och världen” (L’io e il mondo), edito a Stoccolma nel 1978 da Författarförlaget, la Trotzig si è dichiarata «indissolubilmente» legata alla Sachs. Ambedue hanno del resto una analoga visione della «metamorfosi» del mondo, del valore statutario del dolore e della parola, segno di un scrittura attinente nei suoi fondamenti alla realtà stessa del cosmo. Immagini pregnanti ed esemplari come quelle del «sudario», della «farfalla» (nella bella poesia sull’Atlante), delle «lingue», dell’«oscurità» o della «polvere» non si incontrano certo per pura combinazione nei componimenti della Trotzig. Questa autrice, che condivide con Dostoevskij – per alcuni tratti – una certa qual ossessione del male, ha comunque una attenzione palpabile e genuina anche per gli aspetti sociali e storici dell’ingiustizia e della sofferenza. D’altra parte la Trotzig ha una personalità sfaccettata e duttile, e ha collaborato a lungo a riviste e giornali come «Aftonbladet», occupandosi non solo di letteratura o di arti figurative ma, per un certo periodo, anche di politica. Si legga, a titolo di esempio di quanto osservato in precedenza, il componimento seguente incluso in “Ordgränser” (Confini della parola) ed ispirato a un episodio accaduto in Francia:
«Masse in fuga si schiacciano nelle vie buie. Polizia dappertutto, mitragliatrici, la lenta catena che s’infittisce furgoni cellulari con le canne fuori dai finestrini. La debole, confusa impotenza delle masse di gente, il sudore, il brusio. S’immettono in un specie di viadotto, un posto di cambio del metrò sopra un vuoto, ampio, dappertutto sorvegliato incrocio con alberi malati, i ramoscelli nudi brillano come oleosi nella luce della strada, non è pioggia, è qualcosa d’altro, splendente, stillante. Due linee ferroviarie da là si tuffano direttamente sottoterra: una penetrante, beffarda voce d’altoparlante (piena di interferenze, resa quasi incomprensibile, per la metà rotta in un grido graffiante, morto) commenta come per un cinegiornale le fiamme si vedono lontano sopra i tetti delle case, fuori delle porte nastri trasportatori d’acciaio flessibile, fuochi strepitano laggiù in fondo. La massa di gente ora come sognante impotenza irrigidita – come greggi molto malate è spinta a colpi di calcio delle armi verso i cancelli, i cancelli del cimitero insudiciati su in alto nella via. Tutte le strade trasversali sono bloccate ora. Gli anditi delle porte chiusi, poco profondi. Sangue sulle scale. Dagli alberi scarniti gocciola e stilla. Uno dopo l’altro cadono in terra uomo, donna, bambino come foglie accecate».
Quanto alla Sachs, non si tratta quindi solo di un’ammirazione e un affetto grandi nutriti per lei dall’autrice svedese, ma anche, e soprattutto, di una profonda consonanza spirituale e poetica, di un condiviso sentimento religioso. Birgitta Trotzig è credente e si è anzi convertita molto giovane, nel 1955, alla fede cattolica, che vive con autenticità e con slanci che ricordano alcuni aspetti della spiritualità di Simone Weil. Una volta, in una lunga intervista rilasciata il 20 dicembre 1998 a Maciej Zaremba, per il quotidiano «Dagens Nyheter», la Trotzig ha infatti dichiarato che la fede non è «qualcosa che è bene avere nella vita. Ĕ la vita», e che la fede è l’amore: ovvero l’esperienza della ragione, della corporeità tutta, illuminata dall’amore nella relazione con l’altro, come aveva già annotato nel suo diario “Ett landskap” (Un paesaggio), edito a Stoccolma, presso Albert Bonniers Förlag, nel 1959. Per tali ragioni nei componimenti o nei romanzi dell’autrice svedese non vi è mai cedimento a compiacimenti di sorta o a tentazioni estetizzanti. In “Bilder” (Immagini), nella III sezione intitolata pietà, la figura del Cristo – resa precisamente per «immagini» negli ultimi giorni della sua vita terrena – appare sempre al culmine della sofferenza fisica, del dolore angoscioso e nella «fitta solitudine» del suo destino di passione e morte. L’intera opera della Trotzig è però folta di riferimenti espliciti ed impliciti ai mistici (ad esempio Juan de la Cruz), al Vecchio e al Nuovo Testamento – si pensi, da “Bilder” (Immagini) in poi, appunto a testi come Giuda, Getsemani ecc. – per non dire ai Padri della Chiesa. Quando la Trotzig scrive, in “Sammanhang material” (Contesto materiali), che il Messia «viene attraverso fili di luce, crepe di luce, movimenti, inquietudine», non si può ad esempio non sentirvi l’eco di Sant’Agostino. Allo stesso modo, l’efficacia visionaria di certe «immagini» di agonia e morte o di vita femminile materna richiama l’opera di Santa Birgitta, su cui la Trotzig ha non per nulla scritto. Si tratta di «immagini», in una vigorosa valenza espressiva e conoscitiva, di metamorfosi fra vita e morte, e viceversa, o di un femminile potente – quello connesso al parto, quindi alla «figura profetica» di Maria -, ricco di suggestioni significative, come ad esempio nel componimento “La gravida”:
«La pelle le respira come attraverso una tenue rugiada. La fronte è alta e sottile. Lo sguardo fragile è velato, il mondo è avvolto in membrane: pesante e tremando alita contro la sua membrana incolore. Il petto le respira pesantemente e profondamente, lo spavento le scorre come un liquido caldo nel petto lucente.
Fremiti di vita passano per il corpo arrotolato in tenebra e acqua. La testa è sprofondata in un sogno pesante, un sogno su acqua e sangue».
La frequenza delle similitudini, figure di valenza semantica e razionalistica, delle ripetizioni anaforiche o dei parallelismi nel dettato della Trotzig corrisponde anche a una grammatica poetica d’ascendenza biblica, cara di nuovo alla Sachs, ma pure a tutta una serie di grandi lirici svedesi del Novecento, come Pär Lagerkvist, Karin Boye o Edith Södergran: altra autrice, questa, molto amata dalla Trotzig, tanto da essere oggetto di un suo lungo saggio del 1978, pure raccolto in Porträtt (Ritratti). Ĕ facile immaginare quanta suggestione abbiano potuto esercitare anche sulla Trotzig elementi fondamentali per la Södergran come il prepotente senso della corporeità e della vita in ogni suo aspetto, l’urgenza della poesia, la visionarietà e l’arditezza delle immagini, certo uso del ritmo libero, delle spezzature, la presenza della frase nominale e di una sintassi sussultoria piena di tensioni e allentamenti improvvisi, la cultura cosmopolita, l’attenzione alla pittura. In uno spirito di larga apertura religiosa, non mancano tuttavia nella Trotzig riferimenti alla Kabbala o alle leggende e ai miti, che sono da lei considerati un prezioso patrimonio millenario della cultura umana: qualcosa che non si può ignorare – come ha dichiarato in una conversazione con Agneta Pleijel, edita in «Ord & Bild», nel 1982 -, pena la caduta in balia di un empirismo fine a se stesso e di un infecondo cumulo di informazioni e cognizioni che non si traducono in autentica conoscenza. Ad esempio, nel testo “un morto” della silloge “Anima” è evidente il fruttuoso riferimento al mito di Osiride, collegato al motivo della resurrezione entro una visione ciclica della vita, in specie vegetativa. In una coerente attenzione alla dimensione cosmica, non mancano neanche richiami al sufismo fondato dal poeta persiano Rûmî: basti pensare, in “lettere alfabetiche” della raccolta “Anima”, al riferimento al «ballerino derviscio» e, soprattutto, alla citazione di un verso del poeta mistico in “Ordgränser” (Confini della parola):
«Il viaggio fuori da un’asfissia, la nascita che riduce in pezzi sotto e sopra. Urlo, grido, sillabe. Più nessuna pretesa, nessuna esigenza sopravvissuta, non si dichiara niente su alcunché – si invoca, si rivolge la parola, si elemosina, si prega, si incomoda, si scongiura, fastidio, prima nell’invocazione ‘io’, prima nell’invocazione ‘vivo’.
Parola, riti, cattedrali, spezzati, infranti, esplosi, sudici. Nel buio, attraverso il buio, grido senza voce, parola rivolta senza labbra. Tutto il tempo “fa ruotare la terra con il suo peso di vivi e morti”».
Dunque ancora un’immagine spietata di nascita e di morte, di confluenza fra gli opposti, di dualità fra bene e male e di trasformazione nell’incessante movimento del cosmo: moto “rotatorio”, appunto, perché tutto si contrappone e si differenzia e tutto di nuovo, con perfetta circolarità, si ricollega ed incontra in un medesimo o analogo destino dell’essere. Ĕ con la realtà di dolore delle creature, con questo principio e questa fine – tutti immersi nella carnalità, nella corporeità dell’esperienza dell’essere umano che è mondo -, che la parola deve misurarsi e trovare la propria necessità espressiva. E con la sua capacità di sentire il mondo, di essere radicata nel vivo della sua contraddittoria essenza, la Trotzig ne perfora per così dire la scorza cogliendone i moti più profondi; e la pietas, l’acuto sentimento del male e del bene, la simpatia per l’umanità reietta e sofferente che conosce la disperazione, si traducono in una poesia ricca di echi e fremiti, in grado di suscitare forti turbamenti e inattesi moti di tenerezza, come solo la vera, grande poesia classica riesce a fare».
Le scrivo dal Centro dell’Impero. Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
Gino Rago 31 marzo 2018 alle 11:59
Ecco un intreccio poetico [Lipska-Linguaglossa-Rago] a tre, con Giorgio Linguaglossa che tenta di dare scacco matto al tedio di Dio…
Gino Rago
Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska
Cara Signora Ewa Lipska, (p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
Le scrivo dal Centro dell’Impero. Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert [come Roland Barthes fece con sua madre]. La sua morte l’ho appresa dalla mia amica di Vienna. La città oggi è nella tristezza dell’autunno [la mia amica dice che piove da tre giorni]. Entro al «Blumenstrasse» [ il Buffet caro alla Signora Schubert]. I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano. Mi dicono il menù da lei desiderato. La sperlunga «Octoberfest» di patate in tecia e crauti. Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere]. […] Cara Signora Ewa Lipska, (p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
il mio amico-poeta di Roma ha dato scacco matto al tedio di Dio. Ha scritto in un suo verso. «Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…» Forse per questo al Buffet della Signora Schubert l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile» dice ancora alle mie spalle qualche verso. […] Cara Signora Ewa Lipska, (p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße» il perché di quel nome: «Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti. Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle. Gli anziani col monocolo diventavano ballerini. Il clown macrocefalo smetteva di far ridere. li zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude. I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…» […] Cara Signora Ewa Lipska, (p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
andrò con la mia amica di Vienna a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero [sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].
Laura Canciani:
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro…
Mario M. Gabriele 30 marzo 2018 alle 11:15
Caro Giorgio, grazie per aver concesso altri giorni di dialogo sul tema della Critica e della Nuova Poesia. Meglio così,perché in questo modo si accede ad una dialettica di più ampia sfaccettatura. Mi fermo sul primo punto: quello della Critica, senza fare una retrospettiva storica, la qual cosa sarebbe noiosa e fuori tempo, ma chiamando in causa quella di mezzo secolo,più libera e autonoma, anche se poi via via, si sarebbe asservita al potere delle grandi case editrici. Intorno agli anni Sessanta la rivista Strumenti Critici aprì un ampio dibattito, portando in primo piano l’azione dello Strutturalismo, facendo riferimento ad alcuni Autori che meritavano tale studio. Ma poi, sia il tempo che la dispersione della critica verso altri mediocri orizzonti, portarono come scrisse Mario Lavagetto alla Eutanasia della Critica, intendendo dire con questo titolo del suo volume, la fine operativa di una disciplina. Ci fu un vero tracollo della critica militante e accademica, che sembrava non interessare a nessuno, dal momento che l’Editoria maggiore si autogestiva criticamente sulle opere prodotte. Se la critica muta le proprie direzioni si rimane come tuareg nel deserto. Va bene che spetta al lettore captare il bello di un verso, ma quanto alla sua decodificazione, credo che spetti al critico svelarne il senso. Non esiste libro che non abbia bisogno del critico. Se addiveniamo a questo concetto si recuperano valori e senso dello scrivere.
Oggi, per fortuna, si assiste ad un proliferare di riviste on line, di vendite e-book, con proposizioni linguistiche, e qui cito la «Nuova Ontologia Estetica», non per mero narcisismo, ma per effettiva documentazione estetica. Non vedo nel Gruppo 63 i killer della poesia. Anzi, fu una parentesi necessaria al pascolismo e al bertoluccianesimo imperanti in quegli anni. Ci fu tutto un susseguirsi di variazioni stilistiche e di affratellamento con gli esiti linguistici europei e degli angry ypung man, con festival di poesia e di importanti presenze di poeti di diverse nazioni. Attori leggevano poesie di Montale, di Caproni, ma soprattutto delle nuove leve come Saady Yussef, Ghassan Zaqta, Tadeus Rozewicz, accompagnati dai bassisti Deep Purple, Glen Hughes, ecc. Allora i poeti avevano molte ragioni per apparire, salire sui palchi, fare happening. Ma oggi? Era sì spettacolo, allora, ma anche performance della poesia, come a San Francisco con Ferlinghetti, e a Castelporziano con William Burroughs. Insomma, veramente la poesia degli anni 60 e 80 non fu mai così popolare e palcoscenica. Si proclamò la morte della lirica a tutto vantaggio di un grande spazio di libertà semantica.
Tutti ne parlavano e tutti ne discutevano. Poi si affermò la popolazione poetica a dir poco preistorica, che tornava al linguaggio autonomo dell’IO e della riconciliazione con la Tradizione. Un bell’oscuramento della poesia e del suo cammino. Nacquero le metanarrazioni, la cultura degli aedi, l’ascensione al cielo per istituzionalizzare la Metafisica.Caddero l’immaginario evolutivo, e ogni idea di riformismo verbale. Finì il successo plateale, ma anche la diffusione della poesia che stando ad un rapporto editoriale, su 2000 copie, se ne vendevano appena 500, rispetto ad una popolazione di 60 milioni di abitanti. Si può dire che la poesia è finita? In un certo senso si, con addio al piacere del testo e ad ogni proposito di rinnovamento.
Ci troviamo, come dice Zygmunt Bauman, in una sorta di vita liquida, e di relazione antisociale perché non trasmette agglutinazione del senso della cultura. Eppure in queste acque stagnanti qualcosa si muove. È l’antagonismo che come diceva Adorno è diventato ”conflitto inevitabile”. Su questa trincea e opposizione ad una guerra di Cent’anni, Giorgio Linguaglossa sembra veramente essere un Cavaliere Esistente, per rifondare la critica e la poesia. È una nuova lezione volta a ripristinare il giusto equilibrio tra Forma e Senso del suo esistere. La parola cultura ha diverse fascinazioni, ma non può essere insabbiata sulle rive dell’Assenteismo linguistico. Torno ancora a citare Adorno quando scrive che “la cultura risente danno, se abbandonata a se stessa rischiando di perdere non solo la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza.Continua a leggere →
È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.
Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.
La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.
È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.
Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.
Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.
foto di gunnar-smoliansky, 1958
londadeltempo
26 luglio 2017 alle 0:36
Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!
(Mariella)
Kjell Espmark, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi
Poesie di Kjell Espmark da La Creazione (2016, Aracne) traduzione di Enrico Tiozzo
Commento «ontologico» di Giorgio Linguaglossa
Nella nuova poesia il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il «solido nulla» del nostro nichilismo, quest’ospite ingombrante che non possiamo più mettere alla porta, perché tanto non varrebbe, si ripresenterebbe tale e quale dinanzi e dietro di noi senza preavviso…
La «positività» del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo, è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia di Kjell Espmark con la mente sgombra, senza pregiudizi, facendo vuoto sul prima della poesia, e sul dopo, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare negli uomini e le donne che parlano in questa novella Antologia di Spoon river la progressiva nullificazione del nulla che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo propriamente ciò di cui tratta la «nuova ontologia estetica», prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica e quant’altro…
Mi conoscete come Yan Zhenqing, il maestro del pennello dritto. Ma l’imperatore mi trovò altro uso. Le rivolte allora squarciavano il regno. I figli pugnalavano il loro padre e le donne si sbudellavano come galline. La realtà da noi ereditata cadde in pezzi. Sì, la luna stessa fu ridotta in cenere.
Il mio valore durante la resistenza mi aveva fatto diventare ministro. Ma la mia aperta critica ai cortigiani corrotti suscitò l’ira del primo consigliere. Mi mandò a fare giustizia del capo della rivoluzione Li Xili pagando con la mia vita per l’oltraggio.
Ma Li voleva comprarmi. Si racconta che accese un falò in giardino minacciando di buttare un no nel fuoco.
*
E che io destai il suo rispetto quando da me andai verso le fiamme. La memoria vuole eradere ciò che davvero accadde.
Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta vi racconta tutto questo. Una pennellata comincia e finisce debolmente come la donna che a lungo ho amato ma il corpo del segno è d’un guerriero. Solo così lo scritto è capace d’intervenire.
Ora ero al limite del mio filo d’erba curvantesi. L’ultima notte nel tempio di Longxing scrissi mentre aspettavo il boia. Il diretto, oggettivo scritto restituì alle parole saccheggiate il loro senso. Costrinse la cenere a ridiventare luna, riempì lo stagno perché vi si specchiasse e ridiede al Buddha nel tempio le sue braccia. Quelli che venenro per strangolarmi furono atterriti dalla forza dei segni.
*
Quando prendeste il largo tra costellazioni spaventose lasciandomi da questa parte del Giordano portaste con voi una patria incompleta.
Divenni un mucchio di ossa abbandonate rose da iene e avvoltoi e rese lucide da vento e sabbia. Ma i resti della gabbia toracica trattennero ciò che il naufrago capì.
E ciò che veramente è io in me non s’arrese. Questa tremula fiamma sperduta ha vagato lungo vie polverose, che non erano polvere né vie, per cercare voi, i miei.
Volevo mettere la mia anziana parola nei vostri sogni, senza destarvi. Sussurrare: La creazione è ancora incompiuta.
*
Ed è in voi che spera. Avverto come vi girate nel sonno con mani che afferrano nell’aria vuota come per difendersi.
Ma perché giacete in così tanti, ammucchiati insieme disperatamente, su una sorta di letti di assi sporche? E perché siete così smunti?
Voglio spargere in voi ciò che ho capito, come cerchi su un’acqua dormiente. Ma perché l’acqua è così scura? E perché trema senza sosta?
*
Mi precipitai fuori, trasformata in fiamme dalla biblioteca di Alessandria. I nove rotoli di papiro in cui abitavo ancora crepitanti di deluso amore, mutarono in scintille e salienti schegge. E morii per la seconda volta.
Frammenti di me rimasero come citazioni. La mia parola per cielo s’impigliò in un dotto pedante – Lui era fisso alla scrivania Quando il blu di colpo divenne il blu profondo. Un pronome usato in modo inusuale stregò un grammatico. La parola che scrisse se stessa in giallo e verde – uno scarabeo! – aprì le sue elitre e si alzò per portare il suo contesto attraverso i secoli.
Altri frammenti di ciò che era Saffo rimasero come schegge sui passanti per “richiamare chi a lungo amò”
*
Invece di cercare la Grande Visione dovresti dedicarti ai piaceri della procreazione e poi uscire con la tua donna nella luce lunare, ascoltare l’unico liuto e sentire l’aria fredda passare sul collo Quel consiglio l’avesti da me, Li Zhi, che una volta cercò d’insegnarti a scrivere come salta la lepre e come colpisce il falco, non per essere citato. Non cercare di difenderti col fatto che molti vogliono bruciare i tuoi libri. Il vero testo brucia mentre la mano scrive – la carta s’accartoccia con i bordi neri.
Sull’estrema punta del capello dove non visto costruisti la tua capanna trovasti un’accademia. Sono deluso da te. Hai dimenticato me gettato in galera
Trovai sì l’ombra del mio amato ma brancicò sopra di me senza riconoscermi. Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra, l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra, e lui stupì –
*
La mia mano che mano più non era prese la sua che ancora era ombra. E cominciammo a salire su nel buio. Ad ogni gradino noi creammo un pezzo dell’altro – un contorno noto, gli occhi che un giorno scelsero l’altro. Sì, dalle carezze ci nacquero sessi noti.
Vicino alla luce alla fine della scala, alitato il respiro l’un nell’altra rimanemmo fermi sopra un gradino che doveva dirci qualche cosa: spingi indietro la tua immagine dell’altro e lascia che l’altro sia l’altro. Stupiti ci fermammo, prima che la creazione si compisse, per imbrigliare il bisogno di riconoscere. Ed era la sera del sesto giorno.
Giorgio Linguaglossa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi
giorgio linguaglossa
26 luglio 2017 alle 8:22 gentile Mariella,
UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.
È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta
forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».
Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:
Una brezza la porta si è spalancata. Fitto fogliame, nessuno, la soglia non varcata. In questo addio, sono tornato a casa.
(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)
Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).
La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita. Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:
la soglia non varcata
Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.
Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.
Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:
È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono, cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito».Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.
Giuseppe Ungaretti nella grafica di Lucio Mayoor Tosi
Sull’Estraneo
Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati. È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene. Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.
Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.
Il responso di Andrea Emo:
«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?» […] «nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*
* citato da Adalberto Coltelluccio in https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.
Lucio Mayoor Tosi nella sua grafica
Lucio Mayoor Tosi 26 luglio 2017 alle 7:08
SULLA POESIA DEL NICHILISMO E L’ONTOLOGIA TRADIZIONALE
Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose. Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive: “Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.
Scrive Heidegger:
«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:
«Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben.» (IT) «Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata.» (In GA 39 p.22)
La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden).
Leopardi, al contrario di Hölderlin,
non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci: perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.
Donatella Costantina Giancaspero, Fiera del Libro dell’EUR, Roma, 2017
Presentazione di Kjell Espmark di Donatella Costantina Giancaspero
Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.
Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.
Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.
Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.
All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer. In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.
Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi nonhanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro La via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.
Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria,Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi chesi trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa, pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.
Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.
Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.
Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.
Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.
All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer. In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.
Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi nonhanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro La via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.
Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria,Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi chesi trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa, pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.
Quello che mi colpisce in queste poesie di Kjell Espmark pubblicate in Svezia nel 1992 e in traduzione italiana di Enrico Tiozzo nel 1993 (Ed. Bi.Bo Quando la strada gira), è lo spostamento autoriale. L’autore non corrisponde più al personaggio che narra. Nella poesia svedese da molti decenni, per la precisione dal finire degli anni Cinquanta, si è fatta una poesia dove si verifica la dis-locazione del soggetto. Poiché le cose non accadono per caso, occorre andare a vedere perché sono accadute. In particolare. E in effetti la poesia svedese dagli anni Sessanta ha privilegiato la dislocazione tematica, l’interpunzione frequente del verso libero, la dislocazione autoriale, la frammentazione della «forma-poesia», la adozione di una tematica esistenziale, gli «interni» stretti, etc.
E adesso passiamo al commento a braccio di queste due poesie. Nella prima poesia il protagonista è «il manico del mio ombrello», si ha qui una sineddoche, il soggetto è diventato una parte di un’altra parte più grande, ed il tempo della poesia ne è stato influenzato, anzi, direi che ne è stato determinato. Un grande ruolo viene svolto dalla metafora: la prima strofa è tutta piena di metafore, cioè di immagini simbolo che indicano qualcosa che sta fuori della poesia. È il fuori della poesia che è determinante. O meglio, è l’interno della poesia che reagisce al fuori con un di più di impenetrabilità, e questa impenetrabilità è, appunto, lo scrigno del tempo della poesia, una sorta di «tempo interno» che è regolato da un cronometro tutto diverso da quello che registra il «tempo esterno» alla poesia. Il lettore ha la percezione che questa collisione, questo attrito tra i due «tempi» è quello che genera la struttura della poesia: il suo metro libero, le sue pause, le sue riprese.
E in effetti, una caratteristica della migliore poesia svedese è la impenetrabilità di quello che io indico «tempo interno» della poesia, della sua struttura a chiocciola, ellittica, a fisarmonica, elicoidale, sinusoidale che converge verso l’interno, ma in modo elusivo, sfuggente. Una poesia priva di «chiusura», priva di lucchetto, che lascia lo spazio per un altro spazio, dove non ci sono porte di uscita, o meglio, dove ci sono più porte. Infatti, l’ultimo verso della prima poesia suona:
Il tuono si raccoglie prima della visita che tutto dice ma non chiude affatto.
La seconda poesia ha un inizio fulminante:
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria: deve esserci sempre stata sebbene non ce ne siamo mai accorti. La apro
Qui il tempo cronometrico della vita quotidiana viene squarciato da un momento, un istante privilegiato che indica la rottura della simmetria temporale per una violenta intromissione di un altro «tempo» durante il quale i protagonisti della poesia dichiarano di non essersi mai accorti della esistenza di una «porta». Il protagonista dice semplicemente: «La apro», con tutto quel che segue. È un modo straordinariamente normale di introdurre il «tempo interno» nel tempo cronometrico che esiste là fuori, fuori della poesia.
Oltre la linea
Nel 1950, in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, Ernst Jünger pubblicò il saggio Oltre la linea, dedicato al tema che attraversa come una crepa non solo tutta la sua opera, ma quella di Heidegger e tutto il nostro tempo: il nichilismo. Questa parola era stata evocata da Nietzsche, come se in essa si preannunciasse un «contromovimento», un al di là del nichilismo. Dopo che la storia ha «riempito di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» le divinazioni di Nietzsche, Jünger si domanda in questo saggio, che rimane uno dei suoi testi essenziali, se è possibile «l’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero» che è segnato dalla parola niente. E precisa: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca». Cinque anni dopo, Heidegger raccolse la sfida e rispose a Jünger con un testo che è anch’esso essenziale nella sua opera: La questione dell’essere.
Nietzsche definì il nichilismo «il più inquietante fra tutti gli ospiti» del nostro tempo.
Andare «oltre i limiti della verità», oltre «la linea» scrive Heidegger (1955) in risposta a Junger in un saggio intitolato «Oltre la linea (1955).
L’essenza del nichilismo,
considerato come la normale condizione dell’uomo di cui trattano il saggio Oltre la linea, risiede nell’oblio dell’essere, nella totale soppressione dell’ombra, del chiaroscuro, dello sfumato. Secondo Heidegger, è errato pensare ad un «oltrepassamento del nichilismo», pena il ricadere nello stesso errore che ha portato all’oblio perché non possiamo oltrepassare nulla senza modificare il linguaggio in quanto prigionieri del linguaggio.
L’«oltrepassamento» diventa problematico nel momento in cui la linea che segna il bordo è messa in pericolo. Essere presso di sé, o inseguire lo «Straniero», la «Maschera», l’«Altro», il «Sosia» è possibile solo come un attendersi, come uno sporgersi verso quel confine che non possiamo individuare con esattezza e che non possiamo neanche sperare di oltrepassare. Confine che si dà in modo privilegiato nel pensiero della morte, o del vuoto che si apre dietro la soglia, nel pensiero delle porte dopo le quali non ci sono stanze:
Ci sono porte ma non ci sono stanze. Ci sono voci ma non ci sono echi. Tutto è abbreviato come se la Storia avesse preso una scorciatoia attraversandomi.
(Via lattea, Aracne, 2010, p. 89)
Non resta dunque che sopportare l’«aporia» in cui ci getta un tale pensiero, «aporia» come impossibilità di oltrepassare la soglia, aprire una porta, come impossibilità della possibilità, come qualcosa di molto simile alla «morte» apparente di cui parla Heidegger, che è l’angoscia. Quella morte apparente che per Kjell Espmark è l’esistenza. Il pensiero conforme all’aporia è un pensiero che non sa più dove andare, afferma Derrida, ma che sa dove sostare. Sosta appunto davanti «a una porta, a una soglia, a un confine, a una linea, o semplicemente al bordo o all’abbordo dell’altro come tale».1] Sosta presso una porta aperta, o una porta chiusa. Essere catturati dal confine, soggiornare nel confine significa tollerare l’aporia come altamente problematica, come ciò che fonda il significato, il senso del nostro abitare il mondo.
Il pensiero conforme all’aporia allora diventa una esperienza frammentata e sempre ripresa, interminabile, nella quale si ha a che fare con una petizione, una chiamata, un dovere che non deve niente a nessuno, «che per essere un dovere deve non dovere niente»,1bis] un super dovere insomma, che ordina di agire al di là delle regole e delle norme. Se è vero che una decisione davvero responsabile non deve rispondere ad un qualche ordine prestabilito, ad un sapere presentabile, prendere una decisione di questo tipo significa interrompere il rapporto con ogni determinazione presentabile ma mantenere invece il rapporto con l’interruzione, dove l’interruzione somiglia alla soglia, alla linea divisoria.
Per Heidegger il capolavoro della ragione sta nel riconoscere il punto in cui bisogna cessare di ragionare,
i tentativi di oltrepassare la linea che non restano invischiati nella stessa sono ancora, secondo Heidegger, «in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere».2] Sarebbe quindi bene non parlare di «oltre» la linea ma di «su» la linea, per indicare il raccogliersi presso questa località senza deviare né passare oltre ma sostando e sollevando l’enigmaticità dell’ovvio. È vero: più ci approssimiamo alla linea più essa si dissolve. dobbiamo a questo punto tornare indietro, volgerci al «dimenticato», sostare in un raccoglimento, anelare un ritorno verso quelle località originarie dove il pensiero diventa «rammemorante».
Questa ricerca è quella che opera il linguaggio poetico.
In fondo, nel nostro stesso dire «io» ricorriamo a un linguaggio, dipendiamo dal sistema delle parole, dalle loro leggi. Qualsiasi tentativo di appropriazione si muta in una «distanziazione». Nel volgerci verso il linguaggio poetico scopriamo la distanza. Ma questa «distanziazione» è però sempre un modo di approssimarsi, una ricerca di prossimità.3] Non resta quindi che assumere le spoglie di altre maschere, di altri personaggi. Esplorare i confini di altre maschere ci porta in prossimità delle «cose»; allora possiamo abitare i bordi e affacciarci sull’ abisso.
Il grande poeta è colui che osa gettare lo sguardo dentro l’abisso del nichilismo. Kjell Espmark è uno dei pochi poeti che ha osato nel nostro tempo del disimpegno e del minimalismo sfidare le colonne d’Ercole della nostra epoca.
Il pensiero estremo ha a che fare con l’estremità del pensiero,
è affine all’abisso del quale il pensiero non può non provare nostalgia. Tutto ciò ha a che fare solo con situazioni estreme dell’esistenza; il pensiero poetico non può che sostare ai bordi linguistici di queste esperienze estreme. Avvertiamo qualcosa di simile quotidianamente, come quando ci accorgiamo che ciò che diciamo non corrisponde esattamente a ciò che pensiamo, e ciò che pensiamo non corrisponde esattamente a ciò che avvertiamo e notiamo uno scarto tra significato e significante e ascoltiamo il richiamo che proviene dalle crepe che si aprono nel muro dell’ovvietà; a questo punto avvertiamo oscuramente lo spaesamento, una sorta di labirintite, il divario che si apre tra noi e noi stessi, nel nostro stesso pensiero pensato avvertiamo la presenza di un impensato, un inconciliato, un inconciliabile, un estraneo. E veniamo gettati nell’angoscia. Qui, in questo punto, risiede il fascino sinistro che l’abisso esercita su di noi, che ci rende evidente, all’improvviso, che quelle crepe nascondono in realtà un abisso, che ci attrae.
L’angoscia è la percezione della nullità del nostro Ego, quel «solido nulla», per dirla con Leopardi, che costituisce la nostra soggettività, quella forza nullificante che annienta il mondo sotto forma di volontà di potenza, ma che può anche vivificarlo, renderlo significativo.
Kjell Espmark pensa l’uomo irretito nella falsa immagine di sé e nel falso sembiante, radicato nella dimensione inautentica dell’esistenzaContinua a leggere →
foto di gunnar-smoliansky-1976 [Le lampade hanno la stessa forma dei caschi. Illuminano crudelmente i tavolini]
[Werner Aspenström è nato nel 1918, un piccolo villaggio della Svezia del Nord ed è morto nel 1997. Dopo studi irregolari e lavori saltuari, fra cui quello del boscaiolo, Aspenström ottiene la licenza liceale come privatista a Stoccolma nel 1940 e, nello stesso tempo, entra in contatto con l’ambiente letterario della capitale svedese e stringe amicizia con poeti come Karl Vennberg ed Erik Lindegren e con loro fonda la rivista “40-tal” (Anni Quaranta) caratterizzata da un vigile pessimismo e da un crescente senso di angoscia per i futuri destini dell’umanità. Nel 1943 esce Preparazione, nel 1946 Il grido e il silenzio e nel 1949 Leggenda innevata di tono simbolista ed ermetico, che suscitarono qualche discussione nell’ambiente letterario svedese per l’oscurità enigmatica di certi passaggi. Nelle raccolte successive degli anni Cinquanta e Sessanta Aspenström ha continuato a muoversi fra i poli opposti di un senso disperato di impotenza e paura, tipico delle prime liriche, e di una tendenza all’idillio rasserenatore, percepibile soprattutto nella descrizione di momenti magici a contatto della natura. Negli anni Ottanta pubblica Presto una mattina (1976-1989) e Sussurro nel 1983.]
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Il «tempo interno» in Poesia; Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»? E come si fa ad entrare dentro la «cosa»?
Proviamo ad avvicinarci ad una idea inconsueta, alla idea di far diventare gli «oggetti», «cose». Forse siamo troppo adulti, troppo abituati a considerare le «cose» gli equivalenti degli «oggetti» che non sappiamo più la differenza tra gli «oggetti», e le «cose». Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»? E come si fa ad entrare all’interno della «cosa»? Come si fa ad adoperare una «cosa»? Ma, una «cosa» si può adoperare? Quando è che una «cosa» diventa un evento esteticamente tracciabile? Che rapporto c’è tra un «evento» e una «cosa»? – Ecco, io direi che la poesia italiana ha trascurato da sempre questo piccolo problema: quando gli oggetti cessano di essere «oggetti» e diventano «cose». È soltanto a quel punto che può sorgere una tracciabilità per la poesia. Io la metterei così: la «cosa» è un oggetto simbolico che ha iniziato ad irradiare segnali significativi. Ad un certo punto avviene che un «oggetto» è muto per il linguaggio ordinario ma non per il linguaggio simbolico per eccellenza quale è il linguaggio poetico, e comincia a «parlare». E questo suo «parlare» è il discorso poetico. Un «oggetto» diventa «cosa» quando viene dotato di temporalità. Voglio dire che, fino ad un certo punto, gli oggetti di tutti i giorni non hanno ancora acquisito una propria temporalità ma convivono con noi e in mezzo a noi nella confusione della dimensione della confusione, dell’inautenticità, nella temporalità del presente; ad un certo punto della loro condizione di esistenza gli «oggetti» restano muti, non emettono segnali simbolici significativi, almeno fino a quando vengono, per una ragione o per l’altra, dismessi. E allora diventano oggetti simbolici, dotati di una propria temporalità significativa. Soltanto a questo punto possono fare ingresso nel linguaggio poetico. Leggiamo tre versi di Aspenström:
Il frutto che cade si ferma a metà strada tra ramo e erba e chiede: Dove sono?
L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante, fatto di quel solido nulla che è il soggetto degli oggetti.
C’è una bella differenza: le «cose» sono fatte di «tempo» mentre gli «oggetti» sono fatti di tempo di lavoro. Ad esempio: C’è una differenza abissale tra una poesia fatta di «oggetti» e una poesia fatta di «cose». Capisco di riuscire un po’ metafisico e misterioso, ma qui si cela una evidenza importante che vorrei esplicitare. Per farla breve, dirò che una poesia fatta di oggetti la si dimentica nel giro di qualche anno o di qualche generazione, la poesia fatta di cose invece resiste al tempo, non si cancella. Come mai avviene questo? La risposta la dobbiamo cercare nell’ingresso del Fattore tempo all’interno della «cosa», e quando io dico «tempo» intendo qualcosa di difficilmente definibile, qualcosa che riguarda tutto ciò che c’è nel creato e in noi. Come diceva Agostino se nessuno me lo chiede so benissimo che cos’è il tempo, ma se qualcuno me lo chiede, allora non lo so più. Appunto, il paradosso del tempo è questo; che noi pensiamo intuitivamente, dando credito al senso comune, di sapere che cos’è il tempo, ma in realtà non sappiamo nulla di esso, siamo ancora al livello dei trogloditi.
foto di gunnar-smoliansky-1976 [Per me qualche volta il tempo esiste, qualche volta no]
Per semplificare, dirò una evidenza: che la Lingua e la Parola sono entità fatte di Tempo. Non soltanto il Tempo le penetra dall’esterno, ma direi che le penetra anche dall’interno, ma anche e soprattutto che il Tempo è la cosa stessa, che non c’è cosa nel nostro universo che non sia «tempo» irrelato. Ma, dicendo questo mi rendo conto che ho proferito una tesi estrema, che dovrebbe avere il supporto della scienza e del pensiero filosofico, ma tant’è, lo scrivo egualmente, in modo ingenuo, nella speranza che qualcuno che ne sa più di me voglia tentare di spiegare questa «evenienza»… Da questo punto di vista, l’idea anceschiana di una «poesia degli oggetti» è destituita di fondamento filosofico. In realtà, nella migliore poesia moderna sono le «cose» che si palesano nella loro «cosalità»; una «poesia degli oggetti» è un non senso filosofico, è una sciocchezza filosofica. La poesia abita le «cose», non conosce gli «oggetti». La «metafora tridimensionale» di Mandel’štam tratta di «cose», non di «oggetti», e così la poesia di Aspenström. Il «laboratorio di impagliatura» degli oggetti dei simbolisti viene da Mandel’štam sostituito con le «cose» vere, con le «suppellettili» con cui ha a che fare l’uomo nella sua vita quotidiana di tutti i giorni. Gli «oggetti» sono quelle entità di cui sono piene le nostre vite quotidiane, ma la poesia rigetta gli «oggetti», è loro estranea; o meglio, li ricrea e li sostituisce con le «cose». Soltanto le «cose» possono abitare il discorso poetico. La poesia è irrimediabilmente nemica della civiltà degli oggetti del capitalismo inoltrato.
Ma che cos’è questo «secondo tempo», non più parametro (come nella meccanica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica che Prigogine chiama «tempo interno»? È singolare che per spiegare questo concetto scientifico così singolare Prigogine ricorra a una vera e propria riabilitazione ontologica della percezione immediata quando afferma che «è essa a renderci consapevoli dell’esistenza nella nostra stessa vita, di una freccia del tempo […] La giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha finora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio».1
Quando gli «oggetti» sono saturi di tempo, allora vuol dire che sono diventati delle «cose».
Per caso oggi ho aperto una antologia di Poeti svedesi contemporanei nella traduzione di Enrico Tiozzo del 1992. Guardate il modo con cui il poeta svedese tratta gli «oggetti», qui non c’è alcuna topologia utilitaristica. Ecco come gli «oggetti» non più utilizzati ridiventano «cose» misteriose. Un semplicissimo «momento in pizzeria», una esperienza quotidiana e irrisoria, diventa epifania di una diversa collocazione delle «cose» nel mondo e nel «tempo». Attenzione, qui non si tratta di epifania estatica alla maniera dei primi simbolisti europei, di Ungaretti, per intenderci, che sta in posizione estatica in attesa dell’epifania, qui si tratta di una nuova e diversa collocazione del nostro essere nell’universo e nel tempo. Le «cose» ci si presentano nella loro nuda «cosalità». Le «cose» sono frammenti del mondo e del «tempo» e la cosalità è quell’alone che avvolge le cose come la carta stagnola avvolge i regali delle persone care.
Ecco un modo di fare poesia veramente moderna con le «cose» e il «tempo».
1 Marramao Giacomo, Minima temporalia, luca sossella editore, 2005, p. 20Continua a leggere →
Rispondo alle esternazioni pervenute da varie parti che hanno avuto a bersaglio, con toni di sufficienza, il «frammento» in poesia, mediante la mia prefazione al libro di uno dei più grandi poeti europei viventi, lo svedese Kjell Espmark (1930), pubblicato in Italia nella traduzione di Enrico Tiozzo, Aracne editrice, 2016
da Quando la strada gira Traduzione di Enrico Tiozzo, 1992 Ed. Bi.Bo
Inaspettatamente siamo di nuovo nel villaggio fra case accennate e oche senza tempo sotto rade lastre di cielo: la tela è nuda fra le pennellate.
Che è successo? Siamo stati per un attimo fuori della vita? Come se un subito coltello da macellaio con quattro esperti tagli avesse diviso occhio, gola, cuore e sesso da tutto ciò che è diretto a capofitto giorno dopo giorno da nessuna parte e li avesse riuniti ad un capitolo per il quale siamo già passati.
Tutto come prima. Tranne la luce scatenata. Come se la strada fosse strada per la prima volta: Ogni odore è più forte, ogni colore più pieno – il senza significato ci ha toccato.
Madame ci guarda indulgente e mette in tavola dei pezzi di chèvre, un sapore che fiorisce ampio intinto nella cenere.
Cerco di ricordare. Presumo che il previo capitolo ancora sia valido. Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa, una voce e un profumo di caprifoglio senza veramente ricordarli: come se ci si fosse corsi incontro a braccia aperte e ci si trova ad abbracciare un estraneo.
Ciò che cerco nella memoria si tiene nascosto come un mostro che viene dallo spazio. Solo qualche schizzo di sangue fa la spia.
Ma certo siamo vissuti prima? Dipende da ciò che s’intende per vita. Sparsi bagliori di ricordi narrano di un grandissimo paesaggio con un gusto retroattivo di cenere.
