
Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 9:32
Il grande merito della NOE è quello di tentare un discorso importante con pochissimi mezzi economici,”Noi facciamo la politica della busta rivoltata”, diceva l’avvocato Nino Carloni, uno dei grandi fondatori della gloriosa Società dei Concerti aquilana, E Machiavelli: ”Della mia buona fede è prova la mia povertà”. Il terremoto aquilano ha provveduto a privarmi di un patrimonio immobiliare notevole, per cui oggi vivo a Montesilvano, in quelle che era una casa di vacanza. Però ho guadagnato il mare.
Gino Rago
Novecento poetico italiano/2
Una conversazione al Caffè Greco di Roma con una studiosa di poesia italiana
Domanda:
E’ possibile secondo i Suoi studi stabilire una data di nascita per il Novecento poetico italiano?
Risposta:
Sembra un paradosso, ma si può dire che la poesia italiana del ‘900 ha inizio nell’Ottocento
Domanda:
Può essere, mi perdoni, più precisa
Risposta:
Con i poeti italiani nati fra il 1880 e il 1890, da Saba, Campana e Gozzano a Palazzeschi e Ungaretti, appare del tutto evidente che la cosiddetta “opposizione” all’Ottocento in fondo continua a convivere con la continuità e con la ripresa ironico-sentimentale di forme ancora ottocentesche.
Domanda:
Perché, in che senso, questi poeti procedono allo stesso modo?
Risposta:
No. Possiamo dire che per un versante si procede per estremistica semplificazione alla abolizione della letterarietà tramandata, è il caso di Palazzeschi, ma anche di Ungaretti; per un altro versante invece si lavora a un assai ampio ed esibito, perfino esibito, riuso di quel linguaggio poetico già accettato e noto come linguaggio convenzionalmente poetico (di certo Saba e Gozzano, ma anche, sebbene parzialmente, Cardarelli e Sbarbaro).
Domanda:
Secondo Lei dove è possibile trovare le ragioni di queste due modalità di procedere
Risposta:
Non vi è dubbio che tutti i poeti italiani che hanno inventato la poesia novecentesca, lo ripeto, quelli nati negli anni ottanta dell’Ottocento, hanno iniziato a scrivere quando la scena letteraria e poetica era totalmente dominata da Pascoli e D’Annunzio, quando cioè all’inizio del Novecento Pascoli aveva 45 anni, essendo nato nel 1855, e D’Annunzio 37, essendo nato nel 1863.
Le dico di più, sia l’uno, Pascoli, sia l’altro, D’Annunzio, disponevano di una vastità di pubblico, di fama e di prestigio che nessun altro poeta riuscirà più a conquistare dopo di loro nella stessa misura.
Domanda:
Le ombre pascoliane e dannunziane sono durate a lungo
Risposta:
Sì, sono durate per lunghissimo tempo. Basti ricordare che ancora negli anni ’50 del Novecento era piuttosto raro che nelle scuole italiane si parlasse di Ungaretti e di Montale…
Domanda:
Perché secondo Lei, secondo gli studi da Lei condotti
Risposta:
Perché Ungaretti e Montale erano considerati dalla stragrande maggioranza degli insegnanti di quegli anni poeti astrusi, difficili, alla cui comprensione venivano richieste giustificazioni e/o premesse storico-ideologico-letterarie … “complesse”
Domanda:
La poesia moderna per imporsi e avere un pubblico ha dovuto aspettare a lungo
Risposta:
Anche quando le più giovani generazioni di poeti li consideravano superati per umanesimo virgiliano, Pascoli, per umanesimo superomistico, D’annunzio, ma sorpassati anche per quel macchinoso apparato formale di provenienza classicistica, Pascoli e D’Annunzio hanno continuato a occupare in lungo e in largo il Novecento poetico italiano.
Domanda:
Una spiegazione la troverei nei professori di allora, ai quali Pascoli e D’Annunzio piacevano entrambi
Risposta:
E’ vero, a quei professori piacevano entrambi perché in fondo Pascoli e D’Annunzio dimostravano che una tradizione secolare, millenaria, era ancora viva, non aveva subito interruzioni.
Ma non piacevano soltanto ai professori.
Pascoli e D’Annunzio piacevano anche ai ceti medio-bassi e medio-alti se non altro come modelli morali e ideologici.
