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Poesie inedite di Giorgio Linguaglossa, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi con una Glossa, A proposito del «dicibile» e dell’«indicibile» nella nuova poesia, la nuova questità delle cose e la nuova questità del linguaggio

La nuova poesia ci svela la nuova mondità del mondo
Una poesia di Giorgio Linguaglossa
da Risposta del Signor Cogito di prossima pubblicazione
Wartezimmer
Tre squali nuotano nella piscina.
Tre murene nuotano nella piscina.
Un dado rotola sul tavolo.
Una clessidra è assorta sul tavolo.
Wartezimmer, musica da dessert, un tintinnio.
Sipario. Fa ingresso Mimoza Ahmeti
l’amante di Sesto Empirico
vestita da Wanda Osiris, piume e pennacchi…
Entra una crossdresser con altissimi trampoli ai piedi,
ed esce dalla cornice.
[…]
Tre Signore dal lungo collo
osservano attraverso la porta semichiusa
alla parete un nudo femminile che accoglie
gli ospiti del sonno.
Un uccello di fuoco si spegne e diventa cenere.
Entra la redingote del Signor K.
che si adagia sulle spalle del Signor K.
si soffia il naso con rumore.
[…]
Entra un viaggiatore che ha perso la coincidenza
del treno per Vladivostok.
Un telefono nero da muro dal lungo collo nero di gomma
con i fili staccati.
Una tigre che non c’è, sbadiglia.
Una Signora si ripassa il rossetto sulle labbra.
Due poesie di Mario M. Gabriele
da Registro di bordo di prossima pubblicazione
8
Hai lasciato la dimora e il Grande Gatsby
con gli oggetti che non ti parlano più.
L’anticiclone mise in pausa l’ira dell’inverno
senza passare sulle cime dell’Adamello.
Giorni si susseguono nel ritmo dell’hukulele.
Uno verrà col fiordaliso in bocca.
Buona parte dell’anno è passata
senza effrazioni sulla pelle.
Al Biffi Hotel rimanemmo
per conoscere la varietà dell’Essere.
Ora pensi a dicembre
segnando le date da riesumare
I vestiti autunnali
li abbiamo lasciati ai ragazzi del Bahrain.
Mister Wood agita mente e anima,
non sopporta i Concerti Brandeburghesi.
Torniamo in superficie
col rumore di fondo dopo Quickly Aging Here.
Dura il mese bisestile.
Barkeley canta Crazy.
9
Abbiamo percorso tornanti e strade
con avvisi di stay away.
Nel vecchio motel ci sono stati incontri
di creative writing con poeti underground.
Si inasprisce l’aria di mele guaste.
Gli occhi della signora Rowinda non incantano più.
Le distanze non sono mai parallele,
neanche a leggere Postkarten.
Qualcuno ricordò
le riflessioni spirituali di Etty Hillesum.
E’ rimasta in giacenza la lettera da Wiesbaden
con il domicilio sbagliato.
Dal balcone il panorama si è ristretto.
Ci dividiamo l’Inferno e il Paradiso.
Carissimo John, il bulldog è sulle tracce
dell’infanzia perduta.
Benn disse di aver letto Peter Russell
e che alcuni versi gli erano rimasti nella mente:
–La mia cara moglie, Lucimnia,
è stata a lungo, in segreto, una cristiana-.
Karinova soffre di beta amiloide.
Gira il mondo con i pensieri-rondinelle.
Una poesia inedita di Lucio Mayoor Tosi
Ecco nel cielo scomparire uno stormo di uccelli.
Il maresciallo delle allodole capì all’istante
che quello sarebbe stato il suo destino. Vedere solo
il desiderato. Non esattamente un lavoro da spie.
Non esattamente. Al di sotto, sulla terra, dove non c’è nulla,
a parte quel che se ne dice. Dopo tempeste di sale, guerre
già nella perfetta Grecia; via vai di gente mai più vista.
Come morti. Non ci si affeziona.
Rimane ancora molto spazio libero e profondo al centro
della via. Per morti ingloriose. Ma lo sono tutte.
A volte ci si appoggia all’aria. Perché il resto infelice
sta per mettersi a piangere. Così scrive il compositore:
“Virgole al tramonto”, concerto con ascolto.
Per credenze del passato. E “Ancora sognanti”.
Giorgio Linguaglossa
Una Glossa. A proposito del «dicibile» e dell’«indicibile»
Ritorno al problema che considero centrale per una riflessione sulla «nuova poesia», il problema ineludibile, il problema dei problemi, l’indicibile nel linguaggio e, quindi, nella poesia. La questione non è affatto di poco conto, anzi la considero centrale.
Per esempio, nelle poesie come quelle postate alcuni giorni addietro, di Franco Marcoaldi e di Valerio Magrelli ma anche di Maurizio Cucchi, noi traiamo piacere nello scoprire che il «detto», l’«onoma», corrisponde perfettamente alla «res». Le poesie di Marcoaldi, di Magrelli, di Cucchi riescono piacevoli ma non ci sorprendono, non ci scuotono con una nuova significazione in quanto interamente significate, esplicitate, e, proprio per questo, si fermano al «detto» delle «cose», a quello che sappiamo già intorno ad esse. Lì le «cose» sono compiutamente indicate, la poesia di questi autori si arresta al «dicibile», al già detto, tutto ciò che viene detto risulta perfettamente indicato, riesce comprensibile, già significato. Il messaggio, una volta giunto a destinazione, viene automaticamente archiviato nel già significato e posto nel dimenticatoio della comprensione.