Le lenzuola della camera d’albergo sembrano usate: riconosciamo quella macchia anche se non siamo mai stati qui prima. Un posto logoro per l’inizio. I polpastrelli cercano la tua bocca e sentono crearsi le labbra. La lingua crea una fossa sulla spalla. Come quando un intaccato rituale riceve in visita un dio sconosciuto così diventa il nostro amore amore per la prima volta.
*
Nuoto a qualche metro di profondità in mezzo a un branco di pesci che a scossoni si gira. Non è quaggiù che usa cominciare la poesia? Attesa, ombre, sfocato chiarore. Di colpo vedo le navi lassù: un quadro che dondola un po’; ancora con molte fini possibili. Due ruote di prua leggermente si toccano. Gli equipaggi stanno ciascuno nella sua lingua con la lancia accortamente alzata per il tiro. Un giovinetto è appena caduto giù nel largo tratto blu-turchese dove nuoto con bracciate lentamente pietrificate. Un uomo bruno lo tiene per il piede mentre un altro con il remo spinge giù la sua testa spumeggiante. Aspettano i pesci rotondi fissi nello smalto. S’irrigidisce secolo su secolo. Illuminazioni
1. Stavo davanti alla cattedrale di Lau, ho aperto di un dito la porta, preparato al bianco fresco della stanza e sono impietrito. Forse era l’acustica e le voci dei visitatori insieme con la fessura – io non ho bisogno di spiegazioni. Ma tutta la chiesa era una potente bocca mormorante di voci di angeli. Non c’era alcuna misericordia in quella musica-
2. I bambini siedono uno di fronte all’altro, stranamente bianchi in una stanza bianca davanti a un pianoforte bianco. È la nostra sala da pranzo e tuttavia non lo è. I loro capelli sono così chiari che lo sguardo non li regge. essi ridono quando bassi e acuti inaspettatamente si accordano. Anche la musica sembra bianca. I bambini possono avere quindici o dodici anni. Difficile decidere perché non pesano niente e l’immagine nega un contesto. Ma c’è qualcosa di strano nella luce. È troppo chiaro anche per queste finestre alte. Allora si vede come le carte bianche alle pareti scuriscono nei bordi estremi, s’accartocciano e fanno passare una fiamma, sempre più.
3. Con il manico del mio ombrello che cola batto sul sarcofago e ti invito a uscire dalla terza fila nel sotto Escorial. Silenzio. La pioggia infuria lassù. Capisco che mi aspetti nel tuo regale studio. La scala serpeggia attraverso gli anni. Il tuono si raccoglie prima della visita.
4. In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria: deve esserci sempre stata sebbene non ce ne siamo mai accorti. La apro – il rumore è come quando si strappa un lenzuolo – e l’odore di anni inibiti esce con la muffa. Là dietro c’è una donna mummificata in una stanza più piccola di un armadio. I suoi occhi sono al di là di ogni conversazione, la figura sfocata dalle tele di ragno. Le labbra rugose sussurrano, bianche di rabbia: – Non potevi lasciarmi morire!
Quello che mi colpisce in queste due ultime poesie di Kjell Espmark pubblicate in Svezia nel 19992 e in traduzione italiana di Enrico Tiozzo nel 1993 (Ed. Bi.Bo Quando la strada gira), è lo spostamento autoriale. L’autore non corrisponde più al personaggio che narra. Nella poesia svedese da molti decenni, per la precisione dal finire degli anni Cinquanta, si è fatta una poesia dove si verifica la dis-locazione del soggetto. Poiché le cose non accadono per caso, occorre andare a vedere perché sono accadute. In particolare. E in effetti la poesia svedese dagli anni Sessanta ha privilegiato la dislocazione tematica, l’interpunzione frequente del verso libero, la dislocazione autoriale, la frammentazione della «forma-poesia», la adozione di una tematica esistenziale, gli «interni» stretti, etc.
E adesso passiamo al commento a braccio di queste due poesie. Nella prima poesia il protagonista è «il manico del mio ombrello», si ha qui una sineddoche, il soggetto è diventato una parte di un’altra parte più grande, ed il tempo della poesia ne è stato influenzato, anzi, direi che ne è stato determinato. Un grande ruolo viene svolto dalla metafora: la prima strofa è tutta piena di metafore, cioè di immagini simbolo che indicano qualcosa che sta fuori della poesia. È il fuori della poesia che è determinante. O meglio, è l’interno della poesia che reagisce al fuori con un di più di impenetrabilità, e questa impenetrabilità è, appunto, lo scrigno del tempo della poesia, una sorta di «tempo interno» che è regolato da un cronometro tutto diverso da quello che registra il «tempo esterno» alla poesia. Il lettore ha la percezione che questa collisione, questo attrito tra i due «tempi» è quello che genera la struttura della poesia, il suo metro libero, le sue pause, le sue riprese.
E in effetti, una caratteristica della migliore poesia svedese è quella della impenetrabilità di quello che io indico «tempo interno» della poesia, della sua struttura a chiocciola, ellittica, che converge verso l’interno. Una poesia priva di «chiusura», priva di lucchetto, che lascia lo spazio per un altro spazio. Infatti, l’ultimo verso della prima poesia suona:
Il tuono si raccoglie prima della visita che tutto dice ma non chiude affatto.
La seconda poesia ha un inizio fulminante:
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria: deve esserci sempre stata sebbene non ce ne siamo mai accorti. La apro.
Qui il tempo cronometrico della vita quotidiana viene squarciato da un momento, un istante privilegiato che indica la rottura della simmetria temporale per una violenta intromissione di un altro «tempo» durante il quale i protagonisti della poesia dichiarano di non essersi mai accorti della esistenza di una «porta». Il protagonista dice semplicemente: «La apro», con tutto quel che segue. È un modo straordinario di introdurre il «tempo interno» nel tempo cronometrico che esiste là fuori, fuori della poesia.
Prefazione a La creazione (Aracne,, 2016) di Giorgio Linguaglossa
Le città sono «cenere»; «cenere le città che sono state a lungo cenere», scrive Kjell Espmark.
Le parole di Espmark sanno di essere effimere, transeunti, fragili, entropiche. Le parole che vivono nel nostro mondo non possono che essere volatili. Il sostrato ontologico dell’Occidente del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di volatile i cui componenti appartengono alla categoria dei conglomerati, fatti di giustapposizioni e di emulsioni, di lavorati e di semilavorati, materiali che si offrono alla costruzione, alla auto-combustione e alla entropizzazione. Il Moderno del Dopo il Moderno è ragguagliabile a un gigantesco conglomerato di elementi aerei, fluttuanti, effimeri dal quale sembra sia scomparsa la forza di gravità. Le parole sembrano allentarsi e allontanarsi dal rigore sintattico, appaiono volatili, frante. Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo.
Nella poesia di Kjell Espmark ci trovi in trasparenza frasari che riecheggiano frasi un tempo già pronunciate, già scritte, magari nella Bibbia o in qualche cronaca dell’impero cinese. L’ingresso in questi grattacieli del fabbricato leggero, le novelle piramidi del nostro tempo, è fatto di effimero e di transeunte, di transitante nel Nihil, ponte di corda steso sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà. Ecco, la poesia di Kjell Espmark ha la solidità e la leggerezza di un ponte di corda. L’ingresso, dicevo, in questo fabbricato di frasari nobili e non-nobili è un tortuoso cunicolo che ci porta all’interno del mistero dell’esistenza dell’uomo occidentale. Qui, ci si muove a tentoni, non si vede granché, non c’è luce, non si percepisce se la via scelta sia quella giusta, ma l’attraversamento di essa è per un poeta un obbligo non eludibile. Bisogna varcare quell’ingresso e inoltrarsi. La poesia di Kjell Espmark si propone questo compito. È un tragitto fra intervalli di buio durante i quali il tempo sembra sospeso, dove la «parola» si è volatilizzata, portandosi via con sé «una patria incompleta», ed è diventata invulnerabile al tempo che la vuole soccombente. Le «ombre» commerciano con i vivi. Ci sono molte «ombre» in queste poesie, e noi non sappiamo chi sia più vivo, se le «ombre» o i vivi:
Trovai sì l’ombra del mio amato ma brancicò sopra di me senza riconoscermi. Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra, l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra, e lui stupì –
Questo «passaggio» tra le «ombre» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco) – ma significa compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è impenetrabile, smarrita e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.
Va da sé che il poeta del Dopo il Moderno non può non tentare di percorrere tra le innumerevoli «vie indirette» quelle appunto che lo riconducono ad un rapporto stabile e duraturo con l’essere dell’esistenza, sommatoria di presenti, istantaneità che si hanno attraverso l’Erfahrung, l’esperienza. Ecco la ragione del «viaggio» nella «Creazione» di Kjell Espmark: il togliersi da una immediatezza per la deiezione in un’altra immediatezza. L’auto-costruzione dell’io altro non è che una auto combustione, un processo di produzione e consunzione di un io feticizzato, inservibile, inautentico. La vita vuole qualcosa che non può più in alcun modo dare, né il «viaggio» né alcun altro «passaggio» può riprodurre in alcun modo la pienezza di un «io» in perenne auto-produzione, in continuo dissolvimento. Di frequente, nella poesia moderna il feticismo della merce lo puoi cogliere nel feticismo dello stile come due gemelli siamesi, inestricabilmente condannati ad una medesima familiarità. In ogni piega della forma, in ogni suo minimo recesso, lo stile demotico reca il carnet della barbarie della cultura da cui proviene. Anche nello stile più alto e sublimato, quella barbarie vi ristagna e sordidamente vi serpeggia anche se non appare immediatamente evidente. La grandezza di Kjell Espmark è che mette in gioco la propria poesia per denunciare la cultura dalla quale essa proviene. Scrive Espmark: «Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta / vi racconta tutto questo».
Ecco come ho risposto sulla rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com a proposito della notazione di «freddezza» che alcuni lettori italiani hanno intravisto nei suoi versi: “Mi rendo conto che forse sarebbe il caso di approfondire che cosa vuol dire «emozione» in poesia. Sì, ci sono i poeti che si affidano alla facile emozione e poi ci sono i poeti che evitano con tutte le proprie forze di avvalersi dell’aiuto delle facili emozioni. Tra questi ultimi, in prima fila, c’è Kjell Espmark, uno dei maggiori poeti europei viventi senza alcun dubbio. Per quanto riguarda la «freddezza» della sua poesia (così come appare dalla magistrale traduzione di Enrico Tiozzo), ci sarebbe da fare un lunghissimo discorso che parte dalla freddezza della metafora tridimensionale di Mandel’štam, dalla freddezza del correlativo oggettivo di Eliot per giungere alla freddezza delle «immagini» di Tranströmer. La più grande poesia europea del Novecento passa di lì, attraverso la stretta cruna dell’ago della «freddezza»”.
Il dettato di Espmark ha la solidità di un manufatto antico, è uno stile erede di una civiltà poetica gloriosa dove vive un cuore di «cuoio raggrinzito», raffreddato, che «batte solo un colpo al minuto».
Per il viaggio verso il non-luogo dell’esistenza, Kjell Espmark adotta lo stile «alto demotico» dell’intellettuale occidentale che sente da vicino la terribilità degli eventi del mondo. Come se quegli eventi fossero privi di temporalità, e quindi di reale accadimento, eventi dove il ricordo è diventato problematico:
Ciò che ricordo è un portone scolpito del barocco e una scala con le finestre dipinte – una scena con la vergine e il suo incapace cavaliere.
Kjell Espmark proviene dalla fine del Novecento, dall’esaurimento della civiltà del modernismo ed è giunto ad un singolarissimo e felicissimo stile «alto demotico», che assomma icasticità e classicità, agile e sicuro, una scrittura tutta mentale fitta di nervi e di tendini, di inversioni e divagazioni, di pensieri e di retro pensieri; quasi uno stile da reportage nell’epoca della stagnazione in ambito svedese:
Ecco quanto scrive Paolo Ruffilli sul retro di copertina dell’edizione italiana L’altra vita (2003), il precedente libro di Espmark sempre a cura di Enrico Tiozzo:
“Il cielo «ruvidamente grigio» del Nord, «basso da piegare le ginocchia», le foreste di aceri e di frassini, le betulle, nebbie e pontili, le radure ghiacciate, i boschi brulli e il freddo «a nord del Nord»: le terre del settentrione e degli iperborei, aperte senza soluzione di continuità all’oltre, al doppio, all’antimateria. «Proprio vicino alle carte della Svezia / pende una carta sulla Svezia / stesse città e stessi lembi di laghi / stessi campi gialli e verdi / eppure un regno irraggiungibile che risplende» È il modo in cui si consuma l’Altra vita e dal quale siamo oscuramente attratti, perché «ci manca la vita che viviamo». L’incubo, l’allucinazione, il sogno sono i protagonisti della vicenda interiore che sola vince e abolisce il tempo e gli spazi reali, per sostituirli con quelli non meno reali e vivificanti della poesia. Non esiste più niente che la profonda assenza e «il profondo si libera dal profondo ed esiste». La poesia dà voce alle ombre di uomini rimasti impigliati con i loro nomi sulle pietre tombali, su una superficie di muro dove si aprono porte ma non ci sono stanze. Ed ecco riemergere in mezzo al terriccio, tra il verde dell’erba e del fogliame, nel fresco dell’acqua, tutte le figure finite nel buio e tenute in vita dalle parole dei vivi, tacendo le quali sbiadisce e rischia di svanire la loro presenza. Guai a cancellare le parole che hanno dato ai morti una vita oltre la vita e ai vivi una parte rivitalizzata dentro la memoria più grande. Le parole prendono per mano ogni anima vagante, non solo le anime delle persone illustri ma anche degli uomini comuni, negli squallidi locali delle case più modeste come nelle sale preziose della Biblioteca Reale, perché ovunque si leva una voce a chiedere: «Prestami un po’ di vita». La potente larvale poesia di Kjell Espmark ci testimonia con i suoi lunari riti che bisogna insegnare a parlare al silenzio stesso. È il nostro compito, il nostro scopo, la nostra scommessa per una vita nuova”.
Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni. Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale. Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhüller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente, quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972); in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione esistenziale dell’uomo occidentale del nostro tempo.
La poesia di Espmark ha la precisione di una fotografia asimmetrica, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio… magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.
Abbiamo qui una poesia che ha nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che, un poeta italiano, Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante dizione il «fermo immagine», il «girare intorno all’oggetto», la frantumazione, la «fragmentation». Ed io aggiungerei, la sovrapposizione, l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». Però, in questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi. Utilizzare i «frammenti» significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di «spazio» e di «tempo» metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…
Nella poesia di Kjell Espmark troviamo le frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista si intrecciano e si accavallano; così i fermi immagine, le riprese etc., intendo dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura; una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.
da La creazione di Kjell Espmark
Quando prendeste il largo tra costellazioni spaventose lasciandomi da questa parte del Giordano portaste con voi una patria incompleta.
Divenni un mucchio di ossa abbandonate rose da iene e avvoltoi e rese lucide da vento e sabbia. Ma i resti della gabbia toracica trattennero ciò che il naufrago capì.
E ciò che veramente è io in me non s’arrese. Questa tremula fiamma sperduta ha vagato lungo vie polverose, che non erano polvere né vie, per cercare voi, i miei.
Volevo mettere la mia anziana parola nei vostri sogni, senza destarvi. Sussurrare: La creazione è ancora incompiuta.
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Ed è in voi che spera. Avverto come vi girate nel sonno con mani che afferrano nell’aria vuota come per difendersi.
Ma perché giacete in così tanti, ammucchiati insieme disperatamente, su una sorta di letti di assi sporche? E perché siete così smunti?
Voglio spargere in voi ciò che ho capito, come cerchi su un’acqua dormiente. Ma perché l’acqua è così scura? E perché trema senza sosta?
Arioso
Mi precipitai fuori, trasformata in fiamme dalla biblioteca di Alessandria. I nove rotoli di papiro in cui abitavo ancora crepitanti di deluso amore, mutarono in scintille e salienti schegge. E morii per la seconda volta.
Frammenti di me rimasero come citazioni. La mia parola per cielo s’impigliò in un dotto pedante – Lui era fisso alla scrivania Quando il blu di colpo divenne il blu profondo. Un pronome usato in modo inusuale stregò un grammatico. La parola che scrisse se stessa in giallo e verde – uno scarabeo! – aprì le sue elitre e si alzò per portare il suo contesto attraverso i secoli.
Altri frammenti di ciò che era Saffo rimasero come schegge sui passanti per “richiamare chi a lungo amò”
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Parole che bruciavano il vento: Che volevi da me quando fui spaccata in due come un ciocco di legno, “tremante di brama e con le ginocchia di colpo deboli”?
Sì, la mia ebbrezza era rimasta, risparmiata da suo fratello il fuoco, e trovò un rifugio da una donna sola nel raggio verde di una lampada a olio, mormorante nella sera tra stupiti tipulidi. Lei scarabocchiava poesie su fogli strappati. Alzava gli occhi al richiamo: Emily! – un attimo indifesa. Allora la mia vertigine entrò nella sua testa. Il suono in ciò che erano le mie orecchie prese posto in lei e sudai nella sua pelle al pensiero dell’amato. Non capivo la sua lingua e il dolore alle reni non era il mio. Ma il suo brivido non chiedeva traduzione, nemmeno il violento rossore che si sentiva al fondo della gola.
La forza dei segni
Mi conoscete come Yan Zhenqing, il maestro del pennello dritto. Ma l’imperatore mi trovò altro uso. Le rivolte allora squarciavano il regno. I figli pugnalavano il loro padre e le donne si sbudellavano come galline. La realtà da noi ereditata cadde in pezzi. Sì, la luna stessa fu ridotta in cenere.
Il mio valore durante la resistenza mi aveva fatto diventare ministro. Ma la mia aperta critica ai cortigiani corrotti suscitò l’ira del primo consigliere. Mi mandò a fare giustizia del capo della rivoluzione Li Xili pagando con la mia vita per l’oltraggio.
Ma Li voleva comprarmi. Si racconta che accese un falò in giardino minacciando di buttare un no nel fuoco.
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E che io destai il suo rispetto quando da me andai verso le fiamme. La memoria vuole eradere ciò che davvero accadde.
Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta vi racconta tutto questo. Una pennellata comincia e finisce debolmente come la donna che a lungo ho amato ma il corpo del segno è d’un guerriero. Solo così lo scritto è capace d’intervenire.
Ora ero al limite del mio filo d’erba curvantesi. L’ultima notte nel tempio di Longxing scrissi mentre aspettavo il boia. Il diretto, oggettivo scritto restituì alle parole saccheggiate il loro senso. Costrinse la cenere a ridiventare luna, riempì lo stagno perché vi si specchiasse e ridiede al Buddha nel tempio le sue braccia. Quelli che venenro per strangolarmi furono atterriti dalla forza dei segni.
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La mia seconda figlia fu la mia morte. Le dita del medico riuscirono a grattare fuori la placenta ma aveva la febbre dentro di sé.
Anche la mia missione era incompiuta. Ma l’anno della morte il 1797 sotto il nome di Mary Wollstonecraft non poté rimanere incontraddetto. La Storia mi costrinse ad una lotta con i poliziotti per le vie di Londra più di un secolo dopo. E mi mise alla guida della marcia delle donne nel parlamento in una nuvola di schegge dalle porte sfondate.
Per te Margarethe, per te Sulamith. Per un sorriso smagliante. Dentifricio Deltaprotene Plus, Anti placca, Anti tartaro. Protezione completa. Antidotico, Antigenico, Antifosforico. pic.twitter.com/KFAnj6ULC2
— Giorgio Linguaglossa (@glinguaglossa) June 10, 2021
Kjell Espmark(1930) è tra i maggiori scrittori svedesi della sua generazione. La prima pubblicazione di poesia avviene nel 1956. È anche saggista, romanziere e drammaturgo, ha al suo attivo una sessantina di volumi che gli sono valsi la cattedra di Letterature comparate all’Università di Stoccolma, la cooptazione nell’Accademia di Svezia – dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di presidente della commissione Nobel – e una grande quantità di premi nazionali e internazionali. fra le opere più note ritroviamo libri come Vintergata (2007), Det enda nödvändiga – Dikter 1956-2009 (2010) e la sua autobiografia, dello stesso anno, I ricordi mentono, tradotto e pubblicato in Italia nel 2014. Con Aracne ha pubblicato il romanzo L’oblio. Sempre con Aracne ha pubblicato Lo spazio interiore, opera con la quale ha vinto il Premio Letterario Camaiore 2015 – Sezione Internazionale.
Nota critica di Giorgio Linguaglossa
Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale. Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo. Presentiamo qui una scelta delle poesie del poeta svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo, lasciando alle poesie la diretta suggestione di quanto abbiamo appena abbozzato.
Possiamo paragonare la poesia di Espmark ad una fotografia asimmetrica, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio… magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.