Più precisamente, Pascoli arrivava alla piccola borghesia, alle donne, ai socialisti; D’Annunzio era invece preferito dagli snob, dai prefascisti, dai fascisti e da quelle che allora chiamavano “le femmine di lusso”.
E da poeta e scrittore prolifico, e precoce, D’Annunzio seppe tenere a lungo occupati critici come Praz, Borgese, Giacomo Debenedetti, prima di sparire sotto le rovine dello stesso “dannunzianesimo” (retorica, stile d’epoca, moda,sommerso dalle rovine della sua stessa creazione estetica…)
Domanda:
E il destino di Pascoli?
Risposta:
Il destino di Pascoli è stato diverso …
Dovrei tirare in ballo Giacomo Debenedetti e le lezioni che gli dedicò negli anni accademici 1953-’55, Cesare Garboli e anche Pasolini.
Ma oggi non ho tempo sufficiente per farlo,mi aspetta una tesista molto motivata, merita di essere curata… E’ già pronto il taxi per andare alla
Sapienza. E’ una tesi di laurea su Govoni…

Giorgio Lingua Glossa 25 marzo 2019 alle 11:25
Dalla prefazione al Tractatus logico-filosoficus di Wittgenstein
Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è, dunque, un manuale –.
Conseguirebbe il suo fine se procurasse piacere ad almeno uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può).
Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […]
Se quest’opera ha un valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri saranno espressi. Quanto più si sia còlto nel segno. – Qui so d’essere rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente poiché la mia forza è ímpari al cómpito. Possa altri venire a far ciò meglio.
Invece, la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e irreversibile.
Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.
(L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, ed. it. a cura di A. Conte, Torino: 1998, pp. 23 sgg.)
*
Dalla prefazione alle Ricerche filosofiche:
I pensieri che pubblico nelle pagine seguenti costituiscono il precipitato di
ricerche filosofiche che mi hanno tenuto occupato negli ultimi sedici anni. Essi riguardano molti oggetti: il concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, i fondamenti della matematica, gli stati di coscienza, e altre cose ancora.
Ho messo giù tutti questi pensieri sotto forma di osservazioni, di brevi paragrafi.
Alcuni di essi sono disposti in lunghe catene e trattano il medesimo soggetto; alcuni altri cambiano bruscamente argomento, saltando da una ragione all’altra. – In principio era la mia intenzione di raccogliere tutte queste cose in un libro, la cui forma immaginavo di volta in volta diversa. Essenziale mi sembrava, in ogni caso, che i pensieri dovessero procedere da un soggetto all’altro secondo una successione naturale e continua.
Dopo diversi infelici tentativi di riunire in un tutto così fatto i risultati a cui ero
pervenuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio che potessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato di osservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. – E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni. –
Le osservazioni filosofiche contenute in questo libro sono, per così dire, una raccolta di schizzi paesistici, nati da queste lunghe e complicate scorribande.
Gli stessi (o quasi gli stessi) punti furono avvicinati, sempre di nuovo, da direzioni differenti, e sempre nuove immagini furono schizzate. Un gran numero di esse erano state abbozzate in malo molo, o non riuscivano a cogliere le caratteristiche del soggetto, contrassegnate com’erano da tutte le manchevolezze che rivelano il cattivo disegnatore. E quando le scartai ne rimasero un certo numero, riuscite a metà, che dovettero essere riordinate e spesso tagliate, in modo da poter dare all’osservatore un’immagine del paesaggio. – Così questo libro è davvero soltanto un album. […]
Per più d’una ragione quello che pubblico qui avrà punti di contatto con quello che altri oggi scrive. – Le mie osservazioni non portano nessun marchio di fabbrica che le contrassegni come mie – così non intendo avanzare alcuna pretesa sulla loro proprietà.
Le rendo pubbliche con sentimenti dubbiosi. Che a questo lavoro, nella sua
pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o in quel cervello, non è impossibile; ma che ciò avvenga non è certo probabile.
Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.
Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andato così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.
(Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino: 1999, pp. 3sgg.)
*
“Per una prefazione” (da un manoscritto)
Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto. […]
Infatti, se un libro è scritto per pochi soltanto, questo lo si vedrà proprio dal fatto che saranno in pochi a capirlo. Il libro deve operare automaticamente la separazione fra coloro che lo capiscono e coloro che non lo capiscono. […]
Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri.