Se prendiamo, ad esempio, una poesia della nuova ontologia estetica, ci troviamo davanti al tentativo di forzare al massimo grado le porte del «dicibile» per sondare la dimensione dell’«indicibile». Se avete la bontà e la pazienza ad esempio di leggere una mia poesia, «Il bacio è la tomba di Dio», già dalle prime righe siamo proiettati in una situazione ultronea: una «Torre» immersa nella neve (l’immagine mi è stata suggerita dalla fotografia di Evgenia Arbugaeva); la torre reca una scrittura sopra la porta d’ingresso, misteriosa e terrifica. Quella scritta è la chiave di violino che apre una partitura: si apre una dimensione ultronea nella quale il lettore abita una «questità di cose» poste da un punto di vista inusuale ma non impossibile, una situazione-questità che chiunque di noi avrebbe potuto esperire nella propria esistenza.
«La nuova questità delle cose» per essere nominata richiede un nuovo linguaggio poetico. I continui salti spazio-temporali, l’apparizione in presenza di personaggi storici (Wagner, List) o inventati, le voci esterne e le voci interne che confliggono, insomma, tutta l’architettura complessiva delle voci che intervengono nel testo, tutte queste «cose» formano una «questità di cose», ci dicono che siamo in presenza di una situazione «indicibile» che richiede un modo di dire dell’«indicibile». E allora, il primo pensiero è stato pensare una poesia che ponesse una «situazione delle cose», che potesse essere detta tramite un quid di «indicibile» non presente nella tradizione della poesia italiana del novecento. E allora occorreva andarsi a costruire una nuova ontologia estetica che creasse un nuovo utilizzo della sintassi e della grammatica, un diverso impiego della iconologia.
Voglio dire che una tale «questità di cose» come quella esposta nella poesia della nuova ontologia estetica non sarebbe stata possibile mediante il linguaggio referenziale che va di moda oggi in poesia, dei Marcoaldi-Magrelli-Cucchi, sarebbe occorso un ben altro concetto ed impiego del linguaggio poetico: pensare il linguaggio poetico come portatore di una entità di significazione «indicibile», in grado di illuminare, appunto, il lato in ombra delle cose. Continua a leggere
Poesie di Giuseppe Talia, Roberto Bertoldo, Gino Rago, Mauro Pierno – La nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico – Dimorare nella ontologia debole implica la costruzione di una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica. Il naufragio del linguaggio – Dialoghi e Commenti

porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica,
Giuseppe Talia
Parto per un viaggio.
Volo con una Musa Low Cost.
Destinazione l’immaginazione.
Un’applicazione ferma. Dove siamo?
Nel trittico del cane. Io, Es e Sé.
Nell’alternativo concept tra pianeti nani;
nella perduta via degli anelli planetari;
nel viaticum della storia allucinata.
Una toccata e fuga fugace.
Un pacchetto, una combinazione
sul planisfero di misura in misura.
Un raid in moto su Marte.
Una foto condivisa su Android.
Villaggi globali di misere capanne.
Un campo di guerra, d’ogive e di speranza.
Un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo
di una qualsivoglia Venere o a stritolare ossa
Di bimbi-bambù. In ogni cosa che finisce
e inizia nel Mar Morto come un profugo.
.
Roberto Bertoldo
A tutte le donne che non ho potuto amare
dedico la miseria delle mie poesie
cosicché non abbiamo rimpianti –
le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero,
astratte, negli archivi della notte, sfibrati tuoni
della tempesta che mi ha reso l’amore
una querelle infinita. E ora raccontate
la povertà del mio cuore senza sapere lo stupro
che ha screziato di gabbia la pelle di un bimbo,
senza sapere del sole tramortito nelle mie vene.
.
Gino Rago
21ma Lettera a E. L.
[Dismatriati]
cara Madame Hanska,
ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.
Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,
getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.
Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna
perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.
Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…
ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere
dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,
quelle sì molto più interessanti della mega creazione.
(** È Giorgio Linguaglossa)

da sx Giorgio Linguaglossa, Antonella Zagaroli, Roma, pub di San Lorenzo, 1998 – Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi
Commento di Giorgio Linguaglossa
Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.
Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.
Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.
«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.
- Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 95
*
Gino Rago
11 agosto 2018 Continua a leggere
Gli oggetti, le cose, le parole – La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità. Dialogo tra Steven Grieco Rathgeb, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Raymond Queneau – Una poesia di Tomas Tranströmer, Anna Achmatova, Katarina Frostenson, Lucio Mayoor Tosi tradotta da Adeodato Piazza Nicolai

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità
Lucio Mayoor Tosi
Poesia che fai scrivere poesia
In quest’angolo d’America
regno delle tabaccherie – che Dio le strafulmini –
fai che questa stanza sia come quella di Hemingway;
quando la sera musicale
rallenta
le parole arrivano già scritte. Nella notte
tutte quelle lanterne accese. Prendimi
per mano, andiamo
in cucina. A nuoto
nell’aria gelida
di febbraio.
Il racconto di Coniglio.