Abbiamo bisogno di una poesia che abbia nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”, la frantumazione, la «fragmentation»; ed io aggiungerei, la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». Però, in questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi. Utilizzare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…
Leggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo le frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc. Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.
Ella è dunque stata un’altra per otto anni senza saperlo. Ogni giorno c’è stato un equivoco. Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo. L’inaudito non è nel guardare all’improvviso in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti. L’inaudito è vedere un pomeriggio scambiati otto anni della propria vita. I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti una comunanza piena di antenne vaganti. Solo lei ne è rimasta fuori. II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini è la sua esistenza falsificata. Ella guarda il volto trasparente nello specchio. È del tutto estraneo. Le mani che diventano bianche intorno al lavandino non più del suo proprio biancore non sono sue. Lei non può trattenersi. E vomita tutti i ricordi menzogneri: questo volto semichiaro su di lei sciolto in desiderio e assicurazioni la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento. Ella vomita tutta questa vita falsa queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.Continua a leggere →
Commento di Enrico Tiozzo: Premiato il più grande poeta svedese
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Stoccolma, 6 ottobre 1992 Era dal 1974 che il Nobel per la letteratura non andava alla Svezia (soprattutto a causa delle polemiche nate quell’anno per il premio assegnato a due membri della stessa Accademia giudicante), ma Tomas Tranströmer non fa parte dell’Accademia ed è stato candidato al Nobel ogni anno a partire dal 1993. Dopo un’attesa quasi ventennale, era giusto che gli svedesi trovassero il coraggio di insignire del premio il loro massimo poeta vivente, tradotto in tutto il mondo e considerato un indiscusso, anche se nascosto, maestro. Tranströmer infatti era e rimane estraneo al mondo accademico. Nato a Stoccolma nel 1931, dopo studi di psicologia nell’Università della capitale svedese, ha poi scelto la carriera dell’impiegato amministrativo nella cittadina industriale di Västerås fornendo cosí una chiara indicazione della sua estraneità agli ambienti delle Accademie e delle Università. Della sua infanzia e della sua adolescenza, apparentemente spensierate e serene, ma percorse in realtà da un crescente senso di angoscia culminato in una vera e propria crisi psichica, Tranströmer ha lasciato uno splendido ritratto nel libro autobiografico Minnena ser mig pubblicato in Svezia nel 1993 e tradotto tre anni dopo in italiano (I ricordi mi vedono, Göteborg, 1996).
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Partendo da esperienze personali e narrate in uno stile nudo ed essenziale (la casa nel popolare quartiere di Söder a Stoccolma, la figura del vecchissimo nonno pilota di rimorchiatori, il divorzio dei genitori, le figure dei vicini, l’episodio traumatizzante di quando a 5 anni si perse per le strade di Stoccolma ma riuscí a ritrovare da solo la strada di casa, la passione per le visite solitarie nei musei, le difficili esperienze scolastiche, ecc.) Tranströmer tratteggia via via, in questo libro, il quadro di una crescente inquietudine e di un malessere spirituale, ignoti ai suoi familiari e scanditi dalla solitudine, dal dolore per l’assenza del padre, e dalla consapevolezza di essere considerato un estraneo dai compagni che avevano interessi e comportamenti diversi dai suoi. Ad uno di loro che lo picchiava sistematicamente, Tranströmer oppose una resistenza passiva comportandosi come «una salma, uno straccio inanimato che lui poteva schiacciare come voleva. Se ne stancò». Diario drammatico e commovente di un inserimento molto difficile nella vita, scritto con estrema lucidità e senza un briciolo di autocommiserazione, il libro rimane una delle cose migliori, e meno note all’estero, di Tranströmer. Il poeta fu felicissimo quando decisi di tradurlo , e i contatti con lui furono intensi ma passarono soprattutto attraverso il filtro della moglie Monica, divenuta la voce del poeta dopo l’ictus degli anni ’90 che ha portato Tranströmer all’afasia e alla riduzione ma non all’interruzione dell’attività poetica, come dimostra anche la raccolta Sorgengondolen (La gondola a lutto) del 1996, dettata alla moglie in grado di percepire le parole del poeta.
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Le poesie dell’esordio, con la raccolta 17 dikter(17 poesie) del 1954¸gli erano valse, da parte della critica svedese, il titolo di «maestro delle metafore» e un’immediata e meritata collocazione di rilievo nelle lirica svedese degli anni Cinquanta per la classicità e insieme l’inconfondibile ricchezza del suo stile, ben riconoscibili anche dietro il velo modernista. Quelle poesie, in cui il sogno è spesso il punto di partenza per le riflessioni dell’autore, quasi a voler sottolineare che ogni cosa ha un’origine immateriale, contengono infatti immagini veramente “senza fili” dove una quercia può apparire come un’alce pietrificata ed il mare di settembre può sembrare una fortezza. Una ricchezza di immagini destate dalla fantasia, che servono a Tranströmer per meglio esprimere un’esperienza rilevante e che offrono al lettore un nuovo angolo visuale della realtà. A questa straordinaria abbondanza figurativa fanno però da efficace contrappunto la costante sobrietà e la contenutezza nella scelta della parola poetica.
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Con le sillogi poetiche degli anni Sessanta, in particolare Klanger och spår (Echi e tracce) del 1966, Tranströmer, che è anche un appassionato cultore della musica, si dimostra indifferente alle nuove esigenze di una poesia “impegnata” nel dibattito politico sociale, sorprendendo e in parte deludendo quei critici letterari del suo Paese che non si erano ancora accorti della grande coerenza del poeta (ormai tradotto in una trentina di lingue straniere), del tono inconfondibile e perciò, in qualcjhe misura, immutabile della sua poesia cosí asciuttamente classica e nello stesso tempo tipicamente scandinava nella capacità di cogliere gli elementi freddi e nudi della realtà. Le raccolte degli anni ’70 (il poeta autoconsapevolmente critico ha sempre pubblicato con grande parsimonia) come Östersjöar (Mari dell’Est) del 1974 e Sanningsbarriären (La barriera della verità) del 1978, hanno confermato infatti la fedeltà del poeta ai sempiterni temi dell’enigma e della rivelazione, del dolore e della difficoltà che fa parte del processo di identificazione di se stessi e del mondo. Grazie anche a fondamentali ed illuminanti contributi critici (come il saggio di Kjell Espmark sull’opera tranströmeriana del 1983, che ha identificato i modelli del poeta in Hölderlin, Rilke, Dante) alla fine degli anni ’80 è arrivata per Tranströmer la definitiva consacrazione con la silloge För levande och döda (Per vivi e morti) del 1989, concentrata sul tema della presenza costante della morte nelle aperte vie della vita. La sporadica, per forza di cose, produzione poetica dell’ultimo ventennio, fa ritenere motivatamente che il Nobel sia stato assegnato al grande lirico svedese soprattutto per quanto ha prodotto fino agli anni Novanta.
Notturno, da “Den halfärdiga himlen”, 1962 Musica lenta, da “Klanger och spår”, 1966 Tardo maggio, da “Stigar”, 1973 Elegia, 1973 Lo sguardo dell’inverno, da “Det vilda torget”, 1983 La stazione, 1983 Profondamente in Europa, da “För levande och döda”, 1989 Volantini, 1989 Arcate romaniche, 1989 Air mail, 1989
Tomas-Transtromer
POESIE Notturno (1962)
Guido attraverso un villaggio di notte, le case spuntano nella luce dei fari – sono sveglie, vogliono bere. Case, fienili, cartelli, veicoli senza padrone – è adesso che si vestono di Vita. – Gli uomini dormono:
Alcuni possono dormire tranquilli, altri hanno il volto teso come stessero in duro allenamento per l’eternità. Non osano lasciarsi andare benché il loro sonno sia pesante. Riposano come sbarre abbassate quando il mistero passa.
usciti dal villaggio la strada va tra gli alberi del bosco. e gli alberi silenziosi concordi fra di loro hanno un colore teatrale che è nel riflesso del fuoco. Come sono evidenti le loro foglie! Mi seguono fino a casa.
Nel letto per dormire, vedo immagini sconosciute e segni che si scarabocchian da soli dietro le palpebre sul muro del buio. Nella fessura fra veglia e sonno una grande lettera cerca d’infilarsi invano.
Musica lenta (1966)
L’edificio è chiuso. Il sole entra attraverso i vetri delle finestre e riscalda la parte superiore delle scrivanie che sono abbastanza forti da sopportare il peso dei destini umani.
Siamo fuori oggi, sulla discesa lunga e larga. Molti vestiti di scuro. Si può stare nel sole ad occhi chiusi e sentire il vento che lentamente spinge avanti.
Arrivo troppo raramente all’acqua. ma adesso sono qui fra grandi pietre dai pacifici dorsi. Pietre che lentamente sono retrocesse su dall’onda.
Tardo maggio (1973)
Meli e ciliegi in fiore aiutano il luogo a librarsi nella dolce sporca notte di maggio, bianco salvagente, volano i pensieri.
Erbe ed erbacce con silenziosi insistenti battiti di ali. la buca per le lettere splende zitta, lo scritto non si può ritrattare.
Dolce freddo vento attraversa la camicia e cerca il cuore. Meli e ciliegi, ridono in silenzio di Salomone fioriscono nel mio tunnel. Io ho bisogno di loro non per dimenticare ma per ricordare.
Elegia (1973)
Apro la prima porta. È una grande stanza soleggiata. Un’auto pesante passa per la strada e fa tremare il vasellame.
Apro la porta numero due. Amici! Avete bevuto il buio e siete divenuti visibili.
Porta numero tre. Una stretta camera d’albergo. Vista su una strada secondaria. Un lampione che scintilla sull’asfalto. La bella scoria delle esperienze
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Tomas-Transtromer
Lo sguardo dell’inverno (1983)
Mi appoggio come una scala e arrivo col viso al primo piano del ciliegio. Sono dentro la campana dei colori di sole. Finisco le ciliegie rossonere più svelto di quattro gazze.
Allora mi colpisce d’improvviso un freddo da lontano. L’attimo s’annera e rimane come segno d’ascia in un tronco.
Da adesso in poi è tardi. Andiamo via quasi correndo sparendo alla vista, giù, giù, fra le cloache antiche. i tunnel. Là camminano per mesi, metà per lavoro e metà per fuga.
Corta devozione se una botola s’apre sopra a noi e una debole luce cade. guardiamo in alto: il cielo stellato attraverso il tombino.
. La stazione (1983)
Un treno è entrato. Sta qui vagone per vagone, ma chiuse sono le porte, nessuno sale o scende. Ma ci son le porte? Là dentro pullula di gente chiusa dentro che va avanti e dietro. Guardano fuori per i finestrini immobili. E fuori passa un uomo lungo il treno con un martello. Batte sulle ruote, batte piano. ma non qui! Qui si dilata il suono stranamente: una tempesta, uno scampanio da duomo, un suono da viaggio intorno al mondo che alza tutto il treno e le pietre umide della contrada. Tutto canta. Dovete ricordarvelo. Continuate il viaggio!
Profondamente in Europa (1989)
Lo scafo scuro che galleggia fra due chiuse riposo nel letto dell’albergo mentre la città intorno si sveglia. La sveglia silenziosa e la luce grigia entrano dentro e lentamente mi sollevano al prossimo livello: il mattino.
Orizzonte ascoltato. Vogliono dir qualcosa, i morti. fumano ma non mangiano, non respirano ma hanno voce. Mi affretterò per le strade come uno di loro. la nereggiante cattedrale, pesante come luna, ha flusso di marea.
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Air mail (1989)
Alla ricerca di una buca portai la lettera per la città. Nel bosco grande di pietra e cemento svolazzava questa farfalla smarrita.
Il tappeto volante del francobollo le traballanti lettere dell’indirizzo più la mia verità sigillata adesso sospesa sopra il mare.
L’argento strisciante dell’Atlantico. I banchi di nuvole. La barca da pesca come un osso d’oliva sputato. E la pallida cicatrice della scia.
Quaggiú il lavoro procede piano. Guardo spesso l’orologio. Le ombre degli alberi sono cifre nere nel silenzio avaro.
La verità sta per terra ma nessuno osa prenderla. La verità sta per la strada. Nessuno la fa sua.
Arcate romaniche (1989)
Dentro l’enorme chiesa romanica s’affollavano i turisti nella penombra. Volta si spalancava dietro volta senza fine. Svolazzavano fiamme di candela. Un angelo senza volto mi abbracciò e sussurrò attraverso tutto il corpo: “Non vergognarti di essere uomo, sii fiero! Dentro te s’apre volta dietro volta all’infinito. Non finisci mai ed è così che deve essere”. Ero accecato dalle lacrime e fui spinto fuori nella piazza piena di sole insieme con Mr. e Mrs. Jones. Il Signor Tanaka e la Signora Sabatini e dentro loro s’apriva volta dietro volta all’infinito.
. Volantini (1989)
La silenziosa rabbia scarabocchia sul muro in dentro. Alberi da frutto in fiore, il cuculo chiama. È la narcosi della primavera. Ma la silenziosa rabbia dipinge i suoi slogan all’inverso nel garage.
Vediamo tutto e niente, ma dritti come periscopi presi da una timida ciurma sotterranea. È la guerra dei minuti. Il bruciante sole è sopra l’ospedale, il parcheggio della sofferenza.
Noi chiodi vivi conficcati nella società! Un giorno ci staccheremo da tutto. Sentiremo il vento della morte sotto le ali e saremo piú dolci e piú selvaggi che qui.
enrico tiozzo
Enrico Tiozzo è nato a Roma, dove si è laureato nel 1970 con una tesi sulla ricerca di Dio in Pär Lagerkvist, pubblicata lo stesso anno da Bulzoni. Da oltre trent’anni è professore ordinario di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Göteborg, in Svezia. È autore di numerosi studi sulla letteratura italiana del Novecento (Bonaviri, Bertolucci, Sciascia) e sulla lirica svedese contemporanea (Espmark, Forssell, Tranströmer). A partire dagli anni Settanta ha collaborato alle pagine per la cultura prima dei quotidiani “Il Tempo” e “Il Messaggero” di Roma, e successivamente a quelle del “Dagens Nyheter” di Stoccolma. Attivo anche come traduttore, è stato premiato nel 2003 dall’Accademia di Svezia per la qualità del suo lavoro. Tra le sue opere piú recenti figura Il premio Nobel e la letteratura italiana (Catania, La Cantinella, 2002).
da Prefazione a “Tre vie” di Katarina Frostenson di Claudio Angelini
Tra le voci più originali della letteratura contemporanea c’è quella di Katarina Frostenson, poetessa svedese che con la sua opera ha sconvolto il panorama lirico scandinavo, creando dissonanze ed ermetismo in un sistema che scorreva, quasi sereno, nell’alveo del modernismo e del post—simbolismo. Alla metafora la Frostenson predilige il suono, all’immagine il fonema. Così la sua non è una voce qualunque, ma la voce per eccellenza, la forza della parola, ora soffocata, ora stridente, ora morbida, ora impetuosa, che è alla base del verbo poetico, ovvero del verbo più assoluto, quello che si crea nei labirinti della gola e si riproduce per echi nei labirinti della mente. La poesia di Katarina è una poesia sonora che sgorga dall’udito e dall’animo e poi si condensa in frasi, perché il suono produce una concatenazione di pensieri e costruisce una tela affascinante. La sua lirica, pura e diretta, segue la logica della musica: i versi, come note, creano suggestioni e le raccolgono in brevi o lunghe sinfonie. Talvolta dodecafoniche, talaltra classicheggianti.
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Un discorso a parte merita l’ermetismo della Frostenson che forse è più apparente che reale. Soprattutto se per ermetici si intendono quei vocaboli creati per stupire e confondere, a causa della loro difficile interpretazione. O si considerano ermetiche analogie dal collegamento complesso e tecniche espressive ricercate. Katarina non mira a niente di tutto ciò, perché punta all’essenziale: il suono come fonte di vita. Semmai le sue composizioni sono ermetiche perché ci riconducono spesso a miti, a leggende, a figure scaturite dalla filosofia misterica. Ma talvolta i suoi miti sono anche nella semplicità o nella complessità della natura, nel ritorno alla casa dei genitori, nel viaggio. Però, al di là di tutto, alla base della sua poesia, c’è sempre la voce con i suoi ritmi, le sue relazioni, il suo mistero.
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La stessa Katarina ha ricordato, all’inizio degli anni ‘80, che scoprì la magia della parola a soli tre anni d’età quando fu colpita dal gran parlare che si faceva in Svezia di un transatlantico italiano speronato e affondato dal rompighiaccio Stockholm: “La nave italiana si chiamava Andrea Doria e io andai ripetendo quel nome a voce alta da sola per tutta l’estate.” Insomma, da quando imparò a parlare, amò il suono delle parole in sé, anche al di là del loro significato, come “un’esperienza estetica della bellezza”. Ma questa attrazione a volte nasceva anche da parole grottesche e provocatorie. Così, a scuola, andò gridando “Hugg dem i strupen och ät! (Tagliagli la gola e divorali), ripetendo una frase tratta da un libro d’avventure (un pò sanguinose) che aveva letto in quel periodo. Il che significa che in tenerissima età la Frostenson capì che il linguaggio è un codice, una convenzione: le parole e le immagini non sono parametri assoluti, ma variabili. In un certo senso, questa autrice si appropriò della stessa poetica che aveva spinto, negli anni ‘20 e ‘30, Magritte a de-automatizzare il rapporto tra significante e significato, attraverso una serie di opere che rappresentavano degli oggetti e nello stesso tempo li negavano, come il quadro raffigurante una pipa e intitolato Questa non è una pipa. O quello dal titolo La luna in cui in realtà è dipinta una scarpa o quello che rappresenta un cappello ma è intitolato La neve. Magritte era “un tranquillo sabotatore” che criticava — forse con un certo elitarismo intellettuale — l’immagine pittorica convenzionale attraverso le sue immagini e le sue didascalie provocatorie, Katarina Frostenson contesta la convenzionalità delle immagini poetiche attraverso la forza spontanea e poderosa dei suoi suoni. La sua poetica diventa una missione o una via crucis per riscoprire la parola. Così ci prende per mano e ci porta alle origini stesse della poesia, agli oracoli che annunciavano prodigi o catastrofi, ai corifei delle tragedie, ai lamenti, alle grida che contengono il significato recondito della morte e della vita. Se Magritte fu il primo semiologo visuale, la Frostenson è una semiologa sonora il cui linguaggio, inizialmente misterioso, si dilata in armonie, melodie e disarmonie che suggestionano il lettore. Aggiungerei che Katarina si libera dai condizionamenti dei modernisti affamati di ego e innamorati delle loro immagini per puntare all’essenza. La sua poesia non ha un padrone, la lettura scorre libera e, pur muovendosi a volte nell’oscurità, ha un punto di riferimento luminoso come un faro: la voce interiore.
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Staffan Bergsten scrive che “molte poesie si presentano come un cifrario segreto. S’intuisce un significato che rimane nascosto ad un occhio che lo contempli da una fredda distanza. Che cos’è dunque che si nasconde e perchè non arriva ad esprimersi chiaramente? Le stesse grandi domande possono applicarsi a molto di ciò che viene creato in tutte le diramazioni dell’arte moderna, nella pittura e nella musica come nella poesia… Nello stesso tempo in cui queste poesie possono apparire ostili nella loro ermeticità, esse tuttavia attirano il lettore e lo stimolano — come avviene per ogni segreto — a cercare un’interpretazione.”
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Alla musica e alla voce interiore la stessa Frostenson fa un esplicito riferimento quando elogia Henry Michaux: “I suoi scritti sono viaggi nel tempo e nello spazio che ricordano la musica. Quando lo leggo non penso parola per parola a quello che vuole esprimere, perché lo ascolto. Il testo ha una sorta di voce interiore.”
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Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti
Leggere Katarina significa soprattutto ascoltarla, ma non è necessario essere in possesso della registrazione di un suo reading. È come se la sua voce fosse incorporata nelle sue parole scritte, o meglio è come se le sue parole scritte avessero anche una componente corporea, fisica, vocale. I suoi versi danno senso compiuto ai suoni e li trasformano in melodia. Come ricorda Jan Arnald, questa autrice diventa la portavoce di una poesia al femminile, impegnata nella ricerca di un linguaggio più intimo e meno convenzionale, capace di esprimere le sue dimensioni più profonde. In questa ricerca perde valore la sintassi tradizionale che lascia il passo a versi slegati tra loro e separati da ampi spazi, il tutto opportunamente studiato e vantaggio di una voce spesso oscura nel suo significato logico e per tale motivo sfuggente ad ogni tentativo di classificazione ma in grado di trasformarsi in canto rivelatore dei moti profondi dell’essere.