(L. Wittgenstein, Pensieri diversi, ed. it. a c. di M. Ranchetti, Milano: 1980, pp. 24, sgg.)
Gino Rago
Novecento poetico italiano/3
Intervista immaginaria a Eugenio Montale
(su Ossi di seppia, 1925, e Le Occasioni, 1936)
Domanda:
Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale Lei ha dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me, ma per tutti i lettori di poesia, vorrei sentire il Suo parere …
Risposta:
Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché: Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.
Domanda:
Quale idea allora di poesia…
Risposta:
Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto … Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.
Domanda:
Già nel Suo primo libro poetico Ossi di seppia (1925) Lei mostrava insofferenza verso un modo italico di fare poesia.
Risposta:
Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza.
Domanda:
In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…
Risposta:
Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia … Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.
Domanda:
E su Le Occasioni …
Risposta:
Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.
Domanda:
Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta …
Risposta:
Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.
Domanda:
A quale frutto Lei ha pensato per Le Occasioni
Risposta:
Le Occasioni… Erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello direi della musica profonda e della contemplazione.
Domanda:
Che ruolo attribuisce nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre…
Risposta:
Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia, la chiami come vuole, dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42‘, forse le più libere che io abbia mai scritte ….
Domanda:
Su La Bufera e altro torniamo in un secondo momento, se Lei è d’accordo. Ora mi intriga di più sentire da Lei stesso, dalla Sua viva voce, cosa è successo alla Sua poesia, cosa si è verificato nel Suo fare poetico, dopo Satura …
Visibilmente contrariato, Montale non risponde, si alza di scatto e mi indica la porta invitandomi a uscire…
Aldo Palazzeschi
Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 14:03
Caro Gino,
la tua intervista a Montale ha aspetti interessanti, suggerisce, anche, possibili ampliamenti, data la complessità dell’opera montaliana. Il tuo, intanto, è un buon inizio verso la riscoperta dei nostri maggiori poeti, spesso più famosi che letti, e spesso fraintesi. Su Montale c’è una lettura critica sterminata, talvolta anche fuorviante. Un caro saluto.
Gino Rago
25 marzo 2019 alle 16:46
Grazie carissima Anna. Aggregare intorno a un proprio lavoro del consenso e/o qualche scheggia di apprezzamento per chi scrive lo sai bene anche tu è davvero aria pura da bere a pieni polmoni. Se poi consenso e apprezzamento arrivano da una persona di valore come te, credimi, la gioia si raddoppia. Ma lo confesso:il catalizzatore in tutti questi anni di collaborazione a L’Ombra è stato il nostro Giorgio Linguaglossa…
Giorgio Linguaglossa 25 marzo 2019 alle 17:42
Non è affatto semplice né accessibile a tutti giungere ad una nuova forma-poesia. Io ho iniziato a cercare in tutte le direzioni dalla fine degli anni ottanta, infatti nei miei primi due libri: Uccelli (1992) e Paradiso (2000) le singole sezioni sono scritte con linguaggi lievemente differenti e con stilizzazioni diverse. Il fatto è che non mi sono mai fermato ad un linguaggio, ho sempre tentato di forzare il «muro» del linguaggio poetico per andare in territori linguistici sconosciuti.
Fare questo lavoro da soli è quasi impossibile ve l’assicuro, adesso che siamo in tanti e che le forze sono maggiori, l’impresa è meno ardua. Ci si confronta, si discute, si tentano delle cose che da soli sarebbe più difficile fare.
Ad esempio la poesia che ho postato sono quattro anni che la sottopongo a revisioni e a modifiche, magari di dettaglio, di alcuni dettagli… ma alla fine la somma dei dettagli è quella che fa la differenza. Le poesie che facciamo un po’ tutti quanti della NOE sono in realtà poesie-polittico, sono delle composizioni, non più poesie nel senso tradizionale, la composizione è per eccellenza una struttura aperta… mutagena…

Gino Rago 26 marzo 2019 alle 8:54
Novecento poetico italiano/4
Brevissimo colloquio immaginario con Montale
(sull’esordio in poesia con Gobetti, l’identificazione con gli avversari)
Domanda:
Accantonando per ora l’autoritratto diciamo “trasposto” di Arsenio e il poemetto-monologo potremmo dire “raziocinante” de I limoni, ricordo che Lei esordisce in un momento problematico, difficile per la poesia
Risposta:
Sentivo di esordire in un clima e in un momento non facili per un poeta. Eravamo agli inizi degli anni ’20 del Novecento e si avvertiva la necessità di dover dare subito una idea forte del proprio stile e anche di se stessi.