Febbraio 2018, Candia Lomellina (PV)
La realtà è indescrivibile.
***
Poetry You Cause the Writing of Poetry
In this corner of America
kingdom of tobacco shops – May God strike them down –
make this room like that of Hemingway;
when evening music
slows down
the words come already written. In the night
all those lanterns lit up. Take me
by hand, let’s go in the kitchen. Swimming
in the freezing air
of February.
The tale of Rabbit.
February 208, Candia Lomellina (PV)
Reality cannot be described.
© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem Poesia che fai scrivere poesia.
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.
Steven Grieco Rathgeb
2 dicembre 2017
«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.
È da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.
In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.
L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.»
Giorgio Linguaglossa
l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio.
Raymond Queneau
I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini.
Catapano Chiara
2 dicembre 2017 alle 12:51
“diversamente da questo, dobbiamo riflettere se i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore.”
Parto da qui. Negli ultimi mesi ho avuto modo di discutere a lungo con Steven Grieco-Rathgeb sulla virtualità della scrittura, della lingua che da suono si fa segno e poi di nuovo suono, in un travaso continuo, una ripetizione che internamente ha un profondo effetto rinnovatore: le lingue sono un tessuto vivo, che evolvono, muoiono in una forma per rinascere in un’altra. Ma il mistero del travaso (phōnē-morphé-phōnē, φωνή-μορφή-φωνή), conserva in sé il suo segreto.
Va sottolineato che le parole greche φωνή (voce) e φαίνω (mostrare) condividono la stessa radice. La voce si fa segno, lo racconta l’etimologia stessa di quelle parole che noi poeti adoperiamo come materia prima.
Mi ha detto, in una recente conversazione, come secondo lui la società tecnologica suo malgrado allontana dallo studio della lingua, della letteratura. Gli risposi che nella nostra società, stanca e in declino, pare di assistere ad un fenomeno che un tempo era diacronico, ed ora (in convergenza temporale) è divenuto sincronico: ovvero la lingua parlata e scritta è (per dirla con un ossimoro) “vissuta come morta”. Intendo dire che un tempo le lingue morte erano quelle classiche, antiche – quante volte mi hanno rivolto questa domanda, quand’ero al liceo: “Perché studi le lingue morte? A cosa “ti serve”?); oggi la stessa domanda mi viene rivolta da studenti che vengono da me per ripetere e studiare l’italiano: “Perché devo studiare la grammatica? Non mi servirà mai a niente”.
Dall’altra parte, una giovane insegnante di discipline plastiche, a scuola di mio figlio, racconta delle sue esperienze estive in Messico, dove ogni anno trascorre il periodo di pausa da scuola: lì insegna a leggere e scrivere a giovani e giovanissimi. E lei vuole portare ai nostri ragazzi, qui, la testimonianza di quello stupore che invade le fronti (diventano chiare, aperte quelle fronti!), quegli occhi, quando finalmente imparano a rendere simbolo il suono della loro voce, le parole pronunciate dal padre e dalla madre, e poi persino i loro pensieri, prima ancora che si trasformino in suono. Dicono di ciò che fanno, che stanno compiendo una magia.
Tornare alla virtualità della scrittura, riappropriarci dello stupore. Ripartire, come analfabeti, a leggere da capo il mondo.

Dipinto di Kuzma Petrov Vodkin, A. Achmatova
Una poesia di Anna Achmatova
(versione di Paolo Statuti) Continua a leggere
Sul Minimalismo italiano – Dialogo tra Piero Sanavio, Rossana Levati, Giorgio Linguaglossa, Valerio Pedini, – Poesie di Zbigniew Herbert, Raymond Carver, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

Il n. Uno uscirà in marzo, in copertina il poeta Alfredo de Palchi
Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 9:59
Avevo scritto in un precedente Commento del 2014:
«Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«anti messaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili, che cade ed accade come per una sua legge di gravità, che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria».
Alberto Bevilacqua giunge a capire, acutamente, che oggi si può fare poesia soltanto se adoperiamo una «lingua estranea e provvisoria», una lingua che parliamo in un «corridoio di un anonimo ufficio», «in una stanza ammobiliata», in «una camera d’albergo» per incontri clandestini, una lingua di plastica, di stracci… Ecco, direi che Bevilacqua giunge fin qui… ma non può andare oltre… non può andare oltre la sua ontologia estetica…
*
Posto qui tre poesie di Raymond Carver, il padre del minimalismo americano con un commento di Valerio Pedini:
Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio. «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare. Ecco tre poesie di

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
Tre poesie di Raymond Carver:
Compagnia
Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa
Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.
Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.
Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano. (Valerio Pedini)

G. Linguaglossa: Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io
Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 11:04
A proposito del minimalismo italiano,
dirò che c’è una bella differenza tra il minimalismo di Carver e il minimalismo italiano, anzi, c’è un abisso… Quello di Paolo Ruffilli è un minimalismo inimitabile, alla maniera di Carver ma con lo stile ruffilliano.
Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io. Credo di essere incompatibile con il minimalismo italiano, quel medesimo minimalismo che ha imperversato sul nostro paese per più di quaranta anni come una epidemia, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi e che ha impedito di fare le riforme di cui il paese aveva estremo bisogno. Il minimalismo è il pensare in piccolo, pensare e vivere nella convinzione che tanto le cose si metteranno a posto da sole; minimalismo è stato il colpevole silenzio della Chiesa che per quattro soldi dati dallo Stato italiano alle scuole cattoliche, ha preferito tacere in lungo e in largo sulla deriva antropologica, politica, filosofica e psicologica degli italiani; minimalismo è la doppiezza, l’ambiguità, l’ipocrisia, l’ironia facile e a buon mercato. Minimalismo è avere un concetto minimale dell’etica e dell’estetica oltre che della politica. Minimalismo è il «particulare» da cui prendeva le distanze il Guicciardini; minimalismo è farsi gli affari propri, è un sistema di pensiero antropologico. Noi in Italia non abbiamo minimalisti del calibro di Carver o della Szymborska, noi qui abbiamo e Magrelli e i magrellini, i Rondoni e i rondoniani… Continua a leggere
Analisi dei primi quattro versi di una poesia di Mario Gabriele – Quesito di Donatella Costantina Giancaspero: Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole? Risposte di Gabriele Pepe, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Edda Conte, Anna Ventura – Crisi della poesia italiana post-montaliana – Il «Grande Progetto» e la mancata riforma della poesia italiana del secondo Novecento. Una Poesia di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi e Laura Canciani
Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 8:59
Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).
Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.
43
Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.
Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.
Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.
Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.
Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.
Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.
Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.
Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.
Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.
Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. Non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. La traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).
L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
Mario M. Gabriele
19 dicembre 2017 alle 11:16
Caro Giorgio,
leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”. Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia.
Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre.
Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione. Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.
Edda Conte
19 dicembre 2017 alle 12:08
E’ una bella risposta ,questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei versi di Mario Gabriele. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.
Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 12:36
La «nuova ontologia estetica» ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…
In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica… Intendo dire che una aporia ha attecchito la poesia italiana di questi ultimi decenni: che la poesia debba essere comunicazione di un quantum di comunicabile. Concetto errato, non vi è un quantum stabilito che si può comunicare, anzi, la poesia che contingenta un quantum di comunicabilità cade tutta intera nella comunicazione, diventa un copia e incolla della comunicazione mediatica, di qui la pseudo-poesia di oggi. Occorre, quindi, rimettere la comunicazione al suo posto. Questo concetto va bene quando si scrive un articolo di giornale o quando si fa «chiacchiera» da salotto o da bar dello spot ma non può andare bene quando si scrive una poesia. Il distinguo mi sembra semplice, no?
Gino Rago
19 dicembre 2017 alle 17:32
1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”
- Osip Mandel’štam
2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò mai (…) sono nata portata (…)”
Marina Cvetaeva
3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…
4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/ anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”
Giacinto Scelsi
Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith, passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.
Gino Rago
19 dicembre 2017 alle 17:55
Brano tratto da Il marinaio di Fernando Pessoa:
” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.
(…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)
(…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica
Donatella Costantina Giancaspero
19 dicembre 2017 alle 19:51
caro Gino Rago,
questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.
Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:
«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –
E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?
Mario M. Gabriele
19 dicembre 2017 alle 23:19
Cara Donatella,
sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.
Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.
Donatella Costantina Giancaspero
20 dicembre 2017 alle 13:53
Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:
Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?
Risposta:
La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:
1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.
2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.
Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi… Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca” dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.
Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici. Grazie!
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 9:32
Il lato debole della nuova ontologia estetica
Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.
Vado subito al punto centrale.
A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.
È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».
È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.
Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.
Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…
In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi… E arriviamo ai giorni nostri…
Anna Ventura
20 dicembre 2017 alle 10:39
Caro Giorgio,
già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone” (parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare. Credo che siano le capacità letterarie dei singoli, se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione. Saluti dalle truppe cammellate, pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 10:49
Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:
(Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 11:41
Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa:
Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 15:57
Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»
Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).
Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile
e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).
Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.
Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]
Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…
Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.
Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».
A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».
Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.
Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.
Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.
Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.
Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni
Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.
Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.
Non bisogna dimenticare la riproposizione di un discorso lirico aggiornato da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.
Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo ma pur sempre entro la linea del modernismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna.
È doveroso segnalare che in questi ultimi anni ci sono state altre figure importanti che ruotano intorno alla «nuova ontologia estetica»: Mario M. Gabriele con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016) In viaggio con Godot (2017), Antonio Sagredo con Capricci (2016), e poi Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Donatella Costantina Giancaspero, Francesca Dono, Giuseppe Talia, Edith Dzieduszycka.
È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici della «cronaca mediatica». La composizione adotta la veste di commento. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «di visione del mondo»; il risultato è che la micrologia convive e collima con il solipsismo asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.
Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.
Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».
1] T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.
Lucio Mayoor Tosi
20 dicembre 2017 alle 23:38
Di Maio
«Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
in meno di un istante».
Glielo disse ruotando attorno al vassoio
nel mezzo di una stanza.
«Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
Poi l’altro, poi l’altro».
«Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».
Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
Entra nell’ascensore.
Posto qui una poesia inedita di
Laura Canciani.
a a.s.
Questa volta saliamo sul ring.
Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
– eresiarca di un fuoco baro –
io, con vestaglietta da cucina
e un occhio già ferito
da lama spinta:
potrei indossarle tutte le scarpette rosse
che girano vive tra luci e pareti
disattente.