Un esempio, questi versi:
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Tralasciato
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adesso quel suono ritorna un rauco prolungato respiro nel quadro: una persona un campo novembre un cane lupo strabico col naso macchiato nelle nude lande sospette come il tuo luogo là, là dove l’attesa è estrema Monaco Parigi Austerlitz Stoccolma Milano la speranza delle città fredde il sesso dei luoghi brutti luoghi dove l’immondizia sta esposta come cosa santa contagiosa nel voltarsi respingente Siedo in una sala d’aspetto e mangio naso nero bollito Sono tempi di frutta. Caduta. Dietro i vetri alti animali blu trascinano i loro zoccoli attraverso alghe e piogge S’innalza Precipita Non ho mai chiesto
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La stessa Frostenton in varie occasioni, e in particolare nel suo saggio I crani, ha sottolineato la funzione centrale della voce nella sua produzione e ha scartato qualunque tentazione a una lirica metaforica e imaginifica. “Quando un testo mi si avvicina, quando il ritmo mi si fa strada nel corpo, le chiostre dei denti cominciano a muoversi l’una verso l’altra, a battere. È sgradevole, una specie di tic, penso, ma è soltanto la voce che arriva.” Però, a parte l’immagine dei denti che battono, il testo è una sorta di spartito musicale. E se non si sente subito musica, si percepisce come un segnale acustico indistinto e poi sempre più chiaro, un qualcosa che — chiarirà la stessa Katarina — comincia con una nota e tende verso un canto.
“Per me — ha detto ancora questa autrice — le parole sono uno strumento di ricerca (dichiarazione del 1983), una possibilità di compiere viaggi in condizioni diverse dalla mia, di esplorare l’ignoto. La poesia è un enigma. Io amo ciò che è grezzo e brutale, ma qui in Svezia si apprezza soprattutto ciò che è ben ordinato e sottile, e si rifugge dal confuso e dall’indistinto. A me invece interessano le tensioni e le contrapposizioni.”
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Alla voce, intesa come “materia della poesia, come sua musa e suo demone”, Katarina ha dedicato una lirica, Mi chiamo voce, che è stata scolpita, in svedese e in italiano (traduzione curata da Enrico Tiozzo), nella primavera del 2008, nel Libro di pietra del Comune di Arpino, presso Roma. La voce è “alla base del ritmo” e, come ricorda Tiozzo — suo grande traduttore ed estimatore — ogni poeta ha il suo unico e inconfondibile ritmo di voce. La natura del verso viene accostata da Katarina agli atomi eraclitei e il ritmo è forma in continuo cambiamento.
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Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti
Spesso il suono trae spunto da miti tragici e tra di essi il più caro alla Frostenson è quello diFilomela, cui è dedicata una composizione poetica nella raccolta Tankarna (I pensieri) del 1994. Comprendiamo dai versi iniziali della lirica che una lingua è stata strappata dal suo tessuto e sepolta sotto una pietra e approdiamo a Ovidio e alla sua leggenda. Filomela è rapita dallo sposo di sua sorella Procne, il re di Tracia Tereo, che dopo averla violentata, la priva della lingua con una tenaglia perchè non possa rivelare le atrocità che ha dovuto subire. Ma la voce prevale sul silenzio, la verità sul tentativo di nascondere quel crimine. La lingua in qualche modo riesce a parlare. Filomela ricama su una tela un segno che indica a Procne la sorte che le è toccata e quando il crudele Tereo cerca di uccidere le due sorelle gli dei le salveranno trasformandole in uccelli. Così, la muta Filomela potrà diventare un usignolo capace di cantare. È uno dei miti che affascinarono anche T.S. Eliot, che lo ripropose con versi onomatopeutici in The Waste Land, ed è per eccellenza il mito della poesia, come riscatto dalla sofferenza. È affascinante il modo in cui Katarina si inserisce nella leggenda. I suoi versi cominciano con suoni indistinti, il mormorio (in svedese sorl) della lingua che vibra nella terra. Attraverso quei suoni il mito prende vita. Ed è un altro suono indistinto quello che ispira la raccolta Joner (Joni) del 1991: è il rumore dell’acqua che scorre. Gli ioni diventano particelle di energia. L’assassinio di una vergine è cadenzato da uno sgretolamento del linguaggio che fa eco allo smembramento del corpo. C’è un pò del mito di Atteone, trasformato in un cervo e sbranato dai suoi cani perchè colpevole di aver visto Artemide nuda al bagno. E c’è il riferimento a un’antica ballata svedese su una vergine uccisa. Il sacrificio, comunque, diventa poesia, la morte si trasforma in vita. La Frostenson è affascinata dalla mitologia della violenza, ma soprattutto da una lirica che nasce dalla sofferenza e da suono disarticolato che diventa voce per uno scopo eroico: salvare l’umanità.
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Questa autrice ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui il Gran Premio della Società dei Nove nel 1989, il Premio Bellman nel 1994 e il Premio radiofonico svedese per la poesia lirica nel 1996. Il 20 dicembre 1992 è divenuta membro dell’Accademia di Svezia, un onore mai toccato a una scrittrice così giovane (aveva 38 anni).
In Italia la Frostenson è nota non solo per la sua poesia scolpita sulla pietra di Arpino, ma anche per alcune raccolte come La fonte del suono, Conversazioni e Dalla nuda terra al corallo pubblicate da editori come Crocetti e Il Leone di Venezia. Da noi, il suo vero o presunto ermetismo non ha certo suscitato diffidenza, visto che la poesia ermetica costituisce uno dei più bei momenti della nostra poesia del Novecento, grazie a Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale. C’è però da precisare che le illuminazioni liriche dei nostri ermetici hanno pochi nessi con la produzione di Katarina, tranne forse qualche componimento di Montale, affascinato quanto lei dal suono della parola.
Katarina Frostenson Tre vagar
Poesie di Katarina Frostenson
Da NEL GIALLO
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Fermato, continuato
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Le vetrine stanno lungo tutto il fiume le ombre cadono giù verticali le città diventano centri commerciali stessivolti un pezzo di plastica blu galleggia sul fiume e la parola incontestuale diventa chiara, s’accoppia con l’uguale ben fissato mondo circostante sono io una strada passaggio le luci gialle non smettono mai di lampeggiare avanti alti amiamo sempre altrove il tuo sesso è un occhio indagata notte la bucce grasse delle mele brillano nel buio non marciscono rimangono là, illuminate
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Non quadro
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Nuda luce tutti i suoni affondano scompaiono del tutto è solo il movimento nella stanza ondeggiante sorriso distorto la luce del tuo viso davanti al mio piede giace terra terra è un quadro cinese alla parete giunche, foschia acqua, tenero fogliame e le vele soltanto entrano sempre di più tra le montagne nella foschia Il tuo volto galleggia ovale acqua Una luna… faccio un rapido gesto di sfogliare sulla tua fronte Tu scuoti la testa ti alzi Adesso arriva il suono di nuovo: il tuo silenzio L’altra Sempre l’altra
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Tralasciato
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adesso quel suono ritorna un rauco prolungato respiro nel quadro: una persona un campo novembre un cane lupo strabico col naso macchiato nelle nude lande sospette come il tuo luogo là, là dove l’attesa è estrema Monaco Parigi Austerlitz Stoccolma Milano la speranza delle città fredde il sesso dei luoghi brutti luoghi dove l’immondizia sta esposta come cosa santa contagiosa nel voltarsi respingente Siedo in una sala d’aspetto e mangio naso nero bollito Sono tempi di frutta. Caduta. Dietro i vetri alti animali blu trascinano i loro zoccoli attraverso alghe e piogge S’innalza Precipita Non ho mai chiesto senza convinzione nella frase mozza la mano nuda dell’occhio la macchia che fissa e nell’assenza arde una candela
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Fuochi verdi
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La strada è fiancheggiata da specchi coperti il campo splende spento: Tre pezze nere, e una verde una fredda impronta nella mia anima Tratto di distanza Il desiderio è il mio pensiero Il cielo stende il suo telo grigio brucia un fuoco vicino al mio ginocchio le lepri si muovono fra le spighe
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7 Da JONI
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La sua espressione
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Lui è corso via il suo volto è un cane da caccia. Il granello nell’occhio La piega della frogia. La guancia nera E lo splendore dello sguardo Tutto respinge. Tutto è solo soffio e brusìo dietro la fronte non c’è niente Lui è il Segugio silenzio calcificato sui lineamenti aspira sente l’odore del Quadro profondo, scuro dolce sopra tutta la sua pelle di cane da caccia dove lascia una traccia Tutto l’occhio s’arrossa nel morso perché è scomparso nel bosco dell’immagine
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Katarina Frostenson Foto Mats Bäcker
La natura del terrore
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Cerco l’uomo che mi ucciderà. Il terreno è verde o bianco. Stessa cosa. È un sentiero sicuro. Tra gli alberi. La strada cammina dritta fra i tronchi È un pezzo di terreno. E la strada continua in giù verso una spiaggia Ma sempre là, dove c’è una via breve fra i boschi Ginepri, more di rovo. E il bosco fitto di abeti, alberida cartellone didattico Un canale. Un suono sussurrante, là – lontano. Qualcuno combatte per avere voce. Un inarcamento. Una schiena Tu passi oltre Davanti al bosco i passi si fermano, è qui ch’è accaduto. Qui è accaduto. Sono tutti gli occhi che negli anni hanno visto chi ha fissato il suo sguardo nel silenzio Alberi. Come un albero “sta al margine”. Non lo fa uscire. Alberi – Terreno. Due boschi, una strada. Due file d’alberi da ogni parte, betulle, ginepri, abeti Sono tutti occhi che negli anni hanno visto e cercato di entrare. Cercare riparo fuggire con gli occhi nella schiena Chi ha teso la sua schiena nell’esteso. Qualcuno vede. Lo sguardo si gonfia del tuo sguardo, del fatto che tu vedi – indietro Alberi. “S’erigono” come gli alberi. Cominciano a camminare come gli alberi – da soli. Lo vede. Tu sei fuori. Al di fuori. Ora si chiude l’udito Cerco la mano che prenderà la gola. Da una schiena. Da un posto. Non c’è alcun segno nello splendore della tela Qualcuno combatte per avere voce. E qualcuno non combatte.
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La vergine parla:
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Farò uscire la frase dalla frase sterminerò la fiera che s’acquatta lì. Estrarrò la pallottola da lui dal cuore e udirò – la parola da un corpo Come suona – che cos’è che cammina sempre e non arriva mai ed è Ostacolo e non fa ostacolo che cos’è che sta là l’enigma dell’orrore – Oh, mio nemico, io sono incoerente Io sono l’apparenza, le parti e il sorriso Io sono l’onda sonora nel vaso dell’aria
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8
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il mio cuore verbale che non batte. Entra solo dentro, nella fortezza del corpo sognato. Finché affoga nel sussurro del sangue io sono senza traccia, senza luogo sono luce travestita Io sono l’onda sonora intorno e dentro la parola sta’ in guardia c’è uno schema La madre apre il torace nella luce del dopo. Risuona la madre, nera radice cuore – oro Ma il corpo è vuoto La risata della vergine Moira Perché ti voltasti ero sola Manca un passo le soglie sono passi di sogno tutto scivolava, sui tratti – volevo mettere un segno “il tratto della stanza” era qui che ti voltasti Che quiete, nell’occhio nulla si svela nessuna cicatrice Giorno dopo giorno mi odo parlare parliamo, camminiamo, in giù, facciamo e l’occhio guarda – che segno sulla fronte dovrebbe arrivare a macchiarsi come si sa altrimenti dove in quale tempo si è e ci si perde. Tu non ti volti più, quando dico quando dico Tu forse non odi io parlo come te come una cuffia, un guscio parlante, affondato in una voce che sempre più ti somiglia e nessuno riconosce Tu sei l’uscita intorno, dovunque, tu sei la stanza Tu ti voltasti sarei stata un’altra se la stanza – non fosse stata E d’ostacolo. Ti voltasti. Non sei questo che stava là più chiaro Dove sei andato, fra i tratti tuoi propri, tu parli come me così da presso non somigli a niente tu guardi – indietro ma se carezzo il tuo dente bianco così dolcemente posso vedere – dentro sempre più vicino, sono là dentro – passo la lingua sopra i tuoi denti, esisti tu sei Se tu sei Forma. Tu sei – odo parlare la mia voce parlo come te uno strano amore, così su per la schiena invisibile, sulla pelle della nuca che sale da dietro che cammina sui miei paesi, lo capisco appena e non vedo affondato immerso scomparso chiedo solo possono i doni esser violenza tu sei così immenso – bordo che è entrato, tagliando tutto – mi sento su un piatto apparecchiata intorno specchiata, come senza differenza in niente ma tradisci allora e compi la pena lascia che la parola entri – matura voltati qui tu non esisti voglio renderti solo
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Interior Blond Volvo S90
Da I PENSIERI
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Voce
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Mostro, mettiti intorno a me, che cos’è che dovrò sentire. Grande e inspiegabilmente muta, una coperta di cavalli Occhio, naso, lobo temporale, la guancia è coperta la mia bocca, perché sei dimenticata Un filo viene messo dentro, un gusto di minerali, sale Il piede sale per il passaggio stretto, bianco e ignoto in me, il tratto giunge E l’aria è forte, e fredda, e nera e alta Adesso bruco l’erba del mondo Immagine che strano tratto paradisiaco è o il contrario le ali della farfalla, nell’eliso nel giallo cristallizzato sopra i prati giacciono pesantemente gettati pelli di scarpa dalla terra grassa un dito del piede uscito dal nero della carta una scarpetta da ballo, un dito dalla terra e lo splendore dei cerchi nel solco da cappotti scuri, l’umido della lana sudario abbracciati con le bocche sul terriccio e su di loro piene di terra e il rosso sulla strada di casa tra boschi, campi e gridi acuti d’allarme degli uccelli si giace fuori sui prati nella scura radice dei campi del mondo
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Io stessa in un vestito giallo
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Disperdimi fratello, col tuo occhio che non si lascia chiudere che solo guarda, nulla vede, solo il chiarore e l’acqua che riflette il sole nel fogliame nella verzura di luglio, sotto un albero nel canestro blu intrecciato che ti contenne in grande quando tutto sussurrava intorno a te e tu eri come il miele io stessa in un vestito giallo, scura nell’albero, giallo sempre più scuro, più stridente, urlante in alto ma in silenzio, verso la cima dell’albero trionfo, fratellino, sopra tutto attraverso il peso della chioma sento la testa del sole
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Non sono la madre di nessuno
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serpente, arrotolati sotto il cielo stellato io non sono la madre di nessuno perciò rimango e vedo che è solo il mio occhio che si volge da per tutto per me stessa non sono nessuno ma nel deserto io sono chi può abbracciare tutto
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Filomela
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Il piccolo, foglio rosa nella mia testa si muove miracolo io guardo fuori, è silenzio il buio lascia arrivare i sussurri la mia lingua fu sepolta sotto la pietra ma la testa non ebbe pace anche se la lingua è stata strappata dal suo tessuto la voce era rimasta là dentro come la testa ha pace blu glicine è il tessuto che mi si spande intorno odi, come il tono cambia è dal suono che sollevi la mia lingua è sepolta, il mio orecchio giubila il mio vestito è scomparso la mia testa canta
enrico tiozzo
Enrico Tiozzo è nato a Roma, dove si è laureato nel 1970 con una tesi sulla ricerca di Dio in Pär Lagerkvist, pubblicata lo stesso anno da Bulzoni. Da oltre trent’anni è professore ordinario di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Göteborg, in Svezia. È autore di numerosi studi sulla letteratura italiana del Novecento (Bonaviri, Bertolucci, Sciascia) e sulla lirica svedese contemporanea (Espmark, Forssell, Tranströmer). A partire dagli anni Settanta ha collaborato alle pagine per la cultura prima dei quotidiani “Il Tempo” e “Il Messaggero” di Roma, e successivamente a quelle del “Dagens Nyheter” di Stoccolma. Attivo anche come traduttore, è stato premiato nel 2003 dall’Accademia di Svezia per la qualità del suo lavoro. Tra le sue opere piú recenti figura Il premio Nobel e la letteratura italiana (Catania, La Cantinella, 2002).
Kjell Espmark (1930) è tra i maggiori scrittori svedesi della sua generazione. La prima pubblicazione di poesia avviene nel 1956. È anche saggista, romanziere e drammaturgo, ha al suo attivo una sessantina di volumi che gli sono valsi la cattedra di Letterature comparate all’Università di Stoccolma, la cooptazione nell’Accademia di Svezia – dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di presidente della commissione Nobel – e una grande quantità di premi nazionali e internazionali. fra le opere più note ritroviamo libri come Vintergata (2007), Det enda nödvändiga – Dikter 1956-2009 (2010) e la sua autobiografia, dello stesso anno, I ricordi mentono, tradotto e pubblicato in Italia nel 2014. Con Aracne ha pubblicato il romanzo L’oblio. Sempre con Aracne ha pubblicato Lo spazio interiore, opera con la quale ha vinto il Premio Letterario Camaiore 2015 – Sezione Internazionale.
Nota critica di Giorgio Linguaglossa
Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo. Presentiamo qui una scelta delle poesie del poeta svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo, lasciando alle poesie la diretta suggestione di quanto abbiamo appena abbozzato.
Possiamo paragonare la poesia di Espmark ad una fotografia asimmetrica, dove non ‘è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio... magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.
Abbiamo bisogno di una poesia che abbia nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”, la frantumazione, la «fragmentation»; ed io aggiungerei, la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». In questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi. Utilizzare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…
Kjell Espmark
Leggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo la frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc. Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.
Ella è dunque stata un’altra per otto anni senza saperlo. Ogni giorno c’è stato un equivoco. Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo. L’inaudito non è nel guardare all’improvviso in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti. L’inaudito è vedere un pomeriggio scambiati otto anni della propria vita. I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti una comunanza piena di antenne vaganti. Solo lei ne è rimasta fuori. II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini è la sua esistenza falsificata. Ella guarda il volto trasparente nello specchio. È del tutto estraneo. Le mani che diventano bianche intorno al lavandino non più del suo proprio biancore non sono sue. Lei non può trattenersi. E vomita tutti i ricordi menzogneri: questo volto semichiaro su di lei sciolto in desiderio e assicurazioni la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento. Ella vomita tutta questa vita falsa queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.
da Lo spazio interiore,traduzione di Enrico Tiozzo (Aracne, 2014)
La tradita: solo un contorno senza forza
Lei è dunque stata un’altra per otto anni senza saperlo. Ogni giorno c’è stato un equivoco. Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo. L’inaudito non è nel guardare all’improvviso in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti. L’inaudito è vedere un pomeriggio scambiati otto anni della propria vita. I figli hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti una comunanza piena di antenne pendolanti. Solo lei ne è rimasta fuori. Il prezzo per la calma di tutti splendente come maggiolini è la sua esistenza falsificata. Si guarda il volto trasparente nello specchio. È del tutto estraneo. Le mani che diventano bianche intorno al lavandino non più del suo proprio biancore non sono sue. Lei non può trattenersi. E vomita tutti i ricordi menzogneri: questo volto semichiaro su di lei sciolto in desiderio e assicurazioni la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento. Lei vomita tutta questa vita falsa questi giornate dal tanfo di gusci di gambero. Infine siede sul pavimento del bagno del tutto messa a nudo. Nulla è rimasto degli otto anni. Solo il sapore di metallo in bocca. Dovete restituirmi i miei anni! I bambini se la cavano, inaspettatamente adulti, imbarazzati dalla retorica, da questi resti di disperazione’ che nemmeno ha parole proprie. E gli occhi dei vicini nelle maioliche del bagno! Lei siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso. Cerca di proteggere la sua povertà con la schiena contro tutti quelli che hanno saputo.
A fianco del suo banco c’è il banco
Lei ascolta con tutto il corpo. Le labbra dell’insegnante si muovono. E lei sente ma manca tuttavia le sue parole di qualche millimetro come quando si cerca di prendere una pietra nell’acqua. C’è un altro mondo, a un palmo di distanza dal suo. Proprio vicino alla carta della Svezia pende una carta sulla Svezia – stesse città e stessi lembi di laghi stessi campi gialli e verdi eppure un regno irraggiungibile che risplende. Adesso discutono, si muovono le bocche. Certo lei sente. Ma ciò che si dice veramente passa scoppiettando oltre le sue orecchie verso chi abita nel paese giusto.
Eppure li può catturare nella pausa quando raffreddata racconta come presero il padre che lottava, tirato in ogni direzione. E la madre che cercava di nascondersi tra le mani. Tutto viene venduto per venti risate cianciate. Racconta a gambe aperte, con le calze calate.
Ma nulla viene tolto al suo successo. Quando poi prende posto nella loro conversazione incontra quel diaframma sottile che separa il mondo dal mondo e quel sorriso che fa così male perché è fatto per non essere notato. Se potesse infiltrarsi nella loro Svezia e cautamente sedersi in mezzo a loro allora la sedia non diventerebbe una sedia e lei stessa non diventerebbe reale? Un passo a lato, non servirebbe di più. Ma non trova neanche una parola per quel passo. E la classe sa: lei non la troverà mai. La lingua tra queste quattro mura sente la sua vita che verrà. Lei può lottare fino a smembrarsi tirata in ogni direzione. In questa grammatica gentilmente inflessibile ciascuno ha il suo posto finale.
da Quando la strada gira trad. Enrico Tiozzo, Ed Bi.Bo.1993
Impromptu
È un giorno esploso in pezzi. Abbiamo litigato da annerire l’intonaco ma abbiamo ritrovato la strada verso di te, verso di me. Mi sollevo un po’ in modo che la pelle sudata frusciando si stacchi dalla pelle e metto il mio cuore al posto giusto nel tuo: un piatto di terracotta sopra all’altro.