Ma in me non ci fu mai una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in questo senso. In quegli anni quasi nessuno si occupava di poesia e l’ultimo successo in quei tempi di cui abbia ricordo fu Gozzano.
Domanda:
Gozzano… Ma gli spiriti forti di allora…
Risposta:
Ma gli spiriti forti di allora dicevano male di lui e (a torto) anche io ero di quel parere.
I letterati migliori di quegli anni, che presto si riunirono intorno alla Ronda, sostenevano che la poesia dovesse scriversi da quel momento in poi in prosa.
Né dimentico che pubblicati i miei primi versi nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti fui accolto con ironia dai miei pochi amici, già immersi nella politica e, dal più al meno, già antifascisti, verso il ’22- ’23.
Domanda:
Potremmo dedurne che difficoltà di situazione generale e insufficienza di fede nella autoidentificazione specializzata di poeta si sommano in coincidenza dei Suoi esordi in poesia
Risposta:
Deduzione pienamente corrispondente alla verità dei fatti. Includerei soltanto quella che la psicologia definisce “identificazione con l’aggressore”
Domanda:
Intuisco il senso di ciò che dice ma può per noi essere più chiaro?
Risposta:
Sulla “Identificazione con l’aggressore”?
Direi così: se gli altri tendono a fare della ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in generale, almeno per come è volgarmente, comunemente intesa…
Domanda:
Non riesco a nascondere il mio chiodo fisso… Satura, meglio il dopo Satura… Per la Sua poesia e per la poesia italiana del dopo Satura. A un cenno del capo di Montale entra nella stanza la Gina. Capisco e tolgo il disturbo. Continua a leggere →
Dialoghi, Commenti e Interviste a Montale e a una studiosa di poesia del Novecento del 26 marzo 2019, Interventi di Ludwig Wittgenstein, Michel Meyer, Anna Ventura, Gino Rago, Mauro Pierno, Sabino Caronia, Giorgio Linguaglossa,
Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 9:32
Il grande merito della NOE è quello di tentare un discorso importante con pochissimi mezzi economici,”Noi facciamo la politica della busta rivoltata”, diceva l’avvocato Nino Carloni, uno dei grandi fondatori della gloriosa Società dei Concerti aquilana, E Machiavelli: ”Della mia buona fede è prova la mia povertà”. Il terremoto aquilano ha provveduto a privarmi di un patrimonio immobiliare notevole, per cui oggi vivo a Montesilvano, in quelle che era una casa di vacanza. Però ho guadagnato il mare.
Gino Rago
Novecento poetico italiano/2
Una conversazione al Caffè Greco di Roma con una studiosa di poesia italiana
Domanda:
E’ possibile secondo i Suoi studi stabilire una data di nascita per il Novecento poetico italiano?
Risposta:
Sembra un paradosso, ma si può dire che la poesia italiana del ‘900 ha inizio nell’Ottocento
Domanda:
Può essere, mi perdoni, più precisa
Risposta:
Con i poeti italiani nati fra il 1880 e il 1890, da Saba, Campana e Gozzano a Palazzeschi e Ungaretti, appare del tutto evidente che la cosiddetta “opposizione” all’Ottocento in fondo continua a convivere con la continuità e con la ripresa ironico-sentimentale di forme ancora ottocentesche.
Domanda:
Perché, in che senso, questi poeti procedono allo stesso modo?
Risposta:
No. Possiamo dire che per un versante si procede per estremistica semplificazione alla abolizione della letterarietà tramandata, è il caso di Palazzeschi, ma anche di Ungaretti; per un altro versante invece si lavora a un assai ampio ed esibito, perfino esibito, riuso di quel linguaggio poetico già accettato e noto come linguaggio convenzionalmente poetico (di certo Saba e Gozzano, ma anche, sebbene parzialmente, Cardarelli e Sbarbaro).