Round primo:
quale arbitrocritico non esulta per il colpo
“Orfeo e Euridice”?
Round secondo:
creami adesso, qui, il più piccolo
fiore rosso…
Un colpo basso, a testa bassa, feroce
contro le regole
non viene perdonato.
La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
in un ridere di onda d’urto
che disfa persino l’invisibilità.
Provo dolore consapevole nel prodigio
del silenzio
ma sono viva e da viva mi giunge una voce
strana, anglosassone, elegante, come crudele.
«Liberati»
«Liberarmi, da che cosa?»
«Tu lo sai»
«Sì, liberarmi da tutta la zavorra
che impedisce la santità».
Commento estemporaneo di Giorgio Linguaglossa
Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…
Gino Rago
18 dicembre alle 18.30
Dopo Lilith
(Dio presenta Eva ad Adamo)
“(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
ma non superare la soglia.
Stai molto attento a non far piangere questa donna.
Io conto una ad una le sue lacrime.
Questa donna esce
dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
per essere pestata
(né dalla tua testa
per sentirsi superiore).
Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
Ma dal lato del tuo cuore.
Per essere amata. Questo ti comando.(…)”
Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
Un sibilo invade il giardino di gigli.
Kikuo Takano (1927-2006) POESIE da Il senso del cielo (Passigli, 2017) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore, Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il Giappone degenerato in “piccola America”, con una intervista di Renato Minore a Kikuo Takano, traduzione di Yasuko Matsumoto

Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.
Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».
Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.
La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.
Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:
Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.
Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.
Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.
La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.
Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?
Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927
Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore
Takano, nella sua poesia risuona quella schiettezza lucida e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo maestro?
«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ultimi mi hanno dato una profonda emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’intera esplorazione/ arriveremo dove siamo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».
Quanto ha influito la tradizione Zen nel suo lavoro?
«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stessi. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sempre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».
E le letture di Heidegger e Montale?
«Per quanto riguarda Heidegger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Crisalide. Il poeta parla del tempo doloroso della crisalide avvizzita. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in questi versi come un’eco: continuiamo a porci la domanda sul nostro “dove anche se ci troviamo immersi nel dolore più profondo”».
La musica è stata una componente importante del suo lavoro. Quanto e in che misura ha influito sulla sua poesia?
«Per Valéry “la poesia dovrebbe aspirare allo stato della musica”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica vocale e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisibili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dolcezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

Silenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce
Lei ha adottato il verso libero, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, antitradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale questa sua scelta?
«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Silenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massima naturalezza a scrivere poesie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così dolorosa da affrontare dopo la seconda guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantumi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poesie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furono tradotte in Giappone le poesie occidentali di ventinove poeti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia europea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».
Takano ha lasciato il Giappone di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.
«La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Italia, venendo in Italia. Sentiamo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Rinascimento e continuano a farlo vivere tuttora magnificamente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vattimo, il teorico del pensiero debole. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli considera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa dinanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppare il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».
Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familiare una realtà così lontana e così diversa dalla nostra come quella giapponese. Ma è davvero così distante?
«Quando il mio traduttore Paolo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nella superficialità. La bomba atomica non ha distrutto solo Hiroshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappone. Qui l’uomo comincia a distruggere se stesso, addirittura rischia di sparire».
Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vostro mondo nei confronti dello strapotere americano. Come considera questa tendenza?
«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa potenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera causa di rappacificazione. Per svegliare la nostra coesistenza vorrei che questo secolo fosse chiamato “il nuovo secolo rinascimentale”.»
C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?
«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dobbiamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scrivo poesia?”.
E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comunicazione di massa?
«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la consegna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire coscienzioso, dei mezzi di comunicazione di massa, quando però questi superano la barriera dell’affarismo e dell’opportunismo».

Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola
Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)
Girandola
Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo vertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?
Soliloquio
«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!
Archiviato in critica della poesia, Poesia giapponese moderna, Senza categoria
DIALOGO A PIU VOCI SU VARI ARGOMENTI: La Nuova Ontologia Estetica, il Frammento, il Dopo Satura di Montale, Fernanda Romagnoli, Poesie di Osip Mandel’stam, Kjell Espmark, Anna Ventura, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Commento di Angelo Maria Ripellino a Osip Mandel’stam, Donatella Bisutti

Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa
Giorgio Linguaglossa
16 maggio 2017
[…] Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa, il diritto del critico a non assolvere ad alcuna funzione suasoria e conciliativa e di recitare in pieno la mia funzione di parte, non conciliativa, contraddittoria, che sa di portare in sé una istanza del contraddittorio e del diverso; insomma, per tornare a noi il critico non deve smussare gli angoli e le differenze che intercedono tra la poesia di Luciana Gravina e quella di Fernanda Romagnoli, per dire, ma deve porre la questione come questione problematica, sulla quale operare una scelta, delle scelte, nella consapevolezza che le differenze in poesia non sono un «indifferenziato» agnostico e anomico ma sono il sale della biodiversità della poesia.