La finestra è aperta: maggio è blu. Nella trave sopra noi avanza la morte un millesimo di pollice, con uno schiocco. Ma il ciuffolotto rosso sul ramo nudo canta, canta. Il piumaggio del petto si muove nel vento. Quanto più grande è il canto del corpo tremante!
L’apocalisse silenziosa
Da oblio e indifferenza vengono i quattro cavalieri così lisi da secolari riproduzioni che gli stanchi lineamenti si possono prendere per pieghe della carta. I loro zoccoli così silenziosi che la rugiada è intonsa, il rumore discreto come il russare di un rondinino.
Il primo agita una frusta di paglia e il verde della giungla si fa bianco. Il secondo immerge il suo bastone nel fiume e i pesci affiorano con la pancia all’aria. Il terzo tira una freccia contro lo spazio e una luce ignota filtra per la ferita meravigliato si guarda il braccio che si macchia. Il quarto apre il suo sacco sulle case e i molti si accoppiano, ciecamente come mosche, per riempire la terra ancora e ancora.
Adesso i quattro corrono per la strada del villaggio, silenziosi come una nuvolea di polvere. La nostra lingua può a malapena vederli e fiutarli. Solo il sonno ha parole per ciò che a lungo abbiamo attesa ma che non osiamo riconoscere. Il dormiente fa un gesto come per festeggiare o per difendersi e senza accorgersene cessa di respirare.
. Illuminazioni
1. Stavo davanti alla cattedrale contadina di Lau, ho aperto di un dito la porta, preparato al bianco fresco della stanza e sono impietrito. Forse era l’acustica e le voci dei visitatori insieme con la fessura – io non ho alcun bisogno di spiegazioni. Ma tutta la chiesa era una potente bocca mormorante di voci di angeli. non c’era alcuna misericordia in quella musica.
2. I bambini siedono uno di fronte all’altro, stranamente bianchi in una stanza bianca davanti a un pianoforte bianco. È la nostra sala da pranzo e tuttavia non lo è. I loro capelli sono così chiari che lo sguardo non li regge essi ridono bassi e acuti inaspettatamente si accordano. Anche la musica sembra bianca. I bambini possono avere quindici e dodici anni. Difficile decidere perché non pesano niente e l’immagine nega un contesto. Ma c’è qualcosa di strano nella luce. È troppo chiaro anche per queste finestre alte. Allora si vede come le carte bianche alle pareti scuriscono nei bordi estremi, s’accartocciano e fanno passare una fiamma, sempre più.
3. Con il manico del mio ombrello colante batto sul sarcofago e ti invito ad uscire dalla terza fila nel sotto Escorial. Silenzio. La pioggia lassù.
Capisco che mi aspetti nel tuo regale studio. La scala serpeggia attraverso gli anni. Il tuono si raccoglie prima della visita.
4. In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria: deve esserci sempre stata sebbene non ce ne siamo mai accorti. La apro – il rumore è come quando si strappa un lenzuolo – e l’odore di anni inibiti esce con la muffa. Là dietro c’è una donna mummificata in una stanza più piccola di un armadio. I suoi occhi cono al di là di ogni conversazione, la figura sfocata delle tele di ragno. Le labbra rugose sussurrano, bianche di rabbia: – Non potevi lasciarmi morire!
5. Siedo sulla scala e «mi» rado. L’acero che nasconde la strada e il mondo è un litigioso romanzo russo in cui c’è la storia di tutto il podere. Nel capitolo di oggi c’è qualcosa in giuoco.
Tolgo uno strato di schiuma e barba: non c’è alcun volto dietro. Devo accettarlo come la mancanza di un contatto linguistico con la rondine che proprio ora va sotto il cornicione: un arco jet che atterra su una stazione di lavaggio auto ma non vuole accettare una metafora.
È presto, è prima del testo. Le betulle sono attraversate dalla luce. È così chiaro che il verde dell’erba si arrende.
«Solo se tu rinunci al tuo nome puoi uscire fuori nel paesaggio.»
Il cerfoglio vaga, una possibile salvezza. «Hai solo alcuni minuti di tempo». Il coniglio nell’erba sta fermo, la sua gola pulsa: dice di no ad ogni intervista.
Tomas Tranströmer,premio Nobel per la Letteratura nel 2011, è morto venerdì 27 marzo 2015 a 82 anni. Poeta, quando vinse il Premio dell’Accademia era da undici anni stato colpito da un ictus che gli aveva inibito la capacità di parlare. A riferire della scomparsa è stato il suo editore, Bonniers. Psicologo di professione, era il massimo esponente della generazione di intellettuali che si è affermata dopo la Seconda Guerra mondiale e punta a suggerire che l’esame poetico della natura offre intuizioni sull’identità umana e sulla sua dimensione spirituale, entrando spesso in territori metafisici. “L’esistenza di un essere umano non finisce dove terminano le sue dita”, ha scritto un critico svedese della sua poesia, definendo i suoi lavori “preghiere secolari”. La sua notorietà nel mondo anglofono derivava dalla sua amicizia con il poeta americano Robert Bly, che ha tradotto gran parte del suo lavoro dallo svedese all’inglese, una delle 50 lingue in cui le sue poesie sono apparse.
Notizie sull’autore
Tomas Tranströmer, unanimemente ritenuto il maggiore poeta svedese contemporaneo, più volte candidato al Premio Nobel, è nato a Stoccolma nel 1931. Di professione psicologo, dopo aver lavorato alcuni anni all’Università, nonostante il successo della sua poesia, ha continuato a svolgere attività terapeutiche in centri di riabilitazione di varie città svedesi. Pianista di notevole talento, ha spesso composto i suoi testi ispirandosi a ritmi e forme musicali. Benché una grave malattia gli abbia provocato una dolorosa paralisi, non ha smesso di scrivere, come testimonia la sua ultima opera Sorgegondolen (La gondola a lutto), del 1996, e il volume di traduzioni di poeti europei e americani Tolkingar (Interpretazioni), del 1999. Ha pubblicato sinora dodici brevi raccolte: 17 Dikter (17 Poesie), 1954; Hemligheter på vägen (Segreti sulla vita), 1958; Den halvfärdiga himlen (Il cielo incompiuto), 1962; Klanger och spår (Echi e tracce), 1966; Mörkerseende (Colui che vede nel buio), 1970; Ur stigar (Fuori dai sentieri), 1973; Östersjöar (Mari Baltici), 1974;Sanningsbarriären (La barriera della verità), 1978; Det vilda torget (La piazza selvaggia), 1983; För levande och döda (Per vivi e morti), 1989; Minnena ser mig (I ricordi mi vedono), 1989; Sorgegondolen (La gondola a lutto), 1996.
tomas transtromer
Leggere la sua poesia non è un percorso lineare: è come entrare in una labirintica chiocciola. La concentrazione dei concetti in immagini conduce alla contrazione degli elementi connettivi, dei passaggi logico-sintattici, alla prevalenza dei sintagmi nominali. La capacità di realizzare densità poetica non è in Tranströmer tanto imputabile alla parola, al singolo lessema semanticamente pregnante, ma alla rete capillare di nessi che vengono a stabilirsi tra le parole. Tale sottile interazione, non facile a cogliersi immediatamente, dà spazio alla molteplicità interpretativa, alla pluralità del senso, lasciando spesso misteriosi i referenti delle metafore. Questa “oscurità”, comune a molta poesia contemporanea, in Tranströmer nasce dalla volontà di fuggire ai vuoti schemi della comunicazione massificata, di contrapporsi ai linguaggi pubblicitari, rifuggendo dall’univocità e proclamando la “polivocità” della parola.
(dalla prefazione di Maria Cristina Lombardi in Poesia dal silenzio, Crocetti editore, 2011)
Oct. 6, 2011, Swedish poet Tomas Transtromer poses for a photograph at an unknown location
Commento di Giorgio Linguaglossa
Con il Nobel nel 2011 per la poesia a Tomas Tranströmer, i membri dell’Accademia giudicante lo hanno riconosciuto come il poeta che ha avuto la più grande influenza sulla poesia occidentale.
Nato a Stoccolma nel 1931, dopo studi di psicologia nell’Università della capitale svedese, è entrato nell’amministrazione pubblica della cittadina industriale di Vasteras. Tranströmer è rimasto per lunghi decenni appartato e in solitudine fino al ritratto autobiografico che il poeta ha dato di se stesso nel libro Minnena ser mig nel 1993, tradotto tre anni dopo in italiano con il titolo I ricordi mi vedono. Tranströmer parte sempre da esperienze personali (la casa nel popolare quartiere di Söder a Stoccolma, la figura del vecchio nonno pilota di rimorchiatori etc.) con un dettato essenziale, diretto alle cose, senza giri frastici, anzi abolendo del tutto congiunzioni e filtri letterari. Dal dato biografico Traströmer arriva a tratteggiare la cornice di un quadro di angoscia esistenziale e di disagio della società occidentale, l’incomunicabilità, la enigmaticità della condizione esistenziale degli uomini concreti posti in una determinata stazione storica: quella della Svezia del Dopo il Moderno, la violenza e la inautenticità nascoste dietro il velo dell’ipocrisia. Si può affermare che tutta l’opera del poeta svedese non è altro che un tentativo di squarciare il velo di perbenismo edulcorato che si nasconde dietro l’apparenza sociale. Tradotto splendidamente da Enrico Tiozzo, è apparsa in italiano Sorgengondolen – La gondola a lutto pubblicata da Crocetti nel 1996; opera dettata alla moglie per via dell’ictus che colpì il poeta negli anni ’90 che lo ha ridotto all’afasia ma non alla interruzione della sua attività poetica. Così la moglie ha commentato la notizia del conferimento del Nobel al marito: «Non pensava più di sentire questa gioia un giorno».
Le poesie dell’esordio, con la raccolta 17 dikter – 17 poesie del 1954, gli valsero da parte della critica il nomignolo ironico di «re delle metafore» ma ciò non scalfì la collocazione di tutto rispetto tra i poeti degli anni Cinquanta per l’inconfondibile concentrazione del suo stile. Le poesie sono sempre delle occasioni per una riflessione. Il poeta, come un minatore, scende nella profondità che sta celata appena dietro il velo dell’apparenza delle cose. Con uno stile classico e modernista, dietro il vestito metaforico della sua poesia, Tranströmer può essere qualificato, oggi, come uno dei maestri in ombra della poesia europea e occidentale. Il poeta svedese offre al lettore una nuova esperienza degli oggetti. Gli oggetti sono visti come immagini in scorcio, in collegamento ed in sviluppo; il lettore è chiamato in causa direttamente, a prendere posizione dinanzi alla ambiguità e alla «polisemia» delle «cose» viste da un preciso e determinato angolo visuale. Le «cose» equivalgono alle immagini in movimento ed in collegamento reciproco. Contrario ad ogni ipotesi di poesia sperimentale, Tranströmer ha sempre tenuto ben dritto il timone della sua investigazione poetica mantenendosi a cautelosa distanza da ogni ipotesi di poesia civile, impegnata o sperimentale, concetti da sempre ripudiati dal poeta svedese. C’è una certa distanza tra l’apparato reticolare delle metafore di Tranströmer e le «cose» del reale messe bene in luce in un saggio del critico Kjell Espmark che ha identificato i modelli del poeta in Hölderlin, Dante, Rilke. Alla fine degli anni Ottanta è arrivata per Tranströmer la definitiva consacrazione con la silloge För levande och döda – Per vivi e morti del 1989, concentrata sul tema della presenza della morte nel quotidiano. Tranströmer «fonda» il quotidiano, lo rimette in piedi da dove quel «quotidiano» era stato fatto ruzzolare dalle scaffalature impolverate dei «quotidianisti». In Italia l’opera di Tranströmer è stata pubblicata da Crocetti che nel 1996 ha dato alle stampe alcune poesie nella Antologia della poesia svedese contemporanea e, nel 2008, il volume Poesia dal silenzio. Con il medesimo editore è uscito Il grande mistero l’ultima opera del poeta svedese, una raccolta di 45 haiku per 45 punti di vista. Alcune poesie del poeta svedese erano apparse nell’Almanacco dello Specchio Mondadori del 2007.
Scrive Tranströmer sulla sua vita (da Poesia n. 265 novembre 2011)
«”La mia vita”. Quando penso a queste parole vedo davanti a me una striscia di luce. Guardando più attentamente, la striscia di luce ha la forma di una cometa con una testa e una coda. L’infanzia e l’adolescenza formano l’estremità più luminosa, la testa. Il nucleo, la parte più compatta, è la primissima infanzia dove si decidono i tratti più importanti della nostra vita. Cerco di ricordarmi, cerco di farmi largo in quella direzione. Ma è difficile muoversi in queste regioni dense, è pericoloso, è come una sensazione di avvicinamento alla morte. Più indietro la cometa si dirada, è la parte più lunga, la coda. Si fa sempre più rada ma anche più larga. Adesso mi trovo molto avanti sulla coda della cometa, ho sessant’anni quando scrivo queste righe. Le prime esperienze sono per la maggior parte irraggiungibili. Cose riraccontate, ricordi di ricordi, ricostruzioni sulla base di atmosfere che improvvisamente si riaccendono. Il mio primo ricordo databile è una sensazione. Una sensazione di fierezza. Ho appena compiuto tre anni e si è detto che è molto importante che adesso sono diventato grande. Sono a letto in una stanza luminosa e poi scendo sul pavimento, conscio in modo inaudito del fatto che sto diventando adulto. Ho una bambola a cui ho dato il nome più bello che ho potuto inventare: KARIN SPINNA. Non la tratto maternamente. È più una compagna, oppure un’innamorata.»
Scrive un critico della poesia di Tranströmer:
Il tempo è anche una sorta di cammino che l’uomo può e deve percorrere in più direzioni e nel quale la sovrapproduzione di momenti del passato su quelli del presente, del futuro o viceversa, è assai spesso legata a un elemento spaziale che raccogliendo in unità un apparente contrasto riporta il discorso poetico verso il centro della riflessione. Per questo i momenti della vita sono racchiusi tutti insieme in uno spazio che concentra simbolicamente anche il tempo
(“Si fece buio all’improvviso, come per un acquazzone. / Io stavo in una stanza che conteneva tutti i momenti ./ un museo di farfalle.”)
La qualità essenziale del tempo e dello spazio poetico sarà dunque quella di potersi comprimere e dilatare, aprendosi a tutte le direzioni (verticali e orizzontali), una espansione cui si giungerà partendo da un punto focale di concentrazione, nel quale mondo interiore e quello esteriore si incontrano traducendosi – per il tramite dell’immagine poetica, magari della metafora – l’uno nell’altro. E qui sarà inevitabile sottolineare una affinità fondamentale: la possibilità di immaginare il tempo e lo spazio poetico come elementi musicali, suoni che si susseguono nel tempo e che si dilatano a coprire lo spazio del mondo e dell’animo…*
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti. I vicini venivano ad ascoltare.
*Saggio di Gianna Chiesa Isnardi in Sorgengondolen, Herrenhaus, 2003 pp.109, 110
.
Appunto critico di Giorgio Linguaglossa
Si dice spesso che l’evento principiale è il silenzio. Ma il silenzio è cosa diversa dal rumore (inteso come ciò che precede il linguaggio) ed è privo di significato. Il fare silenzio è una forzatura, è una imprecisione terminologica. A rigore, l’uomo non potrebbe sopravvivere nel silenzio, il silenzio lo dissolverebbe. Il silenzio (da non confondere con il vuoto), ovvero, l’assenza di suoni, non esiste. In realtà, le cose parlano, parlano sempre, e non possono che parlare in continuazione. L’uomo parla in continuazione anche quando si trova nella più aspra delle solitudini. Così, il vento parla quando passa attraverso le foglie di un bosco, quando incontra degli ostacoli; la pioggia ci parla quando trascorre attraverso l’atmosfera e incontra degli oggetti, e così via… il mare «fragoroso» ci parla attraverso il suo incontro scontro con la terraferma e gli scogli… è l’incontro con le cose, con gli ostacoli, che fa parlare le cose, senza incontro scontro non ci può essere né linguaggio né la parola. Linguaggio e parola possono prendere vita soltanto attraverso l’incontro scontro tra gli uomini e le cose, tra silenzio e linguaggio.
Sono le cose collegate in un insieme che fanno sì che siano esse a parlare. Il poeta deve soltanto porsi in posizione di ascolto. L’ascolto recepisce i suoni, le parole (il silenzio è un altro modo di essere del linguaggio, quando il linguaggio diventa silenzioso), l’ascolto predispone il linguaggio a formarsi, e il formarsi del linguaggio significa predisporre il silenzio all’interno del linguaggio. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio del linguaggio quale sua custodia segreta. Il poeta abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini abitano questa custodia segreta. Non è una prerogativa del poeta quella di abitare il silenzio delle parole, chiunque può attingere il silenzio delle parole attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Tranströmer con la sua poesia fa parlare il silenzio, fa parlare le cose tra di loro, esplora le risorse linguistiche e sonore delle cose attraverso l’impiego della immagine. È questa la grande novità della poesia di Tranströmer. L’immagine è l’altra dimensione in cui può vivere la parola sonora. «Tutti gli oggetti hanno un’anima, bisogna solo scoprirla» ha scritto John Cage. Nulla di più vero. Per Tranströmer scoprire una relazione tra le cose è un processo molto complesso che ha il proprio segreto nell’ascolto delle cose. La poesia è per il poeta svedese lo spalancamento della illuminazione, dis-chiusura della coscienza avvezza al linguaggio ordinario, imprevedibilità della dis-chiusura delle cose, frattura della coscienza ordinaria, un nuovo modo di stare nel mondo che prevede l’incontro con l’illuminazione: la creazione di una immagine elicoidale in movimento, scoprimento di un linguaggio iconico. Il tempo forte del linguaggio poetico di Tranströmer è il tempo forte iconico che ha il sopravvento nei confronti del tempo debole metrico, piegando quest’ultimo alle esigenze di quello. Il tempo forte iconico disloca e dissolve il tempo forte metrico e lo assoggetta alla priorità dettata dal primo.
tomas transtromer
da 17 Poesie (1954)
Sotto il quieto punto volteggiante della poiana avanza rotolando il mare fragoroso nella luce, mastica ciecamente il suo morso di alga e soffia schiuma sulla riva. La terra è celata dalle tenebre frugate dai pipistrelli. La poiana si ferma e diventa una stella. Il mare avanza rotolando fragoroso e soffia schiuma sulla riva.
*
L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela. Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque. È carbonizzato il greve quadrato del ponte. la sterpaglia soccombe all’oscurità. Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte sui cancelli granitici del mare e il sole crepita vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive brancolano nei vapori marini.
. Storia fantastica
Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume, un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano come pallide linci cercano un appiglio sulla riva ghiaiosa.
In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.
(Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno vive in una caverna giorno e notte.
Dove il solo sopravvissuto può sedere alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare la musica dei morti assiderati.)
.
Tomas-Transtromer
Meditazione agitata
Un temporale fa girare all’impazzata le ali del mulino nel buio della notte, macinando nulla. – Ti tengono sveglio le stesse leggi. Il ventre dello squalo è la tua fioca lampada.
Soffusi ricordi calano sul fondo del mare e là si irrigidiscono in statue sconosciute. – Verde di alghe è la tua gruccia. Chi va al mare torna impietrito.
. Elegia (1973)
Apro la prima porta È una grande stanza soleggiata. Un’auto pesante passa per la strada e fa tremare il vasellame. Apro la porta numero due. Amici! Avete bevuto il buio e siete diventati visibili. Porta numero tre. Una stretta camera d’albergo. Vista su una strada secondaria. Un lampione che scintilla sull’asfalto. La bella scoria delle esperienze.
. Volantini (1989)
La silenziosa rabbia scarabocchia sul muro in dentro. Alberi da frutto in fiore, il cuculo chiama. È la narcosi della primavera. Ma la silenziosa rabbia dipinge i suoi slogan all’inverso nel garage. Vediamo tutto e niente, ma dritti come periscopi presi da una timida ciurma sotterranea. È la guerra dei minuti. Il bruciante sole è sopra l’ospedale, il parcheggio della sofferenza. Noi chiodi vivi conficcati nella società! Un giorno ci staccheremo da tutto. Sentiremo il vento della morte sotto le ali e saremo più dolci e più selvaggi che qui.*
. * da Poeti svedesi contemporanei a cura di Enrico Tiozzo, Göteborg, 1992
. Epilogo
Dicembre. La Svezia è una nave malandata in missione. Contro il cielo del tramonto sta il suo albero aspro. E il tramonto è più lungo di un giorno – la via che porta qui è sassosa: solo verso mezzogiorno esce la luce e il colosseo dell’inverno si alza, illuminato da nuvole irreali. Allora sale d’un tratto vertiginoso il fumo bianco dai villaggi. Altissime stanno le nuvole. Alle radici dell’albero celeste fruga il mare, distratto, come in ascolto di qualcosa. (Invisibile viaggia sull’altra metà dell’anima un uccello che sveglia chi dorme con le sue grida. Così il telescopio gira, cattura un altro tempo ed è estate: mugghiano le montagne, gonfie di luce e il ruscello solleva lo scintillío del sole nella mano trasparente… sparito in quell’attimo come quando la pellicola di un film si spezza al buio.)