Domanda:
Secondo Lei dove è possibile trovare le ragioni di queste due modalità di procedere
Risposta:
Non vi è dubbio che tutti i poeti italiani che hanno inventato la poesia novecentesca, lo ripeto, quelli nati negli anni ottanta dell’Ottocento, hanno iniziato a scrivere quando la scena letteraria e poetica era totalmente dominata da Pascoli e D’Annunzio, quando cioè all’inizio del Novecento Pascoli aveva 45 anni, essendo nato nel 1855, e D’Annunzio 37, essendo nato nel 1863.
Le dico di più, sia l’uno, Pascoli, sia l’altro, D’Annunzio, disponevano di una vastità di pubblico, di fama e di prestigio che nessun altro poeta riuscirà più a conquistare dopo di loro nella stessa misura.
Domanda:
Le ombre pascoliane e dannunziane sono durate a lungo
Risposta:
Sì, sono durate per lunghissimo tempo. Basti ricordare che ancora negli anni ’50 del Novecento era piuttosto raro che nelle scuole italiane si parlasse di Ungaretti e di Montale…
Domanda:
Perché secondo Lei, secondo gli studi da Lei condotti
Risposta:
Perché Ungaretti e Montale erano considerati dalla stragrande maggioranza degli insegnanti di quegli anni poeti astrusi, difficili, alla cui comprensione venivano richieste giustificazioni e/o premesse storico-ideologico-letterarie … “complesse”
Domanda:
La poesia moderna per imporsi e avere un pubblico ha dovuto aspettare a lungo
Risposta:
Anche quando le più giovani generazioni di poeti li consideravano superati per umanesimo virgiliano, Pascoli, per umanesimo superomistico, D’annunzio, ma sorpassati anche per quel macchinoso apparato formale di provenienza classicistica, Pascoli e D’Annunzio hanno continuato a occupare in lungo e in largo il Novecento poetico italiano.
Domanda:
Una spiegazione la troverei nei professori di allora, ai quali Pascoli e D’Annunzio piacevano entrambi
Risposta:
E’ vero, a quei professori piacevano entrambi perché in fondo Pascoli e D’Annunzio dimostravano che una tradizione secolare, millenaria, era ancora viva, non aveva subito interruzioni.
Ma non piacevano soltanto ai professori.
Pascoli e D’Annunzio piacevano anche ai ceti medio-bassi e medio-alti se non altro come modelli morali e ideologici.
Più precisamente, Pascoli arrivava alla piccola borghesia, alle donne, ai socialisti; D’Annunzio era invece preferito dagli snob, dai prefascisti, dai fascisti e da quelle che allora chiamavano “le femmine di lusso”.
E da poeta e scrittore prolifico, e precoce, D’Annunzio seppe tenere a lungo occupati critici come Praz, Borgese, Giacomo Debenedetti, prima di sparire sotto le rovine dello stesso “dannunzianesimo” (retorica, stile d’epoca, moda,sommerso dalle rovine della sua stessa creazione estetica…)
Domanda:
E il destino di Pascoli?
Risposta:
Il destino di Pascoli è stato diverso …
Dovrei tirare in ballo Giacomo Debenedetti e le lezioni che gli dedicò negli anni accademici 1953-’55, Cesare Garboli e anche Pasolini.
Ma oggi non ho tempo sufficiente per farlo,mi aspetta una tesista molto motivata, merita di essere curata… E’ già pronto il taxi per andare alla
Sapienza. E’ una tesi di laurea su Govoni…
Giorgio Lingua Glossa 25 marzo 2019 alle 11:25
Dalla prefazione al Tractatus logico-filosoficus di Wittgenstein
Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è, dunque, un manuale –.
Conseguirebbe il suo fine se procurasse piacere ad almeno uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può).
Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […]
Se quest’opera ha un valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri saranno espressi. Quanto più si sia còlto nel segno. – Qui so d’essere rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente poiché la mia forza è ímpari al cómpito. Possa altri venire a far ciò meglio.
Invece, la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e irreversibile.
Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.
(L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, ed. it. a cura di A. Conte, Torino: 1998, pp. 23 sgg.)
*
Dalla prefazione alle Ricerche filosofiche:
I pensieri che pubblico nelle pagine seguenti costituiscono il precipitato di
ricerche filosofiche che mi hanno tenuto occupato negli ultimi sedici anni. Essi riguardano molti oggetti: il concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, i fondamenti della matematica, gli stati di coscienza, e altre cose ancora.