Fernanda Romagnoli, grafiche di Lucio Mayoor Tosi
Altamente lodevole, esemplare, l’attenzione critica che Donatella Bisutti finalmente rivolge ad una voce poetica, quella di Fernanda Romagnoli, trascurata dalla critica di regime,forte della sua stessa ignoranza.C’è tanto oro, nel grigio magma delle parole,oro ignorato e negletto, e che tuttavia talvolta si svena, se c’è qualcuno capace di operare il miracolo.
gino rago
Condivido in pieno i giudizi di Flavio Almerighi, di Anna Ventura e dello stesso Giorgio Linguaglossa sui finissimi valori di Poesia della Romagnoli e anch’io esprimo ammirazione per Donatella Bisutti per essersene meritoriamente occupata.
Ma in me lavora un tarlo. Che è questo: perché la Romagnoli parla di ‘Oggetti’ e invece Jorge Luis Borges, in un suo componimento tra i più riusciti, parla di ‘Cose’ (“Cosas”)?
L’Ombra delle Parole in più occasioni ha articolato persuasivamente le sue risposte. Ma sarebbero davvero gradite le risposte-meditazioni a questa domandina semplice di Sabino Caronia, di Claudio Borghi, di Salvatore Martino, ma anche degli altri agguerriti lettori del nostro Blog che, di solito, non lasciano commenti.
Non è questione oziosa stabilire ‘una’/ o ‘la’ differenza fra ‘oggetti’ e ‘cose’ nel fare poetico del Novecento lirico non solamente italiano…
Avrei voluto non commentare ma, poi perchè no a mio modo Fernanda Romagnoli non é donna non un uomo non una madre si intrattiene molto dentro se e con altro il suo sguardo va oltre, quando lessi “Il tredicesimo invitato”rimasi senza fiato.
Questo é forse il più bell’articolo dell’Ombra per me.
Un poeta tra i grandi la Romagnoli e la Donatella Bisutti affronta argomenti, considerate ancora oggi zone di frontiera dai razionalisti quelli che stanno non solo coi piedi per terra e che nella terra sprofondano fino alla cintola,é questo il regime la linea di confine?
Altro critico che ha fatto spesso il nome di Fernanda Romagnoli è Paolo Lagazzi. Ha ragione Giorgio Linguaglossa: due opere poetiche molto lontane, quelle di Gravina e Romagnoli. Personalmente, non saprei per quale “partito” votare. Nei testi critici che contrappuntavano l’opera della Gravina, ho notato il nome di Mario Lunetta (che saluterei, se passasse da queste parti). Ricordo che venne come ospite in un mio programma televisivo, di poeti e cose poetiche, realizzato per la Rai, qualche anno fa. Eravamo praticamente opposti – come idee sulla poesia e, probabilmente, come idee sul mondo o come Weltanschauung – ma riuscimmo a dialogare con lucidità e ragionevolezza (forse perché sono stato, da ragazzo, un militante comunista? Andato via, un paio d’anni prima della caduta del Muro, dunque in tempi non sospetti; e molto prima dell’elegantone Fausto Bertinotti, che – strano scherzo del destino – mi mandò un sms per sbaglio, qualche anno fa…
Dico io: tra tutte le combinazioni numeriche possibili, beccò proprio il mio numero di cellulare?). Che esista un Dio delle cose, un po’ burlone? (Alcuni fisici non credono al caso…). Continua a leggere
Vincenzo Mascolo – AUTOANTOLOGIA Poesie (2004 – 2013) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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Vincenzo Mascolo, nato a Salerno nel 1959, vive e lavora a Roma. Nel 2004 ha pubblicato la raccolta Il pensiero originale che ho commesso, Edizioni Angolo Manzoni. Con la casa editrice LietoColle ha pubblicato nel 2009 Scovando l’uovo (appunti di bioetica). Nel 2010 un estratto del libro inedito Bile è stato pubblicato nell’antologia Lietocolle Orchestra – poeti all’opera (numero tre), curata da Guido Oldani. Per LietoColle ha anche curato le antologie Stagioni, insieme a Stefania Crema e Anna Toscano, La poesia è un bambino e, con Giampiero Neri, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi. E’ il curatore di Ritratti di poesia, manifestazione annuale di poesia italiana e internazionale promossa dalla Fondazione Roma.
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico, ed estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio», e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare unidirezionale (che segue pedissequamente e acriticamente il tempo della linearità metrica), cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con Satura (1971), seguito a ruota da Pasolini con Trasumanar e organizzar (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 edito da EiLet di Roma nel 2011.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo.
Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione.
Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si opta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno.
La ricerca poetica di Vincenzo Mascolo si situa nell’orizzonte di una poesia con i battenti aperti, una forma-poesia larga e capiente che faccia entrare il mondo con tutte le sue contraddizioni, l’eteronomia del mondo mediante un linguaggio che non è più koiné, non è più un linguaggio di linguaggi o un meta linguaggio ma un linguaggio di provenienza prosastico, inglobato nella forma-poesia. Uno spazio espressivo integrale, dunque.
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L’ATTESA
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Scena:
Un uomo solo seduto al tavolino di un bar.
Altre persone nella sala. Una musica in sottofondo.
Riascoltando questa vecchia canzone di Edith Piaf,
che arriva soffusa e lontana come i miei ricordi,
mi viene da pensare che anche io non mi pento di niente,
anzi, che non ho niente di cui voglia pentirmi.
Perché se lo volessi dovrei farlo proprio adesso,
intendo in questo istante,
tra un bicchiere e l’altro di prosecco
che mi vengono serviti al tavolino,
davanti a coloro che, come me,
sono seduti in questa sala
in solitaria attesa che si compia qualcosa
che non sappiamo nemmeno cosa sia.