Ora l’astro della sera brucia attraverso la nuvola. Alberi, recinti e case aumentano, crescono nella silenziosa slavina che precipita nel buio. E sotto la stella ancor più si suscita l’altro paesaggio nascosto che vive la vita dei confini sulla radiografia della notte. Un’ombra trascina la sua slitta tra le case. Stanno in attesa.
(da Poesia dal silenzio, Crocetti Editore , 2001, trad. Maria Cristina Lombardi)
Tomas-Transtromer
La coppia
Spengono la lampada e il suo globo risplende un istante prima di sciogliersi come una pastiglia in un bicchiere di tenebre. Poi si sollevano. Le pareti dell’albergo si gettano nel buio del cielo. I gesti dell’amore si sono acquietati e loro dormono ma i pensieri più segreti s’incontrano come quando s’incontrano due colori e l’uno nell’altro fluiscono sulla carta bagnata di un dipinto infantile. È buio e silenzio. Ma la città stanotte si è avvicinata in fretta. A finestre spente. Le case sono qui. Vicinissime, stanno serrate in attesa, una folla di volti inespressivi.
. Storia fantastica
Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume, un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano come pallide linci cercano appiglio sulla riva ghiaiosa. In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa. (Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno vive in una caverna giorno e notte. Dove il solo sopravvissuto può sedere alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare la musica dei morti assiderati.)
. Sfere di fuoco
Nei mesi oscuri la mia vita scintillava solo quando ti amavo. Come la lucciola si accende e si spegne, si accende e si spegne, – dai bagliori si può seguire il suo cammino nel buio della notte tra gli ulivi. Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata e senza vita ma il corpo veniva dritto verso di te. Il cielo notturno mugghiava. Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti. Pagina di libro notturno Sbarcai una notte di maggio in un gelido chiaro di luna dove erba e fiori erano grigi ma il profumo verde. Salii piano un pendìo nella daltonica notte mentre pietre bianche segnalavano alla luna. Uno spazio di tempo lungo qualche minuto largo cinquantotto anni. E dietro di me oltre le plumbee acque luccicanti c’era l’altra costa e i dominatori. Uomini con futuro invece di volti. gli scogli
Tomas Tranströmer, premio Nobel per la Letteratura nel 2011, è morto a 82 anni venerdì 27 marzo 2015.
Poeta, quando vinse il Premio dell’Accademia era da undici anni stato colpito da un ictus che gli aveva inibito la capacità di parlare. A riferire della scomparsa è stato il suo editore, Bonniers.”Psicologo di professione, era il massimo esponente della generazione di intellettuali che si è affermata dopo la Seconda Guerra mondiale e punta a suggerire che l’esame poetico della natura offre intuizioni sull’identità umana e sulla sua dimensione spirituale, entrando spesso in territori metafisici.”L’esistenza di un essere umano non finisce dove terminano le sue dita“, ha scritto un critico svedese della sua poesia, definendo i suoi lavori “preghiere secolari”.
“La sua notorietà nel mondo anglofono derivava dalla sua amicizia con il poeta americano Robert Bly, che ha tradotto gran parte del suo lavoro dallo svedese all’inglese, una delle 50 lingue in cui le sue poesie sono apparse. Notizie sull’autore
Tomas Tranströmer, unanimemente ritenuto il maggiore poeta svedese contemporaneo, più volte candidato al Premio Nobel, è nato a Stoccolma nel 1931. Di professione psicologo, dopo aver lavorato alcuni anni all’Università, nonostante il successo della sua poesia, ha continuato a svolgere attività terapeutiche in centri di riabilitazione di varie città svedesi. Pianista di notevole talento, ha spesso composto i suoi testi ispirandosi a ritmi e forme musicali. Benché una grave malattia gli abbia provocato una dolorosa paralisi, non ha smesso di scrivere, come testimonia la sua ultima opera Sorgegondolen (La gondola a lutto), del 1996, e il volume di traduzioni di poeti europei e americani Tolkingar (Interpretazioni), del 1999. Ha pubblicato sinora dodici brevi raccolte: 17 Dikter (17 Poesie), 1954; Hemligheter på vägen (Segreti sulla vita), 1958; Den halvfärdiga himlen (Il cielo incompiuto), 1962; Klanger och spår (Echi e tracce), 1966; Mörkerseende (Colui che vede nel buio), 1970; Ur stigar (Fuori dai sentieri), 1973; Östersjöar (Mari Baltici), 1974;Sanningsbarriären (La barriera della verità), 1978; Det vilda torget (La piazza selvaggia), 1983; För levande och döda (Per vivi e morti), 1989; Minnena ser mig (I ricordi mi vedono), 1989; Sorgegondolen (La gondola a lutto), 1996.
Tomas-Transtromer
Leggere la sua poesia non è un percorso lineare: è come entrare in una labirintica chiocciola. La concentrazione dei concetti in immagini conduce alla contrazione degli elementi connettivi, dei passaggi logico-sintattici, alla prevalenza dei sintagmi nominali. La capacità di realizzare densità poetica non è in Tranströmer tanto imputabile alla parola, al singolo lessema semanticamente pregnante, ma alla rete capillare di nessi che vengono a stabilirsi tra le parole. Tale sottile interazione, non facile a cogliersi immediatamente, dà spazio alla molteplicità interpretativa, alla pluralità del senso, lasciando spesso misteriosi i referenti delle metafore. Questa “oscurità”, comune a molta poesia contemporanea, in Tranströmer nasce dalla volontà di fuggire ai vuoti schemi della comunicazione massificata, di contrapporsi ai linguaggi pubblicitari, rifuggendo dall’univocità e proclamando la “polivocità” della parola.
(dalla prefazione di Maria Cristina Lombardi in Poesia dal silenzio, Crocetti editore, 2011)
Tomas Transtromer
Commento di Giorgio Linguaglossa
Con il Nobel nel 2011 per la poesia a Tomas Tranströmer, i membri dell’Accademia giudicante lo hanno riconosciuto come il poeta che ha avuto la più grande influenza sulla poesia occidentale.
Nato a Stoccolma nel 1931, dopo studi di psicologia nell’Università della capitale svedese, è entrato nell’amministrazione pubblica della cittadina industriale di Vasteras. Tranströmer è rimasto per lunghi decenni appartato e in solitudine fino al ritratto autobiografico che il poeta ha dato di se stesso nel libro Minnena ser mig nel 1993, tradotto tre anni dopo in italiano con il titolo I ricordi mi vedono.
Tranströmer parte sempre da esperienze personali (la casa nel popolare quartiere di Söder a Stoccolma, la figura del vecchio nonno pilota di rimorchiatori etc.) con un dettato essenziale, diretto alle cose, senza giri frastici, anzi abolendo del tutto congiunzioni e filtri letterari. Dal dato biografico Traströmer arriva a tratteggiare la cornice di un quadro di angoscia esistenziale e di disagio della società occidentale, l’incomunicabilità, la enigmaticità della condizione esistenziale degli uomini concreti posti in una determinata stazione storica: quella della Svezia del Dopo il Moderno, la violenza e la inautenticità nascoste dietro il velo dell’ipocrisia. Si può affermare che tutta l’opera del poeta svedese non è altro che un tentativo di squarciare il velo di perbenismo edulcorato che si nasconde dietro l’apparenza sociale. Tradotto splendidamente da Enrico Tiozzo, è apparsa in italiano Sorgengondolen – La gondola a lutto pubblicata da Crocetti nel 1996; opera dettata alla moglie per via dell’ictus che colpì il poeta negli anni ’90 che lo ha ridotto all’afasia ma non alla interruzione della sua attività poetica. Così la moglie ha commentato la notizia del conferimento del Nobel al marito: «Non pensava più di sentire questa gioia un giorno».
Le poesie dell’esordio, con la raccolta 17 dikter – 17 poesie del 1954, gli valsero da parte della critica il nomignolo ironico di «re delle metafore» ma ciò non scalfì la collocazione di tutto rispetto tra i poeti degli anni Cinquanta per l’inconfondibile concentrazione del suo stile.
tomas transtromer
Le poesie sono sempre delle occasioni per una riflessione. Il poeta, come un minatore, scende nella profondità che sta celata appena dietro il velo dell’apparenza delle cose. Con uno stile classico e modernista, dietro il vestito metaforico della sua poesia, Tranströmer può essere qualificato, oggi, come uno dei maestri in ombra della poesia europea e occidentale. Il poeta svedese offre al lettore una nuova esperienza degli oggetti. Gli oggetti sono visti come immagini in scorcio, in collegamento ed in sviluppo; il lettore è chiamato in causa direttamente, a prendere posizione dinanzi alla ambiguità e alla «polisemia» delle «cose» viste da un preciso e determinato angolo visuale. Le «cose» equivalgono alle immagini in movimento ed in collegamento reciproco. Contrario ad ogni ipotesi di poesia sperimentale, Tranströmer ha sempre tenuto ben dritto il timone della sua investigazione poetica mantenendosi a cautelosa distanza da ogni ipotesi di poesia civile, impegnata o sperimentale, concetti da sempre ripudiati dal poeta svedese. C’è una certa distanza tra l’apparato reticolare delle metafore di Tranströmer e le «cose» del reale messe bene in luce in un saggio del critico Kjell Espmark che ha identificato i modelli del poeta in Hölderlin, Dante, Rilke. Alla fine degli anni Ottanta è arrivata per Tranströmer la definitiva consacrazione con la silloge För levande och döda – Per vivi e morti del 1989, concentrata sul tema della presenza della morte nel quotidiano. Tranströmer «fonda» il quotidiano, lo rimette in piedi da dove quel «quotidiano» era stato fatto ruzzolare dalle scaffalature impolverate dei «quotidianisti».
In Italia l’opera di Tranströmer è stata pubblicata da Crocetti che nel 1996 ha dato alle stampe alcune poesie nella Antologia della poesia svedese contemporanea e, nel 2008, il volume Poesia dal silenzio. Con il medesimo editore è uscito Il grande mistero l’ultima opera del poeta svedese, una raccolta di 45 haiku per 45 punti di vista. Alcune poesie del poeta svedese erano apparse nell’Almanacco dello Specchio Mondadori del 2007.
tomas transtromer
da 17 Poesie (1954)
Sotto il quieto punto volteggiante della poiana
avanza rotolando il mare fragoroso nella luce,
mastica ciecamente il suo morso di alga e soffia
schiuma sulla riva.
La terra è celata dalle tenebre frugate dai pipistrelli.
La poiana si ferma e diventa una stella.
Il mare avanza rotolando fragoroso e soffia
schiuma sulla riva.
*
L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela.
Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque.
È carbonizzato il greve quadrato del ponte. La sterpaglia
soccombe all’oscurità.
Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte sui
cancelli granitici del mare e il sole crepita
vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive
brancolano nei vapori marini.
. Storia fantastica
Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume,
un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano
come pallide linci cercano un appiglio sulla riva ghiaiosa.
In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei
suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi
annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.
(Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati
e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno
vive in una caverna giorno e notte.
Dove il solo sopravvissuto può sedere
alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare
la musica dei morti assiderati.)
. Meditazione agitata
Un temporale fa girare all’impazzata le ali del mulino
nel buio della notte, macinando nulla. – Ti
tengono sveglio le stesse leggi.
Il ventre dello squalo è la tua fioca lampada.
Soffusi ricordi calano sul fondo del mare
e là si irrigidiscono in statue sconosciute. – Verde
di alghe è la tua gruccia. Chi va
al mare torna impietrito.
. Elegia(1973)
Apro la prima porta
È una grande stanza soleggiata.
Un’auto pesante passa per la strada
e fa tremare il vasellame.
Apro la porta numero due.
Amici! Avete bevuto il buio
e siete diventati visibili.
Porta numero tre. Una
stretta camera d’albergo.
Vista su una strada secondaria.
Un lampione che scintilla sull’asfalto.
La bella scoria delle esperienze.
Oct. 6, 2011, Swedish poet Tomas Transtromer poses for a photograph at an unknown location
Volantini(1989)
La silenziosa rabbia scarabocchia sul muro in dentro.
Alberi da frutto in fiore,
il cuculo chiama.
È la narcosi della primavera. Ma la silenziosa rabbia
dipinge i suoi slogan all’inverso nel garage.
Vediamo tutto e niente,
ma dritti come periscopi
presi da una timida ciurma sotterranea.
È la guerra dei minuti. Il bruciante sole
è sopra l’ospedale, il parcheggio della sofferenza.
Noi chiodi vivi conficcati nella società!
Un giorno ci staccheremo da tutto.
Sentiremo il vento della morte sotto le ali
e saremo più dolci e più selvaggi che qui.*
–
* da Poeti svedesi contemporanei a cura di Enrico Tiozzo, Göteborg, 1992
. Epilogo
Dicembre. La Svezia è una nave malandata
in missione. Contro il cielo del tramonto sta
il suo albero aspro. E il tramonto è più lungo
di un giorno – la via che porta qui è sassosa:
solo verso mezzogiorno esce la luce
e il colosseo dell’inverno si alza,
illuminato da nuvole irreali. Allora sale d’un tratto
vertiginoso il fumo bianco
dai villaggi. Altissime stanno le nuvole.
Alle radici dell’albero celeste fruga il mare,
distratto, come in ascolto di qualcosa.
(Invisibile viaggia sull’altra metà
dell’anima un uccello che sveglia
chi dorme con le sue grida. Così il telescopio
gira, cattura un altro tempo
ed è estate: mugghiano le montagne, gonfie
di luce e il ruscello solleva lo scintillío del sole
nella mano trasparente… sparito in quell’attimo
come quando la pellicola di un film si spezza al buio.)
Ora l’astro della sera brucia attraverso la nuvola.
Alberi, recinti e case aumentano, crescono
nella silenziosa slavina che precipita nel buio.
E sotto la stella ancor più si suscita
l’altro paesaggio nascosto che vive
la vita dei confini sulla radiografia della notte.
Un’ombra trascina la sua slitta tra le case.
Stanno in attesa.
(da Poesia dal silenzio, Crocetti Editore , 2001, trad. Maria Cristina Lombardi)
* La coppia
Spengono la lampada e il suo globo risplende
un istante prima di sciogliersi
come una pastiglia in un bicchiere di tenebre. Poi si sollevano.
Le pareti dell’albergo si gettano nel buio del cielo.
I gesti dell’amore si sono acquietati e loro dormono
ma i pensieri più segreti s’incontrano
come quando s’incontrano due colori e l’uno nell’altro fluiscono
sulla carta bagnata di un dipinto infantile.
È buio e silenzio. Ma la città stanotte
si è avvicinata in fretta. A finestre spente. Le case sono qui.
Vicinissime, stanno serrate in attesa,
una folla di volti inespressivi.
– Storia fantastica
Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume,
un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano
come pallide linci cercano appiglio sulla riva ghiaiosa.
In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei
suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi
annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.
(Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati
e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno
vive in una caverna giorno e notte.
Dove il solo sopravvissuto può sedere
alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare
la musica dei morti assiderati.)
. Sfere di fuoco
Nei mesi oscuri la mia vita scintillava
solo quando ti amavo.
Come la lucciola si accende e si spegne, si accende e si spegne,
– dai bagliori si può seguire il suo cammino
nel buio della notte tra gli ulivi.
Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata
e senza vita
ma il corpo veniva dritto verso di te.
Il cielo notturno mugghiava.
Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti.
Pagina di libro notturno
Sbarcai una notte di maggio
in un gelido chiaro di luna
dove erba e fiori erano grigi
ma il profumo verde.
Salii piano un pendìo
nella daltonica notte
mentre pietre bianche
segnalavano alla luna.
Uno spazio di tempo
lungo qualche minuto
largo cinquantotto anni.
E dietro di me
oltre le plumbee acque luccicanti
c’era l’altra costa
e i dominatori.
da “Antologia della poesia svedese contemporanea” a cura di Helena Sanson e Edoardo Zuccato (Crocetti, 1996)
L’impressione che la poesia svedese lascia ad un lettore italiano è qualcosa che sta tra il mistico e l’esotico, una poesia che sta molto più in avanti rispetto a quella italiana, e molto più indietro; ma è forse una impressione errata. In realtà, la poesia svedese abita il contemporaneo, ha una sua incomparabile vitalità e intensità. È una poesia verticale, che pensa la verticalità, si esprime in verticale (al contrario di quella italiana da Satura (1971) in poi che si esprime in orizzontale). Anche la direzionalità delle sue metafore è orientata in verticale. È una poesia fatta con i mattoni delle immagini, nutrita di immagini concatenate, concavo-convesse, interne-esterne, addita, mediante una circospezione prospezione metaforica dell’oggetto, al piano metafisico delle «cose», al lato oscuro, all’ombra delle «cose», come se nell’ombra vi fosse una maggiore vitalità e una maggiore visibilità che non nella luce. Ogni autore si differenzia dall’altro per via della longitudine e della latitudine, ma ogni poesia è imparentata all’altra da segreti cunicoli, come di vasi comunicanti. Può accadere che, quando, all’improvviso, si offrono condizioni vantaggiose la poesia si ritrovi inaspettatamente ad abitare il contemporaneo. Per esempio, anche (e soprattutto grazie) quando la poesia sconfina nell’astrazione della metafora, come in Tranströmer, essa ci dice un di più intorno all’oggetto, ci fa scoprire quell’oggetto che non conoscevamo, ci fa entrare dentro un’altra morfologia, una diversa fisiologia dell’oggetto.
(Giorgio Linguaglossa)
Tomas Tranströmer (1931)
LE PIETRE
Sento cadere le pietre che abbiamo gettato, cristalline negli anni. Nella valle volano le azioni confuse dell’attimo gridando da cima a cima degli alberi, tacciono nell’aria più leggera del presente, planano come rondini da cima a cima dei monti finché raggiungono l’altopiano più remoto lungo la frontiera con l’aldilà. Là cadono le nostre azioni cristalline su nessun fondo, tranne noi stessi.
SULLA STORIA (PARTE V)
Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti. Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia, sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo. Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.
MOTIVO MEDIEVALE
Sotto le nostre espressioni stupefatte c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre il sole lento ruota nel cielo. La partita a scacchi prosegue.
Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli. Il sole ruota lento nel cielo. La partita a scacchi si interrompe sul pari. Nel silenzio di un arcobaleno. Continua a leggere →
Poeta e commediografo svedese (Stoccolma 1928-2007). Figura di primo piano nel panorama letterario svedese, membro dell’Accademia Svedese, è autore di poesie (Una poesia d’amore, 1960; Però, 1968; Poesie d’ottobre, 1971; Il possibile, 1974; Sassi, 1980; Canzoni, 1986) e di drammi (La passeggiata domenicale, 1963; Il borghese e Marx, 1970) che esprimono le lacerazioni del mondo contemporaneo. Forssell ha affrontato anche tematiche esistenziali alternate a motivi classici, adottando strutture metriche tradizionali, come per esempio, nel sonetto dei Canti (1986) e nelle opere teatrali Show (1971) e La lepre e la poiana (1978). Ottimo traduttore, ha reso in svedese, fra l’altro, le opere di E. Pound, il di Ibsen (1991) e di Molière (1992). Tra le altre raccolte di versi: Scavi a cielo aperto (1988), La tristezza e l’allegria (1989), Amici (1991), Immagini in movimento (1992) e Giornale di bordo (1996).
da Lars Forssell Poesie Passigli, 1990 a cura di Giacomo Oreglia
…Le due prime sillogi di Forssell, Ryttaren (Il Cavaliere, 1949) e Narren (Il Buffone, 1952), già mostrano chiaramente diverse delle sue caratteristiche: una tecnica metrica, regolare e irregolare in stretto avvicendarsi, che restituita al senso etimologico del termine, téchnè, sia arte essa stessa, ben cosciente quindi della propria nobiltà e orgoglio del poeta-artiere; scansioni accentuate, effetti dirompenti e controcanti sommessi; infine, personaggi emblematici come il Buffone, Billy Budd, Alceste, anche veri e propri alter ego o senhal dell’autore, con nuove aggregazioni nelle sillogi posteriori…
Il poeta ha dichiarato: «Io sorgo dal silenzio e quindi devo parlare con molte voci». Nella sua opera è soprattutto ricorrente, ad ogni modo, anche se talvolta camuffato in varie fogge, il Buffone (il Buffone e il Cavaliere figure emblematiche similmente nei film di Ingmar Bergman…), come l’Angel andaluso in Rafael Alberti, vero e proprio topos Continua a leggere →
È fin troppo chiaro che con il Nobel nel 2011 per la poesia a Tomas Tranströmer, i membri dell’Accademia giudicante hanno esibito un coraggio insolito, innanzitutto perché Tranströmer era un poeta isolato e non rientrava nel concerto dei poeti di rappresentanza o da vetrina mediatico-culturale oggi di moda in Europa. Di fatto, il massimo poeta svedese vivente è uno sconosciuto in Italia, dove gli editori maggiori non lo hanno mai considerato degno di pubblicazione, in quanto non rientrante nella ristretta cerchia dei poeti sostenuti dal mondo accademico. Del resto, anche il mondo accademico svedese ha faticato non poco per accorgersi del valore del poeta. Nato a Stoccolma nel 1931, dopo studi di psicologia nell’Università della capitale svedese, è entrato nell’amministrazione pubblica della cittadina industriale di Vasteras. Nulla di più estraneo al mondo degli studi accademici svedesi, Tranströmer è rimasto per lunghi decenni appartato e in solitudine fino al ritratto autobiografico che il poeta ha dato di se stesso nel libro Minnena ser mig nel 1993, tradotto tre anni dopo in italiano con il titolo I ricordi mi vedono.