Ho messo giù tutti questi pensieri sotto forma di osservazioni, di brevi paragrafi.
Alcuni di essi sono disposti in lunghe catene e trattano il medesimo soggetto; alcuni altri cambiano bruscamente argomento, saltando da una ragione all’altra. – In principio era la mia intenzione di raccogliere tutte queste cose in un libro, la cui forma immaginavo di volta in volta diversa. Essenziale mi sembrava, in ogni caso, che i pensieri dovessero procedere da un soggetto all’altro secondo una successione naturale e continua.
Dopo diversi infelici tentativi di riunire in un tutto così fatto i risultati a cui ero
pervenuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio che potessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato di osservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. – E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni. –
Le osservazioni filosofiche contenute in questo libro sono, per così dire, una raccolta di schizzi paesistici, nati da queste lunghe e complicate scorribande.
Gli stessi (o quasi gli stessi) punti furono avvicinati, sempre di nuovo, da direzioni differenti, e sempre nuove immagini furono schizzate. Un gran numero di esse erano state abbozzate in malo molo, o non riuscivano a cogliere le caratteristiche del soggetto, contrassegnate com’erano da tutte le manchevolezze che rivelano il cattivo disegnatore. E quando le scartai ne rimasero un certo numero, riuscite a metà, che dovettero essere riordinate e spesso tagliate, in modo da poter dare all’osservatore un’immagine del paesaggio. – Così questo libro è davvero soltanto un album. […]
Per più d’una ragione quello che pubblico qui avrà punti di contatto con quello che altri oggi scrive. – Le mie osservazioni non portano nessun marchio di fabbrica che le contrassegni come mie – così non intendo avanzare alcuna pretesa sulla loro proprietà.
Le rendo pubbliche con sentimenti dubbiosi. Che a questo lavoro, nella sua
pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o in quel cervello, non è impossibile; ma che ciò avvenga non è certo probabile.
Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.
Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andato così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.
(Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino: 1999, pp. 3sgg.)
*
“Per una prefazione” (da un manoscritto)
Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto. […]
Infatti, se un libro è scritto per pochi soltanto, questo lo si vedrà proprio dal fatto che saranno in pochi a capirlo. Il libro deve operare automaticamente la separazione fra coloro che lo capiscono e coloro che non lo capiscono. […]
Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri.
(L. Wittgenstein, Pensieri diversi, ed. it. a c. di M. Ranchetti, Milano: 1980, pp. 24, sgg.)
Gino Rago
Novecento poetico italiano/3
Intervista immaginaria a Eugenio Montale
(su Ossi di seppia, 1925, e Le Occasioni, 1936)
Domanda:
Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale Lei ha dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me, ma per tutti i lettori di poesia, vorrei sentire il Suo parere …
Risposta:
Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché: Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.
Domanda:
Quale idea allora di poesia…
Risposta:
Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto … Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.
Domanda:
Già nel Suo primo libro poetico Ossi di seppia (1925) Lei mostrava insofferenza verso un modo italico di fare poesia.
Risposta:
Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza.
Domanda:
In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…
Risposta:
Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia … Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.
Domanda:
E su Le Occasioni …
Risposta:
Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.
Domanda:
Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta …
Risposta:
Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.
Domanda:
A quale frutto Lei ha pensato per Le Occasioni
Risposta:
Le Occasioni… Erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello direi della musica profonda e della contemplazione.
Domanda:
Che ruolo attribuisce nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre…
Risposta:
Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia, la chiami come vuole, dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42‘, forse le più libere che io abbia mai scritte ….
Domanda:
Su La Bufera e altro torniamo in un secondo momento, se Lei è d’accordo. Ora mi intriga di più sentire da Lei stesso, dalla Sua viva voce, cosa è successo alla Sua poesia, cosa si è verificato nel Suo fare poetico, dopo Satura …
Visibilmente contrariato, Montale non risponde, si alza di scatto e mi indica la porta invitandomi a uscire…
Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 14:03
Caro Gino,
la tua intervista a Montale ha aspetti interessanti, suggerisce, anche, possibili ampliamenti, data la complessità dell’opera montaliana. Il tuo, intanto, è un buon inizio verso la riscoperta dei nostri maggiori poeti, spesso più famosi che letti, e spesso fraintesi. Su Montale c’è una lettura critica sterminata, talvolta anche fuorviante. Un caro saluto.