Reciterò però con devozione i vostri miserere
da sgranare uno a uno quando viene sera
per non aver paura
ma non chiedetemi atti di dolore
perché è già dolore
questo mio essere diviso
tra la terra e il cielo,
il vero senso che non colgo,
la mia postura.
A MARGINE DI UN PENSIERO FILOSOFICO
(Leggendo Jean Paul Sartre)
Ci sarà poi qualcosa tra il nostro essere e il nulla,
una virgola, un punto, quantomeno un trattino
che separi dal nulla ciò che invece noi siamo,
perché forse altrimenti si dovrebbe pensare
che sia essere nulla il nostro vero destino
e che vivere in fondo per ognuno sia vano
perché pure esistendo noi comunque non siamo.
da Scovando l’uovo appunti di bioetica, LietoColle, 2009
È necessario l’esplicito consenso
perché sia un atto conforme alla morale
oppure è sufficiente il silenzioso assenso
per prelevare gli organi al maiale?
E smettiamola di chiamare “terminale”
chi non può rinviare la data del suo viaggio
perché il rispetto profondo del suo male
è anche compassione nell’uso del linguaggio.
Nuove frontiere sono ormai alle porte:
gli interventi sulle cellule dell’Io
la scoperta e la cura del gene della morte
e, per finire, la clonazione della pietà di Dio.
Un’antenna protesa verso il cielo
è l’anima che il poeta tende al firmamento:
ne capta ogni segnale e dal suo mondo parallelo
emette nuove onde, che non danno inquinamento.
È frutto di un equivoco il mondo in cui ho creduto:
né laico né cattolico è il senso della vita
e come un continente che adesso si è perduto
dell’etica si narra soltanto che è sparita.
IL CIELO DI LISBONA
(il dolore invisibile di Fernando Pessoa)
Qualcuno di tanto in tanto viene ancora a trovarmi
specialmente nelle sere profumate di maggio
quando il cielo che avvolge Lisbona
ha molte più stelle di quante io ne riesca a contare.
Ritornano allora tra noi i discorsi di sempre
insieme alle nostre poesie, che in quelle sere
pronunciamo ad alta voce per ore
come fossero veramente preghiere
e non gli inutili versi che sono
come se, in quel frastuono di voci che è a me così caro,
a poco a poco ogni cosa potesse di nuovo diventare reale
anche il cielo al di sopra di noi
e tutte le stelle che non riesco a contare
anche la vita che fingiamo di avere
e il dolore, infinito, di noi
che nelle sere profumate di maggio
al suono delle nostre parole
dal cielo continuiamo a invocare.
IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)
III
Ha piccole stanze la mia casa
e un lungo corridoio da attraversare.
Ma la sera, quando siedo a scrivere i miei versi,
dalla finestra che affaccia sulla strada
mi sembra vedo in lontananza, il mare
(palazzi di Buenos Aires)
IL CIELO DI BUENOS AIRES
.
(la neve invisibile di Jorge Luis Borges)
Ricordo nevicava quel giorno a Buenos Aires
cadeva giù la neve che il cielo la mandava
così sottile lieve bianca pura
che si riusciva solo a immaginarla
e io nel buio che dalla mia stanza
si distendeva fino all’orizzonte
attraversando il cielo e l’avenida io
quel giorno io la immaginavo
venire giù dal cielo come manna
e come manna stenebrare il buio
nei miei pensieri incolti e nella carne
dell’anima smagrita
quasi esangue.
Fu un momento
un rapido bagliore come un lampo
ma in quell’istante vidi nuovamente
le mura circolari di Babele
e la parola che si era perduta
risorgere alla luce
farsi eterna
come questa infinita nevicata
che adesso imbianca ancora l’orizzonte
il cielo i tetti i vetri
la mia stanza.
O carne della mia carne inaridita
l’essenza memorabile del tempo
è polvere sui libri che leggevo
sulla città svanita,
lontananza.
(Pitture di Mario Gabriele)
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IL CIELO DI NIZZA
(il fuoco invisibile di Bruce Chatwin)
ti prego dimmi che ci faccio qui e in ogni luogo dimmi cosa ci sto a fare a
cosa serve trascinare il tempo fingendosi di vita sempre uguale a cosa
servono il dolore e il canto le vie che ho attraversato ogni ritorno a
cosa serve questa nostra attesa la notte che accompagna il mio
silenzio la mia preghiera di rivedere il giorno meglio
sarebbe consumarsi in fretta nell’aria rarefatta di
un mattino bruciare in pochi istanti come
legna nell’erba e uniti al suo profumo
restituire cenere alla terra
per risalire lievi.
farsi
fumo
IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)
IV
Bambini su di corsa, venite nel mio letto
guardiamo il temporale dai vetri della stanza
terremo insieme i fulmini a debita distanza
e il male che ho di vivere rinchiuso nel mio petto.
IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)
VI
Sai, non è la morte che mi fa paura
ma il cielo scuro dell’inverno,
la lama affilata della notte
che scava dentro il mio dolore,
la ricerca continua di parole
nel ripetersi monotono dei giorni.
Mi atterrisce
la vanità di questa mia poesia
e l’orrore della vita
che sento scardinare le finestre
ogni mattina.
IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)
X
L’aria è di marmo, venata
di ghiaccio la luna.
Pesa più di sempre la notte
ora che una nebbia improvvisa
ne infittisce la trama.
E’ questo silenzio il nulla,
l’attimo che schiude una poesia,
il ritrarsi dei petali
nella strenua difesa della rosa.
IL CIELO DELLA MIA CITTA’
(e di tutte le cose visibili e invisibili)
XII
Amo il rarefarsi della notte
e il risvegliarsi muto degli eventi,
amo il suono impercettibile del cosmo,
il separarsi occulto delle cose
in atomi e molecole, frammenti
della materia che si ricompone,
sostanza indivisibile del tempo.
Così,
di particelle infinitesime d’inchiostro
amo il turbinare che trasforma
la dura concrezione del silenzio
in altro spazio, in una nuova
forma, pulviscolo di corpi luminosi
che passano attraversano i sentieri
delle città, i reticoli del tempo,
chiarore ineludibile del giorno,
sostanza incorruttibile,
poesia.
[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra per i prossimi milioni di anni…]
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«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
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1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
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Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il virus ci rende deboli e fragili, ci isola ed esaspera gli egoismi e gli individualismi, i populismi e i sovranismi. Nello stato della «nuda vita» agambeniana ognuno si preoccuperà della propria sopravvivenza. La solidarietà sarà una parola del passato. L’uguaglianza dello stato di diritto anche.
Il filosofo «Žižek afferma che il virus ha assestato un colpo mortale al capitalismo, ed evoca i fantasmi di un oscuro comunismo. Crede anche che il virus possa far cadere il regime cinese. Žižek si sbaglia. Non succederà niente di tutto ciò.» Condivido l’analisi del filosofo cinese Byung-Chul-Han. La Cina spaccia il suo Stato di polizia digitale come la soluzione della pandemia, esibirà la superiorità del suo sistema rispetto a quello delle democrazie dell’Europa. Idem Putin il quale ha dichiarato più volte che le democrazie liberali dell’Europa sono in disfacimento.
(Giorgio Linguaglossa)
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1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116
Giuseppe Talìa
La poesia del dopo COVID-19.
Riguardo al Nostro Giuseppe Conte, poeta, che nel tempo ha invocato gli dei e che continua, dopo aver preso un abbaglio clamoroso scambiando un modesto video montaggio di un’agenzia di propaganda per un’immagine reale della prima guerra mondiale, non ce lo dimentichiamo, ricordiamo questa sestina cattiva da La Musa Last Minute, Progetto Cultura, Roma 2018.
Giuseppe Conte
Né ferite né fioriture sono possibili
Lo dice il telegiornale non stop h24
E alla tavola rotonda che fu di re Artù
Si siedono ora tredici famiglie del gruppo
Bilderberg a cui importa solo il think tank
Della Parca parcheggiata nell’Economia
Tomas Tranströmer
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»
Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:
«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1
La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. Solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere com-presi nella nostra più vera essenza.
Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.”
(Giorgio Linguaglossa)
E’ incredibile come la quartina di Tranströmer, con quel finale:
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
corrisponda alla nostra situazione quotidiana, prigionieri all’interno delle nostre abitazioni, con tutte le porte e le finestre chiuse a causa del virus Covid19.
(Marie Laure Colasson)
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 1
K. invia il Signor F. sulla terra con una minuscola teca
K. sfregò uno zolfanello sul muro e accese il sigaro.
Il suo occhio di vetro sembrava osservarmi.
Poi accese il fuoco, ci mise sopra un bricco il quale cominciò a tossire.
Uscì fuori una figura di fumo che si contorceva.
«Ecco, questo è il Signor F.» disse K. «È una persona ragionevole,
con lui si possono fare ottimi affari…».
«Sa, è stato per tanto tempo nell’aldilà. Adesso però è stato dichiarato innocente.
E per questo riabilitato e restituito al pianeta Terra,
tra gli umani».
Fece una giravolta. Uno sgambetto.
Si infilò il monocolo sull’occhio di vetro.
Mostrò una minuscola teca. «Ecco, questo è il vasetto di Pandora.
Contiene il Covid19, un affaruccio con la corona lipidica che si scioglie ad una temperatura
di 27 gradi. Mille volte più piccolo di un globulo rosso…».
Azazello fece uno sberleffo, una piroetta.
«La sentenza di assoluzione è la prova di un errore giudiziario», disse K. con sussiego, riprendendo il discorso interrotto.
«Ciascuno è intimamente innocente»,
«E intimamente colpevole». «La confessione è il miglior argomento
in pro del giudizio».
Poi prese a passeggiare in cerchio.
Nel frattempo una ladyboy in calzamaglia a rete iniziò a litigare con Azazello.
«Sei piccolo e brutto!, e stupido!, non sai neanche come si tratta una Milady!, tornatene da dove sei venuto, scimunito!».
«È estremamente riprovevole giocare con il Covid19, non crede?», riprese K. il filo del discorso dove lo aveva lasciato. E si aggiustò la mascherina.
Nel frattempo, la teiera si alzò dal tavolo
E versò nella tazza di F. un tè bollente.
Che il Signor F. bevve d’un sorso. Deglutì sonoramente.
Il pomo d’avorio fece su e giù.
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