Tranströmer parte sempre da esperienze personali (la casa nel popolare quartiere di Söder a Stoccolma, la figura del vecchio nonno pilota di rimorchiatori etc.) con un dettato essenziale, diretto alle cose, senza giri di parole e/o filtri letterari. Dal dato biografico Traströmer arriva a tratteggiare la cornice di un quadro di angoscia esistenziale e di disagio della società svedese moderna, l’incomunicabilità dei suoi personaggi, la enigmaticità della condizione esistenziale degli uomini concreti posti in una determinata stazione storica: quella della Svezia del Dopo il Moderno, la violenza e la sopraffazione nascoste dietro il velo dell’ipocrisia e della doppiezza. Si può affermare che tutta l’opera del poeta svedese non è altro che un tentativo di squarciare il velo di perbenismo e di edulcorato ottimismo che si nasconde dietro il fondale di ottimismo di un assetto sociale configurato secondo la finalità del benessere dei cittadini. Tranströmer dimostra che c’è una ipocrisia di fondo dietro la soglia dell’efficienza dell’Amministrazione totale volta al benessere dei suoi cittadini.
Tradotto splendidamente da Enrico Tiozzo, sono apparse in italiano Sorgengondolen – La gondola a lutto pubblicata da Crocetti nel 1996; opera dettata alla moglie per via dell’ictus che colpì il poeta negli anni ’90 che lo ha ridotto all’afasia ma non alla interruzione della sua attività poetica. Così la moglie ha commentato la notizia del conferimento del Nobel al marito: «Non pensava più di sentire questa gioia un giorno».
Le poesie dell’esordio, con la raccolta 17 dikter – 17 poesie del 1954, gli valsero da parte della critica il nomignolo ironico di «re delle metafore» ma ciò non scalfì la collocazione di tutto rispetto tra i poeti degli anni Cinquanta per l’inconfondibile sobrietà del suo stile.
Le poesie sono sempre delle occasioni per una riflessione del poeta, il quale come un minatore, scende nella profondità che sta celata appena dietro il velo dell’apparenza delle cose. Con uno stile classico e modernista, al di là del vestito metaforico della sua poesia, Tranströmer può essere qualificato, oggi, come uno dei maestri in ombra della poesia europea e occidentale. Il poeta svedese offre al lettore una nuova esperienza degli oggetti. Glioggetti sono visti come immagini in collegamento ed in sviluppo, il lettore è chiamato in causa direttamente, è chiamato a prendere posizione dinanzi alla ambiguità e alla polisemia delle «cose» viste da un preciso e determinato angolo visuale. Le «cose» equivalgono alle immagini in movimento ed in collegamento reciproco. Contrario ad ogni ipotesi di poesia sperimentale Tranströmer ha sempre tenuto ben dritto il timone della sua investigazione poetica mantenendosi a cautelosa distanza da ogni ipotesi di poesia civile, impegnata o sperimentale, concetti da sempre ripudiati dal poeta svedese. C’è una certa distanza tra il gelido apparato reticolare delle metafore di Tranströmer e le «cose» del reale messe bene in luce in un saggio del critico Kjell Espmark che ha identificato i modelli del poeta in Hölderlin, Dante, Rilke. Alla fine degli anni Ottanta è arrivata per Tranströmer la definitiva consacrazione con la silloge För levande och döda – Per vivi e morti del 1989, concentrata sul tema della presenza della morte nel quotidiano. Tranströmer «fonda» il quotidiano, lo rimette in piedi da dove quel «quotidiano» era stato fatto ruzzolare dalle scaffalature impolverate dei «quotidianisti».
Credo che per comprendere la portata rivoluzionaria delle poesie contenute nel celebre libro che va sotto il titolo 17 poesie (1954), dobbiamo innanzitutto comprendere questa novità sostanziale: con queste poesie Tranströmer volta pagina, non fa più una poesia di paesaggio, o di paesaggio interiore, proprio lui psicoanalista, de-psicologizza il discorso poetico, la forma-poesia, deideologizza la forma-poesia, la rende inidonea ad ospitare qualsiasi discorso ideologico e, su queste basi, propone una nuova fondazione della poesia europea.
In Italia l’opera di Tranströmer è stata pubblicata da Crocetti, che nel 1996 ha dato alle stampe alcune poesie nella Antologia della poesia svedese contemporanea e, nel 2008, il volume Poesia dal silenzio. Il medesimo editore ha annunciato l’uscita, a giorni, de Il grande mistero l’ultima opera del poeta svedese, una raccolta di 45 haiku per 45 punti di vista di un oggetto semplice-complesso. Alcune poesie del poeta svedese erano apparse nell’Almanacco dello Specchio del 2007.
(Giorgio Linguaglossa)
da 17 Poesie (1954)
Sotto il quieto punto volteggiante della poiana avanza rotolando il mare fragoroso nella luce, mastica ciecamente il suo morso di alga e soffia schiuma sulla riva. La terra è celata dalle tenebre frugate dai pipistrelli. La poiana si ferma e diventa una stella. Il mare avanza rotolando fragoroso e soffia schiuma sulla riva.
*
L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela. Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque. È carbonizzato il greve quadrato del ponte. La sterpaglia soccombe all’oscurità. Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte sui cancelli granitici del mare e il sole crepita vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive brancolano nei vapori marini.
Storia fantastica
Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume, un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano come pallide linci cercano un appiglio sulla riva ghiaiosa. In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa. (Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno vive in una caverna giorno e notte. Dove il solo sopravvissuto può sedere alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare la musica dei morti assiderati.)
.
Meditazione agitata
. Un temporale fa girare all’impazzata le ali del mulino nel buio della notte, macinando nulla. – Ti tengono sveglio le stesse leggi. Il ventre dello squalo è la tua fioca lampada. Soffusi ricordi calano sul fondo del mare e là si irrigidiscono in statue sconosciute. – Verde di alghe è la tua gruccia. Chi va al mare torna impietrito.
Elegia (1973)
Apro la prima porta È una grande stanza soleggiata. Un’auto pesante passa per la strada e fa tremare il vasellame. Apro la porta numero due. Amici! Avete bevuto il buio e siete diventati visibili. Porta numero tre. Una stretta camera d’albergo. Vista su una strada secondaria. Un lampione che scintilla sull’asfalto. La bella scoria delle esperienze.
Volantini (1989)
La silenziosa rabbia scarabocchia sul muro in dentro. Alberi da frutto in fiore, il cuculo chiama. È la narcosi della primavera. Ma la silenziosa rabbia dipinge i suoi slogan all’inverso nel garage. Vediamo tutto e niente, ma dritti come periscopi presi da una timida ciurma sotterranea. È la guerra dei minuti. Il bruciante sole è sopra l’ospedale, il parcheggio della sofferenza. Noi chiodi vivi conficcati nella società! Un giorno ci staccheremo da tutto. Sentiremo il vento della morte sotto le ali e saremo più dolci e più selvaggi che qui.*
. * trad it. di Enrico Tiozzo in
Poeti svedesi contemporanei a cura di E. Tiozzo, Göteborg, 1992
Epilogo
Dicembre. La Svezia è una nave malandata in missione. Contro il cielo del tramonto sta il suo albero aspro. E il tramonto è più lungo di un giorno – la via che porta qui è sassosa: solo verso mezzogiorno esce la luce e il colosseo dell’inverno si alza, illuminato da nuvole irreali. Allora sale d’un tratto vertiginoso il fumo bianco dai villaggi. Altissime stanno le nuvole. Alle radici dell’albero celeste fruga il mare, distratto, come in ascolto di qualcosa. (Invisibile viaggia sull’altra metà dell’anima un uccello che sveglia chi dorme con le sue grida. Così il telescopio gira, cattura un altro tempo ed è estate: mugghiano le montagne, gonfie di luce e il ruscello solleva lo scintillío del sole nella mano trasparente… sparito in quell’attimo come quando la pellicola di un film si spezza al buio.)
Ora l’astro della sera brucia attraverso la nuvola. Alberi, recinti e case aumentano, crescono nella silenziosa slavina che precipita nel buio. E sotto la stella ancor più si suscita l’altro paesaggio nascosto che vive la vita dei confini sulla radiografia della notte. Un’ombra trascina la sua slitta tra le case. Stanno in attesa.
(da Poesia dal silenzio, Crocetti Editore , 2001, trad. Maria Cristina Lombardi)
Lars Gustafsson è nato a Västerås il 17 maggio 1936 ed è considerato il più internazionale scrittore svedese contemporaneo. Studioso di matematica e filosofia, poeta, saggista, drammaturgo, romanziere fra i più tradotti all’estero, e in questa sua intensa attività (oltre cento i libri pubblicati: poesie, saggi di critica letteraria, romanzi che sono stati tradotti in quindici lingue) ha ottenuto molti riconoscimenti. Nel 1996, quando ottenne il Pilot Prize (istituito per premiare con 150.000 corone svedesi chi si distingueva nella letteratura), fu descritto come filosofo, poeta, visionario. Diplomato nel 1960 all’Università di Upsala dove ha studiato sociologia e filosofia, ha conseguito il dottorato nel 1978.
È stato sposato tre volte ed avuto quattro figli dalle prime due mogli. I romanzi che gli hanno dato la notorietà a livello internazionale, è stato il ciclo Crepe nel muro di cui fanno parte cinque libri: Lo stesso signor Gustafsson (1971), La lana (1973), Festa in famiglia (1975), Sigismondo (1976) e Morte di un apicultore (1978), tutti caratterizzati da da domande esistenziali mischiate all’assurdo ad al comico. Ha insegnato Storia del Pensiero Europeo all’Università di Austin, Texas, dal 1983, anno successivo alla separazione con la prima moglie, e fino al 2006, anno successivo al suo terzo matrimonio e del pensionamento, a seguito del quale si è ritirato a Södermalm, quartiere di Stoccolma. Nel 1986 è stato fatto cavaliere dell’Ordre des Arts et des Lettres. In Italia ha ricevuto il Premio Agrigento e il Premio Grinzane Cavour.
Ibn Batutta
Quando, Ibn Batutta, viaggiatore arabo, medico e acuto osservatore del mondo, nato nel Maghreb nel quattordicesimo secolo, giunto alla città di Bulgar, venne a conoscenza della Tenebra. La Tenebra era un paese a quaranta giorni di viaggio verso Nord. Fu alla fine del mese di Ramadan, e quand’egli ruppe il digiuno al calare del sole ebbe appena il tempo di pronunciare la preghiera della notte prima che il nuovo giorno albeggiasse. Le betulle s’ergevano bianche. Ibn Batutta, viaggiatore arabo non giunse mai più a Nord di Bulgar. Il racconto sulla Tenebra e i viaggi per raggiungerla lo affascinarono. il viaggio venne intrapreso solo da ricchi mercanti. Si spostano con centinaia di slitte cariche di cibo, bevande e legna, perché là il suolo è coperto di ghiaccio e nessuno può camminarci sopra senza scivolare tranne i cani, le cui unghie riescono a far presa nel ghiaccio eterno. Non ci sono alberi né pietre, e tanto meno case, per orientarsi durante il viaggio. Le guide al Paese della Tenebra sono i vecchi cani che già hanno fatto il viaggio molte volte. Simili cani hanno un prezzo che può arrivare a mille dinari o più, perché le loro conoscenze sono insostituibili. Al momento di un pasto si servono i cani prima degli uomini perché altrimenti il capo della muta s’infuria e se ne va, abbandonando il padrone al suo destino. Nella grande tenebra. Dopo quaranta giorni di viaggio i mercanti si fermano nella Tenebra. Dopo quaranta giorni di viaggio i mercanti si fermano nella Tenebra. Depongono a terra le merci e fanno ritorno al campo. Il giorno successivo tornano e trovano mucchi di zibellini, ermellini e scoiattoli un po’ discosti dalle merci accatastate. Se il mercante è soddisfatto dello scambio prende le pelli. Altrimenti le lascia lì. Allora gli abitanti della Tenebra aumentano la loro offerta con altre pelli oppure si portano via tutto quello che avevano messo lì e sdegnano le merci dello straniero È il loro modo di commerciare. Ibn Batutta ritornò nel Maghreb e morì in età avanzata. Ma quei cani che, muti ma sapienti privi di parola ma con cieca sicurezza correvano sul ghiaccio levigato dal vento addentrandosi nella Tenebra. ancora non ci danno pace. Noi parliamo, e le parole sono più sapienti di noi.
Noi pensiamo, e il pensato ci precede come se sapesse qualcosa che noi ignoravamo. Messaggi corrono attraverso la storia, un codice che si traveste da idee, rivolgendosi ad altri e non a noi. La storia delle idee non è una scienza della psiche. e i cani, con passi rapidi e sicuri. sempre più nella tenebra.
da Pozzi artesiani sogni cartesiani, 1980 traduzione di Fulvio Ferrari
. .
VITA
La vita scorre attraverso il mio tempo, e io, un volto non rasato, dove le rughe sono profonde, analizzo le tracce.
Pensieri come bestiame, avanzano sulla strada per bere, estati perdute ritornano, ad una ad una,
profonda come il cielo viene la malinconia, per la pianta di carice che fu, e le nuvole che allora rotolavano più bianche,
eppure so che tutto è uguale, che tutto è come allora e irraggiungibile; perché sono al mondo,
e perché mi prende la malinconia? E gli stessi lillà profumano come allora. Credimi: c’è un’immutabile felicità.
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
Il Mangiaparole – Come abbonarsi alla rivista, Quota ordinaria € 25, Quota sostenitore € 50 + copia di un Libro in omaggio a scelta della collana Il Dado e la Clessidra
Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Vincenzo Petronelli La tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen.
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione delle parole e della stessa tradizione del ‘900
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano [Maria Rosaria Madonna]
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi sono le cose della vita, gli eventi che ci accadono, gli eventi omnibus»diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Il Mangiaparole n. 10
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Antologia della Poetry kitchen – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Predrag Bjelosevic
Petr Kral Il Mangiaparole
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Scrive Tranströmer sulla sua vita (da Poesia n. 265 novembre 2011)
«”La mia vita”. Quando penso a queste parole vedo davanti a me una striscia di luce. Guardando più attentamente, la striscia di luce ha la forma di una cometa con una testa e una coda. L’infanzia e l’adolescenza formano l’estremità più luminosa, la testa. Il nucleo, la parte più compatta, è la primissima infanzia dove si decidono i tratti più importanti della nostra vita. Cerco di ricordarmi, cerco di farmi largo in quella direzione. Ma è difficile muoversi in queste regioni dense, è pericoloso, è come una sensazione di avvicinamento alla morte. Più indietro la cometa si dirada, è la parte più lunga, la coda. Si fa sempre più rada ma anche più larga. Adesso mi trovo molto avanti sulla coda della cometa, ho sessant’anni quando scrivo queste righe.
Le prime esperienze sono per la maggior parte irraggiungibili. Cose riraccontate, ricordi di ricordi, ricostruzioni sulla base di atmosfere che improvvisamente si riaccendono.
Il mio primo ricordo databile è una sensazione. Una sensazione di fierezza. Ho appena compiuto tre anni e si è detto che è molto importante che adesso sono diventato grande. Sono a letto in una stanza luminosa e poi scendo sul pavimento, conscio in modo inaudito del fatto che sto diventando adulto. Ho una bambola a cui ho dato il nome più bello che ho potuto inventare: KARIN SPINNA. Non la tratto maternamente. È più una compagna, oppure un’innamorata.»
Scrive un critico della poesia di Tranströmer:
Il tempo è anche una sorta di cammino che l’uomo può e deve percorrere in più direzioni e nel quale la sovrapproduzione di momenti del passato su quelli del presente, del futuro o viceversa, è assai spesso legata a un elemento spaziale che raccogliendo in unità un apparente contrasto riporta il discorso poetico verso il centro della riflessione. Per questo i momenti della vita sono racchiusi tutti insieme in uno spazio che concentra simbolicamente anche il tempo
(“Si fece buio all’improvviso, come per un acquazzone. / Io stavo in una stanza che conteneva tutti i momenti ./ un museo di farfalle.”)
La qualità essenziale del tempo e dello spazio poetico sarà dunque quella di potersi comprimere e dilatare, aprendosi a tutte le direzioni (verticali e orizzontali), una espansione cui si giungerà partendo da un punto focale di concentrazione, nel quale mondo interiore e quello esteriore si incontrano traducendosi – per il tramite dell’immagine poetica, magari della metafora – l’uno nell’altro. E qui sarà inevitabile sottolineare una affinità fondamentale: la possibilità di immaginare il tempo e lo spazio poetico come elementi musicali, suoni che si susseguono nel tempo e che si dilatano a coprire lo spazio del mondo e dell’animo…*
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.
*Saggio di Gianna Chiesa Isnardi in Sorgengondolen, Herrenhaus, 2003 pp.109, 110
Appunto critico di Giorgio Linguaglossa
Si dice spesso che l’evento principiale è il silenzio. Ma il silenzio è cosa diversa dal rumore (inteso come ciò che precede il linguaggio) ed è privo di significato. Il fare silenzio è una forzatura, è una imprecisione terminologica. A rigore, l’uomo non potrebbe sopravvivere nel silenzio, il silenzio lo dissolverebbe. Il silenzio (da non confondere con il vuoto), ovvero, l’assenza di suoni, non esiste. In realtà, le cose parlano, parlano sempre, e non possono che parlare in continuazione. L’uomo parla in continuazione anche quando si trova nella più aspra delle solitudini. Così, il vento parla quando passa attraverso le foglie di un bosco, quando incontra degli ostacoli; la pioggia ci parla quando trascorre attraverso l’atmosfera e incontra degli oggetti, e così via… il mare «fragoroso» ci parla attraverso il suo incontro scontro con la terraferma e gli scogli… è l’incontro con le cose, con gli ostacoli, che fa parlare le cose, senza incontro scontro non ci può essere né linguaggio né la parola. Linguaggio e parola possono prendere vita soltanto attraverso l’incontro scontro tra gli uomini e le cose, tra silenzio e linguaggio.
Sono le cose collegate in un insieme che fanno sì che siano esse a parlare. Il poeta deve soltanto porsi in posizione di ascolto. L’ascolto recepisce i suoni, le parole (il silenzio è un altro modo di essere del linguaggio, quando il linguaggio diventa silenzioso), l’ascolto predispone il linguaggio a formarsi, e il formarsi del linguaggio significa predisporre il silenzio all’interno del linguaggio. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio del linguaggio quale sua custodia segreta. Il poeta abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini abitano questa custodia segreta. Non è una prerogativa del poeta quella di abitare il silenzio delle parole, chiunque può attingere il silenzio delle parole attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Tranströmer con la sua poesia fa parlare il silenzio, fa parlare le cose tra di loro, esplora le risorse linguistiche e sonore delle cose attraverso l’impiego della immagine. È questa la grande novità della poesia di Tranströmer. L’immagine è l’altra dimensione in cui può vivere la parola sonora. «Tutti gli oggetti hanno un’anima, bisogna solo scoprirla» ha scritto John Cage. Nulla di più vero. Per Tranströmer scoprire una relazione tra le cose è un processo molto complesso che ha il proprio segreto nell’ascolto delle cose. La poesia è per il poeta svedese lo spalancamento della illuminazione, dis-chiusura della coscienza avvezza al linguaggio ordinario, imprevedibilità della dis-chiusura delle cose, frattura della coscienza ordinaria, un nuovo modo di stare nel mondo che prevede l’incontro con l’illuminazione: la creazione di una immagine elicoidale in movimento, scoprimento di un linguaggio iconico. Il tempo forte del linguaggio poetico di Tranströmer è il tempo forte iconico che ha il sopravvento nei confronti del tempo debole metrico, piegando quest’ultimo alle esigenze di quello. Il tempo forte iconico disloca e dissolve il tempo forte metrico e lo assoggetta alla priorità dettata dal primo.