Gino Rago
25 marzo 2019 alle 16:46
Grazie carissima Anna. Aggregare intorno a un proprio lavoro del consenso e/o qualche scheggia di apprezzamento per chi scrive lo sai bene anche tu è davvero aria pura da bere a pieni polmoni. Se poi consenso e apprezzamento arrivano da una persona di valore come te, credimi, la gioia si raddoppia. Ma lo confesso:il catalizzatore in tutti questi anni di collaborazione a L’Ombra è stato il nostro Giorgio Linguaglossa…
Giorgio Linguaglossa 25 marzo 2019 alle 17:42
Non è affatto semplice né accessibile a tutti giungere ad una nuova forma-poesia. Io ho iniziato a cercare in tutte le direzioni dalla fine degli anni ottanta, infatti nei miei primi due libri: Uccelli (1992) e Paradiso (2000) le singole sezioni sono scritte con linguaggi lievemente differenti e con stilizzazioni diverse. Il fatto è che non mi sono mai fermato ad un linguaggio, ho sempre tentato di forzare il «muro» del linguaggio poetico per andare in territori linguistici sconosciuti.
Fare questo lavoro da soli è quasi impossibile ve l’assicuro, adesso che siamo in tanti e che le forze sono maggiori, l’impresa è meno ardua. Ci si confronta, si discute, si tentano delle cose che da soli sarebbe più difficile fare.
Ad esempio la poesia che ho postato sono quattro anni che la sottopongo a revisioni e a modifiche, magari di dettaglio, di alcuni dettagli… ma alla fine la somma dei dettagli è quella che fa la differenza. Le poesie che facciamo un po’ tutti quanti della NOE sono in realtà poesie-polittico, sono delle composizioni, non più poesie nel senso tradizionale, la composizione è per eccellenza una struttura aperta… mutagena…
Gino Rago 26 marzo 2019 alle 8:54
Novecento poetico italiano/4
Brevissimo colloquio immaginario con Montale
(sull’esordio in poesia con Gobetti, l’identificazione con gli avversari)
Domanda:
Accantonando per ora l’autoritratto diciamo “trasposto” di Arsenio e il poemetto-monologo potremmo dire “raziocinante” de I limoni, ricordo che Lei esordisce in un momento problematico, difficile per la poesia
Risposta:
Sentivo di esordire in un clima e in un momento non facili per un poeta. Eravamo agli inizi degli anni ’20 del Novecento e si avvertiva la necessità di dover dare subito una idea forte del proprio stile e anche di se stessi.
Ma in me non ci fu mai una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in questo senso. In quegli anni quasi nessuno si occupava di poesia e l’ultimo successo in quei tempi di cui abbia ricordo fu Gozzano.
Domanda:
Gozzano… Ma gli spiriti forti di allora…
Risposta:
Ma gli spiriti forti di allora dicevano male di lui e (a torto) anche io ero di quel parere.
I letterati migliori di quegli anni, che presto si riunirono intorno alla Ronda, sostenevano che la poesia dovesse scriversi da quel momento in poi in prosa.
Né dimentico che pubblicati i miei primi versi nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti fui accolto con ironia dai miei pochi amici, già immersi nella politica e, dal più al meno, già antifascisti, verso il ’22- ’23.
Domanda:
Potremmo dedurne che difficoltà di situazione generale e insufficienza di fede nella autoidentificazione specializzata di poeta si sommano in coincidenza dei Suoi esordi in poesia
Risposta:
Deduzione pienamente corrispondente alla verità dei fatti. Includerei soltanto quella che la psicologia definisce “identificazione con l’aggressore”
Domanda:
Intuisco il senso di ciò che dice ma può per noi essere più chiaro?
Risposta:
Sulla “Identificazione con l’aggressore”?
Direi così: se gli altri tendono a fare della ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in generale, almeno per come è volgarmente, comunemente intesa…
Domanda:
Non riesco a nascondere il mio chiodo fisso… Satura, meglio il dopo Satura… Per la Sua poesia e per la poesia italiana del dopo Satura. A un cenno del capo di Montale entra nella stanza la Gina. Capisco e tolgo il disturbo. Continua a leggere →
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